Incrociatore leggero
della classe Di Giussano del tipo Condottieri (dislocamento standard 5170
tonnellate, in carico normale 6571 tonnellate, a pieno carico 7670 tonnellate).
Le unità della classe erano state pensate per superare in armamento e velocità
i supercacciatorpediniere francesi costruiti nello stesso periodo (classi
Jaguar, Aigle e Lion), in azioni veloci tra unità leggere simili a quelle di
“guerriglia navale” svoltesi in Adriatico nel precedente conflitto, non per combattimenti
contro altre navi maggiori pesantemente armate; per questo furono dotati di una
corazzatura del tutto inadeguata. Le forme dello scafo e la disposizione
dell’apparato motore erano derivate (ingrandite e rinforzate) dagli esploratori
classe Navigatori, risultando così più vicine a quelle di grossi
cacciatorpediniere che di incrociatori, con negative conseguenze sulla
robustezza longitudinale dello scafo (che a fine anni Trenta dovette essere
rinforzato in tutte le unità della classe, a seguito di vari danni riportati
con il maltempo) e sulla tenuta del mare.
Con una velocità massima
di 39,85 nodi alle prove, risultò tra gli incrociatori più veloci al mondo, ma
si trattava di una velocità irreale, ottenuta con la nave a dislocamento troppo
basso (5565 tonnellate), ancora incompleta di alcune componenti, in condizioni
meteomarine perfette e forzando l’apparato motore; dopo otto anni di servizio,
nella sua ultima battaglia, la sua velocità effettiva risultò di dieci nodi
inferiori. La modestissima corazzatura delle navi di questa classe (sul Colleoni c’erano 290,8 tonnellate di
corazzatura verticale e 241 di corazzatura orizzontale), sacrificata proprio
per ottenere tale velocità, fu la condanna del Colleoni.
In guerra effettuò
tre missioni di ricerca del nemico, due di scorta convogli ed una di posa di
mine, percorrendo 3515
miglia (166 ore di moto).
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La stessa
immagine dopo un bell’intervento di colorizzazione da parte di Atsushi
Yamashita/Irootoko Jr (da blog.livedoor.jp/irootoko_jr). Talvolta questa foto è
erroneamente identificata come del gemello Alberto
Di Giussano. |
Breve e parziale cronologia.
21 giugno 1928
Impostazione nei
cantieri Ansaldo di Sestri Ponente (Genova).
21 dicembre 1930
Varo nei cantieri
Ansaldo di Sestri Ponente, madrina Cesarina Del Croix.
10 febbraio 1932
Entrata in servizio,
quarta ed ultima unità della classe Da Barbiano ad essere completata. Viene
assegnato alla 2a Squadra Navale, formata dagli incrociatori più
veloci e meno protetti. Suo primo comandante è il capitano di vascello Giovanni
Gabetti.
Nei primi anni di
servizio, terminate le prove e l’addestramento preliminare, svolgerà normale
attività di Squadra e d’addestramento, visitando vari porti in Italia ed in
altre nazioni mediterranee e prendendo parte alle manovre navali annuali.
Nei primi anni Trenta
subirà anche una modifica all’armamento contraereo, con la sostituzione dei due
cannoncini singoli da 40/39 mm Vickers-Terni 1917 con quattro mitragliere
binate da 13,2/76 mm.
4 giugno 1932
Il comandante Gabetti
viene sostituito dal capitano di vascello Alberto Bettioli.
10 ottobre 1932
Il capitano di
vascello Bettioli lascia il comando al parigrado Luigi Notarbartolo.
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A Venezia nel 1933 (da it.wikipedia.org)
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22 aprile 1934
Con una solenne
cerimonia, alla presenza della I (Luca Tarigo,
Ugolino Vivaldi, Antoniotto Usodimare, Alvise
Da Mosto) e II Squadriglia Esploratori (Lanzerotto
Malocello, Giovanni Da Verrazzano,
Nicoloso Da Recco, Emanuele Pessagno), della IV Squadriglia
Cacciatorpediniere (Francesco Crispi,
Quintino Sella, Giovanni Nicotera, Bettino
Ricasoli, Tigre, Francesco Nullo, Daniele Manin) e del posamine Dardanelli,
il Colleoni, i gemelli Alberico Da Barbiano, Alberto Di Giussano e Giovanni delle Bande Nere ed il similare
Luigi Cadorna ricevono le proprie
bandiere di combattimento nel bacino di San Marco a Venezia. La bandiera del Colleoni è offerta dalla città di Bergamo,
città natale del condottiero eponimo.
Qualche giorno prima
le navi sono state visitate da Vittorio Emanuele III, assieme al capo di Stato
Maggiore della Regia Marina, ammiraglio Domenico Cavagnari, ed al comandante
del Dipartimento Marittimo dell’Alto Adriatico, ammiraglio Ferdinando di
Savoia.
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Il Colleoni a Venezia il 20 aprile 1934 (Coll. Guido Alfano via Giorgio Parodi)
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10 agosto 1934
Assume il comando del
Colleoni il capitano di vascello
Guido Porzio Giovanola, che rileva il comandante Notarbartolo.
25 agosto 1936
Guido Porzio
Giovanola cede il comando al capitano di vascello Priamo Leonardi.
5 settembre-3 ottobre 1936
Viene dislocato a
Barcellona a protezione dei cittadini italiani, agli albori della guerra civile
spagnola. In un’occasione trovano rifugio sul Colleoni, che li porterà poi a La Spezia, tre giovani militanti
della Falange sfuggiti ad una esecuzione sommaria a Barcellona.
3 gennaio 1937
Scorta un piroscafo con
truppe e rifornimenti per le forze nazionaliste e compie una crociera pendolare
nell’ambito delle operazioni connesse alla guerra di Spagna.
28 gennaio-5 febbraio 1937
Effettua crociera
pendolare (intercettazione e segnalazione alle autorità nazionaliste del
traffico diretto verso porti repubblicani) durante la guerra civile spagnola.
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Il Colleoni a Venezia: in secondo piano la X Squadriglia Cacciatorpediniere (Coll. Guido Alfano, via Giorgio Parodi e www.naviearmatori.net)
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18-24 febbraio 1937
Altra crociera pendolare
per le operazioni legate alla guerra civile in Spagna.
16-21 aprile 1937
Scorta un piroscafo
con truppe e rifornimenti per le forze nazionaliste spagnole.
29 aprile-1° maggio 1937
Altra missione di
scorta ad un piroscafo con rifornimenti per i falangisti.
3-6 maggio 1937
Nuova missione di
scorta a piroscafo con rifornimenti per le forze nazionaliste spagnole.
1938-1939
A seguito di nuovi
lavori, l’armamento contraereo viene rinforzato con l’aggiunta di quattro
moderne mitragliere binate Breda 1935 da 20/65 mm. Vengono imbarcate anche due
tramogge per bombe di profondità (40 cariche).
Nello stesso periodo
le strutture dello scafo, soggette a sollecitazioni troppo violente ad alta
velocità, devono essere rinforzate.
31 luglio (o 5 ottobre) 1938
Assume il comando del
Colleoni il capitano di vascello
Gaetano Catalano Gonzaga, in luogo di Leonardi.
16 novembre 1938
Il Colleoni salpa da La Spezia diretto in
Cina per rimpiazzare l’incrociatore leggero Raimondo
Montecuccoli nel ruolo di stazionario, a protezione dei cittadini italiani
residenti in Cina, minacciati dalla feroce guerra sino-giapponesi in corso
ormai da più di un anno. Dopo uno scalo a Napoli, dove imbarca 50 uomini del
Reggimento San Marco che devono rinforzare il presidio del «San Marco» già
presente a Shanghai (tra cui il capitano di corvetta Mario Ruta, futura MOVM),
il Colleoni prosegue per l’Estremo
Oriente, toccando Port Said, Suez, Massaua (dove incontra il Montecuccoli in viaggio di ritorno),
Colombo e Hong Kong.
23 dicembre 1938
Arriva a Shanghai,
divenendo la nave di bandiera del Comando Superiore Navale Estremo Oriente (che
comprende le cannoniere Lepanto ed Ermanno Carlotto stazionarie in Cina).
Resterà fermo in tale porto sino al 27 marzo dell’anno successivo.
27 marzo-21 aprile 1939
Lascia Shanghai il 27
marzo per una crociera nella Cina settentrionale e nel Giappone; fa scalo a
Tsingtao, Chefoo, Chinwangtao, Dairen, Kobe, Yokohama, Nagasaki, Wei-Hai-Wei e
Petaiho, per poi fare ritorno a Shanghai il 21 aprile. Durante il viaggio il
comandante Catalano Gonzaga tratterà con la Marina Imperiale giapponese,
ottenendo l’esenzione dai controlli per le navi italiane in acque cinesi, e
conferendo con l’imperatore del Giappone, Hirohito (a Tokyo), e con quello del
Manchukuo, Pu Yi.
16-19 luglio 1939
Si reca in visita a
Dairen (Manchukuo), dando inizio ad alcune crociere di pattugliamento di 22
giorni di durata, con l’incarico di pattugliare le coste della Cina per tutta
la loro estensione – da Hong Kong a Port Arthur o Dairen – ed impedire l’invio
di truppe, armi e rifornimenti in Cina.
10-11 agosto 1939
Nuova visita a
Dairen.
17 agosto-13 settembre 1939
Terza ed ultima
visita a Dairen.
1 o 9 ottobre 1939
A seguito dello
scoppio della seconda guerra mondiale, e dell’invito alle nazioni europee, da
parte del Giappone, di ritirare le proprie navi dalle acque della Cina, il Colleoni lascia Shanghai per rientrare
in Italia, facendo scalo, durante il viaggio, a Singapore, Colombo e Massaua.
Il precedente 2
settembre, il giorno dopo lo scoppio del conflitto, l’incrociatore pesante
britannico Devonshire era stato
inviato in pattugliamento per d’intercettazione a sud della costa giapponese
per attaccare il Colleoni, che
risultava essere in Giappone, qualora anche l’Italia fosse entrata in guerra
contro il Regno Unito.
Per lo stesso motivo
si erano avviati anche contatti con le autorità giapponesi per una possibile
vendita dell’incrociatore alla Marina imperiale, ma non se ne era infine fatto
niente.
28 ottobre 1939
Conclude il viaggio
arrivando a Gaeta.
Andrà poi a formare,
insieme al gemello Giovanni delle Bande
Nere, la II Divisione Navale, al comando dell’ammiraglio di divisione Carlo
Cattaneo (poi sostituito dal parigrado Ferdinando Casardi) e di base a La
Spezia.
31 gennaio (o 5 febbraio) 1940
Il capitano di
vascello Gaetano Catalano Gonzaga lascia il comando del Colleoni, venendo rimpiazzato in tale ruolo dal parigrado Umberto
Novaro: questi sarà l’ultimo comandante del Colleoni.
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Un’altra immagine del Colleoni (Australian War Memorial)
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30 aprile 1940
Dopo tentativi
falliti di vendere l’ormai relativamente anziana, e soprattutto inadeguata,
nave al Giappone (nel 1939), il Colleoni
torna a far parte delle forze da battaglia. Entrerà in guerra senza aver avuto
il tempo di subire un raddobbo o di completare l’addestramento. In guerra verrà
considerato un’unità “spendibile”, adatta a missioni di scorta e di posa mine
piuttosto che per operare con le forze da battaglia.
10 giugno 1940
All’ingresso in
guerra dell’Italia il Colleoni,
insieme al gemello Bande Nere (nave
ammiraglia), forma la II Divisione Navale (al comando dell’ammiraglio di
divisione Ferdinando Casardi), dislocata a Palermo e facente parte della 2a
Squadra Navale.
Alle 20 dello stesso
10 giugno Colleoni e Bande Nere lasciano Palermo per coprire
le operazioni di posa, da parte del posamine Buccari e del posamine ausiliario (ex traghetto ferroviario) Scilla, dello sbarramento di mine «G P»
(Capo Granitola-Pantelleria) nel Canale di Sicilia. In mare è anche una forza
d’appoggio costituita dalle Divisioni Navali III (da Messina) e VII (da
Napoli), dall’incrociatore pesante Pola
(da Messina) e dalla X Squadriglia Cacciatorpediniere (da Napoli).
11 giugno 1940
Colleoni e Bande Nere fanno
ritorno a Palermo.
16 giugno 1940
Colleoni e Bande Nere si
trovano nel porto di Palermo quando la città viene sorvolata da cinque aerei
che lanciano manifestini; i due incrociatori aprono il fuoco con le artiglierie
contraeree.
22-24 giugno 1940
La II Divisione (Colleoni e Bande Nere), insieme alle Divisioni incrociatori I (incrociatori
pesanti Zara, Fiume, Gorizia) e III (incrociatori
pesanti Trento e Bolzano), all’incrociatore pesante Pola (nave ammiraglia del comandante superiore in mare) ed alle
Squadriglie Cacciatorpediniere IX, X e XII (cioè tutta la II Squadra Navale,
più la I Divisione), prende il mare per fornire copertura alla VII Divisione ed
alla XIII Squadriglia Cacciatorpediniere, inviate a compiere un’incursione
contro il traffico mercantile francese nel Mediterraneo occidentale, dopo che
intercettazioni e ricognizioni aeree hanno posto in evidenza l’esistenza di un
intenso traffico convogliato tra Provenza ed Algeria.
Colleoni e Bande Nere partono
da Palermo alle 17.30 del 22 giugno ed al tramonto dello stesso giorno, a nord
di Palermo, si riuniscono al Pola ed alla I e III Divisione, uscite da Augusta
e Messina. La formazione fa rotta fino ad un punto situato 40 miglia ad ovest
dell’isola di San Pietro (Sardegna), da dove poi tenersi pronta ad intervenire
a supporto della VII Divisione in caso di necessità.
L’operazione non
porta comunque ad incontrare alcuna nave nemica; le avverse condizioni del
tempo (nubi basse, piovaschi e foschia) impediscono alla ricognizione aerea di
individuare alcunché.
Colleoni e Bande Nere rientrano
a Palermo, arrivandovi alle 2.50 del 24.
28 giugno 1940
Il Colleoni salpa da Palermo alle 23.15,
preceduto alle 22.30 dal Bande Nere,
per trasferirsi ad Augusta, seguendo la rotta che passa a nord della Sicilia.
29 giugno 1940
I due incrociatori
giungono ad Augusta alle 9.30.
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Il Colleoni all’ormeggio (g.c. Carlo Di Nitto)
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2 luglio 1940
Colleoni e Bande Nere salpano
da Augusta tra le 20 e le 20.30, insieme alla X Squadriglia Cacciatorpediniere,
per tentare l’intercettazione di un cacciatorpediniere britannico classe J,
indicato come in navigazione da Gibilterra verso, probabilmente, Malta.
3 luglio 1940
Il Bande Nere catapulta un aereo da
ricognizione, ma non si effettuano comunque avvistamenti; la visibilità sul
mare, con vento fresco da maestrale, è piuttosto contenuta, ed alla fine le
navi sono costrette a rientrare ad Augusta a mani vuote, giungendovi alle 17.50
(Colleoni) ed alle 19 (Bande Nere).
4 luglio 1940
Colleoni e Bande Nere lasciano
Augusta tra le 00.05 e l’1.40 per raggiungere, a 100 miglia dalla
Sicilia, un convoglio di due mercantili (Esperia
e Victoria, scortati dalle torpediniere
Procione, Orsa, Orione e Pegaso) di ritorno da Tripoli, del quale
assumere la scorta per un tratto (assieme agli incrociatori pesanti Zara, Fiume e Gorizia della I
Divisione e dei cacciatorpediniere Alfieri,
Oriani, Gioberti e Carducci della
IX Squadriglia e Maestrale, Grecale, Libeccio e Scirocco della
X Squadriglia). Completata la missione (il convoglio giungerà indenne a Napoli
lo stesso 4 luglio), il Colleoni
torna ad Augusta alle 19.55, preceduto dal Bande
Nere che vi è già arrivato alle 9.30.
