Il Giosuè Carducci (g.c. Marcello Risolo, via www.naviearmatori.net) |
Cacciatorpediniere
della classe Oriani, nota anche come classe Poeti (dislocamento standard 1750
tonnellate, 2130 in carico normale, 2320 a pieno carico).
Durante il secondo
conflitto mondiale effettuò 38 missioni di guerra (7 con la squadra navale, 4
di scorta convogli, 7 di addestramento, tre di bombardamento controcosta, 17 di
altro tipo), percorrendo in tutto 14.856 miglia nautiche e trascorrendo 829 ore in mare ed un solo giorno ai lavori.
Breve e parziale cronologia.
5 febbraio 1936
Impostazione nei
cantieri Odero Terni Orlando di Livorno (numero di costruzione 183).
28 ottobre 1936
Varo nei cantieri
Odero Terni Orlando di Livorno.
Due immagini del varo del Carducci (sopra: g.c. Giorgio Parodi; sotto: g.c. Marcello Risolo; entrambe via www.naviearmatori.net)
1° novembre 1937
Entrata in servizio. La
sua costruzione è costata 18.500.000 lire dell’epoca.
Suo primo comandante
è il capitano di fregata Giuseppe Lubrano, che ne ha curato l’allestimento e
che ne manterrà il comando fino al 1939.
Sopra: il
Carducci (a sinistra) e l’Alfieri in allestimento a Livorno nel
luglio 1937 (Archivio cantiere Azimut-Benetti di Livorno, via www.associazione-venus.it); sotto,
l’Alfieri (a sinistra) e
probabilmente il Carducci (a destra)
in una fase di allestimento ben più avanzata (g.c. STORIA militare)
5 maggio 1938
Il Carducci (capitano di fregata Giuseppe Lbrano di Negozio) partecipa alla
rivista navale «H» tenuta nel Golfo di Napoli per la visita in Italia di Adolf
Hitler.
Il Carducci ed il resto della
IX Squadriglia Cacciatorpediniere (Vittorio
Alfieri, Alfredo Oriani e Vincenzo Gioberti, il tutto al comando
del capitano di vascello Elena) fanno parte della 1a Squadra
(ammiraglio Arturo Riccardi), insieme alla V Divisione Navale (corazzate Giulio Cesare e Conte di Cavour), alla I Divisione Navale (ammiraglio Angelo
Iachino, incrociatori pesanti Zara, Pola, Fiume e Gorizia),
all’VIII Divisione Navale (ammiraglio Giotto Maraghini, incrociatori leggeri Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi) ed alle Squadriglie
Cacciatorpediniere VII (Freccia, Dardo, Saetta, Strale) e VIII (Folgore, Fulmine, Lampo, Baleno). Partecipano alla rivista anche
la 1a Squadra (II, III, IV e VIII Divisione Navale, I Squadriglia
Esploratori, X Squadriglia Cacciatorpediniere, IX, X, XI e XII Squadriglia
Torpediniere) e la Squadra Sommergibili.
25 maggio 1938
Visita Tripoli nel corso di una crociera.
A Venezia nel 1938 (Coll. Luigi Accorsi via www.associazione-venus.it) |
16 giugno 1938
Riceve a La Spezia la
bandiera di combattimento, con cerimonia presieduta dal presidente del senato
Luigi Federzoni (che nel 1900 si era laureato in lettere proprio con Giosuè
Carducci) alla presenza di numerosi membri della Reale Accademia d’Italia.
Due immagini del Carducci a Venezia, il 17 luglio 1938 (foto Aldo Fraccaroli, via Coll. Luigi Accorsi e www.associazione-venus.it)
1939
Prende parte alla
crociera della I Squadra Navale (della quale fa parte insieme alle unità
gemelle Alfieri, Oriani e Gioberti, colle
quali forma la IX Squadriglia Cacciatorpediniere) in Portogallo e Spagna ed a
Tangeri.
6-7 aprile 1939
Partecipa alle
operazioni di occupazione dell’Albania (Operazione "Oltre Mare
Tirana", OMT), assegnata al II Gruppo Navale, quello principale, incaricato
dello sbarco a Durazzo: oltre al Carducci,
lo compongono i gemelli Alfieri, Oriani e Gioberti, gli incrociatori pesanti Zara, Pola, Fiume e Gorizia, le torpediniere Lupo,
Lince, Libra e Lira, la nave
appoggio idrovolanti Giuseppe Miraglia
– carica di carri armati –, la nave officina Quarnaro, le cisterne militari Tirso
ed Adige ed i mercantili requisiti Adriatico, Argentario, Barletta, Palatino, Toscana e Valsavoia.
Il II Gruppo
(ammiraglio di divisione Ettore Sportiello; truppe da sbarco al comando del
generale Alfredo Guzzoni) deve sbarcare il grosso delle forze, incaricate di
conquistare Tirana.
Le navi da guerra
giungono a Durazzo già nel pomeriggio del 6 aprile (e la torpediniera Lupo, prima di ricongiungersi alle altre
unità, raggiunge il molo per recuperare il personale militare e diplomatico
italiano), mentre quelle mercantili ed ausiliarie (ossia le navi con le truppe
ed i materiali da sbarcare) solo alle 4.50 del 7, con mezz’ora di ritardo a
causa della nebbia incontrata. Alle 5.25 ha inizio lo sbarco, che procede pur
con qualche inconveniente (ordini di precedenza non rispettati per il ritardo
di alcuni trasporti, impossibilità per alcuni di essi di entrare in porto a
causa dell’eccessivo pescaggio).
Le prime truppe a
prendere terra sono i distaccamenti da spiaggia e le compagnie da sbarco delle
navi da guerra: a dispetto della calma apparente (la città è illuminata), non
appena i militari italiani scendono sui moli divengono il bersaglio di violento
tiro di fucili e mitragliatrici appostate tra i vicini edifici portuali.
La difesa albanese è
comandata dal maggiore Abaz Kupi della gendarmeria e dal suo parigrado Alibali
dell’esercito albanese; a contrastare lo sbarco vi sono un battaglione di
guardia di frontiera, un battaglione dell’esercito albanese, un plotone di
fanteria di Marina, una compagnia del Genio, una batteria da montagna (con due
cannoni da 75/13 mm) e numerosi volontari, armati di fucili oltre a tre
mitragliatrici Schwarzlose ed appoggiati dalla batteria costiera "Prandaj"
(dotata di quattro cannoni Skoda da 75/27 mm, al comando del maggiore Gaqe
Jorgo). Quest’ultima apre il fuoco sulle navi italiane, colpendo, secondo
alcune fonti, la catapulta dell’idrovolante del Fiume; anche la Lupo
viene colpita dal tiro proveniente da terra, senza riportare danni di rilievo
ma subendo perdite tra l’equipaggio.
La forza attaccante, al comando del generale Giovanni Messe, consiste in due
battaglioni del 3° Reggimento Granatieri di Sardegna, un battaglione del 47°
Reggimento Fanteria, cinque battaglioni di bersaglieri (due del 2° Reggimento
Bersaglieri, uno del 3°, uno del 7° ed uno dell’11°), due battaglioni di carri
leggeri L3/35, una batteria d’artiglieria da 65/17 mm ed una batteria
contraerei da 20/65 mm.
Gli scontri a Durazzo
sono piuttosto accesi e si protraggono per alcune ore, con perdite da entrambe
le parti ed anche combattimenti corpo a corpo; l’intervento delle artiglierie
delle navi, ordinato dal capitano di vascello Carlo Daviso di Charvensod,
risolve la situazione in favore delle truppe italiane, che conquistano la città
entro le nove del mattino (grazie anche allo sbarco dei carri armati ed alle
incursioni dei bombardieri IMAM Ro. 37).
Quella vista a
Durazzo è stata la più intensa resistenza opposta dalle truppe albanesi allo
sbarco italiano. Contrastanti i dati sulle perdite: secondo le fonti italiane
dell’epoca, vi sarebbero stati 25 morti e 97 feriti da parte italiana, e 160
morti e diverse centinaia di feriti da parte albanese; da parte albanese alcuni
affermano che i caduti italiani siano 400. Probabilmente entrambe le stime sono
alterate; quella italiana al ribasso, quella albanese al rialzo.
Carducci, Oriani e Gioberti durante un’esercitazione nel settembre 1939 (da www.marina.difesa.it) |
Maggio 1939
Partecipa alla rivista navale tenuta nel Golfo di Napoli in onore del principe reggente Paolo di Jugoslavia.
1939
Il Carducci, con altri cacciatorpediniere,
scorta in Libia la nave reale Savoia,
che porta Vittorio Emanuele III a visitare la colonia.
1939-1940
Subisce lavori di
modifica con cui le quattro mitragliere contraeree binate da 13,2/76 mm vengono
sostituite da otto più efficienti Breda singole da 20/65 mm mod. 1939-1940.
Due
immagini scattate sul Carducci nel
dicembre 1937, durante la navigazione verso le coste africane con mare forza 8.
Verso poppa, in lontananza, lo Zara (Fam.
Bertoglio-Paolino via www.regiamarina.net)
10 giugno 1940
All’entrata
dell’Italia nella seconda guerra mondiale, il Giosuè Carducci fa parte della IX Squadriglia Cacciatorpediniere,
che forma insieme ai gemelli Vittorio
Alfieri (caposquadriglia), Alfredo
Oriani e Vincenzo Gioberti. La IX
Squadriglia è assegnata alla I Divisione incrociatori (1a Squadra
Navale).
12 giugno 1940
Il Carducci, con il resto della IX
Squadriglia (Alfieri, Oriani e Gioberti), la XVI Squadriglia (Nicoloso
Da Recco, Emanuele Pessagno ed Antoniotto Usodimare) e la I
(incrociatori pesanti Zara, Fiume e Gorizia) e VIII Divisione Navale (incrociatori leggeri Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi), salpa da Taranto
alle 00.20 in appoggio alla formazione navale (incrociatore pesante Pola, III Divisione Navale, XI e XII
Squadriglia Cacciatorpediniere) uscita da Messina per intercettare due
incrociatori britannici (il Caledon
ed il Calypso) avvistati da dei
ricognitori a sud di Creta, diretti verso ovest: gran parte della Mediterranean
Fleet, al pari di una squadra navale francese, è infatti uscita in mare a
caccia, infruttuosa, di naviglio italiano. (Per altra fonte la IX Squadriglia
salpa poco prima di mezzanotte dell’11 giugno scortando la I Divisione, che
deve effettuare un rastrello al largo della costa meridionale della Calabria).
Alle 7.15, mentre la
formazione costituita da I Divisione e IX Squadriglia sta navigando verso sud,
una sessantina di miglia a sud di Capo Colonne, i cacciatorpediniere della IX
Squadriglia avvistano un sommergibile sulla dritta, e le navi accostano di
conseguenza a sinistra. Poco più tardi, alle 7.30, i cacciatorpediniere
avvistano nuovamente un sommergibile sulla dritta, inducendo una nuova
accostata a sinistra.
Alle 9, dato che
nuovi voli di ricognizione non sono più riusciti a trovare le navi nemiche,
tutte le unità italiane ricevono ordine di tornare in porto, ed entro le 9.20 I
Divisione e IX Squadrigli sono sulla rotta di rientro. Durante la navigazione
di ritorno nel Mar Ionio si verificano ben tre presunti avvistamenti di
sommergibili: il primo viene avvistato alle 10.53 dal Gorizia, che segnala un sommergibile sul lato sinistro, inducendo
la formazione ad accostare a dritta di 50° per sottrarsi ad eventuali attacchi;
alle 14.32 è l’Alfieri a comunicare
della presenza di un sommergibile sulla dritta, mentre l’Oriani riferisce di essere stato mancato di stretta misura da due
sommergibili, e procede al contrattacco. Alle 16.35, infine, è di nuovo l’Oriani ad avvistare un sommergibile,
attaccandolo con bombe di profondità; alla caccia si unisce anche l’Alfieri. La formazione arriva a Taranto
entro le 20.
È possibile che
qualcuno dei cinque succitati avvistamenti di sommergibili fosse autentico e
dovuto alla presenza in zona del sommergibile britannico Odin, scomparso in Mar Ionio nello stesso periodo; tuttavia, data
l’elevata velocità della formazione italiana (25 nodi), è inverosimile che
tutti e cinque gli avvistamenti, avvenuti
distanza di ore l’uno dall’altro, fossero riferiti all’Odin. È invece probabile che le vedette
delle varie unità, particolarmente eccitate essendo in guerra da appena due giorni,
abbiano scambiato increspature generate da altre cause (ad esempio, cetacei)
per scie di periscopi e di siluri.
22-24 giugno 1940
La IX Squadriglia
Cacciatorpediniere, con Carducci, Alfieri, Oriani e Gioberti, prende
il mare insieme alle Squadriglie Cacciatorpediniere X e XII ed alle Divisioni
incrociatori I (Zara, Fiume, Gorizia), II (Giovanni delle
Bande Nere e Bartolomeo Colleoni)
e III (Trento e Bolzano) nonché all’incrociatore pesante Pola (nave ammiraglia del comandante superiore in mare; è in mare
tutta la 2a Squadra Navale, più la I Divisione), per fornire
copertura alla VII Divisione ed alla XIII Squadriglia Cacciatorpediniere,
inviate a compiere un’incursione contro il traffico mercantile francese nel
Mediterraneo occidentale.
Le forze della 2a
Squadra, partite da Messina (Pola e
III Divisione), Augusta (I Divisione, lì giunta da Taranto la notte tra il 21
ed il 22) e Palermo (II Divisione) il 22 giugno, si riuniscono al tramonto
dello stesso giorno a nord di Palermo.
L’operazione non
porta comunque ad incontrare alcuna nave nemica.
2 luglio 1940
Il Carducci, le tre unità gemelle, la I
Divisione (incrociatori pesanti Zara, Fiume e Gorizia), la II Divisione (incrociatori leggeri Giovanni delle Bande Nere e Bartolomeo Colleoni) e la X Squadriglia
Cacciatorpediniere (Maestrale, Grecale, Libeccio, Scirocco)
forniscono scorta indiretta ai trasporti truppe Esperia e Victoria,
di ritorno vuoti da Tripoli (da dove sono partiti alle 13 del 2) a Napoli con
la scorta delle torpediniere Procione, Orsa, Orione e Pegaso.
4 luglio 1940
Il convoglio
raggiunge Napoli alle 23.
7 luglio 1940
Il Carducci ed il resto della IX
Squadriglia Cacciatorpediniere (Alfieri,
Oriani, Gioberti) salpano da Augusta (per altra fonte, Messina) alle 14.10
unitamente all’incrociatore pesante Pola
(nave di bandiera dell’ammiraglio di squadra Riccardo Paladini, comandante la 2a Squadra),
alla I Divisione Incrociatori (incrociatori pesanti Zara, Fiume, Gorizia) ed alla XII Squadriglia
Cacciatorpediniere (Lanciere, Corazziere, Carabiniere, Ascari),
mentre da Messina e Palermo prendono il mare le Divisioni Incrociatori III (Trento, Bolzano) e VII (Eugenio di
Savoia, Emanuele Filiberto Duca d’Aosta, Muzio Attendolo, Raimondo Monteucccoli) e le Squadriglie Cacciatorpediniere XI (Aviere, Artigliere, Geniere, Camicia Nera) e XIII (Granatiere, Bersagliere, Fuciliere, Alpino), che – insieme alle unità
salpate da Augusta – compongono la 2a Squadra Navale.
Loro compito è
scortare a distanza un convoglio salpato da Napoli alle 19.45 del 6 e diretto a
Bengasi con un carico di 232 veicoli, 10.445 tonnellate di materiali vari e
5720 tonnellate di carburante, oltre a 2190 uomini; lo formano le motonavi da
carico Marco Foscarini, Francesco Barbaro (salpata da
Catania alle 12 del 7) e Vettor
Pisani e le motonavi passeggeri Esperia e Calitea, con la scorta diretta dei due
incrociatori leggeri della II Divisione (Giovanni
delle Bande Nere e Bartolomeo Colleoni),
dei quattro cacciatorpediniere della X Squadriglia (Maestrale, Grecale, Libeccio, Scirocco), delle quattro torpediniere della IV Squadriglia (Procione, Orsa, Orione, Pegaso) e delle vecchie
torpediniere Rosolino Pilo e Giuseppe Missori.
La IX Squadriglia
Cacciatorpediniere, in particolare, è assegnata alla scorta della I Divisione
Navale (incrociatori pesanti Zara, Fiume e Gorizia, al comando dell’ammiraglio Pellegrino Matteucci).
La 1a Squadra
Navale (V Divisione con le corazzate Giulio
Cesare e Conte di Cavour,
IV e VIII Divisione con sei incrociatori leggeri, VII, VIII, XV e XVI
Squadriglia Cacciatorpediniere con 13 unità) esce anch’essa in mare a sostegno
dell’operazione. Comandante superiore in mare è l’ammiraglio di squadra Inigo
Campioni, con bandiera sulla Cesare.
Le unità della 1a e della 2a Squadra salpano
tra le 12.30 e le 18 del 7 luglio da Augusta (Pola, I e II Divisione), Messina (III Divisione), Palermo (VII
Divisione) e Taranto (IV, V e VIII Divisione).
La 2a
Squadra si pone 35 miglia ad est del convoglio, tranne la VII Divisione con la
XIII Squadriglia, che viene invece posizionata 45 miglia ad ovest.
Il Carducci, all’estrema sinistra, con i gemelli Oriani ed Alfieri e, in secondo piano, il Camicia Nera (da www.forummarine.forumactif.com) |
8 luglio 1940
L’operazione va a
buon fine (il convoglio raggiunge Bengasi tra le 18 e le 22 dell’8), ed alle
14.30 le navi delle due squadra navali iniziano la navigazione di rientro.
Ma alle 15.20, a
seguito dell’avvistamento di una formazione britannica – anche la Mediterranean
Fleet, infatti, è in mare a protezione di convogli – la 1a e la
2a Squadra Navale dirigono per intercettare le navi nemiche
(che si teme dirette a bombardare Bengasi), con l’intento di impegnarle in
combattimento almeno un’ora prima del tramonto. La flotta britannica in mare,
al comando dell’ammiraglio Andrew Browne Cunningham, consiste in tre corazzate
(Warspite, Malaya e Royal Sovereign),
una portaerei (la Eagle), cinque
incrociatori leggeri (Orion, Neptune, Sydney, Liverpool, Gloucester) e 16 cacciatorpediniere (Nubian, Mohawk, Decoy, Hasty, Hero, Hereward, Stuart, Decoy, Hostile, Hyperion, Ilex, Dainty, Defender, Janus, Juno, Vampire e Voyager).
Alle 19.20, però, in
seguito ad ordini di Supermarina (il comando della Regia Marina, che, a
differenza dell’ammiraglio Campioni – comandante superiore in mare – ha avuto
modo di apprendere, tramite la crittografia, la reale consistenza e finalità
dei movimenti britannici) la flotta italiana accosta per 330° per rientrare alle
basi, con l’ordine di non impegnare il nemico. Durante l’accostata le navi
vengono attaccate da alcuni velivoli con una dozzina di bombe, rispondendo con
intenso tiro contraereo. Le bombe cadono vicine agli incrociatori, ma non
causano danni.
9 luglio 1940
La navigazione
notturna di rientro si svolge senza grossi inconvenienti, salvo due
fallimentari attacchi siluranti contro la III Divisione; la 2a
Squadra (eccetto la VII Divisione, che è ancora separata da essa) accosta verso
nord all’1.23.
Già dalle 22 dell’8,
però, sono arrivati nuovi ordini: Supermarina teme che la Mediterranean Fleet
intenda lanciare un attacco aeronavale contro le coste italiane, perciò ordina
alle forze in mare di riunirsi nel punto 37°40’ N e 17°20’ E, 65 miglia a
sudest di Punta Stilo, entro le 14 del 9 luglio. Alle 6.40 del 9 luglio la III
Divisione si ricongiunge con Pola e
I Divisione, alle 8 viene avvistato un idroricognitore Short Sunderland che
pedina la flotta italiana (la caccia italiana, chiamata ad intervenire, non
verrà però inviata ad attaccarlo).
Verso le 13, dopo una
mattinata di infruttuosi voli di ricognizione, un velivolo italiano avvista la
Mediterranean Fleet 80 miglia a nordest della V Divisione, ossia molto più a
nord di quanto previsto, ed in posizione adatta ad interporsi tra la flotta
italiana e la base di Taranto: l’ammiraglio Campioni inverte allora la rotta,
ed ordina a Paladini, che si trova più a sud e sta dirigendo per
ovest-sud-ovest, di fare altrettanto, accostando ad un tempo per riunire più
rapidamente le due Squadre.
Nella tarda mattinata del 9, dato che tre cacciatorpediniere (due dei quali
della VII Squadriglia, che è stata così dimezzata) sono dovuti rientrare per
avarie e che alcune squadriglie inviate a rifornirsi (VIII e XV) non sono
ancora tornate, la IX Squadriglia, facente parte della II Squadra, viene
distaccata ed assegnata alla VIII Divisione.
Verso le 13 la 1a e
2a Squadra, ormai riunite, si dispongono su quattro colonne,
distanziate di cinque miglia l’una dall’altra: la IX Squadriglia Cacciatorpediniere,
insieme alla XIV Squadriglia (giunta da Taranto nel primo pomeriggio del 9) ed
alla IV e VIII Divisione incrociatori, va a formare la colonna sinistra dello
schieramento italiano (ossia la quarta ed ultima da ovest), posta ad est della
V Divisione costituita dalle corazzate Giulio
Cesare e Conte di Cavour (le
altre colonne, da ovest verso est, sono formate nell’ordine da: VII Divisione; Pola, I e III Divisione; V Divisione; IV
e VIII Divisione).
Tra le 13.15 e le
13.26, 45 miglia ad est-sud-est di Capo Spartivento, il gruppo «Pola» (di
cui la IX Squadriglia fa parte), mentre si trova a poppa dritta della Cesare e con rotta 183° – è in
corso la manovra per assumere la propria posizione nella formazione ordinata da
Campioni –, viene attaccato da nove aerosiluranti Fairey Swordfish.
Gli aerei britannici,
decollati dalla Eagle alle
11.45 con l’obiettivo di attaccare le corazzate italiane, che però non hanno
trovato, provegono da ovest (cioè da sinistra); si avvicinano con decisione da
poppavia agli incrociatori (approfittando del fatto che i cacciatorpediniere
sono invece a proravia degli stessi), scendono in picchiata fino a 20-30
metri e sganciano i loro siluri da circa mille metri di distanza. Gli
incrociatori si diradano, compiono rapide manovre evasive ed aprono subito un
violento fuoco contraereo, evitando tutti i siluri (due diretti contro il Bolzano, altrettanti contro il Trento ed uno contro lo Zara). Gli aerei si allontanano, tre di
essi danneggiati dal tiro delle navi italiane.
