La
Valfiorita in costruzione (g.c. Mauro
Millefiorini)
|
Motonave da carico da 6200 tsl, lunga 144,47 metri e larga 18,65, con
velocità di 14-15 nodi. Appartenente alla Industrie Navali Società Anonima
(INSA), con sede a Genova. Matricola 2345 al Compartimento Marittimo di Genova,
formava una classe di quattro motonavi gemelle insieme ad Ombrina, Sises e Sestriere.
Breve e parziale
cronologia.
1939
Impostata nei cantieri Franco Tosi di Taranto (numero di cantiere 82).
5 luglio 1942
Varata nei cantieri Franco Tosi di Taranto. La difficoltà nel procurare
le attrezzature ed i materiali necessari alla costruzione, unitamente ad altri
problemi causati dalla guerra, hanno fatto slittare la data del suo
completamento, inizialmente prevista proprio per il mese di luglio 1942.
Compie poi le prove di navigazione.
25 agosto 1942
Completata per la Industrie Navali Società Anonima.
17 settembre 1942
Come tutte le moderne motonavi di nuova costruzione, la Valfiorita viene requisita a Taranto dalla
Regia Marina (senza essere iscritta nel ruolo del naviglio ausiliario dello
Stato), per essere adibita al trasporto di rifornimenti in Africa
Settentrionale.
Viene allo scopo armata con un cannone da 120/45 mm e tre mitragliere
contraeree Oerlikon da 20 mm. Vengono imbarcati 7200 proiettili da 20 mm (2400
per ogni mitragliera), un telemetro, due binocoli, due pistole da 7,65 mm, otto
moschetti da 6,5 mm e sedici elmetti.
In funzione di difesa passiva, per ostacolare la localizzazione della Valfiorita da parte di unità nemiche, viene
installato anche un impianto nebbiogeno a cloridrina.
Aerosiluranti
Il 20 settembre 1942 la Valfiorita
iniziò a caricare a Taranto rifornimenti per le forze italo-tedesche, che
avrebbe dovuto trasportare a Bengasi nel suo primo viaggio. Vennero imbarcate
in tutto 4171 tonnellate di carico, che comprendevano 77 veicoli italiani, 206
motociclette italiane, 95 veicoli tedeschi (moto comprese), 16 cannoni e 14
autovetture. Le operazioni di carico si protrassero per una settimana.
Il 3 ottobre, dopo aver imbarcato, oltre alle 4171 tonnellate di carico
ed a 97 uomini di equipaggio (48 civili, tra cui 3 operai della Franco Tosi di
Legnano, azienda produttrice dei motori, e 49 militari della Regia Marina),
anche 110 militari italiani (4 ufficiali, 4 sottufficiali e 102 graduati e
soldati, appartenenti al Reggimento Cavalleggeri di Lodi e precisamente al suo
Squadrone Contraereo, al suo 2° Squadrone Motociclisti e del suo 1° Squadrone
Autoblindo) e 100 tedeschi (2 ufficiali, 9 sottufficiali e 89 graduati e
soldati) di passaggio, la Valfiorita
(comandante civile capitano Giovanni Salata, comandante militare capitano di
corvetta Giuseppe Folli) partì da Taranto alle 15.10. La scorta era costituita
dai cacciatorpediniere Antonio Pigafetta
(caposcorta), Camicia Nera e Saetta.
Fino alla sera la navigazione procedette senza problemi, ma intorno a
mezzanotte venne dato l’allarme aereo, e diversi bengala iniziarono ad
accendersi attorno al convoglio.
Gli attaccanti erano quattro Vickers Wellington del 69th
Squadron della Royal Air Force, due dei quali carichi di bombe mentre gli altri
due portavano dei siluri. A segnalar loro la posizione del convoglio era stato
un Supermarine Spitfire da ricognizione a lunga autonomia, che a sua volta
aveva trovato le navi italiane in base alle informazioni fornite da “ULTRA”,
che dalle sue decrittazioni aveva avvisato che la Valfiorita era partita per Bengasi.