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In navigazione (da digilander.libero.it)
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7 luglio 1940
Bande Nere (con a bordo l’ammiraglio Casardi) e Colleoni lasciano Augusta alle 12.55,
insieme ai cacciatorpediniere della X Squadriglia (Maestrale, Grecale, Libeccio, Scirocco), per assumere la scorta del primo convoglio di grandi
dimensioni inviato in Libia (operazione «TCM»), partito da Napoli alle 18 del
giorno precedente: lo compongono il piroscafo Esperia (con 1571 militari a bordo) e le motonavi Calitea (con 619 militari a bordo), Marco Foscarini, Francesco Barbaro e Vettor
Pisani (queste ultime tre, da carico, aventi a bordo in tutto 232
automezzi, 5720 tonnellate di carburanti e lubrificanti e 10.445 tonnellate di
altri rifornimenti), scortate dalle moderne unità della XIV Squadriglia
Torpediniere (Orsa, Procione, Orione e Pegaso).
A
protezione del convoglio è in mare pressoché tutta la flotta italiana: 35 miglia ad est, per
scorta indiretta, vi sono l’incrociatore pesante Pola, la I e III Divisione con cinque incrociatori pesanti e le
Squadriglie Cacciatorpediniere IX, XI e XII con dodici unità in tutto; 45 miglia ad ovest vi
sono i quattro incrociatori leggeri della VII Divisione ed i quattro
cacciatorpediniere della XIII Squadriglia. In più vi è un gruppo di
protezione/sostegno costituito dall’intera 1a Squadra Navale, con le due corazzate
della V Divisione, i sei incrociatori leggeri della IV e VIII Divisione ed i
tredici cacciatorpediniere della VII, VIII, XV e XVI Squadriglia.
Il
convoglio, procedendo a 14 nodi (il gruppo che comprende la II Divisione
procede a 20 nodi sino ad incontrare il convoglio a sud della Sicilia, per
scortarlo nel tratto più pericoloso, fino a Bengasi), segue rotta apparente
verso Tobruk fino a giungere in un punto situato 245 miglia a nordovest
di Bengasi, quindi assume rotta verso quest’ultimo porto; dopo altre 100 miglia il convoglio
si divide, lasciando proseguire a 18 nodi le più veloci Esperia e Calitea, mentre
le motonavi da carico manterranno una velocità di 14 nodi.
8 luglio 1940
All’1.50
l’ammiraglio Inigo Campioni, comandante della flotta italiana, a seguito di
avvistamenti della ricognizione che rivelano la presenza in mare della
Mediterranean Fleet britannica (anch’essa uscita a tutela di convogli), ordina
al convoglio, che si trova in rotta 147° (per Bengasi) di assumere rotta 180°,
in modo da essere pronto ad essere dirottato su Tripoli in caso di necessità.
Alle 7.10, appurato che la Mediterranean Fleet non può essere diretta ad
intercettare il convoglio, Campioni ordina a quest’ultimo di tornare sulla
rotta per Bengasi.
Il
convoglio «TCM» arriva a Bengasi, dopo una navigazione tranquilla, tra le 18 e
le 22; la II Divisione e la X Squadriglia vengono inviate a Tripoli.
9 luglio 1940
La
II Divisione e la X Squadriglia vengono dislocate a Tripoli, dove il Colleoni dà fondo alle 13.10, preceduto,
alle 10.25, dal Bande Nere. Queste
unità non parteciperanno quindi alla battaglia di Punta Stilo, scatenatasi il
giorno seguente tra la flotta italiana (1a e 2a Squadra
Navale) e quella britannica e conclusasi senza vincitori né vinti.
Capo Spada
La perdita del Colleoni fu la conseguenza di un piano
che, nell’idea di base, non sembrava sbagliato.
Dopo che la II
Divisione, al termine dell’operazione del 9 luglio, si era dislocata a Tripoli,
Supermarina decise infatti di trasferirla per un breve periodo in Egeo, e
precisamente nella base navale di Portolago, a Lero, per impiegarla come forza
d’attacco veloce per incursioni contro il traffico britannico nell’Egeo, allo
scopo di recare il maggior danno possibile. Un’idea simile avrebbe spinto
nell’ottobre 1941 la Royal Navy a dislocare a Malta la Forza K (incrociatori
leggeri Aurora e Penelope e cacciatorpediniere Lance
e Lively) per attaccare i convogli
italiani diretti in Libia, con notevole successo. Forse sarebbe stato meglio,
per Supermarina, designare due incrociatori più moderni delle classi
Montecuccoli, Duca d’Aosta o Duca degli Abruzzi, anziché Bande Nere e Colleoni,
dotati di modesta corazzatura e di una velocità massima ormai erosa dal
trascorrere degli anni; in tal caso, forse, gli eventi successivi avrebbero
preso una piega del tutto diversa. Ma si tratta di una questione buona
soltanto, ormai, per il giudizio della Storia.
Il piano di
Supermarina prevedeva che Bande Nere
(nave di bandiera dell’ammiraglio di divisione Ferdinando Casardi, comandante la
II Divisione) e Colleoni, partiti da
Tripoli senza scorta di cacciatorpediniere (li avrebbero scortati i
cacciatorpediniere di Tobruk, solo nell’ultimo tratto di avvicinamento a quella
base e nella navigazione fino a Sollum e ritorno), si sarebbero riforniti
rapidamente a Tobruk, poi avrebbero eseguito un’azione (breve ma intensa) di
bombardamento contro posizioni costiere britanniche a Sollum (o, solo
secondariamente, Marsa Matruh) dopo di che avrebbero diretto inizialmente su
Tobruk fino al tramonto, in modo da trarre in inganno eventuali ricognitori
britannici, per poi assumere rotta per Lero, dove sarebbe giunta nel primo
pomeriggio del giorno da stabilire, transitando nel canale tra Rodi e Scarpanto
oppure tra Cerigo e Candia.
Il 13 luglio 1940,
pertanto, Supermarina ordinò all’ammiraglio di divisione Bruno Brivonesi,
comandante di Marina Libia (a Bengasi), di chiedere al Comando Superiore Africa
Settentrionale Italiana quali fossero gli obiettivi da colpire a Sollum,
avvertendo al contempo anche l’ammiraglio Casardi della prossima missione della
sua Divisione. Furono inoltre richieste ricognizioni aeree ad est di Tobruk,
con velivoli delle basi di Rodi e della Cirenaica, per accertare che non vi si
trovassero forze navali avversarie; e contattati gli Addetti Navali ad Atene ed
Ankara per avere informazioni sull’eventuale concentramento, verso Creta, di
piroscafi provenienti da porti della Grecia e della Turchia. L’indomani anche
il Comando Superiore delle Forze Armate delle Isole Italiane dell’Egeo (Egeomil,
a Rodi) venne avvisato – a mezzo di dispaccio spedito per aereo, onde evitare
intercettazioni – della prossima dislocazione della II Divisione a Portolago,
dei relativi scopi e dei tempi e modalità di massima dell’arrivo. La sosta
forzata dell’aereo a Bengasi, per “ragioni meteorologiche”, ne ritardò però
l’arrivo a Rodi fino al 24 luglio, quindi il 18 Supermarina dovette mandare un
telegramma.
Il 14 luglio
Supermarina aveva inviato all’ammiraglio Casardi, sempre per via aerea, anche
l’ordine d’operazione con obiettivi e dettagli della missione dei due
incrociatori. Le navi sarebbero procedute a 20 nodi (di più, a scelta di
Casardi, nelle zone in cui avesse voluto zigzagare) in modo da giungere, alle
5.30 del giorno seguente alla partenza, 20 miglia a nordovest del
punto prestabilito «C», dove sarebbero state raggiunte dai cacciatorpediniere
di Tobruk, che le avrebbero scortate in porto. Qui si sarebbero rifornite di
acqua (il minimo possibile) e nafta, poi sarebbero ripartite in giornata,
avrebbero raggiunto Sollum a 25 nodi ed effettuato il bombardamento in modo da
concluderlo due ore prima del tramonto; poi avrebbero fatto rotta per Tobruk a
25 nodi per ingannare il nemico, salvo, calato il buio, lasciare i
cacciatorpediniere liberi di rientrare a Tobruk, e dirigere da sole per
Portolago, passando, a seconda degli ordini che avrebbero ricevuto, tra Rodi e
Scarpanto (messaggio in codice «Rimandate sosta prevista», anche cifrato per
maggior sicurezza) oppure ad ovest di Creta («Pervenuto plico confidenziale»,
sempre in codice e cifrato), sempre a 25 nodi. Giunti a Portolago, gli
incrociatori, rifornitisi delle munizioni impiegate nel bombardamento, si
sarebbero dovuti tener pronti ad uscire in mare (in 6 ore fino a mezzanotte del
giorno seguente a quello di arrivo, poi pronti in 2 ore salvo che nelle 24 ore
successive al rientro da ciascuna incursione, quando sarebbero stati pronti in
6 ore) per rapide scorrerie contro naviglio mercantile britannico od al
servizio del Regno Unito, e relative scorte. Durante la navigazione, specie
verso Sollum, le navi si sarebbero dovute tenere per quanto possibile sopra
fondali di profondità non inferiore ai 500 metri, in modo da non
rischiare di incappare in campi minati; per tutta la durata della missione le
navi di Casardi avrebbero dovuto mantenere il più rigido silenzio radio.
Se l’azione contro
Sollum fosse stata compresa nella missione, Casardi avrebbe ricevuto un
telegramma cifrato con il messaggio convenzionale (anch’esso cifrato) «Sedici
terreni saranno espropriati», indicante che il giorno X (inizio della missione,
partenza da Tripoli) sarebbe stato il 16 luglio; se invece la II Divisione
avrebbe dovuto lasciare Tripoli diretta subito in Egeo, senza sostare a Tobruk
e bombardare Sollum, il messaggio previsto sarebbe stato «Sedici trasmissioni
errate», pure in cifra. Nessuno all’infuori di Casardi doveva essere messo al
corrente degli ordini d’operazione; anche i comandanti dei due incrociatori, capitani
di vascello Franco Maugeri (Bande Nere)
e Umberto Novaro (Colleoni),
avrebbero ricevuto dall’ammiraglio ordini più precisi soltanto una volta in
mare.
L’Addetto Navale ad
Istanbul, su richiesta di Supermarina, comunicò il 15 luglio che quel giorno,
alle 18.30 ora italiana, tre motocisterne fluviali britanniche di 1500-2000
tsl, apparentemente a pieno carico, erano passate nel Bosforo dirette ai
Dardanelli; il 16 aggiunse che avevano atteso a Çanakkalè, sulla sponda
asiatica dei Dardanelli, altri tre piroscafi britannici, che stavano caricando
merce ad Istanbul, onde poi salpare in un unico convoglio. Non mancò di
descrivere l’aspetto delle cisterne, così che fossero riconoscibili, e poi di
indicare anche i nomi di tutte e sei le navi. Al contempo, il 15, Marina Libia
aveva riferito che in quel momento un bombardamento di Sollum non occorreva; lo
si sarebbe chiesto in seguito, qualora fosse servito.
Sulla base di queste
informazioni, il 16 sera Supermarina comunicò ad Egeomil quanto saputo da
Istanbul e domandò se tale Comando acconsentisse all’invio a Lero, direttamente
da Tripoli (senza bombardamento su Sollum) la II Divisione, che sarebbe passata
presso Cerigo all’alba del 19, richiedendo inoltre ricognizione aerea sulla
rotta per Lero. In attesa della risposta, alle 9.30 del 17 luglio Supermarina
ordinò ai due incrociatori di accendere le caldaie e tenersi pronti a muovere,
quindi telegrafò all’ammiraglio Casardi «diciassette trasmissioni errate»
(partire da Tripoli e trasferirsi direttamente in Egeo, giorno X era appunto il
17) e poi aggiunse che la II Divisione sarebbe dovuta salpare alle 21 del 17
procedendo a 20 nodi, dirigendo da Tripoli per un punto situato 30 miglia a nord di Derna
(giungendovi alle 21 del 18), da dove poi avrebbe fatto rotta 12° verso il
passaggio tra Creta e Cerigotto (transito previsto per le 4.30 del 19);
l’arrivo a Portolago era previsto per le 14.30 del 19 luglio. Arrivato
l’assenso da Egeomil (ma solo dopo che il Comando Supremo ebbe dovuto ribadire
gli ordini di Supermarina, perché il governatore dell’Egeo, il borioso megalomane
Cesare De Vecchi, “accettava” direttive o “suppliche” solo dal Comando Supremo),
Supermarina aggiunse che tale Comando avrebbe provveduto alla ricognizione
aerea sulla rotta che dovevano seguire, e che una volta in Egeo la II Divisione
avrebbe potuto ricevere ordini diretti anche da esso.
La segretezza
sull’operazione, nonostante De Vecchi (che prese a mandare lunghissimi ed
inutili telegrammi a Supermarina ed al Comando Supremo, finché la sera del 18
Supermarina fu costretto a ricordargli che la II Divisione doveva mantenere il
silenzio radio, che gli aerei non avrebbero dovuto tentare di contattarla e,
sostanzialmente, di stare zitto per non compromettere la segretezza dei codici
della Regia Marina), fu mantenuta; i comandi britannici non seppero nulla di
quanto quelli italiani stessero pianificando. Ma Supermarina non era l’unico
comando a predisporre in quel momento operazioni in Mar Egeo.
Per contrastare
l’attività dei sommergibili italiani, dislocati agli sbocchi meridionali
dell’Egeo ed a settentrione di Creta, a danno dei convogli britannici in
navigazione tra l’Egitto ed i Dardanelli, il comando della Mediterranean Fleet
soleva predisporre, in coincidenza con il passaggio di propri convogli, dei
rastrelli antisommergibile con impiego di unità leggere.
Uno di questi
rastrelli ebbe inizio il 18 luglio 1940, prima della partenza dall’Egitto per i
Dardanelli del convoglio «AN. 2»: in base a ordini diramati il pomeriggio del
17 luglio, la 2nd Destroyer Flotilla, con i cacciatorpediniere
britannici Hasty (capitano di
corvetta Lionel Rupert Knyvet Tyrwhitt), Hero
(capitano di fregata Hilary Worthington Biggs), Hyperion (capitano di fregata Hugh St. Lawrence Nicolson,
capoflottiglia) ed Ilex (capitano di
corvetta Philip Lionel Saumarez), avrebbe condotto caccia antisommergibile nel
canale tra Caso e Creta; al contempo l’incrociatore leggero australiano Sydney (capitano di vascello John
Augustine Collins) ed il cacciatorpediniere britannico Havock (capitano di corvetta Rafe Edward Courage) avrebbero fornito
appoggio a distanza a tale formazione ed effettuato un rastrello contro il
traffico italiano (tra l’Italia da una parte e Mar Nero e Dodecaneso
dall’altra) nel golfo di Atene. Le sei navi salparono da Alessandria d’Egitto
il 18 luglio (la 2nd Flotilla poco dopo mezzanotte, Sydney e Havock alle 4.30), poi si divisero in due gruppi, diretti ai
rispettivi obiettivi. Quando avesse completato la missione, la flottiglia di
Nicolson avrebbe dovuto lasciare l’Egeo attraverso il canale di Cerigotto,
passandovi alle 6 del 19 luglio.
Il Colleoni, al comando del capitano di
vascello Umberto Novaro, ed il Bande Nere
(capitano di vascello Franco Maugeri, imbarcato l’ammiraglio Casardi al comando
della II Divisione) lasciarono Tripoli come previsto alle 21 del 17 luglio
1940. Alle 22.07 del giorno seguente le due unità raggiunsero il punto
prestabilito al largo di Derna, dove accostarono verso nord per dirigere verso
il canale di Cerigotto.
Fino alle sei del
mattino del 19 luglio la navigazione dei due incrociatori italiani procedette
tranquilla, senza imprevisti.