Alle 14.05 ha inizio
l’avvicinamento alla flotta britannica: alle 15.15 gli incrociatori aprirono il
fuoco, seguiti alle 15.23 anche dalle corazzate. La VIII Divisione, appena
avvistato il nemico, accosta per 70° ed incrementa rapidamente la velocità a 30
nodi, per poi aprire il fuoco alle 15.20 (da 20.000 metri, con rotta 10°,
contro la 7th Cruiser Division britannica). Già dalle 15.16
(15.26 per una fonte britannica), però, la IX Squadriglia è divenuta il
bersaglio del tiro dell’incrociatore leggero britannico Orion: alle 15.08 gli incrociatori
britannici della 7th Division, subito dopo aver avvistato la IX
Squadriglia, mettono la prua verso di essa, riducono le distanze sino a 18.000
metri e poi accostano a dritta per poter puntare il maggior numero possibile di
cannoni contro la VIII Divisione e la IX Squadriglia. Gli incrociatori
britannici aprono poi il fuoco con i loro pezzi da 152, mentre i
cacciatorpediniere della IX Squadriglia (che comunicano l’avvistamento alle
15.16) non possono rispondere al fuoco con i loro cannoni da 120, non essendo
la distanza abbastanza ridotta per la loro gittata. Alle 15.19 vengono
avvistate dall’Alfieri fumo e
sagome di altre navi maggiori non identificabili. Essendo vincolata dai suoi
compiti informativi, e comunque appoggiata dalla VIII Divisione, la IX
Squadriglia non contromanovra per allontanarsi fino a quando, calata la
distanza a 16.000 metri, non viene ricevuto l’ordine del comandante della VIII
Divisione di raggiungere il posto assegnato nel dispositivo di combattimento.
La IX Squadriglia accosta perciò in fuori e si posiziona come da ordini.
Incrociatori e
corazzate cessano poi il fuoco rispettivamente alle 15.31 ed alle 15.35, per
poi riprenderlo dalle 15.48 alle 16.04 (corazzate) e dalle 15.56 alle 16.15
(incrociatori). In questo frangente, dalle 15.23, la IV e la VIII Divisione
vengono inquadrate da dieci salve da 381 mm sparate dalle corazzate
britanniche Warspite e Malaya, che cadono molto vicine,
costringendo alle 15.33 le due divisioni a portarsi fuori tiro accostando a
sinistra (la VIII passa, con questa manovra, tra la 1a e la 2a
Squadra, per poi assumere rotta verso nord). Durante questa fase, in cui gli
opposti schieramenti si scambiano cannonate da grande distanza senza costrutto,
la IX Squadriglia non ha parte rilevante. Alle 15.59, però, la Cesare, la nave ammiraglia della 1a
Squadra, viene danneggiata da un proiettile da 381 mm, dovendo ridurre la
velocità. A seguito di questo evento l’ammiraglio Inigo Campioni, comandante
superiore in mare delle forze italiane, decide di rompere il contatto per
rientrare alle basi, ed alle 16.05 dirama l’ordine generale per le squadriglie
di cacciatorpediniere di attaccare con il siluro le navi della Mediterranean
Fleet, in modo da facilitare lo sganciamento delle navi maggiori.
Già alle 15.45, prima
ancora di ricevere l’ordine, la IX Squadriglia si trova un miglio a
nord-nord-est dell’incrociatore pesante Bolzano (la nave in testa alla formazione navale), con rotta
nord, intenta a manovrare con rotta dapprima 40° e poi 60° per ridurre le
distanze con il nemico a sufficienza per lanciare. Alle 16 la IX Squadriglia
viene presa sotto il tiro degli incrociatori britannici, aprendo a sua volta il
fuoco alle 16.01 ma cessandolo già alle 16.05. Proprio alle 16.05 viene
ricevuto l’ordine di attacco, ed un minuto dopo le unità della IX Squadriglia
lanciano cinque siluri da una distanza di 13.500 metri (sono i primi
cacciatorpediniere dello schieramento italiano a lanciare i siluri), con beta
32°, verso gli incrociatori britannici di testa, per poi ripiegare verso
ovest-nord-ovest coprendo la propria ritirata con cortine nebbiogene. Alle
16.16 le navi britanniche cessano di sparare contro la IX Squadriglia, che si
ricongiunge poi con la VIII Divisione.
Nessuno dei siluri
lanciati va a segno; sono probabilmente proprio dei siluri della IX Squadriglia
le scie che, alle 16.10, vengono viste passare nella formazione della 14th Destroyer
Flotilla britannica, in procinto di contrattaccare. Tra le 16.19 e le 16.30 tre
squadriglie di cacciatorpediniere britannici (2th, 10th e
14th Flotilla) aprono il fuoco contro quelli italiani da
11.250-12.500 metri, appoggiati tra le 16.39 e le 16.41 dal tiro dei pezzi
secondari da 152 mm delle corazzate Warspite e Malaya. Alle 16.49 la “mischia” tra
cacciatorpediniere, svoltasi a grande distanza, ha termine senza che nessuna
unità sia stata colpita.
Terminata la
battaglia, la flotta italiana si avvia alle proprie basi con direttrice di
marcia 230°, passando a sud della Calabria; ma durante il rientro, tra le 16.20
e le 19.30, diviene oggetto anche dell'attacco da parte degli stessi
bombardieri della Regia Aeronautica (una cinquantina, su circa 126 inviati in
totale ad attaccare le forze britanniche), che le attaccano e bombardano
pesantemente per errore di identificazione e malintesi (tra il comando delle
due Squadre Navali e quello della II Squadra Aerea, cui appartengono i
bombardieri) circa la posizione della flotta italiana e di quella britannica.
Le insensate disposizioni vigenti in materia di comunicazioni tra Marina ed
Aeronautica, che non contemplano la possibilità di comunicazioni dirette tra
navi e aerei, impediranno alle prime di segnalare ai secondi l'errore; le
stesse navi, non potendo distinguere la nazionalità degli aerei attaccanti,
apriranno un intenso fuoco con proprie armi contraeree, rafforzando nei piloti
l'impressione di stare attaccando navi nemiche. Alcune delle navi ed alcuni
degli aerei, rispettivamente, cesseranno il fuoco e rinunceranno all'attacco
riconoscendo all'ultimo momento la vera nazionalità del "nemico", ma
alla fine gli attacchi ai danni delle navi italiane eguaglieranno, in
intensità, quelli condotti contemporaneamente contro la vera Mediterranean
Fleet. Nessuna nave italiana sarà, fortunatamente, colpita, mentre un
bombardiere Savoia Marchetti S. 79 della 257a Squadriglia
(XXXVI Stormo da Bombardamento Terrestre) finirà abbattuto dal "fuoco
amico" delle navi. L’ammiraglio Campioni, per tentare di chiarire
equivoco, ordina di stendere bandiere italiane sul cielo delle torri e di
emettere fumo rosso dai fumaioli poppieri, pratica convenzionale, nelle
esercitazioni in tempo di pace, per segnalare il gruppo “amico”.
L'incidente sarà poi
fonte di aspre polemiche tra Marina e Aeronautica, ma per lo meno servirà a
dare l'impulso ad un migliore sviluppo della collaborazione aeronavale, che
però raggiungerà risultati soddisfacenti solo nel 1942.
L’aliquota più
consistente delle unità italiane, compreso il Carducci, dirige su Augusta: nel pomeriggio del 9 luglio la
corazzata Conte di Cavour, gli
incrociatori pesanti Pola, Zara, Fiume e Gorizia,
gli incrociatori leggeri Alberico Da
Barbiano, Alberto Di Giussano, Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi ed i 36
cacciatorpediniere delle Squadriglie VII, VIII, IX, XI, XIV, XV e XVI fanno il
loro ingresso nella base siciliana. Poco dopo mezzanotte, però, a seguito
dell’intercettazione e decifrazione di messaggi radio britannici che fanno
presagire un imminente attacco di aerosiluranti contro il naviglio ormeggiato
ad Augusta, Supermarina ordina a tutte le navi di lasciare la base: dopo
essersi frettolosamente rifornite, le unità ripartono per le basi di
assegnazione (Napoli e Taranto). La IX Squadriglia, insieme alla Cavour con i quattro incrociatori
pesanti ed alle Squadriglie Cacciatorpediniere VII e VIII partono per prime,
alle 00.55 del 10 luglio, alla volta di Napoli.
Il Carducci in bacino di carenaggio insieme al sommergibile Serpente (g.c. STORIA militare) |
30 luglio-1° agosto 1940
Il Carducci prende il mare, insieme al
resto della IX Squadriglia Cacciatorpediniere (Alfieri, Oriani e Gioberti), alla XII Squadriglia (Ascari, Lanciere, Corazziere e Carabiniere) ed alla I Divisione
(incrociatori pesanti Zara, Fiume e Gorizia), nonché alla IV Divisione (incrociatori leggeri Alberico Da Barbiano ed Alberto Di Giussano con i
cacciatorpediniere Antonio Pigafetta, Lanzerotto Malocello e Nicolò Zeno della XV Squadriglia),
alla VII Divisione (incrociatori leggeri Eugenio
di Savoia, Luigi di Savoia Duca
degli Abruzzi, Muzio Attendolo
e Raimondo Montecuccoli con i
cacciatorpediniere Granatiere, Bersagliere, Fuciliere ed Alpino
della XIII Squadriglia) ed agli incrociatori pesanti Pola (nave di bandiera dell’ammiraglio Paladini, comandante
superiore in mare) e Trento, per
fornire protezione a distanza ai convogli diretti in Libia nell’ambito
dell’operazione «Trasporto Veloce Lento».
Tali convogli sono
tre: il n. 1 (lento, partito da Napoli alle 8.30 del 27 a 7,5 nodi di velocità)
è formato dalle navi da carico Maria
Eugenia, Gloria Stella, Mauly, Bainsizza, Barbaro e Col di Lana e dall’incrociatore
ausiliario Città di Bari (qui
usato come trasporto) scortati dalle torpediniere Procione, Orsa, Orione e Pegaso (poi rinforzate dai cacciatorpediniere Maestrale, Grecale, Libeccio e Scirocco); il n. 2 (veloce, partito da
Napoli alle 00.30 del 29 alla velocità di 16 nodi) è composto dai trasporti
truppe Marco Polo, Città di Napoli e Città di Palermo, scortati fino alla
Sicilia dalle torpediniere Circe, Calipso, Calliope e Clio e poi
dalle torpediniere Alcione, Aretusa, Airone ed Ariel;
il n. 3 (partito da Trapani) è composto dai piroscafi Bosforo e Caffaro,
scortati dalle torpediniere Vega, Perseo, Generale Antonino Cascino e Generale Achille Papa.
Sempre a protezione
dei convogli, viene potenziato lo schieramento di sommergibili nel Mediterraneo
orientale ed occidentale, portandolo in tutto a 23 battelli, e vengono disposte
numerose ricognizioni aeree speciali con mezzi della ricognizione marittima e
dell’Armata Aerea (Armera).
A seguito della
notizia dell’uscita in mare sia del grosso della Mediterranean Fleet da
Alessandria, che da gran parte della Forza H da Gibilterra (incrociatore da
battaglia Hood, corazzate Valiant e Resolution, portaerei Argus ed Ark Royal), che si presume essere
dirette verso il Mediterraneo centrale, i convogli n. 1 e 2 vengono dirottati
l’uno a Catania e l’altro a Messina, dove giungono rispettivamente la sera del
28 ed alle 13.30 del 29.
Il 30 luglio i due
convogli, più il n. 3 che salpa solo ora, prendono nuovamente il mare per la
Libia, e salpa anche la forza navale di copertura che comprende il Carducci (per altra versione, però, la
IX Squadriglia non avrebbe fatto parte di questa formazione, mentre ci sarebbe
stata invece la sola XII Squadriglia). La I e VII Divisione, insieme a Pola e Trento ed alla XII Squadriglia Cacciatorpediniere, si portano
in posizione idonea a proteggere il convoglio n. 2, diretto a Bengasi (gli
altri sono diretti a Tripoli) dalle provenienze da levante. La sera del 31
luglio, quando ormai non vi sono più pericoli, la formazione degli incrociatori
inverte la rotta e rientra le basi.
Tutti i convogli
raggiungono senza danni le loro destinazioni tra il 31 luglio ed il 1° agosto.
31 agosto-2 settembre 1940
La IX Squadriglia
parte da Taranto alle sei del mattino del 31 agosto insieme alla IX Divisione
(corazzate Littorio, nave di
bandiera dell’ammiraglio di squadra Inigo Campioni, e Vittorio Veneto), alla V Divisione
(corazzate Duilio, Conte di Cavour e Giulio Cesare, quest’ultima aggregatasi
solo il 1° settembre a causa di avarie), alla I Divisione (incrociatori
pesanti Zara, Fiume e Gorizia), al Pola (nave
di bandiera dell’ammiraglio Angelo Iachino, comandante della 2a
Squadra), all’VIII Divisione (incrociatori leggeri Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi) ed alle Squadriglie Cacciatorpediniere VII (Freccia, Dardo, Saetta, Strale), VIII (Folgore, Fulmine, Lampo, Baleno), X (Maestrale, Grecale, Libeccio, Scirocco),
XIII (Granatiere, Bersagliere, Fuciliere, Alpino),
XV (Alvise Da Mosto, Giovanni Da Verrazzano, Antonio Pigafetta, Nicolò Zeno) e XVI (Nicoloso Da Recco, Emanuele Pessagno, Antoniotto Usodimare). Complessivamente
all’alba del 31 prendono il mare da Taranto, Brindisi e Messina 4 corazzate, 13
incrociatori della I, III (Trento, Trieste e Bolzano, da Messina), VII (Eugenio
di Savoia, Raimondo Montecuccoli, Muzio Attendolo, Emanuele Filiberto Duca d’Aosta, da Brindisi) e VIII
Divisione e 39 cacciatorpediniere (oltre a quelli già menzionati, anche Aviere, Artigliere, Geniere e Camicia Nera della XI
Squadriglia, e Lanciere, Carabiniere, Ascari e Corazziere della
XII Squadriglia). Obiettivo, contrastare l’operazione britannica «Hats»
(consistente in varie sotto-operazioni: trasferimento da Gibilterra ad
Alessandria, per rinforzare la Mediterranean Fleet, della corazzata Valiant, della portaerei Illustrious e degli
incrociatori Calcutta e Coventry; invio di un convoglio da
Alessandria a Malta e di uno da Nauplia a Porto Said; bombardamenti su basi
italiane in Sardegna e nell’Egeo): Supermarina ha infatti saputo che sia la
Mediterranean Fleet (da Alessandria) che la Forza H (da Gibilterra) sono uscite
in mare, e si è accordata con la Regia Aeronautica per attaccare la prima con
le forze navali di superficie ed attacchi aerei e la seconda con aerei e
sommergibili.
Le due Squadre Navali
italiane (la 1a Squadra, al comando dell’ammiraglio Inigo Campioni –
con insegna sulla Littorio –, è composta dalle Divisioni V, VII, VIII e IX e
dalle Squadriglie Cacciatorpediniere VII, VIII, X, XIII, XV e XVI; la 2a
Squadra dal Pola, dalle
Divisioni I e III e dalle Squadriglie Cacciatorpediniere IX, XI e XII),
riunite, dirigono per lo Ionio orientale con rotta 150°. Le forze navali sono
però uscite in mare troppo tardi, hanno l’ordine di evitare uno scontro
notturno ed hanno una velocità troppo bassa (20 nodi), ed hanno l’ordine di
cambiare rotta e raggiungere il centro del Golfo di Taranto se non riusciranno
ad entrare in contatto con il grosso nemico entro il tramonto. Tutto ciò
impedisce alle forze italiane di intercettare quelle britanniche; alle 16
Supermarina ordina un cambiamento di rotta, che impedisce alla 2a
Squadra, che si trova in posizione più avanzata della 1a, di
proseguire verso le forze nemiche (l’ammiraglio Iachino, comandante la 2a
Squadra, ha chiesto ed ottenuto alle 16.30 libertà di manovra per dirigere
contro le forze britanniche, segnalate alle 15.35 a 120
miglia di distanza, ma alle 16.50 tale autorizzazione viene
annullata; comunque la 2a Squadra non sarebbe egualmente
riuscita a raggiungere le unità avversarie). Alle 17.27 la 2a
Squadra riceve l’ordine d’invertire la rotta ed assumere rotta 335° e velocità
20 nodi, come la 1a Squadra.
Alle 22.30 del 31 la
formazione italiana, che procede a 20 nodi, riceve l’ordine di impegnare le
forze nemiche lungo la rotta 155°, a nord della congiungente Malta-Zante,
dunque deve cambiare la propria rotta per raggiungerle (o non potrebbe prendere
contatto con esse), dirigendo più verso sudovest (verso Malta) e superando la
congiungente Malta-Zante. Il mattino del 1° settembre, tuttavia, il vento, già
in aumento dalla sera precedente, dà origine ad una violenta burrasca da
nordovest forza 9; le forze italiane si allontanano nuovamente dal Golfo di
Taranto per cercare di nuovo quelle avversarie lungo la rotta 155° ma con
l’ordine di non oltrepassare la congiungente Malta-Zante, il che tuttavia le tiene
lontane dalle rotte possibili da Alessandria a Malta. Verso le 13 la burrasca
costringe la flotta italiana a tornare alle basi, perché i cacciatorpediniere
non sono in grado di tenere il mare compatibilmente con le necessità operative
(non potendo restare in formazione né usare l’armamento). Poco dopo la
mezzanotte del 1° settembre le unità italiane entrano nelle rispettive basi;
tutti i cacciatorpediniere sono stati danneggiati (specie alle sovrastrutture)
dal mare mosso, alcuni hanno perso degli uomini in mare.
Le navi verranno
tenute pronte a muovere sino al pomeriggio del 3 settembre, ma non si
concretizzerà alcuna nuova occasione.
Un’altra foto del Carducci (da gradara.bcc.it) |
1° settembre 1940
A seguito della
riorganizzazione delle due Squadre Navali, la IX Squadriglia (Carducci, Alfieri, Oriani, Gioberti) rimane dislocata a Taranto,
assegnata alla I Divisione Navale.
7-9 settembre 1940
La flotta italiana (5
corazzate, 6 incrociatori e 19 cacciatorpediniere) lascia Taranto alle 16 del 7
diretta a sud della Sardegna, per intercettare la Forza H britannica che si
presume diretta verso Malta. La ricognizione aerea, tuttavia, non avvista
nessuna nave nemica (la Forza H, infatti, aveva lasciato Gibilterra per
un’operazione da svolgersi non nel Mediterraneo ma nell’Atlantico), dunque alle
16 dell’8 settembre la formazione italiana, arrivata a sud della Sardegna,
inverte la rotta e raggiunge le basi del Tirreno meridionale, da dove il 10
tornerà nelle basi di dislocazione normale (Taranto e Messina).
29 settembre-2 ottobre 1940
Alle 18.05 del 29
settembre escono in mare da Taranto il Pola
(nave di bandiera dell’ammiraglio Iachino, comandante la 2a
Squadra), la I Divisione con Zara, Fiume e Gorizia e la IX Squadriglia Cacciatorpediniere (Carducci, Alfieri, Oriani, Gioberti) più l’Ascari della XII Squadriglia, seguiti alle 19.30 dalle
Divisioni V (corazzate Giulio Cesare e Conte di Cavour), VI (corazzata Duilio), VII (incrociatori leggeri Muzio Attendolo e Raimondo Montecuccoli, da Brindisi),
VIII (incrociatori leggeri Giuseppe
Garibaldi e Luigi di Savoia
Duca degli Abruzzi) e IX (corazzate Littorio – nave di bandiera dell’ammiraglio Campioni,
comandante la 1a Squadra – e Vittorio Veneto) e dalle Squadriglie Cacciatorpediniere VII (Dardo, Saetta, Strale), X (Maestrale, Grecale, Libeccio, Scirocco), XIII (Granatiere, Bersagliere, Alpino), XV (Da Mosto, Da Verrazzano)
e XVI (Pessagno, Usodimare), per contrastare
un’operazione britannica in corso, la «MB. 5», consistente nell’invio a Malta
degli incrociatori Liverpool e Gloucester con 1200 uomini e
rifornimenti e nel contemporaneo invio da Porto Said al Pireo del convoglio
«AN. 4», il tutto con l’uscita in mare delle corazzate Valiant e Warspite, della portaerei Illustrious,
degli incrociatori York, Orion e Sydney e di undici cacciatorpediniere a copertura dell’operazione.
Al contempo da Messina prende il mare la III Divisione (Trento, Trieste, Bolzano) assieme ai quattro
cacciatorpediniere della XI Squadriglia (Aviere, Artigliere, Geniere e Camicia
Nera). La formazione uscita da Taranto assume rotta 160° e velocità 18
nodi, riunendosi con le navi provenienti da Messina alle 7.30 del 30 settembre,
mentre si accorge di essere tallonata da ricognitori britannici. In mancanza di
elementi sufficienti ad apprezzare la composizione ed i movimenti della
Mediterranean Fleet ed in considerazione dello svilupparsi di una burrasca da
scirocco (che avrebbe reso impossibile una navigazione ad alta velocità verso
sud da parte dei cacciatorpediniere) Supermarina decide di rinunciare a
contrastare l’operazione ed ordina alle unità in mare di invertire la rotta
alle 6.25 del 30 ed incrociare dapprima tra i paralleli 37° e 38°, poi (dalle
10.30) 38° e 39° ed alle 14 fare rotta verso sudovest sino a raggiungere il 37°
parallelo, poi, alle 17.20, di rientrare alle basi. Navigando nella burrasca,
la flotta italiana raggiunge le basi tra l’una e le quattro del mattino del 1°
ottobre, vi si rifornisce in fretta e rimane in attesa di un’eventuale nuova
uscita per riprendere il contrasto, ma in base alle nuove informazioni ottenute
ciò risulterà impossibile, pertanto, alle 14.00 del 2 ottobre, le navi
riceveranno l’ordine di spegnere le caldaie.
