mercoledì 22 aprile 2020

Pantera

Il Pantera (g.c. Giacomo Toccafondi)

Cacciatorpediniere, già esploratore leggero, della classe Leone (dislocamento standard di 1773 tonnellate, in carico normale 2003 tonnellate, a pieno carico 2203 o 2648).
Durante la seconda guerra mondiale effettuò undici missioni di guerra (tre per intercettazione di convogli britannici nel Mar Rosso, tre per esercitazioni, cinque di altro tipo), percorrendo in tutto 3029 miglia nautiche e trascorrendo 197 ore in mare.
Motto: "Quaerens Predam" (“cerco la preda”).

Breve e parziale cronologia.

19 dicembre 1921
Impostazione nei cantieri Gio. Ansaldo & C. di Sestri Ponente (Genova); numero di costruzione 659.

Una serie di immagini del Pantera in costruzione (dal sito della Fondazione Ansaldo):

(1° giugno 1922)

(1° giugno 1922)
Inizio 1923

 




(30 luglio 1923)

18 ottobre 1923
Varo nei cantieri Gio. Ansaldo & C. di Sestri Ponente (Genova). La nave viene varata con lo scafo finito, ma ancora priva di armamento, per liberare lo scalo; madrina è la marchesa Pallavicini in Negrotto Cambiaso.
Durante le prove in mare, effettuate con pesi ridotti, l’apparato motore del Pantera sviluppa una potenza massima di 48.705 S.H.P., permettendo alla nave di raggiungere una velocità di 34,3 nodi (quella effettiva, in condizioni operative a pieno carico, risulterà invece essere di 31 nodi).

Una sequenza di immagini del varo del Pantera (Fondazione Ansaldo):


Sullo scalo, pronto al varo




Il lancio della bottiglia




La nave scende in mare





Appena varato (da www.tsushima.su)


Alcune immagini, datate 1° novembre 1924, dell’unità durante l’allestimento, svolto presso l’Officina Allestimento Navi di Genova (Fondazione Ansaldo):





Una serie di immagini del Pantera durante le prove di velocità al largo del promontorio di Portofino, nel 1924 (Fondazione Ansaldo)






Altre quattro immagini del Pantera nel Golfo di Genova nel 1924 (Fondazione Ansaldo):





28 ottobre 1924
Entrata in servizio, ultima delle tre unità della classe Leone ad essere completata.
Dopo il completamento, il Pantera ed i gemelli Tigre e Leone entrano a far parte della Squadra Navale, e svolgono un breve ciclo di addestramento integrato di squadriglia.

Ufficiali del Pantera a Genova, 1924 (Fondazione Ansaldo)
6 marzo 1925
Terminate le prove e l’addestramento iniziale, il Pantera, insieme ai gemelli Tigre e Leone, va a formare il Gruppo Autonomo Esploratori Leggeri (alle dirette dipendenze del Ministero della Marina), al comando del capitano di vascello Domenico Cavagnari, futuro capo di Stato Maggiore della Marina. Le tre unità si preparano ad una lunga crociera lungo le coste atlantiche dell’Europa e nel Mar del Nord.


Due immagini del Pantera risalenti al 1925 (da www.gracesguide.co.uk)


4 aprile-22 settembre 1925
Pantera (al comando dello stesso capitano di vascello Cavagnari), Tigre (capitano di fregata Inigo Campioni) e Leone (capitano di fregata Francesco De Orestis di Castelnuovo) compiono una crociera di rappresentanza della durata di cinque mesi in Spagna, Portogallo, Regno Unito, Norvegia, Danimarca, Unione Sovietica, Finlandia, Estonia, Lettonia (all’andata), Germania, Paesi Bassi, Belgio, Francia, Algeria e Libia (al ritorno).
La crociera è stata decisa in seguito al notevole successo, diplomatico e mediatico, riscosso da un’analoga crociera compiuta in Nordeuropa l’anno precedente dall’esploratore Carlo Mirabello: il capo del governo (nonché ministro degli Esteri, oltre che di varie altre cose), Benito Mussolini, ed il ministro della Marina, Paolo Thaon di Revel, hanno pertanto deciso di replicarla con un numero maggiore di unità, per “mostrare la bandiera” nei porti in cui il Mirabello non ha fatto scalo. Come scritto dallo storico Pier Paolo Ramoino: «In quegli anni, (…) le altre Potenze Navali inviavano in crociere all’estero moderne unità in formazioni consistenti, proprio a dimostrare l’efficienza dei propri cantieri e il potenziale militare delle loro Marine. (…) La campagna navale in Nord Europa e, soprattutto, la visita a Leningrado possono essere inquadrate nella politica estera mussoliniana, ricercante un riconoscimento più significativo del nostro Paese non solo da parte dei vecchi alleati del trascorso conflitto, ma anche dagli Stati europei nati proprio dal cambiamento geopolitico del 1919-1920 quali la Finlandia, le Repubbliche Baltiche e l’Unione Sovietica. Non si trascurò anche una nostra amichevole presenza nelle nazioni scandinave, in Olanda e in Spagna, che erano rimaste neutrali nella conflagrazione mondiale».
Pantera, Tigre e Leone, entrati in servizio pochi mesi prima, sono stati ritenuti le unità più adatte – per autonomia, efficienza e tenuta del mare – ad affrontare le non facili condizioni dei mari nordici; inoltre, essendo tra le navi più moderne della Regia Marina (praticamente nuove di zecca), e tra le più potenti del loro tipo all’epoca della costruzione, permetteranno di mostrare il meglio della flotta italiana nei Paesi visitati, consentendo un confronto favorevole con le analoghe unità di altre nazioni, e rafforzando così il prestigio della Marina italiana all’estero.
Negli stati maggiori dei tre esploratori figurano diversi ufficiali che saranno protagonisti delle vicende della Marina italiana nella seconda guerra mondiale. Oltre al comandante del Pantera, Cavagnari (ritenuto all’epoca uno degli ufficiali più brillanti della Marina, e per questo scelto per tale delicata missione), che come ammiraglio sarà capo di Stato Maggiore della Marina dal 1934 al 1940, si annoverano: sempre sul Pantera, come comandante in seconda, il capitano di corvetta Luigi Sansonetti, che come ammiraglio di divisione comanderà in guerra la III Divisione incrociatori e sarà poi sottocapo di Stato Maggiore della Marina dal 1941 al 1943; sul Leone, come comandante in seconda, il capitano di corvetta Luigi Biancheri, che in guerra sarà ammiraglio comandante delle forze navali del Dodecaneso, della Marina in Tunisia ed infine dell’VIII Divisione incrociatori; sul Tigre, come comandante, il capitano di fregata Inigo Campioni, che come ammiraglio di squadra comanderà la flotta da battaglia nella prima fase della guerra, e verrà fucilato dalla Repubblica di Salò per aver difeso Rodi contro l’invasione tedesca dopo l’8 settembre 1943. Infine, tra gli ufficiali del Leone è anche un giovane sottotenente di vascello, Primo Longobardo, che in guerra sarà sommergibilista in Atlantico, decorato di Medaglia d’Oro al Valor Militare alla memoria.

Pantera, Tigre e Leone in una rivista britannica del 1925 (da www.gracesguide.co.uk)

Dopo la partenza da La Spezia (4 aprile 1925), vengono toccati i porti di Valenza (6-9 aprile), Almeria (10-11 aprile), Malaga (11-15 aprile), Cadice (15-23 aprile), Lisbona (24-27 aprile), Vigo (28-29 aprile), Portsmouth (1-8 maggio), Bristol (9-12 maggio), Liverpool (13-17 maggio), Glasgow (18-24 maggio), Edimburgo (26 maggio-3 giugno), Bergen (4-10 giugno), Oslo (11-17 giugno), Copenhagen (17-24 giugno: re Cristiano X di Danimarca offre un ricevimento in onore degli ufficiali italiani), Leningrado (25-29 giugno, una delle prime visite di un Paese occidentale alla Russia post-rivoluzionaria, dopo anni di isolamento), Helsinki (30 giugno-4 luglio), Reval (4-6 luglio), Riga (6-8 luglio), Brema (10-14 luglio), Amsterdam (15-21 luglio), Gand (21-27 luglio), Ostenda (27-31 luglio; i comandanti ed alcuni ufficiali degli esploratori si recano a Bruxelles dove sono ricevuti dal re del Belgio Alberto I), Le Havre (1-6 agosto), Lorient (7-12 agosto), Bordeaux (13-20 agosto), Santander (21-25 agosto; qui le navi sono visitate dai reali di Spagna), Gibilterra (27-28 agosto), Orano (29 agosto-2 settembre) e Tripoli (4-15 settembre). In ogni porto l’accoglienza, da parte sia delle autorità che della popolazione locale, è molto cordiale (financo “affettuosa” in Francia e Spagna), tranne che a Brema, dove il trattamento riservato dalle autorità locali è piuttosto freddo, forse per la guerra ancora troppo vicina.
I formali “scambi di cortesie” seguono più o meno sempre lo stesso schema: visite alle autorità militare, amministrative e religiose il giorno stesso dell’arrivo, ricambiate nei giorni successivi, ed unite ad una colazione a bordo e sovente anche ad un ricevimento pomeridiano, con numerosi invitati, in base alle istruzioni del locale console italiano. Le navi vengono inoltre aperte alle visite da parte della popolazione civile, ed anche dei membri delle comunità italiane all’estero. Vengono anche organizzate delle partite di calcio tra squadre locali ed una rappresentativa degli equipaggi del Gruppo Esploratori, capitanata dall’ufficiale di rotta del Pantera, sottotenente di vascello Asso (che è anche centravanti): ne vengono disputate in tutto quindici, di cui ben undici vengono vinte dalla squadra italiana.
In ogni Paese gli esploratori (od il solo Pantera, in qualità di capogruppo) ricevono anche la formale visita dei rappresentanti diplomatici italiani: a Lisbona il principe Borghese, ambasciatore in Portogallo; a Portsmouth il marchese della Torretta; ad Oslo il ministro d’Italia Cambiago; a Copenhagen l’incaricato d’affari Cittadini; a Leningrado l’ambasciatore a Mosca conte Manzoni; ad Helsinki il marchese Paternò, ministro d’Italia in Finlandia; a Brema l’ambasciatore italiano in Germania, conte Bosdari; ad Amsterdam il ministro d’Italia all’Aja, marchese Maestri Molinari; a Bruxelles l’incaricato d’affari Daneo; in Spagna l’ambasciatore marchese Paolucci ed in Francia l’ambasciatore barone Avezzana (di questi ultimi due Cavagnari sottolineerà nel suo rapporto la particolare cura avuta “nei rapporti sia formali sia di amicizia con le navi”). Importante è anche il ruolo svolto dagli addetti navali italiani in ciascun Paese, che hanno organizzato le visite con «la massima cura ed in ogni particolare»; tra di essi il capitano di fregata Giuseppe Raineri Biscia in Gran Bretagna, il capitano di fregata Oscar Di Giamberadino in Germania e nei Paesi Baltici, ed il capitano di vascello Gustavo Bogetti per la Francia, il Belgio ed i Paesi Bassi. In merito ai consoli, Cavagnari scriverà nel suo rapporto che «in genere siamo ben rappresentati sia dai Consoli di carriera che da quelli onorari».
Nel Regno Unito, l’accoglienza è cordiale sia nei porti commerciali (come Bristol e Liverpool) che nelle basi militari; comandanti ed ufficiali delle tre unità vengono invitati a pranzo a Londra dal primo ministro britannico, Stanley Baldwin, e l’ammiraglio Sydney Fremantle, comandante del dipartimento navale di Portsmouth, si complimenta con il comandante Cavagnari per l’efficienza, forma fisica ed organizzazione di navi ed equipaggi. Il Monthly Information Bulletin dell’ufficio d’intelligence della Marina britannica menziona l’entusiastica accoglienza ricevuta a Glasgow dai tre esploratori, che durante la loro permanenza nel porto scozzese sono visitati in media da 15.000 persone al giorno, nonché la soddisfazione destata da questa visita presso le comunità italiane nel Regno Unito, ed il parere espresso dalle autorità tecniche della Royal Navy in Scozia, colpite dalla velocità massima degli esploratori (35 nodi, anche se per la verità si tratta di una velocità soltanto teorica). Da parte sua, il comandante Cavagnari scriverà nel suo rapporto: «Poiché i nostri ufficiali e i nostri marinai hanno, come tutti della nostra razza, buoni occhi per vedere e buona memoria per ricordare, la visita ai porti inglesi sarà stata per loro splendidamente istruttiva. Così, mentre a Portsmouth poterono vedere quanto possa la forza della tradizione e dell’ordine a tenere alta la possanza non solo quantitativa ma qualitativa di una grande Marina, così a Bristol ebbero l’impressione di un’attività mercantile alla quale anche grandissima parte della forza è data da una tradizione di successo legato a una mai smentita abitudine di laboriosità, di tenacia e soprattutto di scrupolosità commerciale», ma commenterà anche negativamente in merito al «senso diffuso di progressivo disamore al lavoro e la generale ricerca di ogni forma di piacere che va guadagnando rapidamente tutti gli strati sociali dai più alti ai più bassi in quella nazione troppo ricca». Su un piano più “pratico”, le cambiali tratte in lire italiane per il pagamento di nafta e lubrificanti nei vari porti toccati non sono molto ben accette, a differenza dei pagamenti in sterline (non solo nel Regno Unito).
Egualmente favorevole è l’accoglienza ricevuta in Norvegia e Danimarca (in quest’ultimo Paese, scrive Cavagnari, «l’Italia [è] soprattutto conosciuta come un paese di gioia serena (…) le nostre Fiat, le nostre Lancia, le nostre Alfa-Romeo sono diffusissime e nei migliori ritrovi offrano vermouth italiano e spumante italiano»). L’atteggiamento sobrio e corretto degli equipaggi viene elogiato dalle autorità locali, che lo paragonano favorevolmente a quello del personale di altre Marine.
Durante la permanenza ad Helsinki, dove i tre esploratori vengono accolti con dimostrazioni di simpatia e di ammirazione, il Pantera viene visitato da un gruppo di tecnici civili e militari del Ministero della Difesa finlandese, che al termine della loro accurata ispezione esprimono giudizi molto positivi sull’unità italiana. Il 3 luglio, penultimo giorno nella capitale finlandese, il comandante Cavagnari viene invitato a colloquio dal ministro della Difesa della Finlandia, generale Lauri Malmberg; durante l’incontro, il ministro finlandese domanda a Cavagnari un parere qualificato sui provvedimenti da prendere per la difesa costiera della Finlandia (il neonato Stato scandinavo sta per impostare un piano di costruzioni navali a questo scopo, e potrebbe anche rivolgere il suo interesse ai prodotti della cantieristica italiana). Cavagnari, data la conformazione della costa finlandese – rocciosa e costellata di scogli, fiordi ed isolotti –, ritiene inutile e costoso un modello difensivo “classico”, e sostiene che la soluzione migliore sarebbe costituita da una flottiglia di siluranti di elevato tonnellaggio ed alta velocità, appoggiate da MAS, alcuni sommergibili di medie dimensioni e qualche posamine, in modo da permettere il controllo dell’ingresso del Golfo di Finlandia con azioni rapide (sarebbero particolarmente adatti a questo scopo i MAS di costruzione italiana). Inoltre, le autorità finlandesi esprimono la loro gratitudine per l’ospitalità offerta dall’Italia agli allievi ufficiali finlandesi nelle proprie scuole militari.


Pantera (a destra), Leone (al centro) e Tigre (a sinistra) a Riga nel 1925 (da www.modellismopiu.net)


Durante la visita a Leningrado e Kronstadt dell’estate 1925, il capitano di vascello Cavagnari stabilisce i primi contatti tra la Marina italiana e quella sovietica, contatti che saranno ulteriormente sviluppati sino a portare la Marina sovietica, alcuni anni più tardi, ad ordinare la costruzione di diverse navi in cantieri italiani. Le autorità sovietiche si mostrano molto cortesi nei confronti dei visitatori italiani, ma è facile immaginare un certo imbarazzo nell’incontro tra i rappresentanti di due Paesi dominati da regimi contrapposti – quello fascista italiano e quello comunista sovietico. Cavagnari, pur esprimendo la sua soddisfazione per l’accoglienza ricevuta, annoterà nel suo rapporto che la Marina sovietica cerca di «supplire con la quantità alla deficienza della qualità e mostrare la ricerca affannosa di una efficienza attraverso l’inesorabile ritorno ai metodi ed alle forme del passato», e che «nessuno (…) potrà dimenticare la visione di miseria, di rovina, di terrore diffuso che presenta quella povera immensa città. E nessuno (…) dei nostri marinai scesi a terra a Leningrado diverrà mai comunista!».
Anche in Estonia e Lettonia si verificano manifestazioni di simpatia della popolazione nei confronti degli equipaggi italiani; buona è pure l’accoglienza nei Paesi Bassi, Paese che secondo Cavagnari «è fiorente, ricco, ma non ha fatto la guerra. Quale differenza di attività spirituale fra i Paesi che passarono nell’ardente crogiuolo e quelli che vi si mantennero estranei!». Particolarmente calorosa è l’accoglienza ricevuta in Belgio, sia da parte delle autorità, sia da parte della popolazione; a Gand gli ufficiali visitano il cimitero militare, dove figura anche un bassorilievo commemorativo della Grande Guerra nel quale compaiono anche dei bersaglieri all’assalto. Sempre in quest’ultimo porto, scriverà Cavagnari nel suo rapporto, «Le navi giunsero il giorno della festa nazionale, quando nella grande piazza illuminata, per antichissima tradizione, è lecito alle fanciulle che danzano sotto i platani scegliere il proprio cavaliere nella folla ed il cavaliere chiedere loro un bacio. Quella sera i nostri marinai dai solini azzurri ebbero – perché negarlo? – il più lusinghiero dei successi».
A Santander, durante la navigazione di rientro in Italia, le navi vengono visitate dai reali di Spagna; Cavagnari scriverà nel rapporto che tale visita «ha avuto un carattere assolutamente eccezionale ed è stata una manifestazione che non sarà dimenticata da nessuno di coloro che vi presero parte» e che autorità e popolazione «fecero a gara, seguendo l’esempio del loro Sovrano, a colmare di attenzioni, di cortesie, di manifestazioni di simpatia evidentemente sincera, cordiale e non ordinaria comandanti, ufficiali ed equipaggi», esaltando la naturale amicizia tra Italia e Spagna dovuta a «la affinità della razza e… l’assenza di qualsiasi interesse [politico] divergente».
In Francia, in ogni porto le unità del Gruppo Autonomo Esploratori ricevono manifestazioni di fraternità; una delegazione capeggiata dallo stesso Cavagnari si reca a Parigi per deporre una corona sulla tomba del milite ignoto, ricevendo anche qui dimostrazioni di simpatia.
Lasciata Tripoli (città che, secondo il rapporto di Cavagnari, «ha destato nei nostri equipaggi una grata impressione di orgoglio nazionale»), i tre esploratori fanno scalo a Napoli dal 16 al 21 settembre (ancora dal rapporto di Cavagnari: «…il golfo di Napoli nel quale le navi giunsero in un pomeriggio di luminosità e di limpidezza veramente eccezionali, disse loro che di tutti i paesi visitati senza dubbio il più bello è pur sempre l’Italia») ed infine concludono la crociera a La Spezia, dove giungono il 22 settembre 1925 dopo aver percorso in tutto 12.000 miglia. Nella base ligure i tre esploratori vengono visitati, come di consueto (“ispezione di fine campagna”), dal comandante in capo del Dipartimento di La Spezia, ammiraglio Molè, che esprimerà il suo compiacimento nell’ordine del giorno steso al termine dell’ispezione; Mussolini invierà un messaggio di elogio.
Tra gli equipaggi, per via dei nomi delle tre unità protagoniste, questa crociera sarà nota come “crociera delle belve”.

La “Squadriglia Belve” (ANMI Taranto)

Nel complesso, durante tutta la crociera navi ed equipaggi danno ottima prova di sé, sia nell’affrontare ogni impedimento lungo nella navigazione (nebbie, bassi fondali, correnti negli stretti, estuari e letti di fiumi), che nelle visite nei porti. La stampa italiana dà ampio risalto al successo della crociera, esaltando le virtù “romane” dei marinai italiani. A questo proposito il comandante Cavagnari, a margine del suo rapporto, scriverà che sarebbe opportuno scegliere gli equipaggi da destinare a queste missioni “anche in base a criteri estetici, portando all'estero i marinai maggiormente atti a rappresentare la virilità italiana, facendoli addestrare a torso nudo sui ponti delle navi, pure nelle fredde mattinate nordiche, al fine di esemplificare in tal modo l'indole e il temperamento di un popolo”.
Nel suo rapporto, il comandante Cavagnari, pur ritenendo che l’organizzazione della crociera sia stata nel complesso coerente rispetto ai tempi ed alle stagioni, scriverà che soste più lunghe in ciascun porto (4-5 giorni) avrebbero permesso di meglio organizzare le attività di rappresentanza, obiettivo primario della crociera. Cavagnari approva invece la scelta di incaricare della crociera tre unità nuove, anche se di dimensioni non grandissime, piuttosto che grandi navi di concezione superata; scrive che «È innegabile che buona parte del successo di questa campagna è dovuta al fatto che i tre esploratori erano esteticamente belli, nuovi ben rifiniti», che «non si deve lesinare la pittura, i mezzi di pulizia, i materiali di consumo» per permettere alle unità di presentarsi in ogni porto nel miglior stato possibile, e che grande importanza hanno anche le imbarcazioni di bordo e le loro attrezzature perché sono osservate e giudicate da tutti alla banchina, ragion per cui non bisogna fare «economia nelle bandiere e nelle insegne, che devono essere sempre fiammanti e non troppo piccole». Concludendo il rapporto, Cavagnari afferma che lo scopo della campagna è stato raggiunto e che «il desiderio di dare l’impressione diretta di una Italia attiva, progredita, ordinata ed esuberante di giovanile energia fu in noi ardente ed appassionato e che ricorderemo sempre la missione affidataci con fierezza ed orgoglio, per tutto l’ardore e tutta la passione che infiammano il nostro indissolubile fascio di anime nell’amore della nostra Patria divina».
Il commissario di bordo del Pantera stila una relazione nella quale elenca i costi complessivi della campagna: 378.603,64 lire di provviste; 1.862.708,90 lire di nafta; 94.346,96 lire di materiali di consumo; 2.111.791,62 lire di spese varie di campagna; per un totale di 4.447.450,31 lire, che Cavagnari giudicherà “non eccessivo”.

Il capitano di vascello Domenico Cavagnari, comandante del Pantera nel 1925 e poi capo di Stato Maggiore della Marina, col grado di ammiraglio d’armata, dal 1933 al 1940 (USMM)

Da un articolo dell’"Eco di Biella" a firma di Danilo Craveia si apprendono alcuni episodi di quella crociera, aventi per protagonista l’ufficiale del Genio Navale Pierino Pandale, di Candelo, classe 1883: «Durante il ricevimento che l’allora re di Danimarca Cristiano X volle offrire agli ufficiali della piccola flotta italiana, uno dei regali ospiti si avvicinò a Pierino Pandale chiedendogli in perfetto italiano una “Macedonia”, ossia una delle sigarette italiane di maggior diffusione tra la borghesia (meno micidiali delle “Nazionali” e delle “Popolari”). Sorpreso dalla richiesta e, soprattutto, dall’udirla nella sua lingua, il maggiore Pandale estrasse di tasca il pacchetto morbido e porse la “Macedonia” al giovane alto e dinoccolato che aveva di fronte. Ne nacque una breve chiacchierata con il danese, che era il principe Christian Frederik Franz Michael Carl Valdemar Georg (1899-1972), che salì poi al trono come Federico IX nel 1947. Il futuro re di Danimarca aveva studiato all’Accademia di Livorno ed era innamorato dell’Italia. Tanto da saper riconoscere l’accento piemontese nella voce dell’attonito ufficiale di macchina. A quel punto il principe, avuta conferma della sua intuizione, non espresse come ci si poteva aspettare visto il rango e il sito un dubbio amletico, ma assai più prosaicamente volle la ricetta della bagna cauda. E non solo: quando Pierino Pandale disse di essere biellese fece brillare gli occhi di Christian Frederik Franz Michael Carl Valdemar Georg che affermò di aver visitato Biella in incognito e di essere salito a Oropa come un semplice turista. Del santuario della Madonna Nera si ricordava più che altro la polenta concia (che Sua Altezza Reale tentò di pronunciare in dialetto con risultati non proprio eccezionali) e non si fece scrupoli nel chiedere la ricetta anche di quel piatto. Ma il primogenito di Cristiano X dimostrò di essere non solo un buongustaio, ma anche un attento osservatore. Confidò al sempre più basito interlocutore di essersi stupito dell’operosità Industriale della nostra città e delle sue vallate, ma di non aver capito la ragione della marchiatura “made in England” delle stoffe nostrane. (…) Sulla via del ritorno sbarcarono in Scozia. All’epoca il tessuto scozzese andava per la maggiore in Italia e a Edimburgo i marinai delle “tre belve” erano intenzionati a procurarsene una scorta, contando sul fatto che lassù i prezzi fossero più accessibili. Rimasero, invece, piuttosto delusi. Il tessuto scozzese nella capitale della Scozia non c’era. Panni in tinta unita o spigati campeggiavano in tutte le vetrine. E una di queste, in pieno centro, vendeva solo stoffa “made in Biella” delle migliori marche. A prezzi doppi rispetto a quelli italiani. La doppia parentesi tessile fu solo un aspetto di quell’intenso e indimenticabile percorso. La buona memoria di Pierino Pandale non tralasciò di segnalare l’episodio poco piacevole di Leningrado. La nutrita colonia italiana residente nella vecchia San Pietroburgo fu invitata sul “Pantera” per una festa tra compatrioti. Al termine del ricevimento, una volta scesi a terra, gli invitati furono tutti tratti in arresto dalle zelanti autorità sovietiche che, con tutta evidenza, non avevano gradito quel contatto con gli emissari di una nazione occidentale non comunista e addirittura monarchica. A Tallin le cose andarono diversamente anche se la rappresentanza italiana in terra lettone era costituita da una sola persona, guarda caso una signora biellese, ossia una Boggio Lero di Lessona. Pierino Pandale, cui la parte gastronomica della vita doveva essere particolarmente cara, non lesinò critiche alla perfida Albione accrescendo il cospicuo novero di coloro che sostengono che in Gran Bretagna si mangia malissimo. A Londra fu il primo ministro Stanley Baldwin (…) a invitare a pranzo i tre comandanti e gli ufficiali più alti in grado. Fu uno strazio. Il servizio scadente, il cibo scarso e tremendo. Sopravvissuto a quel supplizio alimentare, l’esperto Pandale si mise al timone di un (de)nutrito drappello di affamati marinai e li condusse in un porto sicuro, ovvero alla trattoria di un certo Alessandro Scanzio, anche lui di Candelo, che a pochi passi dal 10 di Downing Street serviva veri maccheroni e vero barbera. Stando alla testimonianza resa dal macchinista l’etichetta non fu più tanto rigida e anche i capitani si allacciarono il tovagliolo al collo e piantarono i gomiti sul tavolo per far onore alle portate abbondanti e tipiche della Patria lontana. (…) Un ultimo fatto gli era rimasto in mente di quella marziale ma pacifica “sfilata” nautica del 1925. Avvenne a Copenaghen, appena prima dell’incontro con il principe goloso di bagna cauda e di polenta concia. L’equipaggio dei tre esploratori leggeri aveva scoperto il “Tivoli”, il giardino pubblico e parco di divertimenti famoso in tutto il mondo. All’interno della più nota attrazione della capitale danese gli stessi marinai si erano rivelati dei ludopatici. In Italia non esistevano ancora le “macchinette” in cui inserire spiccioli per azionare la leva che avrebbe consegnato una tavoletta di cioccolata, una gomma da masticare o una piccola “sorpresa”. Divenne una mania, specialmente quando i militari italiani scoprirono che le suddette “macchinette” non funzionavano solo con corone danesi, ma anche con soldini da cinque centesimi di lira. Non riuscivano a smettere, ma con quella trovata (…) si stava frodando il fisco dell’integerrimo Regno di Danimarca. A bordo si cedeva una monetina contro una lira intera e il “cambio” andava crescendo fino a quando gli ufficiali si accorsero del fenomeno (o magari c’erano dentro anche loro?) e decisero di vederci chiaro. La verità si manifestò sotto forma di cassette piene di vile conio italiano al posto di pregiata valuta locale. La direzione del “Tivoli” accettò le scuse del comandante Cavagnari e con esse circa 12.000 lire, cioè la differenza conteggiata tra quello sarebbe dovuto essere l’incasso corretto e il più misero effetto della “furbata” dei commilitoni del maggiore Pandale. Secondo quest’ultimo “la marachella dei marinai aveva destato il divertito stupore dei danesi” e una certa invidia per la capacità di adattamento degli italiani, oltre che per l’onestà degli ufficiali nel denunciare per primi e nel riconoscere la propria colpa».
22 agosto 1926
Il Pantera riceve a Livorno la bandiera di combattimento.

Il Pantera (al centro, fiancheggiato da alcuni cacciatorpediniere tipo “tre pipe”) riceve a Livorno la bandiera di combattimento (USMM)

1927
Lavori di modifica: vengono aggiunte allo scafo delle alette antirollio, che riducono la tendenza al rollio in virata.

Il Pantera in navigazione, foto scattata da un Macchi M 18 che lo affiancava volando a distanza ravvicinata (USMM)
(Coll. Alberto Rosselli via www.icsm.it)

1928
Altra crociera di rappresentanza con Tigre e Leone, questa volta in Spagna.
Dal 24 al 30 giugno il Pantera visita le Baleari insieme ai cacciatorpediniere Nazario Sauro, Francesco Nullo, Cesare Battisti e Daniele Manin, venendo accolto amichevolmente dalle autorità spagnole e dalla popolazione locale.

In navigazione (g.c. Anton Shitarev, via www.naviearmatori.net)
1929
Il Pantera è unità capoflottiglia (conduttore di flottiglia) della 2a Flottiglia Cacciatorpediniere, formata dalle Squadriglie Cacciatorpediniere III (Nazario Sauro, Cesare Battisti, Francesco Nullo, Daniele Manin) e IV (Francesco Crispi, Quintino Sella, Giovanni Nicotera, Bettino Ricasoli).
La 2a Flottiglia Cacciatorpediniere, insieme alla 1a Flottiglia (formata dal Leone e dalle Squadriglie Cacciatorpediniere I e II), forma la I Divisione Siluranti (a sua volta facente parte della 1a Squadra Navale), che ha come nave ammiraglia l’esploratore Quarto e come base La Spezia.
1930
Nuova crociera, in Mar Egeo.

Il Pantera a Venezia nel 1930 (foto Bassan-Venezia, via Coll. Luigi Accorsi e www.associazione-venus.it)

1° agosto 1930-19 marzo 1931
Sottoposto a lavori di rimodernamento, svolti presso l’Arsenale di La Spezia; i 6 tubi lanciasiluri DAAN-Whitehead da 450 mm in impianti trinati vengono sostituiti con 4 San Giorgio da 533 mm, in due impianti binati, e vengono imbarcate due mitragliere Vickers-Terni 1917 da 40/39 mm a potenziamento dell’armamento contraereo. Vengono inoltre allungati i fumaioli e viene installato un nuovo sistema di direzione del tiro, composto da una centrale di tiro a poppavia della controplancia, una torretta telemetrica principale con due telemetri ed una torretta telemetrica secondaria con un telemetro, situata sulla tuga poppiera.

(g.c. Giacomo Toccafondi)
1931
Il Pantera, insieme ai cacciatorpediniere Ostro, Aquilone, Turbine, Borea, Daniele Manin e Giovanni Nicotera, forma la 2a Flottiglia Cacciatorpediniere della II Divisione della 1a Squadra Navale.
In questo periodo è imbarcato sul Pantera, quale direttore di tiro, il tenente di vascello Salvatore Pelosi, futura Medaglia d’Oro al Valor Militare per le sue azioni in Mar Rosso durante la seconda guerra mondiale (epoca e luogo che vedranno anche l’epilogo della vita del Pantera).

Una cartolina del Pantera risalente agli anni Trenta (da www.modellismopiu.net)
Dettaglio della zona poppiera del Pantera (da www.modellismopiu.it)

1931
Partecipa ad esercitazioni con la 1a Squadra Navale al largo di Gaeta.
Negli anni successivi opera in Mediterraneo occidentale ed in acque nazionali.

Il Pantera in manovra nel bacino di San Marco a Venezia, a metà anni Trenta (g.c. Carlo Di Nitto via www.naviearmatori.net)
Questa foto è variamente identificata come ritraente il Pantera od il gemello Leone (da www.alf.home.pl)

1934
Dislocato in Mar Rosso insieme all’incrociatore leggero Bari (capitano di vascello Diego Pardo, comandante superiore navale in Africa Orientale), al cacciatorpediniere Palestro, alla torpediniera Audace, ai posamine Azio ed Ostia ed alla nave cisterna Niobe.

Il Pantera a metà anni Trenta (g.c. STORIA militare)

14-15 maggio 1935
Il Pantera viene inviato a Gedda, in Arabia Saudita, in occasione della partenza dell’emiro Saud bin Abdulaziz Al Saud, erede al trono saudita, per un viaggio in Europa mirato a rafforzare le relazioni tra l’Arabia ed i Paesi europei, nonché a prendere spunto per la futura modernizzazione dell’Arabia stessa.
All’arrivo dell’emiro a Gedda dalla Mecca, il 14 maggio, il Pantera, all’ancora in rada, spara ventun colpi di cannone in segno di saluto (egual numero di cannonate è sparato dalle artiglierie della locale fortezza); il giorno seguente il principe saudita, prima di imbarcarsi sulla motonave italiana Victoria che lo porterà in Europa (sbarcherà a Napoli il 19 maggio), visita il Pantera.
Come si vedrà, il Pantera tornerà di nuovo a Gedda, in circostanze molto meno felici, sei anni più tardi.

Il capitano di fregata Giovanni Marabotto a bordo del Pantera in Africa Orientale Italiana, nell’estate del 1935 (g.c. STORIA militare)

Ottobre 1935
All’inizio della guerra d’Etiopia, il Pantera (capitano di fregata Giovanni Marabotto) si trova dislocato in Mar Rosso, insieme al gemello Tigre, ai vecchi incrociatori leggeri Bari e Taranto, ai cacciatorpediniere Impavido, Audace e Palestro, ai sommergibili Luigi Settembrini e Ruggiero Settimo, alla nave appoggio sommergibili Alessandro Volta, ai posamine Azio ed Ostia, alle cannoniere Giovanni Berta e Porto Corsini, al trasporto militare Lussin ed al rimorchiatore militare Ausonia.
Le unità formano la Divisione Navale in Africa Orientale, al comando dell’ammiraglio di divisione Guido Vannutelli.

