giovedì 26 febbraio 2015

Valfiorita


La Valfiorita in costruzione (g.c. Mauro Millefiorini)

Motonave da carico da 6200 tsl, lunga 144,47 metri e larga 18,65, con velocità di 14-15 nodi. Appartenente alla Industrie Navali Società Anonima (INSA), con sede a Genova. Matricola 2345 al Compartimento Marittimo di Genova, formava una classe di quattro motonavi gemelle insieme ad Ombrina, Sises e Sestriere.

Breve e parziale cronologia.

1939
Impostata nei cantieri Franco Tosi di Taranto (numero di cantiere 82).
5 luglio 1942
Varata nei cantieri Franco Tosi di Taranto. La difficoltà nel procurare le attrezzature ed i materiali necessari alla costruzione, unitamente ad altri problemi causati dalla guerra, hanno fatto slittare la data del suo completamento, inizialmente prevista proprio per il mese di luglio 1942.
Compie poi le prove di navigazione.
25 agosto 1942
Completata per la Industrie Navali Società Anonima.
17 settembre 1942
Come tutte le moderne motonavi di nuova costruzione, la Valfiorita viene requisita a Taranto dalla Regia Marina (senza essere iscritta nel ruolo del naviglio ausiliario dello Stato), per essere adibita al trasporto di rifornimenti in Africa Settentrionale.
Viene allo scopo armata con un cannone da 120/45 mm e tre mitragliere contraeree Oerlikon da 20 mm. Vengono imbarcati 7200 proiettili da 20 mm (2400 per ogni mitragliera), un telemetro, due binocoli, due pistole da 7,65 mm, otto moschetti da 6,5 mm e sedici elmetti.
In funzione di difesa passiva, per ostacolare la localizzazione della Valfiorita da parte di unità nemiche, viene installato anche un impianto nebbiogeno a cloridrina.