Sulla Valfiorita, che era
munita anche di un pallone frenato a 450 metri per ostacolare gli aerei attaccanti,
venne messo in funzione l’impianto nebbiogeno, ma la reazione contraerea delle
unità del convoglio – sia il mercantile che la scorta – non riuscì ad essere
efficace, perché l’attacco, che colse tutti di sorpresa, fu fulmineo e preciso:
i Wellington attaccarono planando a motore spento da 1370 metri di quota, ed
una bomba da 1000 libbre cadde meno di 140 metri a poppavia della Valfiorita. Uno degli aerosiluranti,
essendo la motonave troppo poco illuminata (grazie probabilmente all’impianto
nebbiogeno), non riuscì ad attaccare, ma poco dopo il secondo Wellington
silurante (l’HX605/L del sottotenente W. H. Matthews), volando a bassissima
quota, sganciò il suo siluro da 640
metri.
L’arma colpì la Valfiorita
nella stiva numero 5, a poppa, facendo levare una fiammata rossastra ed aprendo
una grossa falla attraverso cui l’acqua allagò le stive 5 e 6.
Mentre l’aereo di Matthews si allontanava, il tiro delle armi
contraeree riuscì a colpirlo, ferendo un membro dell’equipaggio e danneggiando
il velivolo tanto da costringerlo ad un atterraggio d’emergenza a Luqa.
Sulla Valfiorita 13 civili,
tra cui un ufficiale dell’equipaggio, e 17 militari, pensando che la nave
sarebbe affondata, senza aver ricevuto alcun ordine del comandante
s’imbarcarono su una scialuppa che tentarono di calare, con il solo risultato
del capovolgimento dell’imbarcazione, i cui occupanti caddero in mare. 29
uomini poterono essere recuperati, ma due civili, il membro dell’equipaggio
Filippo Sciacca, genovese di 50 anni, e l’operaio della Franco Tosi Carlo
Marini, legnanese di 38 anni, risultarono dispersi. Un altro membro
dell’equipaggio, l’ufficiale Santino Cuce, rimase ferito.
A seguito del siluramento anche l’apparato fumogeno della nave rimase
danneggiato, e smise di emettere nebbia artificiale, cominciando invece a
perdere goccioline di cloro che bruciavano la stoffa e la pelle: prima
dell’arrivo a Corfù, molti degli uomini imbarcati sulla motonave si sarebbero
ritrovati con gli indumenti sforacchiati e la pelle delle zone scoperte coperta
da piccole pustole, simili a quelle del vaiolo.
L’allagamento si estese anche alla galleria dell’asse dell’elica, ma la
Valfiorita, nave moderna e robusta,
resistette. Il mattino del 4 ottobre la motonave riuscì a rifugiare a Corfù con
i propri mezzi: qui fu portata all’incaglio ad una ventina di metri dalla
costa, restando con la prua più alta del normale e la poppa appena un metro al
disopra della superficie del mare.
I militari del Reggimento Cavalleggeri di Lodi vennero sbarcati e si
accamparono presso il vicino villaggio di Potamòs, dove stazionarono per
diverse settimane, temporaneamente aggregati alla Divisione Acqui, di presidio
a Corfù. Piloti ed autisti tornavano ogni mattino a bordo della Valfiorita per fare manutenzione ai
mezzi imbarcati in coperta, senza però poter scendere nelle stive. Mentre i
militari italiani ricevevano regolarmente pasti caldi, la popolazione di
Potamòs, in condizioni di estrema povertà, soffriva di gravissima carenza di
cibo, tanto da affollarsi spesso intorno alle mense dei militari italiani, che
solitamente davano loro qualcosa da mangiare.
Il 2 novembre giunse a Potamòs la moderna motonave D’Annunzio, inviata a recuperare uomini e mezzi dei Cavalleggeri di
Lodi bloccati a Corfù (si trattava, oltre agli uomini, di otto mitragliere
contraeree da 20 mm dello Squadrone Contraerei e di 17 autoblindo Fiat-Ansaldo
AB41 del 1° Squadrone Autoblindo). Le operazioni di trasbordo dei veicoli e
materiali imbarcati sulla Valfiorita,
sotto la direzione del tenente Vittorio Mangano, richiesero due giorni, dopo di
che la D’Annunzio ripartì verso
Tripoli il 4 novembre, di notte. La nave avrebbe raggiunto la sua destinazione
dopo mille peripezie, ma non avrebbe mai più fatto ritorno.