Una mitragliera contraerea da 13,2 mm del Pantera durante un’esercitazione, nel 1935 (g.c. STORIA militare)

1935-1936
Ormai antiquati, il Pantera ed i due gemelli vengono adibiti a servizio coloniale in Mar Rosso, e sottoposti a lavori di adattamento per l’impiego in climi tropicali (vengono dotati di impianti di condizionamento dell’aria e di refrigerazione dei depositi munizioni, per evitarne un pericoloso surriscaldamento). Subiscono pertanto l’eliminazione di due cannoni da 76/40 mm per allungare di alcuni metri il castello, allo scopo di ricavare un nuovo locale per i compressori dei macchinari dell’impianto di condizionamento (secondo altra fonte, invece, i due pezzi da 76/40 erano stati sbarcati già nel 1931, venendo sostituiti con le mitragliere da 40/39); vengono anche installati degli apparati per impedire il surriscaldamento dei depositi munizioni. Sono inoltre le prime unità della Regia Marina ad adottare il cloruro di metile come gas refrigerante nei frigoriferi, in luogo dell’anidride carbonica, rivelatasi inadatta alle temperature dell’Africa Orientale.
Viene anche leggermente incrementata la scorta di carburante; il dislocamento diviene di 2000 tonnellate standard, 2150 in carico normale e 2648 a pieno carico.
(Secondo una fonte, nell’ambito di questi lavori sarebbe anche stato eliminato uno degli impianti binati da 120 mm, quello situato a poppavia della plancia).


Il Pantera in navigazione sottocosta nell’estate del 1935 (g.c. STORIA Militare e Coll. Maurizio Brescia via www.associazione-venus.it)


25 gennaio 1936
Completati i lavori, Pantera, TigreLeone vengono nuovamente assegnati alla Divisione Navale dell’Africa Orientale (adesso passata al comando dell’ammiraglio di divisione Vittorio Tur e formata dagli incrociatori leggeri BariTaranto e Quarto, dai cacciatorpediniere Francesco Nullo e Daniele Manin, dalle torpediniere AudaceGenerale Antonio Cantore e Giacinto Carini, dai sommergibili Luigi SettembriniRuggero SettimoNarvaloTrichecoSalpa e Serpente, dalle navi appoggio sommergibili Alessandro Volta ed Antonio Pacinotti, dall’incrociatore ausiliario Arborea e da quattro MAS) e dunque dislocati in Eritrea.
In questo periodo (1935-1936, durante la guerra d’Etiopia) è comandante del Pantera il capitano di vascello Aimone di Savoia-Aosta, duca di Spoleto.
Nei successivi quattro anni, il Pantera sarà quasi sempre dislocato in Africa Orientale, salvo una breve interruzione nel 1939.

Aimone di Savoia, quarto duca d’Aosta e comandante del Pantera durante la guerra d’Etiopia, qui in divisa da ammiraglio (USMM)
(ANMI Taranto)

1938
Il Pantera visita l’isola di Kamaran, in Mar Rosso, al largo della costa dello Yemen e di fatto sotto controllo britannico.

Un reparto di marinai armati del Pantera a Massaua, nel 1937. L’ufficiale è il guardiamarina Prospero Solimano (Camogli, 1915-1988), che sul Pantera ebbe il suo primo imbarco nel 1936, poco dopo aver completato i suoi studi presso l’Accademia Navale di Livorno. L’anno successivo venne trasferito sulla corazzata Giulio Cesare (Coll. Prospero Solimano, da www.sncmcamogli.org)

Il Pantera in Adriatico (probabilmente davanti a Pola) nel 1937-1938 (Coll. Prospero Solimano, da www.sncmcamogli.org)

1938
Stante l’accresciuta minaccia posta dall’arma aerea rispetto agli ormai lontani tempi della sua entrata in servizio, il Pantera riceve un potenziamento dell’armamento contraereo: vengono aggiunte due mitragliere binate Breda Mod. 31 da 13,2/76 mm (per altra fonte, queste sarebbero state aggiunte già durante i lavori del 1936) e due o quattro mitragliatrici singole Colt da 6,5/80 mm. Viene inoltre installata una stazione di direzione del tiro sulla tuga poppiera, per poter suddividere i pezzi da 120 mm in due gruppi di fuoco, se ciò si rendesse necessario. Il dislocamento standard sale da 1745 a 2150 tonnellate, quello a pieno carico da 2289 a 2650 tonnellate.

Pantera e Leone all’ormeggio a Massaua a inizio 1938 (g.c. STORIA militare)

Il Pantera a La Spezia nel 1938 (Coll. Luigi Accorsi, via www.associazione-venus.it)

5 settembre 1938
Viene riclassificato cacciatorpediniere, analogamente a Tigre e Leone, ed insieme ad essi viene assegnato alla V Squadriglia Cacciatorpediniere, di base a Massaua a partire dai primi mesi del 1939. Ormai le navi della classe Leone sono anziane, obsolete (i loro cannoni da 120/45 mm risalgono al 1918-1919) ed usurate dal lungo servizio.

Tre immagini scattate sul Pantera a fine anni Trenta (Coll. Prospero Solimano, via www.sncmcamogli.org)




Il Pantera a La Spezia a fine anni Trenta (g.c. Carlo Di Nitto, via www.naviearmatori.net)

1939
In seguito a nuovi lavori, le mitragliatrici da 13,2 e 6,5 mm vengono sostituite da due mitragliere binate Breda da 20/65 mm Mod. 1935.
1939
Pantera, Tigre e Leone (V Squadriglia Cacciatorpediniere) sono dislocati a Massaua.

Il Pantera (a destra) ed il Tigre visti dalla nave coloniale Eritrea durante un’esercitazione in Mar Rosso, nel 1939 (g.c. STORIA militare)
Il Pantera (a destra) in banchina a Massaua prima dell’inizio della guerra, insieme ai cacciatorpediniere Daniele Manin, Francesco Nullo e Cesare Battisti e ad alcuni sommergibili (USMM)

Giugno 1940
Nella seconda settimana di giugno, subito prima dell’entrata dell’Italia nella seconda guerra mondiale, il Pantera viene temporaneamente dislocato ad Assab (Eritrea meridionale) per effettuare la posa di due sbarramenti difensivi di mine antinave tipo Bollo sulle rotte di avvicinamento a quella base.
7 giugno 1940
Il Pantera posa i due campi minati al largo di Assab, in prossimità dell’accesso settentrionale della rada, per un totale di 110 mine (uno sbarramento è composto da 50 mine, l’altro da 60), dopo di che rientra a Massaua.
Questi campi coglieranno una vittima “postuma”: alle 16.07 del 30 aprile 1941, infatti, settimane dopo l’affondamento del Pantera, il pattugliatore ausiliario HMIS Parvati, della Marina indiana, urterà due delle mine posate dal Pantera ed affonderà a nordest di Assab (in posizione 13°11’ N e 42°54’ E) in meno di due minuti, con la perdita di un ufficiale e sedici tra sottufficiali e marinai. L’incrociatore Ceres recupererà i 21 sopravvissuti tra cui il comandante, tenente di vascello Hajee Mohammed Siddig Choudry, ferito al pari di altri tredici dei naufraghi.
La perdita del Parvati contribuirà a rimandare di quasi un mese e mezzo la caduta di Assab: la piazzaforte, infatti, sarà evacuata per ordine superiore ad inizio aprile 1941, ed il suo personale sarà trasferito presso il bivio stradale di Combolcià, nell’interno, per contrastare l’avanzata britannica; prima di ritirarsi, la guarnigione provvederà a distruggere tutte le opere militari ed a smontare ed asportare tutte le artiglierie, portando queste ultime con sé, come ordinato. I britannici, ignari di tutto ciò, invieranno il Parvati in avanscoperta, seguito dall’incrociatore leggero Ceres, con l’intenzione di inviare una motolancia per condurre una ricognizione del porto di Assab, in preparazione di un possibile attacco; in quel momento, Assab si troverà ad essere presidiata soltanto da poche decine di militari armati dei soli fucili, e se i britannici lo scoprissero, potrebbero agevolmente occuparla. Invece, dopo l’affondamento del Parvati si limiteranno a recuperarne i naufraghi per poi allontanarsi senza tentare ulteriori ricognizioni; la sguarnita piazzaforte sarà raggiunta, qualche settimana dopo, da parte della sua vecchia guarnigione, in ripiegamento dopo la conclusione della battaglia di Combolcià, e continuerà a resistere fino all’11 giugno.
L’affondamento del Parvati è così descritto nella storia ufficiale della Marina indiana: “…prima che il Parvati avesse accelerato fino alla massima velocità, alle 16.07, mentre stava virando per 302° ed era ancora nella scia dell’H.M.S. Ceres, una grande esplosione venne avvertita nella parte anteriore della nave. Il ponte di legno sovrastante la plancia inferiore venne lanciato in aria, ed il comandante cadde sul ponte. Rendendosi conto che la nave aveva urtato una mina, si alzò immediatamente e vide che la parte prodiera della nave stava affondando rapidamente, immergendosi nel mare. Mise i telegrafi di macchina nella posizione di ferma ed ordinò ‘Abbandonare la nave’ a voce e con la sirena. (…) Il ponte superiore era quasi al livello del mare. [La nave] aveva iniziato a sbandare a sinistra. Volgendosi verso il ponte lance, [il comandante] vide l’equipaggio radunato all’ordine di abbandonare la nave ed intento a preparare le lance. Gridò “Calare le scialuppe – gettare in mare le zattere” e poi, con una lampada Aldis che giaceva nei pressi, segnalò tre volte “IN AFFONDAMENTO” all’H.M.S. Ceres (…) A questo punto la parte prodiera della nave era completamente sott’acqua. La nave era fortemente sbandata sulla dritta, tanto che il ponte lance aveva un angolo di 40°. Forti difficoltà furono incontrate nella messa a mare delle lance (…) La baleniera si capovolse non appena fu in mare, a causa del forte sbandamento. A questo punto metà del ponte lance era sott’acqua. Il comandante ordinò allora l’uso delle zattere (…) la plancia inferiore era a quel punto inclinata di circa 45°. Il lato di dritta del ponte lance era sott’acqua fino al basamento dell’albero principale, con la poppa ed il lato sinistro sollevati verso il cielo. La maggior parte degli uomini si erano gettati in mare. Il tenente di vascello Choudri aveva l’acqua alle ginocchia quando iniziò ad allontanarsi a nuoto dalla nave, e nel farlo vide la sommità dell’albero principale che scendeva rapidamente verso di lui. (…) fu risucchiato circa dodici metri sotto la superficie. Quando riemerse, il che gli riuscì a stento, non vide più nessuna traccia della nave eccetto alcuni pezzi di legno ed alcuni uomini su delle zattere (…) L’H.M.I.S. Parvati affondò nel giro di un minuto e mezzo dall’urto contro la mina. La grossa scialuppa di sinistra si riempì d’acqua prima di poter essere calata completamente. La baleniera sul lato sinistro si capovolse non appena fu in mare, e la terza scialuppa non poté essere calata a causa del forte sbandamento a dritta. Il sottotenente di vascello Lodge ed il suo gruppo riuscirono a gettare in mare cinque zattere, e le altre vennero a galla dopo l’affondamento”.

Notizia dell’affondamento del Parvati sul “Courier-Mail” di Brisbane del 15 maggio 1941

10 giugno 1940
All’ingresso dell’Italia nel secondo conflitto mondiale, il Pantera (capitano di fregata Paolo Aloisi) fa parte della V Squadriglia Cacciatorpediniere, di base a Massaua, che forma insieme ai gemelli Tigre e Leone: squadriglia nota anche, tra gli equipaggi, come “Squadriglia Belve”.
Le condizioni operative in Mar Rosso sono particolarmente difficili, specialmente a causa del clima: temperature di 55 °C all’ombra, umidità prossima al 100%, uniti alla mancanza di aria condizionata e di frigoriferi, causa la deficienza di corrente elettrica e di gas per i relativi impianti. Nelle missioni di guerra, con tutte le caldaie accese, le macchine si trasformano in un vero e proprio inferno; in porto, non si possono stendere tende sui ponti per avere un po’ d’ombra, perché gli attacchi aerei sono continui (una cinquantina tra il luglio ed il novembre del 1940) e le tende intralciano l’impiego delle armi contraeree. Ad ogni missione si registrano regolarmente numerosi svenimenti e colpi di calore; gli equipaggi, che in gran parte vivono in questo clima già da due o tre anni, lamentano molti casi di ulcere ed esaurimento fisico, che devono essere sovente sbarcati subito prima delle uscite in mare ed inviati per lunghi periodi di riposo sugli altopiani dell’Eritrea interna, dove il clima è più clemente.
Il clima non logora solo gli uomini ma anche i macchinari, riducendone la non già elevata efficienza ed aumentando l’incidenza delle avarie, cui contribuisce anche l’inadeguatezza delle strutture esistenti in Mar Rosso per la riparazione e la manutenzione delle navi (in tempo di pace, queste venivano inviate in Italia se erano necessari grandi lavori: ma adesso, ovviamente, ciò non è più possibile, e risulta anche estremamente difficile inviare parti di ricambio). Gli operai, spossati dal caldo, che rende insopportabile il lavoro in locali chiusi (lavoro, per giunta, frequentemente interrotto dai continui allarmi aerei, che impediscono anche di riposare), faticano a mantenere un rendimento passabile nei lavori, che sono resi ancor più irregolari dai frequenti attacchi aerei.
L’operatività delle navi italiane è condizionata dalla scarsità di carburante, problema molto più grave che in Mediterraneo: l’Africa Orientale Italiana, infatti, non può ricevere alcun rifornimento dall’Italia, se non modestissime quantità per via aerea, il che significa che una volta esaurite le scorte di carburante disponibili sul posto – non sufficienti neanche per un anno – le navi resteranno immobilizzate.
Per di più, l’esigua flottiglia italiana di base a Massaua, composta in gran parte da unità piuttosto attempate (come appunto il Pantera ed i gemelli) ed impossibilitata a ricevere rinforzi, si trova ben presto anche in condizione d’inferiorità numerica: entro la fine dell’agosto 1940, infatti, la Royal Navy ha dislocato ad Aden quattro incrociatori leggeri (Leander, Carlisle, Capetown e Coventry), tre cacciatorpediniere (Kandahar, Kingston e Kimberley) ed otto sloops (Yarra, Indus, Auckland, Flamingo, Shoreham, Swan, Grimsby e Cornwallis) per la protezione dei convogli in navigazione nel Mar Rosso. Si tratta della Red Sea Force, al comando del contrammiraglio Arthur J. L. Murray.
27 giugno 1940
In mattinata il Pantera lascia Massaua insieme al Leone ed alla vecchia torpediniera Giovanni Acerbi, per andare in soccorso al sommergibile Perla, incagliatosi presso Ras Cosar, a 20 miglia da Sciab Sciach (costa eritrea), dopo che perdite di cloruro di metile hanno intossicato larga parte dell’equipaggio.
L’invio delle tre unità è stato disposto dal comandante di Marisupao (Comando Superiore della Marina in Africa Orientale), contrammiraglio Carlo Balsamo, dopo che il comandante del Perla ha telegrafato a Massaua riferendo che i quattro quinti dell’equipaggio sono intossicati, e chiedendo assistenza in quanto i tentativi per disincagliare il sommergibile sono risultati infruttuosi. L’Acerbi dovrebbe se possibile disincagliare e prendere a rimorchio il Perla, mentre Pantera e Leone fornirebbero appoggio e sostegno; qualora il disincaglio risultasse impossibile, le unità dovrebbero recuperare l’equipaggio del sommergibile.
Poco dopo la partenza, tuttavia, il Leone viene colto da un’avaria che lo costringe a tornare alla base; il Pantera prosegue da solo per dare appoggio all’Acerbi, che intanto ha raggiunto Sciab Sciach, ma alle 12.30, in seguito all’avvistamento, da parte della ricognizione aerea, di una superiore formazione navale britannica (incrociatore leggero Leander, cacciatorpediniere Kandahar e Kingston) diretta verso Sciab Sciach, Marisupao ordina anche a Pantera ed Acerbi di ripiegare, portandosi sotto la protezione delle batterie delle isole di Shumma e Dilemmi.
Sebbene attaccato dalla formazione britannica, il Perla verrà salvato dall’intervento dei bombardieri della Regia Aeronautica, che costringeranno i britannici alla ritirata; il sommergibile potrà essere disincagliato dopo alcuni giorni e rimorchiato a Massaua, dove sarà riparato.

Il Pantera in Mar Rosso a inizio 1940, in una foto scattata dall’Eritrea (Coll. Luigi Accorsi, via www.associazione-venus.it)

27-28 giugno 1940
Pantera, TigreLeone ed i più piccoli cacciatorpediniere Nazario Sauro e Daniele Manin escono in mare durante la notte in cerca della formazione britannica segnalata dall’Aeronautica il giorno precedente, che intendono ora intercettare ed attaccare in forze; ma non riescono a trovarla, essendo questa ormai rientrata alla base.
1° agosto 1940
Il marinaio cannoniere Mario Antonio Cavallo, 18 anni, da Cuneo, facente parte dell’equipaggio del Pantera, muore a Massaua. È possibile che sia rimasto vittima dell’incursione aerea che colpì quel giorno la base eritrea: tra le 8.02 e le 8.34 del 1° agosto, infatti, tre bombardieri Bristol Blenheim bombardarono Massaua con obiettivo le installazioni dell’AGIP, provocando un modesto incendio.
28-29 agosto 1940
Pantera e Tigre vengono inviati in crociera notturna al largo delle Isole Dahlak, in cerca dei piroscafi greci Kastor e Stratatos, al servizio degli Alleati e che secondo informazioni trasmesse da Supermarina (teledispaccio 19648 del 23 agosto) dovrebbero attraversare il Mar Rosso provenendo da Suez e diretti verso sud. Il Comando Superiore di Marina in Africa Orientale ha stimato che il Kastor passerà probabilmente all’altezza dell’isola di Harmil tra il 24 ed il 26 agosto, e lo Stratatos tra il 28 ed il 31; pertanto ha disposto per il periodo in questione ricognizioni aeree la mattina, e crociere di cacciatorpediniere di notte. Nelle ore diurne i cacciatorpediniere hanno l’ordine di restare alla fonda presso Harmil, tenendosi pronti ad intervenire in caso di avvistamenti da parte degli aerei.
Pantera e Tigre, al pari dei cacciatorpediniere inviati nei giorni precedenti (Nazario Sauro e Francesco Nullo, il 24-25 agosto) e successivi (Cesare Battisti e Daniele Manin, il 30-31 agosto), non avvistano niente.

Il Pantera a Massaua nel 1940 (Coll. Luigi Accorsi, via www.associazione-venus.it)

Fine agosto-Inizio settembre 1940          
Sottoposto a lavori ad una caldaia.
20 settembre 1940
Pantera, Leone, Battisti e Manin salpano da Massaua per intercettare un convoglio britannico proveniente da Singapore e diretto a Port Sudan con 4000 soldati (compresi due battaglioni ritirati dalla Cina), segnalato dallo Stato Maggiore Generale il 17 settembre. Secondo le informazioni a disposizione del Comando Supremo, il convoglio è partito da Singapore l’11 settembre, è scortato da un incrociatore, quattro cacciatorpediniere e quattro unità minori (che dovranno poi ricevere rinforzi, 150 miglia ad est di Socotra, con navi provenienti da Aden) e procede a 15 nodi, senza tappa intermedia a Bombay.
Secondo fonti britanniche, invece, il convoglio in questione sarebbe stato il BN. 5, partito Bombay il 10 settembre diretto a Suez (dove giungerà il 26) e composto da 25 navi mercantili (Akbar, Alavi, Ancylus, Ashbury, Bankura, Bhima, British Emperor, City of Christiania, Clearpool, Crista, Cyclops, Glenlea, Guido, Heron, Jalaganga, Karoa, Nils Moller, Ovington Court, Pellicula, Protector, Santhia, Talma, Theseus, Tomislav, Treminnard, Westralia; tutte britanniche tranne la Tomislav, che è jugoslava) scortate dagli incrociatori leggeri Caledon (britannico) e Leander (neozelandese), dall’incrociatore ausiliario Antenor e dagli sloops Clive, Flamingo, Indus, Shoreham e Parramatta (secondo altra fonte, invece, la scorta sarebbe stata composta dal Leander e da tre sloops, il britannico Auckland e gli australiani Yarra e Parramatta).
Sulla scorta delle informazioni ricevute dal Comando Supremo, Marisupao ha concluso che il convoglio entrerà in Mar Rosso non prima del 20 o 21 settembre; di conseguenza, l’ammiraglio Balsamo si è accordato con il Comando del Settore Nord per l’esplorazione aerea, ed ha disposto che tutte le navi di superficie si tengano pronte ad accendere rapidamente le caldaie.
Il convoglio è stato avvistato per la prima volta dai ricognitori alle 11 del 19 settembre, 30 miglia a sudovest di Aden; gli aerei ne hanno stimato la composizione in 21 mercantili scortati da un incrociatore e due cacciatorpediniere, diretti verso lo stretto di Bab el Mandeb. In seguito a questo avvistamento sono usciti in mare i sommergibili Archimede e Guglielmotti, mentre il 20 settembre anche l’aviazione è passata all’attacco, bombardando il convoglio una prima volta nel mattino e la seconda nel pomeriggio, a nord di Perim (un piroscafo britannico, il Bhima, viene danneggiato da alcune bombe cadute nei suoi pressi, venendo portato ad incagliare ad Aden con due stive allagate ed una vittima tra l’equipaggio).
Lasciata Massaua, Pantera, Leone, Battisti e Manin escono per il Canale Nord e poi, giunti al largo di Harmil, assumono una rotta per la ricerca notturna del convoglio, divisi in sezioni, a partire dalle ore 21.
21 settembre 1940
Alle 4.30 i cacciatorpediniere concludono la loro ricerca, senza aver avvistato niente. L’ordine è di trovarsi sotto la protezione della batteria di Harmil alle prime luci dell’alba in quanto la stazione di vedetta di Raheita ha segnalato alle 13 il transito di un altro convoglio, diretto verso nord ad elevata velocità e scortato da un incrociatore ausiliario, e l’ammiraglio Balsamo teme che gli incrociatori britannici possano unirsi, andando a formare una formazione di armamento superiore rispetto a quella dei cacciatorpediniere italiani.
In mattinata Pantera, Leone, Battisti e Manin fanno ritorno a Massaua.


Il Pantera in una foto scattata probabilmente a Massaua (Naval History and Heritage Command)


18 ottobre 1940
Dopo che, in serata, la stazione di vedetta di Raheita ha comunicato l’avvistamento di un convoglio composto da cinque navi mercantili, un incrociatore e quattro cacciatorpediniere con rotta verso nord, l’ammiraglio Balsamo ordina che Pantera (capitano di fregata Paolo Aloisi), Leone (capitano di fregata Uguccione Scroffa), Sauro (capitano di corvetta Enrico Moretti degli Adimari) e Nullo (capitano di corvetta Costantino Borsini) si tengano pronti a muovere a mezzogiorno dell’indomani.
19 ottobre 1940
In mattinata anche la ricognizione aerea (un trimotore Savoia Marchetti S.M. 79 decollato da Dire Daua e pilotato dal tenente Alberto Leonardi) avvista un convoglio diretto verso nord a 14 nodi, una decina di miglia a sudovest di Gebel Tair, stimandone la composizione come quattro mercantili, due incrociatori e quattro cacciatorpediniere; tuttavia, siccome dal confronto dell’orario e della posizione dei due avvistamenti emerge che il convoglio ha una velocità di almeno 16 nodi, Marisupao conclude che i cacciatorpediniere italiani non riuscirebbero a raggiungerlo durante la notte. Viene pertanto annullato l’ordine di accensione delle caldaie.
Alle 22, tuttavia, la stazione di Raheita segnala l’avvistamento di un nuovo convoglio, anch’esso con rotta verso nord: stavolta si tratta di ben 23 mercantili, scortati da un incrociatore e quattro cacciatorpediniere, con velocità di 10 nodi (questo secondo la storia ufficiale dell’USMM; secondo altra fonte, probabilmente erronea, il ricognitore avrebbe riferito di aver avvistato 36 navi mercantili di stazza compresa tra le 10.000 e le 20.000 tsl, scortate da due incrociatori ed alcuni cacciatorpediniere). Ritenendo possibile un’intercettazione, l’ammiraglio Balsamo ordina di nuovo ai cacciatorpediniere di tenersi pronti a muovere a mezzogiorno del 20.
Il convoglio britannico è il BN 7, formato da ben 31 mercantili britannici (Australind, British Colonel, Cranfield, Ekma, Erica, Ethiopia, Hannah Moller, Hatarana, Jalakrishna, Karagola, King Arthur, Kingswood, Mandalay, Marcella, Margot, Marion Moller, Myrtlebank, Nevasa, Nurmahal, Serbino, Subadar, Tyndareus, Varsova), greci (Odysseus), turchi (il posamine Sivrihisar, costruito nel Regno Unito e diretto in Turchia per essere consegnato ai suoi proprietari), olandesi (Arundo), francesi (Felix Roussel) e norvegesi (Askot, Egero, Inviken, Nyco, Nyholm) partiti da Aden lo stesso 19 ottobre e scortati dall’incrociatore leggero Leander (caposcorta, capitano di vascello Henry Edward Horan), dal cacciatorpediniere Kimberley (capitano di corvetta John Sherbrook Morris Richardson), dagli sloops Yarra (australiano, capitano di corvetta Wilfred Hastings Harrington), Auckland (capitano di fregata John Graham Hewitt) ed Indus (indiano, capitano di fregata Eric George Guilding Hunt) e dai dragamine di squadra Huntler (capitano di corvetta Harold Robert Austin King) e Derby (tenente di vascello Francis Charles Victor Brightman). Vi è inoltre una cinquantina di caccia e bombardieri, di base ad Aden, incaricati di fornire copertura aerea.
Il convoglio proviene originariamente da Bombay, da dov’è partito il 10 ottobre con la scorta degli incrociatori ausiliari Ranchi ed Antenor, rilevati il 16 ottobre da Leander, Yarra ed Auckland; il 18-19 ottobre, dopo aver attraversato l’Oceano Indiano, ha fatto scalo ad Aden, dove si sono unite le restanti unità della scorta. La sua tabella di marcia è regolata in modo tale che sia notte fonda quando il convoglio passerà al largo di Massaua (intorno alla mezzanotte del 20 ottobre), che rappresenta il punto più pericoloso del Mar Rosso per via delle forze aeronavali ivi concentrate. Dei 31 mercantili che lo compongono, 26 sono diretti a Suez e cinque a Port Sudan.

Il Pantera (sulla destra) alla fonda a Massaua con TigreEritreaSauro e Battisti nel 1940 (g.c. STORIA militare)

20 ottobre 1940
Alle undici del mattino un trimotore Savoia Marchetti S.M. 79 “Sparviero” della Regia Aeronautica (ai comandi del sottotenente Mario Indri), inviato in ricognizione dal Comando Settore su richiesta di Marisupao, avvista il convoglio – confermando che è composto da 23 mercantili, un incrociatore e quattro cacciatorpediniere – a sudest di Massaua e lo bombarda (due bombe cadono vicine al trasporto truppe francese Felix Roussel, carico di truppe neozelandesi, che però non subisce danni), venendo tuttavia a sua volta attaccato da un bimotore Bristol Blenheim che lo mitraglia, ferendo il radiotelegrafista e mettendo la radio fuori uso. Di conseguenza, lo “Sparviero” non può riferire dell’avvistamento fino a dopo il suo atterraggio, avvenuto alle 12.30.
Su ordine dell’ammiraglio Balsamo, Pantera (capitano di fregata Paolo Aloisi, capo formazione), Leone (capitano di fregata Uguccione Scroffa), Sauro (capitano di corvetta Enrico Moretti degli Adimari) e Nullo (capitano di corvetta Costantino Borsini) salpano da Massaua nel tardo pomeriggio, in modo da essere in franchia di Harmil al tramonto, passando per il Canale di Nord Est. La formazione è divisa in due sezioni, con il Pantera al comando della prima (che forma insieme al Leone) ed il Sauro al comando della seconda (che forma insieme al Nullo); per cercare il convoglio nemico, i quattro cacciatorpediniere seguono rotte di ricerca a rastrello. Secondo le disposizioni ricevute, dopo aver attaccato il convoglio i comandanti possono scegliere se rientrare a Massaua passando da Harmil o da Shumma. Secondo lo storico Vincent O’Hara, il piano italiano sarebbe stato di usare la sezione Pantera-Leone, più lenta e meglio armata, per distrarre la scorta ed allontanarla dal convoglio, e consentire così ai più piccoli Sauro e Nullo di avvicinarsi ai mercantili ed attaccarli con i siluri.
Alle 18.22 Pantera, Leone, Sauro e Nullo escono da Harmil e dirigono verso la zona di ricerca a 18 nodi, ed alle 21.30 (21.15 per altra fonte) le due sezioni si separano per dare inizio alla ricerca, distanziate di dieci miglia l’una dall’altra. La sezione Pantera-Leone, al comando del capitano di fregata Aloisi, segue una rotta di ricerca verso sud/sudest.
Alle 23.21 il Pantera è il primo ad avvistare il convoglio BN 7 (od il fumo prodotto dalle sue navi), dritto di prora (per altra fonte, a proravia dritta); il Pantera comunica immediatamente l’avvistamento a tutte le unità («nemico di prora») ed aumenta la velocità a 22 nodi (che permette un’adeguata rapidità di manovra, senza tuttavia generare fumo e scia che potrebbero rivelare la presenza del Pantera alle vedette britanniche) accostando al contempo su rotta di allargamento sulla dritta allo scopo di porre il convoglio tra sé e la luna, che è ancora bassa, ed assumere così una posizione favorevole per l’attacco.
In quel momento il BN 7 si trova circa 150 miglia ad est di Massaua, e precisamente 35 miglia a nord/nordovest dell’isola di Jabal al-Tair, a sua volta situata 110 miglia ad est/nordest di Massaua; in testa alla formazione si trova lo Yarra (posizionato a proravia dritta del convoglio), seguito dall’Auckland, entrambi intenti a procedere a zig zag (come anche i mercantili), mentre il Kimberley è in coda al convoglio ed il Leander si trova al traverso a sinistra (cioè sul lato del convoglio rivolto verso Massaua, probabile direzione di provenienza di un attacco italiano). Il mare è calmo, la luna splendente, ma un po’ di foschia limita la visibilità verso la sponda africana del Mar Rosso.
Alle 23.26 il Pantera accosta e va all’attacco; alle 23.31 lancia una prima coppiola di siluri contro il convoglio da 5000 metri di distanza, seguita da un’altra tre minuti più tardi alla distanza di 6000 metri. (Secondo alcune fonti, dopo il lancio dei siluri il Pantera avrebbe anche sparato alcune cannonate contro i mercantili del convoglio). A bordo del Pantera vengono avvertite due forti esplosioni e viste quelle che sembrano delle fiammate, il che induce il comandante Aloisi a ritenere di aver messo a segno almeno due siluri; in realtà si tratta di un’impressione errata, in quanto nessuna delle armi è andata a segno. Al contempo vengono avvistate due scie di siluri, che il Pantera evita con la manovra.
Il Leone, che segue il Pantera a circa 800 metri di distanza, non avvista le navi britanniche, e dunque non attacca.
La prima nave del convoglio britannico ad avvistare gli attaccanti è lo Yarra, che poco prima delle 23 avvista a proravia sinistra i “baffi” fluorescenti generati dalle prue di due navi – Pantera e Leone – in avvicinamento ad alta velocità, ed esegue il segnale di riconoscimento, cui il Pantera risponde invece col lancio della prima coppiola di siluri (secondo le fonti britanniche, l’attacco sarebbe avvenuto alle 23.20). Dopo aver avvistato verso proravia sinistra dei lampi di luce generati dal lancio di due siluri da parte dell’unità di testa (il Pantera), lo Yarra informa l’Auckland della presenza di unità nemiche ed accosta nella loro direzione mettendo la prua sugli attaccanti, mentre i cacciatorpediniere italiani virano di bordo e cannoneggiano il convoglio con i pezzi poppieri: i proiettili ‘sorvolano’ lo Yarra e cadono tra i mercantili (secondo una fonte britannica, in questo frangente il mercantile caponconvoglio avrebbe subito alcuni modesti danni da schegge, specialmente ad una lancia di salvataggio). L’Auckland, che avvista i cacciatorpediniere italiani da circa quattro miglia di distanza (secondo la storia ufficiale della Marina neozelandese, avrebbe aperto il fuoco dopo aver effettuato il segnale di riconoscimento senza ottenere risposta), lancia un messaggio di allerta a tutto il convoglio, per poi aprire a sua volta il fuoco da una distanza stimata di 3660 metri (sempre secondo tale fonte, a questo punto le due unità italiane si sarebbero separate e si sarebbero allontanate a tutta forza, sparando con i cannoni poppieri). Dopo la prima salva dell’Auckland anche lo Yarra, che ha evitato di stretta misura i due siluri lanciati dal Pantera virando verso di essi in modo da assumere rotta parallela alle loro scie, risponde al fuoco (l’equipaggio dello Yarra riterrà erroneamente di aver colpito la nave italiana di testa con la quarta o quinta salva), mentre il Kimberley accelera a 30 nodi ad accosta verso nordovest per portarsi a tiro.
Soltanto quest’ultimo ed il Leander (che accosta verso sudovest, nell’ipotesi che le navi italiane siano ora dirette verso il Canale Sud di Massaua), tuttavia, lasciano il convoglio per inseguire gli attaccanti; sloops e dragamine, invece, rimangono a proteggere i mercantili. (La storia ufficiale neozelandese afferma che il Leander avrebbe avvistato due chiazze di fumo su rilevamento nord alle 2.19 del 21 ottobre, per poi sentire e vedere dopo tre minuti fuoco d’artiglieria; a questo punto avrebbe accelerato al massimo, per poi accostare verso sudovest dopo aver ricevuto il messaggio dell’Auckland relativo a due cacciatorpediniere italiani. Tuttavia l’orario delle 2.19 sembra poco compatibile con quello delle fonti italiane, anche tenendo conto della differenza di fuso orario).
Secondo fonti britanniche Pantera e Leone, dopo essere stati impegnati dalle unità di scorta, avrebbero ripiegato verso nordovest inseguiti da Leander e Kimberley, ma ciò risulta in contrasto con la rotta seguita da Pantera e Leone per rientrare a Massaua: secondo la storia ufficiale dell’USMM, «è più probabile che il nemico ad un certo momento abbia scorto quei due cacciatorpediniere in direzione N W e che, pur avendoli quasi subito perduti di vista, abbia poi continuato in quella direzione il presunto inseguimento». Dopo che da entrambe le parti è stato cessato il fuoco, il Leander modifica la propria rotta, accostando verso nord (o nordovest) per intercettare le unità italiane qualora intendessero imboccare il canale che passa presso l’isola di Harmil, e prosegue infruttuosamente l’inseguimento fino alle tre di notte, quando – dopo aver sparato in tutto 129 colpi da 152 mm – inverte la rotta per tornare a proteggere il convoglio, lasciando al Kimberley il compito di proseguire l’inseguimento.
Pantera e Leone, ritenendo di aver completato con successo il loro attacco, si disimpegnano e fanno rotta verso ovest/sudovest, dirigendo per rientrare a Massaua passando per il Canale Sud.
Il comando britannico di Aden accuserà poi le unità di scorta, eccetto il Kimberley, di “scarsa aggressività” per non aver inseguito le navi italiane dopo l’attacco, per quanto sarebbe stato invero imprudente lasciare il convoglio senza protezione per correre dietro ad un nemico (del quale la scorta non sapeva, peraltro, l’esatta consistenza numerica) che si era rapidamente dileguato nell’oscurità. I britannici rilevano, nel corso dello scontro, che le navi italiane sono provviste di munizioni adatte al tiro notturno (buoni proiettili traccianti e cordite senza vampa), non ancora in dotazione alle unità della Royal Navy di stanza in Mar Rosso (i cui artiglieri, infatti, durante il combattimento notturno sono stati temporaneamente abbagliati dalle salve delle proprie artiglierie).
Da parte italiana, i cacciatorpediniere hanno condotto l’attacco come da piano, ma senza riuscire a colpire; Vince O’Hara osserva a posteriori che l’impiego di due sezioni incaricate di cercare il convoglio procedendo ad elevata distanza l’una dall’altra aumentava effettivamente la probabilità di intercettare il convoglio, ma rendeva anche più difficile attaccare in forze, impegnando a fondo una scorta superiore per numero e potenza di fuoco.