6 ottobre 1940
Il Carducci salpa da Taranto in mattinata
insieme al resto della IX Squadriglia, al Pola
(nave di bandiera della 2a Squadra Navale) ed alla I Divisione (Zara, Fiume e Gorizia), in
appoggio all’operazione «C.V.», consistente nell’invio da Taranto a Lero delle
due veloci e moderne motonavi Calitea
e Sebastiano Venier, cariche di
rifornimenti destinati alle isole del Dodecaneso e scortate dalla XII
Squadriglia Cacciatorpediniere (Ascari,
Lanciere, Corazziere e Carabiniere).
L’operazione (il convoglio è partito la sera del 5, ed il 6 mattino, oltre al
gruppo cui appartiene il Carducci,
sono salpate da Messina anche la III Divisione con Trento, Trieste e Bolzano e la XI Squadriglia
Cacciatorpediniere con Aviere, Artigliere, Geniere e Camicia
Nera) viene però interrotta il mattino stesso del 6 ottobre, dopo che la
ricognizione aerea dell’Egeo ha segnalato due corazzate, due incrociatori e
sette cacciatorpediniere britannici sulla rotta Alessandria-Caso, ossia dove
dovrebbero passare le navi dirette nel Dodecaneso. Tutte le unità italiane
vengono fatte rientrare alle basi; «C.V.» non si farà più.
26 ottobre 1940
Il capitano di
fregata Alberto Manlio Ginocchio, che tre mesi prima ha fatto richiesta di
comando di un cacciatorpediniere (subito dopo essere guarito da
un’intossicazione subita mentre prestava servizio su sommergibili), riceve il
comando del Carducci: sarà l’ultimo
comandante di questa nave.
29 ottobre 1940
Il capitano di
fregata Ginocchio sale a bordo del Carducci,
alla fonda a Taranto, per il passaggio di consegne con il comandante “uscente”.
11-12 novembre 1940
Carducci, Alfieri, Oriani
e Gioberti sono presenti a Taranto
durante l’attacco aerosilurante britannico che affonda la corazzata Conte di Cavour e pone fuori uso le
corazzate Littorio e Duilio (“notte di Taranto”). I quattro
cacciatorpediniere sono ormeggiati a nordovest del centro del Mar Grande, ad
est del recinto retale che racchiude le navi della I Divisione – Zara, Fiume, Gorizia – ed a sud
del porto commerciale; il Carducci è
il più a nord dei quattro, con Alfieri
ormeggiato a sudest, Oriani a
sudovest e Gioberti più a sud di
tutti. Le unità della IX Squadriglia non subiscono danni nell’attacco.
Tra le 14.30 e le
16.45 del 12 novembre la IX Squadriglia, insieme alla XI Squadriglia, al Pola ed alla I Divisione, lascia
Taranto, valutata ormai insicura, per raggiungere Napoli.
16 novembre 1940
La IX Squadriglia
Cacciatorpediniere (Carducci, Alfieri, Oriani, Gioberti)
salpa da Napoli alle 10.30 del 16, insieme alle corazzate Vittorio Veneto (nave ammiraglia
dell’ammiraglio Campioni, comandante della 1a Squadra) e Cesare, al Pola (nave comando della 2a Squadra, ammiraglio
Iachino), alla I Divisione con Fiume e Gorizia ed alla XIII Squadriglia
Cacciatorpediniere (Bersagliere,Granatiere, Fuciliere, Alpino),
per intercettare una formazione britannica partita da Gibilterra e diretta
verso est, che è stata segnalata nel Mediterraneo occidentale. Si tratta della
Forza H dell’ammiraglio James Somerville (incrociatore da battaglia Renown, portaerei Argus e Ark Royal, incrociatori leggeri Sheffield, Despatch e Newcastle, otto cacciatorpediniere)
uscita da Gibilterra per l’operazione «White», che prevede l’invio a Malta di
14 aerei decollati dall’Argus per
rinforzarne le scarse difese, nonché un’azione di bombardamento di Alghero
(velivoli dell’Ark Royal) ed il
trasporto a Malta di uomini e materiali della RAF sul Newcastle.
Contemporaneamente alla
partenza da Napoli del grosso della flotta, escono in mare da Messina anche la
III Divisione (Trento, Trieste, Bolzano) e la XII Squadriglia Cacciatorpediniere (Lanciere, Carabiniere, Ascari, Corazziere), mentre da Palermo salpa la
XIV Squadriglia Cacciatorpediniere (Vivaldi, Da Noli, Tarigo, Malocello).
Le navi uscite da
Napoli, prive di dati precisi sul nemico, dirigono verso sud nel Basso Tirreno;
nel pomeriggio del 16 si uniscono al grosso la III Divisione e la XII e XIV
Squadriglia. La forza così riunita sotto il comando dell’ammiraglio Campioni
assume quindi rotta verso est verso l’8° meridiano, a sudovest della Sardegna,
procedendo a 18 nodi, ridotti a 14 nella notte del 17 per agevolare la
navigazione dei cacciatorpediniere, resa difficoltosa da un vento da sudovest.
Per tutta la giornata
del 16 non si ricevono informazioni sulle forze nemiche.
17 novembre 1940
Alle 10.15 le forze
britanniche vengono avvistate da ricognitori, che però non precisano né la
rotta né la velocità. Campioni dirige verso sud, in direzione di Bona, sperando
di riuscire ad intercettare le unità britanniche nel pomeriggio, se esse
proseguono verso est.
Raggiunto alle 16.30
un punto prestabilito 45 miglia a nord-nord-est di Ustica, la formazione
italiana dirige poi verso ovest ed alle 17.30 arriva 35 miglia a sudovest di
Sant’Antioco. Dopo aver navigato per un po’ in direzione dell’Algeria, nella
totale mancanza su dove sia il nemico e dove esso sia diretto, la squadra
italiana riceve l’ordine rientrare. Campioni rileverà che le condizioni del
mare – onde molto lunghe da sudovest – hanno causato forte rollio e beccheggio
in tutte le sue navi, corazzate comprese, tanto da impedire l’uso dei cannoni
se dirette verso sud. Durante il ritorno le navi italiane eseguono esercitazioni
di tiro contro la scogliera La Botte, a sud di Ponza; raggiungono le rispettive
basi tra il 17 ed il 18 novembre.
Sebbene non vi sia
stato contatto tra le opposte formazioni navali, l’uscita in mare delle forze
italiane ha indirettamente causato il fallimento dell’operazione «White»: a
seguito dell’avvistamento della squadra italiana da parte dei ricognitori di
Malta, infatti, Somerville ha fatto lanciare gli aerei dall’Argus tenendo la portaerei quanto
più ad ovest possibile, cioè più lontana da Malta di quanto inizialmente
pianificato, prolungando di molto la distanza sulla quale gli aerei dovranno
volare. Il risultato sarà che su quattordici aerei decollati dall’Argus (dodici Hawker Hurricane e
due Blackburn Skua) solo cinque (quattro Hurricane ed uno Skua) giungeranno a
Malta: gli altri esauriranno il carburante e precipiteranno in mare a seguito
di errori di navigazione e stime sbagliate sugli effetti del vento, tranne uno
che dovrà effettuare un atterraggio d’emergenza presso Siracusa, venendo
catturato.
26 novembre 1940
Tra le 11.50 e le
12.30 del 26 il Carducci lascia
Napoli unitamente alle altre unità della IX Squadriglia (Alfieri, Oriani e Gioberti), di cui è caposquadriglia, di
scorta alla I Divisione (Fiume e Gorizia) ed al Pola (nave di bandiera dell’ammiraglio di squadra Angelo Iachino). Salpano
al contempo da Napoli anche le corazzate Vittorio
Veneto (nave di bandiera dell’ammiraglio Inigo Campioni) e Giulio Cesare e le Squadriglie
Cacciatorpediniere VII (Freccia, Saetta e Dardo) e XIII (Granatiere,
Bersagliere, Fuciliere, Alpino), che
formano la 1a Squadra. La formazione italiana (vi sono anche la III
Divisione e la XII Squadriglia Cacciatorpediniere, partite da Messina, che
insieme alla I Divisione, IX Squadriglia e Pola
formano la 2a Squadra) si riunisce 70 miglia a sud di Capri alle
18.00 del 26 novembre, assumendo poi rotta 260° e velocità 16 nodi, per
intercettare un convoglio britannico diretto a Malta nell’ambito
dell’operazione britannica «Collar». Il convoglio, entrato in Mediterraneo il 24
novembre, è composto dai mercantili New
Zealand Star, Clan Forbes e Clan Fraser, con la scorta diretta
dell’incrociatore leggero Despatch,
l’incrociatore antiaerei Coventry, i
cacciatorpediniere Duncan, Wishart ed Hotspur e le corvette Hyacinth,
Peony, Salvia e Gloxinia. La
Forza F di protezione ravvicinata (ammiraglio Lancelot Holland) comprende
l’incrociatore pesante Berwick e gli
incrociatori leggeri Manchester, Newcastle, Sheffield e Southampton,
mentre come forza di copertura a distanza è uscita da Gibilterra la Forza H
(ammiraglio James Somerville) con la corazzata Ramillies, l’incrociatore da battaglia Renown, la portaerei Ark
Royal e undici cacciatorpediniere (Kelvin,
Jaguar, Encounter, Faulknor, Firedrake, Fury, Forester, Gallant, Greyhound, Griffin e Hereward).
Una mitragliera contraerea del Carducci ed i suoi serventi (Fam. Bertoglio-Paolino, via www.regiamarina.net) |
27 novembre 1940
Tra le 8.30 e le 9.10
la 1a Squadra, rimanendo
indietro rispetto agli incrociatori (che formano la 2a Squadra), a
poppavia dei quali sta procedendo, accelera a 17 e poi a 18 nodi per ridurre la
distanza. Alle 9.50 le corazzate avvistano un ricognitore britannico Bristol
Blenheim, contro cui aprono il fuoco alle 10.05 (il velivolo si allontana).
La formazione
italiana ha rotta 260°, verso la Sardegna, ed il mattino del 27 incrocia nove
miglia a sud di Capo Spartivento Sardo, per intercettare uno dei due gruppi
britannici in mare (uno partito da Alessandria ed uno da Gibilterra) prima che
possano riunirsi: quello proveniente da Alessandria viene avvistato alle 9.45
da un idroricognitore lanciato dal Bolzano
alle 7.55, che comunica che una corazzata, due incrociatori e quattro
cacciatorpediniere si trovano a 26 miglia per 20° da Cap de Fer, con rotta 90°
e velocità 16 nodi. Il messaggio del ricognitore viene ricevuto alle 10.05
dall’ammiraglio Iachino e dieci minuti dopo dall’ammiraglio Campioni. Poco dopo
il velivolo aggiunge che si mantiene in contatto visivo con le navi nemiche;
continuerà a tenere il contatto fino alle 10.40.
Sebbene la posizione
indicata sia piuttosto lontana dal vero (troppo ad ovest), questo avvistamento
è il primo concreto segnale, per il comandante superiore in mare, della
presenza delle forze nemiche.
Alle 11 la formazione
inverte la rotta ed aumenta la velocità da 16 a 18 nodi, ed alle 11.28 assume
rotta 135°, per intercettare la formazione britannica – che (dalle segnalazioni
dei ricognitori, in particolare quello del Bolzano)
risulta avere posizione differente da quella prevista – e tagliarle la rotta. Alle
11.35 la 2a Squadra riceve dall’ammiraglio Campioni di portarsi
su rilevamento 195° rispetto alla sua nave ammiraglia (la Vittorio Veneto), in modo che la
formazione divenga perpendicolare alla probabile direzione d’avvicinamento
della squadra britannica. Proposito di Campioni è di ingaggiare il Renown, che ritiene accompagnato solo da
due incrociatori ed alcuni cacciatorpediniere, prima che possa ricongiungersi
con l’altro gruppo navale, che diverrebbe così più potente del suo.
Alle 12.07, tuttavia,
in seguito alla constatazione che la formazione britannica appare superiore a
quella italiana (i cui ordini sono di impegnarsi solo se in condizioni di
sicura superiorità, dato che al momento vi sono solo due corazzate operative e
non ci si può permettere di subire altre perdite dopo la notte di Taranto)
l’ammiraglio Inigo Campioni, al comando della flotta italiana, ordina di
assumere rotta 90° per rientrare alle basi senza ingaggiare il combattimento, e
di aumentare la velocità. Alle 12.15 vengono però avvistati quattro
cacciatorpediniere britannici, diretti verso gli incrociatori italiani: le
siluranti nemiche spariscono subito, avendo apparentemente invertito la rotta,
ma alle 12.16 la IX Squadriglia, che si trova circa 3 km a sud degli
incrociatori della 2a Squadra, segnala alla Vittorio Veneto (dove il messaggio viene ricevuto alle 12.27) di
aver avvistato una corazzata e tre incrociatori britannici su rilevamento 180°
(verso sud). Si tratta della squadra britannica, che comprende la corazzata Ramillies, l’incrociatore da battaglia Renown, la portaerei Ark Royal e gli incrociatori Berwick (pesante), Sheffield, Southampton, Newcastle e Manchester (leggeri), oltre a
numerosi cacciatorpediniere. L’ammiraglio Campioni ordina pertanto di
incrementare ancora la velocità (che è di 25 nodi per la 1a Squadra
e di 28 per la 2a Squadra, che deve riunirsi alla 1a
essendo più indietro): ha inizio la battaglia di Capo Teulada.
Alle 12.20, prima che l’ammiraglio Campioni possa ordinare di non impegnarsi,
gli incrociatori della I Divisione aprono il fuoco da una distanza di
21.500-22.000 metri, seguiti in successione dal Pola e da quelli della III Divisione. Gli incrociatori della 2a
Squadra, in linea di fila, sono in posizione favorevole (da “taglio del T”) per
sparare con tutte le artiglierie su quelli britannici, che si trovano invece in
linea di fronte e possono usare solo le torri prodiere, ma per via dell’ordine
di Campioni di disimpegnarsi devono accostare verso nordest. Durante lo
scontro, le navi italiane continuano a ritirarsi verso nordest, sparando quasi
esclusivamente con le torri poppiere, mentre quelle britanniche le inseguono
tirando quasi solamente con le torri prodiere (la distanza media del
combattimento è 22.500 metri, che per la III Divisione – segnatamente il Trento – scende ad un minimo di
18.000 metri). Il tiro degli incrociatori italiani è intenso dall’apertura del
fuoco fino alle 12.42, poi diventa intermittente tra le 12.42 e le 12.49 a
causa di ripetute accostate necessarie a disturbare l’attacco di aerosiluranti
britannici frattanto apparsi (e che poi attaccheranno le corazzate), poi
nuovamente intenso dalle 12.49 alle 12.53 e poi, a causa dell’aumento delle
distanze e del fumo (causato soprattutto dalla combustione forzata delle
caldaie, in particolare sulle navi della III Divisione), il ritmo di tiro deve
di nuovo calare, fino a cessare alle 13.15, quando la distanza è diventata di
26.000 metri.
Due salve da 203 mm
degli incrociatori italiani colpiscono, alle 12.22 ed alle 12.35,
l’incrociatore pesante britannico Berwick:
la prima uccide sette uomini, ne ferisce nove e mette fuori uso la terza torre
da 203 dell’unità britannica, la seconda danneggia il quadrato ufficiali e
locali adiacenti, ma il Berwick continua
a fare fuoco. Nello schieramento italiano, tra le 12.33 e le 12.40 tre colpi
sparati da un incrociatore britannico colpiscono il cacciatorpediniere Lanciere, che rimane immobilizzato e
verrà successivamente preso a rimorchio dal gemello Ascari.
Fino alle 12.40 le
navi britanniche (soprattutto gli incrociatori) sparano intensamente contro la
III Divisione, poi spostano il tiro sulla I Divisione, che è divenuta più
vicina (ma il loro tiro è disturbato dal fumo prodotto dalle navi italiane). Le
corazzate britanniche intervengono solo sporadicamente, trovandosi più indietro
rispetto agli incrociatori, senza comunque colpire nulla.
Nel frattempo anche
la 1a Squadra si è riavvicinata alla 2a Squadra, ed
alle 13.00 la Vittorio Veneto apre
il fuoco da poco meno di 29.000 metri, ma le unità britanniche subito accostano
a dritta e la distanza aumenta a 31.000 metri, costringendo la corazzata a cessare
il fuoco già alle 13.10. Alle 13.05, su richiesta del Fiume (nave di bandiera dell’ammiraglio Pellegrino Matteucci,
comandante la I Divisione), le unità della IX Squadriglia stendono una cortina
nebbiogena, disturbando il tiro degli incrociatori britannici contro quelli
italiani. Alle 13.15, essendo la distanza (della 2a Squadra dalle
forze britanniche) salita a 26.000 metri, il tiro viene cessato anche dagli
incrociatori, viene rotto il contatto. Ha così fine l’inconclusiva battaglia di
Capo Teulada. Alle 15.20 le unità della 2a Squadra vengono attaccate
da nove aerosiluranti decollati dalla portaerei Ark Royal: l’attacco si protrae per dieci minuti, ma nessun siluro
(lanciati tutti contro Pola, Fiume e Gorizia) va a segno. Alle 21 del 27 novembre le navi italiane
assumono rotta nord a 15 nodi.
28 novembre 1940
Alle 00.30 la flotta
italiana dirige verso est fino alle 7.30 del 28, dopo di che segue le rotte
costiere, arrivando a Napoli tra le 13.25 e le 14.40 del 28. La IX Squadriglia
lascia Napoli alle 20.35 del 28 stesso per scortare a Messina la III Divisione,
che ha “perso” la propria Squadriglia Cacciatorpediniere – la XII – a seguito
del danneggiamento in battaglia del caposquadriglia Lanciere, poi dirottato su Cagliari insieme al gemello Ascari.
15 dicembre 1940
Intorno alle 17 la IX
Squadriglia, le Squadriglie Cacciatorpediniere VII e XIII, le corazzate Giulio Cesare e Vittorio Veneto e gli incrociatori pesanti Zara e Gorizia lasciano
Napoli diretti a La Maddalena, dove le navi sono state temporaneamente
trasferite per sottrarle ad altri attacchi aerei britannici dopo che, nelle
settimane precedenti, alcuni bombardamenti aerei su Napoli hanno rivelato la
vulnerabilità di tale porto alle offese aeree (con il grave danneggiamento, il
14 dicembre, dell’incrociatore pesante Pola,
colpito da bombe). Le unità rimangono a La Maddalena, porto non molto più al
sicuro di Napoli dagli attacchi aerei, solo per i pochi giorni necessari
all’approntamento a Napoli di adeguate contromisure contro i bombardamenti (tra
cui impianti per l’annebbiamento del porto).
20 dicembre 1940
Le navi rientrano a
Napoli.
28 dicembre 1940
Il Carducci, insieme ad Alfieri e Gioberti, effettua un’azione di bombardamento delle posizioni
costiere greche nel settore di Himara (Albania) a supporto delle operazioni truppe
di terra italiane (la XI Armata), impegnate a fronteggiare una violenta
offensiva greca avente l’obiettivo di conquistare Valona. Azioni di
bombardamento costiero come questa hanno in genere scarsi risultati materiali,
stante la cronica imprecisione di questo tipo di bombardamento: vengono
eseguite principalmente per motivi di ordine psicologico, servendo soprattutto
ad incrinare il morale dell’avversario (le intercettazioni di messaggi greci e
gli interrogatori dei prigionieri mostrano un crescente nervosismo, da parte
greca, nei confronti dei bombardamenti navali, ed è proprio questo, insieme
alla gravità del momento – si è all’acme della battaglia per Valona, dal cui
esito possono dipendere le sorti dell’intera campagna –, a spingere i comandi
italiani ad intensificare azioni di questo tipo).
30 dicembre 1940
Carducci, Alfieri e Gioberti bombardano di nuovo il settore
di Himara con le loro artiglierie, stavolta con l’appoggio a distanza dell’VIII
Divisione Navale (incrociatori leggeri Luigi
di Savoia Duca degli Abruzzi e Giuseppe
Garibaldi, ai quali è stato temporaneamente aggregato anche l’Armando Diaz).
5 gennaio 1941
Il Carducci salpa da Brindisi alle 00.10
per scortare a Valona, insieme al cacciatorpediniere Fulmine, alla torpediniera Generale
Antonio Cantore ed all’incrociatore ausiliario Capitano A. Cecchi, le motonavi Verdi,
Città di Agrigento e Città di Marsala, che hanno a bordo 2024
militari e 328 tonnellate di materiali. Il convoglio raggiunge Valona alle otto
del mattino.
6 gennaio 1941
Carducci, Alfieri (caposquadriglia), Gioberti (la IX Squadriglia, meno l’Oriani), cui è stato aggregato il cacciatorpediniere Fulmine, partono da Valona insieme alla
XIV Squadriglia Torpediniere (Pallade,
Partenope, Andromeda, Altair) e
bombardano all’alba le posizioni greche nel settore costiero di Porto Palermo
(Albania), per poi tornare a Valona prima di mezzogiorno.
Per altra fonte il
bombardamento sarebbe avvenuto il 7 gennaio, e vi avrebbe preso parte anche un
altro cacciatorpediniere, il Folgore,
mentre non avrebbero partecipato la Pallade
e l’Altair. Le navi si sarebbero così
ripartite i compiti: Carducci, Alfieri e Gioberti avrebbero bombardato le prime linee greche, mentre Folgore e Fulmine avrebbero cannoneggiato Himara, ed Andromeda e Partenope
avrebbero cannoneggiato la strada costiera situata più sud, interrompendo il
traffico nemico lungo di essa.
Pochi giorni dopo, il
10 gennaio, l’offensiva greca si esaurisce senza che Valona sia stata
conquistata.
10 febbraio 1941
Carducci ed Oriani ricevono
ordine da Supermarina di andare a rinforzare la scorta di un convoglio partito
da Taranto e diretto a Napoli, composto dai piroscafi tedeschi Arta, Maritza ed Heraklea con
la scorta del solo cacciatorpediniere Baleno.
Supermarina ha deciso di rafforzarne la scorta dopo la segnalazione da parte
del sommergibile Salpa, in
navigazione in quelle acque (al largo di Punta Stilo), di essere stato
attaccato da un sommergibile nemico (il Rover,
al comando del capitano di corvetta Hubert Anthony Lucius Marsham). Carducci ed Oriani raggiungono il convoglio poco dopo mezzanotte, e l’Oriani assume il ruolo di caposcorta.