Aerosiluranti

Il 20 settembre 1942 la Valfiorita iniziò a caricare a Taranto rifornimenti per le forze italo-tedesche, che avrebbe dovuto trasportare a Bengasi nel suo primo viaggio. Vennero imbarcate in tutto 4171 tonnellate di carico, che comprendevano 77 veicoli italiani, 206 motociclette italiane, 95 veicoli tedeschi (moto comprese), 16 cannoni e 14 autovetture. Le operazioni di carico si protrassero per una settimana.
Il 3 ottobre, dopo aver imbarcato, oltre alle 4171 tonnellate di carico ed a 97 uomini di equipaggio (48 civili, tra cui 3 operai della Franco Tosi di Legnano, azienda produttrice dei motori, e 49 militari della Regia Marina), anche 110 militari italiani (4 ufficiali, 4 sottufficiali e 102 graduati e soldati, appartenenti al Reggimento Cavalleggeri di Lodi e precisamente al suo Squadrone Contraereo, al suo 2° Squadrone Motociclisti e del suo 1° Squadrone Autoblindo) e 100 tedeschi (2 ufficiali, 9 sottufficiali e 89 graduati e soldati) di passaggio, la Valfiorita (comandante civile capitano Giovanni Salata, comandante militare capitano di corvetta Giuseppe Folli) partì da Taranto alle 15.10. La scorta era costituita dai cacciatorpediniere Antonio Pigafetta (caposcorta), Camicia Nera e Saetta.
Fino alla sera la navigazione procedette senza problemi, ma intorno a mezzanotte venne dato l’allarme aereo, e diversi bengala iniziarono ad accendersi attorno al convoglio.
Gli attaccanti erano quattro Vickers Wellington del 69th Squadron della Royal Air Force, due dei quali carichi di bombe mentre gli altri due portavano dei siluri. A segnalar loro la posizione del convoglio era stato un Supermarine Spitfire da ricognizione a lunga autonomia, che a sua volta aveva trovato le navi italiane in base alle informazioni fornite da “ULTRA”, che dalle sue decrittazioni aveva avvisato che la Valfiorita era partita per Bengasi.
Sulla Valfiorita, che era munita anche di un pallone frenato a 450 metri per ostacolare gli aerei attaccanti, venne messo in funzione l’impianto nebbiogeno, ma la reazione contraerea delle unità del convoglio – sia il mercantile che la scorta – non riuscì ad essere efficace, perché l’attacco, che colse tutti di sorpresa, fu fulmineo e preciso: i Wellington attaccarono planando a motore spento da 1370 metri di quota, ed una bomba da 1000 libbre cadde meno di 140 metri a poppavia della Valfiorita. Uno degli aerosiluranti, essendo la motonave troppo poco illuminata (grazie probabilmente all’impianto nebbiogeno), non riuscì ad attaccare, ma poco dopo il secondo Wellington silurante (l’HX605/L del sottotenente W. H. Matthews), volando a bassissima quota,  sganciò il suo siluro da 640 metri.
L’arma colpì la Valfiorita nella stiva numero 5, a poppa, facendo levare una fiammata rossastra ed aprendo una grossa falla attraverso cui l’acqua allagò le stive 5 e 6.
Mentre l’aereo di Matthews si allontanava, il tiro delle armi contraeree riuscì a colpirlo, ferendo un membro dell’equipaggio e danneggiando il velivolo tanto da costringerlo ad un atterraggio d’emergenza a Luqa.
Sulla Valfiorita 13 civili, tra cui un ufficiale dell’equipaggio, e 17 militari, pensando che la nave sarebbe affondata, senza aver ricevuto alcun ordine del comandante s’imbarcarono su una scialuppa che tentarono di calare, con il solo risultato del capovolgimento dell’imbarcazione, i cui occupanti caddero in mare. 29 uomini poterono essere recuperati, ma due civili, il membro dell’equipaggio Filippo Sciacca, genovese di 50 anni, e l’operaio della Franco Tosi Carlo Marini, legnanese di 38 anni, risultarono dispersi. Un altro membro dell’equipaggio, l’ufficiale Santino Cuce, rimase ferito.
A seguito del siluramento anche l’apparato fumogeno della nave rimase danneggiato, e smise di emettere nebbia artificiale, cominciando invece a perdere goccioline di cloro che bruciavano la stoffa e la pelle: prima dell’arrivo a Corfù, molti degli uomini imbarcati sulla motonave si sarebbero ritrovati con gli indumenti sforacchiati e la pelle delle zone scoperte coperta da piccole pustole, simili a quelle del vaiolo.
L’allagamento si estese anche alla galleria dell’asse dell’elica, ma la Valfiorita, nave moderna e robusta, resistette. Il mattino del 4 ottobre la motonave riuscì a rifugiare a Corfù con i propri mezzi: qui fu portata all’incaglio ad una ventina di metri dalla costa, restando con la prua più alta del normale e la poppa appena un metro al disopra della superficie del mare.

I militari del Reggimento Cavalleggeri di Lodi vennero sbarcati e si accamparono presso il vicino villaggio di Potamòs, dove stazionarono per diverse settimane, temporaneamente aggregati alla Divisione Acqui, di presidio a Corfù. Piloti ed autisti tornavano ogni mattino a bordo della Valfiorita per fare manutenzione ai mezzi imbarcati in coperta, senza però poter scendere nelle stive. Mentre i militari italiani ricevevano regolarmente pasti caldi, la popolazione di Potamòs, in condizioni di estrema povertà, soffriva di gravissima carenza di cibo, tanto da affollarsi spesso intorno alle mense dei militari italiani, che solitamente davano loro qualcosa da mangiare.
Il 2 novembre giunse a Potamòs la moderna motonave D’Annunzio, inviata a recuperare uomini e mezzi dei Cavalleggeri di Lodi bloccati a Corfù (si trattava, oltre agli uomini, di otto mitragliere contraeree da 20 mm dello Squadrone Contraerei e di 17 autoblindo Fiat-Ansaldo AB41 del 1° Squadrone Autoblindo). Le operazioni di trasbordo dei veicoli e materiali imbarcati sulla Valfiorita, sotto la direzione del tenente Vittorio Mangano, richiesero due giorni, dopo di che la D’Annunzio ripartì verso Tripoli il 4 novembre, di notte. La nave avrebbe raggiunto la sua destinazione dopo mille peripezie, ma non avrebbe mai più fatto ritorno.