Il Pantera all’ormeggio a Massaua insieme ad altre unità, nella primavera del 1940 (g.c. STORIA militare). Dietro al Pantera sono visibili un cacciatorpediniere classe Sauro, il posamine Ostia ed una cannoniera (Biglieri o Porto Corsini), oltre ad alcuni rimorchiatori; davanti ad esso (avvicinandosi progressivamente all’osservatore) le torpediniere Vincenzo Giordano Orsini e Giovanni Acerbi, due sommergibili di piccola crociera serie “600”, i sommergibili di grande crociera Guglielmotti ed Archimede, un altro “600”, i sommergibili di grande crociera Galileo Galilei e Galileo Ferraris ed un quarto “600” (i quattro “600” sono Iride, Onice, Perla e Macallè).

21 ottobre 1940
Verso le 00.20 viene ricevuta sul Pantera una comunicazione del Sauro, il quale informa che, non avendo avvistato alcunché, proseguirà la ricerca secondo l’orario prestabilito, per poi rientrare a Massaua dalla parte di Harmil.
Pantera e Leone raggiungono Massaua alle dieci del mattino, senza aver incontrato altre unità nemiche.
Esito ben più funesto avrà l’attacco della sezione composta da Sauro e Nullo, che hanno ricevuto il segnale di scoperta lanciato dal Pantera poco dopo le 23.21. Avvistato il convoglio all’1.48 del 21, i due cacciatorpediniere lo attaccheranno a loro volta con lancio di siluri, di nuovo senza successo, ma durante tale manovra il Nullo subirà un’avaria al timone e perderà il contatto col Sauro (secondo Vince O’Hara, invece, Sauro e Nullo non avrebbero incontrato il convoglio, bensì il Leander, intento nella ricerca di Pantera e Leone). Mentre quest’ultimo rientrerà indenne a Massaua, il Nullo s’imbatterà nel Kimberley, che sta continuando l’“inseguimento” della sezione Pantera (alle 3.50 la nave britannica avvista del fumo a proravia, che attribuisce a due navi che si ritirano a tutta velocità: non è chiaro di quali unità si trattasse, ammesso che ci fossero davvero), e verrà da questi affondato al termine di un duello nelle acque di Harmil (le cui batterie costiere, a loro volta, infliggeranno seri danni al Kimberley).
3 gennaio 1941
L’ammiraglio Mario Bonetti, nuovo comandante di Marisupao, ordina ai cacciatorpediniere di accendere le caldaie in preparazione dell’uscita in mare alla ricerca di un convoglio britannico avvistato la sera precedente dalla stazione di Raheita e poi ancora dalla ricognizione aerea il mattino successivo. Tuttavia, il mattino del 3 gennaio aerei britannici bombardano il porto di Massaua, danneggiando gravemente il Manin; siccome gli aerei britannici hanno certamente notato che i cacciatorpediniere italiani stanno preparandosi a partire, ed il fattore sorpresa è dunque sfumato, mentre la loro forza numerica è ridotta dalla messa fuori combattimento del Manin, l’ammiraglio Bonetti decide di sospendere l’uscita.
9 gennaio 1941
Il capitano di vascello Andrea Gasparini assume il comando del Pantera, sostituendo il capitano di fregata Aloisi, sbarcato per motivi di salute (“infermità contratta durante la permanenza in Africa”, probabilmente causata da qualche malattia tropicale). Gasparini assume anche gli incarichi di comandante della V Squadriglia Cacciatorpediniere e comandante superiore navale in Eritrea.
Nella relazione scritta anni dopo, al rientro dall’internamento, Gasparini descriverà in questi termini lo stato delle navi e degli equipaggi ai suoi ordini: «Le condizioni fisiche degli equipaggi e degli stati maggiori lasciavano molto a desiderare per la forte percentuale di esauriti, stanchi, ulcerati e quindi bisognevoli di cure e principalmente di lunghi periodi di riposo in zone di altopiano. Tutto ciò lo si doveva, senza alcun dubbio, al clima di Massaua, specie quello del periodo estivo ed autunnale; alla vita condotta sulle siluranti, senza condizionamento e con frigoriferi fermi per deficienza di corrente e mancanza di gas; all’eccessivo sforzo fisico richiesto dalle missioni di guerra con tutte le caldaie accese, durante le quali si verificavano parecchi colpi di calore, specialmente sui tipi Sauro; alla mancanza di tende in porto, per consentire l’impiego delle armi a.a. durante i ripetuti e prolungati allarmi ed attacchi aerei; e infine al fatto che per gran parte degli equipaggi e degli stati maggiori era la seconda o terza estate massauina. Tale situazione spiega chiaramente come nelle uscite vi fosse la necessità di rimpiazzare all’ultimo momento comandanti e parte degli equipaggi, con conseguente riduzione del numero delle unità partecipanti alla missione. Il clima, oltre a logorare gli uomini, agiva in tal senso anche sui macchinari ed aveva già ridotto in modo sensibile la loro efficienza. Il rendimento delle officine era molto inferiore al normale, perché gli operai erano fisicamente prostrati; il clima rendeva insopportabile il lavoro in locali chiusi; i numerosi allarmi non consentivano un proficuo riposo e riducevano enormemente le ore effettive di lavoro, dando a queste carattere di discontinuità».
Una problematica ulteriore, relativamente ai cacciatorpediniere della classe Leone, è l’eccessiva quantità di fumo emessa dai loro ormai vecchi apparati motori, che li rende più facilmente avvistabili anche di notte: la velocità massima che i Leone possono raggiungere senza fare fumo è di 22 nodi, mentre al di sopra dei 27 l’emissione di fumo diviene enorme, ragion per cui risulta consigliabile impiegarli soltanto nelle notti senza luna, oppure relegarli a compiti di appoggio ai cacciatorpediniere classe Sauro – che non hanno questo problema – all’alba del giorno successivo all’azione notturna.
Il tenente di vascello Ennio Giunchi, imbarcato sul Pantera in qualità di comandante in seconda dal gennaio all’aprile 1941, traccia nelle sue memorie il seguente quadro dell’attività dei cacciatorpediniere del Mar Rosso: “A Massaua si visse il periodo prebellico col ritmo e l’entusiasmo consentiti dal clima micidiale. Si faceva qualche esercitazione, compilando i programmi sulla banchina, all’ombra di una tettoia, presso un ventilatore; si cercava di stare a bordo il meno possibile, perché le lamiere bruciavano ed i colpi di calore non erano infrequenti. In navigazione il calore era intollerabile soprattutto nei locali di macchina e caldaia, dove la temperatura saliva fino a 68 °C; tanto che a volte bisognava sostituire il personale ogni dieci, quindici minuti, tirando su coi paranchi i fuochisti svenuti prima del tempo e filando abbasso i rimpiazzi. (…) Tuttavia i comandanti seppero fare il possibile per mettere le navi nelle migliori condizioni di efficienza e per ottenere dagli equipaggi il più alto rendimento (…) tutti seppero andare fino in fondo, anche quando alle ingenue speranze dei primi mesi seguirono le delusioni e poi la certezza della fine. A questa disposizione di spirito (…) non fece riscontro un’adeguata, necessaria organizzazione tecnica. (…) si trattò (…) di errore nel “sistema” che si appoggiava su una incosciente euforia imperiale, sostenuta (…) sulla persuasione che una rapida vittoria non avrebbe lasciato alle magagne il tempo di venire a galla. Non furono mai eseguite esercitazioni aeronavali (…), non si provvide tempestivamente ad accumulare una scorta sufficiente di armi e munizioni. Dopo qualche mese di guerra le navi furono costrette a non intervenire nella difesa antiaerea di Massaua, perché conveniva risparmiare la scarsa e non sostituibile dotazione di munizionamento antiaereo per le uscite in mare; e, quel che è più grave, tanto esigua era la scorta di siluri che, dopo due attacchi a convogli, ne rimasero poche decine, appena sufficienti per un’altra azione; se la guerra nel Mar Rosso avesse durato ancora un poco, le navi non avrebbero più potuto lanciare. (…) nell’intervallo fra il primo giorno di guerra e l’ultimo silenzioso addio, non vi fu che pane nero, karkadè, sidro e nauseanti sigarette “Eritrea” le quali facevano rimpiangere le pestifere “Milit”. Quel bombardamento [quello dell’11 giugno 1940] fu il primo di una serie che, in dieci mesi di guerra, doveva tradursi nelle seguenti cifre: cinquecentocinquanta ore di allarme, centoventi azioni. Per contrastare questa giostra ossessionante i nostri piloti (…) affrontavano quotidianamente la morte (…) dalle navi, in collegamento radiotelefonico con la DICAT, si seguivano, parola per parola, le azioni del cielo, e sembrava di vivere favolosi tornei di antichi cavalieri. (…) Si pensi poi che, mentre le navi nemiche potevano entrare e uscire liberamente dal Mar Rosso ed usufruire così di basi numerose e perfettamente attrezzate, nonché all’occorrenza essere sostituite o ricevere rinforzi, le nostre erano blocca e a Massaua ed il loro numero e la loro efficienza non potevano che diminuire progressivamente (…) l’inverno, nel quale si sperava per avere un sollievo dall’afosa temperatura estiva, portò una epidemia di dengue, una noiosa febbre tropicale che abbatte un individuo con una lunghissima convalescenza. I corpi stanchi dalle veglie, sfiniti dal caldo, indeboliti dalle tensioni nervose e da lunghe permanenze nel Mar Rosso, erano facile preda del morbo: su ogni nave i malati si contavano a decine ed ogni giorno numerosi convalescenti partivano per un soggiorno di riposo ad Embatkalla. Le navi pronte integravano gli equipaggi prendendo uomini a prestito dalle altre (…)”.


Il Pantera entra a Massaua con la V Squadriglia Cacciatorpediniere a fine anni Trenta (USMM)


24 gennaio 1941
Il Pantera (capitano di vascello Andrea Gasparini), il Tigre (capitano di fregata Gaetano Tortora) ed il Sauro (capitano di corvetta Enrico Moretti degli Adimari) escono da Massaua per eseguire una ricerca notturna di un convoglio britannico.
Secondo una fonte si sarebbe trattato del convoglio britannico BN. 13, partito da Aden il 17 gennaio e diretto a Suez (dove arriverà lo stesso 24 gennaio), è composto da 24 mercantili britannici (Akbar, Araybank, Birchbank, British Science, British Sovereign, City of Norwich, Clan Skene, Cortona, Daisy Moller, Daronia, Diomed, Goldmouth, Hopecrown, Jalakrishna, Katie Moller, Khosrou, Ozarda, Protector, Stagpool, Tamaha, Taumate, Tuna, Turbo e Vacport), otto norvegesi (Ada, Alcides, Anna Odland, Brattdal, Ima, Katy, Lynghaugh e Temeraire), quattro greci (Kyriaki, Nicolaos G. Kulukundis, Spyros e Mount Olympus), tre olandesi (Arundo, Macuba e Sitoebondo), uno francese (Cap St. Jacques), uno egiziano (Star of Mex) ed uno panamense (El Segundo), scortati in momenti diversi dall’incrociatore leggero Caledon, dal cacciatorpediniere Kimberley e dagli sloops Clive, Cricket, Shoreham, Indus, Flamingo e Parramatta.
25 gennaio 1941
Pantera, Tigre e Sauro rientrano a Massaua in mattinata, senza aver avvistato niente.
2 febbraio 1941
Pantera, Tigre e Sauro salpano in serata da Massaua per una ricerca notturna a rastrello del convoglio britannico «BN 14», partito da Aden il 1° febbraio e diretto verso nord (secondo altra fonte sarebbe partito da Suez il 2 febbraio e diretto verso sud, ma ciò sembra avere origine da una certa confusione con il contemporaneo convoglio «BS 14»), che dovranno eseguire separatamente.
Il convoglio è composto da 39 navi mercantili (le britanniche Akbar, Alavi, Anglo Canadian, City of Cardiff, City of Leicester, Comliebank, Cranfield, Esperance, Goalpara, Havre, Jaladuta, Jalavihar, Jalayamuna, Nils Moller, Nurmahal, Observer, Queen Adelaide, Rosalie Moller ed Uniwaleco, le greche Axios, Elpis, Julia, Konistra, Mina L. Cambanis, Nymphe, Petalli, Saronikos, Themoni e Zannis L. Cambanis, le norvegesi Arena, Fagersten, Kronviken, Norse Lady, Solheim e Woolgar, le panamensi Atlas e Captain A. F. Lucas, l’olandese Alcyone) scortate dall’incrociatore leggero Caledon, dal cacciatorpediniere Kingston e dagli sloops Shoreham ed Indus, quest’ultimo indiano (per altra fonte, gli sloops sarebbero stati l’Indus ed il Flamingo, ma ciò sembra di nuovo frutto di una confusione con il convoglio «BS 14»; secondo Vince O’Hara, gli sloops sarebbero stati cinque).
Come al solito, il convoglio è stato avvistato dapprima dalla stazione di vedetta di Raheita e successivamente anche da aerei da ricognizione, che ne hanno stimato la composizione in 31 navi mercantili, scortate da due incrociatori e quattro cacciatorpediniere.
Lasciata Massaua, i tre cacciatorpediniere imboccano il Canale Nord e ne escono alle 22, per poi mettere la prua verso sud.
3 febbraio 1941
Durante la notte, per la prima volta dall’azione del 20-21 ottobre 1940, il convoglio viene effettivamente intercettato dai cacciatorpediniere, a dispetto della notte illune: primo ad avvistarlo è il Sauro, che lancia il segnale di scoperta e va all’attacco silurante, senza successo.
Il segnale lanciato dal Sauro non viene captato né sul Pantera né sul Tigre, ma una decina di minuti dopo l’attacco del Sauro anche il Pantera avvista il convoglio per conto proprio, e va all’attacco a sua volta, lanciando tre siluri, anch’esso senza successo (sebbene a bordo si siano sentite delle esplosioni, che portano a ritenere di aver probabilmente colpito due mercantili). Risulterebbe anzi che le navi britanniche non si siano neanche accorte dell’attacco, come anche di quello precedente del Sauro. Il Tigre, invece, non avvista il convoglio.
Successivamente il Sauro, durante la navigazione di ritorno verso il Canale Sud di Massaua, avvista due volte quella che ritiene essere una sezione di cacciatorpediniere britannici (si tratta in realtà del solo Kingston); avendo esaurito i siluri, cerca di allontanarsi alla massima velocità, e temendo che i britannici possano aspettarlo all’alba presso l’isola di Shumma – come accaduto mesi prima al Nullo presso Harmil – informa Pantera e Tigre della propria situazione, e chiede l’intervento dell’Aeronautica da Massaua all’alba. Pantera e Tigre, ricevuto il messaggio, si dirigono a tutta forza verso la posizione del Sauro per ricongiungersi a quest’ultimo, finché non è il Sauro stesso a rassicurarli riferendo di essere giunto sotto la protezione delle batterie del Canale Sud di Massaua. Tutte e tre le unità giungeranno indenni a Massaua. Ennio Giunchi descrive così, nelle sue memorie di guerra, l’azione del 2-3 febbraio: «La stazione di vedetta di Raheita, presso Perim, ha segnalato l’ingresso nel Mar Rosso del solito grande convoglio: una trentina di piroscafi scortati da due incrociatori e quattro cacciatorpediniere. Il pomeriggio del 2 febbraio usciamo, Pantera, Tigre e Sauro, in modo da sbucare al tramonto dal canale di nord-est, presso l’isola di Harmil. Alle 22 mettiamo in rotta per la ricerca notturna a rastrello. Verso mezzanotte il Pantera naviga con la Croce del Sud un poco a dritta della prora. La falce della luna è bassa, quasi coricata orizzontalmente. “Luna seduta marinaro all’erta”, dicono i veneti navigatori, ma questa volta non è il probabile mutar del tempo che ci preoccupa. La luna pende alle nostre spalle, nella posizione più favorevole all’avvistamento da parte del nemico, ma fra poco tramonterà. Occhi ben aperti: di notte, sul mare, chi prima offende vince: tutta la vita è negli occhi. Il mare è calmo, scie fosforescenti si avventano sullo scafo: sono pesci innocenti, paiono siluri. L’acqua spartita dalla prora ricade scavando in mare crateri di luce azzurra. Vediamo noi per primi. Baldini indica qualche cosa a sinistra della prora: “Là, comandante, il convoglio”. Una macchia vaga, più scura della notte. Poi nei binocoli un’ombra si precisa, un piroscafo lungo, basso, carico: e ombre, ombre, tutto il convoglio. Ogni istante è prezioso (…) La nave ubbidisce sollecita, silenziosa, ai brevi comandi; Di Sambuy s’è accovacciato al quadro dei pulsanti che comandano i lanciasiluri: “Fuori!”, i siluri partono, con rosse vampe sbuffanti. Un attimo dopo due identiche fiammate lampeggiano al nostro traverso a sinistra; è la risposta di una silurante di scorta. Accostiamo con tutta la barra; non vediamo le scie dei siluri nemici. Poco dopo due detonazioni sorde, lontane, ci annunciano che le nostre armi hanno raggiunto il segno [in realtà, come detto, fu un’impressione errata]. Il Pantera corre guardingo, soddisfatto. Frattanto dalle intercettazioni radio apprendiamo che anche il Sauro ha avvistato e attaccato il convoglio, ha lanciato sei siluri e contato cinque esplosioni. Due cacciatorpediniere di scorta ci inseguono invano. All’alba siamo nei pressi dell’isola di El Shuma, all’imbocco del canale Sud. (…) A giorno fatto entriamo in porto, salutati alla voce dagli equipaggi delle navi alla banchina».
L’attività dei cacciatorpediniere di Massaua, a causa della crescente penuria di carburante e pezzi di ricambio, declina sempre più. Dopo questa missione, scrive Ennio Giunchi, “la nostra guerra si ridusse a subire i bombardamenti e a preparare le navi per l’ultima missione, quella senza ritorno”.
13 febbraio 1941
Quattordici aerosiluranti britannici Fairey Albacore, decollati dalla portaerei Formidable, attaccano il porto di Massaua, lanciando bombe e siluri contro il naviglio all’ancora in rada ed i cacciatorpediniere ormeggiati nel porto principale. Soltanto una nave, il piroscafo Moncalieri, viene colpita da alcune bombe, senza tuttavia affondare; le difese contraeree della base abbattono uno degli Albacore e ne danneggiano un altro, che sarà costretto ad ammarare a venti miglia da Massaua.
21 febbraio 1941
La Formidable lancia un nuovo attacco aereo contro Massaua, portato stavolta da otto Albacore decollati alle 4.20. Due degli Albacore attaccano i cacciatorpediniere all’ormeggio nel porto meridionale, altri quattro i cacciatorpediniere ormeggiati nel porto principale, mentre uno sgancia le sue bombe contro un sommergibile ormeggiato nel porto settentrionale. Contrariamente all’apprezzamento dei piloti britannici, nessuna nave italiana subisce danni. Neanche tra gli Albacore ci sono perdite; tutti appontano sulla Formidable tre ore dopo il decollo.
1° marzo 1941
Nuovo attacco aereo da parte di cinque Albacore della Formidable, che sganciano poco dopo il tramonto contro un bacino galleggiante nel porto settentrionale. Nessun danno.
 
Un’immagine del Pantera al traverso (g.c. Dante Flore via www.naviearmatori.net)
                                                                                                    
Epilogo in Mar Rosso

È questo il titolo di un libro di memorie scritto dall’allora tenente di vascello Ennio Giunchi, che prestò servizio sul Pantera come comandante in seconda dal gennaio 1941 alla sua perdita due mesi più tardi.
Imbarcato, all’inizio del conflitto, sul cacciatorpediniere Libeccio, Giunchi vi aveva prestato servizio per sei mesi, partecipando alla guerra in Mediterraneo, finché nel dicembre 1940 lo aveva inaspettatamente raggiunto un telegramma di Maripers (la Direzione del Personale della Marina) che ne disponeva il trasferimento sulla torpediniera Partenope, nel ruolo di comandante in seconda. Convocato a Roma, al Ministero della Marina, nel gennaio 1941, Giunchi aveva scoperto che sul telegramma c’era un errore relativo al nome della nave cui era stato assegnato: non la Partenope ma, appunto, il Pantera, che avrebbe raggiunto a Massaua con un volo apposito insieme ad altri ufficiali destinati in Africa Orientale. Il capitano di vascello Stanislao Esposito, in quel periodo in servizio al Ministero, nel congedarsi da Giunchi, si era espresso in tono ben poco incoraggiante sulla situazione in Africa Orientale: "Forse ci rivedremo presto… Se non trovo un capitano di vascello che voglia andare a comandare il gruppo del Mar Rosso, dovrò venirci io. Ma può darsi che non ne abbia il tempo… Scommetto che tu a Massaua troverai già gli inglesi!" (e Giunchi stesso commenta a riguardo: «Oh allora, avrei voluto chiedergli, perché mi ci manda? Ma il fare precisamente l’opposto di quello che la ragione avrebbe dettato era già la regola dell’Italia 1941 in guerra; non c’era da farci caso. Andiamo dunque a Massaua a trovare gli inglesi»).

Le pessimistiche previsioni del comandante Esposito, del resto, erano tutt’altro che campate per aria. L’Africa Orientale Italiana, circondata com’era da colonie britanniche e da mari controllati dalla Royal Navy, non aveva alcuna possibilità di essere rifornita dall’Italia, e la sua sorte in caso di una guerra prolungata contro il Commonwealth britannico era segnata. Dopo alcuni iniziali successi nell’estate del 1940 (conquista della Somalia britannica, avanzata in Kenya e Sudan), si era passati ad una situazione di stallo mentre i britannici si preparavano al contrattacco: il principio del 1941 vide l’inizio della controffensiva del Commonwealth britannico, le cui forze invasero l’Africa Orientale Italiana attaccando contemporaneamente a sud, in Somalia, ed a nord, in Eritrea. Le truppe italiane, a corto di tutto ed impossibilitate a ricevere rifornimenti, dovettero progressivamente arretrare: il crollo in Somalia fu piuttosto rapido, mentre sulle montagne dell’Eritrea, che meglio si prestavano alla difesa, si combatté aspramente per mesi.
Verso la fine del gennaio 1941 la battaglia di Agordat, nell’Eritrea settentrionale, si risolse sfavorevolmente per le truppe italiane, che dopo giorni di duri combattimenti dovettero ripiegare verso Cheren. Fu a questo punto che si iniziò a tenere seriamente in conto l’eventualità che Massaua potesse essere attaccata nel prossimo futuro.
Già da tempo il contrammiraglio Mario Bonetti, comandante superiore navale in A.O.I. (Marisupao, che proprio a Massaua aveva il suo quartier generale), stava studiando le misure da adottare per rinforzare le difese di Massaua nel caso di un’offensiva nemica, nonché la sorte che avrebbero dovuto seguire le navi ivi presenti quando la base fosse caduta. I suoi proposito a riguardo, Bonetti li espresse per la prima volta in una lettera a Supermarina del 14 gennaio 1941; dopo aver fatto presente che le difese di Massaua erano adatte a contrastare azioni aeronavali nemiche, ma non certo un attacco di terra in grande stile, l’ammiraglio esponeva i provvedimenti intrapresi per sopperire il più possibile a tale carenza e poi le sue proposte relative al destino del naviglio mercantile e militare. Queste prevedevano, tra l’altro, che i sommergibili tentassero di raggiungere il Giappone (quelli oceanici) o l’Iran (il Perla, di piccola crociera), e che il naviglio mercantile ed ausiliario venisse autoaffondato in modo tale da sottrarlo alla cattura ed al contempo ostruire con i relitti il porto di Massaua e renderlo inutilizzabile. Per il Pantera e gli altri cacciatorpediniere, il piano di Bonetti prevedeva la seguente sorte: «Uscire da Massaua passando tra le isole di Vusta e Tanan; dirigere su Porto Sudan, eseguire azioni offensive contro le sistemazioni fisse di tale porto, piroscafi, navi alla fonda; dirigere successivamente su Gedda o altro punto della costa saudiana o yemenita al limite delle acque territoriali ed affondare, previa inutilizzazione, le unità; gli equipaggi riparare in territorio neutrale». Non esisteva, del resto, alcuna alternativa: i cacciatorpediniere non avevano autonomia sufficiente per raggiungere un porto benevolmente neutrale, meno che mai amico, dunque alla caduta dell’Eritrea sarebbero stati perduti in ogni caso. Attaccando Port Sudan, avrebbero almeno avuto la possibilità di arrecare al nemico quanto più danno possibile prima di autoaffondarsi: così ragionò l’ammiraglio Bonetti, e la sua decisione venne approvata sia da Supermarina che dal vicerè d’Etiopia, Amedeo di Savoia-Aosta, comandante in capo delle forze armate italiane in Africa Orientale.
All’azione finale contro Port Sudan avrebbero dovuto partecipare, secondo l’intendimento originario dell’ammiraglio, anche la vecchia torpediniera Vincenzo Giordano Orsini, la nave coloniale Eritrea e gli incrociatori ausiliari RAMB I RAMB II, che sarebbero dovuti salpare da Massaua «possibilmente prima dei cacciatorpediniere oppure insieme» e che al termine dell’azione contro Port Sudan, se possibile, si sarebbero dovuti autoaffondare all’imboccatura di quel porto per ostruire il passaggio. Questa parte del piano, tuttavia, venne successivamente modificata; l’Eritrea e le due RAMB, dotate di autonomia sufficiente per una traversata oceanica, vennero destinate alla partenza per il Giappone, mentre per l’Orsini si decise che sarebbe rimasta a Massaua per concorrere alla difesa della piazzaforte, per poi autoaffondarvisi.

L’efficienza dei cacciatorpediniere della III e V Squadriglia era andata migliorando nel corso del febbraio 1941, grazie anche alla sempre minore attività cui erano ormai relegati a causa dalle sempre più esigue riserve di carburante: risultò così possibile concedere agli sfiniti equipaggi il riposo e le cure di cui necessitavano per ritemprare le proprie energie, mentre dall’Italia venivano fatti affluire per via aerea nuovi ufficiali per completare gli stati maggiori.
Tra gli ufficiali arrivati dall’Italia per via aerea era anche Ennio Giunchi, il cui aereo – un Savoia Marchetti S.M. 79 “regolarmente sprovvisto di armi e di paracadute” – era decollato dall’aeroporto romano del Littorio il 19 gennaio 1941, alle nove del mattino. I passeggeri erano una decina, perlopiù ufficiali: tra di essi il capitano di fregata Araldo Fadin, diretto anch’egli a Massaua per assumere il comando della III Squadriglia Cacciatorpediniere, ed un allegro pilota da caccia della Regia Aeronautica, che rassicurò i suoi compagni di viaggio annunciando di avere la sua mitragliatrice personale in valigia per il caso che fossero stati attaccati durante il volo. Poco ci mancò che l’arma non dovesse essere usata sul serio: durante il volo sul Mar Ionio, lo “Sparviero” s’imbatté in un bimotore britannico che volava tra le nuvole a quota un po’ più bassa, e che il pilota da caccia identificò come un Bristol Blenheim; il focoso aviatore estrasse la mitragliatrice dalla valigia ed invitò i compagni di viaggio a rompere un finestrino quando fossero giunti a distanza di tiro, ma per fortuna il Blenheim non si avvide della presenza dell’aereo italiano, che sarebbe stato facile preda in quelle circostanze. Lo “Sparviero” atterrò a Bengasi in serata, si rifornì di carburante e ripartì dopo mezz’ora alla volta dell’Eritrea, atterrando all’Asmara poco dopo l’alba del 20 gennaio, pochi minuti dopo la fine di un’incursione britannica su quell’aeroporto. L’accoglienza non fu delle più incoraggianti: "Il campo era deserto, solo dopo qualche minuto sbucarono di non so dove alcuni uomini che correvano guardando attorno e in alto, come chi cerchi di sbrigare presto una faccenda in cui è bene non farsi sorprendere (…) “In fretta, ragazzi!” “Avete avuto fortuna – ci spiegò uno – pochi minuti fa vi sareste trovati in pieno bombardamento” (…) I duri sobbalzi con cui ci aveva accolto la terra erano stati causati da buche scavate da bombe inglesi allora allora. “In quella buca – ce n’indicarono una – ne sono morti quattro” (…) Ma, ci dissero, in quella bella città [l’Asmara] c’erano più spie che cittadini. (…) Lo stato d’animo che dominava nella colonia era press’a poco quello che dovevamo conoscere due anni più tardi in Italia, quello di tutti i tempi e tutti i Paesi quando si sente vicina la sconfitta. Ansia, timore, speranza agitavano gli animi (…) secondo le opinioni politiche e il genere degli affari. Frattanto bisognava scampare alle bombe, che piovevano sempre più fitte e perentorie dal cielo azzurro e che, indelicate, ammazzavano i traditori non meno che i buoni cittadini". Uscendo dall’albergo in cui era alloggiato per la notte, Giunchi si sentì chiamare da un’automobile, fermatasi accanto a lui, e ne vide scendere il capitano di corvetta Mario Pouchain e l’ammiraglio Bonetti, cui fu presentato dallo stesso Pouchain. I due ufficiali lo guardarono “un po’ divertiti e, ora lo comprendevo, un po’ compassionevoli: come chi s’è già rassegnato ad un destino inevitabile ma generosamente non comprende perché altri, senza necessità, debbano compiere lo stesso sacrificio”.
Dopo una notte di riposo all’Asmara, il mattino del 21 gennaio Giunchi ed i compagni lasciarono la capitale eritrea e raggiunsero Massaua in treno. Scrive Giunchi: "Quando, dopo una curva della ferrovia, ci apparve improvviso il mare, cercai ansiosamente le navi. Vidi subito il Pantera. Non lo conoscevo, ma il nuovo “secondo” non poteva ingannarsi sull’identità della sua nave (…) Ma era scritto che io non avrei fatto il mio periodo di “secondo” alla maniera tradizionale. Quella nave che vedevo per la prima volta e che pareva così sicura e tranquilla con la sua sagoma grigia armoniosa sul bianco disordine di Massaua, aveva i giorni contati. Invece di curare amorevolmente i dettagli della sua toeletta, avrei dovuto prepararla ad affondare nel migliore dei modi". Giunto in città e raggiunta l’officina siluri di Abd el Kader, Giunchi s’imbatté nel tenente CREM Borgognoni, in precedenza imbarcato sul Libeccio, alle sue dipendenze, come capo silurista: echeggiando i precedenti scambi con Esposito, Bonetti e Pouchain, questi non poté trattenersi dall’esclamargli, prima ancora di salutarlo, “Ma che cosa è venuto a fare quaggiù? Siamo già tanti, messi a perdere in Africa; perché mandarne degli altri?”.
Lo stato maggiore “finale” del cacciatorpediniere comprendeva il capitano di vascello Andrea Gasparini, comandante; il tenente di vascello Ennio Giunchi, comandante in seconda; il capitano del Genio Navale Oreste Pasino, direttore di macchina; il sottotenente di vascello Aldo Baldini, ufficiale di rotta; il tenente di vascello Sergio Sabatini, direttore del tiro; il tenente commissario Alfonso Castellano, commissario di bordo; il sottotenente di vascello Ernesto Balbo Bertone Di Sambuy; il tenente di vascello Mario Magnolfi; il sottotenente di vascello Stupari; i sottotenenti del Genio Navale Antonio Ferrandino e Vittorio Montaretto Marullo, sottordini di macchina.
Con gli equipaggi nuovamente al completo – per la prima volta, dopo mesi durante i quali l’elevato numero di ufficiali e marinai debilitati dal caldo e dalle malattie tropicali aveva spesso costretto a far uscire soltanto alcune navi, trasferendo su di esse gli uomini abili di quelle che restavano in porto per completare equipaggi altrimenti insufficienti – i sei cacciatorpediniere rimasti furono nuovamente in grado di uscire in mare tutti insieme; inoltre, sempre per via aerea giunsero dall’Italia i pezzi di ricambio ed i materiali necessari a rimettere le unità in efficienza (almeno per quanto possibile con i mezzi disponibili in Eritrea), come le piastrine per polverizzatori dei cacciatorpediniere della V Squadriglia, che resero finalmente possibile un miglioramento della combustione nelle caldaie, eliminando il problema dell’emissione di fumo e scintille a velocità superiori ai 22 nodi. «Purtroppo», osserva la storia ufficiale dell’USMM, «tale miglioramento servì soltanto alla preparazione di una missione che aveva tutti i caratteri di un gesto disperato e che si sarebbe conclusa con la fine delle unità. Alla preparazione di tale missione peraltro comandanti, ufficiali ed equipaggi attendevano con serenità ed entusiasmo».

Ennio Giunchi (Cesena, 1911-2004), ultimo comandante in seconda del Pantera ed autore del libro di memorie “Epilogo in Mar Rosso”, qui in una foto del 1938 (da www.levitedeicesenati.it). Iscrittosi all’Accademia Navale nel 1927, nel periodo 1939-1940 prestò servizio per 21 mesi a bordo del cacciatorpediniere Libeccio, prima di essere trasferito in Mar Rosso come comandante in seconda del Pantera a inizio 1941, seguendone la sorte nell’affondamento e nel successivo internamento. Rimpatriato dall’Arabia e promosso capitano di corvetta, ebbe il comando della torpediniera Generale Carlo Montanari, autoaffondatasi in seguito all’armistizio di Cassibile; nel dopoguerra lasciò la Marina col grado di capitano di fregata e si dedicò alla professione notarile. Scrisse vari libri, di argomento navale e non solo, e fu fondatore di una rivista per ragazzi, “Orizzonti del mondo”.