11 febbraio 1941
Poco prima delle
7.30, un idrovolante CANT Z della 142a Squadriglia della Regia
Aeronautica (sottotenente di vascello Tenti) lancia una bomba da 160 kg contro
il Rover, che si è venuto a trovare
casualmente proprio sulla rotta del convoglio. Il sommergibile britannico non
viene colpito, ma sente la violenta esplosione ed avvista subito dopo un
cacciatorpediniere (probabilmente il Baleno,
che sta zigzagando a proravia del convoglio) a circa 7 km di distanza. Non
avendo invece visto il resto del convoglio, il Rover scende a 27 metri di profondità e non fa alcun tentativo di
attaccare, così il convoglio passa indisturbato sulla sua verticale e si
allontana indenne. I cacciatorpediniere di scorta non notano traccia del
sommergibile, ma l’idrovolante richiama sul posto il cacciasommergibili Albatros, che darà infruttuosamente la
caccia all’unità britannica.
Morte per acqua a Capo Matapan
Così s’intitola, in
modo tragicamente appropriato, uno dei tanti libri scritti sulla battaglia di
Capo Matapan, la più pesante sconfitta mai subita dall’Italia sul mare. Scritto
nel 1965 dal giornalista Giuliano Capriotti, “Morte per acqua a Capo Matapan” è
incentrato proprio sulla storia del Carducci,
che in quella battaglia andò perduto, e del suo comandante, capitano di fregata
Alberto Manlio Ginocchio: gli ultimi giorni del Carducci e del suo equipaggio vi sono minuziosamente ricostruiti
attraverso i documenti dell’epoca, le relazioni delle Commissioni d’Inchiesta
Speciale istituite sulla perdita delle navi affondate a Matapan, e le relazioni
degli ufficiali sopravvissuti.
Il mattino del 26
marzo 1941 la IX Squadriglia Cacciatorpediniere, che il Carducci (capitano di fregata Alberto Ginocchio) formava insieme ai
gemelli Alfieri (caposquadriglia,
capitano di vascello Salvatore Toscano), Oriani
(capitano di fregata Vittorio Chinigò) e Gioberti
(capitano di fregata Marc’Aurelio Raggio), si trovava ormeggiata in Mar Grande
a Taranto, quando giunse dal Comando della I Divisione Navale, dal quale tale
Squadriglia dipendeva, l’ordine di tenersi pronti a muovere. L’ordine,
comunicato dal comando di divisione al caposquadriglia Alfieri, venne da questi ritrasmesso agli altri tre
cacciatorpediniere. Qualche ora dopo, i comandanti coinvolti vennero informati
che se fossero usciti in mare avrebbero partecipato all’operazione anche altre
navi: gli incrociatori pesanti della III Divisione Navale e forse una
corazzata, con i relativi cacciatorpediniere di scorta.
Alle 16 giunsero la
conferma dell’ordine di uscita in mare e l’autorizzazione a prelevare il
carburante necessario; la partenza era stabilita tra le 22 e le 23 di quella
sera. Nel tardo pomeriggio il Carducci
prelevò dunque il carburante dalla banchina nafta del Mar Grande; gli erano
state assegnate 300 tonnellate di nafta, ma a causa di un guasto alla
manichetta di carico fu possibile aspirarne soltanto 275, venticinque in meno
di quanto previsto e di quanto regolarmente caricato dalle altre navi della
squadriglia. La presenza di altri due cacciatorpediniere, già sotto la
banchina, che attendevano a loro volta di poter prelevare il loro carburante
impedì di tentare di riparare la manichetta per aspirare anche la nafta
restante, non essendovi abbastanza tempo disponibile. Anche questo
inconveniente venne segnalato al Comando della I Divisione, che tuttavia
ritenne che 275 tonnellate di nafta potessero bastare per la missione, e che di
conseguenza riferì al Carducci che
avrebbe potuto partire senza problemi insieme al resto della IX Squadriglia.
Alle 23 arrivò dal
comando di divisione l’ordine di partenza. La IX Squadriglia lasciò il Mar
Grande procedendo in linea di fila, con l’Alfieri
in testa ed il Carducci in seconda
posizione, seguito a sua volta da Oriani
per terzo e Gioberti per ultimo;
nonostante il buio, dalla plancia il comandante Ginocchio vedeva chiaramente
tutte e tre le unità gemelle. Giunti alla fine del Mar Grande, in procinto di
doppiare l’isolotto di San Paolo, vennero avvistate a poppavia anche le
alberature di Zara (capitano di
vascello Luigi Corsi), Pola (capitano
di vascello Manlio De Pisa) e Fiume
(capitano di vascello Giorgio Giorgis), gli incrociatori della I Divisione, che
la IX Squadriglia doveva scortare.
Una volta in mare
aperto, alla I Divisione si unì anche la VIII Divisione (incrociatori leggeri Duca degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi), proveniente da
Brindisi con la XVI Squadriglia Cacciatorpediniere (Nicoloso Da Recco, Emanuele
Pessagno). Le navi dovevano raggiungere un punto di riunione fissato circa
55 miglia a sudest di Capo Spartivento Calabro. Nelle stesse ore presero il
mare anche la corazzata Vittorio Veneto,
scortata dalla X Squadriglia Cacciatorpediniere (Maestrale, Grecale, Libeccio e Scirocco, poi rilevati da Granatiere,
Bersagliere, Fuciliere ed Alpino della
XIII Squadriglia), da Napoli, e la III Divisione (Trento, Trieste, Bolzano) con la XII Squadriglia (Ascari, Corazziere, Carabiniere)
da Messina.
Tutte queste unità si
dovevano riunire nel punto prestabilito per poi partecipare all’operazione
«Gaudo», un’incursione contro il naviglio britannico nel Mediterraneo
orientale, a nord di Creta. Questo, naturalmente, l’equipaggio non lo sapeva:
la destinazione era stata tenuta segretissima, anche se una volta in mare non
tardarono a diffondersi voci che dicevano che in mare c’era tutta la flotta
italiana.
La I e la VIII
Divisione, con le rispettive squadriglie di cacciatorpediniere, dovevano
riunirsi 55 miglia
a sudest di Capo Spartivento Calabro, formando un unico gruppo.
Dopo la riunione, la
flotta italiana doveva dirigere verso la Libia per trarre in inganno eventuali
ricognitori britannici, finché, giunta in un punto prestabilito al largo di
Capo Passero, si sarebbe divisa nuovamente nei due gruppi che avrebbero poi
diretto verso i rispettivi obiettivi.
La I e la VIII
Divisione (insieme ai sei cacciatorpediniere della IX e XVI Squadriglia),
riunite sotto il comando dell’ammiraglio Carlo Cattaneo (comandante della I
Divisione, con bandiera sullo Zara),
dovevano portarsi a nord di Creta, passando tra Cerigotto e Capo Spada, poi
proseguire sino a giungere a 30
miglia a sud di Stampalia per la loro puntata offensiva;
la Vittorio Veneto (nave di
bandiera dell’ammiraglio di squadra Angelo Iachino, comandante superiore in
mare) e la III Divisione, insieme alla XII e XIII Squadriglia
Cacciatorpediniere (sette unità), dovevano invece raggiungere le acque di
Gaudo, a sud di Creta, per compiervi una scorreria. Entrambi i gruppi erano
incaricati di attaccare i convogli britannici in navigazione tra la Grecia e
l’Egitto (nell’ambito dell’operazione britannica «Lustre»), se in condizioni di
superiorità, per poi fare rapidamente alle basi ritorno dopo aver inflitto il
maggior danno possibile. Qualora fossero state avvistate da superiori forze
avversarie prima di arrivare nelle acque di Creta, le navi italiane avrebbero
dovuto abortire l’operazione, venendo a mancare la sorpresa. L’ordine
d’operazione per il Gruppo «Zara», formato dalla I e VIII Divisione con le
relative squadriglie di cacciatorpediniere, recitava «Gruppo Zara composto I e VIII Divisione navale lasci base prime ore
giorno X-1 et regoli propri movimenti in modo trovarsi alle 20.00 giorno X-1 in punto lat. 35°46’ e long.
19°34’ et diriga poi per passare ore 04.00 giorno X fra Cerigotto et Capo Spada
alt Prosegua quindi per levante fino at meridiano Capo Tripiti e poi per
scoglio Karavi dove dovrà trovarsi ore 08.00 giorno X alt Da tale punto diriga
per ripassare fra Capo Spada e Cerigotto et quindi per punto miglia 90 a ponente di Cerigotto dove
dovrà trovarsi ore 13.30 giorno X et quindi per rientro basi alt In caso
avvistamento unità nemiche attaccare a fondo soltanto se in condizioni
favorevoli di relatività di forze alt».
L’idea di una puntata
offensiva in Egeo era sorta a seguito del convegno di Merano, svoltosi il 13-14
febbraio 1941 tra una rappresentanza dei vertici della Regia Marina (ammiragli
Arturo Riccardi, Raffaele De Courten, Emilio Brenta e Carlo Giartosio) ed una
della Kriegsmarine (ammiragli Erich Raeder e Kurt Fricke e capitano di fregata
Frank Aschmann, membro del Comando della Marina tedesca nel Mediterraneo). Il
capo di Stato Maggiore della Kriegsmarine, ammiraglio Erich Raeder, aveva
evidenziato l’atteggiamento prettamente difensivo fino ad allora tenuto dalla
Marina italiana – uscite in mare infruttuose o scontri terminati senza
vincitori né vinti, combattimenti di minore entità sfociati in sconfitte per le
unità italiane, l’ancor vicina “notte di Taranto” e la brutta figura del
bombardamento navale di Genova compiuto dai britannici senza subire perdite –
ed invitato il capo di Stato Maggiore della Regia Marina, ammiraglio Arturo
Riccardi, ad improntare le operazioni future ad una maggiore aggressività, sia
a sostegno del trasferimento in Libia dell’Afrika Korps (in corso in quel
momento) che a contrasto dei convogli che trasportavano truppe e rifornimenti
britannici dall’Egitto alla Grecia; in particolare, aveva suggerito incursioni
nel Mediterraneo orientale con le veloci e potenti corazzate classe Littorio.
Riccardi aveva respinto le richieste tedesche, motivandole con l’insufficienza
della copertura aerea; il capo reparto operazioni della Kriegsmarine,
ammiraglio Kurt Fricke, aveva poi rinnovato tali insistenze presso il suo
collega italiano, ammiraglio Emilio Brenta, ma anche questi le aveva rigettate,
adducendo a motivo la disparità di forze dopo la notte di Taranto e la scarsità
di nafta, le cui scorte sarebbero state notevolmente erose da una missione del
genere. Brenta aveva anche fatto presente che i britannici sarebbero stati in
condizione di vantaggio e che, se fossero riusciti a danneggiare qualche nave
italiana, avrebbero ridotto la velocità della squadra, costringendola ad
accettare un combattimento lontano dalla proprie basi e in qualsiasi situazione
di relatività di forze. Un timore, come poi mostrarono i fatti, profetico.
Fricke aveva allora
suggerito incursioni notturne con l’impiego di forze navali leggere, ma Brenta
aveva puntualizzato che le forze di cui si disponeva erano appena sufficienti a
svolgere i compiti indispensabili, tra cui le scorte verso la Libia.
Nonostante una
siffatta conclusione dell’incontro, dopo di esso tra i vertici della Regia
Marina e nello stesso Riccardi crebbe l’esigenza di mostrare alla Germania che
anche la Marina italiana era in grado di passare con decisione all’offensiva:
ciò – fu deciso – si sarebbe concretizzato con una puntata offensiva (da
compiersi non appena la flotta fosse potuta tornare nella base di Taranto, una
volta che le sue difese contraeree fossero state potenziate) contro i convogli
britannici che, provenienti dall’Egitto, rifornivano la Grecia.
Per coincidenza, a
fine febbraio fu un ammiraglio che non era stato a Merano, né sapeva quanto vi
si fosse detto, a prospettare a Riccardi l’idea di un’incursione in Egeo con
una corazzata e tre incrociatori, per ostacolare l’invio di truppe e
rifornimenti dall’Egitto alla Grecia: Angelo Iachino, comandante della Squadra
da battaglia. Riccardi rispose che un piano del genere era già allo studio da
parte di Supermarina, ma che nell’immediato era inattuabile per mancanza di
obiettivi: l’attività della Luftwaffe, infatti, aveva fatto pressoché cessare
il traffico navale britannico nel Mediterraneo orientale.
Ma pochi giorni dopo
(6 marzo) prese il via l’operazione britannica «Lustre», il trasferimento in
Grecia di circa 60.000 uomini con i relativi equipaggiamenti, per appoggiare la
resistenza del Paese ellenico contro le forze dell’Asse. Convogli britannici
ripresero pertanto a solcare le acque dell’Egeo verso la Grecia.
A rincarare la dose,
tra il 10 ed il 14 marzo, ci si mise l’ammiraglio Eberhard Weichold, ufficiale
di collegamento della Kriegsmarine in Italia, che rinnovò le pressioni per una
mossa offensiva della Marina italiana. Da parte tedesca si sosteneva che parte
delle forze della Royal Navy erano distolte dalla necessità di contrastare le
incursioni in Atlantico dell’incrociatore pesante Admiral Hipper e della corazzata tascabile Admiral Scheer (ma in realtà questo non aveva influito sulla
dislocazione delle forze britanniche nel Mediterraneo); sulle prime Supermarina
fu ancora recalcitrante, ma il 19 marzo i comandi tedeschi asserirono che, dopo
il grave danneggiamento delle corazzate britanniche Warspite e Barham e
della portaerei Illustrious per
opera di aerei della Luftwaffe (il 16 marzo degli Heinkel He 111 del X Corpo
Aereo Tedesco – II Gruppo del 26° Stormo – avevano riferito di aver silurato
due corazzate; quanto alla Illustrious,
la sua messa fuori uso era cosa assodata già da gennaio), alla Mediterranean
Fleet era rimasta una sola corazzata (la Valiant) e nessuna portaerei.
Riccardi, convinto
che le condizioni fossero ora favorevoli, era capitolato: il 16 marzo aveva
deciso di dare il via all’operazione (cinque giorni dopo anche il Comando
Supremo rincarò la dose, invitando Marina ed Aeronautica ad un atteggiamento
più aggressivo in Egeo, a sostegno della prossima offensiva tedesca in Grecia).
Requisiti essenziali erano il fattore sorpresa da parte italiana, un capillare
servizio di ricognizione aerea ed una forte copertura aerea italo-tedesca.
Sarebbero mancati tutti e tre.
Dal momento che i
piccoli convogli obiettivo dell’incursione erano formati di solito da quattro o
cinque mercantili, scortati da un incrociatore e qualche cacciatorpediniere, e
considerando che per il successo di un attacco del genere erano essenziali la
rapidità e la sorpresa, probabilmente la scelta più appropriata sarebbe stata
di lanciare veloci puntate offensive con gli ottimi incrociatori leggeri della
VII e/o VIII Divisione (così come fecero, successivamente, i britannici stessi
contro i convogli italiani, con la Forza K e la Forza Q), ma le reali
motivazioni dietro all’operazione pianificata da Supermarina erano di natura
politica: dimostrare ai tedeschi che gli italiani, sul mare, potevano essere
aggressivi quanto loro e quanto i britannici. Nelle parole dell’ammiraglio
Giuseppe Fioravanzo, allora Capo Ufficio Operazioni Piani di Guerra: “Dare
al mondo l’impressione che l’Inghilterra non ci aveva preclusa l’iniziativa in
zone lontane dalle nostre basi; dare alla Squadra, da troppo tempo inattiva, la
soddisfazione per essa tanto desiderata di andare verso il nemico senza subirne
la volontà; non tralasciare le pressioni che ci venivano da Berlino”.
Ciò portò a decidere
per una vera dimostrazione muscolare di forza: avrebbe preso il mare il fior
fiore della flotta italiana, le unità più moderne e potenti di cui la Regia
Marina disponeva.
Il 19 marzo Raeder
aveva scritto ancora una volta per caldeggiare un attacco al traffico
britannico nel Mediterraneo orientale, rimarcando la situazione favorevole
generata dall’"eliminazione" di due corazzate, ed il 25 marzo
Riccardi gli rispose di essere dello stesso avviso, aggiungendo che prossime
operazioni navali italiane sarebbero state indirizzate proprio in quella
direzione. Il 21 marzo anche il generale Alfredo Guzzoni, Sottocapo di Stato
Maggiore Generale, suggerì che la Marina compisse in Egeo «offese navali di
superficie attuabili attraverso rapide puntate di incrociatori protetti e
cercando di battere le corazzate» britanniche, che in quel momento apparivano
«in stato d’inferiorità numerica»; Riccardi rispose anche a lui che
«Supermarina aveva già studiato le possibilità di azioni con navi di superficie
contro l’Egeo».
I preparativi
compresero il potenziamento delle difese della base di Taranto, così che almeno
una parte della Squadra vi potesse tornare in condizioni di sicurezza (e
proprio la I Divisione fu tra le formazioni che tornarono ad avere base a
Taranto). Segnalazioni da parte del Servizio Informazioni della Marina, il 22 e
23 marzo, di due grossi convogli britannici (uno di 12 navi ad Alessandria ed
uno di 18 navi a Giaffa) in procinto di partire per Volo e Suda riconfermarono
Supermarina nelle sue intenzioni.
Originariamente
l’avvio dell’operazione era stato previsto per il 24 marzo, ma successivamente,
per avere il tempo di prendere accordi particolareggiati con le forze aeree
tedesche, esso venne posticipato al 26. Alle 21.10 del 23 marzo Supermarina
inviò agli ammiragli Iachino, Cattaneo, Sansonetti e Legnani l’ordine
d’operazione: fu recapitato mediante corrieri e telescriventi, così che non
potesse essere oggetto di intercettazione da parte avversaria. La parte che
riguardava la I Divisione recitava: «Gruppo Zara composto
I e VIII Divisione navale lasci base prime ore giorno X-1 et regoli propri
movimenti in modo trovarsi alle 20.00 giorno X-1 in punto lat. 35°46’ e
long. 19°34’ et diriga poi per passare ore 04.00 giorno X fra Cerigotto et Capo
Spada alt Prosegua quindi per levante fino at meridiano Capo Tripiti e poi per
scoglio Karavi dove dovrà trovarsi ore 08.00 giorno X alt Da tale punto diriga
per ripassare fra Capo Spada e Cerigotto et quindi per punto miglia 90
a ponente di Cerigotto dove dovrà trovarsi ore 13.30 giorno X et quindi
per rientro basi alt In caso avvistamento unità nemiche attaccare a fondo
soltanto se in condizioni favorevoli di relatività di forze alt». Il 24
marzo Iachino inviò il suo ordine di operazione dettagliato, il numero 47,
a mezzo corrieri ai suoi tre ammiragli dipendenti (Cattaneo, Sansonetti e
Legnani), ma frattanto anche i comandi di Rodi (per l’intervento
dell’Aeronautica dell’Egeo) e Taormina (per l’intervento del X CAT) dovettero
essere informati, e ciò si poté fare solo per radio.
L’Aeronautica della
Sicilia, il X. Fliegerkorps della Luftwaffe (X Corpo Aereo Tedesco, che
disponeva di circa 200 bombardieri e 70 caccia) anch’esso di base in Sicilia, e
la caccia italiana di Rodi (dotata di biplani Fiat CR. 42 di base
nell’aeroporto di Maritza; in tutto in Egeo non vi erano che 86 aerei italiani
di cui solo 52 efficienti, in massima parte vetusti e con contenute riserve di
carburante) avrebbero fornito copertura aerea alle navi di Iachino; o almeno
questo era ciò che era previsto.
La questione
dell’appoggio aereo ebbe degli aspetti che rasentarono l’assurdo. Supemarina,
ritenendo necessario un efficace appoggio aereo per la riuscita della missione,
chiese all’ammiraglio Weichold di accordarsi con il generale Hans-Ferdinand
Geisler, comandante il X Fliegerkorps, che affermò di poter mettere a
disposizione ricognitori, caccia a lungo raggio e bombardieri. Quando però il
Capo di Stato Maggiore della Regia Aeronautica, generale Francesco Pricolo,
ricevette il programma delle scorte aeree e seppe da Riccardi che si erano
presi accordi con la Luftwaffe, senza che a lui si fosse detto niente, montò su
tutte le furie ed accusò Riccardi di aver commesso “una grave sgarberia verso
Superaereo”. Guzzoni si schierò con Pricolo, e venne modificato il programma
previsto per l’impiego delle forze aeree. Nessuno si sarebbe poi curato di
informare Iachino in merito.
Tra Creta ed
Alessandria vennero inviati in agguato i sommergibili Ambra, Ascianghi, Dagabur, Nereide e Galatea, con
l’incarico di segnalare eventuali movimenti di forze navali nemiche.
La segretezza
dell’operazione «Gaudo», fondamentale per la sua riuscita, era però svanita
prima ancora del suo inizio: l’aumento delle ricognizioni effettuate dalla
Regia Aeronautica in Mar Egeo era stato infatti notato dall’ammiraglio Andrew
Browne Cunningham, comandante della Mediterranean Fleet; ed i ricognitori
decollati da Malta avevano avvistato la I Divisione a Taranto, base che fino ad
allora, dopo l’attacco aerosilurante dell’11-12 novembre, era stata abbandonata
da ogni nave maggiore. Intuendo che la Marina italiana stesse preparando qualcosa
contro i convogli britannici per la Grecia (anche se non si escludevano altre
possibilità, quali l’invio di un convoglio italiano fortemente scortato verso
il Dodecaneso, un’operazione diversiva a copertura di uno sbarco italo-tedesco
in Cirenaica o Grecia, od un attacco contro Malta), Cunningham aveva ordinato
che le ricognizioni sulle principali basi navali italiane e sulle probabili
rotte che la flotta italiana avrebbe potuto seguire venissero aumentate sino al
massimo possibile, e dislocò in quelle acque tutti i sommergibili disponibili.
Le decrittazioni, da
parte di “ULTRA”, di comunicazioni della Luftwaffe in cui si annunciava che
questa avrebbe dato protezione ad una forte squadra navale italiana che doveva
a breve effettuare una scorreria in Egeo, diedero dato a Cunningham la conferma
circa le sue supposizioni; infine, il 25 marzo “ULTRA” intercettò una comunicazione
di Supermarina (partita da Roma e diretta a Rodi) in cui si diceca che «Oggi 25
marzo est giorno X meno 3». Tra il 25 ed il 26, ulteriori intercettazioni aggiunsero
informazioni a quelle già note ai britannici, pur non componendo ancora un quadro
particolarmente nitido.
