Il sommergibile alla banchina
lavori del cantiere di Monfalcone (foto Arch.
M. Cecon, tratta dall’articolo di Mario Cecon “I sommergibili corsari della
Regia Marina” sulla “Rivista Italiana di Difesa” n. 5 del maggio 1997, via
www.betasom.it)
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L’Ammiraglio Caracciolo, sommergibile oceanico della classe Ammiragli
(dislocamento di 1702 t in superficie e 2184 in immersione, i più grandi
sommergibili italiani dopo quelli da trasporto della classe “R”), venne
impostato nei Cantieri Riuniti dell’Adriatico di Monfalcone (dove aveva numero
di costruzione 1222) il 16 ottobre 1939, venendo varato esattamente un anno
dopo ed entrando in servizio il 1° maggio 1941.
Il Caracciolo in costruzione (g.c. STORIA militare)
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Subito dopo il
completamento ebbe inizio l’addestramento dell’equipaggio, che si protrasse sino
all’inizio di dicembre.
Avendo l’esperienza
bellica dimostrato che le troppo voluminose torrette dei sommergibili italiani
erano un intralcio, tra il giugno ed il luglio 1941 il Caracciolo venne sottoposto a lavori di sostituzione della propria
torretta, che venne rimpiazzata con una, più ‘snella’, simile a quelle degli
U-Boote tedeschi.
Nell’autunno 1941 il
battello, finalmente, poté lasciare Monfalcone al comando del CC Benedetto
Lucchini alla volta di Fiume, dove avrebbe compiere alcuni lanci di siluri di
prova. Il direttore di macchina, capitano del Genio Navale Giuseppe Sitzia, che
aveva partecipato alla messa a punto dell’unità, rilevò tuttavia che questa
aveva problemi tecnici che il cantiere di Monfalcone non aveva del tutto
risolto (e se ne sarebbero presto viste le conseguenze). Giunto nella città
quarnerina in un pomeriggio di ottobre, il sommergibile, nell’entrare in
darsena, s’impigliò nel cavo di manovra delle ostruzioni, richiedendo molto
tempo per poter essere liberato.
Poco tempo dopo venne
assegnato al comando dell’unità il CC Alberto Agostini, proveniente dal
sommergibile Mocenigo, ma rientrando dalla prima uscita in mare il Caracciolo, mentre manovrava per
ormeggiarsi con i motori elettrici, urtò il molo riportando danni a circa tre
metri della prua, pertanto dovette sbarcare nafta, siluri e munizioni ed essere
immesso in bacino di carenaggio la sera stessa. In una settimana di lavori in
bacino, la parte di prua danneggiata venne sostituita con una nuova fatta
arrivare da Monfalcone. Il Caracciolo
poté poi lasciare il bacino e reimbarcare tutto, ma proprio mentre l’ultimo
siluro veniva calato nel locale di lancio di poppa un rimorchiatore che stava
trainando una corvetta greca speronò il battello, spezzandone una pala
dell’elica di dritta ed obbligando di nuovo allo sbarco del materiale ed ad un
altro periodo in bacino per la sostituzione dell’elica.
Un’altra immagine del Caracciolo in allestimento (g.c. Grupsom)
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Anche a Pola si
manifestarono altri problemi: nel corso di un’esercitazione al largo della base
istriana, infatti, ebbe luogo una seria avaria che, mentre il Caracciolo era in immersione, mise a
rischio la respirabilità dell’aria.
Terminato l’addestramento
dell’equipaggio (che non fu comunque portato completamente a punto), il
battello, come le sue tre unità gemelle, venne adibito, in virtù delle sue
grandi dimensioni (e dunque spazio utilizzabile per stivare il carico), a
missioni di trasporto di rifornimenti: un impiego altamente discutibile, che
metteva a rischio dei preziosi sommergibili per trasportare modeste quantità di
rifornimenti (duecento tonnellate di materiali nel migliore dei casi) che erano
largamente inferiori a quelle che avrebbe potuto trasportare anche un piccolo
mercantile. Va poi sottolineato che i sommergibili non vennero impiegati per
queste missioni solo in condizioni di estrema necessità, ma anche quando i
rifornimenti arrivavano a destinazione senza problemi. Non fu questo, tuttavia,
il caso del Caracciolo: il
sommergibile divenne operativo al termine del peggior periodo della battaglia
dei convogli – nel novembre 1941 le perdite tra i carichi inviati avevano
sfiorato il 70 % (ed il 92 % per il carburante), percentuale mai toccata prima e mai più raggiunta in seguito,
e le forze italo-tedesche in Nordafrica avevano subito un pesante rovescio a
seguito dell’offensiva britannica "Crusader" –, ed all’inizio del dicembre 1941
era considerato necessario l’invio di rifornimenti in Libia con ogni mezzo
(questa decisione portò anche alla tragica perdita degli incrociatori leggeri
Alberico Da Barbiano ed Alberto Di Giussano, affondati durante una missione di
trasporto di carburante). Nonostante il modesto carico trasportabile, un
singolo viaggio di un sommergibile classe Cagni avrebbe potuto consegnare un
carico di carburante sufficiente ad assicurare una giornata di volo in più ai
velivoli tedeschi in Africa Settentrionale.
Dopo il completamento
della missione di trasporto, era previsto che il Caracciolo si sarebbe trasferito nella base atlantica di Betasom, a
Bordeaux (tanto che il direttore di macchina, Carlo Sitzia, era già stato
assegnato a quella base).
Il capitano di corvetta Alfredo Musotto (Palermo, 16 settembre 1909-Mar Mediterraneo, 11 dicembre 1941), ultimo comandante del Caracciolo (g.c. Giovanni Pinna) |
Il 29 novembre il Caracciolo lasciò Pola diretto a
Taranto, giungendovi nella mattinata del 1° dicembre, ed ancora una volta
incontrò un problema: il comando del locale Dipartimento Militare Marittimo
(Maridipart), non conoscendo il nome del comandante, rifiutò di aprire le
ostruzioni, ma anche questo inconveniente si risolse ed il battello poté entrare
a Taranto, dove, ormeggiatosi alla banchina sommergibili, iniziò ad imbarcare
il carico consegnato dalle forze tedesche e destinato in Libia: 140 (per altra
fonte probabilmente erronea 180) tonnellate di rifornimenti, soprattutto
carburante e munizioni per l’Afrika Korps (il carico comprendeva 122,1 t di
benzina in latte, 16,5 t di munizioni e 1,6 t di provviste – sacchi di gallette
e pasta –, oltre ad altri rifornimenti).
Le taniche di
benzina, da 20 litri, vennero sistemate nelle camere di lancio, nei doppi fondi
e nelle latrine, le cassette di munizioni sul pagliolo del quadrato ufficiali.
La sfortuna (o semplicemente le conseguenze di un approntamento frettoloso) si
accanì ancora sul Caracciolo, che, il
3 dicembre, uscito in Mar Grande per compiere delle prove d’immersione, ebbe
un’ennesima avaria: un dado dello scarico dei motori termici, staccatosi, finì
tra il seggio e la valvola del valvolone di scarico, provocando la penetrazione
di acqua nei motori e nel pozzetto dell’olio di servizio, inquinando l’intero
circuito.
L'8 dicembre 1941 (i
superstiti Gaspare Salerno e Celestino Biagini indicarono entrambi, tuttavia,
la partenza come avvenuta il 5 dicembre: Salerno parlò della sera del 5 e
Biagini specificò che il sommergibile aveva lasciato la banchina dell’arsenale
alle otto del mattino del 5 e, ormeggiatosi poi ad una boa in Mar Grande, era
partito per la missione alle 14), riparata anche quell’ultima avaria, l'Ammiraglio Caracciolo lasciò Taranto per
la sua prima missione di guerra (in precedenza vi erano state solo cinque
missioni di trasferimento; in tutta la sua breve vita l’unità avrebbe percorso
1445 miglia in superficie e 72 in immersione). Lo comandava il capitano di
corvetta Alfredo Musotto; a bordo, oltre all’equipaggio, c’era l’operaio montatore
e motorista Guido Sellone, della FIAT Grandi Motori di Torino, imbarcato perché
i motori del sommergibile erano in garanzia ed ai loro primi impieghi. Il 4
dicembre, a Taranto, prima di partire, Sellone aveva scritto una lettera ai
parenti, da consegnarsi soltanto se non fosse tornato. Poche parole di
commiato: “Carissimi genitori, e sorella,
oggi si parte in missione. Spero che mai dovrete leggere questa mia. Ad ogni
modo affido al destino la mia vita. Tutti i miei baci a voi che amo sopra ogni
altra cosa. Vostro Figlio”.
