Un dipinto della Sumatra (g.c. Mauro Millefiorini)
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Motonave da carico da 4859 tsl, 2934 tsn e 8430 tpl, lunga 123,4 metri, larga 16,46 e pescante 10,7, con velocità di 10,5 o 13 nodi. Appartenente alla Società Anonima di Navigazione Lloyd Triestino, con sede a Trieste, ed iscritta con matricola 303 al Compartimento Marittimo di Venezia; nominativo di chiamata internazionale ICIN.
Breve e parziale cronologia.
21 ottobre 1926
Varata nel cantiere
di San Rocco (Trieste) dello Stabilimento Tecnico Triestino (costruzione numero
753).
Novembre 1927
Completata per la
Società Marittima Italiana (una controllata del Lloyd Sabaudo), con sede a
Genova. Inizialmente registrata a Genova; caratteristiche originarie 6126 tsl,
3801 tsn e 8405 tpl (rimisurate dopo il 1939-1940 a quelle indicate più sopra).
12 dicembre 1927
Posta in servizio
sulla linea Genova-Indie Olandesi.
1932 (per altra fonte: gennaio 1937)
Trasferita al Lloyd
Triestino.
Phuket Harbour
Anche la Sumatra fu tra le oltre duecento navi
italiane che la guerra sorprese ben lontane dall’Italia e dal Mediterraneo.
Nel giugno 1940 la
nave, al comando del capitano chiavarese Ernani Andreatta, si trovava in navigazione nel Golfo del
Bengala (era partita da Batavia, nelle Indie Olandesi) e si rifugiò nella
neutrale Thailandia: precisamente a Phuket Harbour, città portuale dell’isola
di Phuket, lungo la costa occidentale della penisola malese. La Sumatra non era sola in quel porto:
altre due navi italiane, la motonave Volpi
ed il piroscafo XXVIII Ottobre, vi si
rifugiarono infatti anch’esse allo scoppio della guerra.
Una quarta nave
italiana, la motonave Fusijama,
riparò anch’essa in Thailandia, ma in un altro porto, quello di Koh Si Chang.
Per gli equipaggi
italiani, la monotonia dell’internamento lontano da casa venne ben presto
aggravata dalle malattie tropicali e dalla dissenteria amebica, oltre che
dall’opprimente clima caldo ed umido (che favoriva tali malattie). Parecchi
finirono in ospedale; gli altri dovettero barcamenarsi per tirare a campare: le
provviste e soprattutto l’acqua non abbondavano neanche a terra, tra la
popolazione locale. Per l’acqua i marittimi italiani sfruttarono il piovosissimo
monsone estivo di sudovest (maggio-settembre), sistemando ovunque tende e
tendaletti che convogliarono tonnellate d’acqua piovana nei depositi delle
navi. Da ottobre a maggio soffiava il monsone di nordest, portando clima
siccitoso; ma un opportuno razionamento dell’acqua piovana raccolta nel periodo
precedente la fece bastare per tutti.
Per il cibo si
ricorse alla pesca: le acque della baia di Phuket erano molto pescose, ben al
di sopra dei bisogni degli equipaggi italiani. Per pescare si sarebbero potute
utilizzare le lance di salvataggio, ma c’era il timore di danneggiarle; allora
si utilizzò parte del carico di legname contenuto nelle stive per realizzare
alcune zattere ed imbarcazioni, con le quali i marittimi presero a condurre
battute di pesca tra le meravigliose isolette della baia di Phuket, in quello
che – in altre circostanze – sarebbe potuto essere un vero paradiso tropicale.
(Ed infatti oggi lo è: ironia della sorte, proprio i turisti italiani sono tra
i più assidui frequentatori della zona, e molti vi si sono anche trasferiti
stabilmente).
Per variare il menù,
si barattava il pesce in eccedenza con i contadini tailandesi dei villaggi
sulla costa, che in cambio offrivano riso o frutta fresca.
