Il MAS 213 durante un trasferimento al proprio settore d’operazione a
rimorchio della torpediniera Orsini,
nel febbraio 1941 (USMM via Marcello Risolo)
|
MAS del tipo
Baglietto-SVAN da 12 tonnellate, con dislocamento di 13,9 tonnellate, lunghezza
10 m ,
larghezza 2,66 m
e pescaggio 1,10 m .
Armato con due siluri da 450
mm , due mitragliatrici Colt da 6,5 mm ed una tramoggia per
bombe di profondità; propulsione data da due motori a scoppio Isotta Fraschini
L 350 da 700 HP complessivi, velocità di crociera 15 nodi e massima 24,5-27
nodi, e autonomia di 150
miglia a 15 nodi. Equipaggio di otto uomini.
Vecchia e piccola
unità con scafo in legno, risalente alla prima guerra mondiale (assieme ai
quattro gemelli, era il MAS più vecchio ancora in servizio), versava in
condizioni peggio che pietose nel 1940; tenuta a galla più dal valore e dalla
disperazione del suo equipaggio che dalle numerose toppe nel suo scafo, riuscì
a conseguire uno dei maggiori successi nella guerriglia navale in Mar Rosso.
Breve e parziale cronologia.
1918
Varo nei cantieri
Baglietto di Varazze.
19 agosto 1918
Entrata in servizio.
1° novembre 1918
Il MAS 213 fa parte della Flottiglia MAS
della Liguria, di base a Genova e Portofino.
1935
Durante i preparativi
per la guerra d’Etiopia, viene dislocato in Eritrea, assieme ai gemelli MAS 204, 206, 210 e 216. Le unità formano la XXI Squadriglia
MAS e sono destinate a missioni di sorveglianza ed al collegamento tra la base
navale di Massaua e l’arcipelago delle Dahlak.
Gennaio 1940
Cinque anni trascorsi
nel clima tropicale dell’Eritrea, e 22 anni di servizio complessivo (quando nel
1918, la vita massima di un MAS era stata stimata in 4-5 anni), hanno ridotto i
MAS in condizioni tali che una commissione propone di radiarli e sostituirli
con unità più moderne. Lo scafo ed i motori (che hanno da lungo tempo superato
il massimo delle ore di moto) sono tanto malandati che due dei MAS devono
essere perennemente lasciati in secco, mentre gli altri possono raggiungere a
stento i 10-12 nodi di velocità e rimangono a galla solo grazie a tappi di
cemento realizzati per chiudere le falle apertesi negli scafi. Mancano anche i
pezzi di ricambio, oltre al fatto che non c’è un’officina specializzata per i
MAS.
Il morale degli
equipaggi è basso, per il clima e per lo stato dei mezzi; il comando della XXI
Squadriglia è affidato ad un sottotenente di vascello di complemento che, per
un suo altro importante incarico presso il Comando Superiore di Marina,
trascura le unità.
La programmata
sostituzione, tuttavia, non arriverà mai, così al personale dislocato in
Eritrea (dove il comando della XXI Squadriglia è stato ora assunto dal tenente
di vascello Stanislao Ferraro, ufficiale esperto e coraggioso, che provvede
subito a selezionare nuovi equipaggi e migliorare alloggi, mense e cucine per
essi) non resterà che ingegnarsi per rimettere almeno quattro dei MAS (il MAS 210 è troppo malconcio e non
navigherà mai più) in condizioni accettabili: i motori saranno smontati e
revisionati nell’officina mista di Massaua (e dotati anche di silenziatori agli
scarichi, che permetteranno loro di avvicinarsi ai bersagli nottetempo senza
essere notati), tutti gli organi meccanici verificati e riparati e gli scafi
completamente rivestiti di rame, così permettendo ai MAS 204, 206, 213 e 216 di tornare in efficienza, giungendo nuovamente a raggiungere
una velocità massima di 15 nodi (che può essere mantenuta per un’ora al
massimo, causa il rapido riscaldamento delle camicie).
10 giugno 1940
L’Italia entra nella
seconda guerra mondiale.