Gli ordini erano di
navigare in superficie e raggiungere la destinazione prima possibile e con
minor rischio possibile per recapitare il carico, astenendosi dall’attaccare
navi nemiche. Secondo Celestino Biagini, il sommergibile ebbe inizialmente
l'ordine di costeggiare la Grecia e poi raggiungere Bengasi, ma, lì giunto il 7
dicembre, venne inviato dapprima a Derna e poi a Bardia, passando anche al
largo di Tobruk, rimasta in mano alle forze britanniche. Le guarnigioni di Derna e Bardia erano rimaste isolate dall'avanzata britannica durante l'operazione "Crusader", ed essendo ormai accerchiate via terra, potevano ricevere rifornimenti soltanto via mare.
Navigando in
superficie senza bandiera, intorno alle nove del mattino dell'8 dicembre il Caracciolo venne accidentalmente
attaccato da un aereo della Luftwaffe, che non lo aveva riconosciuto, ma poi il
pilota del velivolo identificò correttamente l’unità attaccata e si allontanò.
Il battello poi si immerse e, dato che le valvole di avviamento si erano
bruciate a causa del carburante impiegato (nafta per caldaie), ne venne
effettuata la sostituzione con flange cieche.
Il sommergibile in una foto di Don Tarcisio Beltrame, dal libro di Achille Rastelli “Le navi del re. Immagini di una flotta che fu”, SugarCo Edizioni, 1988, via Marcello Risolo.
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Il sommergibile
riuscì ad abbattere l’aereo attaccante, che precipitò in mare poco distante, ma
venne poi attaccato anche da siluranti nemiche e costretto ad immergersi alla
quota di 80 metri per eludere la caccia antisommergibile. L’emersione era
prevista per il tramonto, ma il battello rimase sott’acqua per altre
ventiquattr’ore per sfuggire alla caccia, che proseguiva con l’impiego anche di
torpedini da rimorchio, il cavo di una delle quali urtò il cavo aereo del
sommergibile, generando un rumore assordante. Quando le unità avversarie, non riuscendo
a localizzare il Caracciolo, si
allontanarono, il sommergibile riemerse – era giunta la sera del 10 dicembre –,
e la salma di Baucer (già portata in camera di manovra, avvolta in una coperta
ed appesa in torretta prima dell’immersione) venne avvolta in un telo,
zavorrato con un proiettile da 100/47 mm, e sepolta in mare dopo una breve
preghiera, recitata dal comandante Musotto. Poi il sommergibile diresse a tutta
velocità su Bardia, la sua destinazione, dove giunse alle sei di sera del 10
dicembre: l’ora della cena, che consistette in patate lesse, tonno, frutta
sciroppata e vino. Non appena il sommergibile si fu ormeggiato, salì a bordo un
gran numero di soldati sia italiani che tedeschi, aventi l’incarico di mettere
a terra i rifornimenti, e che nel mentre, dato che Bardia era sotto assedio e
le scorte molto ridotte, erano in cerca di cibo ed acqua. Celestino Biagini si
vide consegnare da un militare tedesco – che aveva appena trovato una gamella
ed inghiottito quasi tutto il cibo che questa conteneva – due lettere, ed anche
le due lire ed ottanta centesimi necessarie per spedirle, una volta giunti in
Italia. Dopo aver sbarcato rapidamente il carico, il sommergibile ne imbarcò un
altro, non di materiali, ma di uomini: militari italiani e tedeschi (evacuati
da Bardia assediata) e diretti a Suda, dove poi il Caracciolo avrebbe caricato altri
materiali.
Tra i "passeggeri" vi era anche il generale di brigata Guido Lami,
dei genieri, che con il grado di colonnello aveva comandato il 5° Reggimento
del Genio. Veterano d'Africa, aveva combattuto in Libia durante la guerra italo-turca (quando aveva partecipato alla costruzione della prima ferrovia della Libia) e poi durante le operazioni di "pacificazione" contro i senussi negli anni Venti, ed in Africa Orientale durante la guerra d'Etiopia; nell'estate 1940 era tornato, a richiesta, in Libia come comandante del Genio della sfortunata X Armata, alla cui distruzione nell'operazione "Compass" era stato tra i pochi scampati, riuscendo a raggiungere le linee italiane dopo una difficile traversata del deserto. Durante la successiva controffensiva italo-tedesca aveva progettato e diretto la realizzazione di fortificazioni campali a Tobruk ed a passo Halfaya e la ricostruzione dell'acquedotto Bardia-Sidi el Barrani, che proprio lui aveva fatto costruire pochi mesi prima; attardatosi durante la nuova ritirata italo-tedesca causata da "Crusader" per sovrintendere personalmente alla distruzione di quell'acquedotto, era rimasto bloccato a Bardia, dove lo avevano raggiunto la promozione a generale di brigata per merito di guerra e l'ordine di rientrare in Italia. Un anno e mezzo prima, al momento di partire, aveva dichiarato a parenti ed amici di non temere niente finché avesse avuto il suolo d'Africa sotto i piedi, e che gli inglesi non lo avrebbero mai preso vivo: parole che si sarebbero rivelate tristemente profetiche.
Secondo quanto
raccontò Gaspare Salerno, i passeggeri erano ufficiali dei Bersaglieri e dei
Carabinieri; Celestino Biagini precisò maggiormente la composizione dei
passeggeri: il generale Lami con la sua ordinanza, sei militari tedeschi feriti
(cinque dei quali in maniera molto grave) dallo scoppio di un cannone da 88 mm,
un pilota della Luftwaffe che, precipitato dietro le linee nemiche e nonostante
la perdita di un occhio, era riuscito a riguadagnare le posizioni italiane, una
ventina di brigadieri dei carabinieri e due civili, tecnici di artiglieria.
(Giornali britannici dell’epoca, nel riferire la notizia dell’affondamento,
dissero che il Caracciolo trasportava
venti ufficiali italiani e che il generale Lami era diretto a Roma ed era vice
comandante del Genio – “chief executive engineer” – al quartier generale del
Regio Esercito a Roma, ma tale affermazione, di cui non ho trovato conferma,
potrebbe essere stata un’esagerazione dei giornali britannici per dare maggiore
“importanza” alla morte del generale nemico. Altre fonti, sempre di parte
britannica, asseriscono che probabilmente il generale Lami stava venendo
evacuato per evitare che fosse catturato dalle truppe britanniche in avanzata.).
Nino Arena, nel libro “Bandiera di combattimento”, parlò di 22 ufficiali
britannici prigionieri, che sarebbero poi morti nell’affondamento, ma si tratta
probabilmente di un errore, dal momento che di prigionieri sul Caracciolo non si parla da nessuna
parte, né ne viene fatta menzione dai superstiti (probabilmente Arena si
confuse con un altro episodio, quello dell’affondamento del sommergibile
Narvalo con undici ufficiali britannici prigionieri il 14 gennaio 1943). Teucle
Meneghini, nel libro “Cento sommergibili non sono tornati”, indicò il numero
dei passeggeri in una trentina, compresi il generale Lami, tre ufficiali e tre
feriti.
In totale, compreso
l’equipaggio, il Caracciolo aveva a
bordo circa cento uomini quando, alle 23 dello stesso 10 dicembre (l’ora in cui
si alzava la luna), lasciò Bardia alla volta di Suda, dove, sbarcati gli
“ospiti”, avrebbe imbarcato altra benzina e munizioni per una nuova missione di
trasporto verso Bardia.