Il sole era sorto
intorno alle cinque e un quarto. Colleoni
e Bande Nere erano dotati di
idrovolanti da ricognizione IMAM Ro. 43, ma l’ammiraglio Casardi non li aveva
fatti catapultare, dato che sarebbe stato difficile e pericoloso a causa delle
condizioni meteomarine sfavorevoli, con vento teso da maestrale e mare agitato
(per catapultare gli aerei le navi dovevano mettere la prua al vento, il che in
quelle condizioni avrebbe comportato la riduzione della velocità, esponendoli
al rischio di attacchi da parte dei sommergibili che si temeva fossero in
quelle acque), e soprattutto che, stando a quanto gli era stato comunicato,
sarebbe stato Egeomil a provvedere alla ricognizione aerea nella zona
attraversata dalla II Divisione. A quello scopo Egeomil aveva fatto eseguire
delle ricognizioni aeree con idrovolanti IMAM Ro. 44 nel pomeriggio del 18, ma
senza avvistare nulla; il mattino del 19 tre idrovolanti CANT Z. 501 della
ricognizione marittima (84° Gruppo della Regia Aeronautica) sarebbero dovuti
decollare da Lero alle 4.45, ma non poterono farlo per problemi tecnici (il
primo, alle 4.45, subì il surriscaldamento del motore durante il decollo, reso
difficile dal mare mosso, e dovette così interrompere il decollo; il secondo
decollò alle 4.50, ma dovette rientrare dopo un’ora per lo sforzo sostenuto dal
motore; il terzo, decollato alle 4.55, fu costretto anch’esso al rientro per
problemi al motore) ed altri due velivoli dello stesso tipo (il primo della 147a
Squadriglia ed il secondo della 185a Squadriglia) poterono decollare
solo alle 6.20 ed alle 6.50: ormai troppo tardi per influire sul corso degli
eventi, che anzi avevano già avuto inizio.
(Secondo la storia
della Marina australiana, un superstite del Colleoni,
poi preso prigioniero, affermò che intorno alle sei del mattino c’era stato un
tentativo di lanciare un idrovolante, ma si dovette rinunciare, probabilmente
per un guasto meccanico. Risulta inoltre che a bordo dell’Hyperion e del Sydney le
condizioni del vento e del mare vennero riportate come più calme rispetto a
quanto descritto da Casardi; in un dispaccio il Sydney riferì di mare forza 5).
Alle 6.17 Colleoni e Bande Nere stavano procedendo a 25 nodi a zig zag su rotta 73° ed
erano a circa dodici miglia dal passaggio tra Creta e Cerigotto, quando
avvistarono di prua, a circa 18
miglia di distanza, i profili di quattro navi (distese
in linea di fronte a circa mille metri l’una dall’altra, come lo schermo
esplorativo di una formazione di navi maggiori), che, pur avendo negli occhi il
riverbero del sole (che era sorto proprio dietro le unità in arrivo),
riconobbero per altrettanti cacciatorpediniere britannici: erano Hasty, Hero, Hyperion ed Ilex della 2nd Destroyer
Flotilla, che – terminato il rastrello antisom e diretti ora alla loro base – si
stavano anch’essi avvicinando al passaggio tra Creta e Cerigotto (Canale di
Cerigotto) provenendo da est (mentre la II Divisione proveniva da ovest), con
rotta per sudovest.
Alle 6.22 anche
questi ultimi avvistarono le navi di Casardi: alle 6.33 l’Hero lo riferì al Sydney
– che si trovava 40 (o 60) miglia più a nord-nord-est, a 40 miglia per 010° da
Capo Spada, insieme all’Havock (non
avevano trovato alcuna nave da attaccare e stavano dirigendosi verso il Golfo
di Atene) – e subito tutti i cacciatorpediniere accostarono per 60° (cioè a
dritta) ed accelerarono gradualmente da 18 a 31 nodi, ritirandosi verso nordest
inseguiti dagli incrociatori italiani; un minuto dopo l’Hyperion inviò al Sydney
una comunicazione più dettagliata, indicando la propria rotta come 60° e quella
delle navi italiane come 360°, oltre a precisare posizione (3 miglia per 340° dal faro
dell’isolotto di Agria Gramvousa) e velocità. L’incontro, in una delle poche
circostanze del genere nella guerra del Mediterraneo, era stato del tutto
casuale: sull’Hyperion gli uomini
avevano appena lasciato i posti di guardia dell’alba, e si stava preparando la
colazione, quando la vedetta dell’ala dritta di plancia aveva annunciato “Two
cruisers on the starboard bow, sir” precisando poi “and they’re Italian, too”. Suonati
i campanelli d’allarme, i cacciatorpediniere avevano subito compiuto una netta
virata verso nordest issando le bandiere di combattimento; Hyperion ed Ilex, i più
vicini alle navi italiane, avevano anche aperto il fuoco durante la manovra (l’Hyperion con i soli cannoni poppieri),
ma con tiro troppo corto.
(Secondo una fonte,
gli incrociatori di Casardi erano stati avvistati dalla RAF il giorno
precedente, ma Collins non ne era stato informato. Nella storia ufficiale dell’USMM
e della Royal Australian Navy e nella maggior parte dei libri scritti a
riguardo, però, non si fa menzione di questo avvistamento, tanto da far
dubitare della sua veridicità).
|
Il Colleoni visto dal Bande Nere
all’inizio dello scontro (g.c. Carlo Di Nitto)
|
Quando ricevette la
comunicazione sulla situazione della 2nd Flotilla, il comandante
Collins del Sydney assunse subito
rotta verso sud (prima 240° e subito dopo, ricevuto il secondo segnale dell’Hyperion, 190°; successivamente con
varie accostate verso est/sudest in base agli aggiornamenti sulla posizione
del’Hyperion) a tutta forza, insieme
all’Havock; poco dopo il comando
della Mediterranean Fleet, avendo intercettato i messaggi inviati dai
cacciatorpediniere, ordinò che Sydney
ed Havock si riunissero agli altri
quattro cacciatorpediniere, per condurre un attacco congiunto. Collins, stando
agli ordini che aveva ricevuto, si sarebbe dovuto trovare in realtà circa 200 miglia più a nord di
dove effettivamente era; si era portato lì di sua iniziativa, temendo di
trovarsi altrimenti troppo lontano dai cacciatorpediniere della 2nd
Flotilla in caso di attacco da parte di unità nemiche, ed aveva visto giusto.
Sul Sydney l’equipaggio, consumata
rapidamente la colazione, si preparò alla battaglia.
Da parte italiana si
era completamente all’oscuro della presenza in zona di queste altre due navi, e
si continuò a restarne all’oscuro, perché Collins mantenne il silenzio radio
per tutto il tempo, proprio per giungere loro addosso di sorpresa.
Intanto la II
Divisione, portata la velocità a 30 nodi, si spiegò sulla sinistra (assumendo
rotta 360°) ed aprì il fuoco alle 6.27, da 17.500 metri, sui due
cacciatorpediniere più a sinistra, cioè Ilex
ed Hyperion. Gli incrociatori
assunsero una rotta verso nord, leggermente divergente da quella dei
cacciatorpediniere (che era verso nordest), il che impedì alle distanze di
diminuire; ciò fu spiegato con il sospetto, da parte di Casardi, che i
cacciatorpediniere fossero lo schermo avanzato di una formazione più pesanti,
ma di fatto impedì alla II Divisione di sfruttare la sua superiorità in
armamento e (almeno teoricamente) velocità per infliggere gravi danni alla 2nd
Destroyer Flotilla.
Alle 6.32 i
cacciatorpediniere risposero al fuoco; Casardi tenne le sue navi ad una
distanza tale da restare al di fuori della portata dei cannoni da 120 mm delle unità nemiche
(cioè 15.550 metri,
contro i 28.350 teorici, ma 24.600 reali, dei pezzi da 152 degli incrociatori
di Casardi), oltre che per evitare attacchi siluranti. Pezzi di tale calibro
non avrebbero dovuto, normalmente, impensierire un incrociatore, ma la pochezza
della corazzatura delle prime due classi del tipo “Condottieri” rendeva invece Colleoni e Bande Nere vulnerabili anche ai tiro dei pezzi da 120, se colpiti. Il
problema derivante da questa decisione, come detto, fu l’impossibilità, tirando
a distanze tanto elevate, di mettere un sol colpo a segno sulle navi
britanniche.
Il tiro dei
cacciatorpediniere del comandante Nicolson appariva centrato, ma corto di 800 metri; quello delle
navi dell’ammiraglio Casardi, molto disperso. Un marinaio di uno dei cacciatorpediniere
britannici ricordò in seguito che durante tale fase dell’azione le navi della 2nd
Flotilla non poterono far altro che cercare di distanziare alla massima
velocità possibile (31 nodi) le unità avversarie, evitando i colpi che
frequentemente risultavano sparati alla giusta distanza, ma sempre disallineati
dai bersagli (azimut errato), che non riuscivano così mai a colpire (ciò era
dovuto anche al fatto che i “Da Barbiano” erano delle piattaforme d’artiglieria
piuttosto mediocri, soggetti con mare mosso – come appunto in quello scontro –
a forte rollio, che disturbava seriamente il tiro). Guardare le salve da 152
che esplodevano tra le navi, sollevando “spruzzi verdi, gialli e rossi”, fu per
quegli equipaggi uno “spiacevole passatempo”.
Alle 6.43, secondo
Casardi, la 2nd Flotilla cessò il tiro e lanciò i propri siluri da 18.000 metri, per poi
coprirsi con cortine nebbiogene che, assieme alla foschia naturale del mattino
ed alla luce del sole che accecava i puntatori italiani, riuscirono ad
allontanarsi indenni verso nordest, passando a proravia delle navi di Casardi.
Queste ultime cessarono il fuoco alle 6.48 (in quel momento esse si trovavano a
sudest di Cerigotto, mentre i cacciatorpediniere erano a nord di Capo Spada),
essendo i bersagli ormai occultati dalla foschia naturale e dalla nebbia
artificiale, e due minuti dopo accelerarono a 32 nodi e compirono una netta
accostata a dritta (verso sudest) nel tentativo di ridurre le distanze, che
erano aumentate fino a 24.000
metri (le rotte dei due gruppi risultavano infatti
leggermente divergenti, mentre dopo questa manovra divennero leggermente
convergenti).
Il lancio dei siluri
da parte delle navi di Nicolson, e l’avvistamento di due dei siluri, passati
molto lontani sulla dritta degli incrociatori, fu però solo il frutto di
un’illusione ottica da parte italiana: la 2nd Flotilla non eseguì in
realtà alcun lancio di siluri in questa fase, non potendo fare altro che
manovrare per evitare le salve tirate dalle navi italiane. Nella loro fuga, intorno
alle sette i cacciatorpediniere passarono a otto miglia da un vecchio
mercantile greco: il suo equipaggio, temendo di essere coinvolto nella
battaglia e forse attaccato per errore, fermò la nave e l’abbandonò su una
lancia.
Frattanto, alle 6.47
le navi di Nicolson avevano virato per 360° per tentare di riconoscere la
classe degli incrociatori italiani, ma alle 6.53, vedendo le navi di Casardi
manovrare per ridurre le distanze, tornarono su rotta 60°.
Alle 6.57 Casardi
ordinò di virare ancora, stavolta verso est, mentre Nicolson aveva virato verso
nordest quattro minuti prima, nel tentativo di avvicinarsi al sopraggiungente Sydney che ancora non si vedeva. Questa
manovra, mantenendo ancora una rotta divergente, continuò ad impedire agli
incrociatori italiani di ridurre le distanze, il che avrebbe invece permesso
loro una maggior precisione del tiro.
Il fuoco fu aperto
solo saltuariamente, ogniqualvolta qualche cacciatorpediniere appariva tra
nebbia e foschia, prima di sparire nuovamente; alle 6.58 i cacciatorpediniere
ridivennero visibili, a 23.000
metri, e fu nuovamente aperto il fuoco contro di loro,
ma ormai la distanza era tale da rendere vano il tiro (che da parte avversaria
venne valutato sia corto che irregolare), ed alle 7.05, dopo poche salve, fu
cessato il fuoco. Alle 7.03 Casardi ordinò di virare a sinistra (verso est),
con rotta pressoché analoga a quella di Nicolson: ora la rotta non era più
divergente, e le distanze iniziarono a calare. Alle 7.21 la velocità della II
Divisione venne nuovamente ridotta a 30 nodi, ed un minuto dopo l’ammiraglio
Casardi chiese via radio ad Egeomil di inviare dei bombardieri, indicando la
propria posizione e la situazione; alle 7.25 fu nuovamente aperto il fuoco.
Intanto la 2nd
Flotilla aveva più volte cambiato rotta: 030° alle 7.04 (dopo aver ricevuto
l’ordine di riunirsi al Sydney), 060°
alle 7.06 (un minuto dopo aver comunicato al Sydney che la II Divisione era in quel momento a 17 miglia per 265° dai
cacciatorpediniere, con rotta 090°), 040° alle 7.14 e 030° alle 7.21.
Nel mentre, il Sydney aveva assunto rotta 150° alle 7,
160° alle 8.15 e 120° alle 8.20.
Il Colleoni inquadrato dalle prime salve
(g.c. Carlo Di Nitto)
Alle 7.30, mentre la
II Divisione stava navigando a 30 nodi verso nordest con rotta leggermente
convergente a quella dei cacciatorpediniere, che si erano intanto distanziati
verso nord, alcune salve di medio calibro, provenienti da nord, caddero sulla
sinistra del Bande Nere. Dalle navi
italiane si vedevano le vampe dei cannoni ma non si riusciva a vedere quali
fossero le navi da cui proveniva quel tiro, essendo nascoste da un banco di
densa foschia: era il Sydney, che
aveva avvistato gli incrociatori italiani alle 7.26 (già alle 7.20 ne aveva
visto il fumo) verso sud (a 21.000 metri per 188°, cioè a 20° al traverso a
dritta) ed aveva aperto il fuoco tre minuti più tardi, da 18.000 metri di
distanza, oltre a rompere il silenzio radio per inviare un segnale di scoperta
a Nicolson ed al suo superiore, ammiraglio Cunningham.
Il suo tiro fu da
subito ben centrato sulle due unità di Casardi; da parte loro, queste risposero
al fuoco alle 7.31 con tutti i cannoni ma senza poter telemetrare, ed un minuto
più tardi accostarono a un tempo di 90° a dritta (verso sudest, su rotta
parallela al Sydney) per evitare di
ridurre velocemente le distanze, trovandosi però così a poter impiegare solo le
torri poppiere, sparando verso dritta.
Mentre da parte
italiana non si riusciva ancora a vedere le unità avversarie, il Sydney vedeva bene gli incrociatori di
Casardi, contro i quali sparava continuamente salve di sei-otto colpi da 152 mm. Il primo ad essere
colpito fu il Bande Nere, raggiunto
da un proiettile che causò danni non gravi ma uccise quattro uomini. Nel
frattempo le salve italiane dirette sul Sydney,
dapprima corte, divennero lunghe, ed una salva “anomala” inquadrò anche l’incrociatore
australiano. Il tiro italiano divenne tale da essere considerato piuttosto accurato
da Collins, ma ad un ritmo di tiro troppo lento, mentre il Sydney sparava con cadenza di tiro molto superiore (si pensi che
l’incrociatore australiano sparò da solo 956 colpi da 152 mm, ed in tutto più di
1300 proiettili di tutti i calibri, in due ore di azione, mentre Bande Nere e Colleoni spararono tra tutt’e due soltanto 500 colpi in tre ore,
includendo anche la fase precedente all’arrivo del Sydney). Alle 7.38 la flottiglia cacciatorpediniere di Nicolson (dopo
aver essere passato da rotta 020° a 240° e poi 260°) invertì la rotta di 180°,
portandosi su rotta sudovest (cioè 170°), e manovrò per tentare un attacco
silurante, aprendo al contempo il fuoco coi cannoni alla massima distanza (ma
cessando il tiro dopo cinque minuti, essendo questo troppo corto). Solo a
questo punto i cacciatorpediniere furono avvistati dal Sydney, che distaccò poi l’Havock
per unirsi a loro ed alle 7.41 ordinò a Nicolson di avvicinarsi ed attaccare con
i siluri.
Per cercare di
migliorare la propria situazione, o piuttosto peggiorare quella del nemico,
l’ammiraglio Casardi ordinò di emettere per quattro minuti una cortina
nebbiogena: il provvedimento si rivelò efficace, e la precisione del tiro del Sydney andò rapidamente calando. Smesso
di far nebbia, il Bande Nere compì
una decisa accostata di 90° a dritta (verso sudovest) ed alle 7.40 il Colleoni gli si accodò. Questa virata
vanificò l’intento di Nicolson di compiere un attacco silurante, per il momento;
il comandante britannico portò allora le sue navi su rotta 215° e poi 350°,
proseguendo l’inseguimento alla massima velocità, 32 nodi. La manovra del Sydney (alle 7.45 accostò anch’esso per
215°), per continuare a seguire le navi italiane, lo portò a trovarsi in una
sorta di “linea di fronte” con i suoi cacciatorpediniere.