La Valfiorita rimase immobilizzata a Corfù sino al 25 novembre, quando, ultimate delle riparazioni provvisorie, ripartì a bassa velocità alla volta di Taranto, dove giunse l’indomani. La nave rimase poi nella rada di Taranto fino al 1° dicembre, quando fu immessa in bacino per lavori di riparazione più estesi, che si protrassero sino alla metà del 1943.

L’affondamento

A fine giugno 1943 la Valfiorita, completate le riparazioni, ultimò anche le prove in mare e tornò in servizio.
Mentre la motonave si trovava in riparazione, la campagna d’Africa era volta drammaticamente al termine: prima la Libia e poi, nel maggio 1943, la Tunisia erano cadute in mano alleata. Ora sarebbe toccato all’Italia: i comandi italiani ritenevano correttamente probabile che la Sicilia sarebbe stata il teatro dell’inizio dell’invasione.
La Valfiorita, pertanto, si preparò a partire per Messina e poi Palermo, dove avrebbe dovuto trasportare rifornimenti per rinforzare le difese dell’isola.
Il 27 giugno il comandante civile della motonave, che era ancora il capitano di lungo corso Giovanni Salata, chiese urgentemente all’Ufficio Tecnico del Genio Navale di inviare del materiale che ancora mancava, ed il 2 luglio reiterò la richiesta, specie delle 55 bombole di anidride carbonica dell’impianto antincendio, che erano state sbarcate per essere ricaricate dopo il siluramento dell’ottobre 1942 e non erano più state restituite. Ne furono inviate dieci, ma il 7 luglio il tenente di vascello Giuseppe Strafforello, nuovo comandante militare della Valfiorita (il capitano di corvetta Folli era stato destinato al comando della torpediniera Lupo e vi aveva trovato la morte in combattimento nel dicembre 1942), dovette lamentare allo Stato Maggiore che le dieci bombole mandate erano inadatte all’impianto della Valfiorita, e che, come già aveva comunicato il comandante Salata il 2 luglio, non c’erano altri mezzi antincendio a bordo della nave.
Finì così che quando, alle 21.17 del 7 luglio 1943, la motonave salpò da Taranto alla volta di Messina, lo fece sprovvista di qualsiasi mezzo per domare o contenere un incendio in caso di attacco, nonostante il carico, in tutto 4115 tonnellate di rifornimenti, comprendesse munizioni e 450 tonnellate di gasolio in fusti (nonché provviste, autocarri – tra cui FIAT 626 –, autoblindo, autovetture – comprese FIAT 1100 e 1500 – e motociclette). L’equipaggio civile era composto da 45 uomini, mentre tra equipaggio militare e truppe dirette in Sicilia (militari italiani, compresi numerosi bersaglieri, e tedeschi) c’erano a bordo 193 militari. Alle 14.35 dell’8 luglio, mentre lo Stato Maggiore chiedeva a Navalgenio perché le bombole (che erano state spedite dalla Franco Tosi alla ditta genovese SELP il 14 aprile e che erano pronte per essere spedite già dal 20 maggio, ma erano state spedite solo il 18 giugno dopo tre solleciti – il 20 e 30 maggio e l’8 giugno – a Navalgenio Genova) ed i relativi raccordi non fossero stati inviati alla Valfiorita, la nave giunse a Messina.
Alle 20.48 la Valfiorita lasciò Messina diretta a Palermo, scortata dalla moderna torpediniera di scorta Ardimentoso. Dopo aver percorso mezzo miglio, il convoglio, che procedeva a 12 nodi, doppiò Capo Faro ed assunse la rotta verso Palermo.