In attesa dell’inevitabile, a bordo dei cacciatorpediniere condannati la vita continuava come sempre. Le ridotte scorte di carburante, munizioni e siluri precludevano ormai ulteriori attacchi contro i convogli, restando soltanto lo stretto necessario per la prevista missione finale; nella forzata inattività, gli equipaggi ammazzavano il tempo come potevano. Si trovava anche di che divertirsi, tra un attacco aereo e l’altro: Ennio Giunchi racconta nel suo “Epilogo in Mar Rosso” degli scherzi goliardici organizzati tra gli ufficiali del Pantera, soprattutto ai danni del tenente commissario Castellano (come quello in cui una capra venne rinchiusa nella cabina del malcapitato, affinché gli si avventasse addosso al momento dell’apertura della porta); o degli esperimenti ipnotici dell’ufficiale di rotta Baldini, aventi come cavie il direttore di macchina Pasino ed il direttore del tiro Sabatini. “Del resto, che fare per ammazzare il tempo e dimenticare la lunga agonia imposta dall’assurdità di ogni speranza?
In febbraio venne disposta l’evacuazione della popolazione civile di Massaua, che divenne così una città morta, abitata quasi esclusivamente dai militari: “solo lo spettacolo di vie silenziose, case serrate, rovine di bombe”. I civili se ne andarono nelle città dell’altopiano, Asmara, Ghinda, Embatkalla; i pochi esercizi commerciali, come il CIAO ed il Caffè Torino, avevano chiuso già dopo i primi bombardamenti («…Mariuccia la cassiera, Italia Morena la “celebre cantante italo-napoletana” e una povera ragazza ungherese che si contorceva in esercizi acrobatici nell’afa che faceva sudare anche a star fermi, se n’erano salite all’Asmara…»), con l’eccezione del bordello, la “casa verde” («…le abitanti della “casa verde” furono le sole donne che in ogni occasione si prodigassero, anche nel pericolo, per soccorrere le vittime dei bombardamenti; e dovevano di lì a poco, dalla banchina, porgere l’ultimo saluto bagnato di lacrime sincere alle navi che partivano senza ritorno. Dopo, diversamente da tante donne “oneste”, rifiutarono per molto tempo di allietare gli occupanti, e rimasero accanto ai prigionieri nella calura del Bassopiano…»). Ufficiali e marinai, mancando le distrazioni a terra, passavano la maggior parte del tempo a bordo delle navi; tutt’al più si scendeva a terra per fare visita alla “casa verde” o per recarsi al Comando Marina per chiacchierare del più e del meno, o per avere notizie fresche su come andava la guerra, o su questioni più frivole. Di sera, in quadrato, gli ufficiali giocavano a “Filippa”.
Occupazione meno allegra, ma necessaria in vista della prossima perdita delle unità, erano le esercitazioni di abbandono nave, ripetute con assiduità; i nocchieri si dedicavano alla manutenzione delle imbarcazioni, alla realizzazione di zattere, nonché a rivestire in tela dei fiaschi che sarebbero serviti per preservare l’acqua necessaria a raggiungere la città più vicina, marciando attraverso il deserto dell’Arabia, dopo l’autoaffondamento. Il sottotenente di vascello Stupari, ufficiale di complemento che aveva conoscenze tra gli equipaggi delle navi mercantili, riuscì ad incrementare il numero delle zattere in dotazione al Pantera prelevandole da quei bastimenti, che ormai – essendo destinati all’autoaffondamento in porto – non ne avrebbero più avuto bisogno.
Quella vita monotona era ritmata dalle incursioni aeree, più d’una ogni giorno: gli equipaggi della RAF si mostravano piuttosto abitudinari, attaccando quasi sempre alle stesse ore, provenendo sempre dalle stesse direzioni. Il personale non di turno a bordo andava a rifugiarsi in alcune gallerie scavate dagli equipaggi stessi nel terreno della "Società Coloniale Italiana fondata nel 1889". Nei momenti in cui non cadevano bombe, gli uomini s’intrattenevano fuori dal rifugio, leggendo, giocando a carte, lanciando frutti di palma dum contro una bottiglia usata a mo’ di bersaglio.
L’avvicinarsi della fine si poteva percepire attraverso il rito quotidiano del segnale orario, quando tutti sia assiepavano attorno alla radio, a sera, per ascoltare gli aggiornamenti sull’andamento delle operazioni a terra: con Cheren prossima alla caduta, era evidente che Asmara e Massaua sarebbero stati gli obiettivi successivi. “I bollettini riservati del generale Frusci parlavano ormai “del” carro armato, uno e solo: colpito e raccomodato alla bell’e meglio, ogni tanto tornava in linea. Quanto ai nostri aeroplani erano ormai poco più che un ricordo. Quanto tempo ancora…? Così ci si avvicinava alla fine; dopo la trasmissione radio interrogavamo in silenzio la carta del Mar Rosso appesa in quadrato. Un color rosa distingueva il Regno Arabo saudiano: (…) nessuno di noi conosceva l’Arabia altro che per quella carta, o per vaghe reminescenze scolastiche o romanzesche; ma negli ultimi tempi accadeva spesso di ragionarne. Interrogavamo la carta muta, quasi ad antivedere un futuro pieno di incognite paurose, celate chi sa dove in quel breve tratto di pallido azzurro che figurava il Mar Rosso: e sempre si finiva a parlar vagamente di naufragio, d’Arabia, di deserto, di Gidda [Gedda]”. Quando le navi destinate alla salvezza iniziarono a salpare per la Francia e l’Estremo Oriente – l’Eritrea il 18 febbraio, la RAMB I il 20 febbraio, la RAMB II il 22, l’Himalaya ed il Perla il 1° marzo, Archimede e Ferraris il 3 marzo, Guglielmotti il 4 – non è difficile immaginare che gli equipaggi dei cacciatorpediniere le guardassero con invidia: le loro navi, invece, “avrebbero potuto scampar la cattura solo col suicidio”.

Nel marzo 1941 entrò in scena un nuovo, inatteso attore: la Germania. Di truppe tedesche, in Africa Orientale, non ce n’erano (salvo che per un piccolo reparto di circa 150 uomini, la "Compagnia Autocarrata Tedesca", formata da volontari reclutati tra i cittadini tedeschi sorpresi dalla guerra in Africa Orientale e tra gli equipaggi dei mercantili tedeschi bloccati a Massaua); però in quel periodo la Luftwaffe aveva condotto voli di ricognizione sul porto di Suez, sulla costa egiziana del Mar Rosso (all’imbocco meridionale dell’omonimo canale), scattando numerose fotografie e rilevando la presenza di numeroso naviglio mercantile britannico in quel porto. Servendosi come tramite della Kriegsmarine, l’aeronautica tedesca fece pervenire ai comandi italiani di Massaua una singolare proposta di azione combinata: un attacco aeronavale contro Suez, che avrebbe visto la partecipazione di cacciatorpediniere italiani – la componente navale – provenienti da sud, da Massaua, e di almeno una squadriglia di bombardieri tedeschi Heinkel He 111 – la componente aerea – provenienti da nord, dagli aeroporti di Rodi, dove appunto da qualche mese erano stati dislocati reparti della Luftwaffe. A corredo della proposta, la Kriegsmarine fornì alla Regia Marina abbondante e dettagliata documentazione fotografica del porto di Suez e della concentrazione di navi mercantili ivi riscontrata: a metà mese, ricognitori tedeschi avevano fotografato una trentina di navi britanniche radunate nel Golfo di Suez, in attesa di poter attraversare il Canale.
L’impresa si presentava tutt’altro che facile: la distanza tra Massaua e Suez era di 960 miglia, e ciò escludeva a priori la partecipazione dei cacciatorpediniere classe Sauro, la cui autonomia massima era di 586 miglia a 20 nodi, e di 700 a 16 nodi. I “Leone”, viceversa, avrebbero avuto qualche possibilità: se procedendo a 20 nodi, e mantenendo una riserva di carburante sufficiente per 6 ore a tutta forza, la loro autonomia sarebbe risultata insufficiente (tra le 690 e le 750 miglia), tenendo una velocità economica di 16 nodi i grossi cacciatorpediniere della V Squadriglia avrebbero potuto allungare la propria autonomia a 1100 miglia, sufficiente dunque a raggiungere Suez. Ciò di cui si poteva dubitare era che le navi potessero coprire quella distanza, che avrebbe richiesto una cinquantina di ore di navigazione in acque controllate dal nemico, senza essere scoperte dalla ricognizione aerea britannica. Un altro problema era che le autonomie sopra descritte erano valide in condizioni di piena efficienza, ben diverse dallo stato in cui versavano i logorati cacciatorpediniere del Mar Rosso, e che in alcuni tratti della navigazione sarebbe stato giocoforza tenere comunque accese tutte le caldaie. Nondimeno, Supermarina decise di accogliere la proposta tedesca, modificando il piano originario: la sola III Squadriglia Cacciatorpediniere, dotata di minore autonomia, avrebbe attaccato Port Sudan, mentre la V Squadriglia avrebbe compiuto una sortita contro Suez prima di autoaffondarsi. I due attacchi sarebbero stati lanciati simultaneamente; i cacciatorpediniere avrebbero dovuto cannoneggiare le strutture portuali ed i depositi di carburante ed attaccare qualsiasi nave avessero incontrato.
Con le riserve di carburante in Eritrea ormai agli sgoccioli, la nave cisterna Niobe trasportò da Assab a Massaua la nafta necessaria a permettere ai sei cacciatorpediniere di compiere la loro ultima missione. Era l’ultima rimasta.

Il 29 marzo 1941 il Comando della V Squadriglia Cacciatorpediniere ricevette gli ordini per la prevista missione contro Suez: salpare da Massaua dopo il tramonto del giorno X; dirigere a tutta velocità, durante la notte, verso la costa dell’Hegiaz (Arabia Saudita), in modo da sottrarsi all’avvistamento da parte della ricognizione aerea britannica; navigare verso nord lungo la costa dell’Hegiaz nei giorni X+1 e X+2; indi imboccare lo stretto di Jubal e regolare la velocità in modo tale da trovarsi davanti a Suez alle prime luci del giorno X+3.
L’attacco contro Suez avrebbe dovuto essere portato a fondo con impiego sia dei cannoni che dei siluri, contro il naviglio all’ancora, i depositi di nafta e la locale raffineria; dopo di che, Pantera, Leone e Tigre avrebbero dovuto tentare di uscire dal Golfo di Suez per andare ad autoaffondarsi vicino alla costa dell’Hegiaz. Al comandante Gasparini fu lasciata facoltà di modificare gli ordini in base all’andamento della navigazione; se avvistato da aerei nemici, Gasparini era autorizzato a rinunciare all’attacco contro Suez ed a puntare invece su Port Sudan, da attaccare insieme alla III Squadriglia, oppure contro i pozzi petroliferi di Hurgada (Egitto).
Ma l’indomani, 30 marzo, quando tutto era pronto per la missione, proprio chi per primo aveva proposto di attaccare Suez si tirò improvvisamente indietro: la Kriegsmarine fece infatti sapere che per “impreviste nuove esigenze” la Luftwaffe non avrebbe più potuto eseguire il bombardamento di Suez, mentre avrebbe egualmente assicurato il previsto servizio di ricognizione aerea. Cionondimeno i Comandi italiani, che sulle prime erano stati piuttosto scettici sull’opportunità di questa operazione, avevano ormai preso la loro decisione: a Suez si trovavano in quel momento ben 34 mercantili, compresi due di elevato tonnellaggio, e si ritenne che un successo avrebbe potuto influire favorevolmente anche sull’offensiva lanciata in Nordafrica dalle forze italo-tedesche (operazione "Sonnemblume" per la riconquista della Cirenaica). Pertanto, si decise che la V Squadriglia Cacciatorpediniere avrebbe attaccato Suez come previsto, anche senza il concorso della Luftwaffe. Avrebbe partecipato all’operazione, con compiti però di sola ricognizione, anche la Regia Aeronautica, come richiesto da Supermarina a Superaereo.
La scelta della data fu affidata all’ammiraglio Bonetti; la sera del 31 marzo Supermarina, forse memore del gesto del comandante del Nullo Costantino Borsini, affondato volontariamente con la propria nave – che aveva voluto affondare con la sua nave nelle acque di Harmil –, inviò quest’ultimo messaggio: «Ricordate a tutti i comandanti che nell’assicurare a missione compiuta la distruzione della nave è fatto loro sacro obbligo provvedere non solo salvezza equipaggi ma anche quella di loro stessi».
Ancora da Ennio Giunchi è possibile ricavare una vivida impressione della concitazione degli ultimi giorni e dell’atmosfera che regnava a bordo del Pantera: “mancavano notizie certe sull’avanzata inglese, si parlava di autocolonne poco a nord di Massaua; nell’epoca dell’aviazione e della radio dovevamo contare solo su voci raccolte e diffuse dagli indigeni. L’idea di sbarcare i pezzi di bordo e mandarli, con gli armamenti di marinai, sul fronte terrestre era stata superata dal crollo di Cheren e dal precipitare degli eventi (…) Dopo tanto tempo per rifletterci su, all’ultimo momento ci sembrava di essere impreparati; si aveva ragione di temere che l’organizzatissimo spionaggio ci mandasse a monte la sorpresa, l’unico fattore su cui potessimo contare. Le ultime ore furono impiegate a dipingere scafo e fumaioli in modo che a distanza, la rifrazione aiutando, ci si potesse prendere per cacciatorpediniere inglesi di un tipo che sapevamo frequentare il Mar Rosso. Infatti le macchie di colore, nei mari caldi dove la rifrazione è forte, traggono facilmente in inganno anche l’occhio più esperto; ma nel caso nostro lo stratagemma sapeva più di reminescenza letteraria che di mezzo cui affidarsi con qualche speranza, poiché la ristrettezza del Mar Rosso e il perfetto servizio di informazioni nemico non avrebbero permesso agli inglesi di cadere nell’inganno. Comunque, l’imminenza della prova suprema ci aveva rianimati; tanto può sugli uomini lo spirito d’avventura, da far loro accettare con desiderio i rischi più gravi. E non è retorico affermare che, insieme allo spirito d’avventura, agiva in noi il naturale desiderio di mostrare all’avversario, che da dieci mesi poteva giocare con noi come il gatto col topo, di cosa fossero capaci i marinai italiani”.
I comandi britannici in Medio Oriente, da parte loro, si aspettavano che prima dell’imminente caduta di Massaua i cacciatorpediniere italiani avrebbero tentato un’ultima sortita contro i loro porti in Mar Rosso, ed avevano preso appropriate contromisure. Due squadriglie di aerosiluranti Fairey Swordfish erano state temporaneamente dislocate nelle basi aeree di Port Sudan (come si vedrà meglio in seguito), mentre le difese di Port Suez erano state rinforzate con il trasferimento da Alessandria dei cacciatorpediniere Janus e Jaguar e della cannoniera Aphis. Altri due cacciatorpediniere, il Griffin ed il Greyhound, furono mandati a pattugliare lo stretto di Jubal, all’imbocco del Golfo di Suez, insieme alle cannoniere Gnat e Ladybird. (Secondo altra fonte, i comandi britannici dislocarono a Suez l’incrociatore leggero Caledon ed il cacciatorpediniere Kimberley, ed a Port Sudan l’incrociatore leggero Capetown ed il cacciatorpediniere Kingston. Comunque, tutte queste unità sarebbero state poi richiamate ad Alessandria il 4 aprile, dopo che la minaccia rappresentata dai cacciatorpediniere italiani ebbe definitivamente cessato di esistere).

Con le truppe del Commonwealth ormai alle porte di Massaua, l’ammiraglio Bonetti decise di dare il via all’operazione lo stesso 31 marzo. Dopo aver lasciato passare l’ultima ricognizione aerea britannica su Massaua (che avrebbe così riferito al proprio comando che tutte le navi italiane erano in porto: ormai il sorvolo del porto da parte dei ricognitori britannici era un appuntamento abituale della giornata), la sera del 31 marzo 1941 Pantera (capitano di vascello Andrea Gasparini, caposquadriglia), Tigre (capitano di fregata Gaetano Tortora) e Leone (capitano di fregata Uguccione Scroffa) lasciarono il porto eritreo alla volta di Suez. La III Squadriglia Cacciatorpediniere, il cui viaggio verso Porto Sudan sarebbe stato molto più breve, sarebbe invece partita il giorno seguente, in modo che i due attacchi avessero luogo contemporaneamente.
L’ammiraglio Bonetti e gli ufficiali del Comando Marina di Massaua, radunati sull’estremità del molo, assistettero silenziosamente alla partenza; sulle navi, gli equipaggi erano schierati in riga sui castelli di prua, con in testa i nostromi, che fischiarono l’attenti. Sulle banchine e sul lungomare non si vedeva nessuno, avendo la maggior parte dei civili lasciato da tempo la città; “soltanto le abitanti della “casa verde” agitavano dalle finestre i loro fazzoletti”.
Tra gli ufficiali che assistettero alla partenza dei cacciatorpediniere per la loro ultima missione era forse anche il capitano di fregata Paolo Aloisi, che aveva comandato il Pantera prima di Gasparini, dallo scoppio della guerra al gennaio 1941. Alla caduta dell’Eritrea, Aloisi, rifiutando la resa, si sarebbe dato alla macchia e, come altri militari italiani in Africa Orientale, avrebbe dato inizio ad una guerriglia contro le truppe del Commonwealth, radunando attorno a sé un gruppo di uomini coi quali compì atti di sabotaggio e di spionaggio ai danni dei britannici. Questa guerriglia sarebbe cessata soltanto con la proclamazione dell’armistizio di Cassibile, nel settembre 1943: per essa, Aloisi avrebbe ricevuto una Medaglia d’Argento al Valor Militare («Dopo la caduta dell’A.O.I., benché invalido di guerra per infermità contratta in Africa, organizzava attività clandestina, riunendo attorno a sé coloro che volontariamente decidevano di contrastare l’attività del vincitore occupante con azioni di sabotaggio e di contribuire a fornire notizie alle autorità metropolitane. Nella sua azione manteneva salda la compagine dei gregari ed affrontava deliberatamente rischi di ogni specie. Dopo l’armistizio rivelava lealmente all’avversario l’attività svolta ai suoi danni e rinunciava alla libertà concessagli per seguire in campo di prigionia la sorte dei suoi gregari»).
Almeno un altro membro dell’equipaggio del Pantera rimase apparentemente a terra, per cause qui non note: il secondo capo furiere Livio Puglia, 33 anni, da La Spezia, che sarebbe stato catturato dai britannici – presumibilmente alla caduta di Massaua – e sarebbe morto in prigionia in Eritrea l’8 ottobre 1941.

Alle sei di sera i tre cacciatorpediniere erano già fuori dal porto, ed imboccarono a 18 nodi le rotte di sicurezza che avrebbero dovuto portarli fuori dall’arcipelago delle Dahlak attraverso il Canale di Nord-Est. Una volta superata l’isola di Dohul, avrebbero dovuto assumere rotta verso nord.
Acque pericolose, quelle, disseminate com’erano di secche, isolotti, scogli affioranti non sempre segnati sulle carte nautiche, a dispetto delle campagne idrografiche condotte nei decenni precedenti: Ennio Giunchi commenta in proposito che “l’unica “sicurezza” che offriva quella rotta era che soltanto la fortuna poteva evitarci di dare in secco”. E le “Belve” le avrebbero dovute attraversare di notte.
Il pericolo era accresciuto dallo stato pietoso in cui ormai versavano le strumentazioni per la navigazione dei cacciatorpediniere italiani (girobussole, bussole magnetiche, scandagli ultrasonori, solcometri «Spalazzi»). Dei tre cacciatorpediniere della V Squadriglia, il Pantera era quello in condizioni peggiori sotto questo aspetto: la girobussola era fuori uso e non riparabile, la bussola magnetica era stata messa fuori causa da un fulmine caduto a bordo, e parimenti fuori uso era il solcometro. Il Tigre era messo un po’ meglio, ma dei tre soltanto il Leone aveva tutti gli strumenti di navigazione perfettamente funzionanti: di conseguenza, contrariamente alla consuetudine che poneva in testa alla linea di fila l’unità caposquadriglia, ad aprire la formazione era il Leone, seguito dal Tigre e con il Pantera in coda, in ordine decrescente di funzionamento degli strumenti nautici.
A bordo, intanto, l’unico argomento di conversazione “consisteva nel passare in rassegna le varie ipotesi secondo le quali avrebbe potuto svolgersi l’azione contro Suez, e poi le varie, anzi poche, possibilità che ci si potevano presentare di sfuggire alla prigionia dopo l’azione; tutti evitavano di parlare dell’intervallo fra i due momenti, cioè di quel breve tempo in cui avrebbe fatto molto caldo e in cui molti di noi sarebbero stati sottratti alla prigionia in modo radicale e violento”. Il comandante Gasparini ordinò al tenente commissario Castellano di distribuire all’equipaggio tutte le rimanenze di cambusa: “tanto di lì a poco non avremmo più dovuto render conto di nulla, e tutta quella roba sarebbe in un modo o nell’altro finita ai pesci. Il poter scialare coi “generi” del Governo ignorando razioni, circolari e rendiconti era di grande soddisfazione per tutti noi e quasi ci pareva adeguato compenso alla brutta faccenda in cui ci stavamo cacciando”.
Verso le dieci di sera del 31 marzo i tre cacciatorpediniere si lasciarono al traverso a dritta le isole di Tanam, Wusta ed Isratu (nell’estremità settentrionale dell’arcipelago delle Dahlak), e intorno a mezzanotte si lasciarono al traverso anche l’isolotto di Awali Hutub. A questo punto la zona più pericolosa per la navigazione era stata superata; la V Squadriglia era entrata in acque più profonde e meno insidiose, dove poté iniziare ad incrementare gradualmente la propria velocità, fino a portarla a 24 nodi, così da potersi avvicinare a Suez con il favore della notte.
La zona più pericolosa era stata superata, tutto sembrava procedere tranquillamente, ma alle 00.30 del 1° aprile, all’improvviso, il Leone urtò violentemente uno scoglio madreporico isolato, non segnato sulle carte, circa tredici miglia a nord di Awali Hutub ed a 45 miglia da Massaua.
Così Ennio Giunchi descrive l'incaglio del Leone: "...dalla plancia del Pantera vedemmo d’un tratto il Leone, che procedeva in testa alla linea di fila, ingrandire rapidamente: gli correvamo addosso; facemmo appena in tempo ad accostare e sfilammo lungo il suo bordo di dritta. Ci segnalò che aveva dato in secco".
Pantera e Tigre, per evitare di andare addosso al Leone data la loro elevata velocità, gli passarono di lato, uno sulla dritta e l’altro sulla sinistra: nonostante fossero passati a ridottissima distanza dal Leone, i loro scandagli ultrasonori segnalarono concordemente profondità ben maggiori del limite di sicurezza. Evidentemente la roccia in cui era incappato il Leone, che giungeva fino a pochi metri dalla superficie, doveva essere una punta isolata in un tratto di acque altrimenti profonde.
Sulle prime, il Leone comunicò di ritenere di potersi accodare alla formazione per il proseguimento della missione: ma il comandante Scroffa aveva sottovalutato l’entità dei danni; esami più approfonditi mostrarono infiltrazioni d’acqua in un deposito nafta e nelle caldaie, la distorsione dell’asse dell’elica di sinistra ed anche un principio d’incendio in caldaia. Ancora Ennio Giunchi: "Parve in un primo momento che l’avaria non fosse grave. Ma alte fiamme si levarono al centro della nave, dagli osteriggi di macchina e dai fumaioli, lambendo le teste dei siluri e le riservette delle munizioni. Si decise di abbandonare la nave".
Dopo aver ricevuto questo preoccupante aggiornamento, il comandante Gasparini ordinò al Leone di dare fondo sul posto, mentre con Pantera e Tigre si ancorò nei pressi per prestare assistenza al gemello danneggiato. Per oltre tre ore l’equipaggio del Leone lottò contro gli incendi e gli allagamenti, ma non ci fu niente da fare: gli uni e gli altri divennero alla fine incontrollabili, ed a Gasparini e Scroffa non rimase che dare ordine di abbandonare ed autoaffondare la nave. Pantera e Tigre inviarono anche le loro imbarcazioni per accelerare l’evacuazione dell’equipaggio del Leone, che abbandonò la nave in buon ordine, trasbordando sugli altri due cacciatorpediniere. A dirigere il traghettamento dei naufraghi tra Leone, Pantera e Tigre fu il tenente di vascello Mario Magnolfi, che già una volta aveva dovuto assolvere un simile triste compito: prima di essere trasferito in Africa Orientale, infatti, era stato comandante in seconda della torpediniera Alcione, e nella tragica notte del 12 ottobre 1940 aveva diretto il trasbordo dell'equipaggio della gemella Airone, mortalmente danneggiata dal tiro dell'incrociatore leggero britannico Ajax.
Prima di abbandonare la nave, gli uomini del Leone avevano aperto tutte le prese a mare per provvedere all’autoaffondamento; ma alle prime luci dell’alba il cacciatorpediniere sinistrato era ancora a galla, pertanto Gasparini decise di accelerarne l’affondamento con alcune cannonate sparate dal Pantera. Colpito dalle salve del gemello, il Leone sbandò sulla dritta ed affondò verso le cinque del mattino.
Di nuovo dalle memorie di Ennio Giunchi: "Due ore dopo il Leone non era più che un relitto fiammeggiante, il suo equipaggio era in salvo sulle altre navi; il comandante Scroffa aveva preso imbarco sul Pantera, portando con sé, del suo bagaglio, solo la sciabola. Ci recammo pian piano ad ancorarci in luogo più sicuro, in attesa del giorno; non si poteva proseguire senza prima cancellare le tracce del nostro passaggio, né si poteva manovrare di notte fra gli scogli per affondare il Leone. Dopo una notte di veglia spuntò un’alba livida, fasciata di nebbia. Tornammo indietro scandagliando finché avvistammo il Leone. L’incendio si era spento, la nave vuota pareva attenderci piena di speranza, attendere i suoi uomini. Dovevamo finirla a cannonate, e ci sentivamo come chi, sperduto nel deserto senza risorse, uccide per pietà il compagno incapace di proseguire. Il Pantera aprì il fuoco, tiro teso, da poco più di mille metri. Con una specie di rabbia sorda Sabbatini metteva a segno tutti i suoi colpi: vedevamo larghi squarci aprirsi nei fianchi del Leone che, rotta la catena dell’ancora, cominciò a derivare e parve d’un tratto volersi difendere. Infatti con stupore, quasi con sgomento, vedemmo d’un tratto un tracciante di mitragliera partire dalla sua ala di plancia; il puntino luminoso fischiò sui nostri fumaioli. Forse una scheggia aveva colpito la leva di sparo dell’arma. Ma quella risposta della nave ferita ci parve un rimprovero della sua anima, alla quale noi marinai crediamo. Sospendemmo il tiro e ci allontanammo; d’un tratto il Leone parve cambiar colore, si capovolse e continuò a galleggiare con la chiglia in alto. Quando guardai di nuovo non lo vidi più".

L’incidente capitato al Leone aveva avuto anche un altro effetto deleterio, quello di far perdere diverse ore a Pantera e Tigre: il ritardo che avevano accumulato era anzi tale da non rendere più possibile il raggiungimento del previsto punto a nord di Port Sudan, necessario per non essere avvistati, con le luci del giorno, da navi od aerei britannici. Non si poteva neanche escludere che i bagliori dell’incendio del Leone fossero stati notati dai britannici. Il comandante Gasparini decise perciò di rinunciare all’attacco contro Suez e di tornare a Massaua, con l’intenzione di ripartirne successivamente insieme alla III Squadriglia per lanciare tutti insieme un attacco congiunto contro Port Sudan. Attraverso queste circostanze fortuite, così, si era di fatto tornati al piano originariamente messo a punto dall’ammiraglio Bonetti nel gennaio precedente.
Giunti a Massaua nella tarda mattinata del 1° aprile, Pantera e Tigre vi sbarcarono gli uomini del Leone, che andarono a rinforzare le difese di terra della piazzaforte che si preparavano a fronteggiare il prevedibile assalto britannico; il comandante Scroffa, tuttavia, chiese ed ottenne di poter restare sul Pantera, per poter partecipare egualmente alla missione finale contro Port Sudan.
Al ritorno in porto, gli equipaggi dei cacciatorpediniere appresero che l’Asmara era stata occupata dalle truppe britanniche.
La perdita del Leone ed il rientro a Massaua di Pantera e Tigre non erano passati inosservati: la ricognizione aerea britannica, infatti, avvistò il relitto del cacciatorpediniere, affondato in acque poco profonde, ed avvistò anche uno dei due cacciatorpediniere in rotta di rientro a Massaua.
I comandanti italiani decisero di partire da Massaua nel primo pomeriggio dell’indomani, in modo da compiere la maggior parte della navigazione nelle ore notturne – a tale scopo, durante la notte le navi avrebbero navigato alla massima velocità possibile – e giungere davanti a Port Sudan poco dopo l’alba, minimizzando la probabilità di essere avvistati. Qui, avrebbero cannoneggiato le strutture portuali e qualsiasi nave avessero trovato.
In un Mar Rosso in cui il predominio aeronavale britannico si faceva sempre più incontrastato, i cacciatorpediniere non avrebbero goduto di alcuna copertura aerea: le forze aeree dell’A.O.I. erano ormai ridotte al lumicino, l’ultimo gruppo di aerei giunti in rinforzo il 20 febbraio era stato attaccato e distrutto dalla RAF subito dopo essere atterrato.

La sosta a Massaua non durò che un giorno. All’una del pomeriggio del 2 aprile 1941 Pantera e Tigre lasciarono di nuovo la base eritrea, stavolta per sempre, alla volta di Port Sudan; un’ora più tardi uscirono in mare con analoga destinazione anche Sauro (capitano di corvetta Enrico Moretti degli Adimari), Battisti (capitano di corvetta Riccardo Papino) e Manin (capitano di fregata Araldo Fadin, caposquadriglia della III Squadriglia Cacciatorpediniere). Il comandante Gasparini del Pantera, ufficiale più alto in grado, comandava l’intera formazione.
Stavolta non ci sarebbe stato ritorno, con o senza imprevisti: il carburante rimasto era infatti sufficiente soltanto per il viaggio di andata. Del resto, anche tornando a Massaua i cacciatorpediniere non avrebbero potuto far altro che autoaffondarvisi, la caduta di quella piazzaforte era ormai questione di giorni (Cheren, dopo quasi due mesi di resistenza, era caduta proprio il 1° aprile: la strada per Massaua, per i britannici, si presentava adesso spianata). Sia in caso d’insuccesso che di insuccesso, i cacciatorpediniere del Mar Rosso avrebbero concluso quella missione sul fondo del mare.
Una volta al largo, i cacciatorpediniere assunsero rotta nordest, verso la costa sudanese. La sorpresa sfumò poco dopo la partenza: velivoli della Royal Air Force (per altra fonte, della Fleet Air Arm) decollati da Aden, infatti, avvistarono le navi non appena queste furono in franchia di Massaua (per altra fonte, a nord del porto eritreo, due ore dopo la partenza) e le bombardarono, danneggiando lievemente il Manin. Ma stavolta non si poteva più tornare indietro.
I cacciatorpediniere imboccarono il canale di Nord-Est, in modo da giungere al tramonto presso Harmil, da dove avrebbero poi fatto rotta verso Port Sudan. Scrive Ennio Giunchi: “Eravamo ormai certi che il nemico ci avrebbe aspettati al varco, predisponendo le condizioni per lui migliori. Ma ci sono dei momenti in cui si dice “o la va o la spacca”; ormai eravamo impazienti di trovarci nei guai promessi dal nuovo giorno, pur di fare qualche cosa e poi cominciare a veder chiaro nel nostro destino”.
Ci si mise anche il mare mosso da sudest, che rese difficile governare adeguatamente; anche sulla base del punto astronomico fatto in serata, a mezzanotte la rotta dovette essere modificata.
Secondo fonti britanniche, ad avvistare per primo le navi italiane fu un Bristol Blenheim del 203rd Squadron RAF, decollato da Aden, che alle 16.30 comunicò alla base di aver avvistato, due ore prima, tre grossi cacciatorpediniere usciti da Massaua, uno con rotta 0° e due con rotta 90°, aventi tutti una velocità di 20 nodi. L’orario a cui era giunto il messaggio del Blenheim rendeva impossibile tentare un attacco aereo prima che calasse il buio, pertanto il comandante degli Swordfish della Eagle trasferiti a Port Sudan, capitano di corvetta Charles Lindsay Keighly-Peach, decise di attaccare l’indomani mattina, all’alba. Al fine di individuare i cacciatorpediniere italiani il prima possibile, Keighly-Peach decise che sei Swordfish avrebbero provveduto a “rastrellare” il tratto di mare in cui presumibilmente le unità italiane si trovavano.
Durante la notte il Battisti iniziò a risentire di forti perdite d’acqua delle caldaie, che ne erosero significativamente l’autonomia: alle 3.15, di conseguenza, questo cacciatorpediniere fu autorizzato a lasciare la formazione e fare direttamente rotta verso l’Arabia Saudita, dove si sarebbe autoaffondato. Il numero degli attaccanti era così sceso a quattro. Pantera, Tigre, Sauro e Manin, suddivisi in due gruppi (ciò che restava, rispettivamente, della V e della III Squadriglia Cacciatorpediniere), proseguirono per tutta la notte verso nord, verso Port Sudan, correndo incontro al loro destino alla massima velocità ottenibile in quelle condizioni.
Secondo la storia ufficiale della Marina australiana (“Royal Australian Navy, 1939-1942”, Vol. I, Cap. 6) durante la notte tra il 2 ed il 3 aprile lo sloop australiano Parramatta, in pattugliamento al largo di Massaua, sarebbe passato a poca distanza dai cacciatorpediniere italiani, senza che nessuna delle due parti si accorgesse della presenza dell’altra (ma non si comprende, in tal caso, come sarebbe possibile sapere che questo “incontro” sia avvenuto).
All’alba del 3 aprile la nebbia aleggiava sul mare calmo e grigio, ma ciò non impedì alla ricognizione aerea di avvistare le navi italiane: le prime luci del giorno mostrarono che i cacciatorpediniere erano pedinati da due ricognitori britannici, che non li lasciarono, da quel momento in poi, neanche per un istante. Volando a bassa quota, gli aerei britannici si tenevano al di fuori del raggio delle artiglierie contraeree delle unità italiane. Secondo Ennio Giunchi, queste avevano alzato al picco “la bandiera della flotta di sua maestà britannica, ma non nutrivamo nessuna fiducia in quello stratagemma (…) e neppure nelle pennellate che avrebbero dovuto camuffarci da caccia inglesi. Sicchè alzammo senz’altro la nostra bandiera e cominciammo a sparare al ricognitore”, proseguendo lungo la rotta di atterraggio e “puntando ansiosamente i binocoli là dove avrebbe dovuto comparire il traliccio del faro di Porto Sudan”.
Ormai non mancavano che 30 miglia, delle 265 che separavano Massaua da Port Sudan.