Il MAS 213 ed i gemelli verranno impiegati
in vigilanza antisommergibili diurna (a seguito di avvistamento di navi o
sommergibili nemici da parte della ricognizione aerea; 21 missioni, molto
pericolose perché espongono i MAS, dotati solo di inadeguate mitragliatrici da 6,5 mm , agli attacchi aerei)
e notturna, ricerca e soccorso (sovente sotto attacco aereo) di equipaggi di
velivoli (italiani e britannici) caduti in mare, assistenza ad unità maggiori,
pilotaggio nel canale nord di Massaua e collegamento con le Dahlak.
Ogni sera, al
tramonto, prima della chiusura delle ostruzioni, uno dei MAS (a turno) esce con
siluri, bombe di profondità da 50
kg e mitragliere armate e si ormeggia ad una boa
foranea, per poi mollare l’ormeggio ed incrociare nei canali a nord e nordest
di Massaua in caso di allarme aereo (il che accade tutte le notti).
Le aree d’operazione
dei MAS sono due: lo stretto di Bab el Mandeb, dove giungono a rimorchio (dopo
di che occorre percorrere solo qualche miglio prima di entrare in contatto con
forze nemiche) ma dove possono operare solo due mesi all’anno (un mese ogni
sei, nel periodo “tangibile” tra la fine di un monsone e l’inizio di quello
successivo: lo stretto di Bad el Mandeb, zona monsonica, non è percorribile da
minuscole unità come i MAS nel periodo dei monsoni); e il tratto di mare
dinanzi alle isole Dahlak, più vicino alla base di Massaua ma anche più
controllato dalle forze britanniche (il che rende più difficile attaccare).
16 febbraio 1941
Il MAS 213 entra a far parte della
neocostituita Flottiglia MAS di Massaua (al comando del capitano di corvetta
Glauco Tabacco), che comprende, oltre ai MAS
204, 206, 210 e 216 (che formano
ancora la XXI Squadriglia MAS), tutti i motoscafi militari che si sia riusciti
a mettere insieme in Eritrea: quattro motoscafi della Regia Marina (inquadrati
nella Squadriglia Motoscafi Veloci), alcuni dei quali fortunosamente armati con
dei siluri, e tre motoscafi RAMA ceduti dalla Regia Aeronautica (assegnati alla
Squadriglia Motoscafi), oltre ad alcuni sambuchi (che costituiscono la Sezione
Sambuchi) e due “uri”. Di tutti questi mezzi, i malconci MAS sono comunque gli
unici dotati di qualche effettivo valore offensivo.
Il MAS
|
Colpo di coda in Mar Rosso
Nella primavera del
1941, l’offensiva britannica in Africa Orientale giunse alla svolta decisiva.
Dopo la caduta della Somalia in febbraio, le forze del Commonwealth sfondarono
le linee italiane nella durissima battaglia di Cheren (protrattasi dal 2
febbraio al 27 marzo 1941) e marciarono sull’Eritrea. All’inizio di aprile, la
caduta di Massaua era solo questione di giorni; le poche unità in grado di
affrontare una traversata oceanica verso la Francia o il Giappone furono fatte
salpare nel tentativo di salvarle, mentre le rimanenti unità furono destinate
all’autodistruzione, per evitarne la caduta in mano nemica.
Per i piccoli MAS, dalla scarsissima autonomia anche quando erano stati in condizioni di piena efficienza – ricordi ormai lontani –, la fuga verso porti amici o neutrali era ovviamente fuori discussione. Ma queste minuscole, insidiose unità erano le uniche ad avere ancora una ragionevole possibilità di infliggere qualche ultimo danno prima di capitolare.
Per i piccoli MAS, dalla scarsissima autonomia anche quando erano stati in condizioni di piena efficienza – ricordi ormai lontani –, la fuga verso porti amici o neutrali era ovviamente fuori discussione. Ma queste minuscole, insidiose unità erano le uniche ad avere ancora una ragionevole possibilità di infliggere qualche ultimo danno prima di capitolare.
