La Tifone nel 1942 (g.c. Giorgio Parodi, via www.naviearmatori.net) |
Torpediniera di
scorta della classe Ciclone (1160 tonnellate di dislocamento standard, 1652 in
carico normale, 1800 a pieno carico). Ebbe breve, ma intensa esistenza sulle
rotte dei convogli tra l’Italia e l’Africa settentrionale.
Breve e parziale cronologia.
17 giugno 1941
Impostazione nei
Cantieri Riuniti dell’Adriatico di Trieste.
31 marzo 1942
Varo nei Cantieri
Riuniti dell’Adriatico di Trieste.
31 marzo 1942: il varo della Tifone (g.c. Giorgio Parodi via www.naviearmatori.net) |
11 luglio 1942
Entrata in servizio,
al comando del tenente di vascello Luigi Bortone (il quale è al suo primo
comando).
La Tifone andrà a formare la II Squadriglia
Torpediniere, detta anche delle “tempeste”, insieme alle gemelle Uragano, Groppo (o Monsone), Ciclone e Fortunale. Solo quest’ultima sopravvivrà
alla battaglia dei convogli.
Luglio 1942
Prove in mare e
dell’armamento nel Golfo di Trieste, al comando del tenente di vascello Luigi
Bortone.
Vengono dapprima
effettuate le prove in mare, di velocità e di manovrabilità (che la porteranno
per la prima volta nel golfo di Trieste), che mostrano una velocità superiore a
quella di contratto ed un’eccellente manovrabilità anche a tutta forza; il
giorno seguente vengono effettuate le prove di tiro, diurno e notturno, sia con
i cannoni contro bersaglio (provocano la rottura di tutti i vetri degli
strumenti di bordo, che richiederanno due giorni in cantiere per le
riparazioni) che con le mitragliere. Vengono poi eseguite le prove di tiro
contraereo contro un bersaglio rimorchiato da un velivolo, di nuovo con cannoni
e mitragliere, ed infine, di notte (dopo una momentanea sosta nel porto di
Trieste durante il pomeriggio), le esercitazioni antisommergibile con
l’ecogoniometro, usando come “bersaglio” un vecchio relitto (in mancanza di un
vero sommergibile, non inviato da Pola); tutte hanno esito soddisfacente.
28 luglio 1942
Alle 21.55, mentre
rientra dall’esercitazione antisommergibile, la Tifone rileva con l’ecogoniometro – 2,7 miglia a nordovest di Punta
Salvore, tra Grignano e Monfalcone – un contatto subacqueo che, ritenuto
inizialmente un relitto della Grande Guerra non segnato sulle carte, si rivela
poi essere (o almeno così si ritiene) un oggetto in movimento: un autentico
sommergibile, nemico. Ha inizio la caccia, che si protrarrà per quasi tutta la
notte: il sommergibile manovra per sottrarsi alla caccia, si avvicina ai
relitti presenti sul fondale così che la sua eco si confonda con la loro, tenta
di raggiungere il mare aperto; la Tifone
compie continue accostate per seguirlo e non perdere il contatto, ed esegue
ripetuti lanci di bombe di profondità, sin quasi ad esaurirne la dotazione. La
scia prodotta dalla torpediniera con le sue continue manovre, tuttavia,
disturba l’ascolto ecogoniometrico: alla fine l’eco del sommergibile viene
persa e non più ritrovata. La Tifone
incrocia vanamente sino all’alba nel tentativo di riprendere il contatto, poi
rientra a Trieste, dove trova ad attenderla una folla di curiosi – marittimi,
vecchi pescatori, anche donne con la borsa della spesa e pensionati – che
domanda ai marinai cosa abbia fatto la nave durante la notte, visto che la sua
azione antisommergibile ha svegliato tutta la città.
Dopo che il
comandante Bortone ed il comandante in seconda Filiberto Sturlese hanno fatto
rapporto sull’accaduto – sulla Tifone
si pensa che il sommergibile fosse stato inviato nel Golfo a “controllare”
l’allestimento della corazzata Roma, nei cantieri della città dove la Tifone stessa è appena stata completata
– la torpediniera si rifornisce di bombe di profondità per riformare la propria
dotazione, poi per due settimane effettuerà addestramento e rastrello antisom
nel golfo di Trieste.
Dopo aver battuto
ininterrottamente in lungo e in largo tutto il golfo, accertando la totale
assenza di unità subacquee, viene rilevata dall’Uragano frattanto ultimata, e torna in cantiere, dove passerà altri
tre giorni per le ultime messe a punto e per rassettare le attrezzature
lesionate dall’impiego delle cariche di profondità.
Nonostante tutto, non
vi era alcun sommergibile nemico nel golfo di Trieste al tempo degli eventi
descritti. L’attacco della Tifone fu
con ogni probabilità rivolto davvero, come sospettato all’inizio, contro il
relitto di un piroscafo affondato nella prima guerra mondiale, il Gilla.
31 luglio 1942
Viene inviata a dare
la caccia al sommergibile britannico Traveller
(tenente di vascello Michael Beauchamp St. John), che alle 9.42 ha
infruttuosamente lanciato sei siluri contro la vecchia cannoniera (ex
incrociatore protetto) Cattaro nel
punto 44°36' N e 13°54' E, nell’Adriatico.
Agosto 1942
Tornata a Trieste, la
Tifone ne riparte diretta a Pola,
dove dovrà ultimare l’addestramento: nel tragitto è di scorta ad una
petroliera. Sarà la sua prima missione di scorta e la sua prima navigazione in
mare aperto.
Salpata in mattinata,
la torpediniera effettua per fino al tramonto rastrello antisommergibile,
essendo la cisterna da scortare in ritardo con il caricamento. Alle 20,
sopraggiunta la petroliera a pieno carico, le due navi (Tifone in testa seguita dalla cisterna) si mettono in navigazione
verso Pola, superando Muggia e Capodistria per poi addentrarsi in alto mare.
Sulla Tifone il mare lungo, che causa
fortissimo beccheggio, “stende” quasi tutto l’equipaggio, che è preda di
violento mal di mare (tanto che il comandante in seconda Sturlese, uno dei
pochi a non soffrirne, la definisce ironicamente “la nave dei morti” dato lo
stato cadaverico del suo equipaggio). Giunta nel canale di Fasana, la Tifone smette di oscillare, essendo tali
acque, riparate, più calme; viene rilevata da una vecchia “tre pipe”, forse l’Antonio Mosto, nella scorta alla
petroliera, che prosegue verso Taranto, poi raggiunge Pola.
Qui la Tifone rimane per una settimana, uscendo
ogni giorno per intenso addestramento; poi viene inviata a Fiume e scorta da lì
a Pola una nave carica di siluri.
A Pola la
torpediniera si rifornisce di acqua, provviste, carburante e munizioni, poi
riprende il mare per scortare una petroliera carica di carburante, proveniente
da Trieste e diretta a Brindisi. Incontrata la cisterna al largo, la Tifone la scorta fin oltre Brindisi,
completando lungo il percorso l’addestramento (specie antisommergibile); poi
viene rilevata nella scorta da altre due torpediniere provenienti da Taranto, e
raggiunge Brindisi, dove si ormeggia. Durante la brevissima sosta a Brindisi
vengono scoperti dei problemi alle macchine, per cui, anziché proseguire verso
sud per iniziare le scorte sulle rotte per la Libia, la Tifone dev’essere rimandata in cantiere a Trieste. Lungo il
tragitto scorta un vecchio piroscafo che procede a 4-5 nodi, continuamente
afflitto dalle avarie; la Tifone ne
approfitta per eseguire altre esercitazioni, usando il piroscafo come
“bersaglio”, mentre siluristi e cannonieri discutono scherzosamente se sia il
caso di liberarsene davvero silurandolo o cannoneggiandolo, vista la sua
esasperante lentezza e le avarie. Durante la navigazione una vedetta
“aggiuntiva” (per esercizio, il comandante in seconda Sturlese ha disposto
turni di vedetta aggiuntivi per il personale di sottocoperta libero dal
servizio) avvista una mina vagante a prora dritta, e un aereo che la mitraglia
per cercare di affondarla (prorompendo, nell’annunciare il duplice
contemporaneo avvistamento, in un confuso “Ore due, mina a bassa quota!”).
La Tifone giunge infine a Trieste, dove si
ormeggia in cantiere e subisce dei primi lavori nel corso della notte stessa;
mancando le parti necessarie a completarli, l’indomani la torpediniera viene
fatta proseguire per Venezia, dove tali parti sono disponibili. Giunta in
Arsenale dopo aver mancato di poco la collisione con un rimorchiatore (con
conseguente colorito scambio di battute tra il comandante del piccolo mezzo e
Sturlese della Tifone), la Tifone vi sosta 36 ore per terminare le
riparazioni.
Lasciata Venezia, la
torpediniera scorta a Taranto una nave tedesca, poi torna a Trieste scortando
una petroliera scarica e ne riparte di scorta ad una carica diretta a Messina.
Durante la navigazione viene rilevata un’eco incerta, forse di un sommergibile,
ma la nave prosegue come da ordini, che, stante l’urgenza della consegna del
carico di carburante (circa 10.000 tonnellate) poi destinato in Africa,
impongono di non perdere tempo tranne che in caso di pericolo certo ed
immediato.
La Tifone fa poi ritorno a Trieste.
La Tifone a Brindisi nel 1942; dietro di essa si scorgono i fumaioli
della torpediniera Antonio Mosto e
del cacciatorpediniere Augusto Riboty,
e più a destra una torpediniera classe Spica (g.c. Giorgio Parodi via www.naviearmatori.net)
|
3 settembre 1942
Riparte da Trieste
scortando un’altra nave cisterna diretta in Africa. Nel pomeriggio viene
avvistata una mina vagante (una recente mareggiata ne ha, infatti, strappate
molte dai loro ormeggi); la Tifone
accosta e la bersaglia con una raffica di mitragliera, facendola esplodere. La
notte passa tranquilla.
4 settembre 1942
Di prima mattina, al
traverso di Bari (a circa cinque miglia dalla costa), l’ecogoniometrista in
servizio, il sottocapo Benito Muscariello, rileva una mina vagante con
l’ecogoniometro, e comunica immediatamente alla plancia di accostare, ma
l’individuazione è stata troppo tardiva: la Tifone
vi è già “sopra”, e, accostando per evitarla, la risucchia nelle eliche,
facendola scoppiare. L’esplosione investe violentemente la torpediniera a poppa
sinistra: la nave viene scossa violentemente, e molti uomini vengono gettati
contro le paratie o gli oggetti che si trovano a bordo, restando feriti o
contusi; alcuni subiscono anche delle ustioni, ma nessuno è ferito in modo
grave.
I due torpedinieri in
servizio ai paramine, a poppa estrema, vengono gettati fuori bordo
dall’esplosione: non saranno mai trovati, dispersi in mare.
I danni non sono
letali, ma il timone è incatastato, l’opera viva a poppa sinistra è gravemente
danneggiata e vi sono falle da scardinamento che causano infiltrazioni d’acqua,
provocando un progressivo appoppamento; vi sono perdite di nafta e vapore dai
nebbiogeni ed altre perdite dal deposito di nafta adiacente al locale
specialisti, che ne viene allagato, con pericolo d’incendio. Il paramine di
sinistra è scomparso, strappato dal suo alloggiamento, mentre le bombe di
profondità sono pericolosamente in bilico sulle loro tramogge; tutte le
attrezzature a poppa sono state divelte, tranne i verricelli di manovra, e
tutta la zona è ricoperta di melma nerastra.
Subito intervengono
le squadre antincendio; la situazione rimane sotto controllo (l’elica di dritta
funziona ancora), ma la Tifone, che
per via dell’incatastamento del timone sta compiendo un giro in tondo per
abbrivio, si sta appoppando pericolosamente, quindi viene eseguito il segnale
di avaria, alzato un pallone nero per segnalare che la nave è ingovernabile, e
chiesto aiuto per radio a Bari, richiedendo l’invio di soccorsi.
Lasciano Bari, a
tutta forza, la vecchia torpediniera Antonio
Mosto ed un rimorchiatore dei pompieri, che rimorchia una bettolina sulla
quale trasbordare la nafta e le bombe di profondità, ancora pericolosamente
instabili. La Mosto prende a
rimorchio la Tifone e la porta a
Brindisi, dove la torpediniera viene subito fatta entrare in bacino. MAS e
motovedette uscite da Bari setacciano il mare dov’è avvenuto il sinistro fino a
notte, in cerca dei due marinai dispersi, ma non trovano nulla. Saranno i primi
due caduti della Tifone.
Dopo il
prosciugamento del bacino di carenaggio, lo spettacolo che si presenta è
desolante: sul lato sinistro, da centro nave (in corrispondenza del quadrato)
fino all’estrema poppa, le lamiere sono schiodate ed il fasciame presenta
grosse fessure; lo scafo appare devastato, il timone è accartocciato, l’asse
portaelica ingobbito e l’elica sinistra priva di una pala. La ruota di poppa è
schiacciata e rientrata fino ad assumere “la forma dell’interno di una cupola”
come colpita “da un pugno formidabile”.
Tutto l’equipaggio
cerca di rendersi utile, molti si offrono per ogni lavoro che possa servire a
rimettere in sesto la nave. Viene stimato che le riparazioni richiederanno tre
mesi. Alla sera, durante l’assemblea dell’equipaggio, il comandante Bortone fa
recitare una preghiera in memoria dei caduti.