Gli Swordfish erano decollati da Port Sudan alle prime luci dell’alba, alle 5.30 di quel mattino; li guidava personalmente il capitano di corvetta Keighly-Peach, che con il suo aereo aveva iniziato a setacciare le rotte di avvicinamento a Port Sudan. I velivoli erano sei, ciascuno dei quali armato con sei bombe da 250 libbre (113 kg), parte esplosive (con innesco regolato per scoppiare un secondo dopo l’impatto) e parte semiperforanti (con innesco regolato per scoppiare dopo 4-5 secondi). I piloti avevano l’ordine di intercettare ed attaccare le navi italiane non appena avessero ricevuto un segnale di scoperta; vennero informati di aspettarsi una reazione contraerea debole.
Le condizioni meteorologiche non erano le migliori per la ricerca delle navi italiane: cielo coperto per 8-9 decimi, con margine inferiore della copertura nuvolosa ad un’altezza compresa tra i 240 ed i 460 metri; visibilità variabile tra le due e le otto miglia; vento di nordest con velocità di 5-10 nodi.
Il primo degli Swordfish ad avvistare i cacciatorpediniere fu quello pilotato dal sottotenente di vascello James Leslie Cullen, che alle 6.10 comunicò di aver avvistato due cacciatorpediniere con rotta 170°; ma il messaggio non venne ricevuto dalla stazione radio a terra. Cullen continuò comunque a pedinare le navi italiane, ed alle 6.25 trasmise un secondo messaggio, comunicando che i due cacciatorpediniere avevano adesso assunto rotta 230° e velocità 24 nodi. Soltanto alle 6.40, però, questa informazione raggiunse gli altri Swordfish che si trovavano ancora a terra; non appena ebbero ricevuto la notizia, i comandi della base aerea radunarono gli equipaggi ed il personale di terra ed approntarono al decollo i restanti Swordfish, rifornendoli di carburante e di bombe da 250 libbre (sempre in numero di sei ciascuno).
E proprio alle 6.40 anche un secondo Swordfish, pilotato dal tenente di vascello Welham, avvistò quattro cacciatorpediniere italiani, che procedevano con rotta nord.
Intorno alle 6.30, infatti, la V Squadriglia e la III Squadriglia si erano riunite; la sezione Sauro-Manin aveva preso posizione tre miglia a poppavia della sezione Pantera-Tigre, e le quattro unità avevano proseguito insieme verso il loro obiettivo. Alle 6.55, quando ormai restavano solo 19 miglia prima di raggiungere Port Sudan, si verificò il primo attacco aereo della giornata, che costrinse i cacciatorpediniere ad intraprendere manovre evasive, cambiando rotta a più riprese. Queste manovre erano esse stesse rischiose, perché le condizioni atmosferiche avevano impedito di fare il punto in modo ragionevolmente accurato, ed ormai le quattro navi italiane erano vicine ad un tratto di mare idrograficamente pericoloso (con bassifondali rocciosi) ad est di Port Sudan. C’era il rischio di fare la fine del Leone.

Da parte britannica risulta che il primo attacco ebbe luogo alle 6.45 e fu condotto dallo Swordfish del tenente di vascello Welham, che attaccò i cacciatorpediniere provenendo dalla direzione del sole che sorgeva. Il cacciatorpediniere bersaglio delle bombe (quello che chiudeva la formazione), tuttavia, riuscì ad evitare tutti gli ordigni grazie ad una pronta accostata; il grappolo di bombe cadde in mare, a meno di trenta metri dal lato di dritta della nave.
Alle 7.05, mancando ai comandi britannici informazioni complete e precise sulla situazione in mare, decollò da Port Sudan un altro Swordfish con compiti di ricognizione, diretto verso gli approcci a quella base.
Alle 7.18, quando mancava una decina di miglia per arrivare a Port Sudan, il Pantera avvistò una massa grigiastra, avvolta dalla foschia che frequentemente compariva al largo di quelle coste nelle prime ore del mattino, a 30 gradi a proravia sinistra: fu il tenente di vascello Magnolfi a compiere per primo l’avvistamento. Manovrando immediatamente per riconoscere il nuovo arrivato, Gasparini credette di riconoscere la sagoma di un incrociatore, e fece il segnale di «nemico in vista», dapprima con le bandierine di segnalazione e poi anche per radio, aggiungendo il rilevamento delle presunte unità avversarie. Questo avvistamento fu seguito da quello di altre due navi nemiche, di poppa alla prima.
Gasparini fece il punto della situazione: «Inesatta conoscenza della posizione in zona idrograficamente pericolosa, specie verso sud. Azione aerea nemica già iniziata, con prevedibile ulteriore e maggiore sviluppo. Presenza di forze navali nemiche indubbiamente superiori per velocità ed armamento. Mancanza assoluta della sorpresa, dovuta all’esplorazione aerea nemica del pomeriggio precedente e confermata dalla presenza di aerei nemici sulle unità dalle primissime luci dell’alba. Assoluta non conoscenza della situazione delle forze navali nemiche in mare per la completa mancanza di nostra esplorazione aerea. Posizione di luce favorevole che era possibile conservare solo mantenendosi a levante delle forze nemiche avvistate». Sulla base di tutto ciò, il comandante della V Squadriglia Cacciatorpediniere decise di interrompere il riconoscimento della costa e di non tentare più l’attacco contro Port Sudan, ma di impegnare invece in combattimento le navi nemiche da poco avvistate, manovrando in modo da mantenere la posizione favorevole di luce e di imporre una rotta che permettesse ai suoi cacciatorpediniere di restare in posizione prodiera rispetto all’avversario, onde poter sfruttare appieno tutte le possibilità di impiego di artiglierie e siluri, usando tempestivamente le cortine nebbiogene.
Il comandante della III Squadriglia, capitano di fregata Araldo Fadin imbarcato sul Manin, descrisse così questi momenti nella relazione redatta al rientro dalla prigionia: «Il Pantera ed il Tigre sono a qualche miglio da noi, precisi all’appuntamento, ma con loro nella prima luce dell’alba nascente, si distinguono nettamente alti, sopra le due formazioni navali, due aerei ricognitori, e lotnano sull’orizzonte, si intravede bassa sul mare, Port Sudan. (…) Manovro per accoddarmi a tre miglia di distanza dal Tigre (…) quando improvvisamente il Pantera ed il Tigre invertono la rotta e rapidi dirigono su di noi. Ben chiare al vento della corsa, distinguo le bandiere segnalanti “attacco aereo” e “nemico in vista”. (…) Dall’alto l’attacco degli aerei, di fronte i cannoni delle batterie costiere, su di un fianco, pare, le unità navali inglesi, e dall’altro i bassifondi rocciosi. La situazione richiede pronte decisioni per sottrarsi alle numerose minacce che si addensano, e la manovra del Pantera ha certo lo scopo di non rimanere nella trappola, tanto facilmente tesa».

Alle 7.30, pertanto, Pantera, Tigre, Sauro e Manin assunsero rotta 40°, accostando per nord-nord-est e portando la velocità a 27 nodi. L’aviazione britannica, intanto, aveva scatenato un crescendo di attacchi aerei contro i cacciatorpediniere italiani: secondo la versione italiana, circa settanta aerei, tra bombardieri, aerosiluranti (armati però con bombe) e caccia, attaccavano le quattro navi in formazioni serrate di 4-5 aerei per volta; dopo aver sganciato il loro carico, i velivoli britannici potevano agevolmente raggiungere i vicini aeroporti di Porto Sudan, rifornirsi di carburante, caricare altre bombe e tornare all’attacco nel volgere di poco tempo. Tra gli attaccanti erano numerosi biplani, che il comandante Gasparini identificò come aerosiluranti tipo Vickers Vincent.
Secondo fonti britanniche, la formazione attaccante comprendeva sia aerosiluranti biplani Fairey Swordfish della Fleet Air Arm (che portavano tuttavia bombe anziché siluri), sia bombardieri bimotori Bristol Blenheim del 14th Squadron della Royal Air Force e monomotori Vickers Wellesley del 223rd Squadron RAF. Questi ultimi avevano base in Africa Orientale fin dall’inizio della guerra, mentre gli Swordfish, due squadriglie (813th e 824th Squadrons della Fleet Air Arm), facevano normalmente parte del gruppo di volo della portaerei Eagle; erano stati temporaneamente dislocati a Porto Sudan pochi giorni prima, il 25 marzo, trasferendosi in volo da Alessandria d’Egitto, appositamente per contrastare la prevedibile puntata offensiva italiana contro quella base (nell’ambito dell’operazione «Atmosphere»). La Eagle stessa, nelle intenzioni dei comandi britannici, avrebbe dovuto trasferirsi a Port Sudan per contribuire alla sua difesa, ma era trattenuta in Mediterraneo dal lancio di mine, da parte di aerei tedeschi, nel Canale di Suez, il che aveva obbligato a sospendervi ogni traffico fino al completamento delle operazioni di dragaggio. La storia ufficiale britannica (I. S. O. Playfair, “History of the Second World War: The Mediterranean and Middle East”, vol. I, cap. XVIII) afferma che gli attacchi contro i cacciatorpediniere italiani furono portati dai 17 Swordfish dell’813th e 824th Squadron F.A.A., rinforzati da cinque Blenheim del 14th Squadron RAF. Gli Swordfish erano guidati dal capitano di corvetta Keighly-Peach, che per l’azione sarebbe stato insignito dell’Order of British Empire.
Lo Swordfish decollato da Port Sudan alle 7.05 comunicò alle 7.20 (con una certa discrepanza di orario rispetto alle fonti italiane) che i cacciatorpediniere avevano assunto rotta 40°, verso il mare aperto, ed aumentato la velocità.

Sottoposte ad una pioggia di bombe da 110 e 224 kg (gli Swordfish erano armati con bombe “general purpose” da 250 libbre e con un ridotto numero di bombe semiperforanti), le navi italiane si difesero zigzagando ed aprendo un fuoco indiavolato con cannoni e mitragliere, costringendo gli aerei nemici a mantenersi a quota elevata per sganciare le loro bombe; e infatti, finché questa barriera di fuoco contraereo durò, non si ebbero danni di rilievo sui cacciatorpediniere.
Alle 7.35 lo Swordfish del tenente di vascello Sedgwick sganciò le sue bombe contro il Tigre, ma nessuno degli ordigni andò a segno; cinque minuti dopo un altro Swordfish attaccò a sua volta la medesima unità, di nuovo senza successo. I piloti britannici giudicarono il tiro contraereo italiano “intenso ma poco accurato”, e notarono che la sua intensità andava scemando dopo ogni attacco.
Sotto l’intenso ritmo di fuoco, infatti, le vecchie e logorate armi delle unità italiane iniziarono a subire un crescendo di avarie, mentre anche le scorte di munizioni andavano rapidamente diminuendo; via via che l’intensità del tiro contraereo diminuiva, i piloti britannici si facevano più audaci, scendendo sempre più di quota nel condurre i loro attacchi, che si accanivano soprattutto sull’unità in coda alla formazione, il Sauro.
Alle 7.40 decollò da Port Sudan il secondo gruppo di sei Swordfish: portatisi ad una quota di 1370 metri, i biplani assunsero rotta 85°, ma ben presto le nuvole basse e la scarsa visibilità li costrinsero a scendere di quota, abbassandosi fino a 460 metri. Uno degli aerei ebbe noie al motore, che lo costrinsero al rientro.
Verso le otto del mattino gli aerei misero a segno la loro prima bomba: ad essere colpito fu il Manin, con danni e vittime fra l’equipaggio. Riuscì tuttavia a proseguire.
Alle 8.09 decollò uno Swordfish ricognitore, pilotato dal tenente di vascello Welham, incaricato di dare il cambio al sottotenente di vascello Cullen nel pedinamento delle navi italiane. Welham aveva l’ordine di trasmettere ogni venti minuti un aggiornamento sulla posizione, rotta e velocità dei cacciatorpediniere; per prolungare la sua autonomia (doveva restare in volo fino alle 9), il suo Swordfish non aveva caricato alcuna bomba, assolvendo esclusivamente un compito di ricognizione. Il suo decollo avvenne ad un orario particolarmente azzeccato per i britannici, in quanto a partire dalle 8.15, a causa di un problema nelle comunicazioni radio, i comandi a terra non ricevettero più alcun aggiornamento circa la posizione degli italiani dal velivolo di Cullen.
Uno degli Swordfish del primo gruppo, pilotato dal sottotenente di vascello Sydney Hal Suthers, non riuscì a trovare i cacciatorpediniere, e finì anzi con lo smarrirsi; dovette tornare indietro fino alla costa sudanese per stabilire la propria posizione, dopo di che si mise in cerca del suo nemico volando controvento, il che ridusse la velocità dello Swordfish a soli 45 nodi.
Alle 8.15 uno Swordfish, uscito dalle nuvole alla quota di soli 150 metri, attaccò il cacciatorpediniere di coda, ma la salva di bombe cadde in mare una novantina di metri a poppavia del bersaglio. Cinque minuti più tardi, l’aereo del sottotenente di vascello Suthers avvistò gli Swordfish del secondo gruppo in avvicinamento, e fece loro dei segnali con la lampada Aldis, senza tuttavia avere risposta; a questo punto le navi italiane erano già a 50 miglia da Port Sudan, dirette a nordest in ordine sparso, ad alta velocità. I velivoli del secondo gruppo si portarono a 1500 metri di altezza, sfiorando il bordo inferiore della nuvolaglia, sul lato del sole.
Alle 8.58 lo Swordfish del sottotenente di vascello Cullen sganciò le sue bombe contro il cacciatorpediniere di coda; subito dopo, anche gli aerei del secondo gruppo passarono all’attacco. Primo a sganciare le sue bombe fu lo Swordfish del tenente di vascello Litam, che attaccò il Sauro; dopo di lui, alle 9.15, fu il turno del sottotenente di vascello Eric Sergeant dell’813th Squadron F.A.A., che attaccò la stessa nave.
E fu proprio Sergeant a mietere la prima vittima di quella funesta giornata: centrato in pieno dalla sua salva di bombe, il Sauro s’inabissò in meno di mezzo minuto, con la perdita di 78 dei 173 uomini dell’equipaggio.
Scrive Ennio Giunchi: “Alle 9, proprio mentre tenevo il Sauro nel campo visivo del mio binocolo, lo vidi letteralmente esplodere al centro. «Hanno colpito il Sauro», dissi al comandante Gasparini, e già la nave appariva coricata sul fianco destro, la prua impennata; un grappolo d’uomini brulicava sul castello aggrappandosi alla murata, ogni tanto qualcuno ne scivolava in mare. La nave si capovolse, scomparve. C’è una dura legge di guerra che nega alle navi valide di soccorrere quelle colpite, quando il tentativo di portar soccorso si risolverebbe certamente in nuovo maggior danno. La battaglia si spostava verso levante, il tratto di mare sul quale vedevamo col cuore i naufraghi del Sauro scomparve di poppa”.
Sia il comandante Gasparini che il comandante della III Squadriglia (ormai ridotta al solo Manin), capitano di fregata Fadin, decisero di proseguire senza fermarsi a prestare soccorso: nell’imminenza di uno scontro con navi nemiche, fermarsi a raccogliere i naufraghi del Sauro sarebbe probabilmente servito soltanto a perdere altre unità, mentre la vicinanza di Porto Sudan rendeva probabile un loro salvataggio da parte dei britannici stessi (come infatti avvenne nel tardo pomeriggio).
Gli attacchi aerei continuarono, concentrandosi adesso soprattutto sul Manin; un aereo britannico fu visto precipitare in mare, un altro allontanarsi perdendo pezzi d’ala, lasciando dietro di sé una scia di fumo nero. Il secondo cacciatorpediniere della formazione (presumibilmente il Tigre) venne attaccato alle 8.58 dallo Swordfish del tenente di vascello Murray ed alle 9.15 da quello del sottotenente di vascello Camage; entrambi sganciarono le loro bombe da circa 300 metri di altezza, ed entrambi mancarono il bersaglio. Il biplano del sottotenente di vascello Tarney attaccò anch’esso la stessa nave, ma non riuscì a sganciare le bombe; alle 8.25, allora, attaccò il cacciatorpediniere di coda (che adesso era il Manin). Stavolta le bombe caddero, ma non colpirono nulla. La reazione contraerea delle navi, nel mentre, era diventata debolissima, quasi inconsistente: ormai quasi tutte le mitragliere erano fuori uso.
Venne poi il turno dell’aereo pilotato dal guardiamarina Lawrence: questi aveva un carico bellico insolito per quella circostanza, sei bombe di profondità da 250 libbre. Scelto come bersaglio il cacciatorpediniere di testa (cioè, verosimilmente, il Pantera), Lawrence scese in picchiata da 1500 metri di quota a soli 300 metri, provenendo dalla direzione del sole, e sganciò tutte le bombe a cavallo dell’asse della nave, all’altezza della prua; ma anche questa volta nessuno degli ordigni andò a segno. E senza risultato fu anche l’attacco successivo, portato dallo Swordfish del sottotenente di vascello Timbes, che sganciò anch’esso le sue bombe dopo essere sceso da 1500 metri a 300 metri.
Alle 9.25 tutti gli Swordfish del primo e secondo gruppo avevano completato i loro attacchi: sganciate tutte le bombe, rientrarono alla base volando singolarmente. Atterrarono tutti tra le 10 e le 10.45.
Alle 9.51, intanto, era decollato da Port Sudan il terzo gruppo di Swordfish, composto da cinque aerei: a questo punto le navi di Gasparini si trovavano a 55 miglia da Port Sudan. Stante la scarsa visibilità, i cinque Swordfish mantennero una formazione a “V” allungata, in modo da “coprire” un “fronte” di circa otto miglia, volando a 270 metri di quota alla velocità di 87 nodi. Alle 10.56 gli Swordfish avvistarono due cacciatorpediniere su rilevamento 20°, ad otto miglia di distanza; a questo punto si trovavano circa cento miglia a nordest di Port Sudan, con rotta 38°. Mentre gli aerei britannici si avvicinavano per attaccare, il cacciatorpediniere di testa virò per 340°, mentre quello che prima lo seguiva proseguì per la sua rotta originaria; il terzo cacciatorpediniere non era visibile.
Alle undici del mattino le bombe britanniche mieterono la loro seconda vittima. Stavolta fu il Manin ad essere centrato ed immobilizzato, dalle bombe sganciate dall’aereo del sottotenente di vascello Suthers. Il comandante Fadin diede ordine di abbandonare ed autoaffondare la nave, cosa che avvenne a mezzogiorno. Ancora Ennio Giunchi: “Dal Pantera la vedemmo annaspare con la prora, scadere di formazione, fermarsi… finché divenne un punto indistinto all’orizzonte e scomparve. Restavano ormai solo Pantera e Tigre impegnati nel duello mortale. Le vecchie navi davano tutto nella corsa disperata, certo volevano deludere il nemico e poi morire di propria volontà, orgogliosamente”.
La III Squadriglia Cacciatorpediniere aveva cessato di esistere.

Restavano Pantera e Tigre, sui quali continuavano gli attacchi aerei. Alle 11.10 due Swordfish, pilotati dal tenente di vascello Cheeseman e dal guardiamarina Hughes, attaccarono il Tigre, che evitò le bombe con pronte manovre evasive. Alle 11.15 fu il turno dello Swordfish del tenente di vascello Sedgwick, che attaccò anch’esso il Tigre provenendo dalla direzione del sole: scese da 1220 a 300 metri per sganciare le bombe, ma il cacciatorpediniere virò bruscamente, di 30°, nella sua direzione, inducendo il pilota ad interrompere l’attacco. Sedgwick tornò poi alla carica dal lato sinistro, sganciando una salva di sei bombe contro il Tigre; ma neanche questa volta le bombe andarono a segno.
Ancora una volta, Gasparini fece il punto della situazione. Con due soli cacciatorpediniere, ritenne impossibile «qualsiasi ricerca di azione diurna»; il carburante nei serbatoi non sarebbe bastato per tornare a Massaua, e neanche per raggiungere il porto egiziano di Kosseir (Quseir), designato quale obiettivo secondario nel caso dell’inattuabilità di un attacco contro Port Sudan. Inoltre, ritenne impossibile tentare alcuna manovra che non fosse «immediatamente percepita dal nemico e quindi frustrata»; il gran numero di biplani nemici lo indusse erroneamente a ritenere che quasi certamente vi dovesse essere una portaerei nelle vicinanze.
Di conseguenza, il comandante del Pantera cambiò ancora una volta i propri piani. Pantera e Tigre avrebbero raggiunto la costa neutrale dell’Arabia Saudita, ma non per autoaffondarvisi; quanto meno, non tutti e due. Se si fosse travasata sul Pantera anche la nafta che restava al Tigre, infatti, almeno uno dei due avrebbe avuto l’autonomia sufficiente per raggiungere Kosseir: quindi Gasparini intendeva raggiungere le acque dell’Arabia, trasbordare sul Pantera tutta la nafta rimasta al Tigre, autoaffondare fuori dalle acque territoriali quest’ultimo (il cui equipaggio avrebbe raggiunto la costa saudita per farvisi internare) e poi, approfittando dell’oscurità, tentare nottetempo di eludere la sorveglianza britannica per attaccare col solo Pantera un obiettivo che risultasse raggiungibile con la nafta rimasta – Kosseir, Hurgada oppure Aqaba (Giordania).
A mezzogiorno del 3 aprile Pantera e Tigre accostarono verso est per dare attuazione al nuovo piano. Con l’allontanamento da Porto Sudan, ed il conseguente incremento della distanza che i bombardieri dovevano percorrere nel fare la spola tra le basi ed i loro bersagli, la frequenza e l’intensità degli attacchi aerei iniziò a calare. Un gruppo di aerei attaccò il Pantera su più lati simultaneamente, ma il fitto e rabbioso tiro contraereo eseguito sia con le mitragliere che con i cannoni da 120 mm, diretto dal tenente di vascello Sabatini, scompaginò la formazione attaccante, inducendo i piloti a tenersi a distanze più igieniche. Ciononostante, “una salva di bombe fu evitata proprio di misura, e cadde esattamente dove ci saremmo trovati se il comandante non avesse accostato al momento giusto”. Aerosiluranti lanciarono contro il Tigre, che evitò i siluri con la manovra.
Infine, anche gli Swordfish del terzo gruppo, avendo esaurito la loro scorta di bombe, fecero ritorno a Port Sudan: atterrarono tutti tra le 12.30 e le 12.45, ad eccezione dell’aereo di Sedgwick, che continuò a tallonare i due cacciatorpediniere superstiti. Prima di rientrare a sua volta alla base, Sedgwick comunicò l’ultima posizione di Pantera e Tigre, nonché la loro rotta (70°) e velocità (che stimò in 34 nodi, con una certa esagerazione).

Poco più tardi, “preannunciata da un improvviso mutamento di colore delle acque e poi da una collana di frangenti”, apparve alla vista la costa dell’Arabia: “una striscia di terra bassa, gialla, proprio una riga dritta da nord a sud, dietro una lieve collana di spuma”. Alle 13.50 Pantera e Tigre diedero fondo davanti a Someina, villaggio sulla costa saudita una quindicina di miglia a sud di Gedda (per altre fonti, dodici o quattordici miglia a sud di quella città). Calate le ancore a considerevole distanza dalla riva, i due cacciatorpediniere fecero i preparativi per il travaso del carburante e lo sbarco del personale in eccesso.
Ma la RAF interferì, ancora una volta, con i piani italiani.
Dopo il rientro del terzo gruppo di Swordfish, i comandi britannici di Port Sudan si resero conto che sarebbe stato inutile inviare un ulteriore gruppo di questi aerei, perché ormai i due cacciatorpediniere italiani erano al di fuori del loro raggio operativo: sarebbe stato invece necessario inviare dei bombardieri dotati di maggiore autonomia, vale a dire dei Bristol Blenheim del 14th Squadron RAF e dei Vickers Wellesley del 223rd Squadron RAF. Prevedendo che le navi italiane avrebbero cercato di raggiungere Gedda, nelle acque della neutrale Arabia Saudita, i britannici si attivarono attraverso i canali diplomatici per ottenere il permesso di poter attaccare i cacciatorpediniere anche in acque arabe; permesso che dovevano ottenere prima di far decollare i bombardieri.
Un primo gruppo di Wellesley del 223rd Squadron – cui era stato aggregato come osservatore il tenente di vascello Webb, del gruppo di volo della Eagle, per assistere nella navigazione in mare aperto – era decollato già alle 7.15, cercando i cacciatorpediniere italiani sulla base delle informazioni risalenti alle 6.25 (ossia che le navi italiane avevano rotta 230° e velocità 24 nodi), ma era rientrato senza essere riusciti a trovarli, dopo un’ora di infruttuose ricerche trascorsa senza ricevere alcun aggiornamento. Alle 8.40 un altro gruppo di Wellesley, dopo aver ricevuto informazioni più fresche su posizione (27 miglia da Port Sudan), rotta (34°) e velocità (20 nodi) delle navi italiane, decollò per intercettarle, ma dopo due ore di ricerche infruttuose il tenente di vascello Webb si rese conto che gli strumenti di navigazione di quegli aerei, pensati per operazioni “terrestri”, erano inadeguati per intercettare delle navi in alto mare: l’errore nella navigazione stimata raggiungeva le 34 miglia. Anche questo gruppo rientrò, ed alle 13.15 altri cinque bombardieri del 223rd Squadron, dopo essersi riforniti di carburante, decollarono da Port Sudan per un nuovo tentativo d’intercettazione.
Alle 14.20, mentre sul Tigre erano in corso lo sbarco di equipaggio e materiale ed i preparativi per il travaso sul Pantera della nafta, un gruppo di sette aerei che furono identificati come Vickers Vincent del 47th Squadron RAF rintracciò i due cacciatorpediniere e li attaccò ripetutamente, lanciando bombe e spezzoni e mitragliandoli a più riprese.
Dopo che questi aerei se ne furono andati, ne sopraggiunsero degli altri; e poi altri, ed altri ancora, in una sequela di attacchi pressoché ininterrotta. Pantera e Tigre erano fermi, alla fonda e circondati da secche: impossibile tentare manovre evasive, tanto più che parte dell’equipaggio del Tigre era già sbarcato, e meno che mai compiere il trasbordo della nafta. Il comandante Gasparini dovette infine gettare la spugna. Non si sarebbe compiuto nessun attacco: ormai non restava che sbarcare gli equipaggi sulla vicina costa ed autoaffondare le navi. Alle 14.45, come scrisse nel suo rapporto, Gasparini diede ordine a Pantera e Tigre «di effettuare rapidamente lo sbarco del personale e procedere all’affondamento delle unità sul posto». Prima di abbandonare la nave l’equipaggio del Pantera, così come quello del Tigre, si radunò a poppa «per salutarla con rito militare».
Si ammainarono le lance, già rifornite da tempo con scorte di provviste e barilotti d’acqua dolce, caricandovi sopra tutto il materiale che sarebbe potuto tornare utile a terra; vi furono imbarcati tra i primi gli uomini che non sapevano nuotare. Purtroppo uno di essi, “l’attendente di Magnolfi, un ragazzo piemontese timido e impacciato, al suo primo imbarco, venne chiamato a bordo per una commissione, e nel frattempo le lance scostarono senza che egli facesse a tempo a reimbarcarsi. Lo vidi che guardava il mare con una strana rassegnazione negli occhi fanciulleschi, e lo ricordo ancora così perché nessuno, a terra, doveva vederlo più”.
Si dovette infatti lamentare un disperso, tra l’equipaggio del Pantera: il marinaio Valentino De Paoli, di ventuno anni. Tuttavia, De Paoli non era piemontese, come scritto da Ennio Giunchi, bensì lombardo, di Tignale in provincia di Brescia. Non è neanche del tutto chiaro se il suo corpo sia mai stato ritrovato: l’albo dei caduti e dispersi della Marina nella seconda guerra mondiale lo indica come disperso, ma secondo la banca dati online di Onorcaduti sarebbe invece sepolto presso il Sacrario dei Caduti Oltremare di Bari.

Secondo le fonti britanniche, non furono sette Vincent del 47th Squadron, bensì i cinque Wellesley del 223rd Squadron, decollati alle 13.15, a trovare i cacciatorpediniere; questi bombardieri raggiunsero la costa saudita alle 14.28, cinque miglia a nordovest di Gedda, dopo di che virarono verso sud iniziando a cercare le navi italiane. Ben presto avvistarono Pantera e Tigre al largo della località di Ras al-Aswad, a sei miglia dalla costa; si avvicinarono volando ad una quota di 915 metri, ed il tenente di vascello Webb non tardò ad identificare entrambi i cacciatorpediniere come appartenenti alla classe Leone. Webb riferì alla base anche che gli equipaggi stavano abbandonando le navi (in realtà, in quel momento, soltanto l’equipaggio del Tigre lo stava facendo), che tuttavia non erano in affondamento; per risposta ebbe l’ordine di bombardarle. Prima di attaccare, i Wellesley girarono in cerchio sul cielo dei cacciatorpediniere per circa mezz’ora, dando agli equipaggi il tempo di completare l’evacuazione prima di bombardare le navi ormai deserte; uno dei bombardieri, tuttavia, fu colto da avarie ai motori che lo costrinsero ad un atterraggio d’emergenza sulla costa saudita, con ancora le bombe a bordo, quattro miglia più a sud. Gli altri quattro Wellesley bombardarono Pantera e Tigre una volta che gli equipaggi li ebbero abbandonati, ma nonostante l’immobilità dei bersagli e l’assenza di reazione contraerea, non misero a segno neanche una bomba.
Ennio Giunchi continua: “…i piloti inglesi dovevano avere idee chiare sulle nostre possibili intenzioni, e finché avessero visto la gente a bordo non sarebbero stati tranquilli. Stavamo tutti col naso in aria, immobili, in attesa. Ed ecco una coppia di aerei si staccò dal gruppo, puntando sulla costa, là dove erano scomparse le imbarcazioni; mentre gli altri scivolando d’ala si allargavano a ventaglio iniziando la manovra di sgancio. Una colonna d’acqua si levò a venti metri dalla prora a dritta del Pantera. Contemporaneamente raffiche di mitraglia sollevarono graziose cortine di spuma iridescente intorno al nostro scafo. Guardai il Tigre, e stranamente mi stupì lo spettacolo della sua gente che si buttava a mare. Eppure anche a noi non restava davvero altro da fare. Prese le disposizioni per l’autoaffondamento, il comandante Gasparini ordinò di abbandonare la nave. Il Mar Rosso è (…) noto per essere (…) infestato di pescicani. Su tante varietà di squali, solo cinque o sei sono antropofaghe e quelle, nel Mar Rosso, ci sono tutte. Ricordando di aver letto nei libri di Salgari che i pescicani sono miopi e distinguono solo i colori chiari, mi ero vestito di blu da capo a piedi; appesa con cura la giacca al barcarizzo, indossai la cintura di salvataggio e mi filai in mare. Si buttarono con me Di Sambuy, con in testa un casco immenso che voleva salvare, certo pensando al sole del deserto, e il comandante Scroffa. Davanti a noi il mare brulicava di naufraghi, zattere, tavole semisommerse. Ma la corrente ci disperdeva e ben presto mi trovai solo. Le lance, mitragliate in costa, chi sa quando sarebbero potute venirci incontro; frattanto bisognava risparmiare le forze e, dopo le prime svelte bracciate per allontanarmi il più possibile dalla nave, me la presi con calma. Gli Wellesley continuavano a spezzonare e mitragliare le navi, ormai deserte, e il mare intorno ai naufraghi. Volevano essere sicuri del fatto loro. Con quegli argomenti persuasivi affrettavano il nostro distacco dalle vecchie navi e ci imbrancavano a riva. “Mettetevi una buona volta in testa – parevano dirci con gli scoppi fitti petulanti e coi sibili insidiosi – che è finita e che le navi non si devono più muovere di qui”. Vedevo gli spezzoni staccarsi, assumere l’elegante traiettoria parabolica, e qualcuno mi parve venisse giù dritto proprio sulla mia testa. Invece scoppiavano tutti lontano, ma non tanto da risparmiarmi dei villani pugni allo stomaco. Qualche volta un velivolo s’abbassava, il rombo diventava un ruggito, sfrecciando a pochi metri sul mare il pilota si sporgeva e gesticolava in segno di saluto. Rispondevo d’istinto, salvo imprecare quando una raffica di mitraglia mi fischiava troppo da presso alle orecchie; del resto credo che non volessero colpirci; se avessero voluto, pochi di noi avrebbero toccato terra. Non provavo risentimento per quei nemici. Ne erano caduti tanti dal cielo di Massaia; stavolta era andata bene per loro. Provavo per tutto e per tutti, me compreso, un blando interesse, quale possono destare le vicende fittizie in un racconto cinematografico. Soltanto a momenti mi assillava improvviso il timore che un sibilo, uno scoppio mettessero fine alla mia avventura. In uno di quei momenti di pessimismo sfilai la cintura di salvataggio e, quando un apparecchio mi pareva male intenzionato, mi tuffavo sotto la cintura galleggiante. Mi prendeva allora l'oscuro sgomento dell'abisso su cui ero sospeso e per qualche eterno istante ero certo che un pescecane stesse per azzannarmi o che forze invisibili mi avrebbero tratto al fondo (...) qualche cosa si torceva in me a furia, disponendomi alla lotta, ma quando tornavo a rivedere il sole dimenticavo gli attimi d'angoscia e mi risentivo tranquillo e distratto. Finalmente i giri degli aerei si fecero più radi, ora ci sorvegliavano dall'alto e la pioggia degli spezzoni si era mutata in stillicidio. "Rivedremo la nostra Romagna!" mi giunse una voce lontana, e poi riconobbi capo Placucci, un mio conterraneo. Ero meno solo, avevo raggiunto qualche nuotatore. Uno di essi, il capo cannoniere, si lamentava quasi fosse all'estremo delle sue forze: "Non ne posso più!" e, proprio quando pareva lì lì per andar sotto, partiva come una freccia a gran bracciate da far invidia a un giovanotto. Alzando gli occhi sul mare, da qualche tempo vedevo, ancor lontane, le nostre lance che raccoglievano i naufraghi. Eravamo in acqua da molte ore e cominciavano i crampi. Finalmente, verso il tramonto, una lancia giunse anche per me e mi raccolse”.
Dopo aver sganciato le bombe, il capo formazione dei Wellesley, tenente Wilde (sul cui aereo si trovava anche il tenente di vascello Webb), decise di atterrare vicino al bombardiere che era stato costretto all’atterraggio d’emergenza, allo scopo di recuperarne l’equipaggio. Alle 15.45, pertanto, Wilde atterrò vicino all’aereo sinistrato, dopo di che ne prese a bordo l’equipaggio e tentò di decollare di nuovo; ma durante la fase di decollo su quell’instabile terreno sabbioso, l’elica del Wellesley toccò il suolo e si danneggiò irreparabilmente, impedendo all’aereo di prendere il volo. Toccò quindi ad altri due Wellesley di atterrare a loro volta nei pressi – un po’ più a sud, su terreno più solido, a sette miglia dalla costa –, seguiti alle 16.45 anche dal terzo Wellesley superstite; cinque minuti più tardi gli equipaggi dei due Wellesley danneggiati diedero fuoco ai loro aerei e raggiunsero il punto in cui erano atterrati gli altri tre, che li presero a bordo e fecero poi ritorno a Port Sudan.