Mentre gli ordini
d’operazione delle unità navali, come si è visto, erano stati inviati con mezzi
a prova d’intercettazione, l’unico modo di comunicare col Comando delle Forze
Armate dell’Egeo (i cui velivoli dovevano partecipare alla copertura aerea
delle navi il 28 marzo) era la radio, vulnerabile alle intercettazioni, e così
era stato. Solo per mancanza di tempo, “ULTRA” non riuscì a decifrare l’ordine
di operazioni completo, compilato il 24 marzo dall’ammiraglio Carlo Giartosio.
In questo caso, Supermarina aveva tentato di far pervenire l’ordine a Rodi con
mezzi non soggetti ad intercettazione: lo aveva affidato ad un corriere a Roma
con l’ordine di imbarcarsi su un bombardiere Savoia Marchetti S.M. 81 (della
222a Squadriglia del 56° Gruppo da Bombardamento Terrestre)
diretto nell’isola, ma il 25 marzo l’aereo, in decollo dall’aeroporto di
Gerbini (Catania), era precipitato ed aveva preso fuoco, uccidendo i cinque
uomini dell’equipaggio. Non essendovi più tempo per inviare un altro aereo, fu
giocoforza usare la radio.
L’Ammiragliato
informò Cunningham dell’intercettazione alle 17.05 di quello stesso giorno;
l’indomani nuove intercettazioni (di radiomessaggi in codice inviati da Roma a
Rodi) permisero di apprendere che da parte italiana erano pianificate
ricognizioni aeree, nei due giorni precedenti X (su Alessandria, Suda e le
rotte tra Alessandria ed il Pireo, su entrambi i lati di Creta) e durante lo
stesso giorno X (dall’alba a mezzogiorno tra Creta ed Atene, nonché sulle rotte
tra Creta ed Alessandria), ed attacchi aerei sugli aeroporto di Creta, sia la
notte precedente il giorno X che il giorno X stesso. Dato che il più lungo dei
messaggi intercettati era stato inviato dal generale Guzzoni, cioè da un
ufficiale del Regio Esercito, ma mediante la macchina cifrante di Supermarina
(per il semplice motivo di poter così usare la linea telegrafica di Supermarina
con il Dodecaneso), da parte britannica si sospettò anche che l’operazione
potesse contemplare un’azione anfibia, con la partecipazione di truppe di
terra. Alle 10.07 del 26 marzo ancora un altro messaggio decrittato rivelò che
il giorno X (tra l’alba e mezzogiorno) ci sarebbero state ricognizioni
intensive tra Creta, la costa orientale greca, il Golfo di Atene e la linea Zea-Milo-Capo
Sidero nonché (sempre durante il mattino) sulle rotte tra il Gaudo ed
Alessandria e Caso ed Alessandria, ed attacchi aerei nel mattino sugli
aeroporto cretesi.
Cunningham aveva
subito preso tutti i provvedimenti del caso, con tre ordini di operazione
diramati alle le 18.18, alle 18.20 ed alle 18.22 del 26 marzo a vari comandi
(Malta, il Quartier Generale delle forze britanniche in Grecia, il comando
della base di Suda, il Quartier Generale del Medio Oriente ed il Quartier
Generale della Royal Air Force in Medio Oriente). Spiegando che «c’è ragione di
sospettare che forze di superficie nemiche progettino una puntata nell’Egeo
giungendo lì il 28 marzo», il comandante della Mediterranean Fleet aveva
chiesto: 1) ricognizioni aeree su Taranto, Napoli, Brindisi e Messina per il
pomeriggio del 27; 2) sospensione di ogni traffico da e per la Grecia, tranne i
convogli «AG 8», già partito il 26 marzo da Alessandria per la Grecia con la
scorta di due incrociatori antiaerei e tre cacciatorpediniere, e «GA 8» (un
mercantile, l’incrociatore leggero Bonaventure e
due cacciatorpediniere), che sarebbe partito il 29 seguendo la rotta opposta ed
arrivando ad Alessandria due giorni dopo (senza il Bonaventure, affondato dal sommergibile italiano Ambra); 3) ritiro di tutte le unità di
vigilanza in servizio a Suda ed al Pireo per porle sotto la protezione delle
difese locali; immediato stato di allerta per tutta la Mediterranean Fleet; 4)
uscita dal Pireo, il 27 marzo (il giorno prima di quello fissato per
l’operazione italiana), della 7th Cruiser Division (Forza B)
dell’ammiraglio Henry Pridham-Wippell per un pattugliamento del mare attorno a
Gaudo, isolotto a sud di Creta (le navi di Pridham-Wippell salparono la sera
del 27, con l’ordine di essere 30 miglia a sud di Gaudo per le 6.30
del 28); 5) invio dei sommergibili Rover
e Triumph in probabili punti di
passaggio della squadra italiana; 6) rinforzo delle difese contraeree di Suda
(con l’invio dell’incrociatore antiaereo Carlisle);
7) potenziamento delle squadriglie di aerosiluranti di Creta e della Cirenaica
e loro approntamento all’azione (e si prepararono anche reparti di bombardieri
Bristol Blenheim); 8) che tutto ciò fosse eseguito in maniera tale da non far
trapelare che i britannici erano al corrente di una prossima mossa della Regia
Marina in Egeo. Il 27 marzo, quando gli ordini d’operazione di Cunningham erano
già stati diramati, altre due decrittazioni di “ULTRA” permisero all’ammiraglio
britannico di apprendere quanto da parte italiana si sapeva (mediante ricognizione
ed intercettazioni) sulla dislocazione delle sue forze e sui movimento navali
britannici in Mediterraneo.
Supermarina,
ovviamente, era ignara di tutto ciò. Il 26 e 27 marzo il reparto informazioni
della Regia Marina segnalò un forte, improvviso ed inconsueto aumento del
traffico radio tra Malta ed i comandi britannici del Mediterraneo orientale,
puntualizzando anche che doveva essere correlato alla preparazione, da parte
avversaria, di qualche operazione. Nessuno, però, mise tale notizia in relazione
alla puntata di Iachino in Egeo.
A differenza di
quanto si riteneva da parte italo-tedesca, Warspite e Barham non
erano state danneggiate in modo grave ed erano già tornate in servizio, come
mostrato da nuove scattate il mattino del 24 marzo da uno Ju 88 della 3a Squadriglia
del 1° Gruppo Ricognizione Strategica del X Fliegerkorps (che avevano sorvolato
la Mediterranean Fleet, uscita in mare a protezione di un convoglio da
Alessandria a Malta) ma inoltrate a Supermarina solo due giorni dopo, in quanto
classificate come «bassa priorità». Un messaggio del X CAT a Supermarina
mandato nel pomeriggio del 26 diceva chiaramente che «Da accurato esame della fotografia eseguita sulla forza navale
avvistata a nord di Marsa Matruh si rileva: a) una forza navale costituita da
quattro grosse unità in linea di fila a distanza di 650 metri tra
prora e prora nell’ordine: una Nb tipo QUEEN ELIZABETH, una Pa tipo FORMIDABLE,
una Nb tipo BARHAM, una Nb tipo QUEEN ELIZABETH (…)». Anche allora ci
sarebbe stato il tempo di farlo sapere a Iachino, che ancora era in porto: ma
ciò, per motivi inesplicati, non avvenne.
A Supermarina si era
convinti che la superiore velocità delle navi italiane avrebbe loro permesso di
evitare un pericoloso incontro; si sottovalutò poi la pericolosità degli aerei
britannici, che fino a quel momento erano stati assai letali negli attacchi
alle navi in porto (Taranto, Tobruk, Bengasi, Napoli, Augusta), ma non avevano
mai colpito una nave da guerra italiana in mare aperto.
L’Illustrious era stata davvero posta
fuori combattimento, ma il 10 marzo era già giunta in Mediterraneo la sua
sostituta, la gemella Formidable.
Di ciò l’ammiraglio
Iachino sarebbe stato informato solo a missione in corso, il 27 marzo, quando
la sua nave avrebbe intercettato alle 15.19 e 16.43 due messaggi trasmessi da
Rodi, che annunciavano che la ricognizione strategica (un CANT Z. 1007 italiano
ed uno Junkers Ju 88 tedesco) aveva visto ad Alessandria tre navi da battaglia
e due portaerei. Il giorno stesso fu trasmesso a Supermarina un messaggio del X
Fliegerkorps che annunciava che un loro Ju 88 in ricognizione su
Alessandria vi aveva localizzato «due navi da battaglia classe QUEEN ELIZABETH
– una nave battaglia classe BARHAM – portaerei FORMIDABLE et EAGLE – un incr.
classe AURORA – un incr. classe SOUTHAMPTON…»
La navigazione della
formazione italiana era ostacolata dal mare di prora, causato da un leggero
vento da sudovest. Durante i cinque mesi trascorsi da quando ne aveva assunto
il comando, il capitano di fregata Alberto Ginocchio aveva avuto modo di
familiarizzare con il Carducci,
approfittando di ogni uscita in mare per perfezionare l’addestramento
dell’equipaggio con tiri coi cannoni da 120, cambi di velocità ed accostate;
durante queste uscite era emerso che i consumi di carburante del Carducci erano superiori al necessario,
in quanto la nave necessitava con urgenza di lavori di pulitura dello scafo e
delle caldaie. Ora, Ginocchio temeva che il Carducci
potesse scadere dalla sua posizione nella linea di fila: al minimo sforzo, dal
fumaiolo usciva un denso fumo nero prodotto dalle caldaie, che rendeva la nave
visibile anche a grande distanza. Inoltre, c’era il rischio che il carburante
imbarcato – meno del dovuto, per via del problema verificatosi durante il
caricamento – potesse rivelarsi insufficiente: 275 tonnellate di nafta potevano
bastare per un’operazione di due o al massimo tre giorni, però c’era da
considerare il consumo eccessivo mostrato dal Carducci durante le missioni precedenti. Il Carducci era piaciuto a Ginocchio fin dal momento dell’imbarco, ma
l’ufficiale aveva notato subito il cattivo stato delle caldaie: invano aveva
ripetutamente richiesto al Comando un periodo di lavori in modo che le caldaie
venissero sottoposte ad un’estesa pulitura, spiegando che il cacciatorpediniere
avrebbe potuto essere assegnato in qualsiasi momento ad una missione di scorta
veloce, il che avrebbe richiesto un apparato motore in ottimo stato. Fino a
quel momento, dallo scoppio della guerra, il Carducci non era praticamente mai entrato in cantiere per lavori di
sorta.
L’ultimo sollecito
urgente di Ginocchio all’Arsenale di Taranto per una completa revisione delle
caldaie, il quarto, era stato inviato proprio il mattino del 26 marzo, prima di
sapere dell’ordine di partenza; Ginocchio ne aveva inviata copia per conoscenza
anche al Comando della I Divisione, dove la lettera venne ritenuta giustificata
ma non fu nemmeno mostrata all’ammiraglio Cattaneo, dato che già fervevano i
preparativi per la missione e non c’era più tempo per questioni secondarie. Di
conseguenza, Ginocchio non aveva neanche ricevuto la risposta scritta prevista
dai regolamenti.
In mare aperto il
comandante Ginocchio, una volta controllato che tutto fosse a posto, chiamò in
plancia il comandante in seconda, tenente di vascello Vito Ninni, dal quale si
fece sostituire, dopo di che scese nel quadrato per cenare con gli altri
ufficiali. Ninni era corrucciato perché due giorni prima Ginocchio gli aveva
comminato una punizione per essere sceso a terra senza autorizzazione – facendosi
sostituire dal parigrado Michele Cimaglia, direttore del tiro, che aveva
avvisato –, in sua assenza, per vedere la moglie e la figlia piccola, Rosalba,
che in quel momento si trovavano a Taranto. Ginocchio aveva comunque un’ottima
opinione di Ninni, così come di tutto il suo stato maggiore ed equipaggio:
gente esperta e disciplinata, senza eccezioni.
Nel quadrato
Ginocchio incontrò proprio il tenente di vascello Cimaglia, nonché il sottotenente
del Genio Navale Antonio Sponza ed il direttore di macchina, capitano del Genio
Navale Giuseppe Scelsa. Quest’ultimo gli spiegò subito che le macchine andavano
abbastanza bene, ma che non dovevano essere sottoposte a sforzo, e che avrebbe
fatto il possibile per evitare che il Carducci
scadesse rispetto alle altre unità della squadriglia. I quattro ufficiali
presero poi a discutere su quali potessero essere gli obiettivi di quell’uscita
in mare: nessuno di loro ne era stato informato, ma Ginocchio ipotizzò
correttamente che la I e VIII Divisione, con altre unità (quali, ancora non
sapeva), stessero dirigendo verso est per attaccare a sud della Grecia i
convogli che dall’Egitto mandavano rinforzi e rifornimenti britannici in
Grecia.
La giornata del 27
marzo passò senza eventi di rilievo: vi era una considerevole foschia sul mare,
ma almeno le onde di prora incontrate dopo la partenza da Taranto erano
cessate, così che il Carducci poté
avanzare più agevolmente, senza più rischiare di scadere rispetto ai gemelli.
Intorno alle dieci del mattino giunse dall’ammiraglio Cattaneo l’ordine per le
navi della IX Squadriglia di passare dalla formazione in linea di fila a quella
di scorta ravvicinata, ai lati della I Divisione. Subito il Carducci si portò sul lato di dritta
della formazione, che procedeva su rotta 134°, rotta che – era ormai evidente –
poteva portare il gruppo soltanto verso le coste meridionali della Grecia o le
acque intorno a Creta.
Il tempo si mantenne
buono fino alle 16, quando all’improvviso si levò un forte vento da sud e
comparvero all’orizzonte striature basse e nere. L’aria, in precedenza fresca,
divenne afosa, il che faceva presagire un prossimo peggioramento dello stato
del mare. Si presentarono in plancia il tenente Sponza ed il fuochista Aiello,
preoccupati perché il cambiamento delle condizioni meteomarine avrebbe reso
necessario rinforzare l’andatura, con conseguente aumento dei consumi di nafta,
più di quanto previsto. Ginocchio e Ninni, infatti, non tardarono a notare che
il Carducci stava lentamente scadendo
rispetto all’Oriani, che lo
precedeva, ed agli incrociatori della I Divisione che aveva alla sua sinistra.
Alle 10.30 del 27 la
I e la VIII Divisione (con IX e XVI Squadriglia) si riunirono 55 miglia a sudest di
Capo Passero, poi si posizionarono 16 miglia a poppavia della Vittorio Veneto (fuori vista rispetto
alle navi del gruppo «Zara»), che era a sua volta preceduta di 7 miglia dalla III
Divisione. La foschia ed il vento di scirocco ostacolarono il mantenimento
della formazione, mentre non vi furono difficoltà nel mantenere la velocità
prefissata.
La navigazione
proseguì senza incidenti – ma nella preoccupante assenza della poderosa scorta
aerea tedesca prevista: non si vedevano che idrovolanti CANT Z. 506 che fornivano
per qualche ora scorta antisommergibile, e più tardi qualche aereo tedesco in
lontananza che passò senza dar segno d’aver visto le navi – sino alle 12.25,
quando il Trieste annunciò
che la III Divisione era stata localizzata da un idroricognitore britannico
Short Sunderland. Quest’ultimo era un velivolo del 230th Squadron
RAF decollato dalla base greca di Scaramanga, ai comandi del capitano pilota D.
G. Boehm, il quale segnalò alla base di aver avvistato, 80 miglia ad est di
Capo Passero, una formazione composta da tre incrociatori ed un
cacciatorpediniere, con rotta sudest, probabilmente diretti verso le rotte dei
convogli britannici per la Grecia. (Altra fonte invece anticipa di parecchie
ore l’avvistamento della formazione italiana, che sarebbe avvenuto all’alba del
27 da parte di un altro Sunderland del 230th Squadron, il ‘NM-P’ del
capitano McCall, che avrebbe segnalato l’avvistamento di tre incrociatori).
Compreso che la
sorpresa, presupposto fondamentale per la riuscita della missione, non c’era
più, Iachino domandò quindi a Supermarina se dovesse annullare la missione e
rientrare alla base; in una concitata riunione si concluse che la sorpresa era
venuta a mancare, ma che il ricognitore non aveva avvistato che una porzione
della squadra italiana, pertanto si decise di proseguire, preferendo rischiare
una trappola, che far sembrare ai tedeschi (che avevano sollecitato un
atteggiamento più offensivo da parte della Marina italiana, in risposta a cui era
stata pianificata l’operazione «Gaudo») ed a Mussolini che la Marina si ritirasse
alle prime difficoltà.
In seguito a ciò, la
formazione italiana, poco dopo le 14, accostò per 150° (prima la rotta era
134°) per ingannare il ricognitore, e mantenne questa rotta sino alle 16, dopo
di che riaccostò per 130°, e poi – alle 19.30 – per 98° portando la velocità a
23 nodi, così da giungere nel punto prestabilito a sud di Gaudo all’alba del
28. Alle 22 Supermarina annullò l’attacco a nord di Creta, dato che la
ricognizione aveva rivelato che non c’erano convogli da attaccare (ed anche per
il rischio che gli incrociatori del gruppo «Zara» venissero attaccati da forze
britanniche, di cui si aveva contezza dopo l’avvistamento del Sunderland),
pertanto la I e VIII Divisione ricevettero l’ordine di ricongiungersi con
la Vittorio Veneto e la III
Divisione all’alba del giorno seguente, al largo di Gaudo («Destinatati V.
VENETO per Squadra e ZARA per Divisione alt Modifica ordine di operazione
gruppo Cattaneo si riunisca dopo alba domani 28 corrente gruppo Iachino alt
Programma Iachino resta invariato»). In base a rilevazioni radiogoniometriche,
si ritenne che in quella zona si sarebbero trovati, il giorno seguente, alcuni
incrociatori leggeri e cacciatorpediniere britannici.
Alle 14.35 del 27 la
ricognizione aerea italiana su Alessandria trovò le corazzate britanniche
ancora in porto: ciò venne riferito a Iachino, ma la successiva ricognizione,
da effettuarsi in serata, fu annullata per via delle condizioni meteorologiche.
Se ci fosse stata, avrebbe mostrato che il grosso della Mediterranean Fleet –
le corazzate Barham, Valiant e Warspite, la portaerei Formidable (Forza
A) e nove cacciatorpediniere della 10th e 14th Destroyer
Flotilla (Forza C) – non c’era più: dopo la segnalazione del Sunderland che
aveva avvistato le navi italiane alle 12.25, infatti, l’ammiraglio Cunningham
era uscito in mare con le sue navi, alle 19 del 27, per intercettare la
formazione di Iachino. Proprio perché si aspettava una ricognizione sul porto
durante il pomeriggio, anzi, Cunningham non era partito prima: aveva
deliberatamente tenuto in porto le sue corazzate affinché i ricognitori
italiani le trovassero lì e credessero quindi che la Mediterranean Fleet
sarebbe rimasta in porto.
Inoltre, per
ingannare eventuali informatori nemici ad Alessandria (si sospettava
soprattutto dell’addetto navale del Giappone, nazione ancora neutrale ma
alleata di Italia e Germania), Cunningham si era recato a giocare a golf in
abiti civili durante il pomeriggio del 27, avendo cura di farsi vedere, per poi
imbarcarsi furtivamente sulla Warspite all’ultimo
momento. Unico intoppo nel piano britannico, la bassa velocità (19-20 nodi) che
la forza navale doveva tenere per non lasciare indietro la Warspite, che aveva aspirato della sabbia nell’uscire dal porto con
conseguenze ostruzione dei condensatori dell’apparato evaporatore. Ciò ritardò
la riunione tra le Forze A e C e la Forza B di Pridham-Wippell, impedendo che
tali forze riunite incontrassero quelle di Iachino già nella giornata del 28
marzo.
Iachino ignorava del
tutto tale situazione; Supermarina ricevette notizia di messaggi non confermati
che accennavano alla presenza in mare di una/tre corazzate ed una portaerei al
largo di Alessandria (ed alle 20.35 del 27 il Servizio Informazioni riferì di
«3 navi da battaglia e 2 [sic] navi portaerei accertate ad Alessandria ieri ore
13.00 (…) Oggi ore 13.00 una nave portaerei – un incrociatore et un
cacciatorpediniere 20 miglia a nordovest di Alessandria alt Ore
17.00 Formidable rilevata per
102° da Taormina alt Traffico radiotelegrafico confermerebbe presenza in mare
una nave da battaglia – una portaerei e Comando 7a Divisione
incrociatori (…)»), ma non ritenne di doverne informare il comandante superiore
in mare.
Dei sommergibili
dislocati nel Mediterraneo orientale per avvistare le forze nemiche, uno solo,
l’Ambra, sentì due volte rumori di
eliche agli idrofoni; dato che non era però riuscito ad avvistare niente, non
riferì alcunché alla base, non avendo ricevuto ordini in tal senso.
La sera del 27
Ginocchio cenò nuovamente con i suoi ufficiali: stavolta alla tavola c’era
anche Ninni, che era tornato di buon umore. Ben più cupo era invece l’ufficiale
di rotta, sottotenente di vascello Michele Fontana: scherzando, Ninni gli disse
che se sarebbero affondati lo avrebbe portato in salvo lui, caricandoselo sulla
schiena e nuotando fino a riva. Finito di cenare, Ginocchio ordinò per sé e per
gli ufficiali un bicchierino di gin, cosa insolita per lui, e ne offrì anche al
ragazzo di mensa; poi ricontrollò i turni ed andò a dormire.
Alle 6.35 del mattino
un idroricognitore catapultato dalla Vittorio
Veneto avvistò la Forza B britannica (composta dagli incrociatori leggeri Orion, Ajax, Perth e Gloucester e dai cacciatorpediniere Vendetta, Hasty, Hereward ed Ilex), in navigazione con rotta stimata
135° e velocità 18 nodi, una quarantina di miglia ad est-sud-est dall’ammiraglia
italiana. Alle 6.57, mentre la III Divisione riceveva l’ordine di assumere
rotta 135° e velocità 30 nodi (per raggiungere gli incrociatori britannici, poi
dirigere verso la Vittorio Veneto ed
attirarli così verso la corazzata), il resto della formazione italiana aumentò
la velocità a 28 nodi. In quel momento il gruppo «Zara» – che si sarebbe dovuto
congiungere con la Vittorio Veneto
all’alba –, di cui la IX Squadriglia faceva parte, si trovava in leggero
ritardo; alle 6.30 era circa 16 miglia a nordovest delle altre unità, ed alle
6.57 ricette ordine dalla nave ammiraglia di accelerare.