Alle 22.29, però, il sommergibile britannico Ultor, al comando del tenente di vascello George Edward Hunt, avvistò la Valfiorita e l’Ardimentoso in navigazione verso sud a 7300 metri di distanza ed accostò per attaccare, restando in superficie. Alle 22.44, nel punto 38°18'5" N e 15°24' E (al largo di Capo Rasocolmo, sulla costa siciliana), l’Ultor lanciò quattro siluri da 1460 metri, mirando alla motonave, iniziando ad immergersi subito dopo il lancio del primo siluro.
Alle 22.45, ad otto miglia per 240° da Capo Milazzo (ed al largo di Mortelle), la Valfiorita fu colpita da due dei siluri in rapida successione: il primo centrò la Valfiorita in sala macchine, che fu allagata e distrutta, il secondo nella stiva numero 4 (od a poppavia di essa), sul lato sinistro. Le detonazioni dei siluri scatenarono un furioso incendio, che si estese in breve tempo alle sovrastrutture e fece esplodere le riservette di munizioni situate nel cassero centrale, per poi avvolgere la plancia e minacciare di estendersi verso poppa. Mancando totalmente mezzi antincendio, nonostante i disperati sforzi dell’equipaggio, che tentò di salvare la nave a rischio della propria vita, non ci fu nulla da fare per contenere le fiamme.
Mentre sulla Valfiorita si combatteva una battaglia persa, l’Ardimentoso, che non era riuscita ad individuare l’Ultor, gettò delle cariche di profondità a mero scopo intimidatorio (oltre trenta bombe di profondità a partire dalle 22.56 e per più di un’ora; nessuna di esse esplose vicina al sommergibile).
Alle 23, dato che le 450 tonnellate di gasolio del carico erano state raggiunte dalle fiamme ed avevano preso a loro volta fuoco, alimentando il gigantesco incendio, che divampava sempre più violento ed incontrollabile, il comandante militare Strafforello, dopo essersi consultato con il comandante civile Salata, dovette ordinare di abbandonare la nave.
Le lance numero 2 e 4 erano state distrutte dalle esplosioni, quindi poterono essere calate solo le numero 1 e 3, oltre a cinque zattere di salvataggio (due a prua e tre a poppa) ed a tutti gli zatterini De Bonis situati in coperta. L’abbandono della nave avvenne in modo ordinato.

I comandanti civile e militare Salata e Strafforello distrussero l’archivio segreto e verificarono che a bordo non fosse rimasto nessuno, poi abbandonarono la nave per ultimi, alle 23.20. Per il tenente di vascello Strafforello era la terza volta: era già stato “affondato” sulla motonave Manzoni, affondata da aerosiluranti meno di cinque mesi prima, e nel 1940 sulla corazzata Conte di Cavour durante la tristemente nota “notte di Taranto”.
Cinque minuti più tardi lasciarono Messina le moderne corvette Camoscio e Gabbiano, per localizzare e distruggere l’Ultor.
Nel frattempo l’Ardimentoso aveva cominciato il salvataggio dei superstiti, dovendosi però tenere a distanza di sicurezza dalla Valfiorita, dove le fiamme continuavano a far esplodere le munizioni presenti a bordo. La corrente stava portando la motonave verso la costa, e l’Ardimentoso domandò che il faro di Capo Rasocolmo venisse acceso per fungere da riferimento ottico.
Alle 00.45 Marina Messina domandò se occorresse un rimorchiatore, provvedendo frattanto ad inviare sul luogo del siluramento due dragamine della XXIV Squadriglia di Milazzo.
All’una di notte la Valfiorita galleggiava ancora, continuando a bruciare, ed alle due l’Ardimentoso comunicò che la motonave si era incagliata e che l’Ardimentoso stessa si sarebbe trattenuta sul luogo per recuperare i naufraghi. Durante la notte le luci dell’incendio della Valfiorita, i razzi lanciati e l’andirivieni delle navi coinvolte fu notato anche dal sommergibile britannico Unruly, in agguato poco lontano.
Il salvataggio dei superstiti da parte dell’Ardimentoso fu ultimato alle 5.35, dopo di che fu lasciato sul luogo un dragamine. (Secondo altra fonte, il comandante militare Strafforello ed altri naufraghi rimasero in acqua per tutta la notte e fino a giorno fatto, quando furono recuperati da un MAS uscito da Messina). Quando alla fine sopraggiunse il rimorchiatore Littorio, era ormai troppo tardi per tentare il rimorchio della Valfiorita. Il relitto combusto della motonave affondò intorno a mezzogiorno del 9 luglio 1943, nel punto approssimato 38°18’ N e 15°27’ E, ad otto miglia da Capo Milazzo.
Il comportamento degli ufficiali (specie dei comandanti Salata e Strafforello) e dell’equipaggio, sia per lo svolgimento dell’abbandono della nave che per il soccorso ai feriti ed ai compagni, fu valutato come lodevole. Furono elogiati per essersi prodigati nei soccorsi, con sprezzo del pericolo e senso del dovere, i comandanti Salata e Strafforello, il direttore di macchina Lino Pegazzano (che si recò in sala macchine quando questa fu colpita dai siluri, rimase gravemente ustionato e morì in ospedale per le ustioni riportate), il primo ufficiale Amedeo Astarita, il secondo ufficiale Antonio Gecchi, il terzo ufficiale Pasquale Pezzolla, il primo macchinista Pietro Cozzo, il secondo macchinista Antonio Collu, i sottotenenti d’artiglieria Paolo Capozzi ed Adelmo Gionfra, il capitano del Genio Giuseppe Buonaiuto, il sottotenente autiere Domenico Morelli, il secondo capo segnalatore Giovanni Podestà, il sergente segnalatore Giuseppe Ruggieri, il sergente artigliere Fiorenzo Ferrari ed il caporale maggiore artigliere Bruni Parri.
Su 45 civili e 22 militari (18 italiani e 4 tedeschi) che componevano l’equipaggio della Valfiorita, 13 civili persero la vita (dodici – soprattutto del personale di macchina – risultarono dispersi ed il direttore di macchina Pegazzano morì in ospedale) e 11 militari (7 italiani e 4 tedeschi) rimasero feriti. Questi ultimi furono ricoverati presso l’Ospedale Militare Marittimo «Regina Margherita» di Messina.
Secondo i diari di Supermarina, l'Ardimentoso recuperò 115 sopravvissuti, mentre altri cinque o sei raggiunsero la costa su una scialuppa; il rapporto dell'Ardimentoso, consultato dal ricercatore Platon Alexiades, riporta invece il numero complessivo di 128 superstiti.

