La Paganini (da www.seatheships.co.uk)
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Motonave mista da 2424
(o 2427) tsl, 1421 tsn e 2985 tpl, lunga 85,34-89,61 m, larga 12,19 e pescante
6,4, con velocità massima 13,7 nodi. Appartenente alla Società Anonima di
Navigazione Tirrenia, con sede a Napoli, ed iscritta con matricola 55 al
Compartimento Marittimo di Fiume.
Breve e parziale cronologia.
15 novembre 1927
Impostata nel
Cantiere Navale Triestino di Monfalcone (numero di costruzione 194).
23 luglio 1928
Varata nel Cantiere Navale
Triestino di Monfalcone.
29 settembre 1928
Completata per la
Compagnia Adria Società Anonima di Navigazione, con sede a Fiume. Ha cinque
gemelle: Donizetti, Puccini, Rossini, Verdi, Catalani (la serie «Musicisti»), tutte
destinate ad andare perdute in guerra, tre di esse con fine particolarmente
tragica. Possono trasportare 58 passeggeri più le merci.
21 gennaio 1935
La Paganini, in navigazione alla volta di
Bari al comando del capitano Luciano Abbate, viene avvertita con un
marconigramma che l’idrovolante francese “Normandie”
dell’Air France (pilota Leclair), in volo da Saigon a Marsiglia con scali
intermedi a Corfù e Napoli, è stato costretto ad ammarare nel Mar Ionio in
burrasca, circa 30 miglia a sudovest di Capo Santa Maria di Leuca, a causa di
un’avaria al motore. Essendo la nave più vicina, la Paganini forza i motori e riesce a giungere sul posto
(l’idrovolante, nel frattempo, è stato nuovamente localizzato da velivoli
decollati da Taranto) poco prima del crepuscolo; dopo aver avvertito via radio
le unità militari inviate in soccorso del fatto che effettuerà lei il
salvataggio, la motonave si porta sopravvento, così da porre l’idrovolante al
riparo rispetto alle raffiche di vento, quindi lo aggancia con un doppio cavo e
ne trae in salvo i tre passeggeri (due uomini, tra cui un diplomatico indiano,
ed una donna) e l’equipaggio (il pilota Leclair, il meccanico ed il
marconista), stremati dalle cinque ore passate in balia del mare mosso. Prima
di ripartire rimorchiando il velivolo, la Paganini
fa in tempo anche a recuperare i sacchi postali ed i bagagli, che trasporta poi
a Bari insieme ai naufraghi. Il cedimento delle colonnine prodiere
dell’idrovolante costringerà dopo poco il comandante Abbate, di comune accordo
con il pilota Leclair, ad abbandonare in mare il relitto del “Normandie”, mentre la Paganini raggiungerà Bari con i sei
naufraghi, in ritardo di 19 ore.
Subito dopo l’arrivo,
il Console di Francia ed il comandante della Capitaneria di Porto salgono a
bordo e si complimentano con comandante ed equipaggio per il coraggioso
salvataggio. Il capitano Abbate riceverà dal console francese l’onorificenza di
Cavaliere della Legion d’Onore; dalle autorità italiane, quella di Cavaliere
dell’Ordine della Corona d’Italia; dalla Società Nazionale di Salvamento una
medaglia d’argento, dal Ministero della Marina Mercantile una seconda medaglia
d’argento, nonché lettere di plauso da tutta Europa. I 31 membri
dell’equipaggio della Paganini
riceveranno un premio di 10.000 lire ripartite in base al grado ed al ruolo
avuto nei soccorsi.
La nave con i colori della compagnia
Adria (g.c. Mauro Millefiorini via www.naviearmatori.net)
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1° gennaio 1937
Trasferita alla
società Tirrenia, che ha assorbito la compagnia Adria. Unitamente alle gemelle,
la Paganini, noleggiata dal
Commissariato per la Marina Mercantile (Ministero delle Comunicazioni), presta
servizio sulla linea n. 32
(Fiume-Venezia-Ancona-Bari-Catania-Malta-Messina-Palermo-Napoli-Livorno-Genova-Imperia-Marsiglia-Barcellona-Tarragona-Valencia-Fiume
per totali 3997 miglia nautiche).
10 giugno 1940
L’Italia fa il suo
ingresso nella seconda guerra mondiale; la linea n. 32 viene sospesa e la Paganini viene fermata a Livorno.
La motonave viene poi
noleggiata dal Ministero della Marina (senza essere requisita; altra fonte data
l’inizio del noleggio al maggio 1940, anziché al giugno) per trasportare truppe
in Albania, in previsione dell’invasione della Grecia.
18-26 giugno 1940
Lavori di adattamento
alla mansione di trasporto truppe: nelle stive prodiere e poppiere vengono
sistemate centinaia di cuccette per i soldati; vengono realizzati box per
alloggiare gli animali; poi la nave si trasferisce a Taranto e qui viene armata
con un cannone da 120/45 mm, sistemato a poppa, e due mitragliere contraeree
binate da 13,2 mm, collocate sul cielo della plancia.
Un’altra immagine della Paganini (da www.scubaportal.it) |
Incendio a bordo
Era sorte della Paganini di diventare il primo trasporto
truppe italiano ad affondate nel conflitto con gravi perdite umane: la sua
perdita non sarebbe stata causata dal nemico, ma, a differenza di tanti altri
casi, dalla fatalità.
La sera del 27 giugno
1940, infatti, la motonave, dopo aver imbarcato oltre 900 tra ufficiali,
sottufficiali e soldati italiani (in maggioranza toscani) ed anche alcuni ufficiali
albanesi di ritorno da un periodo di addestramento in una scuola militare
italiana, salpò da Bari diretta a Durazzo, dove le truppe imbarcate avrebbero
dovuto andare a rinforzare i reparti che stavano venendo ammassati in Albania
in vista dell’attacco alla Grecia. Comandava la nave il capitano Marcello
Bulli, giuliano – fiumano, per la precisione – come gran parte dell’equipaggio.