Alle 7.46 la
formazione italiana accostò di nuovo, per 215°, e le navi nemiche – distanti 19.000 metri –
risultarono infine visibili tra la foschia: fu però commesso un notevole errore
di riconoscimento, dato che l’una venne correttamente riconosciuta quale
incrociatore “classe Sydney”, ma
l’altra – l’Havock, un
cacciatorpediniere – venne scambiata per un ben più grande incrociatore leggero
“classe Gloucester”. Allo stesso tempo, dato che il Bande Nere risultava troppo nascosto dal fumo, il Sydney – che contemporaneamente aveva
correttamente identificato gli incrociatori come “classe Colleoni” – spostò il
tiro sul Colleoni, che impegnò con le
torri prodiere da 17.000
metri; anche i cacciatorpediniere si aggiunsero con il
loro tiro, ma soltanto per un paio di minuti.
L’ammiraglio Casardi
sapeva che il principale vantaggio delle sue navi era rappresentato dalla loro
velocità, e, non ritenendo di poter manovrare liberamente nel tratto di mare in
cui si trovava (e temendo che le unità avversarie potessero sfruttare la loro
superiorità numerica, e le caratteristiche del bacino in cui si svolgeva lo
scontro – così intrappolando le sue navi tra sé stesse e la costa cretese –,
per impedirgli la ritirata qualora le cose si fossero messe al peggio), manovrò
per attirare la formazione britannica in acque libere. A questo scopo alle
7.46, invece che dirigere su Lero, Casardi ordinò un’altra netta accostata di
50° a dritta (dirigendo verso sud), con schieramento approssimativamente
parallelo a quello britannico, in modo da rilevarlo nei settori di massima
offesa e da trovarsi in posizione avanzata, idonea anche all’eventuale impiego
dei siluri.
Alle 7.50 Casardi
ordinò di accostare a sinistra per ridurre l’efficacia del tiro avversario, e
per lo stesso motivo ordinò invece un’accostata a dritta alle 7.53.
Alle 7.53 la II
Divisione accostò per dirigere su Capo Spada (Creta), e poi accostò ancora per
doppiare tale Capo, assumendo rotta 230°. Queste manovre furono coperte con
cortine fumogene. Il Sydney, però,
virò a sua volta, dapprima verso sudest e poi verso sud-sudovest, assumendo
rotta parallela alla loro.
Solo alle 8.01
risultò possibile telemetrare adeguatamente le unità avversarie, così che Colleoni e Bande Nere poterono nuovamente aprire il fuoco con tutte le torri.
(Fino ad allora, mentre ambedue le formazioni effettuavano ripetute accostate
per variare le distanze o portare almeno momentaneamente in campo tutte le
artiglierie, le navi di Casardi avevano sparato solo ad intermittenza, mentre
il Sydney aveva eseguito un tiro
continuo, prendendo di mira ora il Colleoni,
ora il Bande Nere). In quello stesso
momento il Sydney tornò a sparare
contro il Bande Nere, poi, dalle 8.08
(dato che il Bande Nere era
nuovamente occultato dal fumo), diresse il tiro (delle sole torri prodiere) nuovamente
contro il Colleoni, distante ora non
più di 17.000 metri
su rilevamento 210°.
Nel frattempo, però,
i quattro cacciatorpediniere della 2nd Flotilla (disposti in linea
di rilevamento) avevano accostato verso ovest per riunirsi al Sydney, rispetto al quale erano più
arretrati, ed alle 8.10 (7.49 per altra fonte) aprirono il fuoco a loro volta,
sparando in tre riprese, ogni volta della durata di alcuni minuti; poco dopo si
unì a loro anche l’Havock, che aveva
lasciato il Sydney. La II Divisione,
che disponeva di 16 pezzi da 152
mm, si veniva così a trovare sotto il tiro di un totale
di 8 pezzi da 152 e 20 pezzi da 120: come accennato sopra, anche questi ultimi,
se portati entro sufficiente distanza di tiro, erano in grado di danneggiare
navi così poco corazzate come i “Da Barbiano”. Il Colleoni, la nave più vicina a quelle avversarie, era il bersaglio
principale sia del Sydney che dei
cacciatorpediniere, anche perché il Bande
Nere era spesso oscurato da cortine fumogene. Comunque, il tiro dei
cacciatorpediniere risultò ancora una volta corto.
Alle 8.15 il Sydney accostò di 35° a dritta, in modo
da mettere in punteria tutte e quattro le torri; cinque minuti dopo le vedette
italiane avvistarono l’isoletta di Agria Gramvousa davanti a loro: ciò
significava che avevano superato Capo Spada, ma erano troppo a sud per poter
doppiare Capo Busa (estremità nordoccidentale di Creta) e dovevano quindi
virare un altro po’ più verso dritta per portarsi in acque aperte. La manovra,
intanto, aveva fatto scendere le distanze tra gli incrociatori italiani e
quello australiano a 16.000
metri.
Il mare vivo da
maestrale faceva rollare tutte le navi, ostacolando la punteria da ambo le
parti, ma il tiro sia italiano che britannico rimaneva intenso e serrato. Le
unità della II Divisione, sparando con tutte le torri ed eseguendo ripetute
accostate per disturbare il tiro avversario, giunsero quasi al traverso di Capo
Kimaros, cinque miglia oltre Capo Spada. Essendo le distanze in calo, il tiro
italiano divenne via via più preciso; alle 8.21 il tiro delle navi della II
Divisione ottenne l’unico centro
italiano (contro cinque da parte del Sydney,
due sul Bande Nere e tre sul Colleoni) di tutto lo scontro: un
proiettile da 152 mm
passò da parte a parte il fumaiolo prodiero del Sydney, aprendo uno squarcio quadrangolare di circa 90 cm di lato, danneggiando
lievemente tre imbarcazioni ed alcune attrezzature e ferendo leggermente il
marinaio D. Thompson, ma senza comunque causare danni seri.
Il Colleoni colpito (sopra, visto dal Sydney): dalla caldaia danneggiata si leva una colonna di fumo nero
(Australian War Memorial)
Il breve dramma del Colleoni ebbe inizio alle 8.23: il tiro
del Sydney divenne sempre più
preciso, e a quell’ora l’incrociatore del comandante Novaro venne raggiunto da
un primo proiettile, che mise immediatamente fuori uso il timone. (Per altra
fonte, il proiettile colpì a prua senza causare danni di rilievo, ed il timone
si bloccò invece da solo, per avaria; subito dopo il Colleoni fu colpito da altri due proiettili in rapida successione).
Non fu più possibile governare, nemmeno dalla camera d’ordini; ma dato che il
timone si era bloccato al centro, l’incrociatore rimase sulla rotta che stava
seguendo. Subito dopo, però, altri due colpi del Sydney raggiunsero l’uno il torrione (colpendo la plancia, causando
parecchie vittime e feriti tra i quali, in modo grave, lo stesso comandante
Novaro) e l’altro – dopo aver perforato il ponte a centro nave, presso i tubi
lanciasiluri, per poi esplodere nel tunnel dell’asse dell’elica di dritta – i
locali caldaie 5 e 6 (quelli più poppieri), mettendo fuori uso tali caldaie e
distruggendo il collettore principale del vapore e parecchi altri tubi (che
collegavano tali caldaie alla sala macchine prodiera), dai quali si
sprigionarono nubi di vapore surriscaldato che uccisero tutti gli uomini
presenti nei locali colpiti ed in quelli comunicanti. Anche i montacarichi che
rifornivano le torri di munizioni da 152 mm dai depositi furono danneggiati; dato
che tali montacarichi, ed anche quelli che rifornivano gli impianti secondari
da 100 mm,
erano alimentati elettricamente, la contemporanea messa fuori uso dell’impianto
elettrico rese impossibile rifornire sia le torri del calibro principale che
gli impianti di quello secondario. L’esplosione di questi colpi uccise o ferì
anche gran parte del personale addetto alle armi contraeree ed ai tubi
lanciasiluri.
La distruzione del
collettore del vapore lasciò tutte le caldaie, anche quelle indenni,
senz’acqua: il Colleoni iniziò a
perdere improvvisamente velocità, e già alle 8.24 si ritrovò immobilizzato, a
cinque miglia per 250° da Capo Spada.
Fu segnalata avaria
di macchina al Bande Nere, che,
essendo rimasto solo contro sei unità avversarie, accostò pressoché subito
verso sud per tentare di disimpegnarsi.
Ora, oltre al Sydney, anche i cacciatorpediniere
presero a sparare sul Colleoni, al
quale erano finalmente riusciti ad avvicinarsi abbastanza perché il loro tiro
avesse efficacia. Lo sfortunato incrociatore fu colpito dappertutto, ma
soprattutto a centro nave e nel torrione, falcidiando l’equipaggio e scatenando
principi d’incendio. Durante la battaglia, solo tre centri pieni sul Colleoni furono dovuti al tiro dei pezzi
da 152 mm
del Sydney: e tanto bastò a
condannarlo, a riprova dell’insufficiente corazzatura degli “incrociatori di
carta” delle prime due classi della serie Condottieri. Il resto dei danni fu
fatto dai pezzi da 120 dei cacciatorpediniere.
In breve il Colleoni venne circondato dalle colonne
d’acqua sollevate dalle salve che cadevano tutt’intorno, tirate da navi sempre
più vicine; inizialmente il tiro delle torri principali continuò
incessantemente e con regolarità, ma, dopo che tutta la nave fu rimasta senza
energia elettrica, soltanto gli impianti secondari da 100 mm, che potevano essere
puntati manualmente, risultarono utilizzabili.
Mentre il Sydney, insieme ad Hasty ed Hero, cessò il
fuoco contro il Colleoni alle 8.38
(quando la distanza si era ridotta a 6860 metri) per continuare ad inseguire e
cannoneggiare il Bande Nere (questi
fu colpito di nuovo alle 8.50, mentre verso le 9.30 l’incrociatore australiano
accostò e rinunciò a proseguire nell’inseguimento perché aveva pressoché
esaurito le munizioni), che alla fine sarebbe riuscito a disimpegnarsi e
raggiungere Bengasi, Hyperion ed Ilex accostarono per 240° e si
concentrarono sul Colleoni ormai
fermo ed appruato, distante 13.260 metri, avvicinandoglisi sempre più. Alle
8.30 la distanza tra l’incrociatore immobilizzato ed i cacciatorpediniere era
scesa a 4570 metri,
e tre minuti dopo Collins ordinò a Nicolson, con una sola parola («Torpedo»),
di finire la nave italiana coi siluri.
Una sequenza di immagini,
scattate dall’Hyperion, che mostrano
il Colleoni immobilizzato e
bersagliato dai cannoni britannici (Australian War Memorial e Imperial War
Museum)
Non appena le unità
britanniche giunsero a distanza di tiro, i pezzi da 100 mm del Colleoni aprirono il fuoco contro di
essi, diretti manualmente – dopo che la trasmissione era stata interrotta dai
danni ricevuti – dal direttore del tiro, sottotenente di vascello Massimo
Adrower, coadiuvato dal sottocapo cannoniere Adelbardo Baldin (che rimase
ucciso). All’interno della nave, cessata l’erogazione di energia elettrica, era
rimasto in funzione l’impianto d’illuminazione d’emergenza, ma gli ulteriori
danni subiti posero fuori uso anche tale impianto, lasciando l’interno
dell’incrociatore completamente al buio. Per riuscire ad uscire dai
compartimenti precipitati nell’oscurità, i marinai dovettero farsi luce con
fiammiferi e accendini.
Ormai Hyperion ed Ilex erano vicinissimi, e crivellavano di colpi il bersaglio
immobile; plancia e torrione furono devastati da un diluvio di proiettili che
uccise o ferì tutti gli uomini che si trovavano in quell’area, e scatenò un
incendio, alla base del torrione, che presto si estese alle munizioni delle
armi contraeree e trasformò l’intero torrione in un unico rogo.
Gli impianti da 100 mm di centro nave continuarono
a sparare sino all’esaurimento delle riservette; poi non fu più possibile
rifornirli di munizioni dal deposito centrale, anch’esso colpito e reso
inutilizzabile, così dovettero cessare il fuoco.
Ormai il Colleoni era un relitto in fiamme, in
lento ed inesorabile affondamento. L’equipaggio si prodigò fino alla fine: nei
locali caldaia di prua il personale di macchina, nonostante la nave venisse
continuamente colpita, continuò a tentare di rimettere in pressione le caldaie,
sotto la direzione del tenente del Genio Navale Fernando Voltolini (che
perseverò nei suoi sforzi fin quando non ricevette l’ordine di abbandonare la
nave); nel deposito munizioni di prua gli addetti rimasero ai loro posti, per
rifornire le torri, finché non si trovarono con l’acqua alla cintola. Il
capitano del Genio Navale Alberto Cristofanetti, capo reparto macchine, si
profuse di sforzi per tentare di rimettere in funzione la parte non danneggiata
dell’apparato motore.
Alle 8.30 il
comandante Novaro diede l’ordine di allagare i depositi munizioni, per
l’autoaffondamento, ed abbandonare la nave.
Il capo telemetrista
di prima classe Giovanni Agnes, nonostante l’ordine di abbandonare la nave,
rimase a bordo e soccorse tra mille difficoltà un ufficiale gravemente ferito,
a costo di restare ustionato, poi raggiunse la plancia invasa dalle fiamme e
ancora bersagliata dalle cannonate, insieme al tenente di vascello Francesco
Lapanse, per provvedere alla distruzione dei documenti segreti, abbandonati da
chi, addetto alla loro distruzione, era già stato colpito a morte.
Il tenente di
vascello Eugenio Bellini, nonostante fosse ferito gravemente ad un braccio,
abbandonò la nave solo dopo aver messo in salvo i suoi uomini. Rimase al suo
posto fino alla fine anche il capo radiotelegrafista di prima classe Giovanni
Snichelotto; sarebbe successivamente morto per le ferite riportate a bordo
della nave ospedale Maine, sulla quale era stato costretto ad imbarcarsi. Il
secondo capo cannoniere Pietro Zaccaria, uno degli artiglieri delle torri
principali da 152, si rifiutò di abbandonare la nave e dovette essere calato
dai compagni su un’imbarcazione di salvataggio; un colpo di mare, però, lo fece
finire in acqua, dove scomparve trascinato a fondo dal risucchio della nave in
affondamento.
Filiberto Salvi, capo
meccanico di terza classe, lasciò il suo locale caldaie solo dopo che tutti i
suoi fuochisti si erano già messi in salvo. Il meccanico Carmelo Pellegritto,
ferito, si dedicò ad aiutare i propri commilitoni, rifiutando l’aiuto per sé.
Il tenente del Genio
Navale Gino Galuppini, salito dalla sala macchine, notò in coperta che a
poppavia del fumaiolo poppiero non c’erano danni visibili, ma la zona prodiera
era pesantemente danneggiata, e qua e là si vedevano numerose vittime. Poco più
tardi un colpo che andò a segno tra i due fumaioli scatenò un altro incendio.
Il marinaio Venirio Neri,
in servizio in camera d’ordini, ricordò le urla dei compagni (uno invocò la
madre) quando la nave fu colpita e immobilizzata, poi il valore surriscaldato
che ustionò gli uomini più vicini alle tubature colpite, il caos. Arrivò un
ufficiale del Genio Navale che tentò di mettere in funzione le valvole del
timone, per governare dalla camera d’ordini (non essendo più possibile farlo
dalla plancia), ma anche questo tentativo fallì; fu dato l’ordine di fare fumo
per coprire la ritirata del Bande Nere.
Ricevuto l’ordine di abbandonare la nave, Neri, anziché lasciare la camera
d’ordini passando da dove era entrato, si recò sottocastello a prua, dove,
giunto sul ponte di batteria, vide ovunque i bossoli sparati sparpagliati sul
ponte. C’erano degli altri marinai, paralizzati dal panico, che si guardavano
senza fare niente; fu Neri a riuscire ad aprire il boccaporto che conduceva in
coperta a prua, svitandone le viti.
Alle 8.38
l’incrociatore fu scosso da una violenta esplosione a prua. La maggior parte
dell’equipaggio, gettatosi in mare, galleggiava vicino alla poppa della nave;
le torri da 152, intatte ma inutilizzabili per l’impossibilità di rifornirle di
munizioni, erano rimaste puntate verso dritta, e attraverso i fori aperti dai
proiettili nel suo scafo si vedevano i bagliori degli incendi che ardevano al
suo interno. La bandiera italiana sventolava ancora sull’albero principale, ma
fu a quel punto spazzata via da un’altra cannonata.