Il Caracciolo nel maggio 1941 (g.c. Giorgio Parodi). Altre fonti attribuiscono quest’immagine al gemello Ammiraglio Cagni.
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Intorno alle due di
notte dell’11 dicembre, a circa trenta miglia da Bardia, l’affollato
sommergibile, in navigazione in superficie con mare molto mosso, avvistò un
convoglio britannico fortemente scortato, in navigazione alla volta di
Alessandria (secondo le memorie di Celestino Biagini e Gaspare Salerno, il Caracciolo, in navigazione nell’oscurità
completa, si venne a trovare in mezzo alla formazione nemica). Si trattava
verosimilmente del convoglio «TA 2», partito il 10 dicembre ed in navigazione
di ritorno da Tobruk ad Alessandria con la scorta del cacciatorpediniere Farndale e di alcuni pescherecci armati
antisommergibile. Nonostante gli ordini fossero di non attaccare, il comandante
Musotto decise di tentare l’attacco in superficie ed alle 2.40 il battello
lanciò due siluri contro un mercantile, dai tubi poppieri, ma le armi non
andarono a segno. Il Caracciolo si
avvicinò di più e lanciò altri due siluri, dai tubi prodieri, all’indirizzo del
cacciatorpediniere britannico Farndale,
ma questi vennero elusi dall’unità nemica con la manovra. Sitzia, il direttore
di macchina, notò come il numero di siluri lanciati fosse stato inferiore a
quello che si sarebbe potuto teoricamente lanciare, perché parte dei siluri
erano stati sbarcati prima della partenza da Taranto per fare spazio alle
taniche di benzina, sistemate soprattutto nella camera di lancio di poppa. (Secondo
Celestino Biagini, invece, dapprima il battello lanciò quattro siluri con i
tubi di prua, poi, avendo mancato il bersaglio, il comandante Musotto fece
invertire la rotta ed ordinò il lancio di quattro siluri dai tubi di poppa, ma
il capo silurista, in mancanza di dati su profondità ed angolazione su cui
regolare i siluri, non eseguì l’ordine, e venne ordinata l’immersione rapida).
A bordo del Farndale, che procedeva a 15 nodi circa
un miglio sulla dritta del convoglio, il marinaio Thomas Brown, vedetta di
sinistra in plancia, fu il primo ad avvistare il sommergibile ad una distanza
di circa tre miglia (nel maggio 1942 avrebbe ricevuto la Distinguished Service
Cross), verso le 2.50 (mentre per altra versione fu la vedetta di dritta ad
avvistare per prima la torretta del Caracciolo,
che riferì come un oggetto che la cui distanza indicò erroneamente in circa un
miglio, mentre in realtà a quasi 2700 metri). Mentre il Farndale virava per avvicinarsi al sommergibile ed aumentava la
velocità, da bordo dell’unità britannica venne vista la scia di un siluro
passare davanti alla prua. (Secondo quanto raccontò il membro dell’equipaggio
del Farndale Donald Ross Green, il
personale di una delle mitragliere quadruple “pom-pom” da 40 mm riferì di aver
visto dei siluri passare sotto lo scafo del sommergibile, ma il comandante
della nave, il capitano di fregata S. H. Carlill, dopo aver osservato il mare
tutt’intorno, aveva concluso che si fossero sbagliati; poco dopo il
sommergibile venne avvistato).
Mentre le navi
britanniche si avvicinavano per cercare di speronarlo, il Caracciolo s’immerse con la rapida nel tentativo di disimpegnarsi,
ma venne sottoposto ad un pesante bombardamento con cariche di profondità da
parte delle navi della scorta, cui non riuscì a sfuggire neanche immergendosi
fino alla quota di 160 metri (ben oltre i 105 della profondità di collaudo). Il
comandante del Farndale, infatti,
dato che il sommergibile non costituiva una diretta minaccia per il convoglio,
aveva deciso di non gettare a caso le proprie bombe di profondità al solo scopo
di disturbare un eventuale attacco, bensì di eseguire precisi attacchi per
colpire l’unità subacquea. Il cacciatorpediniere seguì il sommergibile immerso,
notando che stava lentamente modificando la sua rotta verso dritta, ed alle
3.12 attaccò per la prima volta con un “pacchetto” di bombe di profondità, le
cui esplosioni fecero saltare parecchie luci a bordo del Caracciolo. Allo stesso tempo il Farndale sparò anche un razzo al calcio, ma dopo l’attacco perse
temporaneamente il contatto con il sommergibile, che ritrovò ventun minuti più
tardi, di prora sinistra. L’unità britannica accostò di conseguenza, cosa che
fece di nuovo quando il battello virò a dritta; mantenendo il centro del
bersaglio a 15 gradi di prua sinistra, il cacciatorpediniere gettò un altro
pacchetto di cariche di profondità alle 3.45. Le loro esplosioni fecero saltare
altre luci sul Caracciolo, fecero
fermare i motori elettrici e fecero perdere profondità al sommergibile.
Pesantemente
danneggiato dalla pioggia di bombe di profondità, con gli impianti vitali fuori
uso (i sistemi di controllo e le valvole per immettere acqua nelle casse
andarono in avaria) e numerose vie d’acqua, al battello non rimase che
l’emersione d’emergenza: quando fu raggiunta la quota di 160 metri, il
comandante Musotto ordinò l’emersione a pallone e gridò “Tutti ai posti di
combattimento!”. Questo secondo il racconto di Gaspare Salerno; secondo
Celestino Biagini, invece, troppi uomini a bordo avevano però compromesso
l’assetto del sommergibile, e dopo l’ordine di immersione rapida il
sommergibile sprofondò di prua, fuori controllo, poi rialzò la prua sin quasi
ad affiorare in superficie, nel mezzo del bombardamento con bombe di
profondità. Gli uomini in camera di manovra cercarono di riportare il Caracciolo in assetto, ma l’aria era
esaurita, e le bombe di profondità – che scoppiavano così vicine da far
staccare la vernice dallo scafo, e da far staccare e cadere una gabbia piena di
elmetti sul motore ausiliario, generando un rumore assordante – avevano
danneggiato il sistema degli altoparlanti per la trasmissione degli ordini, le
luci e gli indicatori del livello d’acqua nelle casse di servizio: alla fine il
sommergibile si venne a trovare in superficie.
Appena in superficie,
il comandante Musotto ordinò il massimo dei giri e tentò di allontanarsi alla
massima velocità, 18 nodi, ma Guido Sellone, l’operaio della FIAT, glielo
sconsigliò, facendo notare che i motori diesel erano ancora in garanzia. Il
comandante Musotto ordinò quindi che i serventi di cannoni e mitragliere
andassero ai loro posti, ma nessuno fece fuoco, perché subito il Caracciolo venne colpito dal tiro del Farndale, che fece strage dei serventi
di cannoni e mitragliere non appena tentarono di uscire in coperta, prima che
potessero tentare una reazione con le artiglierie di bordo – il capo silurista
di terza classe Giuseppe Garibotti, bolognese, venne colpito mortalmente nel
tentativo di rispondere al fuoco con una mitragliera –, e segnò la sorte del
sommergibile, mortalmente colpito in più punti.