Alle tre del pomeriggio sopraggiunse ancora una volta una formazione di aerei britannici, che sorvolarono Pantera e Tigre bombardando e mitragliando le navi, ma anche le loro imbarcazioni ed i naufraghi. Secondo la storia ufficiale dell’USMM, due velivoli che stavano intanto sorvolando la zona desertica che si stendeva ad est delle navi precipitarono al suolo, con esplosione delle bombe e della benzina contenuta nei serbatoi; in realtà si trattava del Wellesley costretto ad un atterraggio d’emergenza per il guasto ai motori e di quello danneggiatosi per andare in suo soccorso, cui si è accennato in precedenza. L’esplosione di bombe e benzina fu dovuta non all’impatto contro il suolo, come evidentemente credettero i naufraghi italiani che si trovavano ad alcune miglia di distanza, ma agli equipaggi stessi che, come detto, avevano dato alle fiamme i due velivoli incidentati prima di andarsene.
A dispetto dell’apertura delle prese a mare, Pantera e Tigre impiegarono parecchie ore per affondare, e nel mentre continuarono ad essere un bersaglio per i velivoli britannici, ignari del fatto che gli equipaggi li avevano ormai abbandonati. Gli attacchi aerei si protrassero fino alle 18.40; alcuni dei velivoli, dopo aver bombardato le navi ormai deserte, attaccarono isolatamente anche i naufraghi giunti sulla spiaggia, fortunatamente senza causare vittime (è probabile che, come dice Giunchi, stessero cercando soltanto di “dissuadere” i naufraghi dal tornare a bordo delle navi, e non di farne strage).
Issato a bordo della lancia, Ennio Giunchi si tolse i vestiti fradici e prese a strofinarsi con forza, ma all'improvviso sentì alcuni compagni gridare: "Là! Guardate là! Una nave!". Voltatosi, vide un cacciatorpediniere comparso da nord, da dietro una punta della costa. Erano circa le sei di sera; il cacciatorpediniere fu identificato dai naufraghi come “tipo Jervis”.
Si trattava del Kingston (capitano di corvetta Philip Somerville), inviato in cerca dei cacciatorpediniere italiani che non erano stati affondati dagli aerei.
Il 2 aprile, in seguito alla notizia che i cacciatorpediniere di Massaua erano usciti in mare con rotta verso nord, i comandi britannici avevano inviato il Kingston ed un incrociatore leggero, il Capetown, a rinforzare la scorta del convoglio BN. 22, in navigazione da Bombay (da dov’era partito il 20 marzo) a Suez (dove giunse il 7 aprile); le due navi da guerra avrebbero dovuto raggiungere il convoglio all’altezza dell’isola di Harmil, e così avevano fatto alle 23.10 di quello stesso giorno. Alle 5.40 del mattino seguente Kingston e Capetown avevano lasciato il convoglio, ma erano tornati insieme ad esso dopo essere stati informati dell’avvistamento dei cacciatorpediniere italiani nelle acque di Port Sudan; a mezzogiorno, infine, il Kingston aveva ricevuto ordine di affondare un cacciatorpediniere italiano danneggiato, segnalato in posizione 21°02’ N e 38°42’ E. Lasciato nuovamente il convoglio, il cacciatorpediniere britannico aveva raggiunto la posizione segnalata nel messaggio, ma non vi aveva trovato nessun cacciatorpediniere italiano; il comandante Somerville aveva allora deciso di cercare le navi avversarie verso Gedda, ed alle cinque del pomeriggio era stato premiato dall’avvistamento di due cacciatorpediniere italiani, immobili ed apparentemente intatti, lungo la costa saudita.
Giunto a circa 4000-5000 metri da Pantera e Tigre, ed ignaro che le navi italiane fossero ormai deserte, il Kingston aprì il fuoco contro di esse con le proprie artiglierie da 120 mm, proseguendo per alcuni minuti; il suo tiro risultò però alquanto impreciso, e soltanto una delle sue salve andò a segno, colpendo il Pantera nell’opera morta. Poi, non avendo riscontrato alcuna reazione da parte delle unità italiane, il cacciatorpediniere britannico sospese momentaneamente il tiro per serrare maggiormente le distanze; alle 17.25 sopraggiunse un Blenheim del 14th Squadron che bombardò il Tigre, che iniziò lentamente ad appopparsi. Intanto il Kingston si avvicinò ulteriormente alle navi italiane, fino a sole due miglia, dopo di che tornò ad aprire il fuoco sul Pantera, con scarsi risultati. Il sottocapo (Leading Seaman) William Davidson, del Kingston, avrebbe commentato a decenni di distanza: “Facemmo un bel po’ di tiro al bersaglio” (“We had a lot of lot of target practice”).
Dopo aver aggirato i cacciatorpediniere italiani, portandosi in una posizione a sudest rispetto ad essi, il Kingston lanciò anche un siluro che colpì il Pantera a prua, spezzando anche la catena dell’ancora. Poi se ne andò in direzione di Gedda, dove Somerville intendeva passare la notte. Di nuovo Ennio Giunchi: "...finalmente il caccia si decise e, giunto a un tremila metri, (...) cominciò a sparare sulle nostre navi. Già le navi erano perdute, ma faceva pena vederle bersagliare così indifese. Non fu quella una bella figura come esercitazione di tiro, a dir la verità; mi scusi l'ufficiale che lo dirigeva, ma Sabbatini se la sarebbe sbrigata in poche salve, al posto suo. Disperando dei suoi cannoni, il comandante inglese finì col lanciare un siluro e neppur quello fece centro: si limitò a colpire la nave sul dritto di prora, disancorandola. Poi il cacciatorpediniere girò al largo e scomparve dall'orizzonte. Chi sa che cosa avrà scritto quel comandante sul suo giornale di chiesuola".
Alle 18.40 una bomba d’aereo colpì il Pantera a centro nave, scatenando un principio d’incendio in coperta (per altra fonte, il principio d’incendio fu invece causato dal tiro del Kingston).

Non appena Giunchi ebbe messo piede a terra, un aereo britannico si lanciò in picchiata sulla spiaggia, mitragliando le imbarcazioni vuote ed inducendo tutti i presenti a gettarsi a terra; poi se ne andò. Era l'ultimo.
In totale, circa 500 naufraghi erano sbarcati qua e là nell'arco di almeno un paio di miglia, chi raggiungendo la riva a nuoto, chi sulle imbarcazioni; una volta a terra, i vari gruppi convergevano verso il punto in cui erano approdate le lance. Gli ufficiali tentarono di determinare dove si trovassero: probabilmente, a sud di Gedda; tuttavia le continue manovre compiute nelle ore di combattimento contro gli aerei impedivano di avere una certezza assoluta – forse le navi erano andate fuori rotta in quelle ore –, e se Gedda fosse stata a sud invece che a nord, i naufraghi avrebbero rischiato di marciare per decine o centinaia di miglia, con pochissima acqua, prima di raggiungere un insediamento umano. Di conseguenza, il comandante Gasparini decise di aspettare l'indomani mattina prima di mettersi in marcia. Per la notte, i naufraghi si accamparono su una duna a mezzo chilometro dalla spiaggia.
L’oscurità notturna era rischiarata dai bagliori di un incendio che ardeva sul Pantera, provocando di quando in quando degli scoppi di munizioni, e da quelli di un altro incendio che ardeva più lontano, sulla costa verso sud, forse un aereo precipitato. Poi calò una fitta foschia, proveniente dal mare aperto, e neanche i bagliori degli incendi risultarono più visibili.
Per sincerarsi che il Pantera fosse affondato, il comandante Gasparini tentò di raggiungerlo con una lancia a remi; ma nel buio più completo non riuscì ad orientarsi, e dovette tornare indietro. A riva Giunchi, per sicurezza, si era preparato ad accendere un falò per guidare l'imbarcazione nel ritorno, se si fosse allontanata troppo. Non fu necessario, e la successiva occupazione dell'ormai ex "secondo" del Pantera fu di setacciare la spiaggia, insieme ad alcuni compagni, per cercare barilotti contenenti acqua. Sulla battigia, sparso qua e là, c'era un po' di tutto: giubbotti salvagente,  vestiti bagnati, zaini svuotati, sacchi di gallette bagnati dall'acqua di mare; ed anche un vecchio maresciallo del Tigre, addormentatosi col corpo ancora per metà in acqua, che Giunchi e compagni provvidero a "tirare in secco" per evitare che la marea lo portasse al largo. In una piccola insenatura, Giunchi e gli altri trovarono un barilotto d'acqua dolce, staccatosi da una zattera: sebbene maleodorante, l'acqua risultò ancora bevibile, e venne travasata in alcuni fiaschi. Compiuta l'operazione, il gruppetto cercò di tornare verso la duna su cui si trovavano gli altri naufraghi, ma smarrì la strada nell'oscurità: dopo aver lungamente girato a vuoto e gridato invano "Pantera! Pantera!", i componenti del gruppetto si dispersero, ognuno verso quella che credeva essere la direzione giusta, e Giunchi si ritrovò da solo. Tornò sulla riva del mare, nel punto esatto in cui era approdato qualche ora prima: dalla sabbia, l'aveva già visto, affiorava uno scheletro umano, scomposto, con il cranio fracassato. Quello spettrale compagno lo faceva paradossalmente sentire meno solo ("dov'è un morto è stato indubbiamente un vivo"), e Giunchi, sfinito e stordito dagli eventi della giornata, si sdraiò con la testa su un salvagente bagnato e si addormentò, verso le tre di notte del 4 aprile 1941.

Calato il buio, e contrariamente alle decisioni iniziali, gli equipaggi dei cacciatorpediniere, divisi in gruppi, iniziarono la marcia verso Gedda, centro abitato più vicino; rimasero sulla spiaggia i comandanti Gasparini, Tortora e Scroffa ed un gruppo di loro uomini, con l’intenzione di tornare a bordo delle navi per accelerarne l’affondamento qualora l’indomani mattina si fossero trovate ancora a galla.
L’alba del 4 aprile, tuttavia, mostrò che non sarebbe stato necessario: uno dei cacciatorpediniere era del tutto scomparso, mentre la presenza dell’altro, affondato in acque relativamente basse, era indicata dagli alberi e da una piccola parte del fumaiolo di prua, che affioravano al di sopra della superficie. Quest’ultimo, come si constatò successivamente, era il Pantera, affondato in assetto di navigazione (salvo che per un leggero sbandamento sulla sinistra); il Tigre si era invece capovolto nell’affondare, ed era per questo che non ne affiorava nessuna parte.
Alle 6.30 del mattino si ripresentò sul posto il Kingston, che dopo aver constatato a sua volta l’affondamento di Pantera e Tigre mise a mare un’imbarcazione che raggiunse la riva – Gasparini ritenne per prelevare gli equipaggi dei due aerei precipitati il giorno precedente, ma in realtà questi erano già stati recuperati dagli altri aerei, come visto più sopra – e poi tornò sottobordo alla nave britannica, che la riprese a bordo e lasciò poi definitivamente la zona. Prima di andarsene, tuttavia, il Kingston recuperò dal mare anche una lancia staccatasi da uno dei due cacciatorpediniere italiani durante l’affondamento: sarebbe andata ad ingrandire la dotazione di imbarcazioni della portaerei Eagle.
Alle 9.30 un bimotore identificato come un Bristol Blenheim sorvolò ancora una volta la zona, lanciando alcune bombe contro le imbarcazioni ormeggiate sulla spiaggia. Alle dieci del mattino, dopo aver reso inutilizzabili le imbarcazioni, anche il gruppo del comandante Gasparini si mise in marcia verso Gedda, che avrebbe raggiunto dopo mezza giornata di marcia nel deserto.

Il relitto del Pantera in una foto aerea dell’aprile 1941 (g.c. STORIA militare)

Ennio Giunchi si svegliò poco prima dell’alba, e con le prime luci si rese conto che la duna che cercava era a poche centinaia di metri da dove si era addormentato: ma l’equipaggio del Pantera non c’era più, soltanto le tracce del suo passaggio. Salvagenti, zaini vuoti, fiaschi rotti, vestiti, un libro ("Le ambizioni sbagliate" di Alberto Moravia: “ecco un libro che ha fatto della strada, ma che ora non mi invita alla lettura”). Ad un tratto Giunchi sentì qualcuno gridare “Aiuto… Pantera!”: rispose, corse verso la spiaggia, gridò ancora e cercò affannosamente in tutte le direzioni, ma non riuscì a trovare nessuno, né ebbe altra risposta. Tornato sulla spiaggia – tra le dune le orme andavano in tutte le direzioni, senza che si potesse trarne alcuna indicazione sulla direzione presa dal gruppo – Giunchi s’incamminò verso sud seguendo le impronte recenti, mentre la sete iniziava a farsi sentire; dopo un po’ raggiunse finalmente un compagno, capo Placucci, seduto placidamente a fumare su una valigia. I due proseguirono insieme nella presunta direzione di Gedda, e dopo poco raggiunsero tre naufraghi del Tigre, uno dei quali debilitato e febbricitante; si diressero verso una duna, sperando di vedere dall’alto il gruppo principale, ma a quel punto apparvero dal nulla tre militari arabi, a dorso di cammello ed armati di fucile, che in breve li raggiunsero e li circondarono. “Quello che sembra il capo comincia a parlare fitto fitto, guardando ora noi ora i suoi compagni. Finché ci rivolge una parola, e questa ben chiara: “Italiani?” “Sì, italiani!” Subito gli arabi abbassano le armi, ridono, gesticolano amichevolmente”. Poi, uno dei tre fece cenno ai naufraghi di seguirlo, mentre gli altri due continuarono verso sud, forse in cerca di altri naufraghi rimasti isolati. Interrogata, la “guida” confermò che stavano andando a Gedda. Camminando, Giunchi ed i compagni videro ad un tratto il resto dell’equipaggio materializzarsi dal nulla, in marcia in lunga fila sul ciglio di una duna: di alcuni potevano anche riconoscere la sagoma; ma così com’era apparsa, all’improvviso la visione scomparve: era stato soltanto un miraggio. Il cammino proseguì, la poca acqua a disposizione dell’arabo finì; il marinaio del Tigre che aveva la febbre, esausto, crollò sulla sabbia. Il milite fece cenno ai naufraghi di riparare la sua testa dal sole, poi smontò da cammello e s’incamminò tra le dune, scomparendo: “Si comporta come se il deserto fosse una città dalle case a noi invisibili, con piazze, strade, recapiti di professionisti”. Dopo mezz’ora, infatti, ricomparve portando con sé un vecchio che sosteneva di essere un guaritore: questi cercò di prestare qualche cura al marinaio del Tigre, ma senza molto successo. Il militare, allora, fece apparire dal nulla un ragazzo che conduceva un secondo cammello: su questo venne caricato il malato, dopo di che la marcia riprese. Il gruppetto raggiunse un acquitrino (“acqua, acqua, moia, la prima parola araba che imparo”): acqua “fetida, salmastra, brulicante d’insetti: ma la sete è più forte della nausea”. Proseguendo nel cammino, i naufraghi incontrarono una famiglia del posto accampata in una tenda di pelli di capra; dal capofamiglia ricevettero dell’altra acqua (“dal sapore di cuoio e di tabacco”), e ringraziarono offrendogli delle sigarette. Poi la marcia riprese ancora una volta, e dopo un po’ anche la sete: ma finalmente apparve all’orizzonte un gruppo di costruzioni, parte in legno e parte in muratura, che si rivelò essere un presidio dell’esercito saudita. Soldati arabi, vestiti con divise verdi all’europea, offrirono ai naufraghi acqua, tè, caffè, sigarette, poi li introdussero in una baracca ove stesero stuoie e tappeti perché potessero riposare. L’avvistamento, verso nord, di un aereo britannico che volava lungo la costa destò una certa concitazione; invertì la rotta, sganciò delle bombe, poi scomparve. Dopo un po’ giunse in automobile un europeo, che si presentò come Silvio Miceli, della Legazione d’Italia in Arabia Saudita: a Giunchi e compagni spiegò che i soldati che li avevano trovati avevano fatto loro percorrere la strada più breve, attraverso il deserto, e che il gruppo principale dei naufraghi si era messo in marcia durante la notte e stava ancora camminando lungo la costa. Dopo aver parlato con i naufraghi, Miceli ripartì in automobile per cercare eventuali altri marinai che fossero rimasti isolati nel deserto, mentre Giunchi ed i compagni furono fatti salire su un malconcio autocarro che partì in direzione di Gedda. Dopo non molto il mezzo si fermò per la rottura di una balestra, ma ormai la città era in vista: era circondata da un quadrilatero di mura, con le porte vigilate da sentinelle armate; Giunchi e gli altri ottennero un passaggio da un’automobile frattanto sopraggiunta, che li portò a Gedda, scaricandoli davanti ad un edificio dove già erano radunati parecchi altri uomini di Pantera e Tigre. Gradita sorpresa, scoprirono che erano stati cucinati per loro degli spaghetti al pomodoro, che mangiarono avidamente. Un ufficiale saudita offrì ai naufraghi fette di anguria, mentre il ministro d’Italia in Arabia si aggirava con aria più che altro seccata (“penserà alle “grane” che potrà procurargli la nostra presenza in Saudia”).
Terminato il pranzo, il gruppo dei naufraghi venne trasferito in una caserma incompleta – chiamata “Chishla” – situata poco fuori dalle mura, sulla strada tra Gedda e Medina. Era il 4 aprile 1941.
Iniziavano così due anni di internamento: le autorità dell’Arabia Saudita, in quanto Paese neutrale, erano infatti tenute ad internare gli italiani, in quanto militari di un Paese belligerante, come stabilito dalle convenzioni internazionali.

In tempi migliori: il Pantera in navigazione davanti a Genova nel 1924 (Fondazione Ansaldo)

La notizia della fine dei cacciatorpediniere del Mar Rosso giunse in Italia lo stesso 3 aprile 1941, per poi essere confermata il 5 aprile dalla Legazione d’Italia a Gedda con un telespresso al Ministero degli Affari Esteri (nel quale si comunicava l’arrivo a Gedda di 601 naufraghi italiani), che a sua volta confermò l’accaduto a Supermarina ed al Ministero dell’Aeronautica.
Con l’autoaffondamento di Pantera e Tigre cessava definitivamente di esistere la flottiglia cacciatorpediniere del Mar Rosso; partiti ormai da tempo i sommergibili, le poche altre unità della Regia Marina ancora attive in Africa Orientale (le uniche che avessero un qualche valore bellico erano la vecchia torpediniera Vincenzo Giordano Orsini ed alcuni MAS, uno dei quali riuscì, poche ore prima di autoaffondarsi, a silurare l’incrociatore britannico Capetown) si autoaffondarono l’8 aprile 1941, alla caduta di Massaua, per sottrarsi alla cattura.
Il viceammiraglio Ralph Leatham, comandante in capo della East Indies Station (il Comando delle forze navali britanniche in Oceano Indiano, dal quale dipendevano anche le unità attive in Mar Rosso), descrisse nei seguenti termini, in un dispaccio inviato all’Ammiragliato il 16 luglio 1941, la fine delle forze navali italiane in Mar Rosso: «Il 1° aprile, ricevetti un rapporto proveniente dal reparto della Fleet Air Arm sbarcato dalla H.M.S. Eagle a Port Sudan, secondo cui un cacciatorpediniere italiano (il LEONE) era stato visto affondato circa 40 miglia a nordest di Massaua. La nave era stata precedentemente vista da aerei mentre era in navigazione, ed è probabile che si sia autoaffondata o che si sia incagliata. Il 3 aprile, lo stesso reparto della Fleet Air Arm avvistò quattro cacciatorpediniere italiani al largo di Port Sudan. Due di essi (NAZARIO SAURO e DANIELE MANIN) vennero colpiti da bombe ed autoaffondati. Gli altri due (PANTERA e TIHRE) si autoaffondarono sulla costa dell’Arabia Saudita, circa 20 miglia a sud di Gedda. Dei tre cacciatorpediniere o torpediniere di cui non si avevano notizie, due [Acerbi ed Orsini] vennero trovati autoaffondati quando Massaua cadde l’8 aprile, e si ritiene che il terzo [il Battisti] si sia autoaffondato sulla costa dell’Arabia Saudita. (…) Questa eliminazione delle forze navali italiane, insieme alla quasi completa distruzione delle loro forze aeree, mi ha consentito di porre fine al convogliamento di navi attraverso il Mar Rosso e pertanto di accelerare l’invio di rifornimenti in Medio Oriente, e di trasferire alla Mediterranean Fleet rinforzi di incrociatori, cacciatorpediniere, e sloops, di cui vi era urgente bisogno». L’11 aprile 1941 il presidente degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt, dichiarò il Mar Rosso aperto alla navigazione per le navi statunitensi, non essendo più una zona di guerra, ai sensi della legge sulla neutralità (Neutrality Acts) promulgata nel novembre 1939 (che vietava alle navi mercantili statunitensi di entrare in zone designate come teatro di guerra dalle autorità degli Stati Uniti); i bastimenti americani furono così in grado di trasportare rifornimenti per le forze britanniche fino a Suez.

Dopo qualche giorno, il 7 aprile, gli equipaggi di Pantera e Tigre furono raggiunti nella grande caserma da quello del Battisti, che si era anch’esso autoaffondato al largo della costa araba ma a distanza molto maggiore da Gedda (il che aveva costretto i naufraghi ad una marcia molto più lunga attraverso il deserto); cinque giorni più tardi, il 12 aprile, giunsero anche 45 naufraghi del Manin, che avevano raggiunto l’Arabia dopo una settimana di navigazione in una scialuppa, al comando del tenente di vascello Fabio Gnetti. L’arrivo dei commilitoni del Manin, ridotti in condizioni pietose dai giorni trascorsi in mare senza cibo e con poca acqua, destò grande commozione tra gli equipaggi, che dopo un momento di sconcertato silenzio corsero ad abbracciare i compagni redivivi.
Con il loro arrivo, il numero degli occupanti della caserma raggiunse le 800 unità, rendendo l’edificio piuttosto sovraffollato; di per sé, la caserma lasciava già a desiderare per il suo stato di incompiutezza, con due ali su quattro del tutto inabitabili e le altre due composte unicamente da stanze spoglie e vuote, senza cucine né servizi igienici e tanto meno porte, finestre ed intonaco.
Solo pochi locali risultavano abitabili, così gran parte dei marinai si adattò a vivere e dormire nel lungo corridoio che attraversava l’edificio. Ben poco era rimasto delle loro uniformi, ridotte, al momento dell’autoaffondamento, al minimo indispensabile per non intralciare il nuoto, e poi ulteriormente ridotte durante la marcia verso Gedda sotto il sole rovente; i più indossavano solo pantaloncini e maglietta.
Gli internati dovettero fare di necessità virtù ed arrangiarsi come poterono: uno dei locali venne trasformato in cucina, destinandovi i cuochi delle varie unità; il cibo era portato ogni giorno da fornitori arabi, che trattavano con gli ufficiali commissari (la distribuzione di cibo ed acqua, da sola, prendeva i tre quarti della giornata). Gli ufficiali dei corpi tecnici, capeggiati dal direttore di macchina Pasino del Pantera e dal suo collega del Battisti, capitano del Genio Navale Lai, crearono col poco materiale a disposizione una piccola “officina” dedita alla realizzazione di panche, tavoli ed altri oggetti necessari per le esigenze di tutti i giorni. Per dormire, dopo i primi giorni trascorsi sulla nuda terra, le autorità arabe distribuirono materassini e stuoie. Problema principale restava la mancanza di servizi igienici: per la doccia ci si arrangiò con una latta forata appesa ad un chiodo al centro del cortile, ed una stuoia a mo’ di paravento (asciugamani e sapone furono forniti dalla locale Legazione d’Italia); mentre per avere delle latrine si dovettero scavare delle fosse in due stanze ancora prive di pavimentazione, mettendo dei supporti in legno per impedire agli utilizzatori di caderci dentro. Usate quotidianamente da ottocento uomini, che ne uscivano “semiasfissiati”, le fosse assunsero ben presto “l’aspetto della palude Stigia”, nonostante si provvedesse più volte ogni giorno a svuotarle trasportandone il contenuto fuori dalla caserma per mezzo di carriole.
Altro problema era la carenza di medicinali: nei primi giorni non ci si pensò troppo, perché i malati erano ancora pochi; ma un giorno un marinaio fu colto da febbre altissima, ed i medici di bordo, Russo e Calmieri, dopo averlo visitato annunciarono al comandante Gasparini – che, come ufficiale più alto in grado, aveva assunto il comando delle ottocento anime stipate nella caserma – che aveva la malaria. Il dottor Francesco Putzolu, medico italiano presso il governo saudita (nonché maggiore medico della Regia Marina, in missione in Arabia), confermò che la caserma era ubicata in una zona malarica: problema serissimo, data la scarsità di chinino e le condizioni igienico-sanitarie tutt’altro che soddisfacenti degli internati. Gli ufficiali richiesero pertanto alle autorità arabe il trasferimento dei naufraghi in un’altra località: richiesta che incontrò il favore del governo saudita, intenzionato a sgomberare la caserma per completarla e poterla utilizzare. Fu deciso che gli italiani sarebbero stati trasferiti ad Abu Saad, un isolotto situato otto miglia a sud di Gedda (a circa un miglio e mezzo dalla costa), usato in passato come stazione di quarantena per i pellegrini diretti alla Mecca, che distava un’ottantina di chilometri da Gedda.

In preparazione del trasferimento, una commissione composta da ufficiali italiani, tra cui il comandante Gasparini ed Ennio Giunchi, fu condotta in visita ad Abu Saad dal comandante della guardia costiera araba, chiamato “Nenè” dagli italiani. Funse da interprete con quest’ultimo un bulucbasci (sergente) eritreo del Pantera, Ismail. L’isoletta, che misurava circa 130 metri in lunghezza ed 80 in larghezza, si alzava appena di pochi metri al di sopra del livello del mare, tanto che in vari tratti era presente un muretto contro l’alta marea; al centro dell’isola si trovava una sorta di piazzale di terra e pietrame, circondato da basse costruzioni con tetto a terrazza, in parte composte da un’unica stanza ed in parte da piccole stanzette, sparpagliate qua e là. Esistevano alcuni serbatoi per l’acqua distillata, malridotti dal lungo disuso. Scrive Ennio Giunchi: “[Abu Saad] è grande appena come un incrociatore, e potremmo crederci l’inutile equipaggio di una vecchia nave per sempre incagliata (…) la prima impressione di Abu Sa’ad è desolante”. Al termine della visita, gli ufficiali conclusero che nell’isola si sarebbero potuti sistemare tutt’al più metà degli internati, ed anche questo dopo aver almeno provveduto a creare dei servizi igienici, che erano del tutto inesistenti: “Nené”, tuttavia, apparentemente intenzionato a chiudere la questione il prima possibile, non accolse bene queste obiezioni. Tra lui e Gasparini, tramite il bulucbasci Ismail, si accese un vero e proprio alterco: “Nenè: «Ho ordine di trasferirvi tutti qui, in giornata, subito». Gasparini: «Impossibile: non c’è posto». Nenè: «Manderemo delle tende». Gasparini: «Niente affatto: io sono responsabile della salute dei miei uomini». Nenè, esasperato: «Ma qui ci sono stati fino a tremila pellegrini!» Gasparini, indisponente: «Per i pellegrini è meritorio fare penitenza!» Nenè, minaccioso: «Vi metteremo tutti in un campo di tende nel deserto!»”. Poi la discussione proseguì, in un crescendo, finché l’ufficiale saudita concluse che la questione avrebbe dovuto essere discussa tra il governo arabo e la legazione d’Italia.
Conclusa la visita, gli ufficiali tornarono alla caserma, dove Gasparini poté conferire con il ministro d’Italia, cui dal giorno seguente a quello dell’arrivo era stato impedito di avere rapporti diretti con gli internati. Durante il colloquio sopraggiunsero anche il governatore di Gedda ed un altro funzionario locale, venuti a verificare di persona quali fossero le condizioni degli internati; al termine dell’incontro, il governatore concordò che la situazione nella caserma era insostenibile, e spiegò che la fretta con cui si era deciso di trasferire gli italiani ad Abu Saad era stata causata dal desiderio del loro bene, pur non apparendo molto convinto che le condizioni nell’isola non sarebbero state molto migliori che nella caserma di Gedda. Ad ogni modo, spiegò, era stato raggiunto un compromesso: gli italiani non sarebbero stati tutti alloggiati ad Abu Saad, bensì in parte in quell’isola ed in parte ad El Wasta, altra isoletta di quel minuscolo arcipelago (ed anch’essa adibita in passato a lazzaretto per i pellegrini: aveva dimensioni maggiori rispetto ad Abu Saad ma minori strutture “ricettive”; in compenso aveva qualche traccia di vegetazione ed una bella spiaggia), e soltanto dopo aver migliorato le condizioni di abitabilità su di esse.
Non c’era tempo da perdere: la malaria si stava già diffondendo ad un ritmo preoccupante tra gli internati, che avevano sempre meno chinino (e medicinali in generale). L’unico modo di farne arrivare dell’altro dall’Europa era attraverso il neutrale Iraq, un viaggio di due mesi che le vicissitudini della guerra rendevano sempre più difficile. Anche le piaghe tropicali erano in aumento, e la situazione igienica delle fosse-latrine era sempre peggiore: “dalle fosse, ormai trasformate in fanghiglia ripugnante, eserciti di grossi vermi bianchicci cominciano ad invadere i corridoi e le camere; le esalazioni, a seconda del vento, ammorbano l’una o l’altra zona della caserma”. Ancora Ennio Giunchi: “ogni giorno trascorso si dissolve in un confuso ricordo quasi fantomatico, ogni giorno che sorge reca la speranza di un mutamento nel nostro stato”. I lavori di miglioramento nelle isole procedevano con lentezza, il che Indusse più di qualcuno a pensare che sarebbe stato meglio trasferirvisi quanto prima ed aiutare a completarli al più presto. “Infine, non bisogna dimenticare che siamo piovuti qua, ospiti non richiesti ed a nostro esclusivo vantaggio; non possiamo pretendere di distogliere d’un tratto questa brava gente dal suo vivere pacifico e noncurante”.
Il vitto non era certo quel che si sarebbe definito vario: riso e caprone (anzi, “riso al sugo di caprone”) ogni giorno, a pranzo e cena. I pasti venivano consumati in piedi od appoggiati ai davanzali delle finestre, usando pochi piatti di smalto usati a rotazione; ciascun internato disponeva di un cucchiaio ed un bicchiere d’alluminio. Solo a Pasqua, grazie all’intervento della legazione d’Italia, si poté gustare un pasto variegato ed abbondante: pollo, tagliatelle, dolci, uova sode tricolori, sciroppo d’arancio, il tutto fornito dalle autorità consolari italiane. A far passare il tempo contribuì qualche spettacolo della “Compagnia d’arte varia Bastingaggio”, una piccola compagnia teatrale dilettantesca formata dai marinai del Pantera quando ancora erano Massaua, dove gli spettacoli avvenivano nelle pause tra un allarme aereo e l’altro, nelle notti prive di luna, in una baracca della Società Coloniale. Tra i componenti della compagnia erano il sottotenente di vascello Baldini; il secondo capo cannoniere Luigi Caso, trentaquattrenne, barese, capo compagnia; il marinaio fuochista Nicola Vernamonte, 23 anni, di Pescara, che suonava una fisarmonica che era riuscito a portare in salvo dalla sua nave; il marinaio barbiere Antonio Olivieri, ventunenne, tenore. Nella caserma, venne eletto a palcoscenico un terrapieno racchiuso da stuoie, con tre coperte cucite insieme a fungere da sipario. Anche i militari arabi di guardia assistettero allo spettacolo, dapprima con diffidenza, poi con curiosità, infine con approvazione: “così gli Arabi conoscono le canzoni napoletane, i frizzi della Lanterna, le spacconate di Trastevere, a 20° di latitudine nord, Tropico del Cancro, a due passi dalla Città Santa”.
La pioggia, a Gedda, era rara; molto meno rare le sciroccate, in cui la città era investita per uno o due giorni da un vento forte e caldo, carico di sabbia del deserto, che s’infilava dappertutto. Ma la maggior parte dei giorni, il cielo era sereno, senza pioggia né vento.
Verso la fine di aprile giunse nella caserma di Gedda un nuovo gruppetto di italiani, tutti della Marina: tre ufficiali, un sottufficiale e tre marinai. Gli ufficiali erano il capitano di fregata Carlo Felice Albini, già comandante della III Squadriglia Cacciatorpediniere prima di Fadin; il capitano di corvetta Glauco Tabacco, comandante della Squadriglia MAS di Massaua; ed il tenente di vascello Lupi. Poco prima della caduta di Massaua l’ammiraglio Bonetti aveva dato loro facoltà di sottrarsi alla cattura, offrendo loro il suo motoscafo personale affinché potessero tentare di raggiungere l’Arabia Saudita; li aveva anche forniti di denaro e lettere di credito per le legazioni italiane dei vari Paesi del Medio Oriente, in modo che potessero raggiungere l’Italia. Con il motoscafo il gruppetto aveva attraversato il Mar Rosso e raggiunto Cunfida (Al Qunfudhah), sulla costa araba, dove i fuggiaschi speravano di poter organizzare una carovana per proseguire verso l’Italia; ma, presentatisi al locale emiro, erano stati da questi trattenuti a forza come “ospiti di riguardo” nel suo palazzo, una prigionia dorata che si era protratta per una decina di giorni e si era conclusa con la riunione di questo gruppetto con gli equipaggi dei cacciatorpediniere internati a Gedda.


Abu Saad (Jazirat Abu Sa’d, sopra) ed El Wasta (Jazirat al Wusta, sotto) come appaiono oggi nelle immagini satellitari di Google Maps. Sono visibili i resti delle costruzioni nelle quali alloggiarono gli internati italiani nel 1941-1943.


Alla fine di aprile le sistemazioni ad Abu Saad ed El Wasta erano pronte a ricevere i nuovi “ospiti”, ed i quasi ottocento italiani vennero trasferiti nelle isole da una flottiglia di sambuchi. Gli equipaggi di Pantera e Battisti, che comprendevano in tutto circa cinquecento uomini, furono sistemati ad Abu Saad (quest’isola, pur essendo leggermente più piccola di El Wasta, aveva un maggior numero di capannoni in muratura con pavimentazione regolare, ed era dunque meglio in grado di ospitare un maggior numero di uomini), mentre quello del Tigre ed il gruppo del Manin, poco meno di trecento uomini, vennero alloggiati ad El Wasta.
La maggior parte degli internati poterono trovare posto negli edifici in muratura già esistenti sulle due isole; i restanti vennero alloggiati in tende.
Fu il capitano di vascello Gasparini ad assumere il comando degli internati di Abu Saad, mentre ad El Wasta questo incarico venne assegnato al capitano di fregata Albini. I due ufficiali vollero che nelle due isole venisse mantenuta la disciplina e la routine giornaliera che sarebbe stata in vigore a bordo di una nave da guerra: lavaggio e ginnastica mattutina, rapporto, destinazione di squadre di marinai ai vari lavori, lettura dei castighi, lista di punizione, gamellino, preghiera serale e corpo di guardia, comandato da un ufficiale provvisto anche di regolamentare sciarpa azzurra.
Non a tutti questi provvedimenti piacquero, naturalmente; ma servirono a mantenere l’ordine e ad evitare che gli internati sprofondassero nell’apatia e nell’abbruttimento, oltre che a spronare gli internati a lavorare per migliorare la propria situazione, costruendo una carpenteria, una sartoria, un’officina ed una distilleria.
La sveglia avveniva la mattina presto, quando ancora l’aria era ancora un po’ fresca; di giorno picchiava il sole, ma la calura era mitigata da un forte vento che prendeva a soffiare dal largo dalle dieci di mattina. Durante l’estate il clima era sempre lo stesso: vento da nordovest di mattina, caldo soffocante nel pomeriggio, calma totale di vento ed elevatissima umidità di sera; di tanto in tanto forti raffiche di vento del deserto, rovente e sabbioso, che spazzavano via tutto quello che non era saldamente ancorato. Talvolta il vento portava con sé vere e proprie nubi di libellule, che andavano a sbattere ovunque, volando alla cieca.