La Valfiorita rimase
immobilizzata a Corfù sino al 25 novembre, quando, ultimate delle riparazioni
provvisorie, ripartì a bassa velocità alla volta di Taranto, dove giunse
l’indomani. La nave rimase poi nella rada di Taranto fino al 1° dicembre,
quando fu immessa in bacino per lavori di riparazione più estesi, che si
protrassero sino alla metà del 1943.
L’affondamento
A fine giugno 1943 la Valfiorita,
completate le riparazioni, ultimò anche le prove in mare e tornò in servizio.
Mentre la motonave si trovava in riparazione, la campagna d’Africa era
volta drammaticamente al termine: prima la Libia e poi, nel maggio 1943, la
Tunisia erano cadute in mano alleata. Ora sarebbe toccato all’Italia: i comandi
italiani ritenevano correttamente probabile che la Sicilia sarebbe stata il
teatro dell’inizio dell’invasione.
La Valfiorita, pertanto, si
preparò a partire per Messina e poi Palermo, dove avrebbe dovuto trasportare
rifornimenti per rinforzare le difese dell’isola.
Il 27 giugno il comandante civile della motonave, che era ancora il
capitano di lungo corso Giovanni Salata, chiese urgentemente all’Ufficio
Tecnico del Genio Navale di inviare del materiale che ancora mancava, ed il 2
luglio reiterò la richiesta, specie delle 55 bombole di anidride carbonica
dell’impianto antincendio, che erano state sbarcate per essere ricaricate dopo
il siluramento dell’ottobre 1942 e non erano più state restituite. Ne furono
inviate dieci, ma il 7 luglio il tenente di vascello Giuseppe Strafforello,
nuovo comandante militare della Valfiorita
(il capitano di corvetta Folli era stato destinato al comando della
torpediniera Lupo e vi aveva trovato
la morte in combattimento nel dicembre 1942), dovette lamentare allo Stato
Maggiore che le dieci bombole mandate erano inadatte all’impianto della Valfiorita, e che, come già aveva
comunicato il comandante Salata il 2 luglio, non c’erano altri mezzi
antincendio a bordo della nave.
Finì così che quando, alle 21.17 del 7 luglio 1943, la motonave salpò
da Taranto alla volta di Messina, lo fece sprovvista di qualsiasi mezzo per
domare o contenere un incendio in caso di attacco, nonostante il carico, in
tutto 4115 tonnellate di rifornimenti, comprendesse munizioni e 450 tonnellate
di gasolio in fusti (nonché provviste, autocarri – tra cui FIAT 626 –, autoblindo,
autovetture – comprese FIAT 1100 e 1500 – e motociclette). L’equipaggio civile
era composto da 45 uomini, mentre tra equipaggio militare e truppe dirette in
Sicilia (militari italiani, compresi numerosi bersaglieri, e tedeschi) c’erano
a bordo 193 militari. Alle 14.35 dell’8 luglio, mentre lo Stato Maggiore
chiedeva a Navalgenio perché le bombole (che erano state spedite dalla Franco
Tosi alla ditta genovese SELP il 14 aprile e che erano pronte per essere
spedite già dal 20 maggio, ma erano state spedite solo il 18 giugno dopo tre
solleciti – il 20 e 30 maggio e l’8 giugno – a Navalgenio Genova) ed i relativi
raccordi non fossero stati inviati alla Valfiorita,
la nave giunse a Messina.
Alle 20.48 la Valfiorita
lasciò Messina diretta a Palermo, scortata dalla moderna torpediniera di scorta
Ardimentoso. Dopo aver percorso mezzo
miglio, il convoglio, che procedeva a 12 nodi, doppiò Capo Faro ed assunse la
rotta verso Palermo.
Alle 22.29, però, il sommergibile britannico Ultor, al comando del tenente di vascello George Edward Hunt,
avvistò la Valfiorita e l’Ardimentoso in navigazione verso sud a
7300 metri di distanza ed accostò per attaccare, restando in superficie. Alle
22.44, nel punto 38°18'5" N e 15°24' E (al largo di Capo Rasocolmo, sulla
costa siciliana), l’Ultor lanciò
quattro siluri da 1460 metri, mirando alla motonave, iniziando ad immergersi
subito dopo il lancio del primo siluro.