Da parte sua,
infatti, il Farndale, dopo aver
virato, aveva avvistato il sommergibile in superficie alle 3.55, a poco più di
900 metri sulla sinistra, ed aveva acceso e puntato un proiettore sul battello
che tentava di allontanarsi a 18 nodi. Aveva poi avuto inizio l’inseguimento,
durante il quale la nave britannica aveva aperto il fuoco con il cannone
prodiero da 102 mm e con le mitragliere Lewis ed Oerlikon da 40 e 20 mm di
dritta, tenendosi al contempo fuori dal raggio di eventuali siluri lanciati dai
tubi poppieri del Caracciolo (ma
nessun tentativo venne fatto in questo senso). (Secondo Donald Ross Green, il
sommergibile era più veloce del Farndale,
che dovette sparare circa 200 proiettili da 102 mm per riuscire a metterlo
fuori uso). Quando il sommergibile cercò di allontanarsi a dritta, il Farndale aumentò la velocità a 23 nodi e
virò gradualmente verso dritta per aggirarlo, mentre il Caracciolo sembrava rallentare ed accostare a dritta. Alle 4.04 il
cacciatorpediniere passò davanti alla prua del sommergibile ad una distanza di
circa 370 metri, e ridusse la velocità. Il Caracciolo
virò per l’ultima volta di 90 gradi a sinistra, ed il Farndale attraversò la sua scia e lo affiancò sulla sinistra,
colpendone due volte lo scafo con il proprio tiro e poi – quando si venne a
trovare all’altezza della torretta del sommergibile – gettando in acqua tre
bombe di profondità regolate per esplodere poco sotto la superficie, in modo da
accelerarne la fine. Erano le 4.05 (altre fonti dicono invece che il Caracciolo affondò intorno alle tre di
notte).
Il comandante Musotto
ordinò “Gente a mare, aprire gli allagamenti”: l’equipaggio avviò le manovre di
autoaffondamento, poi si tuffò nel mare mosso. Il marinaio nocchiere Osvaldo
Uttaro, un ventunenne di Gaeta che si era arruolato rinunciando volontariamente
al congedo illimitato di cui disponeva, dopo essersi tuffato in mare vide un
altro marinaio impigliato, che sarebbe affondato con il sommergibile: raggiunse
nuovamente a nuoto il Caracciolo,
tornò a bordo e liberò il compagno, che riuscì a mettersi in salvo. Il generoso
sforzo fu per lui fatale: di Osvaldo Uttaro non si seppe mai più nulla. Una
medaglia d’argento al Valor Militare ne onorò il sacrificio.
Celestino Biagini,
che al momento dell’ultimo ordine era ancora nel locale motori ausiliari, venne
chiamato da un amico: con i portelli chiusi e gli interfoni fuori uso, non era
stato raggiunto dall’ordine a tutto l’equipaggio di salire in coperta. Biagini
cercò di uscire dal portello di poppa, ma questo rimase bloccato (forse
deformato dagli scoppi), mentre i suoi compagni, nel tentativo di uscire, lo
premevano contro di esso; allora si diressero tutti al portello della camera di
manovra, e lui rimase per ultimo nel locale motori, dove prese un salvagente.
Tutti quelli che si gettavano in acqua si alleggerivano prima liberandosi degli
oggetti superflui, e proprio sotto la scaletta che portava in coperta, in
camera di manovra, si erano andati ammucchiando oggetti come binocoli, stivali,
berretti, tenute. Biagini salì in plancia con indosso solo le mutande, e qui
trovò il comandante Musotto, che, dopo avergli chiesto chi era, gli ordinò di
tornare in camera di manovra per aprire gli sfoghi d’aria. Biagini scese, aprì
lo sfogo della rapida e poi risalì in plancia: non c’era più nessuno.
Gapare Salerno, un
capo motorista volontario in Marina dal 1930, dopo aver eseguito l’ordine di
aprire gli allagamenti insieme al motorista veneziano Mario Tinti raggiunse la
torretta tra gli ultimi (con loro anche il comandante Musotto) e si gettò in
acqua, dove si ritrovò insieme a Tinti nel mare molto mosso (mare forza 8,
disse), circondato dai traccianti; vicino a lui c’era anche il comandante
Musotto.
Le unità britanniche
continuavano a sparare contro il Caracciolo,
illuminando il luogo dello scontro “come una festa paesana”, e la luna
contribuiva rischiarando a giorno la scena: sul sommergibile, alcuni uomini
erano ancora in coperta, e giravano intorno alla torretta nel tentativo di
evitare di essere colpiti. Il generale Lami, una volta in coperta, si sdraiò
per non essere colpito, ma venne gettato in acqua da un colpo di mare ed
annegò.
Celestino Biagini fu
probabilmente tra gli ultimi a gettarsi in mare, e nuotò solo per pochi metri
prima di vedere il battello affondare di prua, con i compressori ancora in
funzione che pompavano fuori l’acqua di raffreddamento dal lato sinistro. Il
sommergibile affondò sotto i piedi di quanti ancora non si erano tuffati, che
si vennero così a trovare in acqua senza rendersene conto.
Il Caracciolo s’inabissò nel punto 32°09’ N
e 25°19’ E (trenta miglia a nord-nord-est di Bardia), affondando in mille metri
d’acqua.
I salvagente non
servivano a molto nel mare agitato, ostacolando il nuoto, mentre le unità
britanniche continuavano a fare fuoco con le mitragliere anche sui naufraghi,
continuando a sparare fin quando non furono giunti sottobordo; parecchi furono
colpiti ed uccisi, i proiettili traccianti rimbalzavano sulla superficie. Celestino
Biagini trovò diversi cadaveri che galleggiavano sorretti dai giubbotti
salvagente, con la testa reclinata. Una delle unità britanniche, appena ebbe
notato che il Caracciolo era
affondato, lanciò un razzo giallo che galleggiò per alcuni minuti, e qualcuno
dei naufraghi nuotò in direzione del razzo, per non essere mai più rivisto.
Il Farndale, che dopo aver gettato le tre
bombe di profondità alle 4.05 non aveva più visto il sommergibile, ma aveva
avvertito una grossa esplosione subacquea venti secondi più tardi ed aveva poi
visto il mare pieno di naufraghi, si mise sopravvento e si avvicinò ai superstiti,
che stavano gridando. Il comandante Musotto, appesantito ed intralciato dal suo
pesante vestiario invernale e dagli stivali che non si era tolto (si era
tuffato completamente vestito), gridò “Aiuto, sono il comandante!”, ed un
sergente elettricista lo raggiunse per cercare di tenerlo a galla, ma
annegarono entrambi.
Dopo aver nuotato per
un quarto d’ora, Gaspare Salerno venne inquadrato da un proiettore del Farndale, qualcuno gli lanciò una cima e
venne issato a bordo, dove venne frizionato con alcol, gli furono offerti rhum
e sigarette e gli fu dato un accappatoio.
Anche Celestino
Biagini arrivò infine sottobordo alla nave britannica, e delle cime vennero
gettate a lui ed agli altri superstiti lì vicino. Un compagno gliene passò una,
ma, quando Biagini era quasi giunto a bordo, issandosi lungo la murata, anche
il suo capo motorista vi si aggrappò, facendola spezzare e facendo cadere
entrambi in acqua. Biagini venne allontanato di parecchi metri dalla nave da
un’onda, ma a questo punto venne calata lungo la murata anche una rete da
sbarco, e lui riuscì con molta fatica ad aggrapparvisi ed ad arrampicarsi a
bordo. Gli ultimi superstiti recuperati furono il comandante in seconda, tenente
di vascello Vittorio Spadoni, ed il nostromo, Pezzati. Anche il direttore di
macchina Sitzia riuscì a raggiungere il Farndale,
dopo essere scampato al mitragliamento dei naufraghi ed essere rimasto a lungo
nel freddo mare di dicembre.
Calate le reti lungo
le murate, il Farndale recuperò i 53
sopravvissuti (6 ufficiali e 47 tra sottufficiali, marinai e soldati), tra
equipaggio e ‘passeggeri’, che furono fatti prigionieri. Le fonti non
concordano su quanti furono gli uomini che scomparvero in mare: è certo che tra
l’equipaggio del sommergibile i morti furono 16 (il comandante Musotto, quattro
sottufficiali, dieci sottocapi e marinai ed il motorista civile Guido Sellone,
che spesso non viene considerato come un membro dell’equipaggio; 17 contando
anche Milos Baucer, che tuttavia era rimasto ucciso già qualche giorno prima).