Nell’ambito delle
operazioni di supporto alle proprie forze terrestri, i comandi britannici
avevano inviato il vecchio incrociatore leggero Capetown (capitano di vascello Percival Henry Gwynne) e gli sloop Parramatta (australiano, tenente di
vascello Jefferson H. Walker) ed Indus
(indiano, capitano di fregata Eric George Guilding Hunt) ad incrociare al largo
di Mersa Kuba, a settentrione delle Dahlak; formavano una forza di copertura
per il naviglio britannico in mare durante l’operazione «Atmosphere» per la
conquista di Massaua (per tale operazione, era stata costituita la Forza G, che
comprendeva il Capetown, il Parramatta, lo sloop britannico Clive e le piccole unità ausiliarie
indiane Ratnagiri e Sagita).
Il 5 aprile 1941 le
due unità, insieme ad altre tre navi, vennero avvistate dalla stazione di
vedetta dell’isola di Difnen, la più settentrionale delle Dahlak, presidiata da
personale della Regia Marina. La sera stessa il MAS 213, insieme ai gemelli 206
e 216, lasciò Massaua alla ricerca
delle navi nemiche, ma le tre piccole unità dovettero rientrare a mani vuote,
senza aver trovato nulla.
La sera del 6 aprile
i MAS 206 (guardiamarina Mario
Noseda) e 213 (guardiamarina di
complemento Pietro Valenza) ci riprovarono: avvistate le navi avversarie alle
00.20 del 7, i due motoscafi serrarono le distanze fino a 300-500 metri , ma la loro
manovra fu complicata dal pendolamento del bersaglio (che invertiva
continuamente la rotta); il solo MAS 206
attaccò col lancio di un siluro, ma l’arma non colpì, ed i due MAS dovettero
invertire la rotta per rientrare a Massaua, dove giunsero poco dopo mezzanotte.
Le unità britanniche,
non avendo nemmeno notato la presenza dei MAS durante la notte, proseguirono
ignare nel loro pattugliamento.
Dopo una conferma sul
fatto che le navi nemiche non si erano spostate, alle 21 del 7 aprile il MAS 213 lasciò ancora una volta Massaua,
questa volta accompagnato dal MAS 216
(al comando del tenente di vascello Stanislao Ferraro, nuovo comandante della
XXI Flottiglia): queste due erano ormai le uniche unità ancora in condizione di
prendere il mare. Ormai alla base italiana non restavano che poche ore di vita:
l’autodistruzione delle installazioni militari era già giunta ad uno stadio
avanzato, l’officina MAS aveva già reso inutilizzabili siluri e compressori; le
forze britanniche già controllavano la costa a nord di Massaua, e spazzavano il
mare con proiettori e proiettili illuminanti. Gli unici siluri disponibili
erano quelli che uno dei motoscafi ceduti dall’Aeronautica, il RAMA 1010, aveva sbarcato prima di
fuggire verso lo Yemen per evitare la cattura.
Sul MAS 213, oltre al comandante Valenza,
erano imbarcati il secondo capo meccanico Fortunato Laurenti, il sottocapo
motorista Pietro Montini, il sottonocchiere Dario Laurenti, il silurista
Remigio Terraneo, il marinaio Gino Sabatini ed il secondo capo silurista Mario
Di Ruzza: quest’ultimo, non facendo parte dell’equipaggio del MAS 213, aveva chiesto e ottenuto di
poter prendere parte all’ultima missione.
I due MAS
procedettero verso nord a 14-15 nodi per undici miglia, poi il caposquadriglia
Ferraro ordinò di fermarsi e preparare i siluri al lancio; indi le due piccole
unità rimisero in moto, avanzando a 13 nodi. Il mare era appena increspato e
l’orizzonte limpido tranne che verso la costa, dove permaneva un po’ di
foschia.
Verso le 22 il MAS 216 venne rallentato (a 11-12 nodi)
da un’avaria, ma entrambi proseguirono (il MAS
213 seguiva il capo sezione ad una cinquantina di metri di distanza), e alle
00.55 accostarono per 338°, verso la zona presunta in cui dovevano trovarsi le
navi nemiche.