Settembre 1942
I primi lavori di
carenaggio vengono eseguiti in bacino a Brindisi; si protraggono per 15 giorni,
dopo di che la Tifone è in grado di
riprendere il mare governando con la stazione di poppa. Per lavori più
approfonditi occorre un Arsenale più equipaggiato: Taranto è il più vicino, ma
non può riparare la Tifone in quanto
già oberato di lavori. La torpediniera tornerà ancora una volta a Trieste: nel
cantiere San Rocco di Muggia.
Ottobre-dicembre 1942
Lasciata Brindisi
procedendo avanti mezza con una sola elica, la Tifone raggiunge Trieste dove viene alleggerita di tutti i pesi,
poi, trainata da un rimorchiatore, viene condotta a Muggia, dov’è immessa in
bacino di carenaggio e circondata da ponteggi: sarà necessario ricostruire la
poppa.
L’equipaggio, non
necessario, viene mandato in due turni in licenza ed in soggiorno a Merano.
Le riparazioni
vengono ultimate a fine dicembre; durante questo periodo il comandante Bortone
viene sostituito dal capitano di corvetta Stefano Baccarini, secondo e ultimo
comandante della Tifone. Avvengono
anche alcuni altri avvicendamenti, ma l’equipaggio rimane in massima parte lo
stesso.
6 gennaio 1943
Terminati i lavori e
rifornitasi di tutto, la Tifone
lascia il cantiere e si ormeggia nel porto di Trieste, dove l’equipaggio viene
visitato da alcuni gerarchi e riceve “pacchi di conforto per i combattenti”
(guanti, sciarpe, calze e panettone).
7 gennaio 1943
Prima dell’alba la Tifone molla gli ormeggi da Riva IV
Novembre e lascia per l’ultima volta Trieste, diretta a Taranto. Passeranno
esattamente quattro mesi prima della sua fine.
La Tifone il 14 gennaio 1943 (g.c. Giorgio Parodi via www.naviearmatori.net)
|
Gennaio-febbraio 1943
Dopo il viaggio di
trasferimento lungo l’Adriatico e lo Ionio, senza alcun evento di rilievo, la Tifone giunge a Taranto e si ormeggia in
banchina torpediniere, in Mar Piccolo.
Per tutto il mese di
gennaio e parte di febbraio, la torpediniera viene assegnata alla vigilanza
antisommergibile sulle rotte che da Taranto portano in Grecia e verso lo
stretto di Messina: il suo incarico è tenere i sommergibili nemici lontani
dalle rotte percorse dai convogli. È un compito “oscuro, arduo, sfibrante”,
insieme monotono e pericoloso: la nave gira in lungo e in largo il Mar Ionio,
specie tra il Canale d’Otranto e lo Stretto di Messina, completamente sola nel
mare spesso agitato, in interminabili rastrelli antisommergibili; individua
alcuni contatti subacquei, dei quali ritiene di averne danneggiati un paio,
mentre gli altri si sono defilati. La snervante routine rende gialli e
macilenti i marinai, che si alternano di continuo ai turni di guardia, dormendo
dove capita, “possibilmente vicini a qualche boccaporto”. La Tifone subisce anche ripetuti attacchi
di aerosiluranti, che appaiono all’improvviso volando a bassissima quota,
sganciano i siluri e si dileguano per evitare il furioso tiro contraereo, e di
bombardieri, che, sganciando da alta quota, non colpiscono mai il bersaglio.
Gli attacchi di aerosiluranti, più pericolosi, diventeranno infine tanto
frequenti che membri dell’equipaggio inizieranno ad osservarne i lanci “con
occhio critico”, commentando sulla loro accuratezza.
9 febbraio 1943
Dopo aver sostato a
Brindisi per poche ore, appena il tempo necessario a far riposare un poco
l’equipaggio stremato da una violenta burrasca (forza 8-9) affrontata in Mar
Ionio, che ha pure danneggiato coperta e sovrastrutture, la Tifone viene fatta uscire in mare alle 16.05
per dare la caccia ad un sommergibile britannico (l’Unbending) che ha affondato il dragamine ausiliario Eritrea al largo di Monopoli e si pensa
trovarsi ora tra Bari e Brindisi.
La ricerca avviene in
condizioni difficili: il mare non si è placato, e la nave rolla e beccheggia
fortemente, causando di nuovo forte mal di mare tra l’equipaggio. Alle 16.55,
nel punto 40°44' N e 17°55' E, il sottocapo ecogoniometri sta Alberto Ferrari
localizza un’eco subacquea: il sommergibile. Subito viene dato l’allarme, e
l’equipaggio mandato ai posti di combattimento. La Tifone, le cui manovre sono disturbate dal vento, si porta sopra il
sommergibile, poi, alle 17.55, lancia una serie di bombe di profondità (tre
salve di tre bombe ciascuna), e subito dopo si vede spandersi sulla superficie
una chiazza di nafta nera e iridescente; emergono anche dei rottami, che
vengono ricoperti dalla nafta. L’equipaggio accoglie tale visione con grida di
“Urrà” e “Viva il re”, poi, mentre cala il buio, ripassa altre tre volte sulla
posizione, ogni volta lanciando altre bombe di profondità: dapprima alle 17.58
(altre tre salve di tre bombe di profondità ciascuna), poi alle 18.17 (due
salve di tre cariche ciascuna) ed infine alle 18.23 (una salva di tre cariche
di profondità).
A bordo si ritiene di
aver affondato il sommergibile, il che viene comunicato alla base (che ordina
di proseguire nelle ricerche e nel rastrello antisom, dato che potrebbe esserci
un secondo battello che operava in coppia col primo, ed è necessario liberare
la zona con certezza in vista del passaggio, il giorno seguente, di una
petroliera proveniente da Trieste e diretta in Africa), ma le ricerche
protratte per tutta la notte nel mare in tempesta non permettono di localizzare
alcun rottame o prova del presunto successo. All’alba, dato che la mareggiata
ha strappato gli ormeggi di molte mine che si trovano ora alla deriva, rendendo
pericoloso proseguire nel rastrello antisom, la situazione viene comunicata
alla base, che concede alla Tifone di
rientrare.
Al rientro in porto,
il comandante Baccarini ed il comandante in seconda Sturlese si recano al
Comando a presentare la relazione sull’azione antisommergibile, ma questa non
viene ritenuta probante per poter comunicare a Supermarina l’avvenuto
affondamento. In effetti, nonostante le impressioni, la Tifone non ha né affondato, né neanche localizzato l’Unbending: il bersaglio dei suoi
attacchi, come si scoprirà in seguito, è stato il relitto della torpediniera Confienza, affondata in quelle acque
quasi tre anni prima.
15 febbraio 1943
Missione di scorta
alla posacavi Giasone.
17 febbraio 1943
Esce nuovamente in
mare per rafforzare la scorta della petroliera durante l’attraversamento della
zona pericolosa. Se ne approfitta, essendosi calmato il mare, per cercare
rottami del sommergibile, ma non si trova nulla.
Febbraio 1943
Torna ad effettuare
rastrelli antisommergibile facendo base a Taranto (dove, durante le soste in
porto, la nave è presa d’assalto dai topi) con scali anche a Messina. Fino alla
fine del mese prosegue in tale servizio nelle acque dello stretto di Messina,
individuando ed attaccando alcuni contatti all’imboccatura dello stretto, ma
con esito incerto. Viene ancora attaccata da aerosiluranti (una volta, per
sbaglio, anche da aerei italiani, che vengono bersagliati con le mitragliere
finché non segnalano la loro nazionalità con dei razzi); i mitraglieri
ritengono di aver abbattuto due aerei. In un’occasione rimorchia in salvo un
grosso piroscafo danneggiato e immobilizzato, operazione complicata per le
continue interruzioni imposte dagli allarmi, che costringono a mollare i cavi
per poter manovrare e difendersi.
21 febbraio 1943
La Tifone ed il cacciatorpediniere Lubiana (caposcorta) salpano da Taranto
alle 00.30 scortando la motonave Ombrina,
diretta a Biserta. Il convoglio giunge a Messina alle 18.
22 febbraio 1943
Le navi ripartono da
Messina alle 3.30, raggiungendo Palermo alle 13.30; qui la Tifone lascia il convoglio.
17 marzo 1943
La Tifone (capitano di corvetta Stefano
Baccarini) salpa da Taranto per Biserta alle 2.30, insieme al
cacciatorpediniere Lubiana (capitano
di fregata Luigi Caneschi, caposcorta), alla torpediniera Antares (capitano di corvetta Maurizio Ciccone) ed al
cacciasommergibili VAS 221, scortando
le moderne motonavi Marco Foscarini e Nicolò Tommaseo. La
navigazione durante la notte si svolge tranquilla sino alla prima mattina.
Verso le 10, nel
Golfo di Squillace, si verifica un primo allarme, poi viene avvistato un
ricognitore, che pedina il convoglio tenendosi fuori tiro. Poco dopo
mezzogiorno (oppure tra le 13.30 e le 14.30), al largo di Punta Stilo, il
convoglio viene attaccato da una dozzina di aerosiluranti, che si avvicinano
volando a pelo d’acqua: Lubiana e Antares, che si trovano tra gli aerei e
le motonavi, aprono il fuoco per primi con tiro di sbarramento; la Tifone accelera per difendere la Foscarini, quindi apre il fuoco con i
cannoni da 100/47 mm e le mitragliere da 20 mm, scompaginando la formazione
attaccante. Da bordo si ritiene di aver abbattuto tre aerei (mentre i caccia
tedeschi della scorta li rivendicano per sé); in ogni caso, nessun siluro va a
segno. Gli aerei rimasti tornano all’attacco da un’altra direzione e lanciano
siluri rimanenti, che vengono evitati con la manovra dall’Antares e dalle motonavi – uno passa anche a poppavia della Tifone –, poi si allontanano inseguiti
dai caccia della Luftwaffe.
Al tramonto il
convoglio raggiunge Messina, dove sosta dalle 19 alle 22, poi prosegue per
Biserta senza più la VAS 221 ma con
il rinforzo del cacciatorpediniere Lampo
(capitano di corvetta Loris Albanese) e delle torpediniere Perseo (capitano di corvetta Saverio Marotta) e Cassiopea (capitano di corvetta Virginio
Nasta).
18 marzo 1943
Alle 14 la Tifone riceve ordine di lasciarne la
scorta e raggiungere subito Napoli, per rimpiazzare un’altra torpediniera in
avaria nella scorta ad un altro convoglio, che si accinge a partire e sarebbe
altrimenti privo di navi scorta munite di ecogoniometro.
La nave riparte ad
alta velocità, supera lo stretto, decelera per risparmiare carburante nel Basso
Tirreno, andando incontro al convoglio che è già partito.
Ad un certo punto,
durate la notte, la turbodinamo va in avaria, lasciando la nave paralizzata e
senza corrente per una decina di minuti, prima che il personale di macchina riesca
a mettere in funzione l’altra turbodinamo.
21 marzo 1943
La Tifone incontra il convoglio proveniente
da Napoli (da dov’è partito alle 5.30): lo compongono altre due moderne e
veloci motonavi, la Monti e l’Ombrina, cariche di munizioni e
carburante, e le torpediniere Libra (caposcorta)
e Perseo; vi sono inoltre due
squadriglie di MAS italiani ed una di motosiluranti tedesche per fornire
protezione antisommergibile a distanza. I due mercantili procedono in linea di
fila, con Libra e Perseo a sinistra e dritta; arrivata la Tifone, la Perseo le cede il proprio posto in formazione per portarsi in testa
al convoglio. Poco dopo appare un ricognitore nemico, che si tiene fuori
portata del tiro delle navi ma viene messo in fuga dall’intervento dei caccia
tedeschi di scorta; si verificano anche alcuni allarmi per sommergibili, ma la Tifone riceve ordine dalla Perseo di proseguire, delle corvette
saranno inviate a dar loro la caccia.
22 marzo 1943
Poco dopo mezzogiorno
viene avvistata a prora dritta una formazione di bombardieri Consolidated B-24
“Liberator” che volano ad alta quota, ma gli aerei, avendo evidentemente un
altro obiettivo, passano lontani dal convoglio senza attaccare. Alle 13.45, già
vicini a Biserta (vicino all’isola Plane), l’Ombrina urta una mina, riportando gravi danni a poppa; l’equipaggio
civile, da poco imbarcato e ancora non affiatato, abbandona la nave, mentre
quello militare, al comando del tenente di vascello Enrico Rossinelli, rimane a
bordo.
La Perseo dà assistenza alla nave
danneggiata, mentre la Monti viene
fatta proseguire con la scorta di Libra
e Tifone, sorvolate dai dodici caccia
tedeschi Messerschmitt Bf 109 della scorta aerea, che incrociano nel cielo
sopra al convoglio da un orizzonte all’altro, allontanandosi anche parecchio
dalle navi prima di tornare indietro. Intorno alle 14, mentre la parte più
avanzata del convoglio si trova al largo dell’isola di Plane ed i caccia
tedeschi si trovano lontani, dalla parte opposta delle navi, sopraggiungono due
formazioni di bombardieri “Liberator” (in tutto una decina di aerei) scortati
da caccia Lockheed P-38 “Lightning”.
Mentre questi ultimi,
dopo aver mitragliato le navi, vanno incontro ai Messerschmitt per impegnarli,
i bombardieri si dividono per attaccare entrambi i gruppi di navi: Monti, Libra e Tifone da una
parte; Ombrina (che ha da poco
rimesso in moto) e Perseo dall’altra.