Tra i reparti imbarcati,
oltre al 19° Reggimento Artiglieria, al 7° Reggimento Genio ed all’83° e 84°
Reggimento Fanteria (tutti della Divisione «Venezia»), c’erano anche una
sezione di stampatori dell’Istituto Geofrafico Militare e gruppetti di
bersaglieri, autieri, granatieri, alpini e carabinieri. Non tutti quelli che
erano sulla Paganini avrebbero dovuto
trovarsi a bordo, e non tutti quelli che avrebbero dovuto esserci c’erano.
Quattro soldati di Anghiari, Elio Spartaco Catacchini, Emilio Magrini, Vittorio
Meoni e Dino Pasquale Peluzzi, sarebbero dovuti salire su un’altra nave, ma
durante il tragitto in treno verso Bari scesero ad Arezzo per raggiungere le
proprie case e salutare le famiglie prima di partire. Giunti a Bari in ritardo
per l’imbarco, furono allora fatti salire sulla Paganini, e andarono incontro ad una triste fine. Molto più benigno
fu il caso per cui un altro soldato, fermatosi a comprare delle sigarette,
perse il turno per l’imbarco sulla Paganini
e dovette salire sulla nave successiva, avendo così salva la vita.
Soldati, animali
(muli), armi ed equipaggiamenti (tra cui provviste per i soldati e paglia e
fieno per i muli) erano stati sistemati a bordo alla meglio, anche in coperta.
Non furono fornite istruzioni su cosa fare in caso di abbandono della nave, né
tanto meno effettuate esercitazioni.
In convoglio con la Paganini c’era la gemella Catalani, mentre la scorta era
rappresentata dall’anziana torpediniera Nicola
Fabrizi (tenente di vascello Pietro Frigerio). La Paganini era terza nella linea di fila, in coda alla formazione.
Alle 7.10 (per altre
fonti 6.50) del 28, quando ormai non mancavano che una decina di miglia
all’arrivo a Durazzo, si verificò un’esplosione nella sala macchine della Paganini (per altra fonte nella stiva
numero 2), che fu prontamente riportata da un segnalatore della Fabrizi. Il comandante di quest’ultima,
sulle prime, pensò che la motonave fosse stata silurata, dunque ordinò di
portare le macchine alla massima velocità ed impartì alla Catalani, che intanto aveva accostato per dare assistenza alla
gemella, di rifugiarsi rapidamente nel porto di Durazzo.
Sulla Paganini, dopo l’esplosione scoppiò a
bordo un violento incendio: nonostante gli sforzi dell’equipaggio, in breve le
fiamme sfuggirono ad ogni controllo, divorando la nave metro per metro.
Mentre la Catalani si dirigeva sulla rotta di
sicurezza, guidata dalla motovedetta Caron,
la Fabrizi, avendo verificato
l’assenza di mine o sommergibili nemici, si portò a venti metri dalla prua
della Paganini, dove si era radunata
la maggior parte degli uomini imbarcati; la torpediniera calò in mare la
propria lancia, un battellino e due zatterini Carley. Sulla Paganini si era scatenato il panico, che
aveva frustrato la messa a mare delle lance (in numero comunque insufficiente
per la massa di uomini a bordo): due di esse si erano fracassate nel tentativo
di calarle, le altre erano rimaste sulle morse finché le fiamme non le avevano
raggiunte, avvolte e distrutte. I quasi mille uomini sulla motonave si
trovavano così senza alcuna imbarcazione di salvataggio all’infuori di quelle
messe a mare dalle unità giunte in soccorso. A bordo regnava il caos; i soldati
intasavano le scalette della nave, troppo piccole per consentire il passaggio
di una tale massa di uomini terrorizzati.
I soldati avevano già
iniziato a tuffarsi in mare, ma il vento e la corrente stavano facendo
rapidamente allontanare il trasporto incendiato, facendolo scarrocciare verso i
campi minati, e gli uomini in acqua si stavano allontanando rischiosamente (vi
era mare formato, anche se non particolarmente mosso). In mare c’erano già diverse
chiazze di nafta incendiate, che ustionarono diversi naufraghi; la nafta ancora
presente sulla motonave, d’altra parte, stava alimentando il furioso incendio.
Aldo Piccini, alpino
ventunenne di Sansepolcro, era uscito in coperta perché sotto l’affollamento
era eccessivo. Dopo l’esplosione, non ricordò cosa fosse accaduto, se non che
ad un certo punto si trovò in mare. Vedendo in acqua vicino a lui un palo di
legno, Piccini vi si aggrappò, e dopo di lui altri sei uomini lo imitarono,
attaccandosi tutti allo stesso palo. Piccini avrebbe in seguito ricordato che
“mentre eravamo in balia delle onde, mi pareva d'essere una di quelle formiche
che io da ragazzo mettevo sulle pagliuzze e abbandonavo alla corrente del
ruscello”.
Vasco Cenni, sergente
maggiore, dovette la vita alla sua claustrofobia. Non sopportando gli spazi
chiusi e ristretti, Cenni si trovava anch’egli in coperta quando si verificò lo
scoppio ed ebbe inizio l’incendio: non sapeva nuotare, ma non gli rimase che
affidarsi alla buona sorte e lasciarsi cadere in mare. Sarebbe stato soccorso
grazie all’avvistamento da parte di un aereo, dopo aver passato quattro ore in
acqua aggrappato ad una tavola.
Viaggiavano insieme
sulla Paganini due fratelli di Incisa
in Val d’Arno, Ettore e Riccardo Gargani. Li divise la morte: Ettore fu tra gli
scomparsi, mentre Riccardo riuscì a salvarsi.
La nave in fiamme (USMM, via Cesare Balzi) |
La Fabrizi affiancò la Paganini sul lato dove si erano concentrati più uomini, e
l’equipaggio della torpediniera si prodigò nel recuperare quanti più uomini
possibile. In tutto la torpediniera riuscì a trarre in salvo 437 naufraghi, tra
cui parecchi feriti ed ustionati, anche in modo grave.