All’1.10 dell’8
aprile fu il MAS 216 ad avvistare per
primo, a una decina di chilometri di distanza, la sagoma di una grossa nave
contro l’orizzonte: era il Capetown. Cinque
minuti dopo il MAS 213 si avvicinò al
capo sezione per riferire di avere anch’esso avvistato la sagoma nell’oscurità.
Ferraro sul MAS 216 diede l’ordine di
attacco; il MAS 213 lo seguì per
contromarcia, i siluri furono preparati, gli spilli di sicurezza rimossi.
Avvicinandosi al
bersaglio, i due MAS si separarono come previsto, accostando a dritta (MAS 216) e a sinistra (MAS 213) subito dopo che il Capetown stesso ebbe accostato a dritta,
e si persero presto di vista. Valenza apprezzò che l’incrociatore stesse
effettuando un pendolo da nord a sud di circa 2-3 miglia .
Mentre i tentativi
d’attacco del MAS 216 vennero
vanificati dai mutamenti di rotta del Capetown,
quello del MAS 213 fu coronato da
successo: il motoscafo giunse non visto a 500 metri ; quando
l’incrociatore cambiò rotta ancora una volta (accostando a dritta proprio
mentre Valenza si apprestava ad ordinare il lancio), portò i motori alla
massima velocità e si pose al suo inseguimento. Serrate le distanze fino a soli
300 metri ,
quando il Capetown ebbe completato
l’accostata, alle 2.10 il comandante Valenza ordinò: “Fuori!” e due siluri partirono
dal piccolo motoscafo.
Dopo una breve corsa,
uno di essi mancò il bersaglio a proravia, ma l’altro – avvistato da bordo
dell’incrociatore, ma troppo tardi per poter tentare di evitarlo con la manovra
– centrò il Capetown a poppa
(precisamente, nella sala caldaie poppiera), sollevando un’alta colonna
d’acqua. Sette uomini rimasero uccisi, e la nave sbandò con allagamenti in atto
e gravissimi danni, ma non fatali, anche perché il siluro aveva viaggiato in
parziale affioramento.
Subito sia
l’incrociatore che una seconda nave, rapidamente sopraggiunta, aprirono il
fuoco a casaccio con cannoni e mitragliere: circondato dagli scoppi di
cannonate e traccianti (il Capetown
sparava anche proiettili illuminanti, nel tentativo d’individuare l’attaccante),
ma fortunatamente non ancora individuato, il MAS 213 virò e si allontanò a tutta forza verso sud.
Il Capetown, scortato dall’Indus (nonché dai cacciatorpediniere Kimberley e Kingston, sopraggiunti per dare assistenza) e preso a rimorchio dal
Parramatta, che lo condusse a Port
Sudan (dove giunse il 10 aprile dopo un difficile viaggio), dovette poi essere
rimorchiato a Bombay per le riparazioni, e rimase fuori combattimento per oltre
un anno: sarebbe tornato in servizio solo nel luglio 1942.
Il Capetown viene preso a rimorchio dal Parramatta, mentre il Kimberley (a sinistra) rimane a dare assistenza (g.c. Ken Welch – “A Sailor at War 1939-
|
Il Capetown a Port Sudan dopo il siluramento: la zona danneggiata è visibile sotto il fumaiolo (g.c. Ken Welch)
|
Funerali di un caduto del Capetown (g.c. Ken Welch)
|
Alla fine anche il MAS 213 fu colto dall’immancabile avaria
ai motori, ma ormai era al sicuro. Alle 5.40 si mise in contatto con la Difesa
Contraerea Territoriale di Massaua e comunicò: «Qui Zeta 13. Questa notte alle
2.05 abbiamo silurato un incrociatore, colpendolo. Siamo in avaria a dieci
miglia a nord di Massaua. Viva l’Italia! Zeta 13».
Procedendo a bassa
velocità per via dei guasti, il MAS 213
raggiunse Massaua alle nove del mattino, preceduto di un’ora dal 216. Il comandante di quest’ultimo, anzi
(Ferraro), ricevuto verso le otto il messaggio lanciato dal MAS 213 alle 5.40, gli si diresse
incontro con un motoscafo RAMA, ma quando lo incontrò Valenza gli disse che ce
l’avrebbe fatta da solo.