Alle 6.30 del mattino
del 28 marzo il comandante Ginocchio venne avvertito dell’avvistamento a
parecchie miglia di distanza, all’orizzonte, di alcune grandi navi; d’altro
canto, il gruppo «Zara» era giunto nel punto designato per l’appuntamento con
le altre navi che avrebbero preso parte all’operazione. Durante la notte la
radio del Carducci aveva intercettato
sull’onda di divisione le comunicazioni ricevute dallo Zara: anche se erano messaggi cifrati, si capiva che bolliva in
pentola qualcosa di grosso. Ginocchio era stato anche svegliato un paio di
volte, durante la notte, dal marinaio inviatogli dall’ufficiale radio per
portargli i messaggi.
Al binocolo,
Ginocchio riconobbe le sagome di una divisione di incrociatori e comprese
trattarsi di Trento, Trieste e Bolzano della III Divisione; più a destra e più lontana vide una
corazzata scortata da cacciatorpediniere, che riconobbe in breve come la Vittorio Veneto. Carteggiando in sala
nautica, determinò che l’incontro con queste navi sarebbe avvenuto tra Gaudo e
Cerigotto, all’altezza di Capo Krio. Uscendo dalla sala nautica, ebbe da Ninni
la conferma che gli incrociatori e la corazzata erano effettivamente Trento, Trieste, Bolzano e Vittorio Veneto; Ninni aggiunse che
alcuni minuti prima uno degli incrociatori aveva catapultato un idroricognitore
che si era diretto verso sudest, e che forse poteva essere visto all’orizzonte.
Ginocchio cercò infruttuosamente l’aereo con il binocolo, poi riprese a
controllare l’orizzonte e poco dopo avvistò del fumo verso sudest, in mezzo
alla foschia. Più o meno contemporaneamente giunse in plancia, dalla sala
radio, la notizia che erano in corso intensi scambi di messaggi tra lo Zara, la III Divisione e la Vittorio Veneto. I fumi visti verso
sudest dovevano essere navi nemiche; Ginocchio stabilì che la III Divisione
avesse su di esse, rispetto alla I Divisione, un vantaggio di visibilità di
almeno 14 miglia.
Poco dopo il comando
della I Divisione segnalò otticamente alla IX Squadriglia Cacciatorpediniere di
accelerare al massimo per superare la Vittorio
Veneto e raggiungere la III Divisione, cui dovevano fornire appoggio. I
cacciatorpediniere accelerarono dunque da 25 nodi fino a circa 28, e poi
gradualmente fino alla massima velocità; il Carducci
dovette sforzare le macchine e, pur riuscendo a non scadere rispetto agli
altri, prese ad emettere nuovamente denso fumo nero dal fumaiolo. La sala
macchine comunicò che c’erano problemi ai condensatori, e Ginocchio si chiese
ad alta voce se non sarebbero finiti col dover tornare in porto a rimorchio.
Il primo avvistamento
da parte britannica delle navi italiane era avvenuto alle 7.20, quando un aereo
Fairey Albacore aveva segnalato quattro incrociatori ed altrettanti
cacciatorpediniere 25 miglia a sudest dell’isolotto di Gaudo; venti minuti
dopo, un altro aereo dello stesso tipo (pilotato dal tenente di vascello A. S.
Whitworth) aveva riferito a sua volta l’avvistamento di quattro incrociatori e
sei cacciatorpediniere a 20 miglia dal precedente avvistamento, ed alle 8.04 il
primo Albacore aveva rettificato segnalando anch’esso quattro incrociatori e
sei cacciatorpediniere. Ciò aveva inizialmente generato nei comandi britannici
il dubbio che gli Albacore potessero aver individuato le navi di
Pridham-Wippell, dato che la loro composizione era analoga a quella della forza
avvistata (quattro incrociatori e quattro cacciatorpediniere); ma il dubbio fu
dissipato quando fu lo stesso Pridham-Wippell a comunicare l’avvistamento di
tre navi sconosciute 18 miglia più a nord. Le navi avvistate dagli Albacore
erano quelle della III Divisione di Sansonetti.
La III Divisione
aveva avvistato la Forza B britannica alle 7.55, ma dato che anche la Forza B
intendeva cercare di attirare le navi italiane verso il grosso della
Mediterranean Fleet (della cui presenza in mare gli italiani erano del tutto
all’oscuro) e pertanto iniziò a ripiegare, la manovra pianificata
dall’ammiraglio di squadra Iachino non si concretizzò, e furono invece le navi
italiane ad inseguire quelle britanniche. Alle 8.12 gli incrociatori della III
Divisione aprirono il fuoco contro le navi britanniche, che stavano ritirandosi
ad elevata velocità, da 21.000 metri di distanza: iniziava così lo scontro di Gaudo.
La IX Squadriglia, disposta in linea di fila, navigava verso il nemico seguita
a distanza normale dalla I e VIII Divisone; il gruppo della Vittorio Veneto si scorgeva appena
all’orizzonte, sulla dritta. In un modo o nell’altro, il Carducci riuscì a sviluppare e mantenere una velocità di 30 nodi.
In plancia, il
comandante Ginocchio cercò di capire al binocolo che tipo di navi fossero le
unità nemiche, che dovevano trovarsi circa 16 miglia a proravia della III
Divisione: lui riteneva che fossero cacciatorpediniere classe Tribal, ma chiese
a Cimaglia quale fosse il parere dei telemetristi. La III Divisione, che
continuava inseguire e cannoneggiare il nemico senza colpire, a causa della
distanza ancora eccessiva, procedeva in testa alla formazione italiana.
Sulla plancia del Carducci giunse la notizia che le navi
nemiche erano quattro incrociatori leggeri tipo Orion. Ginocchio si stupì nel
vedere l’ultimo incrociatore britannico – era il Gloucester – aprire il fuoco (erano le 8.29): non aveva gittata
sufficiente per colpire, e infatti la sua salva cadde corta, un paio di
chilometri a proravia del Trieste.
Aveva evidentemente sparato al solo scopo di tentare di ostacolare l’avanzata
della III Divisione, sapendo di non poter colpire. Ninni commentò: “Quelli in
mancanza d’altro ci tirerebbero addosso con la fionda!”. Speranza di Ginocchio
era che la III Divisione riuscisse a rallentare od immobilizzare gli
incrociatori nemici, così che i cacciatorpediniere sarebbero potuti andare
all’attacco silurante. Il tiro delle unità italiane fu inizialmente piuttosto
preciso e centrato sul Gloucester,
che zigzagò per evitare di essere colpito ed alle 8.29, calate le distanze a
20.000 metri, tirò senza successo tre salve che caddero corte (più per ragioni
“morali” – Pridham-Wippell non voleva dare ai suoi uomini l’impressione di
starsi ritirando senza sparare – che per l’effettiva speranza di colpire
qualcosa). Anche tutte le successive salve italiane, tuttavia, caddero
parimenti corte.
Alle 8.55, dato che
le distanze col nemico restavano costanti, la III Divisione interruppe
l’inseguimento del nemico, dietro ordine di Iachino. Concluso il vano
inseguimento e scambio di cannonate – al quale la I e VIII Divisione, non
ancora ricongiuntesi al resto della formazione, non avevano potuto partecipare
(anche
perché alle 8.38 avevano dovuto ridurre la velocità a 20 nodi a causa di
un’avaria del Pessagno,
per ordine di Iachino, che aveva al contempo ordinato loro di assumere rotta
300°) –, le navi italiane
alle 8.55 accostarono per 270° ed assunsero rotta 300° e velocità di 28 nodi,
seguite a distanza dalla Forza B, che tenne informato il resto della
Mediterranean Fleet dei movimenti delle unità italiane. Quando se ne accorse,
alle 10.02, l’ammiraglio Iachino ordinò alla III Divisione di proseguire sulla
sua rotta, mentre la Vittorio Veneto e
le altre navi invertivano la rotta (assumendo rotta 90°) per sorprendere alle
spalle la Forza B (portandosi ad est delle navi britanniche e poi accostando
verso sud), porla tra due fuochi (la III Divisione ed il resto della formazione
italiana) e così impedirne la ritirata.
Di conseguenza, il Carducci ricevette un messaggio dalla I
Divisione, nel quale si spiegava il piano di massima messo a punto dal Comando
di Squadra: gli incrociatori avrebbero dovuto continuare l’inseguimento fino a
nuovo ordine, mentre la Vittorio Veneto
avrebbe invertito la rotta per tentare di aggirare le unità britanniche e di
tagliare loro la ritirata. Ginocchio e Ninni, dalla plancia del Carducci, videro infatti la nave ammiraglia
di Iachino defilare sulla dritta e dileguarsi nella foschia unitamente ai
cacciatorpediniere della XIII Squadriglia, che la scortavano. L’esecuzione di
questa manovra venne però temporaneamente ritardata in quanto, alle 10.10, lo Zara lanciò un segnale di scoperta col
quale riferì di aver avvistato fumo o alberatura sospetta per 300°; Iachino
attese che tale avvistamento venisse chiarito, ma alle 10.34 lo Zara annullò il segnale di scoperta e la
manovra riprese.
Le unità della Forza
B erano però più a nord di quanto ritenuto (e segnalato) e pertanto l’incontro
avvenne alle 10.50: alle 10.56 la Vittorio
Veneto aprì il fuoco da 23.000 metri, e la Forza B subito accostò verso sud
coprendosi con cortine nebbiogene e si ritirò inseguita dalle navi italiane, ma
le distanze andarono aumentando ed il tiro della Vittorio Veneto risultò inefficace. L’Orion venne preso di mira per i primi dieci minuti e subì
qualche lieve danno per proiettili caduti vicini, dopo di che il tiro della
corazzata inquadrò il Gloucester,
che venne anch’esso leggermente danneggiato da colpi caduti nei suoi pressi
finché il cacciatorpediniere Hasty
non riuscì ad occultarlo con cortine fumogene (per altre fonti anche il Perth avrebbe subito qualche danno).
Ad un tratto parve al
comandante Ginocchio che l’incrociatore britannico di coda fosse stato colpito
da un proiettile, ma l’illusione durò poco; subito dopo venne informato che
quella nave aveva catapultato un idrovolante per l’osservazione del tiro. Alle
10.57 vennero avvistati sei aerei che si rivelarono poi essere aerosiluranti
britannici: erano infatti sei Albacore dell’826th Squadron della
Fleet Air Arm, guidati dal capitano di corvetta Saunt e decollati dalla Formidable. Li scortavano due caccia
Fairey Fulmar dell’803rd Squadron (pilotati dal tenente D. C. E. F.
Gibson e dal sergente A. W. Theobald) e li accompagnava un Fairey Swordfish con
compiti di osservazione. Quando arrivarono sul cielo delle navi di
Pridham-Wippell, gli Albacore furono scambiati per aerei nemici e bersagliati
dal tiro contraereo delle navi britanniche, ma ne uscirono indenni. Avvistate
le navi italiane, gli Albacore si posizionarono per attaccarle, ma in quel
momento intervennero due aerei tedeschi (gli unici che si sarebbero visti
durante tutta la battaglia), due bombardieri Junkers Ju 88 che si lanciarono in
picchiata sugli Albacore. Intervennero subito i Fulmar della scorta, che
abbatterono uno degli Ju 88 e misero in fuga l’altro; le navi italiane non si
accorsero neanche dell’intervento dei due aerei della Luftwaffe.
Alle 11.18 la prima
sezione degli Albacore attaccò la Vittorio
Veneto dal lato di dritta: e se le navi britanniche, sbagliando, li avevano
scambiati per nemici ed avevano sparato loro addosso, quelle italiane,
sbagliando a loro volta, li scambiarono invece per amici, ritenendo
erroneamente – data la somiglianza nell’aspetto esteriore – che gli aerei in
arrivo fossero caccia italiani FIAT CR. 42 dell’Aeronautica dell’Egeo, biplani
proprio come gli Albacore. In questa zona, infatti, le navi di Iachino
avrebbero dovuto fruire della copertura aerea dei caccia di Rodi (dodici CR. 42
muniti di serbatoi supplementari per incrementarne l’autonomia, di base a
Scarpanto), ma questi velivoli non si sarebbero fatti vedere (per altra fonte
furono invece presenti sul cielo della formazione, ma solo saltuariamente ed in
numero modesto, nel corso della mattinata). Quando Iachino si rese conto che
gli aerei erano nemici, la Vittorio
Veneto accostò sulla dritta, e la XIII Squadriglia si portò in posizione
adatta ad impedire l’attacco, aprendo intenso fuoco contraereo; alle 11.25 gli
aerosiluranti della prima sezione lanciarono, seguiti da quelli della seconda,
ma i siluri mancarono tutti il bersaglio. Andò a vuoto anche un attacco,
eseguito poco dopo quello contro la Vittorio
Veneto, da parte di tre aerosiluranti Fairey Swordfish dell’815th
Squadron F.A.A., decollati da Maleme (Creta) alle 10.50 e guidati dal tenente
M. G. W. Clifford, che lanciarono infruttuosamente contro il Bolzano.
L’attacco
aerosilurante aveva però obbligato le navi italiane a cessare il fuoco (verso le
11.38), consentendo alla Forza B di sfuggire ad una situazione di grave
pericolo. In tutto, le navi di Iachino avevano sparato 94 colpi da 381 mm e 542
da 203 mm.
Alla fine, per ordine
del Comando di Squadra, l’inseguimento venne infine abbandonato, senza che il
gruppo formato da I e VIII Divisione fosse potuto arrivare al contatto
balistico; le navi invertirono la rotta su 300° e ridussero la velocità a 20-25
nodi. Il gruppo «Zara» tornò ad assumere la formazione di marcia in linea di
fila, con i cacciatorpediniere in posizione laterale. Alle 11.07 la I Divisione
avvistò un sommergibile a 3000 metri per 280°, segnalandolo alla nave
ammiraglia.
Successivi messaggi e
segnalazioni, che confermavano l’assenza di traffico convogliato britannico da
attaccare, ed insieme ad essi l’ormai conclamata assenza della copertura aerea
e la continua diminuzione delle scorte di carburante dei cacciatorpediniere,
portarono l’ammiraglio Iachino, alle 11.40, a disporre rotta verso nordovest:
si tornava alla base.
Poco prima di
mezzogiorno avvenne la riunione delle unità della squadra italiana; il
comandante Ginocchio venne informato che la Vittorio
Veneto aveva sparato sulle navi britanniche, ma senza risultato apprezzabile,
per via della grande distanza. Dopo l’una del pomeriggio Ginocchio consumò in
plancia un pranzo frugale: due panini ed una tazza di caffè. Mezz’ora dopo
arrivò dal Comando di Divisione la comunicazione che un idrovolante Short
Sunderland stava seguendo da parecchio la squadra italiana, tenendosi fuori
tiro. Lo pilotava il capitano di corvetta Bolt, dello Stato Maggiore di
Cunningham, catapultato dalla Warspite:
durante la sua missione ebbe modo di aggiornare il suo ammiraglio circa
posizione, composizione, rotta e velocità delle navi italiane, con notevole
accuratezza.
Ginocchio controllò
il cielo verso poppa, ma il sole alto gli impedì di vedere alcunché; gli
incrociatori aprirono inutilmente il fuoco contro il Sunderland, dopo di che
iniziarono gli attacchi aerei, cui le navi risposero con rapide accostate e
fuoco contraereo. Se in mattinata l’appoggio dato dai CR. 42 dell’Aeronautica
dell’Egeo era stato pressoché inconsistente, nel pomeriggio esso cessò del
tutto e definitivamente: col rapido allontanamento della flotta italiana in
direzione di Taranto, infatti, questa si venne presto a trovare al di fuori dei
limiti dell’autonomia dei CR. 42, anche se questi impiegavano serbatoi
supplementari.
Cunningham si era
reso conto che la formazione di Iachino, più veloce della sua, rischiava di
sfuggire facilmente all’inseguimento (del quale non sapeva nemmeno di essere
oggetto): a meno di non riuscire a rallentarla. Questo si poteva fare
danneggiando qualche nave, con attacchi di bombardieri ed aerosiluranti dalle
basi di Creta e dalla Formidable.
Cunningham, pertanto, ordinò ripetuti attacchi aerei contro le navi di Iachino.
Durante il pomeriggio, un totale di 30 bombardieri Bristol Blenheim della RAF
(decollati da basi aeree della Grecia) e 18 aerosiluranti Fairey Albacore e
Fairey Swordfish della Fleet Air Arm (decollati dall’aeroporto cretese di
Maleme e dalla Formidable) effettuarono
rispettivamente cinque e tre attacchi sulla formazione italiana. Nel corso della
giornata del 28 marzo, in tutto, ben 24 siluri e 13 tonnellate di bombe
sarebbero state sganciate contro le unità di Iachino.
Alle 13.23 la I
Divisione si trovava a 56 miglia per 266° da Gaudo. Nel primo pomeriggio un
Sunderland del 230th Squadron, pilotato dal capitano Alan Lywood
(che già aveva scoperto la forza di Iachino alle 6.20 di quel mattino,
tallonandola poi a più riprese), s’imbatté per puro caso, in seguito ad un
errore di rotta del suo navigatore, nel gruppo «Zara»: Lywood segnalò al
quartier generale di Atene l’avvistamento di due corazzate e tre incrociatori.
Questi ultimi erano queli della I Divisione, mentre le due “corazzate” erano in
realtà i due incrociatori dell’VIII Divisione, Garibaldi e Duca degli
Abruzzi, che funo scambiati per corazzate classe Duilio a causa della simile disposizione di cannoni e fumaioli.
Alle 14.20 tre
bombardieri Bristol Blenheim dell’84th Squadron RAF, decollati a
seguito dell’avvistamento di Lywood, attaccarono la Vittorio Veneto, ma senza alcun risultato. Alle 14.50 altri sei
Blenheim, appartenenti al 113th Squadron (maggiore Spencer) e
decollati dalla base greca di Eleusis, attaccarono a loro volta la corazzata
italiana, ma anche stavolta le bombe caddero soltanto in mare nei suoi pressi,
senza causare danni.
Alle 15.17 il gruppo
«Zara» venne attaccato da sei bombardieri britannici Bristol Blenheim (che
attaccarono lo Zara ed il Garibaldi), attacco che si ripeté alle
15.26, alle 16.30 ed infine alle 16.44. Le unità italiane risposero zigzagando
prontamente ed aprendo un intenso fuoco contraereo non appena furono avvistati
i velivoli nemici. Ad attaccare le navi di questo gruppo furono in tutto undici
Blenheim, sei del 113th Squadron (guidati dal capitano Rixson) e
cinque dell’84th Squadron (guidati dal maggiore Jones); nonostante
le rivendicazioni dei piloti britannici, che ritennero di aver messo varie
bombe a segno, nessuna nave fu colpita, anche se diverse bombe di grosso
calibro caddero a soli trenta metri dallo Zara
e dai cacciatorpediniere della IX Squadriglia.
Nello stesso lasso di
tempo anche la Vittorio Veneto e
la III Divisione vennero più volte attaccate da aerei, rispettivamente tre e
due volte. La III Divisione fu attaccata da nove Blenheim, tre dell’84th
Squadron (capitano Don G. Bohem) e sei del 211st Squadron (capitano
Jones), ma anche in questo caso le bombe caddero soltanto vicine ai bersagli – Trento e Bolzano – senza causare danni, nonostante, di nuovo, rivendicazioni
di senso contrario da parte degli attaccanti.
Considerando che gli
aerei non potevano certo venire da Alessandria d’Egitto, base troppo lontana (al
massimo potevano essere decollati da Creta), il comandante Ginocchio iniziò a
valutare la possibilità che vi fosse in mare anche una portaerei britannica.
Poco prima delle 15 (alle 14 per altra versione) ordinò a Fontana, l’ufficiale
di rotta, di aprire un ascolto su un’onda non prevista per il Carducci, in modo da ricevere con il
massimo dettaglio possibile eventuali notizie sul nemico: e proprio alle 15
Fontana intercettò e decifrò su tale frequenza un segnale di scoperta di una
formazione nemica, cento miglia (secondo quanto riferito da Fontana; 120 miglia
secondo quanto scritto da Ginocchio nella sua relazione dell’8 aprile) più ad
est, cioè di poppa rispetto al Carducci,
formata da una corazzata, una portaerei, sette incrociatori e vari
cacciatorpediniere con rotta ovest.
Il messaggio
intercettato dal Carducci aveva
un’importanza tutt’altro che secondaria.
Alcune ore prima,
infatti, alle nove del mattino, un ricognitore aveva comunicato alla Vittorio Veneto la presenza di una
portaerei, due corazzate e naviglio minore in una posizione vicina a quella
delle navi italiane: Iachino e Supermarina avevano però pensato che il
ricognitore avesse semplicemente avvistato la squadra italiana, scambiandola
per nemica. E invece era davvero il nemico: la Mediterranean Fleet di
Cunningham.
Nemmeno una nuova
segnalazione delle 14.25, inviata da Rodi, che diceva che «Alle ore 12.15 aereo
n. 1 ricerca strategica Egeo avvistati una nave da battaglia, una portaerei,
sei incrociatori e cinque cacciatorpediniere nel quadratino 5647», cioè 79
miglia ad est della Vittorio
Veneto, venne presa in considerazione: Supermarina e Iachino la ritennero
sbagliata, dato anche che un precedente rilevamento radiogoniometrico aveva
individuato la squadra britannica come a 170 miglia da quella
italiana. Invece era una segnalazione esatta: l’aereo che l’aveva lanciata non
era un ricognitore, come erroneamente il messaggio di Rodi dava ad intendere,
bensì il capo sezione di una sezione di due aerosiluranti Savoia Marchetti S.M.
79 “Sparviero” della 281a Squadriglia della Regia Aeronautica,
decollati da Rodi, che intorno alle 12.45 (o 12.54) avevano anche attaccato la
portaerei – la Formidable, rimasta
leggermente arretrata rispetto al resto della formazione – con i loro siluri,
al punto di indurre Cunningham ad ordinare a tre dei cacciatorpediniere che lo
scortavano di correre a proteggerla. I due “Sparvieri” avevano attaccato
individualmente; uno di essi aveva lanciato da distanza ravvicinata, l’altro da
1370 metri, ma entrambi senza successo a causa delle brusche manovre evasive
intraprese dalla portaerei, anche se i due aerosiluranti erano riusciti a
sganciarsi (uno di essi fu colpito dal tiro contraereo della Formidable, ma riuscì egualmente a
rientrare alla base di Gadurra) grazie al fatto che in quel momento non si
trovava in volo nessun aereo della Formidable.