Vedendo
l’incrociatore italiano in fiamme a centro nave ed agonizzante, Hyperion ed Ilex decisero ch’era giunto il momento di farla finita, e
lanciarono dei siluri contro il Colleoni
per dargli il colpo di grazia.
Il relitto in fiamme del Colleoni, fotografato dall’Hyperion (Australian War Memorial e
Imperial War Museum)
Per primo, alle 8.35
(o 8.40), lanciò l’Hyperion: i tre (o
quattro) siluri da esso lanciati, da 1280 metri di distanza, mancarono però tutti il
bersaglio perché lanciati in salva troppo ampia (due passarono a prua del Colleoni e due a poppa, e tutti
esplosero contro la costa di Agria Gramvousa). Subito dopo fu l’Ilex a lanciare un’altra salva, di due
siluri, dalla medesima distanza: stavolta una delle armi uno andò a segno,
colpendo l’incrociatore tra la prua estrema e la prima torre da 152: i primi
trenta metri prodieri del Colleoni,
compreso il suo idrovolante da ricognizione, esplosero ed affondarono subito
(secondo una versione, in precedenza i primissimi metri della prua
dell’incrociatore erano già collassati a seguito di un altro siluro a segno, ma
nessun cacciatorpediniere britannico riferì di aver lanciato prima).
Un marinaio raccontò
in seguito che, attraversando vari compartimenti, incontrò alcuni uomini che
uscivano dalla sala macchine, terribilmente ustionati dal vapore. Proseguì,
aprì un altro portello e si accorse che non portava in un altro compartimento:
fuori c’era il mare. La prua non c’era più. Tra sé e sé, si disse che ormai la
nave era perduta.
Anche Venirio Neri,
quando uscì in coperta a prua, rimase di sasso nel vedere che la prua era
scomparsa. Vicino al bordo c’erano alcuni cadaveri. Neri scese una scaletta e
si diresse a poppa, dove si tolse rapidamente camicia e pantaloni e, con
singolare comportamento riferito anche da altri superstiti in altre occasioni,
si prese il tempo di riporre i sandali da parte con cura. Poi, mentre ancora
cadevano a bordo le cannonate dei cacciatorpediniere, si gettò in mare e prese
a nuotare per allontanarsi, temendo il risucchio che avrebbe generato la nave
in affondamento.
L’Hyperion si avvicinò a poche centinaia
di metri dal relitto del Colleoni:
benché priva della prua, la nave era ancora in assetto e non sembrava in
immediato pericolo di affondamento, tanto da indurre il comandante britannico a
pensare brevemente all’opportunità di abbordarla per vedere se fosse possibile
recuperare qualcosa; alle 8.54, però, quest’ingannevole impressione fu smentita
quando il torrione venne avvolto da un vasto incendio, a seguito del quale la
plancia fu distrutta da una forte esplosione, e Nicolson decise di finire la
nave italiana lanciando l’ultimo siluro che gli era rimasto. L’arma colpì l’incrociatore
a centro nave (alle 8.52 per una fonte, ma ciò contrasta con il precedente
orario delle 8.54), sollevando una grande nube di fumo nero-biancastro, dopo di
che il Colleoni, già sommerso fin
quasi all’altezza della coperta, sbandò a dritta (a Casardi, sul Bande Nere, sembrò a sinistra), si
capovolse ed affondò rapidamente, sollevando leggermente la poppa, a 6,4 miglia da Capo Spada
e 4,6 miglia
per 029° dal faro di Agria Gramvousa (una fonte australiana indica le coordinate 35°41'34" N e 23°43'14" E). Erano le 8.59.
Il comandante Novaro,
mortalmente ferito ed intenzionato ad affondare con la sua nave, dovette essere
trascinato in salvo a viva forza da alcuni suoi ufficiali, tra cui il capitano
del Genio Navale Cristofanetti, anch’egli ferito (aveva un’ampia ferita in una
gamba). Il capitano Cristofanetti, che aveva già provveduto a mettere in salvo
i suoi uomini, avrebbe poi ricevuto la Medaglia d’Argento al Valor Militare.
Il Colleoni fu il primo incrociatore della
Regia Marina ad andare perduto nel secondo confitto mondiale. Altri quindici ne
avrebbero seguito la sorte negli anni a venire.
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Il siluro (la scia appare
visibile) corre verso il Colleoni
immobilizzato (Australian War Memorial)
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L’esplosione del siluro
(Australian War Memorial)
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L’esplosione vista da bordo
dell’Hyperion (Australian War
Memorial)
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Il Colleoni sbanda fortemente.
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Si abbatte sul fianco. |
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La fine.
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La battaglia era
finita; là dove era stato il Colleoni
galleggiavano rottami, chiazze di nafta e centinaia di uomini con indosso
giubbotti salvagente, tra cui parecchi feriti; nessuna lancia e pochissime
zattere. Subito l’Hyperion e l’Ilex si avvicinarono ai naufraghi e
calarono fuori bordo delle reti a maglie larghe, per agevolare il salvataggio. Più
tardi si unì a loro anche l’Havock,
che sarebbe dovuto proseguire nell’inseguimento insieme a Sydney, Hasty ed Hero, ma non aveva ricevuto il segnale
che glielo ordinava perché troppo distante. Durante il salvataggio i
cacciatorpediniere ricevettero più volte segnali da Collins che li sollecitava
a riunirsi a lui prima possibile, ma proseguirono nell’opera di soccorso fino
alle 9.24.
L’Ilex raccolse 230 naufraghi, in maggioranza
seminudi (58 di essi erano feriti, 25 in modo grave, e tre morirono durante la
notte successiva), l’Hyperion solo
35; tra gli uomini raccolti dall’Ilex
era anche il comandante Novaro, che, ferito gravemente e con indosso un
salvagente che gli era stato infilato addosso dai suoi ufficiali, che lo
avevano costretto a mettersi in salvo, fu sostenuto da un ufficiale fin
sottobordo all’Ilex.
Sulle unità
soccorritrici, i medici britannici dei cacciatorpediniere e quelli italiani
superstiti del Colleoni lavorarono
insieme per medicare i moltissimi feriti. Il tenente medico Adolfo Piccinno,
recuperato dopo parecchio tempo trascorso in mare, si rifiutò di ricevere per
primo le cure, e si mise invece all’opera per medicare gli altri feriti; anche
il capo cannoniere di seconda classe Michele Liuzzi ed il secondo capo
cannoniere Ferdinando Natrella, sebbene feriti in più parti del corpo,
pretesero che fossero prima i loro compagni ad essere curati.
Il cappellano del Colleoni, tenente cappellano don Augusto
Bianco, sostenuto dal marinaio Ardito Bonanni in quanto ferito a un braccio, tenne
alto il morale dei naufraghi sinché non furono salvati.
Venirio Neri, non
appena riemerse dopo essersi gettato in mare, sentì centinaia di voci gridare
“Alla costa, alla costa!”. Quando il Colleoni
venne silurato, anche Neri fu investito dalla concussione generata dallo
scoppio del siluro; si voltò a guardare e vide la sua nave capovolgersi ed
affondare, e notò anche che c’erano degli uomini aggrappati alla chiglia mentre
la nave si capovolgeva. Iniziò a nuotare, finché si parò davanti a lui ed ai
suoi compagni un cacciatorpediniere britannico, che fermò le macchine ed iniziò
a recuperare i naufraghi. Neri decise prudenzialmente di aspettare e vedere
quale trattamento fosse riservato agli uomini recuperati dal mare; constatato
che non c’era pericolo, si avvicinò e, dopo che un marinaio britannico gli ebbe
lanciato una corda, si arrampicò a bordo su una rete. “Giommi”, un marinaio
livornese già tratto in salvo prima di lui, gridò che c’era in mare un ferito,
ed un marinaio del cacciatorpediniere si tolse il camisaccio, prese una corda,
si gettò in mare e raggiunse il ferito per porgergliela ed aiutarlo a salire.
Una sentinella armata di fucile chiese a Neri, a gesti, se fumasse; ottenuta
risposta negativa, gli preparò comunque una sigaretta, l’accese e gliela diede,
al che Neri si mise a fumare. Più tardi portarono anche tè e gallette, ma Neri
non volle mangiare.
Tra i naufraghi
salvati dall’Ilex era anche il
capitano del Genio Navale Cristofanetti. Sua moglie, Maria Giuditta
Cristofanetti Boldrini, avrebbe pubblicato nel 1990 un libro dal titolo
"Gli eroi vinti", nel quale si affermava tra l’altro che il capitano
Cristofanetti, a bordo dell’Ilex,
avesse visto, «appeso a una parete e bene
in vista, un foglio. Lo legge: è l'ordine di operazione della nave inglese e
c'è scritto che in quel giorno 19 luglio 1940 si dovrà partire alle cinque
della mattina, dalla baia di Suda, per andare contro due incrociatori italiani
diretti a Lero». Questa testimonianza (che comunque risulta indiretta e
postuma, dal momento che il libro non fu scritto personalmente dal capitano Cristofanetti,
il quale era deceduto dodici anni prima) ha dato ad alcuni modo di ravvivare la
teoria, di matrice trizziniana, che vedeva nel "tradimento" di
elementi della Marina la causa di tante sconfitte. Teoria rafforzata, a detta
dei suoi sostenitori, dal fatto che a comandare il Bande Nere, nello scontro di Capo Spada, fosse il capitano di
vascello Francesco Maugeri, additato nel dopoguerra proprio come uno dei
presunti "traditori" per via di quanto scritto nel suo libro di
memorie "From the ashes of disgrace" (nel quale sosteneva, forse più
che altro per opportunismo politico nel nuovo clima postbellico – il libro,
peraltro, era destinato al pubblico anglosassone –, di essere giunto nel
1942-1943 a ritenere che la sconfitta militare sarebbe stata necessaria, ed
anche auspicabile, per la liberazione dell’Italia) e per una decorazione
conferitagli nel 1948 dagli Stati Uniti "Per la condotta eccezionalmente
meritoria nell'esecuzione di altissimi servizi resi al governo degli Stati
Uniti come capo dello spionaggio navale italiano" (tale motivazione si
riferiva, con ogni probabilità, all’attività svolta da Maugeri dopo
l’armistizio, quando aveva costituito nella Roma occupata dai tedeschi un
"Servizio Informazioni Clandestino" che, operando con grande rischio,
raccoglieva informazioni poi trasmesse agli Alleati con radio clandestine: ma
naturalmente i sostenitori della tesi del "tradimento" colsero
l’occasione per sostenere che invece i "servizi" in questione si
riferissero ad una intelligenza pre-armistiziale con gli Alleati, mai
dimostrata). In realtà, la presenza di Maugeri sul Bande Nere sembra piuttosto una conferma che tradimento non ci fu,
per lo meno non da parte sua: difficile credere che sarebbe stato così stupido
da agevolare l'intercettazione, da parte nemica, della propria nave, scatenando
un combattimento nel quale era possibilissimo restare ucciso. Durante la
battaglia il Bande Nere venne colpito
anch'esso, con vittime tra l'equipaggio, e nulla avrebbe impedito ad uno dei
colpi nemici di centrare la plancia invece di altre parti della nave (il che fu
dovuto più che altro a casualità) uccidendo lo stesso Maugeri.
Anche la possibilità di un’intercettazione di comunicazioni italiane (che di per sé sarebbe stata possibile, e persino agevolata, ad esempio, dalla dissennata condotta di De Vecchi, citata più sopra) da parte britannica risulta poco probabile, per il semplice motivo, in primo luogo, che da parte britannica non risulta che questo sia avvenuto. Di certo i britannici non avrebbero motivo di nascondere ancor oggi il fatto di aver intercettato comunicazioni italiane e di aver predisposto un'imboscata sulla base di queste – il ruolo delle intercettazioni britanniche in battaglie come quelle di Capo Matapan, Capo Bon, Banco Skerki (convoglio "H") ed altre è stato da tempo rivelato, e non vi sarebbe motivo per cui analoghe circostanze nella battaglia di Capo Spada dovessero essere coperte da maggiore segretezza. È poi opportuno rilevare alcuni particolari importanti in quanto scritto in "Gli eroi vinti" circa tale presunto ordine di operazione: e cioè che le navi britanniche sarebbero dovute partire "…alle cinque della mattina, dalla baia di Suda, per andare contro due incrociatori italiani diretti a Lero". Ciò risulta pressoché impossibile per almeno due motivi: in primo luogo, dalle fonti britanniche risulta che Sydney, Ilex e gli altri cacciatorpediniere partirono da Alessandria d'Egitto il 18 luglio, non da Suda il 19. Se poi si volesse supporre che dette fonti britanniche stessero mentendo per coprire (ma perché mai?) quella che in realtà era una trappola preparata, vi è un altro punto fondamentale: nel luglio 1940, e fino al 28 ottobre di quell'anno, la Grecia era neutrale; Suda non era e non poteva essere in alcun modo una base della Royal Navy in quel periodo (lo divenne invece dopo l’invasione della Grecia: celebre l’attacco della X Flottiglia MAS che nel marzo 1941 vi affondò l’incrociatore pesante York), e nessun soldato britannico mise piede a Creta prima dell'ottobre 1940. Dunque le navi britanniche non potevano essere partite da Suda, il che pone seriamente in dubbio la fondatezza di quanto scritto dalla vedova Cristofanetti. Si può poi aggiungere che tutto lo svolgimento dell'azione di Capo Spada è assai poco compatibile con un'intercettazione pre-organizzata dai britannici – in generale, quando la Royal Navy intercettò formazioni navali italiane perché disponeva informazioni su di esse, lo fece nottetempo e a colpo sicuro, con un'unica formazione che attaccò a sorpresa e nel luogo e momento più favorevole ai britannici. Invece i cacciatorpediniere britannici al largo di Creta furono sorpresi dall'arrivo degli incrociatori italiani, e corsero un grosso rischio: sarebbe stato tutt'altro che impossibile che qualcuno di essi venisse colpito dal tiro italiano prima dell'arrivo del Sydney. Ed a proposito di quest’ultimo, sarebbe stato sommamente imprudente, se si fossero voluti intercettare due incrociatori italiani, inviare contro di essi una forza navale che comprendeva un solo incrociatore. La dinamica della battaglia, insomma, non sembra proprio quella di un'imboscata preparata in precedenza.
I naufraghi in mare ed i
soccorsi (Australian War Memorial ed Imperial War Museum)
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Il ponte dell’Ilex ingombro di naufraghi, visto dall’Hyperion (Australian War Memorial)
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Naufraghi del Colleoni a bordo delle unità britanniche
(Australian War Memorial e Imperial War Museum). La foto sotto è però presentata altrove anche come ritraente naufraghi del cacciatorpediniere Espero, affondato dal Sydney il 28 giugno 1940.
Alle 9.24 Hyperion ed Ilex ricevettero l’ordine di riunirsi al Sydney, allontanandosi quindi a tutta forza e lasciando sul posto
il solo Havock a completare il
recupero degli ultimi naufraghi (questa nave trasse in salvo in tutto 260
uomini). Alle 10.38 quest’ultimo comunicò a Collins che, secondo alcuni
naufraghi italiani, la II Divisione avrebbe dovuto essere raggiunta da forze
navali maggiori in mattinata (non era vero).
In tutto, i tre
cacciatorpediniere britannici recuperarono dal mare 525 superstiti, tra cui 93
feriti (altre fonti parlano di 545 naufraghi recuperati di cui 51 gravemente
feriti, compresi quelli deceduti successivamente, ma tale dato non combacia con
quelli sui numeri totali degli imbarcati e deceduti), ma durante tale opera di
soccorso vennero attaccati da bombardieri italiani, solo allora giunti,
tardivamente, sul posto.