Entrò in porto
lentamente a causa delle noie ai motori, ma con le tenaglie dei siluri vuoti e
la bandiera nera orgogliosamente a riva.
Non ci fu tempo per
godersi il successo: Massaua era già sotto il tiro dell’artiglieria britannica,
e gli altri tre MAS avevano già provveduto ad autoaffondarsi. Dopo aver fatto
rapporto al contrammiraglio Bonetti (comandante delle forze navali italiane in
Africa Orientale) e comunicato il successo all’Italia mediante la stazione
radio di Abd el Kader (poi fatta saltare), gli equipaggi dei due MAS dovettero
procedere all’affondamento delle proprie unità.
Massaua cadde quello
stesso giorno. Gli scafi semiaffondati dei cinque MAS furono recuperati e
smantellati nei mesi successivi; il comandante Valenza (decorato con la
Medaglia d’Argento al Valor Militare per il siluramento del Capetown) e quasi tutto il resto
dell’equipaggio del MAS 213 furono
catturati e trascorsero il resto della guerra nei campi di prigionia.
Non così il secondo
capo Di Ruzza, il quale, dopo la caduta dell’Africa Orientale Italiana,
organizzò con altri la fuga di numerosi militari italiani nella neutrale Arabia
Saudita, dove si rifugiò infine anch’egli, finendo internato nell’isola di El
Uasta: qui s’imbatté nell’ex comandante della XXI Flottiglia MAS, il capitano
di corvetta Tabacco, cui fece rapporto sul siluramento del Capetown. Anche Di Ruzza, alla fine, cadde però in prigionia.
La motivazione della
Medaglia d’Argento al Valor Militare conferita al guardiamarina Pietro Valenza,
comandante del MAS 213:
“Comandante di MAS in
mare lontano dalla Patria, in ore dolorose per la sorte della nostra bandiera,
durante missione notturna attaccava assieme ad unità similari un incrociatore
avversario in crociera offensiva. Immobilizzato da avaria il MAS capo
squadriglia, proseguiva da solo nell’attacco e, giunto a 400 metri circa, colpiva
col siluro l’incrociatore danneggiandolo così gravemente da ritenere sia stato
reso inutilizzabile. Si disimpegnava quindi malgrado violenta reazione di fuoco
dimostrando in tutta l’azione elevato spirito combattivo e sereno ardimento.
Mare di Massaua, 7-8
aprile 1941.”
Il siluramento del Capetown nel ricordo di Albert Welch,
all’epoca imbarcato sull’incrociatore (si ringrazia il figlio Ken, autore del
libro “A Sailor at War 1939-1945” ):
“With the very high temperatures experienced during the day many of the
crew took to sleeping on deck at night to benefit from the cool breeze. On the
evening of the 7th April I came off watch at 18.00 hrs and went up on deck for
a few hours to chat with a couple of shipmates, including my best mate Bill
Boardman. As this day was in fact the first anniversary of my joining the navy,
much of the conversation was about how much we had seen over the past year and
how much our lives had been changed by these events. We then had a light meal
and, feeling tired from an early start that morning, we decided to turn in. It
was a beautiful moonlit night and Bill and I set up our wire and canvas camp
beds on the upper deck. We were on the port side, roughly amidships, with Bill
on the inboard side. The cool breeze was a blessing and as we settled down I
noticed that we were just off the coast and making about 10 knots. I quickly
went off to sleep totally unaware that events were going to change our lives
yet again.
What we had not realised was that an Italian Motor Torpedo Boat, MAS213, from Massawa had been quietly
stalking us in the darkness and had been slowly manoeuvring into a position
slightly ahead of us where she had a perfect view of the Capetown silhouetted against the moonlight. At 02.30 hrs the
captain of the MTB fired two torpedoes and promptly turned, accelerating away
at high speed. The attack was totally unexpected as Capetown, being an old ship, did not have the benefit of the more
modern radar and asdic technologies and was therefore totally dependent on the
lookouts. Thankfully the first torpedo narrowly missed us, passing safely
across the bow but before we could take evasive action, the second torpedo
struck us amidships, adjacent to "B" boiler room on the starboard
side. The explosion was deafening and the blast lifted the ship, causing it to
heel over to port. We were lucky that the Italian commander had not fired his
spread of torpedoes a few seconds later as two hits would have finished us.