Diversi uomini della Fabrizi, e precisamente l’elettricista
Marino Tomè, il radiotelegrafista Sergio Bonfanti, il secondo capo meccanico
Silvio Dolli, il sergente meccanico Gastone Ghersinich, i sottocapi cannonieri
Ugo Tondi e Guerrino Giuricich, il sottocapo meccanico Mario Schiaffino, i
marinai Giovanni Manos, Nazzareno Alfonsi e Giovanni Marazzo ed il silurista
Luigi Prosceru, si tuffarono a rischio della vita nel mare cosparso di rottami
e nafta incendiata, e trassero in salvo numerosi naufraghi: Marino Tomè, da
solo, tuffandosi ripetutamente in mare riuscì a salvare più di venti uomini,
alcuni dei quali svenuti e gravemente ustionati. Il suo eroico sforzo sarebbe
stato riconosciuto dalla Medaglia d’Argento al Valor Militare, conferita anche
a Sergio Bonfanti (per essersi gettato più volte in mare, salvando diversi
uomini tra cui svenuti ed ustionati, sino al punto da essere intossicato dalla
nafta), mentre i loro nove compagni avrebbero ricevuto la Medaglia di Bronzo al
Valor Militare, decorazione che fu conferita anche al comandante Frigerio.
Sovraccarica di
superstiti, che riempivano il ponte sino a minacciarne la stessa stabilità, la Fabrizi dovette a quel punto
interrompere il salvataggio e dirigere verso la vicina Durazzo. Intanto era
sopraggiunta in soccorso una seconda nave, che rimpiazzò la Fabrizi nel ruolo di unità soccorritrice:
la cisterna militare Pagano, salpata
da Durazzo al comando del tenente di vascello Alessandrini per trasportare
acqua a Saseno (Valona). Anche altre unità erano in arrivo: pochi minuti prima
delle otto il Comando Militare Marittimo dell’Albania, avvisato dal personale
della stazione segnali di Durazzo che al largo, a poche miglia, c’era una nave
con un vasto incendio a bordo, assistita dalla Fabrizi e dalla Pagano
(una terza nave, il rimorchiatore Liscabianca,
si stava avvicinando), ordinò l’approntamento di tutti i mezzi navali presenti
nel porto, e contattò i locali comandi del Regio Esercito per organizzare
l’assistenza, il trasporto ed il ricovero di naufraghi e feriti. Da Durazzo
presero subito il mare il posamine Azio,
il rimorchiatore Sant’Andrea (che,
come il Liscabianca, l’Azio e la Pagano, era dotato di pompe antincendio) ed i motovelieri e dragamine
ausiliari Sant’Antonio, R 33 Fede e Speme, Minerva e La Vittoria,
mentre altri motovelieri furono approntati alla partenza; in un secondo momento
presero infatti il mare anche i motovelieri San
Nicola di Bari e V 78 Nuovo Avvenire,
la piccola cisterna Alfredo ed il
motopeschereccio-nave frigorifera Adua.
Prima di partire, avevano imbarcato ufficiali medici ed infermieri della Regia
Marina con il relativo materiale sanitario.
Sulla Paganini, la brezza piuttosto sostenuta
alimentava l’incendio, facendolo avanzare verso poppa: qui, a poppa estrema, un
nutrito gruppo di soldati era radunato all’estremità della nave, mentre
un’altra folla di uomini era concentrata all’estrema prua, dalla parte opposta.
Parecchi uomini erano aggrappati ai penzoli delle due lance di sinistra
capovolte, ed un gruppo di naufraghi si era rifugiato sullo scafo capovolto di
una di esse. Il comandante Alessandrini della Pagano, notato che molti dei soldati a poppa della Paganini erano senza salvagente, diede
la precedenza al loro salvataggio.
Una motolancia al
comando del marinaio scelto Michele Marullo della Pagano fu inviata sottobordo alla Paganini, e diversi marinai della Pagano salirono loro stessi a bordo della motonave in fiamme, per
consegnare i salvagente dei naufraghi già salvati a quanti, sulla Paganini, ancora non lo avevano, e per
aiutare i soldati feriti a calarsi in mare. Dapprima vennero evacuati i soldati
radunati a poppa, poi anche quelli a prua; il marinaio scelto Marullo, salito a
bordo della nave incendiata, riuscì da solo a portare in salvo parecchi feriti
gravi, rimasti immobilizzati ai margini dell’incendio. Altri due uomini della Pagano, il marinaio Cataldo Ninfole ed
il marinaio scelto Adolfo Conzani, offertisi volontari al loro comandante, si
gettarono ripetutamente in mare per aiutare quanti si calavano in mare dalla Paganini a raggiungere a nuoto la vicina
Pagano; Ninfole e Conzani raggiunsero
inoltre altri naufraghi che si trovavano in mare più lontani, tre dei quali
ormai giunti allo stremo, e riuscirono a salvarli. L’eroismo di Marullo,
Conzani e Ninfole fu premiato con la Medaglia di Bronzo al Valor Militare.
Alla fine la Pagano si ritrovò con 222 naufraghi a
bordo, e, dopo che si fu accertato che sulla Paganini non vi era più nessuno, la cisterna diresse anch’essa per
il vicino porto di Durazzo. Alle 9.45 le fiamme sulla motonave erano ormai così
estese che non era più ritenuto pensabile di fare alcunché per salvare la nave.
Se a bordo della Paganini non c’era più nessuno, non si
poteva però dire che tutti fossero in salvo: decine di uomini chiedevano aiuto
in mare, dispersi dalla forte corrente e sparpagliati tra chiazze di nafta e
rottami in fiamme. In loro soccorso – constatato che sul ponte di coperta della
motonave non si vedeva anima viva – giunsero il posamine Azio, il rimorchiatore Liscabianca
e la motovedetta Caron. Dal tratto di
mare ampio circa un miglio ad ovest della Paganini,
le tre navi recuperarono altri 89 sopravvissuti, poi continuarono a perlustrare
il mare sino ad una distanza di cinque miglia dalla motonave in fiamme.