Due giorni dopo le forze angloamericane sbarcavano in Sicilia.


Morti nell’affondamento:

Mario Amici, bersagliere, 20 anni, da Castellarano (disperso)
Gaetano Aprile, elettricista, 43 anni, da Brindisi (disperso)
Angelo Avenoso, motorista, 28 anni, da Legnano (disperso)
Guido Boriani, operaio meccanico, 44 anni, da Ancona (disperso)
Giovanni (o Domenico) Carretto, fuochista, 36 anni, da Savona (disperso)
Gerolamo Diodicibus, operaio meccanico, 46 anni, da Brindisi (disperso)
Roberto Ferruzzi, primo cuoco, 25 anni, da Genova (disperso)
Antonio Guidacciolu, secondo cuoco, 39 anni, da Genova (disperso)
Giuseppe Lacchè, marinaio, 43 anni, da Ancona (disperso)
Ferdinando Orpello, marinaio, 27 anni, da Torre del Greco (disperso)
Giorgio Panico, capo fuochista, 36 anni, da Brindisi (disperso)
Lino Pegazzano, direttore di macchina, 44 anni, da La Spezia (deceduto in ospedale)
Giacomo Tranchina, panettiere, 29 anni, da Palermo (disperso)
Angelo Vallone, fuochista, 35 anni, da Genova (disperso)


Il relitto della Valfiorita giace oggi spezzato in due sul fondale sabbioso nel punto 38°16’,938 N e 015°37’,234 E. Il troncone centro-poppiero (consistente nei tre quarti della nave) giace in assetto di navigazione ad una profondità compresa tra i 62 ed i 72 metri, con le sovrastrutture superiori che arrivano sino a 38 metri sotto la superficie. L’elica non c’è più, rimossa da ignoti. La stiva numero 7 (la più poppiera) contiene ancor oggi munizioni, le stive 5 e 6 automezzi di vario genere (autocarri FIAT 626, motociclette Moto Guzzi Trialce e berline Fiat 1500 C), mentre la stiva 4 non esiste più, trovandosi nel punto di rottura dello scafo. In corrispondenza della stiva 5, poco a poppavia dell’estremità del cassero, lo scafo presenta un foro che interessa lo scafo esterno, mentre quello interno risulta deformato ma non perforato. A proravia del cassero e della sala macchine un netto taglio verticale segna il punto in cui la nave si spezzò in due.
Il troncone prodiero giace invece adagiato sul lato sinistro, orientato verso nordovest, a 65-70 metri di profondità. La stiva numero 1 (la più prodiera) contiene munizioni, le stive 2 e 3 derrate.