Quasi subito la Monti viene colpita
da un grappolo di bombe: a bordo scoppia un incendio che si estende
rapidamente, poi – alle 15.15, a 18 miglia da Biserta – la nave esplode
investendo le torpediniere con una folata di aria arroventata e lanciando
rottami nel cielo per un centinaio di metri in altezza. Un altro grappolo di
bombe di grosso calibro cade in mare circa 25-30 metri a poppavia della Tifone, che, non appena i bombardieri
sono giunti a tiro, ha aperto un intenso fuoco di sbarramento assieme alla Libra. Lo scoppio delle bombe solleva la
poppa della torpediniera dall’acqua e spinge tutta la nave in avanti, arrecando
qualche danno alle sovrastrutture con la miriade di schegge proiettate loro
addosso, ma senza causare vittime. Le torpediniere ritengono di aver abbattuto
due dei bombardieri (in totale saranno tre gli aerei persi dagli attaccanti). I
caccia tedeschi e alleati, ancora in combattimento, spariscono verso ovest:
sono le 15.30 e l’attacco è terminato. La Libra
viene lasciata sul posto a soccorrere i naufraghi (ne recupererà 102, mentre le
vittime saranno 41), mentre la Tifone
si riunisce alla Perseo nella scorta
alla danneggiata Ombrina, dovendo
procedere alla minima velocità, per tenere il passo con la malconcia motonave.
Alle 17 le tre unità
entrano infine in porto a Biserta, dove i modesti danni da schegge riportati
dalla Tifone vengono riparati alla
meglio.
24 marzo 1943
Tifone, Libra (caposcorta) e Perseo ripartono da Biserta all’una di
notte scortando la motonave Tommaseo
ed il piroscafo Saluzzo, carichi di
prigionieri di guerra e diretti a Livorno. Alle 10.11, nel punto 37°52’ N e
11°27’ E (30 miglia ad ovest-sud-ovest di Marettimo), il sommergibile britannico
Unseen (tenente di vascello Michael
Lindsay Coulton Crawford) lancia quattro siluri contro il Saluzzo, che alle 10.15 ne avvista due e li evita di stretta misura
con un’accostata che per poco non lo fa finire in collisione con la Tommaseo; Libra e Perseo
contrattaccano, individuando il sommergibile e ritenendo di averlo danneggiato,
mentre la Tifone gira intorno ai
mercantili tenendosi pronta ad intervenire.
Giunto nel Golfo di
Napoli durante un bombardamento, il convoglio viene fatto sostare a ridosso di
Capri fino alla notte, gettando di tanto in tanto qualche bomba di profondità
intimidatoria (la zona è infatti infestata dai sommergibili). Infine il
convoglio rimette in moto e prosegue verso Napoli, tranne la Tifone, che alle 21.40 riceve ordine di
effettuare un rastrello antisommergibile al largo di Gaeta.
25 marzo 1943
Approda alle 4.40 a
Gaeta, dove la Tifone si rifornisce e
riparte subito verso Livorno.
Giunge a Livorno alle
13.40 e ne riparte subito scortando, con altre unità e numerosi aerei antisom
tedeschi (tanto che sulla Tifone è
stato imbarcato un ufficiale di collegamento della Luftwaffe), due motonavi
cariche dirette verso sud (la Tifone
è l’unica unità della scorta ad avere l’ecogoniometro). Il mare è agitato, ma
non si verificano inconvenienti; la Tifone
zigzaga in rastrello antisommergibile a proravia del convoglio, sino all’arrivo
a Napoli.
25-28 marzo 1943
Durante i tre giorni
di sosta a Napoli, l’equipaggio provvede a rassettare le attrezzature usurate
dal lungo servizio, ripulire i tubi delle caldaie ed anche scendere in
franchigia per la prima volta dall’ultima partenza da Taranto.
(Il servizio di
scorta è infatti così intenso che di solito l’equipaggio non ha mai tempo per
scendere a terra, e neanche per riparare i danni e rimediare all’usura della
nave: ogni volta ci si rifornisce di acqua, nafta e munizioni e si riparte
subito per una nuova missione. Nei porti africani, poi, anche quando si è in
porto vengono mantenuti i turni di servizio e di guardia che ci sono in navigazione,
dati i continui attacchi aerei. Quasi mai l’occasione di dormire in branda;
nessuna attenzione più alla un tempo regolamentare cura della divisa, con
vestiti sempre più rabberciati, senza che i commissariati avessero più
indumenti da fornire. Come ricorderà Alberto Ferrari: «“Le turbine perdevano
vapore?” “Metteteci sopra uno strapuntino”, era la risposta. “Le mitragliere
erano roventi dall’usura?” “Pisciateci sopra!” “Equipaggi, siete all’orlo del
collasso?” “Presto lascerete con onore questa valle di lacrime”»).
Il comandante in
seconda Sturlese sbarca, sostituito dal tenente di vascello Luigi Sanfilippo.
28 marzo 1943
La Tifone, già pronta a muovere da Napoli
in poche ore per partire come previsto, viene fatta salpare subito verso Torre
Annunziata quando viene dato l’allarme per l’incendio della motonave Caterina Costa, carica tra l’altro di
benzina e munizioni. Più tardi, quando la Tifone
sarà già lontana e al sicuro, la motonave salterà infatti in aria, uccidendo
almeno 549 e ferendone oltre 3000, oltre ad affondare i rimorchiatori Oriente e Cavour e a causare ingenti danni al porto ed alla città.
29 marzo 1943
Poco dopo che a
Napoli la Caterina Costa è esplosa,
la Tifone lascia Torre Annunziata per
assumere la scorta di un convoglio (denominato «SS») partito alle 18 e composto
dalla nave cisterna Bivona, carica di
carburante, dai piroscafi italiani Aquila
(con a bordo veicoli, bombe d’aereo e munizioni) e Giacomo C. (con carri armati e munizioni) e dal tedesco Charles Le Borgne (carico di munizioni e bombe d’aereo). A testimonianza
della decimazione della flotta mercantile italiana dell’anteguerra, tre su
quattro (tranne il Giacomo C.) sono
navi ex francesi catturate da pochi mesi. La scorta, oltre che dalla Tifone, è composta dal cacciatorpediniere
Lubiana (caposcorta, capitano di
fregata Luigi Caneschi) e dalla vetusta torpediniera Giuseppe Dezza (tenente di vascello Aldo Cecchi), più i
cacciasommergibili tedeschi UJ 2205 e
UJ 2208 in retroguardia.
Il convoglio è in
franchia alle 19, ed assume subito rotta diretta per Tunisi.
30 marzo 1943
Verso le dieci del
mattino il convoglio, rallentato dal Giacomo
C. che è in avaria, viene superato da un altro convoglio composto dai
piroscafi Nuoro, Crema e Benevento e
scortato dalle torpediniere Clio, Cigno e Cassiopea. Il Giacomo C. dev’essere
infine mandato a Palermo (alle 17.50), assistito dalla Dezza; proseguono Lubiana,
Tifone, Aquila, Bivona e Le Borgne. Il convoglio della Tifone supererà indenne gli agguati di
sommergibili e motosiluranti e gli attacchi aerei – che invece affonderanno
tutti e tre i mercantili del convoglio che l’ha preceduto – solo per andare
distrutto a causa del maltempo.
31 marzo 1943
Al largo di Capo Ras
Mustafà (dove avviene l’atterraggio) il Lubiana
ordina alle navi di disporsi in linea di fila. Al tramonto del 31 marzo, mentre
il mare ingrossa da nordovest, le navi giungono in vista di Capo Bon; alle
20.45 il Lubiana ordina di disporsi
in linea di fronte nell’ordine, dal largo verso il lato rivolto alla costa: un
cacciasommergibili tedesco, la Bivona,
il Le Borgne, l’Aquila e l’altro cacciasommergibili; la Tifone procede in testa al convoglio, a proravia della Bivona, mentre il Lubiana precede la torpediniera di circa un miglio, tenendosi a
40-45 gradi a prua sinistra di quest’ultima (a 2000 metri per 40° dalla sua
prua, a sinistra; cioè più verso terra).
Il tempo va
peggiorando: mare e vento (vento fresco da nordovest, in aumento) peggiorano e
la visibilità cala (solo il fanale di Zembretta è visibile a tratti, unico
punto di riferimento per le navi, che lo usano per calcolare la loro
posizione), finché, alle 21.42, il Lubiana,
che il vento ha fatto scarrocciare verso terra, s’incaglia malamente presso Ras
Ahmer (otto miglia ad ovest di Capo Bon), restando immobilizzato con gravi danni
(tanto che sarà poi considerato perduto e abbandonato sul posto) e senza
corrente. Quando la Tifone passa
accanto al cacciatorpediniere, il comandante di quest’ultimo, capitano di
fregata Caneschi, le ordina col megafono (in mancanza di corrente, la radio non
funziona) di scostare al largo (accostando a dritta) ed assumere il ruolo di
caposcorta.
Mentre la burrasca va
peggiorando, la Tifone cerca di
segnalare con ogni mezzo ai mercantili di allargare, per evitare di incagliarsi
a loro volta, ma nessuno sembra ricevere o capire il messaggio: solo la Bivona, intuito il pericolo, segue la Tifone nella manovra (la torpediniera
accosta di 20° a dritta), mentre le altre navi sono sparite nella notte, e non
rispondono alle chiamate effettuate col fanale da segnalazione. Il vento
continua a sospingere tutte le unità verso terra, e la visibilità è pressoché
nulla.
Il Le Borgne passa vicino al Lubiana, il cui comandante Caneschi gli
grida di accostare subito, ma l’equipaggio tedesco del piroscafo non comprende
l’avviso, così anch’esso va ad incagliarsi circa cento metri più avanti; l’Aquila, che lo segue, lo sperona a poppa
e s’incaglia pure lui.
Di tutto questo, così
come della sorte dei cacciasommergibili tedeschi, la Tifone è totalmente all’oscuro: solo la Bivona la segue a vista. Le due navi procedono a bassa velocità, in
attesa di qualche segno di vita dalle navi scomparse; la torpediniera torna
indietro in cerca delle unità disperse, governando al minimo dei giri, finché alle
22.30 s’imbatte nell’Aquila, che è
riuscito a disincagliarsi ma è fortemente appruato, causa l’acqua imbarcata
dalle falle subite nella collisione, e non risponde ai segnali coi quali gli si
chiede cosa sia successo. Sopraggiunge anche uno dei cacciasommergibili: la Tifone riesce ad ordinargli, a mezzo
segnali luminosi col proiettore di coffa, di mettersi a cercare l’unità
similare e dare assistenza all’Aquila;
per parte sua l’unità tedesca riferisce che il Le Borgne è incagliato vicino al Lubiana e che i danni dell’Aquila
sono dovuti a collisione con il Le Borgne.
Alla Tifone, essendo troppo pericoloso
restare ancora in acque tanto insidiose, non resta che proseguire scortando la Bivona, nave più preziosa del convoglio
nonché unico mercantile indenne. L’Aquila
si andrà poi ad incagliare presso Capo Zebib, per non affondare, ma andrà
comunque perduto.
1° aprile 1943
Alle 00.00 la
torpediniera Sagittario, proveniente
da Tunisi dove ha lasciato un altro convoglio, viene incontro a Tifone e Bivona; la Tifone le
ordina di andare ad assistere il Lubiana
(che però non sarà recuperabile, al pari di Aquila
e Le Borgne) dopo di che, alle 10 del
1° aprile, entra finalmente a Biserta assieme alla petroliera.
L’equipaggio della Tifone inizia subito a riparare i danni
causati dalla burrasca, i quali tuttavia si rivelano più estesi di quanto
inizialmente pensato, tanto che, contrariamente a quanto previsto, la
torpediniera non potrà ripartire con la Bivona
il 4 aprile, dovendo essere rimpiazzata dalla Sagittario.
4 aprile 1943
Terminate le
riparazioni, la Tifone lascia Tunisi
alle 16 insieme alla torpediniera Antares
(caposcorta), scortando il piroscafo tedesco Claude e la motonave italiana Belluno,
ambedue ex francesi.
6 aprile 1943
Dopo tre giorni di
navigazione insidiata giorno e notte da attacchi di bombardieri, aerosiluranti
e motosiluranti, Tifone, Antares, Claude e Belluno giungono
alle 7.30 a Livorno (Napoli è semidistrutta dai bombardamenti), dove la
torpediniera sosterà brevemente per revisione delle macchine fortemente usurate
(ma mancano i pezzi di ricambio, tanto che spesso bisogna prelevarli dalle navi
ancora in costruzione in cantiere). L’equipaggio, sempre più malconcio e
stremato, può finalmente scendere a terra.
Inizia per la Tifone l’ultimo mese della sua breve
vita.
14 aprile 1943
Giunti i ricambi da
La Spezia, i lavori alle macchine vengono portati a termine e la Tifone (capitano di corvetta Stefano
Baccarini; per la prima volta caposcorta), lascia Livorno per Trapani alle
16.05, scortando la Belluno carica.
15 aprile 1943
Alle 12.35, una
novantina di miglia a nord di Marettimo, si unisce alla scorta la torpediniera Climene (capitano di corvetta Mario
Colussi) uscita da Palermo.
Giunto il convoglio a
Trapani alle ore 19.50 (o 20), durante la sosta in rada una bettolina si porta
sottobordo alla Tifone, i cui
depositi prodieri vengono riempiti di benzina: la torpediniera si ritroverà
così a fungere, data la disperata situazione del fronte tunisino, anche da
trasporto del preziosissimo e pericolosissimo combustibile oltre che da nave
scorta. Viene severamente vietato fumare, accendere fuochi od innestare
circuiti elettrici senza autorizzazione del capo elettricista, per tutta la
zona prodiera dalle cucine al castello; l’aria di molti locali interni diviene
irrespirabile per le esalazioni di benzina, e più di qualcuno non può fare a
meno di pensare alla fine della Caterina
Costa.