Nel frattempo era
sopraggiunto anche il rimorchiatore Sant’Andrea,
al comando del nocchiere Meucci, che decise di tentare di portare sottocosta il
mercantile. Due volontari del rimorchiatore si arrampicarono sulla poppa della Paganini, assicurarono un cavo di
rimorchio alla bitta situata a poppa estrema e poi scesero anche nei locali
sottostanti per cercare eventuali altri uomini rimasti bloccati, ma non ne
trovarono nessuno. Il Sant’Andrea
cominciò quindi a rimorchiare la nave verso la costa: intanto le fiamme,
sprigionate da tutte e quattro le stive, diventavano sempre più estese. Dopo
circa un’ora sopraggiunse il piroscafetto per recuperi Rostro, inviato a sua volta da Durazzo per prendere a rimorchio la Paganini, che diede manforte al Sant’Andrea.
Ma nonostante tutti
gli sforzi, la Paganini non sarebbe
mai giunta a Durazzo. All’improvviso un’enorme fiammata si levò sopra la
motonave, ed alle 12.50 la Paganini
affondò di prua, lasciando sul mare nafta e paglia incendiate, che continuarono
a bruciare ancora a lungo. Il Rostro
segnalò la tomba della motonave con un gavitello: si trovava nel punto 41°27’ N
e 19°11’ E, a tre miglia da Punta Romani, su fondali di 40 metri. Le estremità
superiori degli alberi rimasero affioranti dall’acqua per qualche tempo.
La nave in affondamento (g.c.
Moreno Ceppatelli via www.betasom.it)
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Le stime sul bilancio
definitivo appaiono discordanti. Secondo il volume «La difesa del traffico con
l’Albania, la Grecia e l’Egeo» edito dall’USMM nel 1964, le unità soccorritrici
recuperarono in tutto 757 dei 952 uomini imbarcati sulla Paganini, dunque le vittime furono 195.
L’11 luglio 1940,
tuttavia, furono le stesse autorità italiane a pubblicare una lista dei
militari deceduti o dispersi nel disastro: vi comparivano i nomi di 220 uomini,
di cui 6 ufficiali albanesi e 214 graduati e soldati italiani (è anche
possibile che il bilancio fosse salito da 195 iniziali a 220 a seguito del
decesso di alcuni dei feriti più gravi); e 220 tra morti e dispersi, su 950
imbarcati (30 uomini di equipaggio e 920 ufficiali, sottufficiali e soldati
trasportati) fu anche la cifra resa nota dalle autorità italiane alla stampa
internazionale con un comunicato speciale, lo stesso 11 luglio. La notizia fu
diffusa dai quotidiani di tutto il mondo: la guerra era iniziata da meno di un
anno, era ancora un periodo in cui disastri simili facevano notizia. Presto,
simili stragi avrebbero assunto caratteri di tale frequenza e ripetitività da
non essere più nemmeno annunciate dai giornali (quando non volutamente nascoste
per ragioni propagandistiche).
Secondo altre fonti,
le vittime complessive furono 230; per altre ancora, 340. Nel suo libro «Una
storia nel cuore. L’affondamento della motonave Paganini (28 giugno 1940)» il professor Daniele Finzi ha pubblicato
una lista di 218 nominativi, ossia 212 graduati e soldati italiani e 6
ufficiali albanesi; ad essi sono da aggiungere almeno altri tre soldati non
elencati nella lista ed almeno sette membri dell’equipaggio civile della Paganini (uno dei quali, Domenico
Vidinich, deceduto il 4 luglio, presumibilmente per le ferite), tra cui il suo
direttore di macchina, il fiumano Giovanni Sillich (uno dei promotori della
“Giovine Fiume”), un vecchio marinaio che aveva trascorso più di trent’anni al
servizio prima della società Adria e poi della Tirrenia. Il numero complessivo
delle vittime della Paganini, dunque,
non è inferiore a 228 tra morti e dispersi. Molti altri uomini rimasero
gravemente ustionati, sfigurati, accecati, mutilati od invalidi permanenti,
ricoverati in centri di Firenze (compreso l’Ospedale Militare di Via San Gallo)
ed altrove. Per anni madri e mogli di soldati dispersi avrebbero girato tra gli
ospedali di Firenze dove si diceva che questi fossero stati ricoverati, in
cerca dei loro cari scomparsi.
La determinazione del
numero esatto è stata resa difficile anche dalla perdita degli archivi storici
dei reggimenti fiorentini, andati distrutti a seguito dell’alluvione di Firenze
del 1966.
Gran parte delle
vittime erano originaria di città e paesi toscani: Firenze, Arezzo, Colle Val
d’Elsa, Sansepolcro, Pieve Santo Stefano, Greve in Chianti, Anghiari (dove in
una singola via, Via della Mura di Sopra, furono tre le famiglie a piangere la
perdita di un figlio: quelle di Elio Catacchini, Emilio Magrini e Vittorio
Meoni), Campi Bisenzio. I più appartenevano al 19° Reggimento Artiglieria (facente
parte della Divisione di Fanteria «Venezia», che, a dispetto del nome, era
composta perlopiù da soldati fiorentini), nonché all’84° Fanteria ed al 7°
Genio.
Una delle vittime, il
fiorentino Giorgio Bani, era fratello della fidanzata del grande ciclista Gino
Bartali.