I ricognitori partiti
da Lero alle 6.20 ed alle 6.50 erano arrivati sulla zona dello scontro alle
8.30; il primo (quello della 147a Squadriglia) vi era anzi giunto
già alle 8.20, avvistando “fuoco di battaglia navale”, ma era stato respinto per
due volte dal tiro contraereo britannico, e solo più tardi poté tornare sul
posto e segnalare la presenza del Colleoni
in affondamento e dei tre cacciatorpediniere. I primi bombardieri (sei Savoia
Marchetti SM. 79 del 34° Gruppo della Regia Aeronautica), sulla base delle
informazioni ricevute dai ricognitori, erano decollati per ordine del Comando
Aviazione dell’Egeo solo alle 9.40, quando il Colleoni era già affondato da più di un’ora ed anche il Sydney aveva rinunciato ad inseguire il Bande Nere. I sei “Sparviero” giunsero
al largo di Capo Spada alle 11.30, sorprendendo l’Havock intento al recupero dei naufraghi, il quale aprì subito il
fuoco contro i bombardieri: le bombe lo inquadrarono e caddero in mare
tutt’intorno, senza danneggiarlo (le colonne d’acqua sollevate dagli scoppi
ricaddero a bordo, travolgendo gli uomini in coperta) ma ottenendo l’unico
effetto di indurlo ad interrompere il salvataggio degli ultimi naufraghi del Colleoni, e dirigere verso sud.
Non bastava: alle
9.50 decollarono da Rodi anche sei bombardieri Savoia Marchetti SM. 81 del 39°
Stormo, che, non trovando più l’Havock
nella posizione indicata, lo cercarono a sud di Creta e lo trovarono alle
13.30, mentre rientrava ad Alessandria. Durante questo secondo attacco, una
bomba 110 kg,
caduta in mare vicinissima alla nave, ferì due marinai britannici e perforò il
locale caldaia numero 2, allagandolo e costringendo a disattivare tale caldaia,
restando temporaneamente immobilizzato. Dopo 55 minuti, comunque, il
cacciatorpediniere poté rimettere in moto e proseguire a 24 nodi verso
Alessandria, venendo raggiunto strada facendo dal Sydney e da altri due cacciatorpediniere (Hyperion ed Ilex) per
assistenza. Le quattro navi britanniche furono ancora attaccate dalle 17 alle
18.30 mentre rientravano ad Alessandria, per tre volte: dapprima da quattro SM.
79 del 12° Stormo dell’Egeo, poi da sei SM. 79 anch’essi del 12° Stormo ed
infine da sei aerei dello stesso tipo ma del 15° Stormo della Libia. Nessuna
nave fu colpita: una fortuna per i naufraghi italiani che erano a bordo.
Non avevano però
avuto la stessa fortuna un’altra cinquantina di naufraghi del Colleoni: quelli che l’Havock, dopo l’attacco degli aerei, era
stato costretto a lasciare in mare. Una parte di essi, per la verità, era
intenzionata fin da principio a non cadere in prigionia, dunque ad evitare il
salvataggio da parte dei cacciatorpediniere britannici e tentare invece di
raggiungere la costa cretese, che appariva visibile; il cannoniere Quarto
Vicari, già recuperato da un cacciatorpediniere, si gettò anzi in mare per
tentare di fuggire verso la costa. Ora l’intento di alcuni era diventato una
scelta obbligata per tutti. Purtroppo la distanza che superava quel pugno di
uomini in balia delle onde dalla salvezza era ben maggiore di quanto poteva
sembrare: dei cinquanta che erano, soltanto in sette sopravvissero (tra di essi
il sottocapo radiotelegrafista Augusto Belli, il marinaio Giuseppe Da Mele, il
sottocapo cannoniere Giuseppe Manni ed il nocchiere Antonio Paldulfo), venendo
soccorsi il 20 luglio da un peschereccio greco (tra di essi, chi era stato in
mare di meno vi era rimasto per 26 ore, e chi vi era rimasto più a lungo aveva
passato 42 ore in acqua). Gli altri quaranta e più furono inghiottiti dal mare;
tra di essi il cannoniere Ciro Avemaria ed i marinai Guglielmo Marek e Marcello
Varan, che annegarono tutti dopo aver nuotato per ventiquattr’ore, ed il
cannoniere Quarto Vicari.
Un’altra perniciosa
conseguenza degli inutili attacchi aerei a combattimento finito, contro le navi
impegnate nel salvataggio dei naufraghi, fu che da quel momento in poi le navi
britanniche furono molto più caute nel rischiare per soccorrere dei superstiti
di unità affondate, di giorno ed entro il raggio dell’aviazione nemica: il 22
luglio l’ammiraglio Andrew Browne Cunningham, comandante della Mediterranean
Fleet, diffuse un memorandum per i suoi comandanti, in particolare di
cacciatorpediniere, in cui spiegava che «Difficult and distasteful as it is to
leave survivors to their fate, Commanding Officers must be prepared to harden
their hearts, for, after all, the operations in hand and the security of their
ships and ships’ compagnie must take precedence in the war». Pochi mesi dopo,
proprio considerando la vicenda dell’Havock,
l’incrociatore pesante York avrebbe abbandonato in mare i superstiti del
cacciatorpediniere Artigliere da questi affondato (e le cui perdite superarono
il 50 % dell’equipaggio, contro il 18 % del Colleoni).
I sette uomini giunti
a Creta furono interrogati e poi internati sull’isola stessa dalle autorità
elleniche. Nel maggio 1941, con la presa di Creta, furono catturati da militari
tedeschi che li avevano scambiati per nemici; fu grazie all’intervento di un
ufficiale tedesco che viveva in Istria, Karli Böhm, che aveva riconosciuto uno
di essi – un lussignano – che conosceva, se l’equivoco fu chiarito e furono
liberati.
A bordo di uno dei
cacciatorpediniere britannici, il marinaio Salvatore Braccolino, recuperato
dopo aver a sua volta tratto in salvo il marinaio triestino Bruno Cordina, fu
incaricato, dato che conosceva l’inglese, di redigere la lista dei superstiti.
Così fece, ma dimenticò di includervi il proprio nome: ne risultò così che
venne ritenuto disperso. Si addormentò tenendo tra le mani quella di un altro
marinaio napoletano, ferito gravemente, e all’alba del giorno seguente, quando
si svegliò, si rese conto che il marinaio del quale ancora stringeva la mano
era morto.
Le navi britanniche
reduci dall’azione fecero il loro trionfale rientro ad Alessandria, dove al
loro arrivo – ore 11 del 20 luglio – furono accolte da acclamazioni protrattesi
per un quarto d’ora, da parte delle navi ormeggiate in porto. Analoghe
celebrazioni avrebbero atteso il Sydney
al suo rientro in Australia nel febbraio 1941; la nave e l’equipaggio, sceso a
terra a sfilare per le vie della città, avrebbero ricevuto rispettivamente una
targa commemorativa della battaglia e dei medaglioni commemorativi offerti dal
sindaco di Sydney a ciascun
ufficiale, sottufficiale e marinaio. La bandiera usata dalla nave durante il
combattimento venne conservata come un cimelio.
L’incrociatore
australiano doveva incontrare la sua tragica fine nel novembre 1941, affondato
con tutto l’equipaggio dalla nave corsara tedesca Kormoran.
Così il bollettino di
guerra numero 41 del Comando Supremo delle forze armate italiane, datato 20
luglio 1940, diede notizia della battaglia di Capo Spada: «Presso l'isola di
Candia si è svolto ieri all'alba un combattimento di tre ore tra i nostri
incrociatori leggeri Giovanni dalle Bande
Nere e Bartolomeo Colleoni da
5.000 tonnellate e una forza inglese composta di due incrociatori protetti di
7000 tonnellate, del tipo Sidney, e quattro cacciatorpediniere. Nonostante
la netta superiorità delle forze avversarie i nostri incrociatori hanno
impegnato il combattimento infliggendo gravi danni al nemico.
L'incrociatore Bartolomeo Colleoni,
colpito in un organo vitale e immobilizzato, è affondato combattendo
strenuamente. Una buona parte dell'equipaggio si ritiene che sia salva. Nostre
formazioni da bombardamento hanno raggiunto le forze navali nemiche e le hanno
ripetutamente bombardate colpendo più volte gli incrociatori. Una nave nemica
in fiamme è affondata. I nostri velivoli sono rientrati tutti alle loro basi».
La II Divisione
Navale, ridotta ad una sola unità, fu sciolta; il Bande Nere venne assegnato alla IV Divisione, che comprendeva le
altre unità gemelle.
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I cannoni del Sydney, con la vernice scrostata per il
calore sviluppato a causa dell’intenso ritmo di tiro sostenuto (Australian War
Memorial)
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Il fumaiolo del Sydney perforato dal colpo italiano
andato a segno (Australian War Memorial)
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L’unico ferito del Sydney, il marinaio D. Thompson
(Australian War Memorial)
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Dei 643 uomini che
componevano l’equipaggio del Colleoni,
109 affondarono con la nave o morirono in mare, e 525 furono recuperati dai
cacciatorpediniere britannici, ma otto di questi ultimi morirono poco dopo il
salvataggio, ancora a bordo delle unità soccorritrici, e furono sepolti in mare
con gli onori militari; altri quattro spirarono poco dopo l’arrivo ad
Alessandria. Altri sette sopravvissuti, come detto, raggiunsero la riva o
furono recuperati da un peschereccio ellenico.
Morirono in tutto 4
ufficiali, 17 sottufficiali e 100 tra sottocapi e marinai. Altri ancora
sarebbero deceduti durante la lunga prigionia.
Il comandante Novaro
spirò a bordo della nave ospedale Maine, ormeggiata ad Alessandria, il 23
luglio, per la gravità delle ferite riportate. In riconoscimento del suo
valore, i britannici lo seppellirono solennemente con gli onori militari (che
furono tributati anche agli altri superstiti del Colleoni deceduti per le ferite riportate); fu sepolto ad
Alessandria ed al funerale parteciparono, col lutto al braccio, ufficiali e
marinai delle navi britanniche che avevano preso parte allo scontro, oltre ad
una rappresentanza dell’equipaggio dello stesso Colleoni. A reggere i cordini della bara furono i comandanti delle
sei navi britanniche, tra cui il comandante Collins del Sydney (che sarebbe poi stato decorato con l’Ordine del Bagno per
l’azione di Capo Spada) e Nicolson della 2nd Destroyer Flotila (che
avrebbe ricevuto un secondo Distinguished Service Order).
Alla memoria del
comandante Novaro fu decretata la Medaglia d’Oro al Valor Militare. La sua
salma è oggi tumulata nel Cimitero Militare di El Alamein.
Sopra, i funerali del
comandante Novaro (USMM); sotto, il picchetto del Sydney che vi presenziò (Australian War Memorial)
I superstiti del Colleoni sbarcarono ad Alessandria il 20
luglio. Parte di essi, secondo un giornale australiano, fece il saluto romano
all’atto dello sbarco; molti ringraziarono sommessamente per il soccorso, in un
approssimato inglese. I 513 prigionieri che sopravvissero alle loro ferite furono
inizialmente condotti in una caserma di Alessandria d’Egitto, che già
“ospitava” i pochi prigionieri italiani sino ad allora catturati in Egitto:
pochi fanti ed aviatori e cinque militari prelevati da una nave postale diretta
in Italia. L’arrivo di oltre cinquecento uomini scombussolò la situazione,
rendendo sovraffollata la caserma; pertanto le autorità britanniche
allestirono, nei pressi di Geneifa (nel deserto vicino ai Laghi Amari, non
lontano da Ismailia), un campo di prigionia, che fu poi denominato numero 306. Ospitava
anche i pochi superstiti di un’altra nave italiana affondata dal Sydney poche settimane prima: il
cacciatorpediniere Espero. Qui i prigionieri italiani, dopo le perquisizioni e
gli interrogatori, dovettero indossare un’uniforme provvisoria in tela kaki con
una grossa losanga blu sul fondo dei pantaloni. Il campo era poco più che un
accampamento di tende in mezzo al deserto, recintato con filo spinato; lo
comandavano ufficiali britannici e lo vigilavano soldati sikh, indiani.
Venirio Neri ricordò
che, all’arrivo ad Alessandria, i naufraghi furono condotti in un piazzale
vicino al porto e giunse una camionetta armata con una mitragliatrice; Neri
pensò che stessero per essere uccisi, ma furono invece fatti salire sui camion
che li portarono a Geneifa. Qui furono vestiti con camicia, pantaloni corti e
scarpe di gomma, suddivisi in quattro per tenda ed impiegati per pulire i
campi, togliendo sassi.
Da Geneifa tutti
sarebbero stati poi trasferiti, a metà dell’agosto 1940, nel campo di Ahmednagar,
in India, e da lì successivamente a Ramgarh e poi Yol (1941), situati nel
medesimo Paese; alcuni sarebbero stati trasferiti in Inghilterra, altri
sarebbero rimasti in India fino alla fine della guerra e oltre.
Qualcuno per sempre.
Il capo telemetrista Giovanni Agnes morì soffocato il 26 ottobre 1941, nel
campo di prigionia di Ramgarh (India), nel crollo di un cunicolo che aveva
scavato con altri per permettere a numerosi compagni di fuggire. Fu decorato
con la Medaglia d’Oro al Valor Militare, alla memoria.
I sopravvissuti del Colleoni prigionieri ad Alessandria nel
luglio del 1940 (Australian War Memorial ed Imperial War Museum)
Il tenente del Genio
Navale Galuppini ricordò che, durante la permanenza a Geneifa, una domenica
giunse al campo a celebrare la Messa un soldato britannico che si presentò come
“Roman Catholic Chaplain”, mentre la domenica successiva – nella prima decade
dell’agosto 1940 – fu mandato un missionario italiano, che prese anche in
consegna dal comandante in seconda del Colleoni
(capitano di fregata Eugenio Martini) l’elenco dei superstiti, permettendo di
informare le famiglie a neanche tre settimane dall’affondamento; ad Ahmednaghar
furono distaccati per l’assistenza religiosa due missionari italiani che si
trovavano internati nel campo per internati civili, adiacente a quello per
prigionieri di guerra, mentre a Ramgarh furono inviati due frati cappuccini e
solo a Yol (dopo il maggio 1941) giunsero dei cappellani militari. Quanto
all’assistenza medica, ad Ahmednaghar c’erano con loro tutti gli infermieri
superstiti del Colleoni ed un
ufficiale medico dell’Espero, il capitano Lotti. Il campo di Ramgarh era invece
dotato con tenda infermeria ed ospedale da campo, attrezzato anche per
operazioni di chirurgia (es. appendicite); anche a Yol c’era un ospedale.
Il servizio postale
con le famiglie fu allestito per la prima volta nel campo di Ramgarh, all’inizio
del 1941 (cartoline bimestrali di 20 righe, cui alla metà dello stesso anno fu
concesso di aggiungere anche una fotografia “formato tessera” a mezzo busto); a
Yol poterono essere scattate delle foto di gruppo (dieci uomini per volta) che
furono anch’esse spedite per posta alle famiglie.
La maggior parte dei
marinai e sottufficiali, perdute le proprie divise, fu rivestita con indumenti
militari adatti al deserto come sahariane, bustine e caschi; per gli ufficiali,
invece, il capitano di corvetta Salvatore Pelosi (ex comandante del
sommergibile Torricelli, affondato in Mar Rosso dopo epico combattimento) ideò
nel campo di Ahmednaghar un’uniforme che fu chiamata “divisa Pelosi”, nella
quale i gradi erano indicati con galloncini gialli sopra il taschino a sinistra.
Venirio Neri ricordò
che a Ahmednaghar le temperature erano molto elevate; le autorità del campo
fornivano pane, minestra e anche animali vivi (capre per esempio), che i
prigionieri provvedevano a macellare e cucinare. A Ramgarh c’era un ospedale da
campo con medici italiani, ma la dissenteria era diffusa e mieteva molte
vittime. Alcuni prigionieri, malati od aventi parenti malati a casa, furono
rimpatriati; all’armistizio (8 settembre 1943) i prigionieri si divisero tra
coloro che rimasero fedeli al re e quanti aderirono alla RSI di Mussolini. I
primi, tra cui Neri stessi, divennero cooperatori; fu loro domandato quale
fosse il loro mestiere, e furono impiegati di conseguenza. Neri, che era
meccanico, fu mandato a Ceylon a riparare caterpillar. Quando nell’estate 1946
gli fu finalmente detto che sarebbero rimpatriati, ormai quasi non ci credeva
più; invece dopo un’ora s’imbarcò a Trincomalee su una nave che doveva
rimpatriare soldati britannici, e che lungo il percorso fece scalo a Napoli, da
dove gli ex prigionieri italiani poterono tornare alle loro case.