Le autorità
tailandesi si erano mostrare assai benevole nei confronti degli italiani, ma
per le navi di Phuket la fuga era impossibile: il confine con la Birmania,
colonia britannica, distava solo 130 miglia, e le navi erano tenute
continuamente sotto controllo. Le forze aeronavali britanniche ed olandesi
controllavano lo Stretto di Malacca, il Mar di Giava, il Mar di Sumatra ed il
Golfo del Bengala. Per di più le autorità tailandesi, per quanto benevole,
restavano strettamente neutrali e non avrebbero acconsentito ad una partenza
delle navi internate.
Supermarina si
rassegnò quindi a lasciare Sumatra, Volpi e XXVIII Ottobre a languire a Phuket: organizzò invece la fuga della Fusijama, che, grazie alla posizione più
favorevole di Koh Si Chang, aveva qualche speranza di eludere la sorveglianza
britannica. Difatti questa nave violò il blocco con successo, raggiungendo dapprima
il Giappone e successivamente la Francia occupata.
Per le tre navi di
Phuket, la vita trascorse per un anno e mezzo nelle condizioni sopra descritte
(nel maggio 1941, frattanto, la nave venne formalmente trasferita alle Linee
Triestine per l’Oriente, sempre con sede a Trieste). Il 7 dicembre 1941,
tuttavia, le forze dell’Impero del Giappone lanciarono il famoso attacco di
Pearl Harbour, così scatenando la guerra del Pacifico; l’8 dicembre, in base a
piani preparati da tempo, forze giapponesi sbarcarono in Malesia, possedimento
britannico, ed invasero anche la Thailandia.
Le navi italiane non
avevano nulla da temere, visto che i giapponesi erano alleati, ma era giunta
notizia che i britannici intendessero occupare tempestivamente Phuket Harbour
prima dei giapponesi, per rafforzare le loro difese nell’area e catturare le
tre navi italiane e le miniere di stagno dell’area. Venne dato ordine, per tale
evenienza, di asportare tutto ciò che potesse tornare utile, ed autoaffondarsi
per evitare la cattura.
Secondo una fonte, nel
tardo pomeriggio dell’8 dicembre alcuni idrovolanti britannici apparvero nel
cielo della baia di Phuket e puntarono proprio sulle navi italiane. La reazione
fu immediata: per primo si incendiò ed autoaffondò il XXVIII Ottobre, poi la Sumatra,
e per ultima la Volpi. Le navi
impiegarono circa tre o quattro ore per affondare. Un incrociatore britannico
entrò poco dopo nella baia ma, trovando le navi già affondate, riguadagnò
rapidamente il largo.
Secondo un’altra
versione, invece, le tre navi si autoaffondarono a seguito di un erroneo
avvertimento, da parte giapponese, su un imminente attacco britannico; senza
che tale attacco si fosse effettivamente realizzato.
In ogni caso, l’8
dicembre 1941 Sumatra, Volpi e XXVIII Ottobre finirono sul fondo della baia di Phuket.
Nel febbraio 1943 si
pianificò di recuperare le tre navi impiegando la cannoniera Lepanto (stazionaria a Shanghai), poi
giudicata inadeguata e sostituita per tale ruolo dalla nave coloniale Eritrea; l’idea fu però abbandonata, e
le navi rimasero dov’erano, completamente sommerse ad eccezione di alberi e
fumaioli.
I marittimi italiani,
rimasti ora senza neanche più le loro navi, dimenticati tanto dalle autorità
tailandesi quanto da quelle nipponiche, si arrangiarono come poterono: alcuni
si stabilirono in capanne abbandonate della zona; altri trovarono ospitalità
presso famiglie locali; qualcuno cercò di farsi trasferire in Giappone, altri
cercarono lavoro in zona, altri si unirono legalmente con donne tailandesi. (Da
queste unioni sarebbero nati, tra il 1940 ed il 1946, numerosi bambini, che i
marittimi lasciarono a Phuket quando, a guerra finita, tornarono in Italia:
molti, infatti, avevano già una famiglia. Ne nacque così una minuscola
discendenza italo-tailandese a Phuket, ben prima che altri italiani, in ben
altre circostanze, decidessero di trasferirsi in questa località). Altri ancora
raggiunsero la popolosa e caotica Bangkok, cercandovi un’occupazione ed una
sistemazione migliore.