Uno dei dispersi, il
carabiniere Gino Ottaviani di Igea Marina, sarebbe poi stato al centro di una
vicenda dai contorni a dir poco misteriosi. Ottaviani, arruolatosi nei
Carabinieri nel 1936 ed appartenente, nel 1940, alla Legione Carabinieri di
Tirana, si era infatti imbarcato sulla Paganini
per rientrare dalla licenza passata a casa (l’ordine di tornare subito in
Albania era giunto a seguito dell’entrata in guerra dell’Italia), ed il suo
nome fu scritto nella lista dei dispersi; alla sua famiglia fu restituito anche
il suo bagaglio, in giacenza a Tirana, ma nel 1942 la famiglia ricevette una
cartolina, datata 13 luglio 1942 e da lui firmata, con timbro postale di
Brezza, frazione di Grazzanise (provincia di Caserta). La cartolina era
indirizzata a Primo Drudi, cugino di Ottaviani (precisamente l’indirizzo
indicato era «alla famiglia Drudi Primo –
Rimini per Igeia, Forlì»); non vi era scritta che una frase: «Ricevrete i miei più cordiali saluti da chi
sempre vi ricordo. Gino».
Dal 1940 al 4 gennaio
1946 lo Stato italiano erogò ad Ottaviani il sussidio di “Soccorso alle
famiglie dei militari richiamati e trattenuti alle armi”, poi la pensione di
suo padre fu integrata con quella per la morte in guerra del figlio, e nel 1948
fu redatto un certificato di morte, che fu trascritto nei registri anagrafici
di Rimini ma della cui esistenza la famiglia non fu mai informata (i
discendenti lo scoprirono solo nel 1995, per caso).
Nel 1995 i
discendenti di Ottaviani avrebbero sottoposto la cartolina del 1942 al perito
calligrafo Marinella Pasini del Tribunale di Rimini, ottenendo come risposta la
conferma (“con certezza”) che l’autore della cartolina fosse proprio Gino
Ottaviani, che però avrebbe cercato di dissimulare la propria calligrafia.
Norma Renzi, nipote di Ottaviani, rammentò che la stessa cartolina era già
stata sottoposta a perizia calligrafica nel dopoguerra, ottenendo anche in quel
caso una conferma dell’autenticità. I familiari ipotizzarono che Gino, scosso
dal disastro della Paganini, avesse
disertato, e circolarono in paese storie secondo cui le missive dirette ai
parenti sarebbero state diverse, tutte però intercettate, tranne la cartolina
inviata al cugino, proprio perché mandate da un disertore.
Una donna del suo
paese d’origine, qualche anno dopo l’affondamento della Paganini, raccontò ai suoi familiari di aver visto in un
“Cottolengo” dell’Italia settentrionale proprio Gino Ottaviani, sfigurato e
mutilato. Interrogata dalle sorelle di Ottaviani, desiderose di maggiori
dettagli, la donna negò ogni ulteriore spiegazione, asserendo di aver giurato
al direttore del “Cottolengo” di non dire niente su quel che vi aveva visto.
I familiari di
Ottaviani si rivolsero persino a “Chi l’ha visto?” ed all’appello rispose il
militare Giuseppe Greco, nel 1940 imbarcato su una delle navi inviate in
soccorso della Paganini, che
guardando le fotografie di Ottaviani asserì di averlo riconosciuto: l’uomo da
lui soccorso, oltre a corrispondere nell’aspetto alle foto di Gino Ottaviani,
gli aveva detto di essere un carabiniere, aveva l’accento della sua zona e
sapeva nuotare (Ottaviani era infatti un eccellente nuotatore, a differenza di
molti degli uomini che perirono nel naufragio). Ad oggi, la vicenda di Gino
Ottaviani rimane insoluta.
La Paganini fu la prima nave ad andare
perduta sulle rotte tra l’Italia e l’Albania durante la seconda guerra
mondiale.
Le cause
dell’esplosione che causò l’incendio fatale alla nave rimangono controverse.
Nel luglio 1940 il tribunale di Tirana, a seguito delle indagini condotte,
attribuì la causa dell’incendio ad un atto di sabotaggio, forse compiuto da
“comunisti”.
Il comandante Bulli,
sopravvissuto all’affondamento, venne infatti arrestato ed imputato di «agevolazione
colposa del reato di sabotaggio, avendo il comandante della motonave, in
convoglio militare, abbandonato il comando e la nave stessa in preda alle
fiamme, rendendo assai più gravi le conseguenze dell’evento delittuoso».
L’anonimo autore –
firmatosi “S.K.” – del libro «Agent in Italy», pubblicato a guerra in corso nel
1943, cita brevemente nel suo libro anche l’episodio della Paganini, sostenendo che l’incendio della nave fosse stato
pianificato da una rete di antifascisti attivi nel porto di Bari. Fallito il
piano iniziale, che prevedeva di bruciare la nave in porto prima della
partenza, quando l’accesso al molo fu interdetto agli operai, un operaio
incaricato di eseguire il sabotaggio s’infiltrò a bordo travestito da soldato,
ma non riuscì a portare a termine il suo piano; l’incendio fu invece opera di
un gruppo di nazionalisti albanesi, che però non erano minimamente a conoscenza
del piano degli antifascisti baresi, ed avevano agito indipendentemente. Tale
racconto non è però verificabile, e contiene un grossolano errore, sostenendo
che la nave fosse già giunta nel porto di Durazzo e che avesse già iniziato a
sbarcare i primi uomini (tra cui anche il mancato sabotatore barese) quando
divampò l’incendio, mentre in realtà il disastro avvenne al largo.
Daniele Finzi, autore
del libro «Una storia nel cuore. L’affondamento della motonave Paganini (28 giugno 1940)», sostiene la
tesi di un siluramento da parte di un sommergibile britannico. Tuttavia nessun
sommergibile britannico riferì di aver attaccato, e tanto meno affondato, una
nave mercantile italiana al largo di Durazzo il 28 giugno 1940. In tutto il
mese di giugno 1940, anzi, un solo sommergibile britannico si avventurò
nell’Adriatico: il Rorqual (capitano
di corvetta Ronald Hugh Dewhurst), che salpò da Malta il 10 giugno 1940 e
quattro giorni dopo posò 50 mine al largo di Brindisi. Il Rorqual non attaccò però alcuna nave il 28 giugno; in tutta la
missione, anzi, eseguì un solo infruttuoso attacco, il 15 giugno, contro un
sommergibile italiano nel Canale d’Otranto. L’ipotesi del siluramento, dunque,
appare estremamente improbabile.