Un’altra parte dei
prigionieri del Colleoni non finì a
Geneifa ma nel campo di Ketziot, nel Sinai. Qui le condizioni erano assai
peggiori: il campo consisteva in un insieme di tende in mezzo al deserto del
Negev, circondate da filo spinato con alcune torrette di guardia; poca o
nessuna protezione dalle condizioni climatiche del deserto (54° C di giorno e
0° C di notte), condizioni igienico-sanitarie men che precarie, cibo scarso. Le
tende, allestite sulla nuda sabbia e sprovviste di illuminazione, erano
sovraffollate; di giorno le dune che circondavano il campo riflettevano i raggi
arroventati del sole contro i prigionieri, di notte scorpioni e serpenti
entravano nelle tende, uccidendo qualche occupante.
La prigionia a
Ketziot si protrasse fino al 2 settembre 1942, quando i prigionieri furono
trasferiti dapprima a Kordofan (Sudan), poi a Bombay ed infine, nel dicembre 1942, a Calcutta. Qui
sarebbero rimasti fino al maggio 1945, quando, cessate le ostilità in Europa,
76 di essi furono trasferiti in un nuovo campo di prigionieri nel Sussex
(Inghilterra), dove furono impiegati come manodopera gratuita fino al 26 aprile
1946 prima di potersi finalmente imbarcare su una nave che li portò a Napoli.
Quale che fosse stato
il loro percorso di prigionia, i sopravvissuti del Colleoni trascorsero quasi sei anni in prigionia: tutta la guerra e
anche oltre. Furono rimpatriati solo nella seconda metà del 1946.
Tre fecero eccezione:
due ufficiali medici, il capitano Romeo Di Tosto ed il sottotenente Domenico
Sansaverino, ed il cappellano, don Augusto Bianco. In base alla Convenzione di
Ginevra, che prevedeva il rimpatrio del personale “non combattente” ed in
particolare di medici e cappellani, i tre ufficiali furono trasferiti dal campo
per prigionieri di guerra di Geneifa a quello per internati civili ad esso
adiacente – nonostante la richiesta di don Bianco di poter restare con i suoi
marinai prigionieri – nell’agosto 1940 e ne partirono l’8 dicembre dello stesso
anno, giungendo tre giorni dopo a Nakoura, sul confine tra Siria e Palestina,
dove furono consegnati ad un ufficiale francese per poi tornare in Italia dopo
pochi giorni, riprendendo servizio dopo una breve licenza.
Il marinaio Pietro
Turi, trasferito da Geneifa ad Ahmednagar (Central Internment Camp, dove le
condizioni di vita erano in generale piuttosto buone rispetto ad altrove, i
prigionieri ricevevano anche delle banconote apposite per gli acquisti allo
spaccio del campo) a bordo del piroscafo Rajula (durante il viaggio i
prigionieri ricevettero anche una piccola somma per comprare un’aranciata), fu successivamente
al campo di Ramgarh insieme ad altri 30 ufficiali e 400 sottufficiali e marinai
(qui Turi colse l’occasione per farsi cresimare, avendo come padrino un altro
compagno di prigionia), per poi essere mandato, dopo qualche anno, nel campo di
Beela River in Scozia, dove i prigionieri erano impiegati alle ferrovie o
nell’agricoltura. Qui il cibo e le condizioni generali erano sensibilmente
migliori rispetto ai campi in Africa o in India. Dopo la guerra Turi, rimpatriato
nel maggio 1946 e rimasto disoccupato in Italia, si sarebbe trasferito proprio
in Gran Bretagna nel 1956.
E similmente avrebbe
fatto anche un altro naufrago del Colleoni,
che, dopo il suo salvataggio (era rimasto intrappolato in una torretta
danneggiata ed aveva iniziato a recitare il Rosario e chiedere aiuto, finché
era stato sentito da un ufficiale che l’aveva aiutato ad uscire) e l’iniziale
prigionia in Egitto, fu trasferito nel 1941 proprio in Australia, dove fu
impiegato nell’agricoltura vicino a Griffith (Nuovo Galles del Sud) in un
regime di notevole libertà sulla parola. Tornato in Italia a guerra finita,
sarebbe emigrato in Australia con la moglie; suo figlio, nato in Australia, avrebbe
chiuso il cerchio prestando servizio proprio nella Marina australiana, la
Marina del Sydney che, affondando il Colleoni, aveva innescato la serie di
eventi che aveva portato il padre a stabilirsi in Australia.
I caduti del Colleoni:
Alberto Abile, marinaio fuochista, disperso
Paolo Giovanni Aceto, marinaio fuochista,
disperso
Mario Acquarone, marinaio elettricista,
disperso
Giovanni Agnes, capo cannoniere di prima
classe, deceduto in prigionia in India il 26.10.1941
Agostino Aliboni, marinaio, disperso
Pietro Aliquò, marinaio, disperso
Ciro Avemaria, marinaio cannoniere, disperso
Alberto Baldini, sottocapo cannoniere,
disperso
Amedeo Bardini, secondo capo cannoniere,
disperso
Angelo Barbuto, marinaio infermiere, deceduto
Arturo Bassano, capo radiotelegrafista di
terza classe, disperso
Italo Bellavista, secondo capo, disperso
Mario Benedetti, marinaio, disperso
Domenico Bilei, sergente meccanico, disperso
Carmelo Borrata, sottocapo meccanico, disperso
Giuseppe Bochis, marinaio silurista, deceduto
Giulio Bozzi, marinaio, disperso
Gaetano Brandimarte, secondo capo meccanico,
disperso
Mario Brondolo, marinaio fuochista, disperso
Rinaldo Busacchi, tenente del Genio Navale,
disperso
Carmelo Cambria, marinaio cannoniere, disperso
Agostino Camuffo, marinaio, disperso
Pasquale Carelli, marinaio fuochista, disperso
Giovanni Carlotto, marinaio cannoniere,
disperso
Altero Cartelletti, marinaio furiere, disperso
Francesco Cerutti, secondo capo meccanico,
disperso
Mario Codognini, secondo capo meccanico,
disperso
Pasquale Colonna, marinaio fuochista, disperso
Antonio Corvo, marinaio, disperso
Gaetano D’Agostino, sottocapo elettricista,
disperso
Giuseppe D’Esposito, marinaio, disperso
Michele Daleno, marinaio cannoniere, disperso
Gaetano De Martino, marinaio fuochista,
disperso
Guerrino Di Martino, marinaio fuochista,
disperso
Otello Domenichini, sottocapo cannoniere,
disperso
Mario Dotti, sergente radiotelegrafista,
disperso
Antonio Esposito, marinaio furiere, disperso
Renato Esposito, marinaio, deceduto in
prigionia in Egitto (per le ferite riportate) il 20.7.1940
Gino Fabris, marinaio, disperso
Virgilio Favret, marinaio, disperso
Umberto Fea, sottocapo segnalatore, disperso
Gino Ferrucci, secondo capo furiere, disperso
Mario Flagiello, capo meccanico di terza
classe, disperso
Cesare Fondelli, capo aiutante di terza
classe, disperso
Giuseppe Francisci, marinaio cannoniere,
disperso
Guido Furlan, marinaio, disperso
Domenico Gallina, marinaio cannoniere,
disperso
Sauro Garabello, marinaio cannoniere, deceduto
in prigionia in India il 7.1.1941
Domenico Gatti, marinaio, disperso
Osvaldo Ghizzoni, marinaio elettricista,
disperso
Giovanni Maria Giagoni, marinaio fuochista,
disperso
Gaetano Gilli, marinaio radiotelegrafista,
disperso
Gaetano Gioli, marinaio fuochista, disperso
Giulio Enrico Giordanelli, sergente
cannoniere, disperso
Silvestro Granella, radiotelegrafista,
deceduto in territorio metropolitano il 4.5.1947
Vincenzo Grassi, sottocapo cannoniere,
disperso
Alfredo Guarino, marinaio cannoniere, disperso
Piero La Fata, marinaio, disperso
Guglielmo La Neve, secondo capo
radiotelegrafista, disperso
Angelo Lafranceschina, marinaio cannoniere,
disperso
Vincenzo Lo Giovane, sottocapo
radiotelegrafista, disperso
Giuseppe Longhi, marinaio, disperso
Cesare Lunardi, capo furiere di terza classe,
disperso
Giovanni Maddalena, sottocapo elettricista,
disperso
Silvestro Magri, marinaio elettricista,
deceduto in prigionia in India l’8.9.1943
Ferdinando Maiolo, marinaio motorista,
disperso
Giuseppe Manganaro, marinaio, disperso
Salvatore Manganaro, marinaio, disperso
Guglielmo Marek, marinaio, disperso
Giuseppe Marelli, marinaio fuochista, disperso
Roberto Mariuz, sottocapo elettricista,
disperso
Paolo Massa, marinaio fuochista, disperso
Antonio Mastrototaro, marinaio, disperso
Biagio Maugeri, marinaio cannoniere, deceduto
in territorio metropolitano il 5.1.1945
Pietro Mazzantini, sottocapo cannoniere,
disperso
Giuseppe Merico, marinaio cannoniere, disperso
Pasquale Migliaccio, capo furiere di prima
classe, disperso
Salvatore Minnala, secondo capo nocchiere,
deceduto
Corrado Miotello, sottocapo S. D. T., disperso
Sergio Miotti, marinaio, disperso
Riccardo Molina, sottocapo S. D. T., disperso
Alessandro Montone, marinaio, disperso
Manlio Moscarda, marinaio S. D. T., disperso
Andrea Murrone, sottocapo elettricista,
deceduto
Umberto Novaro, capitano di vascello
(comandante), deceduto in prigionia in Egitto (per le ferite riportate) il
23.7.1940
Sauro Nuti, tenente del Genio Navale, disperso
Giuseppe Pacorig, marinaio fuochista, disperso
Amedeo Paganelli, marinaio cannoniere,
disperso
Pietro Parodi, marinaio furiere, disperso
Erminio Pedroni, capo S. D. T. di seconda
classe, disperso
Massimino Peirolo, marinaio cannoniere,
disperso
Giuseppe Pellegri, meccanico, disperso
Carmelo Pellegrino, marinaio cannoniere,
disperso
Pasquale Petroli, marinaio furiere, disperso
Dante Piacentini, sottocapo S. D. T., disperso
Carlo Piccioli, marinaio fuochista, disperso
Elso Pilati, marinaio fuochista, disperso
Baingio Piras, secondo capo elettricista,
deceduto in prigionia in India il 30.5.1941
Francesco Piro, marinaio cannoniere, deceduto
il 21.7.1940
Aldo Plazzi, meccanico, disperso
Urbano Polla, secondo capo meccanico, disperso
Peppino Poy, sottocapo cannoniere, disperso
Damiano Quarta, marinaio fuochista, disperso
Salvatore Quinci, marinaio, deceduto in
prigionia in India il 12.8.1943
Luigi Rabaglia, marinaio cannoniere, disperso
Cosimo Rano, marinaio, disperso
Luigi Reale, marinaio, disperso
Ciro Rinaldi, marinaio, deceduto
Vincenzo Russolillo, marinaio, disperso
Antonio Scocimarro, marinaio fuochista,
disperso
Salvatore Scordo, marinaio cannoniere,
disperso
Marino Sereno, marinaio fuochista, disperso
Giovanni Snichelotto, capo radiotelegrafista
di prima classe, deceduto in prigionia in Egitto il 28.7.1940
Luigi Sperotto, sottocapo cannoniere, disperso
Carmelo Strazzeri, marinaio, disperso
Eugenio Taboga, sottocapo radiotelegrafista,
disperso
Lino Testa, marinaio fuochista, disperso
Carlo Tizzano, marinaio cannoniere, disperso
Fortunato Tonnini, sergente cannoniere,
deceduto in prigionia in India il 13.2.1941
Giuseppe Travagliati, aspirante guardiamarina,
disperso
Luigi Triggiano, sottocapo cannoniere,
disperso
Matteo Tudisco, marinaio cannoniere, disperso
Rocco Urnera, marinaio fuochista, disperso
Antonio Valle, marinaio cannoniere, disperso
Marcello Varin, marinaio, disperso
Francesco Vazzana, marinaio fuochista,
disperso
Quarto Vicari, marinaio, disperso
Giovanni Visconti, marinaio, deceduto
Francesco Vitucci, sottocapo nocchiere,
disperso
Pietro Zaccaria, secondo capo cannoniere,
disperso
Celestino Zacchini, marinaio cannoniere,
disperso
Guido Zilio, secondo capo radiotelegrafista,
disperso
Angelo Zuffo, sottocapo portuale, disperso
La motivazione della
Medaglia d’Oro al Valor Militare conferita alla memoria del capitano di
vascello Umberto Novaro, nato a Diano Marina (Imperia) il 26 ottobre 1891:
"Comandante di
incrociatore leggero, dedicava tutte le sue energie spirituali e materiali alla
preparazione della nave per il supremo cimento, guidandone ogni attività verso
un sacro ideale di dovere e di sacrificio.
Impegnato in lungo e strenuo combattimento contro forze superiori, portava
animosamente al fuoco la sua unità, infondendo nei dipendenti, con la parola e
con l'esempio le sue alte doti di coraggio e di sprezzo del pericolo e
continuava con implacabile volontà l'impari lotta anche quando la sua nave,
immobilizzata dalle avarie e colpita a morte, era circondata dagli avversari
che concentravano su di essa l'offesa con ogni arma, a distanza ravvicinata.
Ferito gravemente durante l'azione, incurante di sé, dava disposizioni per il
salvataggio della gente, mentre l'unità affondava a bandiera spiegata.
Minorato dalle ferite riportate, deciso ad inabissarsi con la nave, veniva dai
suoi ufficiali munito a viva forza di un salvagente e sospinto in mare.
Raccolto da unità nemica, soccombeva alle ferite dopo due giorni di sofferenze
sopportate stoicamente, chiudendo in terra straniera la sua nobile esistenza
tutta dedicata alla Patria.
Acque di Candia, 19 luglio 1940."
La motivazione della
Medaglia d’Oro al Valor Militare conferita alla memoria del capo cannoniere
telemetrista di prima classe Giovanni Agnes, nato a Rovescala il 30 novembre
1906:
"Capo telemetrista di
incrociatore leggero in fase di affondamento dopo aspro, impari combattimento
sostenuto contro forze navali preponderanti, mentre l'equipaggio – in
obbedienza all'ordine impartito – abbandonava la nave, incurante del rischio
cui si esponeva e con sereno sprezzo del pericolo, rimaneva a bordo per soccorrere
un suo Ufficiale gravemente ferito.
Trattolo a salvamento superando ardue difficoltà e riportando dolorosissime
ustioni, animato da altissimo senso del dovere tornava in plancia, tra le
fiamme degli incendi e lo scoppio delle granate, per distruggere pubblicazioni
segrete abbandonate da un morente. Travolto in mare con l'unità che, nuovamente
colpita, si capovolgeva inabissandosi, veniva raccolto dall'avversario.
Costretto in campo di prigionia, nel generoso tentativo di facilitare
l'evasione di un gruppo di audaci penetrava, consapevole del gravissimo
rischio, in un lungo cunicolo sotterraneo per riattivarne la circolazione
dell'aria, ed immolava, nel generoso tentativo, la nobile esistenza, che tante
volte aveva votato al dovere oltre ogni limite.
Mirabile esempio di eroica abnegazione e di alte virtù militari.
Mare di Candia, 19 luglio 1940 – Ranghar (India), 29 ottobre 1941."
La motivazione della
Medaglia d'Argento al Valor Militare conferita al capitano del Genio Navale
Alberto Cristofanetti:
"Capo reparto
macchina di incrociatore leggero, esplicava i propri compiti con perizia e
serenità durante lungo ed aspro combattimento impegnato dalla Nave contro forze
avversarie prevalenti.
Immobilizzata l'Unità per i numerosi colpi ricevuti, si prodigava per rimettere
in azione la parte non danneggiata dell'apparato motore.
Ricevuto l'ordine di abbandonare la Nave, si assicurava che il personale da lui
dipendente avesse lasciato i locali e, sebbene menomato da ferite, impediva,
con generoso slancio, che il Comandante, gravemente ferito, si inabissasse con
l'Unità.
Mare di Candia, 19 luglio 1940."