Questa situazione si
protrasse per ventidue mesi esatti: fino all’8 settembre 1943, quando venne
annunciato l’armistizio tra l’Italia e gli Alleati. Agli occhi dei giapponesi,
gli italiani erano diventati nemici e traditori: i marittimi della Sumatra e delle altre navi vennero
braccati, catturati e rinchiusi nei tremendi campi di prigionia nipponici, dove
rimasero fino alla fine del conflitto.
Almeno due membri
dell’equipaggio della Sumatra non
sopravvissero alla prigionia: l’ingrassatore Giuseppe Pockai, triestino, morì
il 22 ottobre 1944; l’amanuense Ricciotti Lungonelli, genovese, morì a Bangkok
il 22 gennaio 1945.
Liberati al termine
della guerra, i superstiti della Sumatra
vennero rimpatriati il 3 settembre 1946 dalla nave coloniale Eritrea.
Nel mentre, la storia
della Sumatra e della Volpi non era ancora del tutto
terminata. Nel 1944 le autorità giapponesi, che necessitavano di navi a seguito
delle pesanti perdite subite nel Pacifico, decisero di iniziare il recupero
della Volpi (per altre fonti, anche
della Sumatra) per impiegarla come
trasporto; i comandi britannici lo vennero a sapere (le notizie loro giunte
erano che si tentava il recupero di entrambe le navi), e decisero di impedirlo.
Fallito un normale attacco di sommergibile (i siluri erano finiti nella sabbia,
per via della posizione delle navi nella baia), allo scopo venne inviato il
sommergibile Trenchant (capitano di
corvetta Arthur Richard Hezlet), equipaggiato con due Chariot Mk II “Terry”.
Ironia della sorte,
per affondare delle navi che erano state italiane, venne impiegata un’arma
tipicamente italiana: i Chariots britannici, infatti, altro non erano se non
una riproduzione (modificata) dei Siluri a Lenta Corsa (SLC, meglio noti come
“maiali”) impiegati dalla X Flottiglia MAS italiana, derivati da un mezzo
italiano catturato durante una delle incursioni della X MAS.
Sulla sorte della Sumatra in queste circostanze, sembra
esservi una certa confusione. Da parte britannica viene spesso scritto che la Sumatra fu recuperata dalle forze
giapponesi per prima, e che nell’ottobre 1944 era in procinto di essere
rimorchiata a Singapore per i lavori di riparazione, mentre la Volpi
era ancora semisommersa ma in corso di recupero; entrambe furono affondate di
nuovo e definitivamente dall’attacco degli Chariots. Secondo fonti giapponesi,
tuttavia, soltanto la Volpi era in
corso di recupero: per incredibile coincidenza, al momento dell’attacco si
trovava nel porto di Phuket anche la Sumatra
Maru, che però non era l’ex italiana Sumatra
(che invece giaceva ancora sul fondo della baia) bensì la ex olandese Tomori, di 984 tsl; fu questa la “Sumatra” affondata dall’attacco
britannico insieme alla Volpi, a due
passi dal relitto della sua quasi omonima italiana.
Quale che fosse la
verità, il Trenchant salpò da
Trincomalee il 22 ottobre 1944 e raggiunse la baia di Phuket nella notte del 27
ottobre. Passò la giornata del 27 al largo, in attesa del buio, poi si avvicinò
nuovamente e, alle 22 del 27, rilasciò gli Chiariots "Tiny" e "Slasher"
(LXXIX e LXXX) a circa sei miglia e mezzo dal porto. Gli equipaggi erano: per "Tiny",
il tenente di vascello Tony Eldridge ed il sergente Sydney Woollcott; per "Slasher",
il sergente Bill Smith ed il marinaio Albert Brown.
I due mezzi
raggiunsero le navi (la Volpi per "Slasher",
la Sumatra Maru per "Tiny")
in circa due ore e mezzo e collocarono, non visti, le loro cariche esplosive da
500 kg ciascuna. In entrambi i casi, le cariche non poterono essere applicate
agli scafi: sulla Sumatra Maru,
perché lo scafo era coperti di cirripedi, così che Eldridge e Woollcott
legarono con delle corde la carica ad un’aletta antirollio; sulla Volpi, perché lo scafo era ancora
appoggiato al fondale oltre che anch’esso coperto di cirripedi, quindi la
carica dovette essere sistemata in un locale macchine sommerso.