Le fonti discordano invece sul numero dei ‘passeggeri’ scomparsi: il capo motorista
Gaspare Salerno disse in un’intervista del 1984 che i morti furono 48, e che
degli ufficiali dei bersaglieri e dei carabinieri si salvò, credeva, solo un
bersagliere (oppure che vide solo poco più di una dozzina in tutto di
sopravvissuti del Caracciolo, tra cui
alcuni carabinieri). Il numero di 48 morti e 53 superstiti sembrerebbe
collimare con il centinaio di uomini a bordo indicati da un altro superstite,
Celestino Biagini, che disse anche che i sopravvissuti dell’equipaggio erano
una cinquantina, e che dei passeggeri si salvarono tra gli altri un brigadiere
dei carabinieri, un civile, l’ordinanza del generale ed il pilota della Luftwaffe
ferito ad un occhio. (In merito a quest’ultimo, Donald Ross Green ricordò che,
quando giunse a bordo arrampicandosi sulle reti, disse di essere un ufficiale
della Luftwaffe, e qualcuno gli diede un calcio nel sedere e disse “Avanti!”). Teucle Meneghini in “Cento sommergibili non
sono tornati” affermò che morì un quinto del personale imbarcato, e che dei
‘passeggeri’ si salvarono soltanto due italiani ed un tedesco. Meneghini
attribuì inoltre al mitragliamento la morte di otto sottufficiali e del comandante
Musotto (ma è pressoché certo, dalle testimonianze di Biagini e Salerno, che
Musotto annegò in acqua a causa del suo vestiario).
Tirava un vento
piuttosto freddo (secondo Biagini in acqua non faceva freddo), ed i naufraghi
si sistemarono attorno al fumaiolo, in cerca di calore. In coperta c’era un
cadavere a faccia in giù, forse il contabile di macchina Aliberti. Qualcuno
dell’equipaggio del Farndale disse
che avevano sparato sui naufraghi perché li credevano tedeschi. (Come se la
cosa costituisse una giustificazione. Più probabilmente i mitraglieri, fuori
controllo, dopo aver fatto fuoco sul personale del Caracciolo che tentava di rispondere al fuoco avevano continuato a
sparare anche sui naufraghi in mare). Gli ufficiali vennero separati dal resto
dell’equipaggio, ed i prigionieri vennero sistemati in gruppi in alcuni locali
molto sporchi; un ufficiale britannico chiese se qualcuno conoscesse l’inglese,
e risposero affermativamente il direttore di macchina Sitzia ed il capo
silurista Di Pietro. Ai sopravvissuti vennero fatte mettere per iscritto le
generalità.
Quasi tutti erano
nudi, ma tutto ciò che fu loro fornito furono tè, gallette e manzo sotto sale,
non coperte o vestiti; solo alcuni membri dell’equipaggio del Farndale offirono qualche capo di
propria iniziativa (a Biagini vennero date calze di lana e scarpe da tennis),
poi restituito dopo l’arrivo ad Alessandria.
I superstiti, interrogati
a bordo del Farndale, vennero
sbarcati ad Alessandria nel pomeriggio del 13 dicembre; prima di scendere a terra
fu loro dato del vestiario dell’Afrika Korps e vennero filmati, poi, quando
sbarcarono, un picchetto di marinai del cacciatorpediniere presentò loro le
armi. Portati a terra con una motobarca della polizia, dopo di che gli
ufficiali e tre sottufficiali vennero mandati al Cairo per essere interrogati
dall’Intelligence Service, mentre gli altri prigionieri vennero portati
attraverso Alessandria su autocarri scoperti e poi trasportati nel campo di
prigionia n. 306.
La notizia
dell’affondamento del Caracciolo,
annunciata già in serata da Radio Londra (che trasmise anche l’elenco dei
sopravvissuti), venne annunciata dall’Ammiragliato britannico il 17 dicembre
1941 e riportata da vari giornali alleati.
Gli uomini del Caracciolo, nel gennaio 1942, incontrarono
nel campo di Suez i pochi sopravvissuti dell’Ammiraglio Saint Bon, uno dei tre gemelli del Caracciolo, che proprio in quel mese era stato silurato ed
affondato dal sommergibile britannico Upholder,
ed in marzo incontrarono anche alcuni superstiti dell’Ammiraglio Millo, altra unità della stessa classe affondata in
marzo dall’HMS Ultimatum.
Giuseppe Sitzia, il
direttore di macchina, rimase per cinque anni in campi di prigionia in India.
Gaspare Salerno fu
portato dapprima nel campo n. 308 di Suez, poi in Sudafrica sino all’agosto
1944, e da ultimo nel campo di Stanton Harcourt (Inghilterra). Salerno risultò
disperso per sei mesi prima che alla famiglia fosse comunicato che era
prigioniero. Gli effetti personali da lui lasciati a Monfalcone prima
dell’imbarco vennero recapitati alla moglie (che all’epoca ancora non sapeva
che fosse vivo, in prigionia) che dovette pagare sette lire per rimborsare le
spese di trasporto. La moglie – nel dicembre 1941 erano sposati da quasi tre
anni ed avevano due figli, un bambino ed una bambina che, nata dopo l’entrata
in guerra, era stata chiamata Vittoria – seppe poi che il marito era ancora
vivo tramite il Vaticano, ma Salerno tornò a casa solo il 6 maggio 1946.
Molti altri del Caracciolo, non fecero più ritorno. La
lettera scritta da Guido Sellone il 4 dicembre 1941 raggiunse la famiglia come
previsto nel caso di una disgrazia: l’operaio della FIAT, infatti, fu tra i
dispersi del sommergibile.
Morirono l'11 dicembre 1941:
Sabato Aliberti, capo motorista di prima classe, 44 anni, da Montoro Superiore
Mario Bragagnolo, sottocapo silurista, 24 anni, da Rossano Veneto
Guido Bregaglio, sergente furiere, 25 anni, da Monza
Antonio Caruso, sottocapo cannoniere, 20 anni, da Limatola
Panfilo Ciavattone, sottocapo silurista, 22 anni, da Sulmona
Enrico Console, sottocapo segnalatore, 20 anni, da Foggia
Albino Coslovich, sottocapo motorista, 21 anni, da Maresego
Palmiro Ferrari, secondo capo meccanico, 26 anni, da Corte de' Cortesi con Cignone
Martino Fungi, sottocapo silurista, 21 anni, da Torino
Giuseppe Garibotti, capo silurista di terza
classe, 31 anni, da Bologna (MBVM)
Guido Lami, generale di brigata del Genio, 53 anni, da Livorno (passeggero)
Onorato Leto, sottocapo furiere, 23 anni, da Terrasini Favarotta
Bruno Menetto, marinaio silurista, 22 anni, da Venezia
Alfredo Musotto, capitano di corvetta, 32 anni, da Pollina (comandante) (MAVM)
Ettore Scarpantoni, sottocapo segnalatore, 25 anni, da Controguerra
Guido Sellone, operaio civile della FIAT, 32 anni, da Torino
Osvaldo Uttaro, marinaio nocchiere, 21 anni, da Gaeta (MAVM)
I nomi dei “passeggeri” periti, eccetto il
generale Lami, non mi sono noti. A questi caduti deve essere aggiunto anche
Il motorista montatore Guido
Sellone, della FIAT Grandi Motori di Torino, scomparso nell’affondamento del Caracciolo (per g.c. del nipote Guido
Gianinetto)
|
Lasciapassare rilasciato dal
capitano di corvetta Ernesto Pellegrini, comandante la II Flottiglia MAS di
Augusta, per Guido Sellone il 5 marzo 1939 (g.c. Guido Gianinetto)
|
Telegramma inviato da Guido
Sellone il 1° ottobre 1941, a seguito dell’imbarco sul Caracciolo (g.c. Guido Gianinetto)
|
L’attestato della Croce al Merito di Guerra conferita alla memoria di Guido Sellone (g.c. Guido Gianinetto) |
Nel giugno 1984
l’ANMI di Palermo, i cui soci si erano recati a Napoli per rendere onore all’ammiraglio Francesco
Caracciolo, eponimo del sommergibile, nel 185° anniversario della sua
esecuzione, rese onore anche al comandante Musotto, alla cui memoria era stata
conferita la Medaglia d’Argento al Valor Militare.