La motivazione della Medaglia d'Argento al Valor Militare conferita alla memoria del marinaio cannoniere Quarto Vicari, nato a Cervia (Ravenna) il 3 novembre 1918:
"Destinato agli impianti da 100/47 di incrociatore leggero durante lungo ed aspro combattimento impegnato dalla nave contro forze avversarie prevalenti, si prodigava nel suo compito colmando con la sua inesauribile attività i vuoti creati dal fuoco avversario. Cessata ogni possibilità di tiro, si dedicava al soccorso dei numerosi compagni feriti ed abbandonava la nave solo dopo preciso ordine del suo superiore diretto. Salvato da cacciatorpediniere avversario, approfittando che questo passava vicino ad una isola di nazione neutrale, si gettava in mare per sottrarsi alla prigionia e sacrificava la sua giovane vita nel tentativo di raggiungere la costa. Fulgido esempio di coraggio ed alto senso del dovere.
(Mare di Candia, 19 luglio 1940)".
La
motivazione della Medaglia d'Argento al Valor Militare conferita alla
memoria del secondo capo cannoniere armaiolo Amedeo Bardini, nato a
Piacenza il 5 maggio 1910:
"Sottufficiale
cannoniere destinato alle mitragliere da 40/39 di incrociatore
leggero durante lungo ed aspro combattimento impegnato dalla nave
contro forze avversarie prevalenti, manteneva nel massimo ordine il
personale dipendente costretto a rimanere inattivo perché la
distanza dal nemico era superiore alla gittata delle sue armi.
Quantunque ferito si prodigava nel soccorrere gli altri feriti degli
armamenti e cadeva infine nuovamente colpito mentre esortava tutti a
combattere fino all'estremo. Esempio di fermezza e di attaccamento al
dovere.
(Mare di Candia, 19 luglio 1940)."
Il ricordo di Venirio
Neri, per g.c. dell'ANMI:
"Ricordo bene
quell’alba. Era la mattina presto, poco dopo le 6, del 19 luglio 1940. Non
avevo ancora compiuto vent’anni e come marinaio mi trovavo a bordo del Bartolomeo Colleoni, un incrociatore
leggero della classe “Alberto da Giussano” della Regia Marina. Appena imbarcato
avevo ricevuto un libretto con le istruzioni, che avevo letto con attenzione.
Eravamo diretti a Leros, nel Mar Egeo, e quell’alba apparentemente così uguale
a tante altre sarebbe stata per molti di noi l’ultima. A circa 6 miglia da capo Spada
avvistammo 4 cacciatorpediniere inglesi, sagome che parvero avvistarci e
rifugiarsi poi dietro le onde alzando una cortina fumogena. Li inseguimmo,
finché non si ebbe l’impressione (o la certezza) di essere finiti in un
agguato. Ad attendere noi e il Giovanni
delle Bande Nere c’erano infatti un altro caccia e l’incrociatore Sydney. Il comando che ci chiamava ai
posti di combattimento squarciò l’aria e io mi diressi, come di dovere, in
camera ordini, dove si ricevevano tutte le disposizioni, dal numero dei cannoni
alla posizione. Non avevo fatto neppure in tempo a prendere il caffè. Il Sidney
ci spara contro colpendo il timone e il locale macchine. Il Colleoni resta immobile in mezzo alle
acque, in balia dei colpi nemici. Ricordo le urla dei compagni. Uno urlava
«Mammina Mia!». Sulla nave non c’era più vapore perché colpirono il tubo
principale di vapore; il vapore surriscaldato, dunque invisibile, usciva dalla
fenditura e bruciò vivi i marinai vicini. Nella confusione generale venne un
ufficiale del Genio Navale a mettere in funzione le valvole del timone perché
voleva cambiare il comando del timone dalla plancia alla camera ordini, ma non
funzionava niente. Dettero l’ordine di fare fumo per far scappare l’altro
incrociatore Giovanni delle Bande Nere.
In quei momenti è difficile avere l’esatta percezione del tempo che passa, ma
l’ordine Abbandonare la nave mi risuonò dentro come un colpo. Allora io uscii
dalla camera ordini, ma nella fretta non uscii dalla parte dalla quale ero
entrato, e invece andai sotto il castello a prua, dove c’era il piano batteria
e si vedevano a terra tutti i bossoli sparati. A quel punto cercai di
raggiungere il reparto di sopra, dove c’erano diversi marinai che,
terrorizzati, si guardavano quasi senza reagire. Io quando vidi quella scena mi
diressi quanto più in fretta potevo al boccaporto e lo aprii svitando le viti.
Uscii da prua. I corpi dei cadaveri erano sul bordo della nave. Ma c’era
qualcosa forse di ancor più spaventoso: la prua era tagliata, squarciata. La
nave era come fosse stata amputata. Mancavano al suo profilo affusolato dieci
metri, forse più. A quel punto c’era una scaletta e scesi giù in coperta e da
lì venni a poppa. A poppa ricordo ancora che nella confusione, mentre mi levavo
più in fretta possibile i pantaloni e la camicia pronto a tuffarmi in mare, che
riposi con ordine i sandali da una parte, come se potessi tornare a prenderli
di lì a poco… Mi tuffai mentre arrivavano ancora i proiettili dalle navi
inglesi. In quel momento pensi solo a nuotare via, lontano dalla nave, per
evitare il risucchio nel momento in cui sarebbe stata inghiottita dal mare.
Appena riemersi sentii mille voci gridare «Alla costa, alla costa!». La nave
era immobile, sempre a galla, irrimediabilmente ferita. Un caccia inglese tirò
un siluro: lo scoppio in acqua fu così forte che sentii il rombo nelle viscere.
Mi girai e vidi un fumo al centro della nave. Ricordo che si girò, si inarcò
forse, e poi sparì. In quel momento mi accorsi che c’erano sempre dei marinai
sulla chiglia, ancora là mentre si capovolse. Morirono là. Il capitano morì ad
Alessandria d’Egitto per le ferite riportate in combattimento e fu insignito
della Medaglia d’oro. Continuai a nuotare, e d’un tratto mi ritrovai di fronte
il caccia inglese che si fermò davanti a coloro i quali erano in acqua.
Cominciò a raccogliere i marinai. Davanti a me c’era Giommi, un marinaio
livornese, andò davanti a me e salì a bordo. Io non salii subito: decisi di
attendere per vedere che cosa ci potesse accadere una volta sulla nave inglese.
Un inglese mi tirò una corda per avvicinarmi e salii con una rete a maglie.
Giommi d’un tratto gridò che in mare c’era un ferito
Ricordo ancora il
gesto del marinaio inglese, che, capendo, si levò il camisaccio, prese la
corda, si buttò in mare e la porse al marinaio ferito affinché salisse a bordo.
C’era una sentinella col fucile davanti a me. Mi domandò, mimandomi l’atto, se
fumavo. Io scossi la testa, ma nonostante il mio diniego, lui preparò una
sigaretta, l’accese e me porse. Fumai. Dopo non so quanto tempo ci portarono il
tè con le gallette, ma benché non avessi toccato cibo dalla sera precedente,
non lo assaggiai neppure. Salpammo, verso Alessandria D’Egitto. Una volta ci
portarono su un piazzale vicino al porto. Arrivò una camionetta, un soldato
guidava mentre l’altro era dietro, con una mitragliatrice pronta a sparare. Ci
misero in fila, davanti al muro grigio. Ricordo perfettamente la paura, pensai
«Ecco, è la fine. Adesso muoio qui, ad Alessandria d’Egitto, accasciato davanti
a un muro grigio, con nelle orecchie una lingua che non è la mia». E invece ci
fecero salire sui camion e ci portarono in un campo di concentramento
provvisorio di P. O. W. (Prisoner of War) fuori Alessandria, a Geneifa. Le
giornate passavano lavorando: andavamo a pulire i campi, levando sassi. Appena
arrivati al campo ci dettero una camicia, un pantalone corto e delle scarpe di
gomma. Dormivamo nelle tende, 4 prigionieri per tenda. Poi ci imbarcarono sul
piroscafo Rajula diretto in India, dove ci stiparono in un campo di
concentramento: il Central Internment Camp di Ahmednagar. Faceva molto caldo.
Quanto alle condizioni generali, cucinavamo da noi: loro ci davano viveri in
natura, come le capre, e ci passavano il pane e la minestra, si riusciva a
scrivere alle famiglie. Passammo là qualche anno, poi passammo al campo di
Ramgarh, praticamente tutto italiano.
C’era l’ospedale da
campo, con medici italiani, la dissenteria, forse aiutata dal clima caldo, era
una cosa normale. Molti morivano. Altri rientravano nei cosiddetti casi
pietosi: uno che si era ammalato, o c’era a casa gente che stava poco bene, e
li rimpatriavano. Dopo l’8 settembre ci divisero fra fedeli al Re e fedeli a
Mussolini. Passammo da prigionieri di guerra a cooperatori, e ci chiesero
allora dove si voleva andare al lavoro, che mestierefacessimo. Io dissi che ero
meccanico: inizialmente mi volevano mandare a Calcutta, ad occuparmi delle
locomotive dei treni, poi decisero sarei stato più utile nell’isola di Ceylon,
a riparare Caterpillar. A me i motori piacevano, e li riparavo con passione. lo
riparavo il caterpillar e lo consegnavano, mentre io ne avevo riparati 3 o 4
loro erano sempre al primo. Ebbi un premio, un mese di riposo. Credo di essere
stato l’unico, fra gli italiani, ad avere questa fortuna e questo
riconoscimento. E poi il tempo passava. Passarono 6 anni. Dai giornali venimmo
a conoscenza della fine della guerra. Mi scrivevo con la famiglia. Quando venne
l’ordine di rimpatrio io stavo uscendo, una sera. Venne uno tutto trafelato,
disse «Si rimpatria». Io lo guardai, e gli dissi «Senti a me non mi importa
niente, ma non lo dire là perché prendi qualche botta». Non ci credevamo più. E
invece era vero, in un’ora preparammo le nostre poche cose, e ci si imbarcò a
Trincomalee nello Sri Lanka, su una nave diretta in Scozia che veniva in Italia
per riportare i soldati inglesi in Inghilterra. Raggiungemmo Napoli. Da lì
presi il treno per Roma. Ricordo ancora che, durante l’attesa, andai alla posta
per inviare un telegramma a casa. Avevo un po’ di rupie per il lavoro svolto in
tasca, scrissi soltanto: «Raggiunto Napoli». Era estate, come il giorno
dell’affondamento. Avevo vestiti civili. Una strisciolina tricolore
occhieggiava sulle spalline della camicia. Da Napoli arrivai a Roma, poi, con
un altro treno, a Follonica dove abitavo nel quartieri Senzuno, vicino al mare.
Prima di concludere, mi piace ricordare che quando andai in Marina feci la
domanda a premio: erano 5000 lire di allora, una piccola fortuna. Avrei potuto
acquistare una casa per la futura famiglia. Quando rimpatriai annullai tutto e
mi feci dare il premio e mi diedero le AMLire, e io le diedi a mio babbo e lui
ci comprò un agnello. Certo, se quel giorno del luglio 1940 non avessi
schivato, per caso, tutti quei proiettili, fossi stato meno fortunato o meno
pronto, e nel campo di concentramento avessi preso qualche malattia mortale,
non solo non sarei qui a narrare questa storia, ma non ci sarebbe nemmeno mia
nipote che ha voluto raccoglierla e farla conoscere a voi tutti."
Mio nonno è stato uno dei sopravvissuti
RispondiEliminamio padre Paparo Pasquale classe 1912 - capo cannoniere - è sopravvissuto al naufragio, è stato deportato nei campi di concentramento in Egitto,India e Inghilterra.E' morto in Italia - Massa Carrara il 20/06/1971.
RispondiElimina"Alle 20 dello stesso 10 giugno Colleoni e Bande Nere lasciano Palermo per coprire le operazioni di posa, da parte del posamine Buccari e del posamine ausiliario (ex traghetto ferroviario) Scilla, dello sbarramento di mine «L K» (Lampedusa-Kerkennah) nel Canale di Sicilia."
RispondiEliminaI believe this is not the «L K» (Lampedusa-Kerkennah) for start it is not in Sicilian channel. LK mine field it was made i believe by Da Barbiano , Cadorna, Lanciere, Corazziere , Polluce und Calipso.
Pinin
Best regards.
I do not have the books at hand now, I will check them this evening and see...
EliminaI have checked "La guerra di mine", you are right: the mentioned minefield was the "G.P." (Capo Granitola-Pantelleria). I will correct immediately.
EliminaGrazie Lorenzo
RispondiEliminaPinin
Relativamente ai problemi strutturali dell'incrociatore leggero "Bartolomeo Colleoni" (se così si può dire viste che sappiamo che la classe "Da Giussano" era stata impostata con finalità precise), segnalo che già ai tempi della nota missione in Cina si erano manifestati (vedasi in proposito il libro "Il Commodoro" di Arturo Catalano Gonzaga di Cirella, ed. Mursia, 1995, pag. 82).
RispondiEliminaMio padre era uno dei sopravvissuti classe 1917 stagi claudio fochista di caldaia deceduto il 22/07/1986 Firenze
RispondiEliminaMio nonno Alvaro Orlandini era uno dei sopravvissuti, era fuochista sul Colleoni, fu poi portato in Inghilterra.E' deceduto nel 2001.
RispondiEliminaMio papà fu uno dei sopravvisiti
RispondiEliminaGHIDONI MARIO classe 1918.prigioniero in India e Inghilterra.Rientrato nel 1948 si è spento il 17 Agosto 1982 a Brescia
Camillo Rossetti Cugurullo. Sardo di nascita, trasferitosi da piccolo a Firenze, impiegato come marconista e sopravvissuto. Prigioniero in India e poi in Inghilterra dove venne impiegato nell'ufficio per il rimpatrio dei prigionieri di guerra. Rientrato a Firenze, ha lavorato come impiegato comunale e giornalista freelance. Fino alla morte, avvenuta nel 2000, ha sempre ricordato con nostalgia il periodo trascorso in Cina (posseggoancoramoltefoto), nonché il profondo rispetto ricevuto dai carcerieri inglesi.
RispondiEliminaMio padre, Costagliola Vincenzo, classe 1914, fu tra i sopravvissuti. Prigioniero in India, rientrato nel 1948 si è spento il 1 marzo 2005 a Baia, Bacoli (NA).
RispondiEliminaHo navigato in navi mercantili anni 70, con Filiberto Salvi, che fu superstite e portato prigioniero in India, diventammo grandi amici, anche se c era grande differenza di eta'. Mi racconto' della battaglia tremenda. avete altre notizie di lui???
RispondiEliminaPurtroppo no, mi spiace...
EliminaMio padre D'Aniello Giuseppe era marinaio fuochista della colleoni classe1918 tornò a napoli il 15 agosto 1946 è deceduto a giugno 2006.C'è ancora qualche superstite?
RispondiElimina.
Ciao sono Angelo Soragni. Mio papà era fuochista sul Colleoni e probabilmente conosceva tuo papà . È stato prigioniero in India per 6 anni a Yol e tutti i posti citati nel racconto
Eliminamio nonno MICIONI DI BUONAVENTURA ARNALDO fu uno dei superstiti! ma raccontava di una prigionia in Russia!
RispondiEliminaforse ero troppo piccolo e ricordo male??
Direi di sì... a meno che non sia stato recuperato dagli italiani e poi finito prigioniero in Russia in altra circostanza. Ma non credo che personale di Marina sia finito prigioniero in Russia...
EliminaAmedeo Bardini 2° Capo Cannoniere medaglia d'argento "alla memoria". Motivazione: "Sottoufficiale cannoniere destinato alle mitragliere da 40/39 di incrociatore leggero durante lungo ed aspro combattimento impegnato dalla nave contro forze avversarie prevalenti, manteneva nel massimo ordine il personale dipendente costretto a rimanere inattivo perchè la distanza dal nemico era superiore alla gittata delle sue armi.
RispondiEliminaQuantunque ferito si prodigava nel soccorrere gli altri feriti degli armamenti e cadeva infine nuovamente colpito mentre esortava tutti a combattere fino all'estremo.
Esempio di fermezza e di attacamento al dovere".
Mare di Candia, 19 luglio 1940. (Capo Spada - Creta).
La figlia Rossana Bardini oggi 20 dicembre 2023
La ringrazio, aggiungo la motivazione della medaglia alla pagina.
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