(Per altra fonte, invece, l’avvistamento di cui Rodi diede notizia non fu
effettuato dagli aerosiluranti che avevano attaccato alla Formidable, bensì da uno dei ricognitori IMAM Ro. 43 catapultati
dagli incrociatori italiani, che aveva avvistato la formazione britannica alle
12.25 ed aveva poi dovuto raggiungere Rodi – non potendo essere recuperato
dall’incrociatore che l’aveva lanciato – da dove poi il segnale di scoperta era
stato trasmesso a Iachino). Il forte ritardo (più di due ore) con cui questa
notizia raggiunse Iachino, ed il fatto che dopo di essa Rodi non comunicò più
nessun’altra informazione, indussero l’ammiraglio a ritenere, sbagliando, che
tale avvistamento fosse inattendibile; invece era una delle poche notizie
giuste nella marea di informazioni errate che affluirono sulla Vittorio Veneto nel corso della
giornata. Alle 15.04 Supermarina comunicò a Iachino che «Dalle intercettazioni
radiogoniometriche nave nemica ore 13.15 a miglia 110 per 60° da
Tobruk trasmette ordini a Creta e ad Alessandria»; alle 11.15 i crittografi
imbarcati sulla Vittorio Veneto avevano
decrittato un messaggio di Pridham-Wippel che diceva a Cunningham «Dirigo per
incontrarvi». Ma la granitica certezza di Iachino, che Cunningham e corazzate
fossero ad Alessandria, non fu scossa.
Questa valutazione di
Iachino – che non ci fossero, in mare, corazzate nemiche – ebbe poi un ruolo
determinante nella catastrofica decisione, presa alcune ore più tardi, di
inviare l’intera I Divisione in soccorso del Pola danneggiato da aerosiluranti, come si vedrà. È oggi quasi
certo che la comunicazione intercettata dal Carducci
fosse quella di Rodi delle 14.25; ed è interessante notare, anche col senno di
poi, come Ginocchio, un comandante di cacciatorpediniere, seppe valutare quell’avvistamento
più seriamente del suo ammiraglio, Iachino, che scartò la notizia tanto a cuor
leggero. Fontana, nella sua relazione del 1947, avrebbe scritto a questo proposito
che “Questo (…) mi pare sufficiente a dimostrare che c’era modo in quel pomeriggio,
anche attraverso le frammentarie intercettazioni di un cacciatorpediniere, di
rendersi esattamente conto della situazione nel senso di concludere che già gli
inglesi ci stavano tallonando ad una distanza tale da sconsigliare nella sera
l’ordine alla I Divisione di soccorrere il Pola. Si poteva e si doveva ritenere
che dato l’inseguimento del nemico, non da lontano, l’inversione di rotta
presentava rischi enormi.”
Forse, si disse
Ginocchio, le navi di cui si parlava nel messaggio intercettato da Fontana erano
gli incrociatori incontrati qualche ora prima, ed era stato commesso un errore
di identificazione; ma lui per primo si rese conto che una simile supposizione
fosse troppo irrealmente ottimistica. Probabilmente era in mare un nutrito
nucleo da battaglia proveniente da Alessandria, del quale facevano forse parte
l’Eagle o l’Illustrious. Altra cosa preoccupante erano il fatto che dal momento
della partenza non si fosse visto un solo caccia dell’Asse sul cielo delle navi
italiane, e che dall’alba del 28 non ci fosse stata ombra di ricognitori
italiani. A seguito dell’intercettazione del segnale di scoperta, il comandante
del Carducci volle controllare quanta
nafta e quanta acqua restassero nei serbatoi: più tardi, verso le 17, chiamò
quindi in plancia il direttore di macchina Scelsa, il quale riferì che
rimanevano 130 tonnellate di nafta aspirabile, non molte nel caso di un
ulteriore prolungamento della missione. La notizia venne comunicata al
caposquadriglia Alfieri alzando il
segnale di rimanenza, che venne poi ripetuto alle 18.40 per aggiornarlo sulla
situazione.
Ginocchio scese in
cabina, ma subito dopo Ninni lo chiamò di nuovo in plancia e gli disse che il
Comando della I Divisione stava comunicando all’VIII Divisione che quest’ultima
aveva libertà di manovra ed ordine di tornare subito alla base. Duca degli Abruzzi, Garibaldi e relativi cacciatorpediniere iniziarono a scadere
lentamente, e Ginocchio ordinò di inviare con segnali ottici un saluto ed un
augurio alle navi della VIII Divisione. La I Divisione invertì la rotta per
ricongiungersi col gruppo Vittorio Veneto.
Come se non bastasse,
a Ginocchio vennero al contempo mal di testa e dolori colitici – per il primo problema,
si fece portare in plancia delle aspirine dall’infermiere e ne prese ben
quattro – : avrebbe voluto potersi riposare un po’, invece arrivò Ninni ad
annunciare un nuovo imminente attacco di aerosiluranti.
Si trattava di cinque
aerosiluranti, due Fairey Swordfish e tre Fairey Albacore dell’829th
Squadron della Fleet Air Arm (guidati dal capitano di corvetta John
Dalyell-Stead), decollati dalla Formidable
e scortati da due caccia Fairey Fulmar (guidati dal tenente Bruen), decollati
dalla Formidable alle 12.22. Questo
attacco venne inoltre appoggiato da bombardieri Bristol Blenheim del 211st
Squadron RAF (caposquadriglia il capitano Jones) decollati dalle basi aeree
britanniche di Creta.
Alle 15.19 gli aerei,
dieci in tutto, apparvero da est, a poppavia della formazione, e si divisero
quasi subito in due gruppi, mentre tutte le navi aprivano il fuoco con le armi
contraeree; il Carducci iniziò ad
emettere nebbia artificiale. I tre Albacore, al loro primo impiego in
battaglia, si aprirono a ventaglio e puntarono sulla Vittorio Veneto, mentre i Fulmar attaccarono le unità della XIII
Squadriglia, mitragliandone la coperta per disturbarne la reazione contraerea; i
Blenheim, restando ad alta quota, sganciarono le loro bombe sulle navi che
evoluivano freneticamente ad alta velocità. Dalla plancia, Ginocchio vide due
marinai del Carducci che
raffreddavano una mitragliera, arroventata dal ritmo di tiro, rovesciandoci
sopra dei secchi d’acqua. Ad un tratto i due marinai iniziarono a correre per
il ponte: Ginocchio gridò loro di fermarsi, ma vennero entrambi colpiti a
morte, cadendo uno sull’altro, sotto lo sguardo del loro comandante.
Poco dopo, verso
destra, Ginocchio vide un grande lampo e pensò che il Carducci od un’altra nave avessero abbattuto un aereo: invece, al
termine dell’attacco seppe che la Vittorio
Veneto era stata colpita a poppa da un siluro, imbarcando oltre 4000
tonnellate d’acqua. L’intenso tiro contraereo dei cacciatorpediniere della XIII
Squadriglia aveva costretto due degli Albacore a lanciare da distanza troppo
elevata (anche i due Swordfish, che avevano attaccato da dritta, lanciarono a
vuoto) e colpito il terzo, quello centrale (il caposquadriglia, pilotato dal
capitano di corvetta Dalyell-Stead), che però, prima di precipitare in mare con
la morte dei tre uomini dell’equipaggio, era riuscito a ridurre le distanze con
la Vittorio Veneto a meno di 1000
metri ed a lanciare un siluro, che colpì la nave da battaglia a poppa, in
posizione 35°00’ N e 22°01’ E. Alle 15.30 la Vittorio Veneto, che aveva imbarcato 4000 tonnellate d’acqua, si
immobilizzò. Sebbene visibilmente appoppata, però, la corazzata riprese quasi
subito (dopo sei minuti) a navigare a buona andatura. Solo alle 17.13,
tuttavia, riuscì a sviluppare una velocità di 19 nodi.
La flotta italiana
diresse su Taranto, ed alle 16.38 l’ammiraglio Iachino, in previsione di altri
attacchi aerei in arrivo al tramonto, ordinò che le altre unità si disponessero
intorno alla danneggiata Vittorio Veneto
per proteggerla da altri attacchi. Proprio a quell’ora la I Divisione ricevette
l’ordine di riunirsi al resto della formazione e portarsi presso la Vittorio Veneto; alle 18.18 la I
Divisione ricevette dalla nave ammiraglia l’ultimo messaggio contenente le
istruzioni sulla formazione da assumere, ed alle 18.40 il gruppo «Zara»
raggiunse il posto assegnato, completando così lo schieramento. Alle 18.10 fu
ricevuta in plancia del Carducci una
comunicazione del Comando di Squadra (cioè dalla Vittorio Veneto): vi si diceva che appena calato il buio ci sarebbe
stato un altro attacco aereo, e si prescriveva una nuova formazione nonché il
da farsi al momento dell’attacco. Le navi dovevano disporsi in cinque colonne,
con la Vittorio Veneto al centro,
fiancheggiata ai lati dalla I e III Divisione, mentre la IX e XII Squadriglia
Cacciatorpediniere si sarebbero disposte lungo i lati esterni; quando gli aerei
avessero attaccato, i cacciatorpediniere avrebbero dovuto emettere cortine
nebbiogene e tutte le navi, oltre ad aprire il fuoco con le armi contraeree,
avrebbero dovuto accendere i proiettori per accecare i piloti britannici.
L’ordine
dell’ammiraglio Iachino era stato originato dall’intercettazione, da parte del
reparto di crittografi imbarcati sulla Vittorio
Veneto, di un messaggio britannico che ordinava attacchi di aerosiluranti
da Maleme (Creta) per il tramonto. Da quella base avevano infatti preso il
volo, alle 16.55, due Fairey Swordfish, pilotati dai tenenti di vascello
Torrens-Spence (aereo L9774) e Kiggell. Recavano gli ultimi due siluri
disponibili a Maleme, là inviati quello stesso pomeriggio da Eleusis. L’ammiraglio
Cunningham, una volta appreso che la Vittorio
Veneto era stata danneggiata, aveva deciso di lanciare un ulteriore attacco
aereo al tramonto, col proposito di finire la corazzata: oltre ai due Swordfish
di Maleme, alle 17.30 decollarono pertanto dalla Formidable tutti gli aerosiluranti ancora disponibili, cioè sei
Albacore dell’826th Squadron e due Swordfish dell’829th
Squadron, guidati dal capitano di corvetta Saunt. Poco prima che gli aerei decollassero,
i caccia Fulmar della Formidable
ebbero un inconclusivo scontro con un aerosilurante italiano, un Savoia
Marchetti S.M. 79 “Sparviero” del 34° Gruppo da Bombardamento Terrestre, che
aveva infruttuosamente attaccato un incrociatore.
La nuova formazione
italiana era articolata su cinque colonne di unità disposte in linea di fila:
da destra a sinistra, la IX Squadriglia Cacciatorpediniere (Alfieri in testa, Gioberti in seconda posizione, Carducci
terzo ed Oriani in coda), la I
Divisione (nell’ordine Zara, Pola, Fiume), la Vittorio Veneto
preceduta da Granatiere e Fuciliere e seguita da Bersagliere ed Alpino, la III Divisione (nell’ordine Trieste, Trento, Bolzano) e la XII Squadriglia
Cacciatorpediniere (nell’ordine Corazziere,
Carabiniere, Ascari). La squadra italiana faceva quadrato attorno alla sua
azzoppata ammiraglia, per proteggerla da ulteriori danni. Al crepuscolo il Carducci accelerò a 21 nodi, e si
preparò ad emettere nebbia artificiale e ad aprire il fuoco contraereo.
Iachino richiese la
copertura aerea, e gli fu assicurato che era in arrivo: alle 14.30 erano già
decollati quattro caccia pesanti Messerschmitt Bf 110 del X Corpo Aereo Tedesco
per abbattere il ricognitore Sunderland che controllava la forza italiana, e
verso le 16 erano stati fatti decollare altri sei Bf 110 per dare scorta aerea
alle unità italiane. Secondo la Luftwaffe, gli aerei raggiunsero la squadra di
Iachino e la scortarono per 50 minuti, senza avvistare aerei nemici;
l’ammiraglio italiano, al contrario, sostenne di non aver visto un solo aereo
per tutta la durata della navigazione.
Tra le 16 e le 16.15
giunse a Iachino ancora un messaggio che avrebbe dovuto metterlo all’erta: uno
Ju 88 tedesco comunicò di aver avvistato, alle 15, una formazione britannica
comprensiva di una corazzata su rotta 285°.
Alle 18.23 (nel
frattempo la velocità della Vittorio
Veneto era scesa a 15 nodi) vennero avvistati all’orizzonte nove
aerosiluranti britannici, che si tenevano a distanza ad est delle navi
italiane, fuori tiro e bassi sul mare (tranne uno che, restando in quota dalla
parte del sole, comunicava agli altri la posizione e gli elementi del moto
delle unità italiane).
Per coincidenza, gli
aerosiluranti di Maleme, guidati dal tenente di vascello Torrens-Spence, e
quelli della Formidable, guidati dal
capitano di corvetta Saund, erano giunti sul posto quasi contemporaneamente.
Torrens-Spence stava posizionandosi per attaccare quando vide arrivare gli
aerei di Saunt, che volavano in linea di fila a soli 30 metri di quota, e
decise di accodarsi ad essi; inizialmente tale manovra destò qualche equivoco,
perché i velivoli di Saunt scambiarono inizialmente quelli di Torrens-Spence
per caccia italiani CR. 42, e manovrarono per evitarli.
Alle 18.51 tramontò
il sole. Alle 18.58 Iachino ordinò a tutte le navi di tenersi pronte ad
accendere i proiettori e stendere cortine nebbiogene, alle 19.15 la formazione
italiana accostò per conversione ed assunse rotta 270° (in modo che le navi
fossero meno illuminate possibile dal sole che stava tramontando) e nove minuti
più tardi i cacciatorpediniere in coda iniziarono a stendere cortine
nebbiogene. Alle 19.25 Saund giudicò che le condizioni di luce fossero divenute
adatte per un attacco, dunque alle 19.28 gli aerosiluranti si avvicinarono – le
navi più esterne accesero perciò i proiettori su ordine di Iachino – ed alle
19.30, su ordine dell’ammiraglio Iachino, fu eseguita una nuova accostata per
conversione, assumendo rotta 300°. (Stephen Roskill, per undici anni storico
ufficiale della Royal Navy, evidenziò in seguito la perizia marinara mostrata
dalle navi italiane, nel manovrare senza incidenti in formazione tanto
ristretta, al buio, ad alta velocità, tra cortine fumogene e sotto attacco
aereo. Ma questo non cambiò, purtroppo, l’esito dell’attacco). Venne data
attuazione alle disposizioni precedentemente ordinate: alle 19.40 il Carducci aprì il fuoco ed accese i
proiettori per accecare i piloti nemici, mentre gli aerosiluranti andavano
all’attacco. Anche gli altri cacciatorpediniere emisero cortine fumogene ed
aprono il fuoco, mentre gli aerei passavano all’attacco: molti, non riuscendo
ad oltrepassare la barriera costituita dal tiro dei cacciatorpediniere, dai
fasci dei proiettori e dalle cortine nebbiogene, sganciarono in maniera
imprecisa. L’azione che seguì, durante la quale vi furono sul Carducci altri feriti, si protrasse per
un’ora, secondo quanto poi stimato dal comandante Ginocchio (ma l’azione
cruciale, l’attacco degli aerei, durò molto meno); tra il buio, le cortine di
fumo e le vampe delle cannonate risultava pressoché impossibile vedere le altre
navi.
Gli aerei britannici
attaccarono provenendo da poppa, dividendosi una volta giunti a 2700 metri dal
loro obiettivo ed attaccando individualmente. Il fumo ed i proiettori
disorientarono molti dei piloti, parecchi dei quali non riuscirono a
distinguere i bersagli e finirono con l’attaccare gli incrociatori anziché il
loro obiettivo primario, la Vittorio
Veneto. I due aerosiluranti di Maleme seguirono quelli di Saund
nell’attacco contro le navi di Iachino; Torrens-Spence, una volta entrato nella
cortina fumogena, non riuscì più a vedere niente, pertanto risalì fino a 2700
metri di quota per poter meglio distinguere le navi italiane e la loro
formazione. Alle 19.45 l’Albacore pilotato dal sottotenente di vascello G. P.
C. Williams lanciò il suo siluro contro il Pola,
e poco dopo fece lo stesso anche lo Swordfish di Torrens-Spence, che era
riuscito a scovare proprio in quel punto un “buco” nella cortina nebbiogena
stesa dalle navi italiane. Nessuno degli aerei attaccanti venne abbattuto;
quello di Torrens-Spence subì lievi danni alla coda ma riuscì a rientrare alla
base, mentre quello di Williams dovette ammarare durante il rientro a causa
dell’esaurimento del carburante.
Concluso l’attacco,
le navi ripresero la normale navigazione sulla rotta di rientro. Alle 19.50,
calato il buio, si spensero i proiettori e venne cessato il fuoco contraereo,
ed alle 20.11 cessò anche l’emissione di cortine fumogene. Alle 20.05
l’ammiraglio Iachino ordinò alla I Divisione di posizionarsi 5000 metri a prua
della Vittorio Veneto, in linea di
fila (poco prima, alle 19.55, aveva ordinato a tutte le navi di assumere rotta
300° e velocità 19 nodi, confermando un ordine dato alle 19.44, subito dopo la
fine dell’attacco aereo).
Il direttore del tiro
del Carducci, Cimaglia, approfittò di
questo momento di calma per cercare di riposarsi; si ritirò in sala nautica e
si sedette sul portello d’accesso per tentare di dormire un po’, ma non vi
riuscì, perché sentì il comandante Ginocchio discutere lungamente con Scelsa,
il direttore di macchina, in merito alle rimanenze di nafta: confrontavano
quelle del Carducci con quelle delle
altre navi, valutavano l’opportunità di farlo presente al Comando di
Squadriglia per decidere se fosse necessario tornare alla base oppure, se la
missione si fosse ancora prolungata, andarsi a rifornire nella base più vicina,
in Africa od in Egeo.
Intorno alle 21
Ginocchio, sceso in cabina, controllò i nomi di chi era rimasto ucciso o ferito
nel corso degli attacchi aerei: i due morti, i marinai colpiti mentre correvano
durante il primo attacco, avevano 19 e 20 anni; altri due marinai erano rimasti
feriti gravemente. Ginocchio ripeté ad un marinaio, mandato da Ninni a
portargli una tazza di caffè, la domanda che stava ponendo a sé stesso: “Perché
correvano tanto? Lo hai sentito anche tu quando gridavo di fermarsi?”. Il
marinaio rispose solo che le salme erano state trasportate dall’infermeria ad
un locale di prua.
Dieci minuti dopo,
Ginocchio venne informato dell’intercettazione di un messaggio del Fiume, nel quale si diceva che il Pola era fermo: corso in plancia, scrutò
col binocolo il buio della sera e riuscì a vedere la sagoma nera del Pola, sempre più lontano dal resto della
squadra. Passato poco tempo, giunse proprio dal Pola la comunicazione di essere stato colpito da un siluro, nei
locali macchine e caldaie, nel corso dell’ultimo attacco aereo. Era accaduto
verso le 19.50, e quasi nessuno se ne era accorto.
Alle 20.15 il Carducci intercettò il segnale col quale
lo Zara riferiva alla Vittorio Veneto: «Nave Pola informa essere stata colpita da
siluro a poppa. Nave est ferma…»
Poco prima era salito
in plancia, insieme a Ninni, il fuochista Aiello, per dire che restava poca
nafta nei depositi, notizia doppiamente preoccupante ora che si doveva tornare
indietro: Ginocchio l’aveva fatta comunicare di nuovo all’Alfieri, e dopo l’intercettazione del messaggio dello Zara relativo al Pola ordinò all’ufficiale di rotta Fontana di redigere un messaggio
cifrato dall’analogo contenuto, che fu poi trasmesso sull’onda RDS del Comando
di Divisione, cosa non prevista per un cacciatorpediniere non caposquadriglia,
“in modo che lo intercettino anche sullo Zara
e sulla Vittorio Veneto”. Il
messaggio fu trasmesso allo Zara alle
20.15.
Di nuovo non ci fu
risposta, ma in realtà la comunicazione venne ricevuta sia sull’Alfieri che sullo Zara, e sia il caposquadriglia Toscano che l’ammiraglio Cattaneo
considerarono il problema con la dovuta attenzione: Toscano discusse con i suoi
subordinati la possibilità di far rifornire il Carducci da un incrociatore, Cattaneo decise poi di ridurre la
velocità con cui la I Divisione doveva procedere verso il Pola proprio in considerazione della ridotta autonomia residua del Carducci, molto minore di quella degli
altri cacciatorpediniere, dato che una maggiore velocità avrebbe comportato un
più elevato consumo di nafta. (Nel dopoguerra qualcuno ha anche ipotizzato che
la situazione del Carducci possa aver
giocato un ruolo nella scelta di Cattaneo di non far precedere la I Divisione
dai cacciatorpediniere, ma questa rimane una supposizione).
Alle 20.16
l’ammiraglio di divisione Cattaneo, comandante la I Divisione, comunicò a
Iachino che salvo contrordini avrebbe distaccato due cacciatorpediniere (della
IX Squadriglia) per scortare il danneggiato Pola.
Era probabilmente la decisione più sensata: inviare al soccorso del Pola l’intera I Divisione sarebbe stato di
scarsa utilità e sproporzionato ai rischi, dato che è in mare, era sole 55
miglia di distanza (Iachino pensava 75, a causa di errori nelle rilevazioni
radiogoniometriche usate per localizzare le navi nemiche), una formazione
britannica di dimensioni sconosciute, chiaramente all’inseguimento delle navi
italiane. Si trattava del gruppo che comprendeva Barham, Valiant, Warspite e Formidable, ma Iachino pensava che l’entità della formazione
britannica fosse molto minore, e che nessuna corazzata ne faccia parte.
In realtà, Iachino
avrebbe avuto più di un motivo per dubitare di una valutazione del genere: oltre
a quanto detto più sopra (si ricordi il segnale di scoperta intercettato dal Carducci alle tre di quel pomeriggio),
alle 20.05 Supermarina gli aveva riferito che alle 17.45 una nave nemica «sede
di Comando Complesso», pertanto di sicuro non una nave minore, alle 17.45 aveva
comunicato con Alessandria da un punto a 40 miglia per 240° da Capo
Krio, cioè da un punto a 75 miglia per 110° dalla Vittorio Veneto (in realtà era
ancora più vicino, a 55 miglia per 110°, in quanto un errore
radiogoniometrico stimava la posizione di Cunningham 20 miglia più ad
est di quella effettiva).