16 aprile 1943
All’una di notte (o
1.30) il convoglio salpa da Trapani per Tunisi. Oltre a Tifone e Climene in
scorta diretta alla Belluno, dato che
la Tifone non può compiere azioni
belliche per via della pericolosa benzina avio contenuta nei suoi depositi,
altre due torpediniere vengono assegnate a compiti di scorta avanzata: la Cigno (capitano di corvetta Carlo
Maccaferri) e la Cassiopea (capitano
di corvetta Vittorio Nasta). Dovendosi tenere in posizione di esplorazione
avanzata (a protezione contro attacchi di motosiluranti od unità sottili),
precedendo il convoglio di cinque miglia, tali due torpediniere sono le prime a
partire, seguite dalle altre tre navi (la Tifone,
per via del suo carico, ha ricevuto libertà di manovra e indipendenza dal
convoglio). La notte è chiara, la luna sta tramontando; la Tifone è in testa, seguita dalla Belluno e poi dalla Climene
in linea di fila.
Dopo circa un’ora di
navigazione, alle 2.38, a sudovest di Marsala e 15 miglia a ovest/sudovest di
Capo Lilibeo, Cigno e Cassiopea avvistano a sudovest due
sagome scure, che non sembrano di cacciatorpediniere italiani di ritorno da
Tunisi; la Cigno effettua comunque il
segnale di riconoscimento, ma non riceve risposta, e poco dopo le due nuove
arrivate, che sono i cacciatorpediniere britannici Paladin e Pakenham, si
dividono in modo da circondare Cigno
e Cassiopea. Poi l’apertura del
fuoco: il combattimento è violentissimo, quasi un corpo a corpo tra navi.
Tifone, Climene e Belluno, che seguono a poche miglia e si
trovano al largo di Capo Lilibeo, avendo appena superato Favignana, assistono
impotenti: la Tifone, coi depositi
pieni di benzina, è impossibilitata ad intervenire, e per entrambe l’ordine è
di restare con la Belluno a sua
difesa, e reagire solo se attaccate direttamente. La Tifone ordina quindi al convoglio, non appena si vedono a proravia
le vampe dell’artiglieria, di invertire la rotta ad un tempo: in tal modo la Tifone si trova in coda, pronta – nei
limiti delle circostanze – a coprire la Belluno
in caso di attacco.
Questa pericolosa
eventualità viene scongiurata dall’eroica difesa di Cigno e Cassiopea: pur
trovandosi di fronte ad avversari ben più grandi e meglio armati, le due torpediniere
combattono accanitamente e riescono a respingerli; la Cigno colpisce ripetutamente il Pakenham,
immobilizzandolo, ma non prima di essere stata a sua volta devastata dal tiro
del cacciatorpediniere. Colpita anche dai siluri lanciati dal Pakenham (che è sua volta oggetto del
lancio di siluri da parte della Cigno,
che però non vanno a segno), la torpediniera si spezza in due e affonda con 103
dei 150 uomini del suo equipaggio. La Cassiopea
lancia infruttuosamente dei siluri contro il Paladin ed apre contro di esso un intenso fuoco con le proprie
artiglierie, ma viene immobilizzata e incendiata dal tiro congiunto di entrambi
i cacciatorpediniere. Il sacrificio non è stato vano: i due cacciatorpediniere
rinunciano infatti a proseguire l’attacco contro l’obiettivo principale, ossia
il Belluno con il suo carico, e si
ritirano; il Pakenham, ridotto ad un
relitto galleggiante, dev’essere preso a rimorchio dal Paladin, che più tardi dovrà provvedere esso stesso a finire con un
siluro la nave gemella, nell’impossibilità di salvarla.
La Tifone, impotente a contrattaccare,
invia la Climene a soccorrere la Cassiopea, fortemente sbandata e carica
di morti e feriti, poi riceve ordine di rientrare a Trapani, dove giunge prima
dell’alba, ancorandosi davanti al porto alle 4.25 e restando in attesa di
ordini. Anche la Climene rientrerà in
porto, portando con sé la malconcia, ma ancora galleggiante, Cassiopea.
Passato poco tempo,
alle 5.45 la Tifone riceve ordine da
Supermarina di ripartire per proseguire il viaggio per Tunisi insieme alla Belluno, attraversando di giorno il
Canale di Sicilia.
Dopo un viaggio
sorprendentemente tranquillo – solo due allarmi aerei privi di conseguenze – Tifone e Belluno raggiungono Tunisi alle 17.15 (o 17.20). Alle 14.25 la
torpediniera Libra, proveniente da
Biserta, è giunta incontro al convoglio per pilotarlo sulle rotte di sicurezza.
Nell’ultimo tratto si assiste ad una tragedia: poco dopo l’arrivo della Libra le navi sono sorvolate da un
aeroconvoglio di 70 velivoli da trasporto, ed alle 15.42 da un altro, che vola
un po’ più vicino alla costa e viene attaccato da caccia britannici Supermarine
Spitfire. Questi, subendo la perdita di uno Spitfire, abbattono quattro
trimotori Savoia Marchetti SM. 82; la Libra
lascia il convoglio e recupera i superstiti, circa 70 dagli aerei italiani
abbattuti più il pilota britannico dello Spitfire.
Dopo l’arrivo a
Tunisi, la Tifone prosegue per
Biserta, dove può finalmente scaricare la benzina contenuta nei depositi
prodieri.
18 aprile 1943
La Tifone lascia Biserta alle quattro del
mattino scortando il piroscafo Mostaganem,
avente a bordo prigionieri alleati.
Per tutto giorno il
convoglio viene attaccato da aerei; la Tifone
reagisce con intenso tiro contraereo, evoluendo ad alta velocità ed abbattendo
alcuni degli aerei attaccanti; viene mitragliata e subisce anche danni da
schegge. I prigionieri sul Mostaganem,
la cui vita è ora minacciata dai loro connazionali e tutelata dal nemico
italiano, applaudono e gridano “Urrà TF” (dalla sigla dipinta sulla prua della Tifone) quando la Tifone passa vicino al piroscafo di controbordo.
Col calare del buio
gli attacchi aerei cessano, ma vengono raddoppiati i turni di vedetta, nel
timore di un attacco navale. Si preparano squadre antincendio e carpentieri con
puntelli e turafalle, serventi di riserva per le artiglierie, i sacchi-branda
diventano paraschegge; ma non sono le navi nemiche ad arrivare, bensì altri
aerei.
19 aprile 1943
Gli aerei sorvolano
le due navi per un paio di volte senza riuscire a trovarle nel buio della
notte. La Tifone, che procede a
velocità minima per evitare fumo e scie vistose, li segue con le armi in
punteria; ma la previsione che il comandante Baccarini ha fatto alla partenza
da Biserta su quel “palazzo ducale” del Mostaganem
– troppo grosso e vistoso, un bersaglio troppo facile anche di notte, non
arriverà a Napoli – è destinata ad avverarsi. È proprio a segnalare
involontariamente al carnefice la propria posizione: dal fumaiolo escono delle
scintille, che permettono agli aerei di individuarlo. I bengalieri iniziano a
gettare i bengala, che diventano subito il bersaglio di cannoni e mitragliere
della Tifone: i primi vengono
distrutti, ma sono troppi, decine, che illuminano a giorno i cielo. Il Mostaganem viene subito attaccato e
colpito dagli aerei (sia bombardieri che aerosiluranti; il convoglio si trova a
20 miglia per 290° da Levanzo), e, all’1.30, è anche silurato dal sommergibile
britannico Unrivalled (tenente di
vascello Hugh Bentley Turner), che gli ha lanciato tre siluri. Il piroscafo
affonda lentamente nel punto 38°11’ N e 11°44’ E (o 38°15’ N e 12°00’ E),
mentre la Tifone, per non essere
colpita a sua volta, deve disimpegnarsi ed allontanarsi senza raccogliere i
naufraghi. In loro soccorso saranno inviati dei motovelieri il giorno seguente.
20 aprile 1943
La Tifone giunge a Trapani alle 7.30,
ormeggiandosi vicino al relitto devastato della Cassiopea.
Pochi giorni dopo la Tifone si trasferisce a Napoli; qui
l’equipaggio apprenderà che anche la Climene
è stata affondata, silurata il 28 aprile dal sommergibile britannico Unshaken. Il numero delle “ultime del
Canale”, il sempre più sparuto gruppo di torpediniere che si alternano nella
scorta ai convogli nel Canale di Sicilia, si va sempre più assottigliando.
La Tifone nel 1943 (g.c. Giorgio Parodi via www.naviearmatori.net)
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L’ultima torpediniera per Tunisi
Questo il titolo del
libro scritto dal sottocapo elettricista ed ecogoniometri sta Alberto Ferrari
(sotto lo pseudonimo di Alberto Arcene), sopravvissuto della Tifone, che vi narra la breve vita e la
fine di questa torpediniera. Toccò infatti in sorte alla Tifone di scortare in Tunisia l’ultima nave mercantile con
rifornimenti che riuscì a raggiungere il fronte nordafricano.
Erano le sette di
sera del 3 maggio 1943 quando la Tifone
lasciò Trapani alla volta di Tunisi, scortando la motonave Belluno. Ormai era evidente a tutti che la caduta della Tunisia era
solo questione di giorni: non aveva più senso inviare rifornimenti a truppe che
presto si sarebbero dovute arrendere, ma per qualche misterioso motivo gli
uomini della Marina dovettero continuare a combattere, e morire, per far
giungere i rifornimenti a destinazione fino all’ultimo giorno. Quattro furono i
convogli che salparono dall’Italia per la Tunisia nella prima settimana di
maggio 1943, gli ultimi: due furono distrutti; uno costretto al rientro dopo la
perdita del suo unico mercantile; uno solo arrivò a destinazione: Belluno e Tifone.
La Belluno trasportava bombe e carri
armati, mentre la Tifone si ritrovava
di nuovo a dover trasportare benzina nei depositi prodieri. Mentre il
comandante era sempre il capitano di corvetta Stefano Baccarini, si era svolto
un ultimo avvicendamento, prima dell’ultima partenza, nel ruolo di comandante
in seconda: il tenente di vascello Sanfilippo, dopo aver salutato con affetto e
commozione il suo equipaggio di “connuti e fetusi”, come li aveva chiamati sin
da quando era giunto a bordo, era infatti sbarcato; il suo posto era stato
occupato dal sottotenente di vascello Augusto Fiani.
Nella notte tra il 3
ed il 4 maggio, Tifone e Belluno dovettero assistere impotenti,
per la seconda volta – sempre la solita benzina nei depositi della
torpediniera, ad impedirle ogni intervento – ad un combattimento navale a poche
miglia di distanza: l’ultimo sulle rotte della Tunisia, e questa volta vinto
dai britannici. Il piroscafo Campobasso
e la torpediniera Perseo, che
precedevano Tifone e Belluno di poche miglia, vennero infatti
attaccati dai cacciatorpediniere britannici Nubian,
Petard e Paladin. Le sorti dell’impari scontro erano segnate: dopo un duro
combattimento, sia la Perseo che il Campobasso furono affondati, con la
maggior parte dei loro equipaggi.
Tifone e Belluno, dopo aver
assistito a distanza al combattimento, vedendone lampi, bagliori ed esplosioni,
riuscirono ad evitare di essere a loro volta individuati dai cacciatorpediniere
– sarebbe stata la fine – e giunsero a destinazione alle 7.11 del mattino del 4
maggio, dove la Tifone lasciò la Belluno all’imbocco di La Goletta
(Tunisi). Nessun’altra nave dell’Asse sarebbe più giunta in quella città, che
ormai aveva le ore contate.
Lasciato a Tunisi il
mercantile, la Tifone proseguì a
tutta forza per Biserta, dove scaricò la benzina e riparò alla meglio macchine
e attrezzature. Qui i segni della fine imminente erano più che vistosi: il
porto era già bersagliato dall’artiglieria statunitense, e gli artificieri del
Regio Esercito stavano già facendo saltare magazzini ed installazioni per non
farli cadere intatti in mano nemica. L’arsenale era già un cumulo di rovine,
nessuna speranza di trovarvi i pezzi di ricambio di cui c’era disperata necessità:
furono perciò formate delle comandate di recupero che vennero inviate ad
ispezionare i relitti semiaffondati nel porto. Un’iniziativa tanto disperata
diede i suoi frutti: le parti necessarie furono trovate. La Tifone lasciò la banchina per portarsi
in rada, luogo più sicuro, ma anche lì dovette tenere due caldaie accese e
continuare a cambiare boa, perché bersagliata dal tiro delle artiglierie
terrestri. Il cielo era pieno di caccia e cacciabombardieri angloamericani,
che, diretti contro gli obiettivi di terra, non attaccarono la torpediniera. Il
Comando della Piazza di Biserta comunicò alla Tifone che al largo incrociavano unità alleate pronte ad
intercettare qualunque nave avesse tentato di partire; ma il comandante
Baccarini ed i suoi uomini erano essi stessi esperti di rastrello e delle acque
intorno a Biserta, ed escogitarono il modo per sfuggire al blocco.
A mezzogiorno del 6
maggio l’equipaggio consumò l’ultimo rancio a bordo: il comandante Baccarini
offrì sigari a tutti e pranzò con i suoi uomini, poi li ringraziò per le
soddisfazioni che avevano saputo dargli e assicurò che non li avrebbe mai
scordati, definendoli “la sua migliore famiglia”. Ricordò loro il giuramento di
fedeltà alla Patria e al re e fece loro altre raccomandazioni, poi descrisse
con chiarezza la gravità della situazione, spiegò che la nave sarebbe tornata a
Tunisi e che, se fossero riusciti a rientrare in Italia, ci sarebbero stati
lavori per la nave e licenza per tutto l’equipaggio.