La notizia dell’affondamento del Caracciolo sull’“Examiner” del 19 dicembre 1941 (g.c. National Library of Australia/Trove)
|
L’affondamento del sommergibile annunciato sul “Lawrence Journal” del 17 dicembre 1941…
|
…e sull’“Ottawa Citizen” dello stesso giorno (entrambi gli articoli provengono dall’archivio di Google News).
|
La motivazione della Medaglia d’argento al Valor Militare conferita alla memoria del marinaio nocchiere Osvaldo Uttaro:
“Imbarcato su
sommergibile sottoposto in immersione a caccia accanita e costretto ad emergere
per mancanza d’aria di riserva, nel corso della successiva manovra per
l’autoaffondamento dell’unità perseguita dall’avversario, essendo già in mare
per il sopravvenuto ordine di abbandonare il battello, tornava volontariamente
a bordo per assicurare il salvataggio di un suo compagno. Consentiva così a
questi di mettersi in salvo, mentre egli trovava morte gloriosa, lasciando
esempio di eccezionale spirito di cameratismo e sprezzo del pericolo” (Acque di
Bardia, 10 dicembre 1941). Nel 2008 la città di Gaeta gli ha dedicato una stele
in bronzo, e nel 2011 un annullo postale (nonché una cartolina) è stato emesso
nel 70° della sua scomparsa.
La motivazione della
Medaglia di bronzo al Valor Militare conferita alla memoria del capo silurista
di terza classe Giuseppe Garibotti:
"Imbarcato su
sommergibile adibito al rifornimento di una base avanzata, durante il fatto
d'armi che provocava l'affondamento dell'unità, veniva colpito a morte mentre
tentava di reagire con la mitragliera di bordo all'intenso fuoco
avversario".
Acque di Bardia, 10 dicembre 1941
Acque di Bardia, 10 dicembre 1941
Il racconto del
superstite Celestino Biagini, di Villafranca (per g.c. di “Aria alla rapida!”
dove venne pubblicata per la prima volta nel 1998, via Fabrizio
Melotto/www.trentoincina.it):
“Fui trasferito dalla Scuola Sommergibili di Pola il 3 gennaio 1941 e destinato all'imbarco sul Caracciolo, nuovo di zecca e ancora in allestimento a Monfalcone.
“Fui trasferito dalla Scuola Sommergibili di Pola il 3 gennaio 1941 e destinato all'imbarco sul Caracciolo, nuovo di zecca e ancora in allestimento a Monfalcone.
Tra giugno e luglio,
al battello fu sostituita la torretta con una simile a quella degli U-boot tedeschi.
In autunno eravamo
pronti e, al comando del C. C. Benedetto Luchetti, partimmo per Fiume per
effettuare alcuni lanci di siluri.
Arrivammo a Fiume nel
pomeriggio di un giorno di ottobre e qui cominciarono i primi guai.
Entrando nella
darsena, incocciammo il cavo di manovra delle ostruzioni e ci volle parecchio tempo
per liberare il battello.
Poco dopo il comando
del Caracciolo passò al C. C. Alberto
Agostini, proveniente dal Mocenigo.
Al rientro dalla
prima uscita, mentre ci dirigevamo all’ormeggio manovrando con i motori elettrici,
andammo a sbattere contro la banchina. Circa tre metri della prora furono danneggiati,
tanto che la sera stessa, dopo aver sbarcato nafta, munizioni e siluri,
entrammo in bacino. Vi restammo
una settimana, durante la quale la prora fu sostituita con una nuova giunta da Monfalcone.
Usciti dal bacino,
imbarcammo nuovamente tutto il materiale, ma mentre l'ultimo siluro scendeva nella camera
di lancio poppiera, un rimorchiatore che trascinava una rugginosa corvetta greca ci
venne addosso spezzandoci una pala dell'etica di dritta. Fummo costretti a scaricare nuovamente
ogni cosa e rientrare in bacino per sostituire l'elica.
Durante la permanenza
nel piccolo cantiere di Fiume, dove stava ultimando l'allestimento il cacciatorpediniere
Da Mosto, eseguimmo le prove di
lancio. Il Comandante Agostini fu insignito della Croce
di Ferro da parte di un Ammiraglio tedesco e fu sostituito dal C. C. Alfredo Musotto proveniente
dal Glauco. Poco dopo ci trasferimmo
a Pola per ultimare i tiri e collaudare lo scandaglio, l'ecogoniometro e altre
apparecchiature.
Il 29 dicembre
partimmo per Taranto, dove arrivammo il mattino del 1° dicembre. Ricordo che Maridipart
non voleva aprire le ostruzioni perché il nome del Comandante non era
conosciuto, ma risolto questo inconveniente ci ormeggiammo finalmente alla
banchina sommergibili, dove iniziammo a imbarcare il carico di rifornimenti che
dovevamo portare in Africa. Nelle camere di lancio, nei doppifondi e nelle
latrine, stivammo taniche di benzina da 20 litri, mentre sul pagliolato del
quadrato ufficiali sistemammo le cassette di munizioni. Il resto del carico,
ricevuto dai Tedeschi e che dovevamo riconsegnare a loro in Africa, era costituito
da sacchi di gallette e pasta.
Il giorno 3 uscimmo
in Mar Grande per effettuare delle prove di immersione e si verificò una nuova
avaria: un dado dello scarico dei motori termici si staccò e finì tra il seggio
e la valvola del valvolone di scarico. Una certa quantità d’acqua entrò nei
motori e nel pozzetto dell'olio di servizio, inquinando tutto il circuito.
Riparata l’avaria, il
giorno 5 alle 8 scostammo dalla banchina dell'arsenale per ormeggiarci alla boa
in Mar Grande, da dove salpammo alle 14 per iniziare la missione.
In origine dovevamo
raggiungere Bengasi costeggiando la Grecia. Arrivammo il giorno 7, da di lì ci
mandarono a Derna e poi a Bardia passando davanti a Tobruk, che era in mani nemiche.
Poiché navigavamo in
superficie senza bandiera, alle 9 circa del mattino dell'8 dicembre fummo
attaccati per errore da un aereo tedesco, che se andò dopo averci riconosciuto.
Ci immergemmo e sostituimmo con flange cieche le valvole d’avviamento, che si
erano bruciate a causa del combustibile utilizzato, normale nafta per caldaie.
Restammo in
immersione fino alle 13 e dopo essere emersi, fummo attaccati alle 14 da un altro
velivolo, questa volta inglese, che dopo averci mancato per poco con un siluro,
cominciò a mitragliarci.
Rispondemmo con le
nostre 13,2 mm, ma una delle armi si inceppò. Il mitragliere passò all'altra,
lasciando che quella inceppata brandeggiasse col moto ondoso, senza cioè fermarla
in posizione verticale, normale alla chiglia.
Il guardiamarina
Milos Baucer, di Fiume, andò a poppa della torretta per alzare la bandiera, ma
mentre passava davanti alla mitragliera inceppata, da questa partì il colpo in
canna che gli portò via di netto la testa. Il suo corpo fu portato in camera di
manovra, avvolto in una coperta e appeso in torretta, dopodiché ci immergemmo.
Dovevamo tornare in
superficie al tramonto, ma decidemmo di restare giù per altre 24 ore perché sopra ci
davano la caccia, anche con torpedini a rimorchio. Il cavo di una di queste urtò
nel cavo aereo che sporgeva fuori bordo di circa 50 cm e fece un rumore che ci
sembrò assordante. Riemergemmo la sera del 10 e, dopo una breve preghiera
recitata dal Comandante, il povero corpo di Baucer, appesantito da un colpo da
100/47, fu affidato al mare.