Terminata la loro
opera, i due Chariots tornarono verso il Trenchant,
che raggiunsero alle 3.03. A causa di rumori di eliche rilevati dal sonar del
sommergibile, attribuiti ad una motosilurante giapponese in avvicinamento,
venne deciso di recuperare solo i quattro operatori, abbandonando ed
autoaffondando i due Chariots. (I loro relitti, scoperti e spostati dallo
tsunami del 26 dicembre 2004, sono stati ritrovati nel 2006).
Quando le cariche
esplosero (intorno alle 6.30 del mattino del 28, a circa cinque minuti l’una
dall’altra), la Sumatra Maru fu
affondata (in posizione 07°54’ N e 98°28’ E) e la Volpi gravemente danneggiata, portando i comandi giapponesi a
decidere di rinunciare al suo recupero. Secondo un’altra versione, solo la Sumatra Maru fu affondata, mentre
l’attacco contro la Volpi non ebbe
successo, anche se il suo recupero non fu comunque portato a termine.
L’attacco del 28
ottobre 1944 fu l’ultima azione di Chariots effettuata durante la seconda
guerra mondiale.
Alberature e fumaioli
della Sumatra e della Volpi, che emergevano al di sopra della
superficie del mare, rimasero visibili fino ai primi anni ’70, quando vennero
smantellati dalla popolazione locale per recuperarne il metallo. I relitti
delle due navi dovrebbero invece giacere ancora sul fondale della baia di
Phuket, tra la spiaggia di Banijo e Phi Phi, ad un paio di miglia dalla costa.
La loro storia è oggi
del tutto ignorata e dimenticata, tanto dalla popolazione tailandese di Phuket
quanto dagli italiani che oggi vi vivono o vi soggiornano per turismo,
all’oscuro delle vicende che, in quello stesso luogo, coinvolsero decine di
loro connazionali tanti decenni fa.
Questa bella storia mi è stata in parte raccontata nel 1990 da un vecchio fotografo di Phuket, dove ho vissuto per qualche anno. Mi ha detto che si potevano distinguere facilmente i figli degli italiani, dal naso.
RispondiEliminaHo trovato la storia interessantissima. Complimenti all' autore.
RispondiEliminaLa ringrazio.
EliminaMolto interessante,non conoscevo la storia. Complimenti all' autore.
RispondiEliminaGrazie per lo splendido resoconto, mi permetto un piccolissimo appunto: il nome del comandante è Andreatta (con 2 t), nato a Chiavari.
RispondiEliminaLa ringrazio, provvedo subito a correggere.
EliminaSono Ernani Andreatta Jr.
RispondiEliminaMio padre Ernani Andreatta, mio omonimo, nato nel 1894 e deceduto nel 1978, era il comandante della Sumatra. Il Giornale Nautico, Libro Primo, sia del Sumatra che del Volpi sono in mio possesso perché mio padre di ritorno dalla Tailandia nel 1946 non lo consegnò al Lloyd Triestino. Quando passai al comando di navi mercantili negli anni ’70 me lo consegnò dicendomi di conservarlo.
Prossimamente lo trascriverò dato che entrerà a far parte di un libro che sto preparando dal titolo: Memorie dal mare 2.
Vorrei fare i complimenti al signor Lorenzo Colombo per l’ottimo racconto sull’affondamento delle tre navi.
Chiedo il permesso di poter utilizzare alcuni passi del racconto che andranno ad integrare un capitolo del mio libro.
Ringrazio e invio cordiali saluti
Ernani Andreatta
Buongiorno signor Andreatta,
Eliminala ringrazio. Può certamente usare nel suo libro questo mio racconto nella misura in cui desidera; mi farebbe anzi molto piacere.
Cordialmente,
Lorenzo Colombo
Grazie Signor Colombo. Appena pronto le faccio sapere Saluti Andreatta
RispondiEliminaBuongiorno di nuovo signor Andreatta, potrebbe scrivermi a lorcol94@gmail.com? Vorrei chiederle alcune delucidazioni in merito alla motonave Nino Bixio.
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