Alle 14 la Tifone mise in moto, a bassissima
velocità e senza fare fumo, per dare l’impressione di stare soltanto cambiando
ancora la boa, ma iniziò a passare tra i relitti semiaffondati per guadagnare
l’uscita. Le artiglierie terrestri tacevano.
Il piano era di
uscire dal porto mentre le navi nemiche di vigilanza erano in fase di
allontanamento, poi puntare diritti sui campi minati: l’equipaggio della Tifone ormai li conosceva bene, non così
le navi avversarie, che non vi si sarebbero avventurate. Il piano funzionò:
protetta dai campi minati, la torpediniera si allontanò a tutta velocità,
sollevando un ‘baffo’ a prua alto fino al castello, poi, una volta al sicuro,
riassunse la rotta normale, fino ad accostare presso Cartagine – con una
velocità tanto alta da minacciare d’ingavonarsi – ed entrare nel Golfo di
Tunisi. Dopo aver messo le macchine indietro tutta per contrastare l’abbrivio,
alle 17 la Tifone dette fondo a circa
500 metri dalla testata del molo di La Goletta (Tunisi), dove fu poco dopo
raggiunta da una pilotina con gli ordini di Maritunisi. La Tifone avrebbe dovuto prendere accordi con la Belluno, che stava imbarcando prigionieri alleati nella vicina
Korbus, per ripartire alle 21 e rientrare a Napoli scortando la motonave. Il
messaggio si concludeva con “Buona fortuna Tifone!”.
Nessuna delle due navi sarebbe giunta indenne alle ore 21.
Alle 18.01 (per altra
fonte, 18.30) la torpediniera salpò l’ancora e diresse a lento moto verso
Korbus, piccolo villaggio di pescatori sulla sponda orientale del Golfo di
Tunisi, ad una sessantina di chilometri da quest’ultima città. La guerra che
infuriava due passi non l’aveva ancora toccato: le piccole casupole bianche,
sparpagliate tra olivi e sterpaglia in cima alla scarpata che sormontava la
spiaggia sabbiosa, percorsa da un ruscelletto, parve agli uomini della Tifone un quadro pastorale, quasi un
presepio. La Belluno, ancorata
nell’insenatura, si stagliava a prora dritta; la Tifone avrebbe dovuto raggiungerla per consegnarle l’ordine
d’operazione per il viaggio a Napoli ed accordarsi circa la traversata.
Nel cielo,
innumerevoli caccia e cacciabombardieri diretti verso ovest, che mitragliavano
e bombardavano a volo radente le posizioni militari sulle alture vicine. La Tifone, unica nave da guerra presente
nel golfo, non sembrava destare il loro interesse, al pari della Belluno ancora intenta a caricare
prigionieri: ma l’equipaggio, a ragione, non si fece illusioni. Ad ogni buon
conto la nave di Baccarini si spostò un po’ più verso il largo, onde evitare
che qualcuno degli aerei, finiti i bersagli terrestri, potesse decidere di
attaccarla. I marinai – che erano ai posti di combattimento fin da Biserta –,
indossati gli elmetti, tolte le draglie e rizze inutili, rifornite le
riservette e ricontrollato le armi una volta di più, rimasero in attesa
dell’inevitabile: e passati circa venti minuti, le vedette avvistarono una
formazione di cacciabombardieri statunitensi – tutti gli attacchi sarebbero
stati portati da velivoli dell’USAAF – provenienti da ponente e diretti verso
il largo, favoriti dal sole che tramontava, accecando con la sua luce i
puntatori della Tifone.
Rapidamente, senza
aver ancora perso quota, gli aerei si divisero in tre gruppi, per attaccare
l’unità italiana da poppa, da dritta e da sinistra; la torpediniera mise le
macchine a tutta forza. Nel locale ecogoniometro, i quattro ecogoniometristi –
il sottocapo Alberto Ferrari, il primo idrofonista Mario Saravalle, il
sottocapo segnalatore idrofonista Benito Muscariello e l’idrofonista Giuseppe
Brizio – fecero rientrare fulmineamente il peritèro, per consentire maggior
velocità e manovrabilità (eliminando la resistenza che esso opponeva
all’acqua), poi si divisero: Muscariello si recò in plancia, Brizio e Saravalle
andarono alle norìe del cannone prodiero da 100/47 e Ferrari, che era anche
elettricista, andò nel locale accumulatori, dove gli elettricisti avevano già
preparato le batterie di pronto impiego e stavano predisponendo i cavi
d’emergenza.
La Tifone aprì per prima il fuoco di
sbarramento, ma, dovendo sparare contro aerei che provenivano da tre direzioni
diverse, il suo tiro ne risentì negativamente. Gli aerei, superato il tiro di
cannoni e mitragliere, mitragliarono e bombardarono in picchiata la
torpediniera, il cui comandante Baccarini ordinava intanto con calma e
sicurezza sapienti manovre evasive, perfettamente eseguite dall’esperto
timoniere. Le macchine risposero bene, e così la Tifone poté uscire dal primo attacco con danni modesti: le bombe
caddero in mare a pochissima distanza e danneggiarono l’opera morta in
corrispondenza della centrale elettrica, forando alcuni tubi di vapore che
furono subito tamponati; il mitragliamento ferì alcuni uomini in coperta, ma il
prezzo pagato dagli attaccanti fu di due aerei abbattuti. Alberto Ferrari vide
di persona quello colpito dalle armi di dritta: avvolto dalle fiamme, il
velivolo precipitò verso la torpediniera e sembrò destinato a precipitare a
bordo, ma scivolò d’ala appena in tempo per finire in mare, dove esplose
investendo l’equipaggio della nave con una zaffata d’aria rovente.
Non ci fu il tempo di
tirare il fiato: furono le vedette in controplancia ad avvistare la seconda
ondata, anch’essa divisa in tre gruppi di aerei, che gli uomini della Tifone ritennero essere dei
cacciabombardieri Curtiss P-40. I nuovi arrivati attaccarono senza esitazione,
lanciandosi in picchiata e sganciando le loro bombe senza badare al fuoco di
sbarramento della torpediniera. Molte bombe esplosero tutt’intorno alla nave;
una colpì il cannone poppiero da 100/47, squarciandone lo scudo, bloccandolo
con brandeggio per chiglia e uccidendo o ferendo i serventi. Il sergente
cannoniere Michele Bianchi scomparve insieme alla sua mitragliera poppiera da
20 mm ed ai paramine, spazzati via dalle bombe. La nafta uscita dai tubi
tranciati dei fumogeni prese fuoco. Le altre mitragliere continuarono a sparare
furiosamente: quella del sergente cannoniere Catello Nostrini, già autore di
due abbattimenti in precedenti missioni, colpì un altro aereo che precipitò in
fiamme.
Alberto Ferrari
osservò lo sfacelo a poppa insieme agli altri due elettricisti, ridossato alla
paratia della stazione accumulatori; il locale fu investito da centinaia di
schegge che sforacchiarono la tuga e il portello, ma i tre rimasero indenni,
riparati in un angolo morto dal bancone di piombo, e riuscirono anche a tirare
dentro Mario Saravalle, diretto a poppa per riferire della situazione, subito
prima che una bomba esplodesse in mare a forse un metro di distanza,
danneggiando il locale sottostante.
A poppa le fiamme si
andavano estendendo, e le comunicazioni con la plancia erano interrotte. Il
sergente torpediniere Vincenzo Stagni, addetto alle bombe di profondità, ed i
suoi uomini, fattisi largo tra le fiamme con manichette e schiumogeni,
neutralizzarono l’innesco dei pericolosi ordigni, prelevandoli dalla tramoggia
di dritta, e li gettarono in mare per evitare che scoppiassero. Stagni si
ritrovò poi con gli avambracci ustionati.
La plancia e la
stazione radio erano state mitragliate, con un morto, il sottocapo
radiotelegrafista Felice Ghezzi, e parecchi feriti; Benito Muscariello, mentre
aiutava a segnalare i colpi subiti dalla nave, era stato ferito all’inguine ed
alla coscia da parecchie schegge – due più grandi avevano di poco mancato
l’arteria femorale – proiettate dall’esplosione di una bomba, caduta sul piano
lance. Una scheggia ammaccò l’elmetto del comandante Baccarini, ma questi non
se ne curò.
La Tifone, nonostante i danni, evoluiva
ancora in maniera eccellente. Gli aerei avversari, dopo aver sganciato le bombe
e poi mitragliato la nave in più passate protrattesi per qualche minuto, si
allontanarono nella direzione da cui erano arrivati, dando all’equipaggio
italiano un breve momento di respiro.
I feriti venivano
portati sottocastello dov’erano curati dall’infermiere, Angelo Manini. I più
gravi rantolavano sugli strapuntini, gli altri tacevano, premendosi le ferite.
I primo morti erano stati portati in quadrato.
E venne la terza
ondata. Meno numerosa delle precedenti, ma ora l’armamento della Tifone era menomato. Gli aerei si
avvicinarono al traverso, volando a bassa quota, e tre di essi furono colpiti:
due si ritirarono, il terzo precipitò in mare. Gli altri proseguirono decisi
nell’attacco. Il sergente Nostrini, alla mitragliera binata sita dietro il
fumaiolo, fu colpito sopra l’occhio destro: gravissimo, fu subito rimpiazzato
da un altro alla mitragliera, e venne adagiato sulla riservetta vuota.
I velivoli avversari
effettuarono una passata mitragliando, poi tornarono da poppa, per sganciare le
bombe. La Tifone eseguì una rapida
accostata, ma non poté evitare del tutto un grappolo di bombe: uno degli
ordigni sfondò la tuga e scoppiò nella motrice poppiera. Qualcuno da sotto
gridò “Mamma!”, poi un boato coprì il grido, e lo scoppio della bomba
scoperchiò gli osteriggi, dai quali uscì un’immensa fiammata. Ancora altre
bombe, un’ultima passata di mitragliamento e poi gli aerei si allontanarono
nella direzione del sole. Erano le 18.55, l’attacco era finito.
Quaranta minuti erano
bastati a ridurre una moderna torpediniera di scorta ad un pietoso relitto. La nave
era diventata ingovernabile, la sua velocità continuava a diminuire; il fumo
nero degli incendi si mescolava al vapore bianco che scappava ovunque dalle
tubature rotte. Gli attaccanti avevano pagato con la perdita di tre velivoli.
Il comandante Baccarini
apparve sull’ala dritta di plancia: era indenne, ma completamente annerito dal
fumo che aveva invaso anche il ponte di comando.
La centrale elettrica
era fuori uso, gli elettricisti ustionati dai vapori rilasciati dalle
turbodinamo danneggiate dalle schegge; Ferrari e gli altri della stazione
accumulatori, rimasti illesi o quasi (Ferrari era leggermente ferito alla testa
da alcune piccole schegge ed il sangue gli colava fino alla bocca, ma non ci
badò, limitandosi a ripulirsi con uno straccio), li issarono dal boccaporto e
li portarono sottocastello con gli altri feriti. Poi provvidero a portare le
batterie d’emergenza nei locali caldaie e negli altri locali dove i circuiti a
bassa tensione erano andati distrutti; Ferrari e Saravalle ne portarono due anche
nella stazione radio devastata, dov’erano stati richiesti. I radiotelegrafisti
erano tutti feriti, i più in modo grave. Ferrari e Saravalle scesero a
controllare il loro locale ecogoniometro e trovarono che tutto era ancora a
posto; furono poi chiamati dal sottocapo artificiere Giacomo Speroni, addetto
al deposito munizioni di prua che era adiacente al loro locale, e lo aiutarono
a passare le munizioni sopra al cannone prodiero da 100/47, ancora funzionante.
Il comandante in
seconda Fiani, rimasto senza un graffio, riceveva i rapporti dalle diverse
sezioni e li comunicava al comandante Baccarini.
Il timone si poteva
manovrare manualmente; la motrice prodiera, unica funzionante, non riceveva
vapore perché quello prodotto dalle caldaie fuoriusciva dalle tubature rotte
prima di raggiungerla. I fuochisti, sebbene scottati dal vapore surriscaldato,
riuscirono a bloccare le valvole di mandata ed isolare le tubature rotte quel
tanto che bastava a far arrivare alla motrice il vapore necessario, insieme
all’abbrivio, a portare la nave a ridosso della costa. Lentamente la Tifone, che andava via via appoppandosi,
si avvicinò a Korbus, infine diede fondo a qualche miglio dalla riva. La Belluno, partita da Korbus, passò in
lontananza, diretta verso Tunisi. L’indomani vi sarebbe stata danneggiata da un
nuovo attacco aereo e sarebbe stata portata all’incaglio per non affondare.
Era quasi buio.
Ferrari e Saravalle, cercando Muscariello, s’imbatterono nel sergente Nostrini,
che era ancora sulla riservetta dov’era stato adagiato dopo il ferimento: era
troppo grave per essere spostato, non poteva più parlare, ma riconobbe i
compagni. L’infermiere Manini fece loro capire, con un cenno, che non c’era più
nulla da fare. Ferrari prese la mano di Nostrini, i due si guardarono un’ultima
volta negli occhi, poi il sergente strinse forte la mano, reclinò il capo e
morì. Ferrari, Manini e Saravalle andarono a prendere un telo che fungesse da
sudario, vi avvolsero la salma e la portarono a poppa insieme alle altre.
Ferrari e Saravalle andarono
poi sottocastello: prima videro, attraverso lo squarcio aperto dove c’era stato
un portello, il comandante Baccarini, berretto in mano, che accarezzava
lievemente i feriti più gravi e confortava gli altri; poi trovarono Muscariello
seduto su un sacco vicino alla cala pitture, fasciato alla meglio attorno
all’inguine, e Brizio che gli stava rimettendo i pantaloni dopo la fasciatura.