Arrivammo a Bardia
verso le 18, all'ora del rancio serale: pasta in brodo, patate lesse con tonno,
frutta sciroppata e vino. Appena attraccati, fummo invasi dai soldati tedeschi
e italiani che avevano il compito di scaricare il materiale e che nel
frattempo, essendo Bardia assediata, cercavano acqua e viveri. Un tedesco
recupero una gamella, la portò alla bocca e ingoio quasi tutto il cibo che
conteneva, poi mi diede due lettere, consegnandomi anche 2 lire e 80 centesimi
per impostarle in Italia.
Dovevamo ripartire
alle 23, l'ora in cui si alzava la luna. Prima di salpare imbarcammo un generale del Genio
(si chiamava Lami), sei tedeschi feriti dallo scoppio di un pezzo da 88 mm (di cui cinque
molto gravi), un pilota della Luftwaffe che era caduto dietro le linee inglesi e,
pur avendo perduto un occhio, era riuscito a raggiungere quelle italiane, una
ventina di brigadieri dei carabinieri e anche due tecnici di artiglieria
civili. In tutto c'erano a bordo un centinaio di persone.
Gli ordini erano di
puntare su Creta, sbarcare il personale, caricare benzina e munizioni e tornare
a Bardia. Durante la navigazione con mare forte, verso le 2, finimmo in mezzo a
un convoglio diretto ad Alessandria. Il Comandante decise di attaccarlo in
superficie e ordinò il lancio di quattro siluri da prora che però non
raggiunsero il bersaglio.
Poi fece invertire la
rotta e ordinò di lanciare i quattro di poppa, ma poiché il capo silurista non
ricevette alcun dato riguardante la profondità o l’angolazione da imprimere ai
siluri, non eseguì l'ordine.
Fu ordinata
l'immersione rapida, ma il battello, a causa della troppa gente imbarcata, non aveva
più assetto: andammo giù di prora e il battello non s'agguantava più, poi
accadde l'inverso e la prora si rialzò fin quasi ad emergere, mentre in superficie
le unità nemiche di scorta al convoglio ci tempestavano di bombe di profondità.
In camera di manovra
tentavano ancora di riportare il battello in assetto, ma i gruppi d'aria erano
esauriti. Inoltre lo scoppio delle cariche aveva danneggiato l'impianto della
rete per gli ordini collettivi, i globi della luce e gli indicatori di livello
dell'acqua dolce nelle casse di servizio. Le cariche
esplodevano molto vicine e i loro scoppi facevano staccare la pittura dallo scafo. Una
gabbia brasata a scafo, piena di elmetti, si staccò e il suo contenuto cadde sul motore ausiliario
con un fracasso assordante.
Infine ci trovammo in
superficie. Il Comandante cercò di disimpegnarsi ordinando il massimo dei giri,
ma il signor Sellone, l'operaio della Fiat che avevamo a bordo, lo sconsiglio
perché i motori termici erano ancora in garanzia. Il Comandante chiamò allora
l'armamento ai pezzi, ma una volta in coperta nessuno degli addetti sparò.
Le unità inglesi,
intanto, ci sparavano invece da ogni parte e il Comandante ordinò a tutta la gente
di salire in coperta.
Io ero ancora in
camera ausiliari quando un mio amico venne a chiamarmi. I portelli erano chiusi
e gli interfonici fuori uso.
Mi diressi verso il
portello di poppa, ma questo non si aprì mentre gli altri che erano con me
cercavano di uscire schiacciandomi contro il portello. Non ci fu nulla da fare:
forse il portello era stato deformato dalle esplosioni, quindi ci dirigemmo verso
il portello della camera di manovra.
Rimasi per ultimo e
in camera motori presi il salvagente. In camera di manovra , sotto la scaletta
che portava in plancia, c'era un mucchio di oggetti: binocoli, stivali, tenute,
berretti.
Tutti si
alleggerivano prima di buttarsi in mare.
Anch’io, indossando
solo le mutandine da ginnastica, salii in plancia e vi trovai il Comandante che
mi chiese chi ero e mi ordinò di scendere in camera di manovra e aprire gli
sfoghi d’aria.
Tomai giù, aprii lo
sfogo della rapida e tornai in plancia, dove non trovai più nessuno. Alcuni giravano
intorno alla torretta per evitare i colpi sparati dalle navi inglesi, che
illuminavano i dintorni come a una festa paesana.
Mi buttai in mare. La
luna illuminava tutto, sembrava giorno. Dopo aver nuotato per pochi metri, mi voltai e
vidi il Caracciolo che, appruato, si
inabissava. I compressori erano ancora in moto e vedevo l’acqua di
raffreddamento che veniva pompata fuori bordo dal lato sinistro.
La gente in coperta
si trovò in mare senza accorgersene: il battello era sprofondato sotto i loro
piedi.
Il mare era molto
forte. I salvagente che avevamo non servivano granché perchè ci impedivano di
nuotare mentre gli inglesi ci sparavano addosso con le mitragliere, come dimostravano
i traccianti che vedevamo rimbalzare sull’acqua. Molti furono colpiti e gli
inglesi continuarono a spararci fino a quando non fummo sotto bordo alle loro
navi.
Quando gli inglesi
videro che il battello era sparito dalla superficie, un’unità lanciò un razzo giallo
che galleggiò per qualche minuto. Alcuni dell’equipaggio si diressero da quella
parte e non si videro più.
Quella che sembrava
una corvetta si mise sopravvento e venne verso di noi: sullo scafo portava dipinta la
sigla L70 [si trattava del Farndale].
Mi imbattei in uomini
con la testa reclinata sul petto, il corpo tenuto in posizione verticale dal salvagente.
A quanto ne so gli inglesi giustificarono il mitragliamento con il fatto che ritenevano che noi
fossimo tedeschi.
Quasi tutti i
naufraghi gridavano. Udii anche il comandante Musotto urlare: ‘Aiuto, sono il Comandante!”.
Vidi anche qualcuno, credo un sergente elettricista, andare ad aiutarlo, ma tutti
e due andarono giù. Il Comandante si era buttato in mare quasi completamente
vestito e con gli stivali, lo vidi benissimo a qualche metro da me.
Non saprei dire
quanto tempo passò prima che riuscissi a portarmi vicino all’unità britannica.
Comunque, quando io e
altri fummo sottobordo, ci lanciarono alcune sagole lungo la murata.
Un compagno me ne
passò una e quando ce l'avevo quasi fatta ad arrivare a bordo, il mio capo
motorista si appese anche lui. La sagola si ruppe, io caddi giù e un colpo di
mare mi allontanò a molti metri dalla nave.
Vidi che lungo la
murata avevano finalmente calata una rete da sbarco e dopo molti sforzi riuscii
ad aggrapparmi e a salire a bordo. Gli ultimi a farcela furono il Comandante in
seconda, Vittorio Spadoni, e il nostromo Pezzati.
Ci sistemammo tutti
al caldo intorno al fumaiolo. In acqua non faceva freddo, ma fuori il vento era
teso e fresco.
Gli inglesi divisero
gli ufficiali dagli altri e a gruppi ci sistemarono in vari locali che, notai, erano
davvero sporchi. Poi passò un ufficiale che domandò se parlavamo inglese. Lo parlavano
il direttore di macchina Sitzia e il capo silurista Di Pietro. Ci fece scrivere
su un brogliaccio le nostre generalità.
Quella sera, Radio
Londra comunicò la notizia del nostro affondamento e diede l'elenco di coloro
che si erano salvati. Vedemmo un corpo steso in coperta a faccia in giù e ci
parve che fosse il contabile di macchina Aliberti. Del nostro equipaggio, se ne
salvarono molti, forse una cinquantina. Molte delle persone imbarcate a Bardia
si salvarono: un civile, un brigadiere dei carabinieri, il pilota tedesco
ferito a un occhio e l'ordinanza del generale. Quest'ultimo, invece, non ce la
fece: uscito in coperta e sdraiatosi per evitare i proiettili nemici, fu
spazzato via da un colpo di mare.