Non erano, gli italiani, gli unici abitanti di Abu Saad: c’era anche un presidio di qualche decina di militari sauditi, incaricati di far loro la guardia, ed un consegnatario civile, tale Nasib, custode di un magazzino dal quale di quando in quando i marinai sottraevano furtivamente qualche oggetto che poteva tornare utile, scatenandone le ire (prontamente placate dal rimborso pagato dal commissario Castellano). Una delle figure che più spiccavano, tra i militari arabi, era il sottufficiale Abu Alì, del corpo della guardia costiera saudita: originario di Riad, era estremamente religioso, ma non disdegnava la compagnia degli internati, cui volentieri insegnava la lingua araba e forniva notizie, e per conto dei quali compiva commissioni a Gedda.
Comandante del presidio saudita era il sottotenente Mohammed Jamal, che pur essendo nativo della Mecca era molto più “cittadino” ed occidentalizzato (era stato anche a Roma, per frequentare un corso di pilotaggio), ed assai meno devoto di Abu Alì. Successivamente, nel maggio 1942, venne nominato comandante dell’accresciuta guarnigione un capitano che fu ribattezzato dagli internati “la morte in vacanza”, “perché, esile e curvo, pareva tirare il fiato a fatica, ed aveva appena un barlume di vita negli occhi infossati e spenti”; ufficiale più inflessibile del suo predecessore, applicò rigorosamente tutte le regole e divieti su cui Jamal aveva preferito lasciar correre, come quella che prevedeva che i marinai, facendo il bagno, non si allontanassero da riva di più di dieci metri. Dopo non molto tempo ci fu un nuovo avvicendamento, e “la morte in vacanza” lasciò il posto al capitano Feed Ahmed, cui i marinai appiopparono il soprannome di “D’Artagnan” per via del suo aspetto, che ricordava quello dell’eroe di Dumas. Dopo aver assistito ad una rappresentazione teatrale che sembrava essere stata di suo gradimento, il capitano Ahmed bandì ogni ulteriore spettacolo in quanto contrario alla legge coranica; ma il divieto fu ben presto abolito su spinta degli altri arabi, soldati del presidio e fornitori civili, che apprezzavano parecchio queste rappresentazioni (venivano ad assistervi da Gedda i fornitori, i loro parenti ed anche gli amici). Ahmed fu l’ultimo comandante del corpo di guardia di Abu Saad; al momento di congedarsi, si sarebbe lui stesso esibito, insieme ai suoi soldati, in una sorta di danza guerresca, “forse per farsi perdonare lo sgarbo”.
I militari del presidio vivevano in tende, piantate accanto a quelle in cui erano alloggiati gli ascari di Marina giunti insieme agli italiani; erano generalmente amichevoli ed anche loro avrebbero volentieri fraternizzato con i marinai italiani, ma gli ufficiali preferirono scoraggiare contratti troppo stretti, arrivando a scrivere nelle Norme di massima che «I rapporti dei nostri militari col personale arabo devono essere improntati a cortesia, senza tuttavia dar luogo ad alcun eccesso di intimità. Per ragioni igieniche è rigorosamente proibito al personale nazionale di entrare negli alloggi degli Arabi».

Gli internati si misero subito d’impegno per migliorare la propria sistemazione con mezzi di fortuna: vennero realizzate baracche per ufficiali e marinai, mensa, cucina, forno, persino una palestra ed un teatrino. Il capitano del Genio Navale Pasino, coadiuvato dai sottordini Ferrandino e Montaretto, riuscì a realizzare con i modesti mezzi a disposizione un’officina ed un tornio azionato da un motore ad energia eolica (che “conferisce all’isola tropicale un’aria strana di paesaggio olandese”), che furono usati dapprima per fabbricare utensili (ricavati dalle parti più disparate: una lima venne ottenuta da una balestra di automobile, pezzi di imbarcazioni furono usati come chiodi), poi pentole e stoviglie, e successivamente anche oggetti per lo svago, come delle bocce; il suo collega Lai, assistito dal suo sottordine Pisani, sovrintendeva ai servizi idrici (che consistevano nello scaricare fusti d’acqua dai sambuchi, versarne il contenuto nei serbatoi e distribuirlo tra gli internati).
Fabbri, muratori e carpentieri ripararono i malconci soffitti, pavimenti ed infissi delle costruzioni dell’isola (o li crearono dal nulla, là dove non esistevano) e fabbricarono mobili ed oggetti.
Venne anche creata una piccola scuola, con corsi sia di scuola elementare che corsi professionali: gli insegnanti erano ufficiali e sottufficiali, e tra le materie si annoveravano l’italiano, la matematica, la storia, la geografia, la scienza, alcune lingue straniere e materie professionali legate alle varie specialità della Regia Marina. In questo modo, molti internati, soprattutto tra quelli di estrazione sociale più umile, poterono sfruttare almeno in parte quel tempo “morto” per migliorare la propria istruzione. Per passare il tempo furono inoltre organizzati giochi ed attività sportive di vario genere per passare il tempo: tornei di scacchi, concorsi di enigmistica, gare di salto e di lancio, corse ed altro ancora, comprese naturalmente le rappresentazioni della compagnia teatrale “Bastingaggio”. Altri internati coltivavano piccole aiuole, tentando di trasformare la sabbia dell’isola in terra fertile con letame ottenuto da rifiuti di ogni tipo (si tentò anche di coltivare meloni); altri facevano il bagno nelle acque attorno all’isola, o si dedicavano alla ricerca di spugne, coralli e conchiglie nei fondali circostanti; altri ancora costruivano scatole o cornici di carta intrecciata, velieri in bottiglia, altri manufatti d’artigianato. Un gruppo organizzava giochi di “giro d’Italia” coi dadi o corse con palline di cera su una pista in miniatura, battezzata “circuito di Monza”.
Si allevarono anche polli e piccioni ed una varietà di animali da compagnia: un gran numero di gatti, che tornarono molto utili nella lotta contro i ratti che giungevano ad Abu Saad con le barche dei fornitori; una cagnetta, Pilla, nata a Massaua e giunta ad Abu Saad seguendo i naufraghi in tutte le loro vicissitudini, dalla missione finale all’affondamento; un cucciolo di cane, Ciciornia, anch’esso arrivato con i naufraghi da Massaua (faceva parte di una cucciolata di cinque cagnolini dati alla luce da Lola, cagna della Società Coloniale); una cagna del posto, battezzata Peppinella, selvatica e sciancata, presenza alquanto ectoplasmica (“di giorno era raro vederla, la si sentiva ululare di notte come uno sciacallo”); alcune cavie, regalate ad Ennio Giunchi da un ufficiale arabo, Hassan Kurdi, che erano tenute in un recinto; una giovanissima gazzella acquistata dal sottotenente di vascello Baldini, di sesso maschile, battezzata “Zahr el Sahara”, fiore del deserto. Quest’ultima, elegante, acrobatica e giocherellona, riscosse subito notevole popolarità tra gli internati, tanto da destare la gelosia della cagnetta Pilla, già gelosa anche delle cavie.
Crescendo, purtroppo, Zahr iniziò a sviluppare delle abitudini scomode: ingoiava qualsiasi oggetto gli capitasse sulla strada, biancheria compresa, e specialmente la carta stampata, della quale vi era grande scarsità; la popolarità della povera gazzella andò così diminuendo, finché mano ignota le ruppe una spalla con una sassata. Lo sfortunato quadrupede venne abbattuto e declassato dal ruolo di animale da compagnia a quello di bistecca.
Altro animale le cui fortune andarono declinando fu il cane Ciciornia, che aveva preso dimora stabile nei pressi delle cucine e si era abituato a mangiare così tanto da diventare obeso, oltre a mostrare scarsa socievolezza ed intelligenza: gli internati si divisero in due gruppi, chi voleva tenerlo e chi voleva cacciarlo dall’isola; alla fine prevalse l’opinione dei secondi, e Ciciornia venne esiliato a Gedda.
Anche Nasib, il consegnatario civile di Abu Saad, aveva un vecchio cane, di nome Tub: nonostante l’età avanzata, corteggiava con insistenza Pilla, finché una notte venne ucciso da ignoti.

Il 10 giugno 1941, in occasione della festa della Marina, gli internati ad Abu Saad invitarono sulla loro isola il personale della Legazione italiana e le relative famiglie, indicendo in loro onore uno spettacolo della compagnia “Bastingaggio”.
A inizio settembre 1941 la popolazione di Abu Saad si arricchì di nuovi elementi: un gruppetto di cinque militari fuggiti dall’Eritrea, occupata dai britannici, attraversando il Mar Rosso su una motolancia. L’arrivo di una motolancia che batteva bandiera italiana destò grande concitazione tra gli internati, che si assieparono sul molo in attesa del suo approdo. Scrive Ennio Giunchi: “Tutta l’isola fu a rumore: corremmo al pontile d’approdo, in tanta folla che mi parve che Abu Sa’ad, così piccolina e per noi così “nave”, dovesse sbandar di lato e scodellarci in mare. Come nelle folle trovan credito le dicerie più avventate, chi gridava per certo esser finita la guerra, chi giurava sul nostro immediato rimpatrio; ma tutti in realtà sapevamo che si trattava soltanto dell’arrivo dei profughi. Scesero dalla lancia cinque uomini sporchi, stracciati, chiome e barbe incolte. Furono applauditi, attorniati, stretti: cinque Italiani che venivano di laggiù”. Comandante del gruppetto era il sottotenente di vascello Bruno Cipriani, già comandante di batteria contraerea a Massaua: già una prima volta aveva tentato di fuggire dall’Eritrea con una zattera, ma aveva fatto naufragio nelle acque delle Isole Dahlak ed a stento era riuscito a tornare a Massaua. Qui era riuscito ad impadronirsi si una lancia, con la quale aveva attraversato il Mar Rosso insieme a quattro compagni, raggiungendo l’Arabia Saudita. Uno dei compagni, Bigontina, era un ufficiale dei bersaglieri: era stato sull’Amba Alagi insieme al duca d’Aosta; catturato alla resa di quella fortezza, nel maggio 1941, era riuscito a fuggire. Dai nuovi arrivati gli internati seppero degli ultimi giorni della difesa di Massaua, della battaglia dell’Amba Alagi, e dei naufraghi di Sauro e Manin recuperati dai britannici e mandati in prigionia in India.
Dopo questo primo gruppetto, piovvero nelle isole a più riprese altri italiani in fuga dall’ormai ex A.O.I., diretti a Gedda nella malriposta speranza che da lì si potesse proseguire per l’Italia: civili e militari di tutte le armi e di ogni grado, in piccoli gruppetti, attraversando il Mar Rosso su malconce imbarcazioni o su zattere. Alcuni dei militari si erano dati alla macchia alla caduta dell’Eritrea ed avevano aspettato il momento buono per fuggire, altri erano evasi dai campi di prigionia. La fuga era tutt’altro che semplice: bisognava trovare un’imbarcazione che tenesse il mare e delle provviste, nascondere il tutto alla sorveglianza della sospettosa polizia britannica, indi salpare dal porto di Massaua fingendosi pescatori: nel passare davanti alle vedette britanniche di guardia al faro, alcuni dei fuggiaschi si fingevano indaffarati con reti e nasse, mentre gli altri restavano nascosti sul fondo della barca. Se tutto andava bene, una volta giunti in mare aperto restava la difficoltà di una traversata compiuta da persone che per la maggior parte erano sprovviste di esperienza nautica, su fragili gusci di noce che facevano acqua dallo scafo, esposti al sole ed alle onde. I venti e le correnti facevano sì che quasi tutti i gruppi toccassero terra presso Cunfida, dove l’emiro locale – come già aveva fatto per il gruppo del comandante Albini – li colmava di onori e di premure, impedendo però loro di andarsene, per poi consegnarli alle autorità saudite, che li caricavano su camion e li spedivano a Gedda, da dove venivano poi trasferiti nelle isole. Tra i profughi civili, il personaggio più interessante era probabilmente l’esploratore e avventuriero Tullio Pastori, che dall’Etiopia, insieme all’agronomo Naborre Ferrari (entrambi avevano quasi sessant’anni), aveva viaggiato a piedi fino in Ciad nel tentativo di raggiungere l’Italia, prima di essere costretto a fare dietrofront – venendo anche arrestato come sospetta spia dalle autorità sudanesi, ma riuscendo a fuggire – ed a tornare in Eritrea, da dove aveva attraversato il Mar Rosso e raggiunto Gedda su una malridotta lancia, insieme a Ferrari e ad altri dodici uomini tra cui anche il sottotenente Laner dei meharisti. Fu assegnato all’isola di El Wasta.
Complessivamente arrivarono a Gedda sei gruppi, per un totale di circa un centinaio di profughi. C’erano ufficiali, soldati, avieri, marinai, civili; oltre alle figure già citate, altri personaggi che figuravano in questo variegato campione di umanità erano Calistri, imprenditore fiorentino; il tenente colonnello Trisolini, della Regia Aeronautica; il tenente di cavalleria Orlando; Plazi, un impiegato civile che non vedeva la sua famiglia da sette anni; il console della M.V.S.N. Ferrari, ex comandante della Milizia Forestale in A.O.I.; il già citato sottotenente Laner dei meharisti.
Ad El Wasta, il comandante Albini giunse a “militarizzare” anche questi i profughi civili, assegnando a ciascuno di essi un grado militare temporaneo stabilito sulla base della loro età e delle loro capacità, e sottoponendoli alla stessa disciplina che valeva per i militari.

Foto di gruppo di ufficiali italiani durante l’internamento in Arabia: tra di essi il capitano di fregata Carlo Felice Albini (da “Ultima missione in Mar Rosso”, di Fabio Gnetti)

A poco a poco, gli internati si dovettero abituare a quella nuova “quotidianità”.
Ogni giorno giungevano da Gedda i sambuchi dei fornitori, carichi di provviste, acqua, legna da ardere, materiali da costruzione; a trattare con loro era il tenente commissario Castellano, assistito dal sergente meccanico Fulvio Dominici. Castellano, da una stanzetta buia, piena di crepe ed infestata da topi e scarafaggi che aveva letto a “locale d’amministrazione”, dirigeva anche il lavoro di cuochi, pastai, macellai, nonché l’attività dello spaccio. Inoltre, l’ex commissario del Pantera era responsabile della tenuta della cassa e della distribuzione delle paghe. Tutte queste sue prerogative lo portavano non di rado in conflitto con il tenente di vascello Magnolfi, ufficiale al dettaglio e responsabile dei vari servizi.
Il pasto era sempre lo stesso: riso e caprone, con poche e sporadiche variazioni. Se un giorno, a causa del maltempo, i sambuchi dei fornitori non riuscivano ad arrivare, gli internati dovevano digiunare. Alcuni degli internati integravano la dieta con un po’ di pesce bollito, che pescavano oppure acquistavano dai pescatori in cambio di sigarette; ma i pesci del Mar Rosso, per quanto abbondanti nel numero, risultavano sempre stopposi ed insipidi.
Il collegamento postale tra gli internati e l’Italia era scadente e sporadico (le prime lettere giunsero nelle isole 7-8 mesi dopo l’inizio dell’internamento), pertanto, violando un divieto imposto dalle autorità saudite, gli internati riuscirono anche – per tramite della Legazione italiana in Arabia Saudita – a procurarsi una radio, con la quale si rimisero in contatto col mondo esterno: in settimana ascoltavano i bollettini di guerra, mentre di sabato trasmettevano e ricevevano notizie dalle famiglie rimaste in Italia. Quello della radio era un rito quotidiano, per il quale tutti si radunavano la sera, richiamati da una campana, attorno all’altoparlante situato nel piazzale interno. Qualche volta i parenti, senza saperlo, domandavano notizie di chi non c’era più, come la moglie del comandante in seconda del Manin, che chiedeva insistentemente notizie del marito che non sapeva essere affondato con la sua nave, senza che nessuno avesse il coraggio di dirle la verità.
I bollettini di guerra, parchi di notizie, scatenavano vivaci discussioni; gli internati cercavano di capire l’evolversi del conflitto con il poco che si poteva comprendere da quei telegrafici annunci.
Chi faceva il bagno si esponeva al pericolo degli squali, ma furono questi ultimi a finire col diventare le prede: diversi grossi pescicani (compresi degli squali tigre lunghi anche cinque metri), non molto intelligenti, si lasciarono prendere all’amo, venendo prontamente trascinati a terra, arpionati ed uccisi. Nello stomaco di uno di questi squali, aperto dopo la cattura, vennero trovati il mantello di una capra ed un pezzo di cuoio capelluto umano, con ancora attaccato un ciuffo di capelli.
Ogni piccolo evento che capitasse nelle acque attorno a Gedda calamitava l’interesse degli internati, tagliati fuori com’erano dal resto del mondo: la comparsa in rara di una nave da guerra britannica, che se ne andò dopo poche ore; notizie sulla partenza per l’Egitto del principe reale saudita Mansur, su un piroscafo britannico; il ritrovamento, un mattino, di una gran quantità di pezzi di sughero e di un libro statunitense – The Story of Canada – sulla costa di Abu Saad; il saltuario rumore di scoppi di bombe o colpi di cannone in lontananza; l’avvistamento grossi aerei che periodicamente sorvolavano le isole, provenienti dall’Africa e diretti verso Gedda; voci, portate dal comandante di uno dei sambuchi incaricati dei rifornimenti, su uno sbarco notturno di truppe indiane.

Occasionalmente ad alcuni internati era concesso di recarsi a terra a Gedda, per fare compere al mercato locale o per fare visita a qualcuno, come Ennio Giunchi, che fu invitato da Hassan Kurdi a casa propria, per conoscere la sua famiglia. Successivamente, in seguito all’intercessione della legazione d’Italia, fu concesso agli internati di recarsi periodicamente a terra, per visitare Gedda, il suo porto ed i suoi mercati (suk), in piccoli gruppi (20-30 uomini) scortati da militari sauditi armati. Per gli acquisti venivano forniti agli internati otto riyal sauditi al mese (equivalenti a 48 lire italiane dell’epoca): bastavano per comprare sapone, dentifricio e poco altro.
La Gedda del 1941 era una piccola cittadina da mille e una notte, con circa 50.000 abitanti: un porto affollato di uri e di sambuchi mercantili e militari (questi ultimi, dipinti di bianco con arabeschi verdi, ricordavano le antiche galee del Mediterraneo), dove scaricatori e funzionari si smuovevano soltanto nella rara occasione rappresentata dall’arrivo di un piroscafo; case a terrazza edificate grossolanamente in mattoni cotti e d’aspetto alquanto male in arnese (circa un terzo apparivano più o meno lesionate, molte sembravano sbilenche); piccole botteghe consistenti in un singolo vano ricavato nel muro di un edificio, davanti a cui era sparsa in disordine la merce; e suk divisi per tipologia di merci ed affollati da arabi, yemeniti, egiziani, turchi, siriani, etiopi, eritrei, sudanesi (c’erano anche alcuni greci ed ebrei, che gestivano i pochi negozi di foggia occidentale): commercianti, pastori, scaricatori e mendicanti, per non parlare dei pellegrini che da tutto il mondo passavano per Gedda diretti alla Mecca. Poche le donne visibili per le strade, e tutte rigorosamente velate. Principali esportazioni della regione erano all’epoca capre, cammelli, frutta ed henné; buoi, capre, cani e dromedari giravano per le strade, frammisti alle persone, a qualche carro trainato da vacche o da asini, ed a rari automezzi. Le strade asfaltate assommavano in tutto a duecento metri. Una città ben diversa dalla Gedda di oggi, moderna metropoli di quattro milioni di abitanti.
Le “gite” a terra degli internati finivano quasi sempre alla sede della Legazione d’Italia: “Acqua ghiacciata, poltrone comode, ventilatori. E aria d’Italia. (…) Veramente qui ci sentiamo in Italia: come se le finestre della Legazione non si affacciassero sulle vie di Gidda [Gedda] e sul deserto e sul Mar Rosso, ma su strade, campagne e marine d’Italia. «Figuratevi – ci dice il dottor Mochi – che la vostra presenza qui disturba, almeno per certi effetti, l’intera economia del Higgiàz [Hegiaz], se non di tutto il Regno. Per esempio, la fornitura di legna da ardere alle isole richiede un grande impegno di ciuchini, che debbono andare a cercar legna sempre più lontano, perché i pochi arbusti dei dintorni sono presto finiti. E con l’aumentare delle distanze aumenta in proporzione il numero dei ciuchini, con grave pregiudizio dei traffici locali; presto il governo dovrà rivolgersi allo Yemen e trasportar legna di laggiù coi sambuchi»”.
Natale e Capodanno del 1941 furono festeggiati con spettacoli teatrali, banchetti a base di montone cucinato nei modi più fantasiosi, vino (poco) ricavato dall’uva fornita agli internati insieme alla frutta.

Non mancarono i tentativi di fuga, nonostante gli ammonimenti del Comando italiano dell’isola, che temeva che siffatti tentativi avrebbero potuto mandare a monte le trattative per un rimpatrio organizzato e collettivo. La fuga via terra, da Gedda, era fuori discussione: pressoché impossibile percorrere senza mezzi adeguati centinaia di chilometri nel deserto, senza contare che in un Paese, com’era l’Arabia Saudita di allora, dove gli europei erano in tutto qualche decina, i fuggiaschi non avrebbero potuto passare inosservati. Ci fu invece chi progettò fughe via mare, con l’idea di risalire il Mar Rosso e raggiungere un tratto di costa da dove fosse possibile proseguire verso l’Italia o almeno la Libia.
Una fuga che determinò una sorta di piccolo incidente diplomatica fu quella, a inizio gennaio 1942, di un cannoniere del Battisti (che si scoprì in seguito essere mentalmente instabile), che rubò di notte l’uri (piccola imbarcazione a remi locale) di un ufficiale arabo di stanza ad Abu Saad e raggiunse a remi un piroscafo anglo-indiano, alla fonda davanti a Gedda, a bordo del quale si nascose. Scoperto poco dopo, il marinaio fu consegnato alle autorità subite, che lo rinchiusero in carcere per diversi mesi (al termine dei quali venne rimandato ad Abu Saad) e che destituirono e trasferirono altrove l’ufficiale cui aveva rubato la barca. In seguito a questo episodio, le relazioni tra il Comando italiano ed il governo arabo furono piuttosto tese per qualche tempo.
Un tentativo di fuga più ardito ed organizzato ebbe luogo nel giugno 1942: un gruppetto di civili, dopo essere riuscito a procurarsi una radio trasmittente, fabbricò una zattera con tubi di ferro e lasciò Abu Saad con l’intenzione di abbordare un sambuco arabo ormeggiato poco lontano, col quale avrebbero raggiunto l’Eritrea per poi raccogliere e trasmettere clandestinamente in Italia informazioni sulla situazione delle truppe britanniche. Il tentativo non andò a buon fine, perché una sentinella araba avvistò la zattera quando questa era ancora a metà strada tra l’isola ed il sambuco, ed iniziò a sparare: perduta la sorpresa, i fuggitivi gettarono in mare la radio e se ne tornarono indietro. Dopo qualche giorno in cella a Gedda, furono rimandati nell’isola.
Anche Ennio Giunchi, insieme ad alcuni compagni, progettò un tentativo del genere, procurandosi carte e portolani del Mar Rosso, del Golfo Persico e dell’Oceano Indiano, studiando i regimi monsonici e prendendo contatti a Gedda per ottenere un sambuco e dei viveri (per questi ultimi, offrì il proprio contributo anche il tenente commissario Castellano); ma alla fine il piano non poté avere attuazione.
In definitiva, l’unico concreto risultato di questi tentativi di fuga fu di indurre le autorità saudite ad aumentare la composizione numerica del corpo di guardia delle isole, che crebbe da una decina di soldati ad un centinaio; ma i rapporti tra questi e gli internati che dovevano sorvegliare rimasero comunque piuttosto rilassati.

Nel febbraio 1942 gli internati di Gedda rimasero privi della protezione diplomatica: dietro pressioni britanniche, infatti, le autorità saudite imposero alla Legazione italiana di lasciare il Paese. La partenza del personale italiano avvenne l’8 febbraio; prima di andarsene il meccanico della Legazione, stabilitosi da molti anni in Medio Oriente, regalò agli internati la sua piccola biblioteca personale: ne facevano parte tra l’altro libri di Édouard Schuré, Johann Nordmann, Eduard von Keyserling, Armand Carrel ed altri.
Una conseguenza della soppressione della Legazione italiana fu che agli internati nelle isole venne revocata la facoltà di recarsi a terra, salvo casi eccezionali. La tutela degli internati venne delegata, da quel momento, all’incaricato d’affari della Turchia, che però non destò una grande impressione: vendette loro clandestinamente del prosciutto, che risultò poi essere avariato. Successivamente giunse a Gedda un ministro di Turchia, con la moglie ed il suo gattino (che fu affidato ai medici italiani per una delicata operazione). Da ripetuti incontri tra i funzionari turchi ed il comandante Gasparini iniziò gradatamente a prender vita un progetto per il rimpatrio degli internati, o quanto meno di quelli più anziani e dei malati, mediante trattative in cui la neutrale Turchia avrebbe potuto fungere da mediatrice; si discusse inoltre la situazione dei civili, che a differenza dei militari, in base alle convenzioni internazionali, avrebbero avuto il diritto di riprendere il mare, a proprio rischio e pericolo.
Il 21 marzo 1942 giunse in visita nelle isole un delegato svizzero della Croce Rossa Internazionale, che dopo aver mangiato delle patate dolci fritte in olio di semi, disse che in Europa non se ne trovavano più da tempo: Ennio Giunchi, però, osserva che “dal suo florido aspetto non si sarebbe detto che in Europa si vivesse peggio che ad Abu Saad”.

A fine giugno 1942 giunse la notizia che erano iniziate trattative per il rimpatrio di tutti gli internati, una sorta di scambio a tre (anzi, a quattro): la Turchia aveva contattato i governi italiano e britannico, proponendo che il primo rilasciasse un numero di militari britannici prigionieri in Italia equivalente a quello degli italiani internati in Arabia, e che in cambio il secondo, che controllava tutte le terre ed i mari circostanti, permettesse a questi ultimi di rientrare in Italia. Era stato soprattutto il governo dell’Arabia Saudita a fare ripetutamente pressione su quello britannico affinché si trovasse un’intesa per il rimpatrio degli italiani: quegli ottocento uomini che dovevano essere alloggiati, vigilati e rifocillati, infatti, rappresentavano un peso non trascurabile per le magre risorse del Paese arabo. Le autorità britanniche, dal canto loro, avrebbero voluto evitare che quelle centinaia di ufficiali e marinai in buone condizioni di salute tornassero in forza alla Regia Marina, e quindi a combattere contro di loro; ma al contempo erano anche preoccupate dalla presenza di un numero tanto elevato di militari nemici, ancorché internati e disarmati, vicino alle linee di comunicazione britanniche tra l’Egitto e l’India. Fu proprio la proposta turca di una controparte al rimpatrio degli italiani, costituita dal rilascio di un eguale numero di prigionieri britannici, a convincere le autorità di sua maestà, che accettarono immediatamente.

In luglio il governo saudita accordò ai profughi civili il permesso di riprendere il mare, con i propri mezzi ed a proprio rischio e pericolo: le trattative da poco avviate avrebbero potuto portare ad un rimpatrio ben più sicuro anche per loro, ma ciononostante parecchi civili non vollero attendere, e preferirono tentare la sorte. Per la partenza, tutti i profughi si radunarono ad Abu Saad, dove erano state concentrate e riparate le imbarcazioni che avrebbero dovuto utilizzare: i partenti erano suddivisi in vari gruppi, ognuno con un proprio segreto piano da seguire. Alcuni, come si venne a sapere in seguito, contavano di risalire il Mar Rosso fino in Sinai, sbarcarvi, attraversare quella penisola fino a raggiungere la costa mediterranea e qui impossessarsi di un’imbarcazione con cui avrebbero tentato di raggiungere il possedimento italiano del Dodecaneso. Altri avevano piani ben più fantasiosi: dirigersi verso sud, entrare in Oceano Indiano e procedere a vela fino in Malesia, dove si trovavano le truppe giapponesi; oppure raggiungere il Mediterraneo circumnavigando tutto il continente africano. Scrive Ennio Giunchi: “Sogni inattuabili, tanto più che agli inglesi non era certamente ignota la loro partenza; ma sogni nobili e generosi. Le imbarcazioni, alcune delle quali tenevano appena il mare, lasciarono Abu Sa’ad ad una aduna. I partenti cantavano… Eravamo tutti sul pontile. C’era anche Abu Alì: agitava un suo straccio bianco in segno di saluto ed era commosso fino a piangere. Si rivolgeva ai quattro punti cardinali e pronosticava che, dovunque fossero andati, i poveretti sarebbero stati catturati dagli inglesi. “Meschin, meschin…” diceva, crollando il capo e agitando le mani in segno di deprecazione”.
Tra i partenti era anche Bruno Cipriani, benché egli non fosse, in realtà, un civile: il suo gruppo andò incontro ad una vera odissea, durata sei mesi. Dapprima riuscì ad eludere la sorveglianza da parte di un’unità britannica, che sembrava essere in attesa appena fuori Gedda; poi seguì la costa verso sud fino a giungere in Yemen, sbarcando ad Hodeida; poi, non avendo trovato appoggio, ripartì diretto a Gibuti, nella Somalia francese, territorio che dopo la resa della Francia nel giugno 1940 si era posto agli ordini del governo collaborazionista di Vichy, ed era stato per questo sottoposto dai britannici a blocco navale. L’imbarcazione di Cipriani riuscì ad attraversare il Mar Rosso, eludere il blocco britannico e raggiungere Gibuti, ma qui i componenti della piccola spedizione non furono autorizzati ad incontrare i rappresentanti italiani (a Gibuti era stata creata una commissione italiana per la vigilanza del rispetto delle norme dell’armistizio con la Francia) e dopo qualche giorno furono obbligati dalle autorità francesi a ripartire. A questo punto, avevano fatto ritorno a Gedda.
Altre due barche si erano dirette verso nord, insieme: a bordo erano in tutto quindici uomini, sette su una (Laner, Bagnini, Bozzo, Manfredi, Sengal, Del Carlo e Bargellini) ed otto sull’altra (Rastrelli, Carlucci, Gavazzi, Forcheri, Lelli, Gazzeri, Gennaro e Bonfiglio); avevano con sé una radio ricevente, nel gruppo di Laner. Siccome era in corso in quei giorni la prima battaglia di El Alamein, e si credeva che le truppe italo-tedesche avrebbero sfondato in Egitto, questi due gruppi pianificavano di seguire alla radio l’andamento della campagna nordafricana e, in base alla situazione, di sbarcare in un determinato punto della costa egiziana, da dove poi avrebbero cercato di passare la linea del fronte. Se lo sfondamento fosse davvero avvenuto, si sperava, si sarebbe potuto aspettare a ridosso di qualche isolotto deserto per poi sbarcare direttamente in territorio occupato dalle truppe dell’Asse. Questa spedizione era ben equipaggiata: oltre alla radio, disponeva di abbondanti scorte di cibo, di ami da pesca ed anche di un rudimentale distillatore, il che avrebbe permesso loro di resistere in mare per lungo tempo.
La loro avventura durò diciassette giorni: incontrarono burrasche, subirono avarie, scoppiò un incendio nella barca di Rastrelli, ebbero difficoltà ad approdare sulle coste rocciose che incontravano; infiltrazioni d’acqua negli scafi costrinsero gli occupanti a sgottare senza sosta; quel che è peggio, la radio si guastò quasi subito. Dopo diciassette giorni, nondimeno, le imbarcazioni riuscirono a raggiungere la baia di Sher el Mahar; ma mentre gli uomini erano a terra per ripulirsi e rifocillarsi, Sengal, di guardia su un sambuco arabo ormeggiato un po’ più in fuori, avvistò il panfilo armato HMS Sagitta diretto verso la baia. I quindici uomini racimolarono frettolosamente un po’ di provviste e bagagli, poi tentarono di fuggire verso l’interno, correndo verso una lontana macchia di cespugli; ma il Sagitta inviò a terra delle motolancie con marinai armati di fucili e di mitra, che in breve raggiunsero e catturarono tutti – o quasi. Il sottotenente Laner, che era fuggito in una direzione diversa, riuscì a trovare un nascondiglio ed a sottrarsi così alla cattura. Fece ritorno a Gedda, venendo rimandato nelle isole. Gli altri furono condotti prigionieri a Porto Sudan.
Anche altri fuggiaschi, dopo aver invano girato per il Mar Rosso nel tentativo di raggiungere l’Italia, finirono col tornare a Gedda a fine 1942. Ai più andò meno bene: quasi tutti i gruppi, infatti, fecero ben poca strada prima di essere intercettati e catturati dai britannici al largo di Gedda, sulla rotta per l’Eritrea, finendo prigionieri in Sudan. Alcuni, come il capitano Rosellini, non ne tornarono vivi.

L’estate del 1942 fu estremamente calda: soltanto nelle poche ore in cui tirava il maestrale era possibile svolgere qualche attività; il resto del giorno, il caldo torrido (55 °C all’ombra) unito ad un’umidità impressionante abbatteva corpi ed animi. “Le vesti sono bagnate come di pioggia. I teli delle tende gocciolano su chi tenta di dormire; dolgono i muscoli e le ossa”. In serata, invece, soffiava vento di libeccio.
Lungo le pareti esterne degli edifici i marinai avevano costruito numerose capanne in legno e stuoia, nelle quali alloggiavano più comodamente; fiorivano gli spacci, si giocava a bocce (erano state realizzate due nuove piste per questo gioco), di sera si ballava. Ennio Giunchi descrive l’atmosfera che regnava quell’estate ad Abu Saad: “Il pensiero delle trattative per il rimpatrio ossessionava tutti, ma si preferiva non parlarne. Così pure si preferiva non parlare di guerra e di donne; ma guerra e donne esasperavano i ricordi e le speranze. Sui muri delle stanze e dei camerini si allineavano immagini di donne e di navi, di donne e di simboli marinari, di donne e di carte geografiche dei teatri della guerra. Gambe celebri di ballerine, gambe parlanti, gambe malvagie e gambette buone, tutte ritagliate dai giornali americani che si acquistavano a peso allo spaccio arabo. Ma la stampa che ebbe più fortuna ad Abu Sa’ad raffigurava una ragazzina in veste povera e linda, seduta in una stanza modesta, gli occhi sereni e le mani raccolte in grembo. La domenica, dopo la partita di palla a volo, un colpo di fischio ci riuniva tutti a capo scoperto. Figari, il guardiamarina più giovane, leggeva la preghiera del marinaio. Il sole tramontava (…) il mare rombava sugli scogli lontani e pareva chiamarci. Per un attimo ci credevamo a bordo, raccolti sulla poppa di uno scafo rollante; il fischio del nostromo evocava la bandiera lentamente ammainata, palpitante come cosa viva nel vento aspro e salso. Poi si rompevano le righe; i cani, che durante la cerimonia stavano muti e fermi, prorompevano a ruzzare latrando; dalle cucine si levava l’acciottolio delle gamelle, i lampionai posavano i lumi presso ogni porta, le sentinelle arabe cominciavano a gridare l’allerta; un altro giorno moriva”.