Si abbracciarono e si raccontarono vicendevolmente quanto era accaduto loro.
Calata la notte, il
comandante Baccarini radunò gli ufficiali ed i marescialli capiservizio per un
ultimo rapporto sulla situazione della nave, onde decidere cosa fare. Serventi
e vedette erano ancora ai loro posti, vigili e pronti.
La poppa presentava
dappertutto innumerevoli infiltrazioni e schiodature, ma turafalle e puntelli
sembravano poter resistere; per far funzionare il timone dalla stazione
poppiera, usando l’argano principale, sarebbe servita la corrente. A questo
proposito, le turbodinamo erano inutilizzabili, ma sarebbe stato possibile
cannibalizzare uno dei due diesel-dinamo in modo da riparare l’altro con i suoi
pezzi; si sarebbe potuto far avere corrente alle zone principali stendendo dei
cavi volanti. Le caldaie, che non avevano subito danni gravi, funzionavano
bene, anche se occorreva riparare valvole e tubature tranciate; la nafta e
l’acqua sarebbero bastate a muovere, e l’unica motrice funzionante sarebbe
stata sufficiente per navigare. Le munizioni scarseggiavano, ma trasferendo da
poppa a prua quelle del cannone poppiero ormai inutilizzabile sarebbero
bastate; quelle delle mitragliere erano giudicate sufficienti, e se le
mitragliere di poppa erano distrutte, le altre erano ancora efficienti. I
siluri erano intatti, così come la dotazione di bombe di profondità dei
lanciabombe e della tramoggia poppiera di sinistra, mentre quelle di dritta
erano state buttate in mare. I puntatori e specialisti del tiro erano ancora in
numero adeguato, mentre i serventi si sarebbero potuti sostituire.
Quando il comandante
Baccarini chiese quali fossero le conclusioni, il secondo, Fiani, disse
fiduciosamente che se, considerando quattro ore per le riparazioni
indispensabili, la nave avesse avuto corrente e vapore per salpare entro
mezzanotte, avrebbe potuto sfruttare le quattro rimanenti ore di oscurità per
tentare di raggiungere Pantelleria prima dell’alba; probabilmente il nemico,
sapendo che non c’erano più convogli diretti in Tunisia e timoroso di finire
sulle mine, non li avrebbe cercati (e qui si sbagliava: aveva preso il via
l’operazione «Retribution» con il preciso scopo di impedire che qualsiasi unità
potesse lasciare la Tunisia, e le acque tunisine erano pattugliate da
motosiluranti e cacciatorpediniere), e comunque l’artiglieria era ancora
abbastanza efficienti. Fiani esprimeva il pensiero comune; tutti erano disposti
a rischiare la pericolosa traversata per tentare di tornare in Italia, tutti
tranne il direttore di macchina Cesare Scardecchia ed il capo cannoniere
Giovanni Sartoris, i più anziani di bordo, meno giovani e spericolati del resto
dell’equipaggio. Disillusi sulle probabilità di farla franca e non convinti
dall’entusiasmo con cui Fiani aveva parlato, si limitarono a scuotere la testa
in silenzio.
Fu il comandante
Baccarini a riportare tutti alla realtà. Ringraziò Fiani ed i suoi uomini, ma
espose la cruda realtà: la Tifone non
sarebbe mai uscita dalla rotta di Zembretta; al largo cacciatorpediniere e
motosiluranti rastrellavano il mare, e la torpediniera, dovendo governare a
mano, sarebbe stata troppo lenta; dal fumaiolo privo di cappello, senza più un
tiraggio sufficiente, sarebbe uscito troppo fumo, che li avrebbe resi
visibilissimi. Bengalieri ed aerosiluranti li avrebbero trovati subito, e
sarebbe stata la fine.
Con la morte nel
cuore, il capitano di corvetta Stefano Baccarini annunciò che avrebbe atteso
ordini da Maritunisi fino all’alba, poi avrebbe fatto autoaffondare la nave.
Assicurò ai suoi uomini che, qualsiasi cosa fosse successa, sarebbero stati
loro ad affondare la loro nave; aveva già chiesto un rimorchiatore per portarla
più al largo, dato che lì, a solo cinque miglia dalla riva, chiunque avrebbe
potuto violare il relitto della loro nave. Permise all’equipaggio di tentare
per un’ultima volta di rimettere in moto in modo da portarsi più al largo.
Le vedette stavano
all’erta; la Tifone era immersa in
un’atmosfera spettrale, fiocamente illuminata dalla luce rossastra degli
impianti d’emergenza, dove più serviva la corrente, e da fanali e lanterne
negli altri locali. I morti erano composti a poppa, i feriti gravi, curati da
Manini ed alcuni altri, erano sui bastingaggi. Ovunque gli uomini tentavano di
rimettere in funzione ciò che poteva essere riparato, ma era una lotta vana:
compresero infine che la Tifone non
si sarebbe mai più mossa, abbandonarono i lavori si radunarono in gruppetti con
i più intimi, per l’ultima veglia sulla loro nave. Impossibile dormire; tutti
rovistavano negli effetti personali, guardavano un’ultima volta le fotografie
dei parenti che non sapevano se avrebbero rivisto, presero con sé gli oggetti
cui tenevano maggiormente.
Poi giunsero gli
ultimi ordini: distruggere gli impianti eccetto quelli necessari alla difesa;
poi “Demolire tutti gli impianti, approntarsi per l’abbandono nave”. Seguirono
scene infernali: distrutti e addolorati, i marinai sfogarono la rabbia e la
tensione accumulate nei mesi precedenti sulla nave che avevano amato. Nei
locali risuonarono colpi di martello uniti a bestemmie e imprecazioni. In
ecogoniometro Ferrari sfilò due caviglie di ferro dalle valvole, ne tenne una e
diede l’altra a Saravalle, con un unico comando: “Distruggi”. Loro avevano un
dolore in più da sfogare: pochi giorni prima, in un bombardamento a Napoli,
avevano perso entrambi la ragazza che amavano. Tra scrosci di turpiloqui,
fracassarono tutte le strumentazioni in una frenesia devastatrice. Gli altri
non erano da meno: «Tutta la nave si distrusse. Un fuochista, con gli occhi
iniettati di sangue, apparve dal portello della caldaia di prora; una lanterna
gli giocava ombre sataniche sul viso. Gridò verso un ufficiale ferito, steso
sul bastingaggio: “Spacchiamo tutto! Non troveranno che merda quelli che
verranno!” E scomparve nel suo antro nero, ghignando come un folle».
Il comandante
Baccarini ammonì di evitare vandalismi inutili, visto che all’alba avrebbero
dovuto sparare ancora. Furono scambiati, mediante la radio d’emergenza, gli
ultimi messaggi con Maritunisi: quest’ultimo comando comunicò che nella prima
mattina sarebbe giunto un rimorchiatore per condurre la nave all’imbocco del
porto di La Goletta, per affondarla come ostruzione e così bloccare l’accesso.
I marinai riarsero di sdegno: la melma di un porto non sarebbe stata la tomba
della loro nave, l’avrebbero affondata prima là dov’era, «dove l’acqua era
azzurra».
Il comandante
Baccarini si recò a terra per conferire con l’ammiraglio Carlo Pinna,
comandante di Mariafrica. Questi confermò l’ordine di autoaffondamento, ma
Baccarini ottenne che il capitano di vascello Carlo Franchi, comandante di
Marina Tunisi, si recasse sulla Tifone
per appurare la situazione e tentare di rimettere in moto.
Venne il mattino del
7 maggio 1943, e venne da Maritunisi, su una pilotina, il capitano di vascello
Franchi insieme al comandante Baccarini. Dopo un ultimo tentativo fallito,
constatato che la Tifone non era in
grado di muovere in alcun modo, Franchi lasciò al comandante Baccarini libertà
di decidere cosa fare della sua nave, augurò buona fortuna e se ne andò, mentre
veniva avvistata una nuova squadriglia di cacciabombardieri statunitensi. Gli
aerei sorvolarono la torpediniera per qualche minuto, forse stupiti nel vedere
che non apriva il fuoco, poi scesero per attaccare, e allora i cannonieri
iniziarono il tiro, che riuscì ancora ad essere intenso: gli aerei furono
costretti a compiere una stretta virata e sganciare le bombe molto a proravia
della Tifone, senza così recare danni
aggiuntivi. Poi se ne andarono; con questo la torpediniera aveva esaurito le
ultime munizioni. Si procedette alla distruzione degli archivi segreti. Erano
le 5.30 ed il comandante Baccarini scese dalla plancia e ordinò con voce
divenuta quasi impersonale, senza neanche bisogno del megafono: “Ordino a tutto
l’equipaggio di abbandonare la nave!”.
Ma nessuno si mosse;
qualcuno, non si seppe chi, mormorò “Finché la nave sta a galla, nessuno
l’abbandona!” concludendo con un’imprecazione. Baccarini guardò stupefatto i
suoi uomini, poi ripeté “Abbandonate la nave, perdio!”, questa volta
aggiungendo un colpo di pistola sparato in aria. Il direttore di macchina
Scardella azzardò che, essendo riusciti a riparate il diesel-dinamo, con la
corrente avrebbero potuto autoaffondarsi al largo, ma Baccarini gli ricordò che
non avevano più munizioni per difendersi da altri attacchi aerei, e aggiunse
“Esegua il mio ordine e lo faccia eseguire da quella banda di scalmanati dei
suoi fuochisti, perdio!”, e poi, sottovoce, “Scusami Cesare, abbiamo l’acqua al
culo ormai, credimi, non possiamo far altro”; si abbracciarono.
Con rassegnazione
l’equipaggio si preparò ad abbandonare la nave. La guardia pari, quella in
servizio, fu incaricata di occuparsi dei feriti; gli zatterini rizzati sui lati
delle sovrastrutture furono filati a mare, poi vi furono deposti i feriti più
gravi e poi gli altri, in ordine decrescente di gravità. Non bastavano per
tutto l’equipaggio; le quattro motolancie erano inutilizzabili, sforacchiate
dai colpi e bruciacchiate, quindi si usarono delle tavole di abete, sottratte
all’Arsenale di Taranto per essere usate come paraschegge, per realizzare delle
grosse zattere di legno. I morti sarebbero rimasti a bordo, in quadrato, le
salme sarebbero state portate via al momento di affondare per sempre la nave.
Gli uomini calarono le biscagline e, in un ultimo gesto goliardico, anche la
passerella ufficiali, ma questi ultimi saltarono in mare insieme a
sottufficiali e marinai. Prima di calarsi o buttarsi in mare, gli uomini
salutarono la bandiera, ancora sventolante, sebbene strappata, a poppa, ed il
comandante, che attendeva accanto ai siluri, per abbandonare la nave per ultimo
come si conveniva.
Alberto Ferrari
guardò un’ultima volta la sua nave, poi mormorò “Ciao Tifone”, ringraziò il comandante per tutto quello che aveva fatto
per loro e gli disse che l’avrebbero atteso a terra; questi ringraziò, gli
raccomandò di aver cura dei suoi uomini e di non pensare a lui, si sarebbero
rivisti a terra. Si lasciarono con una mesta stretta di mano; poi Ferrari saltò
in mare e raggiunse il tavolone che gli era stato affidato, per uomini che non
sapevano nuotare; erano otto (tra cui il sottocapo cannoniere Giacomo Speroni,
il marinaio segnalatore Dante Corcoglioniti ed il sottocapo silurista Dante
Varani), più Ferrari e Saravalle che era il suo “secondo”. Questi aveva
disposto gli uomini ai lati e spiegato loro come spostare il tavolone; il
galleggiante si allontanò dalla nave, prima con lentezza, poi più rapidamente.
La corrente della marea trascinava le zattere verso un punto deserto della
costa, dove c’era una scogliera, e Ferrari indicò a Saravalle, improvvisato
timoniere, un punto della spiaggia sabbiosa su cui dirigere, cercando inoltre a
dire agli uomini sugli altri galleggianti che dovevano andare più a dritta.
Questi non compresero, e approdarono tutti sulla scogliera; il tavolone di
Ferrari sbagliò la manovra e non riuscì a raggiungere il punto desiderato, ma
finì anch’esso su un tratto roccioso e deserto di riva, ma dalla parte opposta
degli scogli dove si erano ammassati gli altri.
I dieci uomini,
sfiniti dallo sforzo e tremanti per il freddo, rimasero per mezz’ora sul posto
a riposare, poi sopraggiunsero dalla strada litoranea tre soldati tedeschi che
li incitarono, nella loro lingua e a cenni, a salire in fretta verso di loro;
dato che i marinai erano troppo esausti, furono i tedeschi a scendere,
prenderli e trascinarli lungo la scarpata spinosa fino in cima, dove li caricarono
sul loro autocarro, li stesero sul cassone e divisero con loro una fiasca di
grappa, che fu presto svuotata.