A sostegno
dell’ipotesi del siluramento da parte di sommergibile britannico od alleato, ad
esempio greco, Finzi cita tra l’altro un articolo del giornale ellenico «Eleftheron
Vina» datato 28 marzo 1941, che affermava «Fra gli altri trionfi noti ed ignoti
della marina greca, viene ad aggiungersi secondo le testimonianze dei
prigionieri italiani anche il siluramento e l’affondamento delle seguenti navi
da trasposto italiane: 1) il piroscafo Paganini
pieno di soldati e di materiale bellico. 2) il Sardegna di 15.000 tonnellate colmo di soldati. 3) il Liguria di 15.000 tonnellate pure zeppo
di soldati e di materiale bellico. 4) Il San
Giorgio pieno anche questo di soldati». Tale articolo, però, era
essenzialmente un pezzo di propaganda, che conteneva informazioni imprecise o
del tutto erronee: delle quattro navi italiane menzionate, infatti, solo il Sardegna era stato affondato da un
sommergibile greco (il Proteus),
mentre il Liguria era stato silurato
a Tobruk da aerosiluranti britannici ed il San
Giorgio non era un trasporto “pieno di soldati” ma un vecchio incrociatore
corazzato, autoaffondato a Tobruk prima della caduta in mano britannica della
piazzaforte. È dunque erronea anche la rivendicazione dell’affondamento della Paganini quale successo greco, tanto più
se si considera che il 28 giugno 1940 l’Italia e la Grecia non erano in guerra
tra loro (ciò accadde solo il successivo 28 ottobre).
Se si accredita la
versione secondo cui l’esplosione e l’incendio iniziale avvennero in sala
macchine, è possibile ipotizzare un incidente correlato a qualche problema
dell’apparato motore, come appunto un’esplosione di macchina, una delle più
comuni cause di incendi sulle navi in tempo di pace. Un’altra possibilità, nel
caso si supponga che l’incendio si fosse originato nella stiva numero 2, è che
qualche soldato avesse imprudentemente acceso un fuoco a bordo, poi sfuggito al
controllo e propagatosi a tutta la nave.
Dopo l’annuncio delle
autorità italiane, notizie come questa (sull’“Ottawa Citizen” del 10 luglio
1940) si diffusero su numerosi quotidiani internazionali.
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Il relitto della Paganini, la cui posizione, ma non
identità, era nota ad alcuni abitanti di Durazzo, è stato ritrovato ed
identificato nel gennaio 2009 da un gruppo di subacquei guidato da Cesare
Balzi. La nave giace a 35 metri di profondità a 2,4 miglia dalla riva tra
Durazzo e Capo Pali (ed a quattro miglia dall’uscita del porto di Durazzo),
sbandata di 45 gradi a sinistra, con le strutture superiori che giungono a 28
metri; la prua è rivolta a sudovest, con rotta 210°. La zona prodiera è la più
danneggiata, con parte del ponte e della plancia che sono crollate (non solo
per effetto dell’incendio, ma anche a causa della pesca con la dinamite
effettuata da alcuni pescatori locali), mentre la poppa è relativamente ben
conservata, in particolare la poppa estrema, unica parte della nave a non
essere stata raggiunta dall’incendio del 28 giugno 1940. I locali interni sono
ricoperti da uno strato di sabbia e fango. La campana della Paganini è stata recuperata e restaurata
ed è conservata dal National Center of the Stocktaging of Cultural Properties
del Ministero del Turismo, Cultura, Gioventù e Sport dell’Albania, a Tirana.
Ogni anno, il 28
giugno – sin dal 1941, quando l’iniziativa fu organizzata per la prima volta da
un colonnello sopravvissuto al disastro, il comandante della sezione
topografica dell’IGM imbarcata sulla nave –, i caduti della Paganini vengono commemorati con una
messa celebrata nella Basilica della Santissima Annunziata a Firenze.
Uomini periti nel disastro
Nello Acuti, artigliere
Gino Agati, caporale
Giovanni Aggio, artigliere
Alfio Aiazzi, caporale del Genio, 25 anni, da
Colle di Val d’Elsa
Orfeo Alberti, artigliere
Otello Alinari, caporale
Azzolino Angelini, artigliere
Arturo Angeloni, caporale maggiore
Brunetto Bagganini, artigliere
Roberto Baldassini, sergente
Amos Bandini, soldato, da Marliana
Giorgio Bani, caporale maggiore, 26 anni, da
Firenze
Miroslavo Barcovich, marittimo (membro
dell’equipaggio), da Moschiena
Pietro Barbagli, artigliere
Aldo Barelli, fante
Marsilio Baroni, artigliere
Giovanni Bazzanti, artigliere
Peshtani Bekpash, sottotenente S. P.