La situazione sanitaria rimaneva molto precaria: quasi un terzo degli internati erano affetti da malaria, e molti altri avevano disturbi di altro genere, da coliche intestinali a svenimenti improvvisi, da reumatismi a problemi nevralgici, a piaghe tropicali (estremamente diffuse), a malattie della pelle come la scabbia ed il lichen pruriginoso, chiamato “cane rosso” e diffusissimo. E per finire, alcuni malati presentavano sintomi che facevano pensare alla tubercolosi. Per più di un anno, l’unico medico disponibile per i quasi ottocento uomini di Abu Saad ed El Wasta fu il sottotenente medico Filippo Palmieri, che doveva lavorare nella quasi completa assenza di strumenti e medici e medicinali: tutto ciò che poté ottenere furono un po’ di alcol, cotone, chinino, atebrina e plasmochina, acquistati nel suk di Gedda.
A questi problemi fisici la nostalgia di casa, la lontananza dagli affetti e la condizione di internati, confinati in poche centinaia di metri quadrati, aggiungevano anche disturbi nervosi: c’erano casi di nevrosi, isterismo, abulia e depressione, problema quest’ultimo che colpiva anche il medico stesso, stremato dal troppo lavoro e dall’insufficienza dei mezzi.
Uno dei casi più gravi era un cannoniere del Pantera, il quale iniziò a subire frequenti crisi isteriche, durante le quali “acquistava una forza prodigiosa ed era difficile tenerlo fermo per impedirgli di fare del male a sé e agli altri. Gli pareva che stormi di velivoli picchiassero su di lui sganciando bombe e bombe. Le crisi erano seguite da periodi di profonda depressione e di mania di persecuzione, durante i quali non bisognava perderlo di vista notte e giorno; spesso i compagni riuscirono appena in tempo a trarlo dall’acqua od a strappargli una lama con la qual voleva tagliarsi le carni. Le sue grida inumane risuonavano alte nelle notti dell’isola”.
Tra i più colpiti dall’abulia erano gli ascari, che avevano lasciato le loro case per partecipare a quell’ultima missione e si ritrovavano ora bloccati lontani dalla loro terra, sulla riva sbagliata del Mar Rosso: rinchiusi dapprima fra le quattro mura della caserma di Gedda e poi nel poco spazio delle isolette, sprofondarono in uno stato di generalizzato torpore, passando tutta la giornata seduti nelle loro tende o nel piccolo recinto che avevano designato a moschea. La situazione giunse ad un punto di rottura quando uno di essi, punito dal tenente di vascello Coco con la “cella” in seguito ad un’infrazione, si rifiutò di trasferirvisi: quando i marinai di guardia tentarono di portarvelo a forza, vennero assaliti dagli altri ascari, scatenando così una furibonda colluttazione. In seguito a questo incidente, gli ascari vennero allontanati dalle isole e consegnati alle autorità saudite, che provvidero al loro rimpatrio in Eritrea.
Qualche episodio di “indisciplina” si verificò anche tra gli italiani; un giorno mano ignota tracciò un’esortazione a non obbedire agli ufficiali sul muro di una latrina, ma questo invito non ebbe molto seguito.
Nel luglio 1942 un gruppetto di malati e convalescenti, al comando del tenente di vascello Emilio Scialdone, venne trasferito nella cittadina montana di Ta’if, a 1879 metri sul livello del mare (e cinque ore di automezzo da Gedda), nella speranza che il clima montano potesse avere un effetto benefico sulla loro salute. Tra questi malati c’era anche un impiegato civile profugo da Massaua, Plazi, arrivato nelle isole nel dicembre 1941. Poco dopo l’arrivo ad Abu Saad, Plazi aveva iniziato a sentire forti dolori alla schiena, e gradualmente era rimasto paralizzato nelle gambe; era uno dei casi più gravi.
Il soggiorno a Ta’if non rispose alle aspettative, anzi si trasformò quasi in un incubo: durante il viaggio uno degli automezzi si rovesciò, e ci furono dei feriti; poi, durante il soggiorno, i rapporti con le autorità locali divennero tesi quando le guardie si accorsero che alcune ragazze del posto, passando sotto le finestre da cui guardavano gli internati, “esibivano in mille modi non solo il viso, ma anche più di quanto sogliano mostrare in pubblico le donne d’occidente”; un tedesco (vi erano anche alcuni tedeschi internati a Gedda, oltre agli italiani), malato di tubercolosi, si uccise tagliandosi le vene; un sergente del Battisti, anch’esso tubercolotico, tentò ripetutamente di buttarsi da una finestra. In ottobre, infine, il gruppo di Ta’if fece ritorno nelle isole.

E come c’erano dei malati, così ci furono anche dei decessi, durante la lunga permanenza in Arabia Saudita. Il primo morto, tra la popolazione di Abu Saad, fu un ascaro, di nome Makonnen: “un ragazzo alto e secco che, nel lungo camicione di foggia araba, pareva un candido spaventapasseri, illuminato dal costante sorriso degli occhi vivissimi”. Morì improvvisamente, poco dopo il trasferimento nell’isola; il suo corpo, avvolto nel tricolore, venne sepolto nel cimitero di Gedda riservato ai non musulmani, perché Makonnen era di religione cristiana copta.
Il secondo fu lo sfortunato Plazi, l’impiegato civile gravemente malato mandato a Ta’if nel luglio 1942. Dopo un iniziale, ingannevole miglioramento, le sue condizioni si erano ulteriormente aggravate; morì ad inizio settembre. La sua salma, chiusa in una cassa di assi sconnesse su cui i marinai avevano inchiodato tre bande di stoffa – una verde, una bianca, una rossa – ed una rozza corona di sterpi recante un nastro con la scritta «In memoria. I tuoi camerati», venne rimandata a Gedda su un autocarro sgangherata e sepolta anch’essa nel cimitero dei non musulmani, il 3 settembre 1942.
Soltanto un ristretto gruppo di internati ebbe l’autorizzazione per recarsi a terra per la cerimonia funebre; tra di essi Ennio Giunchi, che scrive: “[il cimitero] è un quadrato di terra cinto da un rozzo muro alto più di due metri, ornato da una fila di punte merlettate. (…) Dentro, un centinaio di tumuli rettangolari, spogliati delle lapidi marmoree che li ricoprivano. Qualche tomba è tuttavia intatta. Ecco un capitano marittimo De Senibus, comandante il piroscafo Narenta, morto nelle acque di Gidda nel 1888, dopo trentotto anni di navigazione su tutti i mari; un medico sardo, morto di peste nel 1910; la moglie di un agente del Lloyd Triestino. Poi un greco; alcuni inglesi; un americano; un francese; «Huber, morto per la scienza»; due ebrei, dalle epigrafi in caratteri latini ed ebraici. Su una croce recente, senza nome, è posato un distintivo degollista. In un angolo, le croci dell’ascari Makonnen e di un marinaio morto a El Uasta. Gli affossatori ne avranno ancora per due ore; sotto la sabbia c’è duro corallo. Poveretto, diceva: «Lascerò qua le mie ossa… non voglio morire qua». (…) mostrava la fotografia di una bimbetta di dodici anni: «Sette anni che non la vedo…» Eccolo qui, un certo giorno di settembre: aveva ragione lui. Fra molto tempo, tramite le autorità consolari, giungerà forse a Gidda un ricordo marmoreo della famiglia; null’altro; chi potrebbe affrontare un viaggio così lungo per un morto? I suoi parenti guarderanno qualche volta sull’atlante il circoletto di Gidda, e non sapranno neppure immaginare come ci riposi il poveretto. La fossa è pronta. I marinai calano la bara; il comandante getta la prima palata di terra, e ci raccogliamo nell’ultimo saluto”.
La terza vittima fu il sergente Giuseppe Bianchi del Battisti, ammalatosi di tubercolosi nell’estate 1942: isolato in una stanzetta per evitare il contagio, sembrò sulle prime avere buone speranze, ma nel dicembre di quell’anno subì un grave peggioramento. Trasferito all’ospedale di Gedda, vi morì poco dopo.

Le trattative, intanto, continuavano; il comandante Gasparini si mostrava fiducioso, ma non lasciava trapelare molto. Giravano le voci disparate; tra gli internati c’era chi credeva che presto si sarebbe tornati in Italia, al punto di preparare già i bagagli, e chi invece pensava che le trattative non sarebbero approdate a niente: tra questi ultimi il direttore del tiro del Pantera, Sabatini, che a inizio 1943 iniziò a costruire una nuova capanna per la prossima estate, che prevedeva di passare ancora ad Abu Saad. La notte di capodanno del 1943 il direttore di macchina del Pantera, Pasino, ed il comandante del Battisti, Papino, fecero una scommessa, avente come posta una cena: il primo sosteneva che il Capodanno del 1944 l’avrebbero passato in Italia, il secondo che sarebbero stati ancora ad Abu Saad.
Ennio Giunchi scrive di un curioso episodio: una notte, molti internati sognarono di ricevere grandi quantità di posta; l’indomani ebbero notizia che i governi italiano e britannico avevano accettato di condurre lo scambio, anche se restavano ancora da concordare i tempi ed i modi. Passarono poi altre settimane senza nessun aggiornamento; scrive Ennio Giunchi che “le disgrazie, che negli ultimi tempi si facevano più frequenti, alimentavano il nostro pessimismo di pensieri sconsolatamente lugubri. Qualche volta, scavando, avevamo dissotterrato un teschio, un mucchio di vecchie ossa: quegli scheletri senza nome ora ci ossessionavano, ci parevano i nostri. Chi sa quanti anni ancora, fallite le trattative, saremmo stati internati; e a poco a poco saremmo soggiaciuti alle più crudeli malattie”. Non contribuiva a rasserenare gli animi l’insorgere a Gedda, in quel periodo, di un focolaio di colera, che si temeva si sarebbe potuto diffondere anche nelle isole. “Vedevamo con l’immaginazione sempre nuove croci erigersi in quel triste cimitero. Molti di noi non avrebbero riportato in patria le proprie ossa. Qualche pellegrino, scavando ozioso la terra di Abu Sa’ad, le avrebbe dissepolte un giorno…”. Nell’isola di El Wasta, i profughi civili avevano organizzato una sorta di servizio informazioni raccogliendo dai fornitori arabi tutte le notizie che circolavano in merito all’andamento delle trattative.
Questa situazione d’incertezza si protrasse fino al marzo 1943, quando all’improvviso gli internati ricevettero la notizia che una nave britannica era già in navigazione verso Gedda per imbarcarli e trasportarli in Turchia, dove sarebbe avvenuto lo scambio.
I governi dell’Italia e del Regno Unito avevano infatti raggiunto un accordo: in cambio del rimpatrio degli internati in Arabia, che erano in tutto 788 (compreso un gruppetto di tedeschi, tra cui anche 25 marinai rilasciati dalle autorità britanniche in aggiunta a quelli internati in Arabia), l’Italia avrebbe rilasciato 838 prigionieri di guerra britannici, australiani e sudafricani, detenuti in massima parte in campi di prigionia situati sul territorio italiano (partecipò allo scambio anche la Germania, che fornì un gruppetto di 26 prigionieri britannici da scambiare con i 25 tedeschi). Tra i prigionieri che l’Italia avrebbe rilasciato era anche il settantunenne ammiraglio britannico Walter Cowan, catturato in Nordafrica da carristi italiani della Divisione "Ariete" il 27 maggio 1942: si trattava dell’unico ammiraglio della Royal Navy in mani italiane, nonché di uno dei più anziani ufficiali britannici in servizio attivo.
In cambio del rilascio di quel gruppo di prigionieri, il Regno Unito non solo avrebbe permesso il rimpatrio degli italiani attraverso i mari da esso controllati, ma avrebbe provveduto esso stesso a trasportarli dall’Arabia fino in Mediterraneo: a questo scopo sarebbe stato destinato il grosso piroscafo Talma della British India Steam Navigation Company, requisito come trasporto truppe. Da parte italiana, i prigionieri da scambiare sarebbero stati trasportati dalla nave ospedale Gradisca. Il Regno Unito aveva dato il suo assenso all’accordo, proposto dalla Turchia, già l’11 ottobre 1942, pochi giorni dopo aver ricevuto la proposta; l’Italia aveva fatto lo stesso il 22 gennaio 1943.
Luogo designato per lo scambio era il porto turco di Mersina, territorio neutrale, nel quale Talma e Gradisca si sarebbero date appuntamento: data fissata, il 20 e 21 marzo 1943.

Ad Abu Saad, la notizia del prossimo rimpatrio scatenò l’euforia: “Fu un gridare, un correre senza meta, uno scambiarsi parole concitate, un esaltarsi e calmarsi a vicenda, un affrettarsi in preparativi ancora increduli… Gli amici si cercavano e passeggiavano insieme senza saper che dire, i nemici si sorridevano; tutti si scambiavano gesti d’intesa con le mani e col capo, come a dire: «Finalmente! Ci siamo!»”. Nei giorni seguenti, gruppi di marinai montarono di guardia sui tetti degli edifici, sperando di avvistare qualcosa all’orizzonte; ci furono alcuni falsi allarmi, per abbaglio o per scherzo di chi indicava un punto all’orizzonte, provocando un accorrere di gente sulla spiaggia, gente che dopo un po’, non essendo visibile alcuna nave, se ne andava delusa.
Trascorsa l’euforia dei primi momenti, intanto, si iniziò a riflettere: all’istintiva felicità per l’imminente rimpatrio iniziarono a subentrare i dubbi su ciò che gli “esuli” avrebbero trovato in Italia. Dell’andamento della guerra sapevano solo quello che avevano sentito dai bollettini radio italiani; “…fino ad allora, per due lunghi anni, non avevamo mai osato dirci: "La gurra è perduta". Non per stupido conformismo, ma perché avevamo bisogno di credere in qualche cosa come si ha bisogno dell’aria per respirare. Ma ecco che d’un tatto i bollettini degli ultimi mesi ci si affollavano alla memoria con un suono diverso; e ci pareva di aver sempre saputo che essi nascondevano una tragica realtà che l’esilio ci aveva a lungo risparmiata ma che fra poco non avremmo più potuto ignorare”. Ciononostante, il desiderio di lasciare l’Arabia al più presto rimaneva; il pensiero dominante era “Almeno rivedremo i nostri cari, l’Italia; poi speriamo…”.
Il 13 marzo 1943 il Talma giunse a Gedda. Ad Abu Saad, gli internati si radunarono nel piazzale centrale, ciascuno con i pochi bagagli; a pranzo si mangiarono panini fatti distribuire dal commissario Castellano, mentre il comandante Gasparini discuteva al telefono con le autorità locali per prendere accordi circa l’imbarco. Fu deciso che gli internati di Abu Saad sarebbero saliti immediatamente sul Talma, mentre quelli di El Wasta avrebbero dovuto attendere fino all’indomani mattina. Pilla fu affidata a Nasib: gli internati non avevano ottenuto il permesso di portarla con sé sul Talma, e già da qualche giorno, mentre fervevano i preparativi per la partenza, la cagnetta era apparsa angustiata e depressa, come se avesse capito. Giunsero al pontile i sambuchi destinati a trasbordare gli internati; i nostromi fischiarono l’ultima assemblea, ed ebbe inizio l’imbarco. “Abu Sa’ad cominciò ad allontanarsi, finché si sarebbe fermata, fuori del tempo e dello spazio, per galleggiare immobile sui flutti del ricordo”.

Ennio Giunchi, salito sulla prima motolancia, fu tra i primi a giungere a bordo del Talma. Una volta a bordo, Giunchi e compagni furono accolti da alcuni ufficiali, con reciproco scambio di imbarazzati saluti tra nemici soggetti a quella transitoria e particolarissima tregua; un ufficiale britannico, che parlava italiano, invitò i nuovi arrivati a seguirlo a prua, dove un giovanissimo capitano britannico provvide a perquisirli, non prima di essersi scusato per quella sgradevole incombenza. Terminata la perquisizione, gli italiani furono sistemati in una stiva; quando alcuni accesero delle sigarette, un ufficiale britannico li informò, ossequiosamente, che in quel locale era vietato fumare.
L’imbarco degli internati di Abu Saad venne completato in serata; il mattino del 14 marzo salirono sul Talma anche il gruppo di El Wasta e quello degli internati tedeschi. Poco prima che il piroscafo salpasse le ancore salirono a bordo alcuni ufficiali arabi, accompagnati dal sottufficiale Abu Alì, per salutare i partenti; scrive Ennio Giunchi: “…ci parvero d’un tratto assai lontani da noi. Avevamo appena lasciato le isole e, col pensiero rivolto all’Italia, già ci pareva di esserne mille miglia lontani; già vedevamo negli Arabi la “gente di colore”, che ci tardava dimenticare, quasi essi non ci avessero soccorsi nella disgrazia e non ci avessero ospitati per due lunghi anni. Fosse per queste sensazioni, fosse per deplorevole rispetto umano nei confronti degli inglesi, Abu Alì e i suoi compagni furono salutati con molta freddezza: lo confesso a vergogna di parecchi dei miei compagni. Credo che qualcuno di noi fingesse di non vedere la mano che Abu Alì gli tendeva, dopo averla portata alle labbra e al cuore, con quel suo fare sorridente e accattivante; così che il brav’uomo si precipitò addirittura su di me, che gli stringevo le mani e lo pregavo di salutarmi anche Hassan, il “grande Curdo”. C’è ancora nella mia memoria la bianca figura di Abu Alì che, tenendosi in disparte, cercava di farsi notare da quelli che si erano chiamati suoi amici e ora gli passavano accanto fingendosi distratti. Egli continuava tuttavia a sorridere, con un occhio strizzato in un gesto che gli era abituale; finché, solo e dimenticato, pur sorridente raggiunse la scala, si rivolse ancora in un vago gesto di saluto e disparve”.
Verso mezzogiorno il Talma mollò gli ormeggi ed iniziò la navigazione verso Suez. “Quando mi sporsi a guardar verso poppa, le isole, Gidda, la costa, tutto era già scomparso di là dall’orizzonte; si scorgevano appena, violetti, i monti della Mecca”.

La navigazione attraverso il Mar Rosso fu senza storia; poco prima di entrare nel Golfo di Suez gli ormai ex internati poterono assistere ad un attacco simulato di aerosiluranti contro un incrociatore. Prima che il Talma imboccasse il Canale di Suez, vennero tesi sui ponti delle cortine, in modo da impedire agli italiani di vedere il Canale; unico scorcio, intravisto attraverso uno spiraglio tra due cortine, fu la vista presso Ismailia di un gruppo di ragazze che cantavano e salutavano la nave dal terrazzo di una villa.
Il vitto per i passeggeri italiani consisté inizialmente in patate bollite, ma dopo alcuni giorni, saputo che gli ufficiali britannici prigionieri ricevevano, sulla Gradisca, trattamento di prima classe, gli ufficiali italiani sul Talma furono trasferiti in cabine di prima classe ed il loro menù migliorò di molto, con uova al bacon, porridge, prosciutto ed altro.
Durante la traversata gli ufficiali italiani ebbero modo di conoscere meglio i loro colleghi britannici a bordo del Talma, stringendo con alcuni rapporti anche cordiali, nonostante lo stato di guerra dei rispettivi Paesi; uno di essi, il capitano scozzese Mac Leod, aveva madre italiana, ed aveva avventurosamente lasciato Roma due giorni dopo l’inizio della guerra. Un altro capitano britannico (soprannominato “il droghiere” dai marinai per via del suo aspetto corpulento e della sua faccia colorita) aveva vissuto a lungo in Italia, tanto da conoscere non solo l’italiano, ma anche diversi dialetti; nelle sue conversazioni con gli ufficiali italiani, prospettava loro che al rientro in Italia sarebbero rimasti molto delusi dalla situazione che vi avrebbero trovato. Molti bollarono questi discorsi – che comunque non degeneravano mai in litigio – come tentativi di guerra psicologica, ma i fatti gli avrebbero dato ragione: anzi, ciò che li aspettava in Italia si sarebbe rivelato ancor peggiore delle più tristi previsioni del “droghiere”.
Dopo tante peripezie, poco ci mancò che gli equipaggi del Mar Rosso non venissero uccisi sulla porta di casa dai loro stessi compatrioti: il 19 marzo, al largo di Alessandria d’Egitto, alcuni bombardieri italiani, provenienti da Rodi e non al corrente dell’accordo (secondo altra versione, invece, non avevano visto i segni di riconoscimento verniciati sulle murate del Talma: qualcuno degli ufficiali italiani, prima di imbarcarvisi, aveva infatti espresso il dubbio che i contrassegni non fossero ben visibili a grande distanza), sganciarono una decina di bombe, che fortunatamente finirono tutte in mare.

La notizia dell’attacco aereo contro la Talma sul giornale australiano “Argus” del 24 marzo 1943

Infine, la sera del 20 marzo, il Talma raggiunse il porto turco di Mersina, presso il quale avrebbe avuto luogo lo scambio. La nave ospedale italiana Gradisca, che aveva portato dall’Italia i prigionieri britannici da scambiare con gli internati italiani, era già arrivata; brillava nell’oscurità con le sue luci bianche, rosse e verdi. Scrive Ennio Giunchi: “Guardammo a lungo quella nave che era, finalmente, l’Italia. La notte non potei prender sonno. Ascoltavo una canzone malinconica che alcuni ufficiali inglesi cantavano in salone, accompagnati al pianoforte da Mac Leod. Anche Pasino, sdraiato nella cuccetta sopra la mia, si agitava irrequieto; tacevamo, non riuscendo ad esprimere i sentimenti che ci agitavano e turbati da un senso di tristezza che, quasi come un doloroso presentimento, soverchiava la gioia del ritorno”.
Il mattino del 21 marzo ebbe inizio il trasbordo: c’era brutto tempo, il mare era mosso, a tratti si verificavano scrosci di pioggia. Italiani e britannici, in gruppi di eguale numero, venivano trasportati da una nave all’altra e viceversa mediante grosse chiatte; all’operazione sovrintendeva, come controllore neutrale, un capitano di corvetta della Marina turca. Ancora Giunchi: “Gli ex-prigionieri inglesi che salivano a bordo parevano anch’essi incerti, smarriti. Essi e i nostri marinai si accostavano, si offrivano sigarette, scambiavano gesti e monosillabi amichevoli”. Ultimi a sbarcare dal Talma furono Giunchi, Andolfi e Scialdone, rimasti a bordo per dirigere le operazioni di scambi; salirono sull’ultima chiatta in partenza per la Gradisca, e Giunchi prese commiato dal capitano MacLeod, che gli aveva lungamente parlato di Roma, dove viveva sua madre. “«Mi rivedrà in Italia o come vincitore o come prigioniero», disse Mac Leod sorridendo. «Oppure – suggerii poco convinto – semplicemente come civile, dopo una guerra perduta dall’Inghilterra…» «Non è possibile» mormorò serio Mac Leod, e in quel momento era sincero, non pensava alla “guerra psicologica””. Non si sarebbero mai più rivisti: MacLeod sarebbe morto a Napoli per un’infezione alcuni mesi più tardi, senza mai avere modo di rivedere Roma e la madre.

Come pronosticato dal “droghiere”, la realtà colpì con violenza i reduci del Mar Rosso, non appena essi ebbero messo piede sulla Gradisca. L’Italia era molto cambiata in quei tre anni in cui ne erano stati assenti: la guerra era ormai persa, regnavano la sfiducia, l’apatia, la rassegnazione, l’arte di arrangiarsi, anche a discapito del prossimo. Sfibrato dalle recenti gravissime sconfitte in Africa e Russia, fiaccato dalle crescenti privazioni e dai bombardamenti sempre più pesanti, il Paese era allo sfascio morale e materiale, sfascio che si sarebbe manifestato in tutta la sua funesta evidenza di lì a pochi mesi.
Giunchi incontrò un ufficiale suo conoscente (nel gennaio 1941, quando Giunchi era partito per l’Africa Orientale, questi ricopriva il ruolo di ufficiale di collegamento della Marina presso lo Stato Maggiore Generale a Roma), che ricopriva in quel periodo la carica di addetto navale in Turchia e che si era recato a Mersina per assistere allo scambio: “Lo ricordavo a Roma (…) quando ero partito per l’avventura africana con mille dubbi e presentimenti; lo rivedevo ora al ritorno, l’avventura era finita e i dubbi erano diventati la triste realtà. Poco disse, ma il suo fare depresso confermò che poco di buono ci sarebbe stato da dire. I migliori ci parlavano tutti così, con reticenza, quasi temessero di farci male; altri invece pareva provassero un triste piacere nel disincantarci nella forma più brutale (…) quante volte ci chiedemmo sbigottiti, nel corso di una conversazione: “Ma è un connazionale, un combattente, costui che mi parla, o non è piuttosto la voce stessa di Londra?” Alcune di quelle notizie, pescate pari pari dalla propaganda inglese e rilanciate quasi con acre soddisfazione, forse erano vere, in tutto o in parte; ma vivaddio, ne aveva contate tante di frottole radio Londra, come ben sa chi è andato per mare in quegli anni (…); ed ora che stavamo con l’acqua alla gola, non c’era proprio di meglio da fare che aiutare i nemici nella loro “guerra psicologica”? (Oh, eravamo ingenui (…) ma se ingenuità voleva dire (…) carità di patria e fierezza nazionale, spero che molti di quei mie compagni d’internamento non ne siano guariti). Gli stessi sentimenti agitavano i nostri marinai; essi si lamentavano di mille cose, c’era nei loro occhi come un muto rimprovero, lo sgomento della delusione (…)”. Sulla Gradisca, alcuni camerieri offrirono ai marinai rimpatrianti piatti di pastasciutta a mercato nero, tra lo stupore generale su come una simile attività potesse essere tollerata a bordo; vecchi ufficiali richiamati litigavano per i posti a tavola in base a prerogative legate all’anzianità di grado.
Dopo un viaggio di sei giorni, il 27 marzo la Gradisca giunse a Bari. Ad attendere quegli ottocento uomini che rivedevano l’Italia per la prima volta da anni, sul molo, c’erano delle rappresentanze delle forze armate; quasi nessun civile, salvo un gruppetto di sette od otto operai che assistevano in silenzio dal tetto di un magazzino. “I nostri marinai ingenuamente cantavano”, ricorda Ennio Giunchi. C’era anche Maria José, moglie dell’erede al trono, principe Umberto: passò in rassegna i marinai schierati, fermandosi di quando in quando a chiedere a questo e quello di dove fosse e come si chiamasse. Un ammiraglio rivolse ai rimpatriati un breve discorso di benvenuto: “sulla fine del discorso non seppe frenare un moto di pianto; onestamente non aveva voluto ingannarci”. Quando quella sera Giunchi e compagni, ancora vestiti alla meglio con gli indumenti che avevano indossato per tre anni in Arabia Saudita – un misto di vestiti e copricapi di varie fogge e colori dell’Esercito e della Marina, quello che avevano potuto trovare –, girarono per le vie di Bari, una ragazza chiese loro scherzando se i pazzi fossero scappati dal manicomio. I civili, perlopiù, erano indifferenti. “Ci sentivamo stranieri a quell’Italia; per due anni il mondo, per noi, era rimasto fermo (…) non potevamo, ora, capire quei sentimenti che negli altri erano maturati col volger del tempo e alla dura lezione dei fatti”.
I rimpatriati furono trattenuti a Bari per una settimana, mentre sulla Gradisca l’ammiraglio Amaldi conduceva, come da prassi, un’inchiesta sulle circostanze del naufragio e dell’internamento. Poi si divisero; a tutti fu concesso un periodo di licenza, dopo di che ciascuno partì verso nuovi imbarchi o destinazioni, ognuno verso il proprio destino. Lo scambio tra Italia e Regno Unito era infatti avvenuto per iniziativa indipendente dei singoli Stati coinvolti, senza coinvolgimento della Croce Rossa Internazionale ed al di fuori delle regole stabilite dalla convenzione di Ginevra del 1929 (articolo 74: i prigionieri scambiati non possono più essere impiegati in servizi militari attivi), dal momento che gli italiani non erano prigionieri di guerra, ma militari internati in uno Stato neutrale, ed i prigionieri britannici non erano feriti o malati. Pertanto, a differenza che per i prigionieri liberati nell’ambito di scambi organizzati in conformità con tali convenzioni, sia gli ex internati italiani che gli ex prigionieri britannici tornarono a combattere, ciascuno dalla propria parte della barricata. Non tutti avrebbero visto la fine di quella guerra.
Di quando in quando capitava di imbattersi, per caso, in quei compagni di avventura: “incontrandoci, ci pareva di ritrovarci in un nostro mondo particolare, lungo centotrenta metri e largo ottanta: di là delle parole comuni, ci sentivamo legati dal ricordo di quei due anni vissuti insieme come in un limbo”. Quando Ennio Giunchi ottenne il comando dell’anziana torpediniera Generale Carlo Montanari, diversi marinai che erano stati con lui in Arabia chiesero ed ottennero di imbarcare sulla sua stessa nave: confusi e smarriti in quell’Italia tanto diversa da quella che avevano lasciato, avevano in lui almeno un punto di riferimento, qualcosa in comune. “Qualche volta, quando salivo in coperta di notte, li trovavo raccolti in gruppo silenzioso nell’ombra, che mi guardavano interroganti; sentivamo che in noi si agitavano gli stessi pensieri e se avessimo parlato avremmo pronunciato le stesse parole. Poi Maserati, il tenore della compagnia “Bastingaggio”, intonava una delle canzoni che aveva cantato sul teatrino di Abu Sa’ad. Ci separammo il 9 settembre, lasciando alle nostre spalle ancora una nave che affondava volontariamente”. Fu questa, infatti, anche la fine della Montanari, autoaffondata all’indomani dell’armistizio per non farla cadere in mano tedesca.

Una medaglietta del Pantera (g.c. Carlo Di Nitto)

L’Albo dei caduti e dispersi della Marina Militare nella seconda guerra mondiale registra i nomi di due uomini del Pantera che sarebbero deceduti in Italia nel 1944: il sottocapo torpediniere Alfio Sagliani, di 24 anni, da Terracina, deceduto il 19 settembre 1944 e sepolto nel paese natio; ed il marinaio Luigi Alvi, di 27 anni, da Gragnano, deceduto il 24 dicembre 1944 e sepolto a Pompei. Non è stato possibile rintracciare alcuna informazione sulle circostanze della loro morte; essendo trascorsi anni dall’affondamento del Pantera e più di un anno dal loro rimpatrio, se l’Albo li ha considerati come caduti del Pantera si può ipotizzare che siano morti per le conseguenze di malattie contratte durante l’internamento in Arabia, ma si rimane nel campo delle congetture.

Le sorti dei reduci del Pantera si divisero. Il comandante Gasparini, dopo l’8 settembre 1943, rimase fedele al governo regio, restando con la Regia Marina ora cobelligerante con gli Alleati; dal settembre 1944 al maggio 1945 fu comandante della nave scuola Vespucci. Per la sua condotta nell’ultima missione della V Squadriglia Cacciatorpediniere, venne decorato con la Medaglia di Bronzo al Valor Militare, con motivazione "Comandante di Gruppo di siluranti, nel disperato tentativo di attacco a base avversaria, sottoposta ad incessanti attacchi che causavano la perdita di due unità dipendenti, venuta meno ogni possibilità di portare a compimento l'azione, dirigeva le navi superstiti presso coste neutrali dove, ancora ed insistentemente attaccate dall'aria, ne assicurava l'autoaffondamento ed il salvataggio degli equipaggi. Già distintosi nel collaborare alla difesa della base di Massaua col fuoco delle armi di bordo durante ripetuti e violenti bombardamenti aerei. (Mar Rosso, giugno 1940-aprile 1941)".
Il sottotenente di vascello Aldo Baldini, direttore del tiro del Pantera, era stato promosso tenente di vascello nell’ottobre 1941, mentre si trovava internato in Arabia; nel maggio 1943, poche settimane dopo il rimpatrio, gli fu affidato il comando della XII Squadriglia MAS, di base nell’isola di Lero, nel Dodecaneso. Al comando di questa squadriglia, dopo l’8 settembre, Baldini partecipò alla battaglia per la difesa di Lero contro gli attacchi tedeschi, conclusasi il 16 novembre 1943 con la resa del presidio italo-britannico; il giovane ufficiale fu poi prigioniero in Germania fino alla fine del conflitto. Tornato in Italia nell’agosto 1945, Baldini avrebbe proseguito la sua carriera in Marina, fino a raggiungere negli anni Settanta il grado di ammiraglio di squadra e le cariche di sottocapo di Stato Maggiore della Marina Militare, comandante in capo della Squadra Navale e comandante delle forze navali NATO nell’Europa meridionale.

Aldo Baldini (Gaeta 1915-Roma 1999), ufficiale di rotta del Pantera durante la seconda guerra mondiale, qui in una foto degli anni Settanta (USMM)

Il tenente di vascello Magnolfi, dopo l’armistizio, si unì alla Resistenza attiva nella sua natia Liguria, svolgendo pericolosa attività informativa che gli sarebbe valsa la Medaglia di Bronzo al Valor Militare.
Al direttore di macchina Pasino capitò la singolare sorte di ritrovarsi nuovamente internato in terra neutrale in seguito all’affondamento dell’unità su cui era imbarcato, a soli sei mesi dal suo ritorno dalla precedente avventura in Arabia: era stato infatti destinato, in qualità di direttore di macchina, su una delle siluranti che raggiunsero le Baleari in seguito all’armistizio, per poi autoaffondarvisi. Con gli altri naufraghi, Pasino si ritrovò così internato in Spagna, nel villaggio pirenaico di Caldes de Malavella fino al luglio 1944, quando anche questi internati poterono essere rimpatriati in seguito ad accordi con le autorità spagnole. Molte delle idee che s’inventarono i comandanti italiani a Caldes per organizzare e tenere occupati gli internari ricordano i provvedimenti adottati in precedenza ad Abu Saad: forse il capitano Pasino poté in questa circostanza mettere a frutto quella sua precedente “esperienza”…

Caduti in guerra tra l’equipaggio del Pantera:

Luigi Alvi, marinaio, da Gragnano, 27 anni, deceduto in Italia il 24.12.1944
Mario Cavallo, marinaio cannoniere, da Cuneo, 18 anni, deceduto in Eritrea il 1° agosto 1940
Valentino De Paoli, marinaio, da Tignale, 21 anni, disperso in Mar Rosso il 4.4.1941
Livio Puglia, secondo capo furiere, da La Spezia, 33 anni, deceduto in prigionia in Eritrea l’8.10.1941
Alfio Sagliani, sottocapo torpediniere, da Terracina, 24 anni, deceduto in Italia il 19.9.1944

Nonostante la scarsa profondità a cui sono affondati (circa venti metri), non sembrano esistere informazioni sullo stato dei relitti di Pantera e Tigre. Secondo un sito di subacquea, nella zona in cui i due cacciatorpediniere si autoaffondarono vigerebbe un divieto sia d’immersione che di navigazione, imposto dalle autorità saudite.

Un’altra bella immagine del Pantera (g.c. Giacomo Toccafondi)