L’autocarro tedesco,
dopo un’ora a tutta velocità, li portò nell’Ospedale militare di Tunisi, dove
entrò distruggendo quel che restava delle già provate aiuole. Dei barellieri
corsero verso i dieci naufraghi della Tifone,
ma questi, che si reggevano in piedi da soli e non bevevano acqua fin da
Biserta, si precipitarono a loro volta su una fontanella, da dove bevvero
avidamente finché non furono portati via. Giunti in sala, un tenente medico del
Regio Esercito fece loro togliere gli abiti bagnati e sporchi di nafta, li
visitò sommariamente, constatando che non c’erano ferite serie, tolse alcune
piccole schegge e disinfettò le escoriazioni. Il tenente disse loro che
avrebbero potuto riposare per due ore in brandina, poi sarebbero stati
assegnati al battaglione destinato all’ultima difesa di Tunisi. Dopo che ebbero
riposato per circa un’ora su brandine da campo che riempivano la stanza,
avvolti nelle ruvide coperte del Regio Esercito, furono chiamati dal tenente
medico, che disse loro che sarebbero stati visitati da un maggiore medico per
poi essere inviati a difendere la città, prospettiva che li trovava
unanimemente in disaccordo, il che fu sottolineato da un colorito commento del
sottocapo Varani all’indirizzo del tenente. Avendo ricevuto l’ordine di
mettersi in riga, i dieci marinai uscirono subito all’aperto nudi com’erano,
volutamente, prima di essere fermati da un maresciallo che disse loro che prima
si sarebbero dovuti vestire. Ferrari gli rispose che avrebbero dovuto dare loro
le loro divise; furono portate delle tute mimetiche dell’esercito, ma tutti e
dieci rifiutarono sdegnosamente, pretendendo le loro tenute di macchina: che
presto arrivarono, ancora umide e sporche, e furono indossate con orgoglio. I
dieci naufraghi si allinearono quindi nel giardino, dove erano già in riga
fanti, artiglieri, carristi e bersaglieri, sorvegliati da un sergente maggiore
con la mano sulla fondina; i marinai si tennero però in disparte dagli altri.
Giunse quindi il corpulento maggiore medico, insieme al maresciallo di prima;
iniziò a passare in rassegna gli uomini in riga, ma senza nemmeno visitarli:
per ognuno si faceva dire nome e causa di degenza, poi sentenziava subito
“Abile, al fronte”. Quando giunse al gruppo della Tifone, iniziò con il segnalatore Corcoglioniti; quando questi
pronunciò il suo strano nome, il maggiore credette d’essere preso in giro ed
iniziò a “scaldarsi”, al che Ferrari intervenne spiegando che erano naufraghi
appena raccolti, giunti lì per errore. L’ufficiale lo interruppe rabbiosamente,
proclamando “Errore o non errore, ora siete qui e state in piedi. Non mi frega
niente se siete naufraghi, ora andate a combattere come gli altri!”, così provocando
l’arrabbiata risposta di Saravalle, che lo interruppe dicendo “Già! Perché
finora siamo stati a puttane per mare! Ti fregava ’na gott, anche quando ti
abbuffavi il trippone con le michette che ti si portava dall’Italia,
coglione!”. Il maggiore andò su tutte le furie; afferrò Saravalle per il petto
e gridò al maresciallo di metterlo al muro, ma il marinaio si liberò con uno
strattone, ed i suoi compagni circondarono l’ufficiale, iniziando a gridare e
spintonarlo. Il maresciallo si mise prudenzialmente in disparte; il maggiore
cercò vanamente di mettere mano alla fondina, poi, vedendo che nessuno era
intenzionato ad aiutarlo, si liberò con uno strattone e scappò dentro
l’ospedale. Poi, approfittando della confusione, soldati e marinai fuggirono
attraverso il cancello carraio aperto, lasciando il sergente maggiore,
sbigottito dalla rapidità con cui tutto si era svolto, solo in mezzo al
giardino.
I dieci marinai della
Tifone continuarono a correre finché
giunsero nella periferia orientale di Tunisi, sulla strada per Korbus; ora
bisognava ricongiungersi col resto dell’equipaggio. Gli autocarri che
passavano, perlopiù tedeschi, erano diretti a Capo Bon dove si preparava
l’estrema resistenza, e non si degnavano nemmeno di ascoltare le loro
richieste; alla fine dovettero mettersi in mezzo alla strada per bloccare il
primo autocarro italiano di passaggio. Ne arrivò uno con a bordo un maresciallo
della Sussitenza, che, spiegandogli la loro situazione, persuasero a dar loro
un passaggio per un tratto della strada che portava a Korbus.
Dopo aver superato
indenne alcuni mitragliamenti, il camion li lasciò ad un bivio; riforniti di
sigarette e minestrone in scatola, che avevano convinto il maresciallo a
regalare loro, si misero in cammino verso Korbus, distante ancora dieci
chilometri. Svariate volte dovettero gettarsi al riparo nel cunicolo che
correva a fianco della strada, quando i caccia angloamericani scendevano a
mitragliare i mezzi cingolati tedeschi che passavano sulla strada. Poco prima
di arrivare a Korbus mangiarono il minestrone e divisero le sigarette; un
soldato tedesco, dopo aver loro quasi sparato addosso perché avevano gettato un
barattolo vuoto sotto la ruota del suo camion mentre passava – fu fermato da un
altro mitragliamento, che indusse tutti a mettersi indistintamente al riparo
nel cunicolo e permise quindi di chiarire l’equivoco – regalò loro una
bottiglia di birra. Approssimandosi all’insenatura dove ancora si stagliava la Tifone sbandata e galleggiante a stento,
la videro venire bombardata ancora una volta. Ormai non c’era più nessuno a
bordo; la loro nave era un bersaglio immobile e inerme.
Gli altri superstiti,
raccolti sotto gli ulivi, non sembrarono particolarmente interessati al loro
arrivo. Regnava un’atmosfera di sconforto generale; tutti guardavano apatici il
mare e quel che restava della loro nave. Seppero poi che era stato infine
deciso all’unanimità, poco dopo mezzogiorno (mentre loro erano assenti), di
autoaffondare la Tifone quella notte,
dato che Tunisi era caduta e non sarebbero giunti mezzi di rimorchio. Su come
farlo, il capo silurista aveva proposto di asportare le testate dei siluri e
farle esplodere in sala macchina, mentre il sergente Stagni aveva suggerito di
usare le bombe di profondità, ma non c’erano mezzi per farlo: fu lasciato agli
artificieri di trovare il modo.
Chi si interessò al
loro arrivo, quando li trovarono, furono il comandante Baccarini ed i suoi
ufficiali, preoccupati dall’assenza dei dieci, che erano scomparsi dopo
l’abbandono della nave. Ferrari fece rapporto al comandante, descrivendogli
tutto quel ch’era successo, poi gli offrì alcune delle sigarette, mentre le
altre furono distribuite ai presenti.
L’aspirante
guardiamarina Elio De Melchiorre era stato incaricato del comando della sezione
artificieri, per l’autoaffondamento; una seconda squadra di artificieri era
pronta in riserva, mentre un’altra comandata, al comando del guardiamarina
Marcello Martella, avrebbe recuperato le salme dei caduti per dare loro degna
sepoltura.
I feriti della Tifone, curati dall’infermiere Manini e
da personale medico tedesco, erano stati ricoverati nelle tende
dell’ospedaletto da campo tedesco stabilito subito fuori dall’abitato di
Korbus. Qui Ferrari e Saravalle ritrovarono Muscariello, adagiato su una
brandina e completamente bendato dall’inguine in giù dopo l’asportazione di
innumerevoli schegge dall’inguine alla coscia; aveva la febbre e rischiava
un’infezione, ma il medico tedesco li rassicurò spiegando che non era grave e
sarebbe presto guarito.
Per cena l’equipaggio
della Tifone fu ospitato dalla
compagnia bersaglieri che aveva preso posizione in un punto più elevato
rispetto a quello in cui si erano accampati i naufraghi; il pasto, consumato
fraternamente, consisteva in fave piene di vermi e formaggini “Vincere”.
La “comandata
onoranze” del guardiamarina Martella, dopo aver legato insieme delle tavole che
sarebbero servite a trasportare i morti, partì per prima poco prima del buio; poi,
silenziosa e cupa («Chi affonderebbe il pugnale sul seno che lo ha svezzato?»),
la “comandata artificieri” del giovane aspirante De Melchiorre. Il capitano dei
bersaglieri aveva fornito loro un ingombrante ordigno che, piazzato in fondo
allo scafo, al centro della sentina, sarebbe dovuto bastare ad affondare la
nave.
La “comandata onoranze”
rientrò alle 22.20 del 7 maggio, rimorchiando la zattera che recava i sei
cadaveri; prima di lasciare la nave avevano prelevato anche viveri, coperte e
sigarette per l’equipaggio, che era sistemato all’aperto e privo di tutto. I
corpi furono composti sotto alcuni olivi più discosti.
Poi tornò anche la
“comandata artificieri” di De Melchiorre, che disse al comandante Baccarini che
le cariche esplosive sarebbero esplose entro pochi minuti.
Gli uomini della Tifone, radunati sul bordo della strada,
guardarono la loro nave nei suoi ultimi minuti di vita. Infine le cariche
esplosero. Un lampo accecante nella notte, poi altri, seguiti da un lungo tuono
e infine dal fumo. La Tifone si
rovesciò sul lato sinistro e si adagiò sui bassi fondali dinanzi a Korbus. Dalle
acque rimase affiorante parte del suo lato di dritta, ma nella notte non si
vide più nulla.
Ufficiali e marinai
si misero sull’attenti e salutarono militarmente la loro nave che affondava,
restando poi lungamente in silenzio. Per dirla come Alberto Ferrari: «Addio Tifone! Addio Taj-Fun, vento del
diavolo, riposa in pace! Addio! Non ti rivedremo mai più! Addio, con l’orgoglio
di esserti appartenuto. Onore a te che hai fatto il tuo dovere fino alla meta
cui eri destinato! Tu fosti l’ultima torpediniera per Tunisi!».
Il silenzio fu infine
rotto da una voce sconosciuta e commossa, che gridò nella notte: “Regia Nave Tifone. Hip, hip, hip, urrà!” cui tutti
i naufraghi risposero con un unico, tonante “Urrà!”; la compagnia bersaglieri,
schieratasi accanto ai marinai, sparò in aria salve di moschetto, il nostromo
Italo Marzocchi fischiò «Quattro alla banda» (rendere gli onori), persino
alcuni soldati tedeschi si commossero e spararono in aria coi loro mitra.
Finì così l’“ultima
torpediniera per Tunisi”.
L’equipaggio senza
più nave vegliò sino all’alba.
Il relitto della Tifone in una rara foto a colori, forse
scattata da qualche soldato statunitense nei giorni successivi alla caduta
della Tunisia (g.c. STORIA militare)
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Dal 7 al 9 maggio gli uomini della Tifone attesero la loro sorte sulla spiaggia di Korbus. Scavarono nella terra arida le tombe dei loro morti e li seppellirono; il comandante Baccarini recitò una preghiera. La bandiera della torpediniera venne divisa in pezzi, ognuno dei quali fu posto accanto ad un caduto. Sulle tombe furono piantate delle rozze croci realizzate dai tedeschi: per tutti grado, cognome, nome, città e «nave Tifone». Un plotone pronto a vegliare la loro nave per l’eternità.
Poi riprese l’attesa.
La resa delle residue forze italo-tedesche in Tunisia era questione di giorni:
le ultime forze tedesche avrebbero ceduto le armi il 12 maggio 1943, quelle
italiane il giorno seguente. Il mare e il cielo erano saldamente in mano agli
angloamericani: nessuna nave sarebbe giunta a evacuare i 250.000 soldati
dell’Asse che restavano in terra africana, l’unica prospettiva all’orizzonte
era la prigionia.
In questa massa di
uomini destinati alla cattura c’era anche l’equipaggio della Tifone. Ai marinai della torpediniera,
così come ai bersaglieri che li ospitavano, l’idea di finire prigionieri non
andava minimamente a genio, e il tanto tempo vuoto a disposizione venne
impiegato per escogitare i più diversi piani di fuga, nonostante i disillusi
ammonimenti del comandante e di qualche sottufficiale anziano a non fare
pazzie.
Qualcuno ipotizzava
di rimettere qualche relitto in condizione di navigare e tentare di raggiungere
Pantelleria o persino la Sardegna; altri si proponevano di nascondersi nella
boscaglia, attendere l’arrivo degli Alleati e poi rubare loro una
motosilurante.
Un sergente dei
bersaglieri trovò i relitti di due motozattere in un’insenatura a circa due
chilometri dall’accampamento, in direzione di Capo Bon; i marinai della Tifone valutarono la possibilità di
cannibalizzarne una per riparare l’altra, ma non c’era niente da fare: ambedue
erano rottami inutilizzabili.
Il tempo passava
sempre uguale: cena e ospitalità fraterna dai bersaglieri, fave con vermi; per
bere c’era il ruscello; notte all’addiaccio sotto gli ulivi. All’infuori di
qualche coperta e telo da tenda forniti dai bersaglieri, i naufraghi non
avevano con sé altro che ciò che indossavano al momento di abbandonare la nave.
Passavano il loro tempo vagando lungo la spiaggia, cercando chissà cosa tra i
rottami della Tifone che il mare
portava a riva. Si avvicinarono alla riva anche cinque o sei grossi topi che
stentavano a toccare terra: ogni volta la risacca li rimandava indietro.
Qualcuno propose di ucciderli a legnate, ma un fuochista pregò di lasciarli
vivere: erano topi della loro nave, il loro “secondo equipaggio”; uno lo
conosceva personalmente, lo chiamava “figlio di puttana”. Nemmeno loro erano
scampati indenni alla battaglia: uno era vistosamente ustionato sulla schiena.
Alla fine i roditori, anziché essere ammazzati, furono aiutati a giungere a
riva; si riposarono per qualche minuto, poi scomparvero tra la sterpaglia
squittendo. I naufraghi lo presero come un ultimo saluto dal loro secondo equipaggio,
che andava finalmente in licenza dopo aver condiviso la loro vitaccia.