Alle 22.45, ad otto miglia per 240° da Capo Milazzo (ed al largo di
Mortelle), la Valfiorita fu colpita
da due dei siluri in rapida successione: il primo centrò la Valfiorita in sala macchine, che fu
allagata e distrutta, il secondo nella stiva numero 4 (od a poppavia di essa),
sul lato sinistro. Le detonazioni dei siluri scatenarono un furioso incendio,
che si estese in breve tempo alle sovrastrutture e fece esplodere le riservette
di munizioni situate nel cassero centrale, per poi avvolgere la plancia e
minacciare di estendersi verso poppa. Mancando totalmente mezzi antincendio, nonostante
i disperati sforzi dell’equipaggio, che tentò di salvare la nave a rischio
della propria vita, non ci fu nulla da fare per contenere le fiamme.
Mentre sulla Valfiorita si
combatteva una battaglia persa, l’Ardimentoso,
che non era riuscita ad individuare l’Ultor,
gettò delle cariche di profondità a mero scopo intimidatorio (oltre trenta
bombe di profondità a partire dalle 22.56 e per più di un’ora; nessuna di esse
esplose vicina al sommergibile).
Alle 23, dato che le 450 tonnellate di gasolio del carico erano state
raggiunte dalle fiamme ed avevano preso a loro volta fuoco, alimentando il
gigantesco incendio, che divampava sempre più violento ed incontrollabile, il
comandante militare Strafforello, dopo essersi consultato con il comandante
civile Salata, dovette ordinare di abbandonare la nave.
Le lance numero 2 e 4 erano state distrutte dalle esplosioni, quindi
poterono essere calate solo le numero 1 e 3, oltre a cinque zattere di
salvataggio (due a prua e tre a poppa) ed a tutti gli zatterini De Bonis
situati in coperta. L’abbandono della nave avvenne in modo ordinato.
I comandanti civile e militare Salata e Strafforello distrussero
l’archivio segreto e verificarono che a bordo non fosse rimasto nessuno, poi
abbandonarono la nave per ultimi, alle 23.20. Per il tenente di vascello
Strafforello era la terza volta: era già stato “affondato” sulla motonave Manzoni, affondata da aerosiluranti meno
di cinque mesi prima, e nel 1940 sulla corazzata Conte di Cavour durante la tristemente nota “notte di Taranto”.
Cinque minuti più tardi lasciarono Messina le moderne corvette Camoscio e Gabbiano, per localizzare e distruggere l’Ultor.
Nel frattempo l’Ardimentoso
aveva cominciato il salvataggio dei superstiti, dovendosi però tenere a
distanza di sicurezza dalla Valfiorita,
dove le fiamme continuavano a far esplodere le munizioni presenti a bordo. La corrente
stava portando la motonave verso la costa, e l’Ardimentoso domandò che il faro di Capo Rasocolmo venisse acceso
per fungere da riferimento ottico.
Alle 00.45 Marina Messina domandò se occorresse un rimorchiatore,
provvedendo frattanto ad inviare sul luogo del siluramento due dragamine della
XXIV Squadriglia di Milazzo.
All’una di notte la Valfiorita
galleggiava ancora, continuando a bruciare, ed alle due l’Ardimentoso comunicò che la motonave si era incagliata e che l’Ardimentoso stessa si sarebbe trattenuta
sul luogo per recuperare i naufraghi. Durante la notte le luci dell’incendio
della Valfiorita, i razzi lanciati e
l’andirivieni delle navi coinvolte fu notato anche dal sommergibile britannico Unruly, in agguato poco lontano.
Il salvataggio dei superstiti da parte dell’Ardimentoso fu ultimato alle 5.35, dopo di che fu lasciato sul
luogo un dragamine. (Secondo altra fonte, il comandante militare Strafforello
ed altri naufraghi rimasero in acqua per tutta la notte e fino a giorno fatto,
quando furono recuperati da un MAS uscito da Messina). Quando alla fine
sopraggiunse il rimorchiatore Littorio,
era ormai troppo tardi per tentare il rimorchio della Valfiorita. Il relitto combusto della motonave affondò intorno a
mezzogiorno del 9 luglio 1943, nel punto approssimato 38°18’ N e 15°27’ E, ad
otto miglia da Capo Milazzo.
Il comportamento degli ufficiali (specie dei comandanti Salata e
Strafforello) e dell’equipaggio, sia per lo svolgimento dell’abbandono della
nave che per il soccorso ai feriti ed ai compagni, fu valutato come lodevole.