Benché quasi tutti
fossimo nudi, il comando dell'unità inglese non ci fornì alcun tipo di vestiario
e nemmeno coperte, ma soltanto thè, gallette, e "corned beef”. Solo
qualche membro dell'equipaggio, di sua iniziativa, ci diede qualche capo di
vestiario, che fu restituito al momento dello sbarco ad Alessandria. A me
diedero un paio di calze di lana e scarpette da tennis.
Attraccammo ad
Alessandria il pomeriggio del 13 dicembre.
Prima di sbarcare ci
fornirono vestiario tedesco dell'Afrika Korps, ci filmarono con cineprese e, al
momento dello sbarco, un picchetto di marinai dell'unità nemica in tenuta
ordinaria ci presentò le armi. Infine una motobarca della polizia ci portò a
terra. Prima di giungere al Campo di Prigionia n° 306 attraversammo tutta la
città su alcuni camion scoperti. Gli ufficiali furono invece inviati al Cairo
insieme a tre sottufficiali, a disposizione degli uomini dell'Intelligence
Service. Il nostro interrogatorio avvenne il giorno dopo da parte di un tenente
di vascello che parlava l'italiano come noi. Fu una faccenda molto formale,
poiché ciò che interessava loro, gli inglesi lo sapevano già.
Il periodo della
prigionia costituisce un capitolo a sé, un'altra storia. Ma voglio qui
ricordare che nel gennaio 1942 a Suez incontrammo alcuni naufraghi del Saint Bon, mentre nel marzo dello stesso
anno anche quelli del Millo.”
L’affondamento del Caracciolo visto da Donald Ross “Potts”
Green, membro dell’equipaggio del Farndale (g.c. Donald Ross Potts Green, The
Memory Project, Historica Canada):
“Shortly afterwards,
we were on a convoy to Tubruq, the pom-pom crew reported torpedoes passing
underneath. The captain had a look around and decided that they made a mistake.
A little while afterwards, they sighted a submarine. We attacked, depth
charged, and then the submarine came to the surface. We chased it. In official
report, it appeared that we were doing pretty good but in fact, the submarine
at that time was faster than we were. It was an Italian submarine, had a crew
of probably 60. Had a general and his staff onboard, which had been evacuated
from Bardia. We fired about 200 shells, four inch shells at it, before we
disabled it. The crew abandoned the submarine. It sank very quickly. And there
were bodies all over in the sea. We put the body nets out, picked up 54
survivors and they were all ship’s crew except one person. So when he came
aboard, scrambled up the nets, he said, I’m an officer, Luftwaffe. So someone
gave him a kick in the ass, said get forward.”
Il Caracciolo, a sinistra, ed il gemello Millo nei cantieri di Monfalcone (g.c. Giorgio Parodi). Sui due sommergibili sono in corso i lavori di sostituzione delle torrette originarie con altre meno voluminose.
|
Mi chiamo Gianinetto Guido sono il nipote, da parte materna, del motorista Guido Sellone nato nel 1909 a Torino, Montatore alla FIAT "Grandi Motori" di Torino, imbarcato il 1°/10/1941 sul Sommergibile "Ammiraglio Caracciolo". Con mio sommo dispiacere non ho avuto modo di conoscerlo, in quanto nato 8 anni dopo la sua tragica dipartita (1949). Conservo gelosamente del materiale a lui appartenuto, inerente proprio il sommergibile "Ammiraglio Caracciolo" in questione.
RispondiEliminaFra cui:
lasciapassare per la base di Augusta,
Telegramma indirizzato ai genitori e sorella (miei nonni e mia mamma) che annuncia l'imbarco sul sommergibile "Caracciolo",
una sua lettera, l'ultima ahimè, che saluta, in modo quasi consapevole e commovente, la famiglia dando la notizia della partenza per una missione di guerra. Naturalmente, per ovvi motivi, non specificando altro.
in fede Guido Gianinetto
La ringrazio per avermi contattato.
EliminaSe fosse di suo gradimento, potrebbe magari inviarmi parte del materiale, che poi inserirei in questa pagina.
Cordialmente,
Lorenzo Colombo
La ringrazio anticipatamente, mi fa molto piacere inviarLe del materiale. Con entusiasmo ho letto il suo articolo. Molto interessante e commovente, considerando, inoltre, che ho perso il mio caro zio Guido (di cui porto il nome di battesimo, in sua memoria). Non ho avuto il piacere di conoscerlo ma lo porto nel mio cuore. I miei più cari e cordiali saluti
RispondiEliminaSono io a ringraziarla. Il mio indirizzo e-mail è lorcol94@gmail.com
EliminaNe sono veramente felice di poter, in qualche modo, contribuire. Il mio indirizzo e-mail è gg.net@outlook.it . Aggiungo una nota particolare mio padre Pietro, anche lui non ha mai avuto modo di conoscere il futuro cognato, proprio in quel periodo si trovava a Tobruk, impegnato in azioni di guerra ovviamente. Faceva parte dello storico (considerato tale) 53° stormo C.T. 151° gruppo 366^ squadriglia. Probabilmente del materiale era destinato anche a loro. Infinitamente grazie e rinnovo i miei complimenti per il suo encomiabile operato storico. Penso e ripeto una frase già detta... "per non dimenticare..." cordiali saluti Guido Gianinetto
RispondiEliminaHo delle foto del cc musotto. Gliele posso inviare?
RispondiEliminaCertamente!
EliminaBuna sera, sono il figlio del Capo motorista Gaspare Salerno, desidero ringraziare quanti mi hanno contattato per la pubblicazione su youtube (scheda compilata dal sig. Vincenzo Bronzino - "Gaspare Salerno...") della drammatica notte riguardante l'auto affondamento del somm Caracciolo ed in particolare ai Sigg . Guido Gianinetto nipote di Guido Sellone di Torino e Armando Carminati. I ringraziamenti vanno altresi estesi all'Associazione Nazionale Marinai d'Italia di Palermo,Marinai.it, xmasgruosom, betasom.it e da ultimo, solo per tempo, al caro amico Giovanni Passafiume che mi ha indicato la lettura del libro dal titolo "Con la pelle appesa a un chiodo" che, pur non riportando tutto quanto ricordato da mio padre, mi ha rinnovato l'emozione del vissuto. concludo col dire che io continuo anno per anno a dedicare un lumino alla memoria dei meno fortunati morti in quella fredda notte di dicembre, come faceva mio padre.
EliminaSono Salvatore Salerno. figlio del capo motorista Gaspare imbarcato sul somm. Caraccioloieri ho scritto qualcosa riguardante l'autoaffondameneto del mezzo e subito dopo è sparito tutto. posso sapere perchè? grazie
RispondiEliminaBuongiorno, non è sparito: è visibile appena sopra il commento che ha appena lasciato.
EliminaBuonasera. Comunque il cc Musotto proveniva dall'OTARIA, gemello del Glauco, che era già affondato in Atlantico....
RispondiEliminaGrazie, correggo.
EliminaComplimenti a Lorenzo per l'eccellente lavoro che svolge per mantenere la Memoria di pagine così tragiche della nostra storia.
RispondiEliminaQualcuno mi può aiutare ad avere informazioni circa il tenente di vascello Vittorio Spadoni? In particolare mi interesserebbe sapere se nei primi anni '30 fosse imbarcato sul sommergibile Balilla oppure sul sommergibile Millelire. Vi lascio la mia mail andrea.di.ciancia @ gmail.com Grazie in anticipo.
Guardi, il TV Vittorio Spadoni era molto giovane ed uscì dall'Accademia Navale solo il 10.1.1936. Era nato ad Ancona il 1°.11.1913, figlio di Pio e di Marchetti Alinda, residente ad Ancona in via Gorizia, 20. Per quanto ne so, ancora aspirante, il 16.11.1935 era stato imbarcato sull'incrociatore Giovanni Delle Bande Nere per tirocinio. Fu promosso STV nel 1937 e TV nel 1940.
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