(albanese) del 53° Reggimento Artiglieria (Divisione «Arezzo»)
Giuseppe Bencini, artigliere
Amos Bendini, fante
Dante Beneforti, artigliere, da Pistoia
Sanzio Bergiosi, artigliere
Antonio Bessi, caporale
Aldo Biagiolati, artigliere
Giovanni Bianchini, artigliere
Giuseppe Biangioini, artigliere
Pasquale Bizzarri, artigliere
Dino Biserni, caporale
Romolo Bollini, caporale
Pietro Bonanni, artigliere
Armando Bonciani, artigliere
Bruno Bonciani, artigliere
Antonio Borrini, artigliere
Anchise Brenni, artigliere
Enrico Brunetti, artigliere
Giovanni Brunetti, artigliere
Nello Bruni, artigliere
Walter Bruschi, artigliere, da Pistoia
Antonio Bucci, marittimo (membro
dell’equipaggio), 45 anni, da Fianona
Cesare Bucci, nostromo, da Fianona
Alfredo Buggiani, artigliere
Fedele Burberi, artigliere
Ottavio Burrini, artigliere
Olindo Butini, artigliere
Gino Butti, artigliere, da Figline
Natalino Campaioli, caporale
Guido Cantucci, artigliere
Ezio Capecchi, artigliere
Belisario Cappelli, artigliere
Domenico Cardinali, soldato
Arduino Casprini, artigliere, 28
anni, da Figline
Alberto Ceccanti, soldato
Bruno Ceccarelli, artigliere
Angelo Ceccatelli, artigliere, da Greve in
Chianti
Bruno Cencetti, artigliere
Mario Cerbai, artigliere
Angelo Cesarini, soldato
Elio Spartaco Catacchini, artigliere, da
Anghiari
Antonio Chersanaz, marittimo (membro
dell’equipaggio), da Laurana
Antonio Chiarelli, artigliere
Dino Cianchi, artigliere
Mario Ciani, artigliere
Fino Ciappi, artigliere
Antonio Cilioni, soldato
Andrea Ciofini, artigliere
Giorgio Conti (o Conte), soldato, da Firenze
Leonello Corsi, caporale maggiore
Dino Corsini, fante
Mario Cortellazzo, artigliere
Angelo Corti, artigliere
Enrico Cortopassi, carabiniere
Giovanni Battista Crulli, artigliere, da Molin
Nuovo
Pietro Degl’Innocenti, caporale
Pasquale Del Giovane, soldato
Donatello Del Panta, caporale maggiore
Lorenzo De Matteo, soldato
Ciro Demisti, artigliere
Venturino Desideri, artigliere
Dino Dotti, artigliere
Azelio Drovandi, artigliere, 25 anni, da Carmignano
Mario Eusebi, soldato
Elio Fabbri, artigliere
Angelo Fabrizi, artigliere
Renato Fanciullacci, artigliere
Mario Fanfani, artigliere
Piero Fantappiè, caporale
Sergio Fantecchi, caporale
Bruno Farnetani (o Fermedani), artigliere, 24
anni, da Colle di Val d’Elsa
Ezio Ferri, soldato
Ferruccio Ferri, artigliere
Vincenzo Filippeschi, sergente, da Figline
Pietro Fiorini, artigliere
Alberto Fiscali, sergente
Savino Focardi, artigliere
Alfonso Forlone, caporale maggiore
Nello Formelli, artigliere
Alberto Frosoni (o Frosini), artigliere, da
Pistoia
Luigi Fusi, artigliere
Italo Galandi, artigliere
Giulio Galli, artigliere, da Rignano
Giuseppe Gallori, artigliere
Ettore Gargani, 30 anni, da Incisa in Val
d’Arno
Alvaro Gennaioli, artigliere, da Sansepolcro
Dino Gensini, artigliere
Gino Gentile, artigliere
Francesco Geromella, mozzo, da Pedena
Vasco Ghirardi, artigliere, da Montecatini
Terme
Zeffiro Giacomelli, artigliere, da Pistoia
Paolo Giannelli, artigliere
Vasco Giatti, artigliere
Pietro Ginevri, artigliere
Umberto Giuchetti, caporale maggiore
Edoardo Goretti, artigliere
Giovanni Gori, artigliere
Agostino Gronchi, artigliere, 25 anni, da
Montaione
Giuseppe Grossi, artigliere
Gino Guasti, soldato
Giovanni Battista Guerrieri, artigliere
Terzo Inghilesi, soldato, da Greve in Chianti
Giuseppe Innocenti, artigliere
Lorenzo Innocenti, soldato
Renato Innocenti, artigliere
Silvestro Iulian, soldato
Pompilio Lorenzetti, soldato
Rino Lorenzi, artigliere, da Monsummano
Ardelio Lippi, artigliere
Ferruccio Lunarelli, autiere
Giuseppe Mafucci, artigliere
Renato Magherini, artigliere
Emilio Magrini, caporale, da Anghiari
Amelio Mancini, caporale
Giovanni Maniscalchi, caporale
Gino Mannetti, artigliere
Giuseppe Manteri, artigliere
Guido Marchettini, artigliere
Francesco Mari, soldato
Pasquale Marteddu, geniere
Guerrino Martini, caporale maggiore
Umberto Massai, artigliere
Giovanni Mattei, caporale, da Firenze
Dino Matteini, artigliere
Lazzaro Mazzoni, artigliere
Vittorio Mazzoni, artigliere
Napoleone Mecchini, caporale
Isaia (o Isadà) Mei, fante, da Pistoia
Emilio Mencarelli, artigliere
Alfredo Mencattini, artigliere
Vittorio Meoni, caporale, da Anghiari
Giovanni Mini, artigliere
Carmelo Mondello, carabiniere
Severino Morali, caporale
Noemio Morino (o Mattesini), artigliere, da
Pieve Santo Stefano
Settimio Mostarda, soldato
Luigi Navarrini, artigliere
Vokoola Nexhinebin, tenente S. P. (albanese)
del 131° Reggimento d’Artiglieria (Divisione Corazzata «Centauro»)
Renato Nigi, artigliere
Pietro Nocentini, artigliere
Giuseppe Novello, soldato
Angelo Orlandini, soldato
Gino Ottavini, carabiniere
Giovanni Palazzeschi, caporale
Romeo Palloni, soldato, da Campi Bisenzio
Alberto Pampaloni, soldato
Emilio Pandolfi, artigliere
Alfredo Panfili, caporale
Nello Pangani, caporale maggiore
Mirando (o Morando) Paolacci, artigliere, da
Pistoia
Fernando Paoli, soldato
Giuseppe Paperini, artigliere
Gino Papucci, artigliere
Alberto Parrini, artigliere
Nello Parrini, artigliere
Rolando Paciscopi, artigliere
Armido Pelacchi, artigliere