Furono elogiati per essersi prodigati nei soccorsi, con sprezzo del pericolo e
senso del dovere, i comandanti Salata e Strafforello, il direttore di macchina
Lino Pegazzano (che si recò in sala macchine quando questa fu colpita dai
siluri, rimase gravemente ustionato e morì in ospedale per le ustioni
riportate), il primo ufficiale Amedeo Astarita, il secondo ufficiale Antonio
Gecchi, il terzo ufficiale Pasquale Pezzolla, il primo macchinista Pietro
Cozzo, il secondo macchinista Antonio Collu, i sottotenenti d’artiglieria Paolo
Capozzi ed Adelmo Gionfra, il capitano del Genio Giuseppe Buonaiuto, il
sottotenente autiere Domenico Morelli, il secondo capo segnalatore Giovanni
Podestà, il sergente segnalatore Giuseppe Ruggieri, il sergente artigliere
Fiorenzo Ferrari ed il caporale maggiore artigliere Bruni Parri.
Su 45 civili e 22 militari (18 italiani e 4 tedeschi) che componevano
l’equipaggio della Valfiorita, 13
civili persero la vita (dodici – soprattutto del personale di macchina –
risultarono dispersi ed il direttore di macchina Pegazzano morì in ospedale) e
11 militari (7 italiani e 4 tedeschi) rimasero feriti. Questi ultimi furono
ricoverati presso l’Ospedale Militare Marittimo «Regina Margherita» di Messina.
Secondo i diari di Supermarina, l'Ardimentoso recuperò 115 sopravvissuti, mentre altri cinque o sei raggiunsero la costa su una scialuppa; il rapporto dell'Ardimentoso, consultato dal ricercatore Platon Alexiades, riporta invece il numero complessivo di 128 superstiti.
Secondo i diari di Supermarina, l'Ardimentoso recuperò 115 sopravvissuti, mentre altri cinque o sei raggiunsero la costa su una scialuppa; il rapporto dell'Ardimentoso, consultato dal ricercatore Platon Alexiades, riporta invece il numero complessivo di 128 superstiti.
Due giorni dopo le forze angloamericane sbarcavano in Sicilia.
Morti
nell’affondamento:
Mario Amici, bersagliere, 20 anni, da Castellarano (disperso)
Gaetano Aprile, elettricista, 43 anni, da Brindisi (disperso)
Gaetano Aprile, elettricista, 43 anni, da Brindisi (disperso)
Angelo Avenoso,
motorista, 28 anni, da Legnano (disperso)
Guido Boriani,
operaio meccanico, 44 anni, da Ancona (disperso)
Giovanni (o
Domenico) Carretto, fuochista, 36 anni, da Savona (disperso)
Gerolamo
Diodicibus, operaio meccanico, 46 anni, da Brindisi (disperso)
Roberto Ferruzzi,
primo cuoco, 25 anni, da Genova (disperso)
Antonio
Guidacciolu, secondo cuoco, 39 anni, da Genova (disperso)
Giuseppe Lacchè,
marinaio, 43 anni, da Ancona (disperso)
Ferdinando
Orpello, marinaio, 27 anni, da Torre del Greco (disperso)
Giorgio Panico,
capo fuochista, 36 anni, da Brindisi (disperso)
Lino Pegazzano,
direttore di macchina, 44 anni, da La Spezia (deceduto in ospedale)
Giacomo Tranchina,
panettiere, 29 anni, da Palermo (disperso)
Angelo Vallone,
fuochista, 35 anni, da Genova (disperso)
Il relitto della Valfiorita
giace oggi spezzato in due sul fondale sabbioso nel punto 38°16’,938 N e
015°37’,234 E. Il troncone centro-poppiero (consistente nei tre quarti della
nave) giace in assetto di navigazione ad una profondità compresa tra i 62 ed i 72
metri, con le sovrastrutture superiori che arrivano sino a 38 metri sotto la
superficie. L’elica non c’è più, rimossa da ignoti. La stiva numero 7 (la più
poppiera) contiene ancor oggi munizioni, le stive 5 e 6 automezzi di vario
genere (autocarri FIAT 626, motociclette Moto Guzzi Trialce e berline Fiat 1500
C), mentre la stiva 4 non esiste più, trovandosi nel punto di rottura dello
scafo. In corrispondenza della stiva 5, poco a poppavia dell’estremità del
cassero, lo scafo presenta un foro che interessa lo scafo esterno, mentre
quello interno risulta deformato ma non perforato. A proravia del cassero e
della sala macchine un netto taglio verticale segna il punto in cui la nave si
spezzò in due.