Quando i
cacciabombardieri statunitensi tornarono per colpire ancora la Tifone il mattino dell’8 maggio, e la
trovarono già affondata, decisero di scaricare le loro mitragliere sull’equipaggio
accampato a terra. Marinai e bersaglieri dovettero ripararsi dietro le cunette;
nessuno fu colpito.
La salvezza venne il
mattino del 9 maggio, sotto forma della nave ospedale Virgilio: le vedette appostate sulla riva – anche a terra si erano
organizzati regolari turni di vedetta come a bordo – la videro mentre dirigeva
su Tunisi, già caduta in mano nemica, per poi mettersi ad incrociare al largo.
Oltre ai naufraghi della Tifone
c’erano diversi ospedaletti da campo lungo la costa; la Virgilio comunicò di prepararsi per l’evacuazione di feriti e
naufraghi, avendo ottenuto permesso di approdo dalle 14 con partenza prevista
alle 18, e precisò che non avrebbe imbarcato personale operativo, sottolineando
che un’ispezione alleata era sicura.
A terra, il capo
segnalatore della Tifone rispose con
lo specchietto; il capo cannoniere Sartoris andò a recuperare razzi e pistola
per segnalazioni.
Naufraghi e
bersaglieri allestirono un pontile per le lance della nave ospedale; questa,
nonostante il suo status, era stata attaccata da aerei già due volte, il 4 ed
il 7 maggio, e qualcuno della Tifone
propose d’imbarcare di nascosto la mitragliera contraerea da 20 mm dei
bersaglieri per fare una sorpresa ad eventuali nuovi attaccanti, ma la proposta
rimase lettera morta. La 20 mm rimase comunque in postazione a terra durante
l’imbarco, pronta al fuoco contro i tanti aerei che solcavano il cielo, se a
qualcuno fosse venuto in mente d’attaccare.
La Virgilio entrò in rada come previsto
alle 14, ed ebbe inizio l’imbarco: dapprima i feriti gravi, tedeschi e italiani
dell’Esercito e della Marina; poi il resto dell’equipaggio della Tifone, anche gli illesi, in qualità di
naufraghi. Salirono con loro anche parecchi bersaglieri: travestiti con resti
di divise dei marinai, e da questi ultimi qualificati come fuochisti, nocchieri
e cannonieri, con l’avallo del comandante in seconda Fiani, che ne dichiarò
l’appartenenza all’equipaggio.
Il direttore
sanitario della Virgilio si
congratulò ironicamente col comandante Baccarini, dicendo che pensava
comandasse una torpediniera ma vedeva che doveva essere piuttosto una
corazzata, dato l’equipaggio, e chiedendo se non avesse dimenticato nessuno a
terra. Baccarini sospirò che avrebbe voluto che fossero tutti a bordo,
alludendo ai caduti che mai avrebbero lasciato la Tunisia.
Alle 16
sopraggiunsero le prime jeeps e i carri leggeri con le avanguardie
statunitensi, ma si misero in sosta dietro la curva della strada, lasciando che
le operazioni d’imbarco avessero termine.
Alle 18.30 l’imbarco
era completato, e la Virgilio riprese
il mare.
Ai marinai della Tifone, dopo mesi di privazioni, la nave
ospedale, con i suoi saloni lussuosi – ricordo dei tempi da transatlantico –, i
lettini candidi e puliti, le crocerossine con un sorriso radioso, parve un
paradiso. Le infermiere accompagnarono ciascuno al lettino assegnato, fecero
spogliare tutti e consegnarono ad ognuno un pigiama. Per cena brodino: dopo
giorni di fave coi vermi un pasto così poco sostanzioso destò un certo
malcontento, e alla fine il comandante Baccarini riuscì ad accordarsi con il
medico di bordo per far dare ai suoi uomini qualcosa di meglio: mezza razione
di maccheroni al sugo (cioè il doppio di quel che mangiavano di solito),
spezzatino con purè e anche vino. Poi a letto.
Alle due di notte i
marinai della Tifone si svegliarono,
accorgendosi che le macchine erano ferme. I bersaglieri, incapaci di percepire
la differenza, continuarono invece a dormire. Guardando fuori da un oblò, i
naufraghi videro la ragione: a dritta c’era un cacciatorpediniere britannico.
Era il Paladin, vecchia conoscenza
del Canale, affondatore della Cigno e
della Perseo. Sul lato opposto ce
n’era un altro.
L’arrivo dei
cacciatorpediniere allarmò parecchio i “degenti”, ma sopraggiunse il comandante
in seconda Fiani, che spiegò trattarsi di un normale controllo e raccomandò a
tutti di restare a letto e, qualora avessero cercato di portarli via, di “fare
la faccia di quando marcate visita”. Poi giunse anche l’ordine di distruggere
ogni documento o nota che riguardasse l’attività della Tifone ed ogni altro oggetto che potesse essere utile al nemico.
I due
cacciatorpediniere britannici scortarono la Virgilio
fino a Tunisi; qui la nave diede fondo e salì a bordo una squadra d’ispezione
del Paladin: un tenente di vascello,
un ufficiale medico e quattro marinai armati di mitra. Ispezionarono la nave e
passarono tra le file di letti per quella che pareva una formalità; quando però
si sentì che, parlando tra di loro in inglese, qualcuno aveva detto “the
bastards” riferendosi a loro, si scatenò un battibecco e i marinai britannici
parvero caricare il mitra. Fu il direttore sanitario della Virgilio a fare da paciere, ricordando loro che non era da
“gentlemen” insultare dei “colleghi” che avevano combattuto lealmente e coraggiosamente
contro la Marina più forte del mondo, tenendole testa per mesi. Tutto andò per
il meglio; i due ufficiali britannici sorrisero e salutarono, per poi
accomiatarsi con un “salve marinai, buona fortuna” in italiano.
Alle 14 del 10
maggio, la Virgilio riprese la
navigazione. Nel suo ultimo viaggio da Tunisi a Napoli passò al largo delle
tante località che gli uomini della Tifone
avevano visto nei mesi di guerra con la loro nave: Zembra, Zembretta, Capo Bon,
Ras Mustafà, Capo Zebib. La giornata fu passata all’aperto, tra una ritrovata
allegria e la nostalgia di quando solcavano quelle acque sulla loro nave.
“Capocannone”
(Sartoris) e la sergentessa delle crocerossine, sua degna equivalente in
severità e disciplina, vigilavano per sventare i tentativi di “contatto”
attuati dai marinai nei confronti delle crocerossine.
Ferrari, Brizio e
Saravalle ritrovarono Muscariello, ora in via di guarigione.
Nell’ultimo tratto la
Virgilio incrociò un
cacciatorpediniere senza più nulla da scortare, e più avanti due torpediniere –
una sembrava la Fortunale – che scortavano una cisterna per acqua, non più
sulla rotta per sud-sudovest.
Quando la Virgilio giunse a Napoli, gli
altoparlanti ordinarono “Equipaggio al posto di manovra per attraccare”,
rivolti all’equipaggio della nave ospedale, ma anche gli uomini della Tifone si atteggiarono istintivamente ad
andare ai propri posti, prima di accorgersene e fermarsi. Osservarono invece la
manovra, che il nostromo Marzocchi non valutò bene: le undicimila tonnellate
della Virgilio non consentivano la
manovrabilità della Tifone. Poi gli
altoparlanti annunciarono “Equipaggio del Tifone
prepararsi per scendere a terra. Mettersi in riga di fronte alla nave per
l’appello”. Fu l’ultima volta che sentirono il nome della loro nave. Era il 12
maggio 1943: l’allegria se n’era andata, sostituita dal rimpianto. I marinai
della Tifone si sentivano estranei senza
fissa dimora ora che non avevano più la loro nave; nei giorni seguenti
avrebbero rimpianto le vecchie divise ammuffite quando, ricevute nuove uniformi
fresche di naftalina, le avrebbero trovate anonime, il berretto senza nastro –
furono loro ad applicarvi il nastro “Siluranti” gelosamente conservato sui loro
cappelli che avevano portato con sé –, il tesserino senza il nome di una nave.
Allo sbarco dalla Virgilio, il comandante Baccarini ringraziò
i suoi uomini per la lealtà e l’abnegazione dimostrata, aggiungendo che sperava
di averli ancora con sé; poi s’interruppe e corse via per non piangere dalla
commozione.
Su un equipaggio
composto da 10 ufficiali, 20 sottufficiali e 143 tra sottocapi e marinai, non
risposero all’appello, allo sbarco a Napoli, 2 ufficiali, 13 sottufficiali e 36
tra sottocapi e marinai: sei di essi, due sottufficiali e quattro marinai,
erano morti (il volume dell’USMM sulla difesa del traffico con l’A. S. parla
però di dieci tra morti e dispersi, invece che di sei); altri erano feriti
gravemente o mutilati, mentre in 29, non rintracciati il mattino dell’8 maggio,
erano rimasti in Tunisia ed erano caduti prigionieri.
I superstiti, mandati
al deposito CREM, furono dispersi tra nuove assegnazioni a bordo o a terra dopo
un periodo di licenza. Cinquecento lire erano il risarcimento di quanto avevano
perso, l’indennità di naufragio.
Restava l’amarezza di
aver perduto la nave e i compagni. La guerra, lungi dal finire, si avviava al
suo periodo più crudele.
Valga per la Tifone l’epitaffio scritto, ancora una
volta, da Alberto Ferrari: «Infine che cos’era? Una piccola torpediniera di
scorta, una delle tante, la cui vita e morte resteranno per sempre chiuse ed
ammuffite negli archivi dell’Ufficio Storico della Marina. La storia non gli
dedicherà alcun cenno. Forse una riga: “Operò nel canale di Sicilia alla scorta
dei convogli per l’Africa. Ecco cosa sarai per i posteri, mio caro Tifone: sarai soltanto “uno che operò…”
E loro non sapranno mai quanto eri bello, forte, generoso! Non conoscerà
nessuno l’ebbrezza dei tuoi 16.000 cavalli scatenati sul mare, quando evoluivi,
elegantissimo, ad alta velocità attorno ai piroscafi che scortavi. Soltanto noi
ci ricorderemo di te, di quant’eri sozzo, al pari dei tuoi marinai schiantati
dalla fatica, ambedue puzzolenti di nafta. Nei porti sembravi un cane randagio
che al posto dell’osso arraffavi un po’ di nafta e di munizioni; e via di nuovo
a scorrazzare, per azzuffarti ferocemente contro il tuo nemico mortale del
canale e contro gli “avvoltoi” del cielo! Noi volevamo ripulirti, lucidarti, ma
non avevamo riviste navali in cui esibirti. Soltanto una rotta avevamo per te:
“la rotta della morte”».
I caduti della Tifone, ultime vittime della battaglia
dei convogli:
Arturo Basigli, fuochista, 21 anni, da Ravenna
Michele Bianchi, sergente cannoniere puntatore
mitragliere, 19 anni, da Ramiseto
Raoul Gerli, cannoniere, 20 anni, da Firenze
Felice Ghezzi, sottocapo radiotelegrafista, 19
anni, da Genova
Primo Leonardi, cannoniere puntatore
mitragliere, 21 anni, da Seravezza
Catello Nostrini, sergente cannoniere
puntatore mitragliere, 23 anni, da Verona
La Tifone dopo il varo (g.c. Giorgio Parodi via www.naviearmatori.net)
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Mio padre Sano Gino (1921-1991), mi raccontava che era in Sala Radio quando il Ghezzi fu "falciato" all'addome da una scheggia, durante l'attacco aereo. Mio padre fu fatto prigioniero e dopo l'Africa finì la prigionia in Inghilterra. Sano Gianfranco-sanogianfranco@libero.it
RispondiEliminaSalve Lorenzo. A me risulta che della II sq. Tempeste anziché la Monsone, vi fosse la Groppo...
RispondiEliminaSalve, qual è la fonte?
EliminaLe torpediniere taliane del 1974 USMM
RispondiEliminaBgiorno. Un'altra cosa. A me risulta che il TV Bertone si chiamasse Romualdo (nato il 1 agosto 1907), non Luigi e, questi, aveva gia' comandato la Sirio...
RispondiEliminaSalve Lorenzo, finalmente ho scoperto l'arcano... Il primo com.te della Tifone era il TV Luigi Bortone (nato il 19 luglio 1911)... Giovanni Pinna.
RispondiEliminaBgiorno Lorenzo. Anche il CC Baccarini fu molto sfortunato. Rimpatriato nel maggio 1943, assunse il comando di una compagnia di fanti di marina a Pola, reparto del reggimento “San Marco”. Rimase al suo posto all'8 settembre. Fu, con la X MAS, al comando della compagnia “Nazario Sauro”. Soldato di assoluta onestà, credette nel patto sottoscritto con il Comitato di liberazione di Pola; fu tratto in arresto il 3 maggio 1945, deportato a Cocevie, torturato con ferocia e legato con filo di ferro, riuscì a scappare ma fu catturato e imprigionato entro una cisterna per mesi e mesi, quasi impazzì, perdette i denti, i capelli, fu ridotto ad una larva umana. Il 1° novembre 1949, dopo 4 anni e mezzo di prigionia dura, venne consegnato, alla frontiera, vicino a Gorizia, a due agenti dei servizi segreti italiani. Dopo molte sofferenze, decedeva, prematuramente, a Firenze il 7 ottobre 1966, a soli 56 anni, senza essersi mai più ripreso.
RispondiEliminaGrazie. Ricordo di aver letto questa storia anni fa, quando avevo fatto delle ricerche sugli avvenimenti in Venezia Giulia nel 1945; all'epoca non conoscevo ancora in dettaglio la storia della Tifone e quando poi l'ho letta anni dopo, non avevo riconosciuto il nome del comandante Baccarini.
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