Having been asleep when the torpedo struck, the blast immediately woke
me to find myself being propelled through the port rail and over the side into
the sea. The sudden shock of immersion in water quickly brought home the
realisation that we had been hit but, as I struggled to the surface for air, my
immediate concern was of being left behind in the dark. Fortunately for me, the
ship had quickly lost power and Bill, realising what had happened, had already
grabbed a rope and was running back along the port side to where he could hear
me shouting as I swam towards the dark outline of the ship. It was a great
relief when I finally felt that rope in my hands and, with me climbing and Bill
pulling, we were finally able to link arms and he hauled me back on board. I
lay on the deck to get my breath back, still somewhat bewildered at the sudden
chain of events.
A number of my shipmates were not so lucky. One of the marines who was
also sleeping on deck had been thrown into the air by the blast and had come
down on his chest across a bollard causing massive internal injuries. The pain
was so bad he kept asking to be thrown over the side to finish it. He clung to
life for several hours but there was nothing that could be done and sadly he
finally slipped away.
Inside the ship, the torpedo had claimed more lives. The Petty Officer
of the watch in the boiler room had just completed his check that everything
was running normally and told the rest of the watch that he would go up topside
and make the drinks. At the top of the ladder he stepped through the watertight
door, closed it behind him and, just as he dogged the hatch, the torpedo
exploded. The compartment that he had left seconds earlier was devastated by
the blast and his watch were all killed, either in the explosion or drowned by
the inrush of water.
By the time I was hauled back on board, the injured were being taken
care of and damage control parties were already checking out the ship and
reporting our condition, although we all knew that we were in bad shape. There
was no panic during the incident, and the discipline and organisation was first
class, but there was still an air of disbelief that this could have happened to
us. After about an hour of lying dead in the water, the captain came on the
speaker system and advised that we had no power but that the Australian sloop
HMAS Parramatta was going to put a
line on board and tow us to Port Sudan and we were to be escorted by a K class
destroyer, HMS Kimberley, to provide
protection.
As the condition of the ship was critical and the risk of further
attacks was very real, the tow was to take the shortest and quickest route
possible, which meant passing through shallow water between the coast and a
series of offshore islands near Massawa. If the enemy spotted us and opened up
with shore batteries or sent out their fleet, the captain was going to return
fire although in our weakened state with a hole dangerously near the keel, the
shock of our own guns could possibly have broken the ship's back.
We succeeded in slipping past the shore guns at Massawa during the hours
of darkness and were well north by daybreak. During the voyage a large section
of the ship was sealed off as its structural integrity was unsure. Consequently
I was unable to reach my locker or any of my personal kit but most of us
preferred to stay on deck just in case the ship broke in half and went down
quickly.
We then heard more news of our attacker. After the MTB had fired its
torpedoes and taken off into the darkness, several of our accompanying
destroyers had given chase and had captured it [in realtà ciò non accadde]. It
subsequently transpired that, unknown to us, the Italian forces at Massawa were
to surrender later that day and, in anticipation of this, the MTB had left the port
for one last mission, it now being the last Italian MTB operating in the Red Sea . As it was now low on ammunition and fuel, and
did not have a base to return to, the captain surrendered without a fight. He
was pleased with his success and claimed that he had sunk a destroyer. To prove
him wrong, our captain had him brought on board the Capetown to show him that we were in fact a light cruiser and still
very much afloat! [In realtà il MAS 213 non venne catturato, ma si
autoaffondò a Massaua; dato che il suo equipaggio, con la caduta di Massaua, fu
comunque catturato solo poche ore dopo il siluramento del Capetown, questo incontro potrebbe anche aver avuto luogo, seppure
in maniera differente.]
The tow lasted for two days, which were relatively uneventful but
extremely worrying for us all. (…)”
good
RispondiElimina