Il troncone prodiero giace invece adagiato sul lato sinistro, orientato
verso nordovest, a 65-70 metri di profondità. La stiva numero 1 (la più
prodiera) contiene munizioni, le stive 2 e 3 derrate.
La campana della Valfiorita
(in ghisa, recanti le parole «Valfiorita
– 1942 – XX»), che giaceva sul fondale vicino al relitto, è stata recuperata il
3 luglio 2007 da un gruppo di subacquei della GUE in collaborazione con la
Soprintendenza del Mare della Regione Sicilia, ed esposta presso la Capitaneria
di porto di Messina.
Il siluramento della Valfiorita
nel giornale di bordo dell’Ultor (da
Uboat.net):
“At 2229 hours a large merchant
ship escorted by a destroyer was sighted at a range of 8000 yards. Lt. Hunt
altered course to attack.
At 2244 hours four torpedoes were fired at the 5000/6000 ton merchant
vessel from 1600 yards. Three torpedoes are thought to have hit the target.
After firing the first torpedo Ultor
began to dive.
At 2256 hours the first depth charges were dropped. For over an hour
more than 30 depth charges were dropped but none were close.”
Sono pronipote del direttore di macchina Lino Pegazzano. La ringrazio per questa pagina ricca di informazioni, che rende onore anche al sacrificio del mio congiunto. La mia famiglia ha avuto caduti nella prima guerra mondiale (Antonio Pegazzano, fratello di Lino, tenente artigliere, morto ad Oppacchiasella, sul Carso, a 24 anni, del quale ho recentemente pubblicato il diario di guerra) e nella seconda guerra mondiale (oltre a Lino, anche Alessandro Polito, suo nipote, morto a Cefalonia a 24 anni). Grazie! Paola Polito
RispondiEliminasono il figlio del 3 ufficiale Pezzolla,imbarcato sul Valfiorita; molte volte mio padre mi ha raccontato di questo siluramento nel quale è rimasto coinvolto, storie di altri tempi e di grandi uomini!!
RispondiEliminaSono di Torre del Greco e conosco un Ferdinando Orpello, omonimo del marinaio da voi indicato come disperso nell'affondamento, ma del quale non trovo nominativo nella banca dati dei caduti del Ministero della Difesa.Vorrei sapere se la fonte delle preziose informazioni che fornite è la stessa della banca dati. Grazie per il vostro lavoro.
RispondiEliminaBuongiorno, il nome di Ferdinando Orpello, e degli altri dispersi, li ho trovati in questo documento: https://issuu.com/simona.ratti/docs/ecosferarelittovalfiorita_relazione
EliminaEgli non figura nella banca dati di Onorcaduti, probabilmente, perché non era un militare (marinaio della Marina Mercantile, risultava come civile) e la banca dati contiene solo notizie sui caduti militari.
Sono il figlio del sottotenente Domenico Morelli (erroneamente indicato come Norelli) autiere inbarcato con un convoglio di ambulanze, naufrago per tutta la notte e salvo grazie ad un salvagente che lo accompagnava sempre sulla nave. Ho ancora la chiave in ottone della cabina che occupava.
RispondiEliminaBuongiorno, potrebbe contattarmi? Hp informazioni interessanti a riguardo che vorrei condividere con lei. La mia mail è francescafrisone@yahoo.it
EliminaSono Patrizio Amici, nipote del bersagliere Mario Amici, risultato disperso a seguito dell'affondamento del Val Fiorita, come da documenti ufficiali che conservo in casa.
RispondiEliminaMi sorprende non trovare il suo nome nelle cronache, a cosa può essere dovuto?
Buongiorno,
Eliminaè perché conosco soltanto i nomi delle vittime tra l'equipaggio, e non anche quelli dei militari imbarcati di passaggio. Ho provveduto ad aggiungere il nome di Mario Amici.
Grazie.
RispondiElimina