Giuseppe Peli, artigliere
Gino Pellegrini, caporale d’artiglieria, da
Monsummano
Dino Pasquale Peluzzi, artigliere, da Anghiari
Antonio Penni, artigliere
Gino Perticari, artigliere
Ottavio Petrucci, caporale
Giuseppe Piazzi, soldato
Filippo Pierini, artigliere
Mazzino Pietracci, sergente
Giulio Properi, artigliere
Severino Pucci, artigliere, da Greve in
Chianti
Luigi Riccetti, artigliere
Amelindo Ricci, artigliere
Amerigo Ricciatelli (o Riccitelli), bersagliere,
22 anni, da Artena
Mario Rospasti, artigliere
Gino Sabatini, granatiere
Gino Sabatini, caporale maggiore
Dario Saccardi, soldato
Elio Salucci, soldato
Giuseppe Salvatori, caporale maggiore
Pilade Salvatori, artigliere
Angelo Sanetti, artigliere
Angelo Sanmarino, artigliere
Vasco Sbezzi, artigliere
Attilio Scarlatti, artigliere
Angelo Schettini, artigliere
Luigi Serra, carabiniere
Angelo Severi, artigliere
Giovanni Sillich, direttore di macchina, 50
anni, da Fiume
Enzo Sopranzi, caporale
Giuseppe Spinelli, artigliere
Nello Stopponi, artigliere
Mario Susini, soldato Pietro Taddei,
artigliere
Guido Susini, artigliere, da Greve in Chianti
Robledo Tacchi, caporale
Mario Tamburini, alpino della Divisione
«Julia», da Seravezza
Domenico Tanghi, artigliere, da Molin Nuovo
Giordano Tarabusi, caporale maggiore
Angelo Tegro, soldato
Zejnel Therepeli, sottotenente S.P. (albanese)
del 19° Reggimento d’Artiglieria (Divisione «Venezia»)
Izet Tiranafu, sottotenente S. P. (albanese)
del 14° Reggimento d’Artiglieria (Divisione «Ferrara»)
Rodolfo Tonini, caporale
Italiano Torelli, artigliere
Settimio Tortelli, artigliere
Adelmo Tracchini, artigliere
Renato Traversi, soldato
Teodoro Vaccaro, carabiniere
Nello Verdazzi, artigliere
Domenico Vidinich, marittimo (membro
dell’equipaggio), da Pola
Amerigo Villani, fante, da Serravalle
Giovanni Visani, caporale maggiore, 24 anni,
da Marradi
Mahmuti Xhafer, sottotenente S. P.
d’artiglieria (albanese)
Cupi Xhelal, tenente S. P. (albanese) del 3°
Reggimento Artiglieria (Divisione Alpina «Julia»)
Mario Zannelli, artigliere
Un’altra foto della motonave
(Igli Pustina, da www.panoramio.com)
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Si ringrazia Cesare Balzi.
Mi chiamo Daniele Tamburini, sono il nipote di uno dei soldati periti nell'affondamento della motonave Paganini: l'alpino Mario Tamburini di anni 21 nato a Seravezza (LU). Confermo che apparteneva alla divisione Julia. (Per una mia errata comunicazione data a Franco Fantecchi autore del libro Il naufragio della Motonave Paganini 75 anni dopo, nel libro si parla di divisione cuneense. Ripeto è un mio errore, non dell'autore) Mario abitava nel Borgo dei Terrinchesi, nella frazione Pozzi, con i genitori (Adele e Romeo) e i due fratelli minori: Carlino (mio padre) e Enrico. Mario si imbarcò con il mulo, che doveva accudire, nel porto di Bari. La madre non ebbe mai alcuna notizia, e per tanti anni ha coltivato la speranza che potesse essersi salvato e che fosse in qualche sperduto paese dell'Albania.
RispondiEliminanell'elenco dei caduti figura un mio lontano parente ma col nome errato. Si tratta di Rolando Paciscopi e non Passiscopi. Il "santino" che fu stampato alla sua morte recita:"Di carattere buono/dedito unicamente/all'amore dei genitori/e del lavoro/accolse sorridente/la voce della Patria/che lo chiamava alle armi/immolando eroicamente/la sua giovinezza/all'Italia/nel tragico affondamento/della motonave "Paganini"/al largo delle coste albanesi/ divenute per sempre Italiane:
RispondiEliminaAll'inizio dell'entrata in guerra, i familiari possono ancora credere che il sacrificio di un congiunto si debba esaltare con il linguaggio della retorica patriottica di regime
La ringrazio, provvedo a correggere il suo cognome.
Eliminasono una lontana parente di uno dei caduti. Si tratta di Rolando Paciscopi il cui nome è stato erroneamente scritto: Passiscopi
RispondiEliminaNel "santino" a lui dedicato dai familiari si legge tra l'altro "...accolse sorridente/la voce della patria/che lo chiamava alle armi/immolando eroicamente/la sua giovinezza/all'Italia/nel tragico affondamento /della motonave "Paganini"/ al largo delle coste albanesi/divenute per sempre Italiane"
sono un nipote di uno dei caduti. il suo nome è riportato nella lista come Arduino Casprini (o Craspidi), 28 anni di Figline. il cognome corretto è Casprini. grazie.
RispondiEliminaGrazie per la segnalazione, provvedo subito a correggere.
EliminaSono il nipote di uno dei superstiti, Bonari Dino da Pistoia. Ricordo di un suo racconto coincidente in tutto con quello che qui viene riportato
RispondiEliminaSono stato fidanzato per più di 20 anni con la nipote di Giordano Tarabusi, sua nonna (vedova di guerra), era in attesa di un figlio. A dicembre 1940 nacque e il suo nome è Giordano Tarabusi, come il padre. Si erano promessi amore (e a quei tempi si mantenevano le promesse) quindi la moglie non si è mai risposata. Mi raccontava molti aneddoti. Gli è mancato molto il marito e il 28/6, non mancava mai a S.S. Annunziata. Luigi
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