La campana della Valfiorita (in ghisa, recanti le parole «Valfiorita – 1942 – XX»), che giaceva sul fondale vicino al relitto, è stata recuperata il 3 luglio 2007 da un gruppo di subacquei della GUE in collaborazione con la Soprintendenza del Mare della Regione Sicilia, ed esposta presso la Capitaneria di porto di Messina.


Il siluramento della Valfiorita nel giornale di bordo dell’Ultor (da Uboat.net):

“At 2229 hours  a large merchant ship escorted by a destroyer was sighted at a range of 8000 yards. Lt. Hunt altered course to attack.
At 2244 hours four torpedoes were fired at the 5000/6000 ton merchant vessel from 1600 yards. Three torpedoes are thought to have hit the target. After firing the first torpedo Ultor began to dive.
At 2256 hours the first depth charges were dropped. For over an hour more than 30 depth charges were dropped but none were close.”


Informazioni sulla Valfiorita e sualtre motonavi coeve su Warsailors

9 commenti:

  1. Sono pronipote del direttore di macchina Lino Pegazzano. La ringrazio per questa pagina ricca di informazioni, che rende onore anche al sacrificio del mio congiunto. La mia famiglia ha avuto caduti nella prima guerra mondiale (Antonio Pegazzano, fratello di Lino, tenente artigliere, morto ad Oppacchiasella, sul Carso, a 24 anni, del quale ho recentemente pubblicato il diario di guerra) e nella seconda guerra mondiale (oltre a Lino, anche Alessandro Polito, suo nipote, morto a Cefalonia a 24 anni). Grazie! Paola Polito

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  2. sono il figlio del 3 ufficiale Pezzolla,imbarcato sul Valfiorita; molte volte mio padre mi ha raccontato di questo siluramento nel quale è rimasto coinvolto, storie di altri tempi e di grandi uomini!!

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  3. Sono di Torre del Greco e conosco un Ferdinando Orpello, omonimo del marinaio da voi indicato come disperso nell'affondamento, ma del quale non trovo nominativo nella banca dati dei caduti del Ministero della Difesa.Vorrei sapere se la fonte delle preziose informazioni che fornite è la stessa della banca dati. Grazie per il vostro lavoro.

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    1. Buongiorno, il nome di Ferdinando Orpello, e degli altri dispersi, li ho trovati in questo documento: https://issuu.com/simona.ratti/docs/ecosferarelittovalfiorita_relazione
      Egli non figura nella banca dati di Onorcaduti, probabilmente, perché non era un militare (marinaio della Marina Mercantile, risultava come civile) e la banca dati contiene solo notizie sui caduti militari.

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  4. Sono il figlio del sottotenente Domenico Morelli (erroneamente indicato come Norelli) autiere inbarcato con un convoglio di ambulanze, naufrago per tutta la notte e salvo grazie ad un salvagente che lo accompagnava sempre sulla nave. Ho ancora la chiave in ottone della cabina che occupava.

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    1. Buongiorno, potrebbe contattarmi? Hp informazioni interessanti a riguardo che vorrei condividere con lei. La mia mail è francescafrisone@yahoo.it

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  5. Sono Patrizio Amici, nipote del bersagliere Mario Amici, risultato disperso a seguito dell'affondamento del Val Fiorita, come da documenti ufficiali che conservo in casa.
    Mi sorprende non trovare il suo nome nelle cronache, a cosa può essere dovuto?

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    1. Buongiorno,
      è perché conosco soltanto i nomi delle vittime tra l'equipaggio, e non anche quelli dei militari imbarcati di passaggio. Ho provveduto ad aggiungere il nome di Mario Amici.

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