Se Iachino avesse
dato credito a questo messaggio, si sarebbe accorto che la formazione
britannica, seguendo ad una velocità stimabile attorno ai 20-22 nodi (per via
delle proprie lente corazzate) la squadra italiana che avanzava a 15-19 nodi
(quanto riusciva a fare, a tratti, la Vittorio
Veneto), avrebbe potuto ridurre la distanza con le sue navi, tra le 17.45 e
le 19.50, da 75 a 67 miglia circa; cioè sarebbe stata a
sole 67 miglia del Pola quando
questo era stato immobilizzato, e, procedendo a velocità media di 21 nodi,
avrebbe coperto tale distanza in poco più di tre ore, raggiungendo il Pola attorno alle 23.
Per giunta, alle
20.15 i crittografi imbarcati per l’occasione sulla Vittorio Veneto intercettarono un messaggio trasmesso da un
ammiraglio britannico, cui risposero ben tre unità sedi di Comando Complesso
(«Velocità 15 nodi – 2013»); ma visto che alle 19.50 lo stesso ammiraglio aveva
ordinato «Velocità 20 nodi – 1945», Iachino pensò che le unità britanniche
inseguitrici avessero rallentato, forse anche abbandonato l’inseguimento. Più
tardi, durante il botta e risposta tra Cattaneo e Iachino gli stessi
crittografi intercettarono pure "un lungo segnale di formazione – Forse le
disposizioni per la notte", trasmesse alle 20.37 dalla Warspite (nominativo 1JP) alle
unità D2M e DV5, ritenute sedi di probabili comandi complessi: erano
probabilmente la Forza B di Pridham-Wippell e la 14th Destroyer
Flotilla del capitano di vascello Philip Mack, inviate alla ricerca notturna
delle navi italiane.
Già dal pomeriggio
del 28 marzo il capitano di fregata Eliseo Porta, capo dei crittografi
imbarcati sulla Vittorio Veneto,
aveva detto a Iachino che interpretando le intercettazioni delle comunicazioni
nemiche – cioè proprio lo scopo al quale era stato imbarcato – aveva ricavato
l’impressione che il grosso nemico fosse in mare. Iachino l’aveva ascoltato,
poi lo aveva congedato senza dire niente: il parere di Porta probabilmente
contrastava con il quadro della situazione che Iachino s’era fatto, dunque
l’ammiraglio doveva aver concluso che ad essere in errore fosse Porta. Ma non
era così.
Un paio di
cacciatorpediniere probabilmente sarebbero bastati, l’uno per prendere il Pola a rimorchio e l’altro per scortarlo,
e, nel caso siano raggiunti dalle navi britanniche, per evacuarlo ed affondarlo
con i siluri; al più si sarebbe potuto inviare al suo soccorso tutta la IX
Squadriglia. Iachino, però, era di diversa opinione: affermò in seguito che due
cacciatorpediniere avrebbero potuto solo affondare il Pola, non sarebbero riusciti a rimorchiare una nave così grande e
appesantita dall’acqua imbarcata (valutazione del tutto errata, dato ad esempio
che nell’agosto 1942 due cacciatorpediniere furono più che sufficienti a
rimorchiare in salvo l’incrociatore pesante Bolzano,
silurato e ridotto in condizioni peggiori del Pola a Matapan), non sarebbero nemmeno bastati a salvarne
l’equipaggio e non avrebbero avuto l’autorità necessaria a decidere se
affondare o meno l’incrociatore. Alle 20.18 ordinò pertanto che tutta la I
Divisione (Zara, Fiume e IX Squadriglia) si recasse a soccorrere la nave
danneggiata, reiterando l’ordine alle 20.38 («ZARA FIUME et 9a
squadriglia vada soccorrere POLA»),
dal momento che Cattaneo, essendosi reso conto – dalle segnalazioni dei
ricognitori tedeschi e dalle intercettazioni delle comunicazioni radio
britanniche – che una squadra britannica stava seguendo quella italiana, tardava
ad eseguire l’ordine. Alle 20.24 Cattaneo, che sulle prime era stato riluttante
a tornare indietro con tutte le sue navi, chiese se poteva invertire la rotta
per assistere il Pola, ed alle 21
Iachino rispose affermativamente. Già prima di questa conferma finale,
probabilmente in seguito alla ricezione dell’ordine delle 20.38, la I Divisione
accostò ad un tempo di 180° sulla dritta ed invertì la rotta alle 21.06,
dirigendosi verso il Pola.
Questo scambio di
messaggi tra Cattaneo e Iachino venne seguito anche sul Carducci: alle 20.58 venne intercettato un altro messaggio dello Zara, che diceva «Chiedo se posso
invertire la rotta per portare soccorso al Pola»
(un messaggio il cui effettivo significato rimane piuttosto ambiguo, date le
precedenti resistenze di Cattaneo, la sua giusta proposta di mandare soltanto
un paio di cacciatorpediniere, ed il pessimistico commento che fece al momento
di ordinare l’inversione di rotta: “È un guaio!”), ed alle 21.05 anche la
risposta dell’ammiraglio Iachino, «Sì, invertite la rotta».
A quel punto venne
comunicato al Carducci, sia per radio
che con segnali ottici, che tutta la I Divisione con la IX Squadriglia sarebbe
dovuta tornare indietro per prestare assistenza al Pola. L’ordine fu riferito a Ginocchio da Fontana. Mentre la I
Divisione metteva nuovamente la prua a sudest, il resto della squadra italiana,
continuando la navigazione verso Taranto, sparì nel buio della notte.
Una volta ricevuto
l’ordine di tornare indietro, le quattro unità della IX Squadriglia iniziarono
un’ampia conversione per portarsi in testa alla I Divisione; completata
l’accostata, il Carducci stava per
superare Zara e Fiume per posizionarsi a proravia di essi, insieme agli altri tre
cacciatorpediniere (in linea di fila), ma giunse dall’ammiraglio Cattaneo un
ordine che disponeva che i cacciatorpediniere si tenessero a poppavia degli
incrociatori, anziché a proravia. Sia a Ginocchio che a Ninni quest’ordine
sembrò strano: la logica sembrava dettare il contrario, i cacciatorpediniere
dovevano procedere in testa per formare uno schermo protettivo ed evitare che,
in caso di brutti incontri notturni, gli incrociatori fossero subito colti nel
pieno dello scontro. Anche gli altri cacciatorpediniere tardavano a manovrare
per eseguire l’ordine, colti probabilmente dallo stesso dubbio, e sia Ginocchio
che Ninni pensarono che l’addetto alla radio dovesse aver commesso un errore
nella trascrizione del messaggio di Cattaneo. Venne dunque chiesta conferma
dell’ordine allo Zara, conferma che
puntualmente giunse dopo cinque minuti. Ancora perplesso, Ginocchio desisté dal
comprendere ed iniziò a manovrare per portarsi dietro gli incrociatori, come
stavano già facendo gli altri cacciatorpediniere. Cimaglia, avendo ormai
rinunciato a cercare di dormire, seguì la manovra di accostata e fornì dei
nuovi dati di alzo al sottotenente di vascello Luigi Rossi, suo sottordine al
tiro. Nel corso dell’accostata il complesso poppiero da 120 mm, che non aveva
seguito la manovra, avvistò un’ombra sospetta e vi puntò contro i cannoni,
segnalandola frattanto a Cimaglia: in realtà si trattava dell’Oriani, che seguiva il Carducci e stava manovrando per
posizionarsi dietro di esso. Il direttore del tiro decise allora di dare ordine
– chiedendo ed ottenendo l’autorizzazione dal comandante Ginocchio – che i
complessi da 120 tenessero aperti gli otturatori, per evitare che nel buio
della notte potessero inavvertitamente fare fuoco su navi italiane.
Il Carducci si posizionò in penultima
posizione, seguito dall’Oriani (suo
sezionario) e preceduto dal Gioberti
(sezionario dell’Alfieri). L’Alfieri, quale caposquadriglia, apriva
la fila dei cacciatorpediniere, seguendo il Fiume
che a sua volta seguiva lo Zara, nave
di testa.
Non fu soltanto
Ginocchio a restare stupito dell’ordine ricevuto. La formazione assunta da
Cattaneo, con la IX Squadriglia a poppavia degli incrociatori, invece che a
proravia degli stessi, avrebbe in seguito destato molte perplessità e
polemiche, dal momento che, se i cacciatorpediniere fossero stati posizionati
in posizione di scorta avanzata notturna (4 km a proravia degli incrociatori,
con un intervallo di 2 km tra ogni cacciatorpediniere), gli eventi successivi
avrebbero potuto prendere una piega differente. Da molte parti, ancor oggi, si
sostiene che ponendo la IX Squadriglia a poppavia degli incrociatori Cattaneo
contravvenne alle regole vigenti sulla navigazione notturna in tempo di guerra,
che prevedevano invece che i cacciatorpediniere venissero posizionati a
proravia delle navi maggiori, formando uno schermo difensivo. In realtà,
tuttavia, le norme di Squadra (come evidenziato dallo storico Francesco
Mattesini, autore di una monumentale opera su Capo Matapan), prevedevano
un’eccezione alla summenzionata regola: quella di condizioni pessime di
visibilità notturna. In tal caso, le norme stabilivano che i cacciatorpediniere
dovessero navigare – in singola o doppia linea di fila – a poppavia delle navi
maggiori, anziché a proravia, perché in caso di incontro improvviso con unità
nemiche avrebbero dovuto essere le navi maggiori ad aprire il fuoco per prime
(un controsenso, in effetti, se si pensa che gli equipaggi di tali navi, a
differenza di quelli dei cacciatorpediniere, non erano addestrati al
combattimento notturno, e gli incrociatori di notte viaggiavano con i cannoni
per chiglia, del tutto impreparati ad un’azione di fuoco): l’articolo 68 della
direttiva SM-11-S del gennaio 1936 disponeva che “All’approssimarsi della notte
le Unità del naviglio sottile che il C.C. [Comandante in Capo] intende far
navigare in unione con le unità maggiori, vengono inviate di poppa alla
formazione di queste, in unica e doppia linea di fila”. Tanto che Supermarina,
nelle relazioni sul disastro, non diede alcuna importanza al fatto che la IX
Squadriglia si fosse trovata dietro e non davanti agli incrociatori (il primo a
sollevare tale questione fu invece, nel dopoguerra, l’ammiraglio Iachino, che
cercava di alleggerire la propria responsabilità dell’accaduto imputandolo
anche ad errori commessi da Cattaneo). E “pessime condizioni di visibilità
notturna” definiva esattamente la fatidica notte del 28 marzo, una notte senza
luna, estremamente buia, con alcune nuvole che riducevano molto la visibilità,
specie verso est. Dunque Cattaneo non contravvenne alle regole, ma vi si attenne
alla lettera, anche in considerazione del fatto che la carente visibilità avrebbe
potuto causare errori di riconoscimento con i cacciatorpediniere (come
dimostrato, peraltro, dal succitato episodio di Cimaglia e del complesso
poppiero da 120 del Carducci),
qualora fossero stati posti a proravia, e specialmente sarebbe stato d’intralcio
al tiro degli incrociatori in caso d’incontro con le unità britanniche.
Peraltro, Cattaneo stesso (come Iachino) si aspettava di incontrare le unità
britanniche – che anche lui pensava essere solo incrociatori e
cacciatorpediniere, non corazzate – molto più tardi, quando il Pola sarebbe già stato preso a
rimorchio, ed i cacciatorpediniere sarebbero stati disposti tutt’attorno agli
incrociatori per proteggerli su tutti i lati. Comunque sia, anche la
Commissione d’Inchiesta Speciale istituita nel 1947 sulla perdita dello Zara avrebbe espresso il giudizio che
sarebbe stato opportuno che Cattaneo avesse ordinato di far precedere la I
Divisione dai cacciatorpediniere, anche se avrebbe puntualizzato che bisognava
considerare che ciò avrebbe potuto generare alcuni problemi: vi sarebbe stata
possibilità di equivoci con il Pola,
con la necessità di utilizzare i segnali di riconoscimento (cosa da evitare,
data la possibilità della presenza di forze nemiche nelle vicinanze); inoltre
occorreva evitare di perdere altro tempo, proprio per riuscire a raggiungere e
rimorchiare in salvo il Pola prima
del possibile intervento nemico. La CIS avrebbe inoltre rilevato che Iachino,
pur essendo stato informato della formazione adottata da Cattaneo, non aveva
ritenuto di dover intervenire ordinando al suo sottoposto di disporre le sue
unità in modo più appropriato.
Al momento
dell’inversione di rotta, la distanza tra il Pola fermo ed il resto della squadra, che era proseguito, era
divenuta di 24 miglia. La I Divisione assunse rotta 135°, ed alle 21.07
Cattaneo ordinò di portare la velocità a 16 nodi, che aumentò a 22 nodi alle
21.25 per poi ridurla nuovamente a 16 alle 22.03. Questa velocità, non
particolarmente elevata, era dovuta al fatto che i cacciatorpediniere della IX
Squadriglia erano ormai a corto di carburante (fatto che venne segnalato allo Zara, che a sua volta comunicò a Iachino
alle 21.50, nel suo ultimo messaggio, cui Iachino non rispose: "L’autonomia
rimasta alla Squadriglia Alfieri è
molto limitata e non permette un ingaggio d’emergenza, che pensiamo essere
quasi certo"), rimasto in quantità appena sufficiente a tornare alla base:
ad impensierire più di tutti era proprio il Carducci,
che alle 21 aveva solo 125 tonnellate di carburante nei serbatoi (il 28 % del
totale, e bastante per meno di 200 miglia alla velocità da tenere in
battaglia), mentre gli altri tre ne avevano 145 ciascuno. La ridotta riserva di
combustibile rimasta ai cacciatorpediniere era anche uno dei motivi per i quali
Cattaneo, essendosi trovato con la IX Squadriglia a poppavia dei suoi
incrociatori a seguito dell’inversione di rotta, non ordinò loro di portarsi a
proravia di questi ultimi, dato che per portarsi nuovamente in testa allo
schieramento i cacciatorpediniere di Toscano avrebbero dovuto incrementare
considerevolmente la velocità, consumando così più carburante. Secondo il
tenente di vascello Vincenzo Raffaelli, aiutante di bandiera dell’ammiraglio
Cattaneo, dopo l’inversione di rotta i cacciatorpediniere rimasero indietro
rispetto agli incrociatori, perciò Cattaneo, dopo aver ordinato 22 nodi agli
incrociatori, impartì alla IX Squadriglia l’ordine di serrare le distanze alla
massima velocità; i cacciatorpediniere svilupparono la massima velocità
possibile, ma non ridussero comunque le distanze fino a quando, più
tardi, Zara e Fiume ridussero la velocità a 12
nodi.
Sul Carducci, il comandante Ginocchio
ponderò brevemente la situazione. In base alle ultime comunicazioni, una
formazione navale britannica si trovava a 120 miglia di distanza, diretta verso
il Pola, che distava 25 miglia dalla
I Divisione. Con una distanza di 120 miglia dal nemico, ci sarebbe stato
abbondantemente tempo di raggiungere il Pola
e soccorrerlo, e poi c’era sì una portaerei in mare, ma per quanto ne sapeva i
britannici avevano soltanto incrociatori leggeri nel Mediterraneo orientale: d’altro
canto, però, gli incrociatori britannici disponevano di munizioni a vampa
ridotta per il tiro notturno, quelli italiani no.
Il cuoco salì in
plancia portando la cena, che Ginocchio non aveva ancora mangiato: una fetta di
carne e tre supplì. Il cuoco era un uomo di circa trent’anni, grande e grosso,
dall’aspetto ben poco militaresco: non indossava il camisaccio e col suo
grembiule bianco sembrava il garzone di una pizzeria. Da qualche tempo gli aveva
prestato il romanzo “La cittadella” di Archibald Joseph Cronin, che Ginocchio
faticava a finire per mancanza di tempo, sempre preso dalle incombenze del
comando. Anche il cuoco era dubbioso: guardando verso prua chiese perché li
stessero facendo navigare dietro gli incrociatori, e Ginocchio gli suggerì
scherzosamente di andare in sala radio per parlare con l’ammiraglio Cattaneo,
che forse glielo avrebbe spiegato. Il cuoco salutò cerimoniosamente e se ne
andò in silenzio.
Ginocchio assaggiò un
supplì, ma lo trovò disgustoso; ne offrì una fetta al timoniere, marinaio
nocchiere Giuseppe Calafiore, che però, dopo averlo provato, lo respinse a sua
volta protestando che era una schifezza. Il cuoco del Carducci non godeva di grande prestigio tra l’equipaggio per il suo
talento culinario. Ninni rispose al timoniere scherzando che avrebbero chiamato
Auguste Escoffier.
La radio del Carducci intercettò sull’onda di
divisione una comunicazione diretta dallo Zara
al Fiume, nella quale il primo
ordinava al secondo di preparare le attrezzature del rimorchio (l’ammiraglio
Cattaneo voleva infatti far prendere il Pola
a rimorchio dal Fiume) e di passare
al posto di combattimento notturno per guardie (sul Carducci quest’ultimo ordine non era necessario, essendo già
previsto che durante la navigazione notturna i cannoni rimanessero armati con
metà del personale sveglio, e l’altra metà che doveva dormire non in branda ma
sul ponte, accanto ai cannoni, per essere pronta a combattere in caso di
necessità). Il direttore del tiro Cimaglia tornò a ritirarsi in sala nautica,
dove lo raggiunse anche il sottotenente di vascello Aldo Venticinque.
Alle 21.40 il Carducci, su ordine del comando di
divisione, ridusse la velocità da 20 a 12 nodi e passò da rotta 130° a 180°:
apparve evidente che la I Divisione dovesse essere ormai quasi arrivata al Pola.
Alle 21.24 Iachino
autorizzò Cattaneo ad abbandonare il Pola
qualora attaccato da forze nemiche di entità superiore, e dieci minuti più
tardi iniziò lo scambio di informazioni tra Zara
e Pola per preparare le operazioni di
rimorchio, una volta le navi di Cattaneo fossero giunte sul posto.
All’insaputa di
Cattaneo e di Iachino, però, già dalle 20.15 il radar dell’incrociatore
britannico Orion, inviato con il
resto della Forza B alla ricerca della formazione italiana, aveva individuato
il relitto galleggiante del Pola.
Dopo aver effettuato vari rilevamenti radar senza essere riuscito ad
identificare il contatto (il Pola non
era infatti stato visivamente avvistato), l’ammiraglio Pridham-Wippell,
comandante della Forza B, avendo comunicato al suo comandante in capo
(l’ammiraglio Andrew Browne Cunningham, comandante della Mediterranean Fleet ed
imbarcato sulla Warspite) la
posizione della nave sconosciuta affinché decidesse sul da farsi, decise di proseguire
senza curarsene ulteriormente.
Alle 21.55 (od alle
21.15, o poco dopo le 22) un altro degli incrociatori di Pridham-Wippell, l’Ajax, rilevò un nuovo contatto radar:
stavolta erano tre navi, che si trovavano cinque miglia a sud della Forza B
(che era in quel momento nel punto 35°19’ N e 21°15’ E), su rilevamento
compreso tra 190° e 252°. Erano probabilmente il Carducci, l’Oriani ed il Gioberti, che assieme al resto della I
Divisione stavano procedendo su rotta opposta a quella della Forza B, rispetto
alla quale si trovavano effettivamente poco più di cinque miglia a sud:
Pridham-Wippell, però, pensa trattarsi di tre degli otto cacciatorpediniere
della 14th Destroyer Flotilla del capitano di vascello Philip Mack,
inviati anch’essi alla ricerca delle navi italiane (Cunningham aveva ordinato a
Mack di seguire una rotta molto più a sud di quella di Pridham-Wippell, per
formare una sorta di “tenaglia” avente a sud la forza di Mack, a nord quella di
Pridham-Wippell ed al centro le sue corazzate): lo stesso pensò il comandante
Mack, che aveva ricevuto la comunicazione radio dell’avvistamento, e rispose
all’Ajax che le navi da loro
avvistate dovevano essere le sue. La Forza B, pertanto, alle 22.02 accostò
verso nord per allontanarsi, onde evitare incidenti con le navi di Mack. Le
navi di Cattaneo superarono quindi indenni ed ignare sia la Forza B (passando a
sud di essa) sia le navi di Mack (ad una decina di miglia di distanza),
procedendo su rotta opposta.
Ricevuta la
segnalazione di Pridham-Wippell sul relitto del Pola (che ancora non si sapeva essere tale), Cunningham assunse con
le sue navi (Barham, Valiant, Warspite, Formidable ed i
cacciatorpediniere Stuart, Havock, Griffin e Greyhound)
rotta 280° per scoprire la sua identità, e distruggerlo. Dopo un’ora la Valiant, unica corazzata munita di
radar, che subito dopo il mutamento di rotta aveva iniziato a scandagliare la
zona con il suo radar per cercare la nave immobilizzata, localizzò il Pola 6 miglia a prua sinistra, e tutte
le navi di Cunningham accostarono di 40° a sinistra, assumendo rotta 240° ed
avvicinandosi in linea di rilevamento all’unità sconosciuta. L’ammiraglio
britannico pensava di trovarsi di fronte alla Vittorio Veneto: di conseguenza, ordinò ai suoi cacciatorpediniere
di scorta (Stuart ed Havock erano a dritta delle corazzate, Greyhound e Griffin a sinistra) di spostarsi tutti a dritta per liberare il
campo di tiro verso sinistra, mentre 24 cannoni da 381 mm – l’armamento
principale delle tre corazzate – venivano puntati verso il punto in cui il
radar della Valiant aveva localizzato
la nave ignota, pronti ad aprire il fuoco non appena essa fosse stata avvistata
con i binocoli.
Alle 22.23, prima di
completare la manovra di spostamento per liberare il campo di tiro delle
corazzate, lo Stuart segnalò urgentissimamente
a Cunningham "Unità sconosciuta per 250° a 4 miglia di distanza",
seguito alle 22.25 da un’altra nave che comunicò "J – 300 – 6", cioè "rilevo
unità di superficie nemica per rombo 300° a distanza 6": erano le navi del
gruppo «Zara», che venivano a soccorrere il Pola.
Prima ancora che il
messaggio dello Stuart venisse
ricevuto sulla Warspite, comunque, fu
il commodoro John Hereward Edelsten, capo di Stato Maggiore di Cunningham, ad
avvistare le navi italiane. Mentre tutte le vedette, i puntatori e gli
ufficiali britannici cercavano nel buio a sinistra, dove il radar della Valiant aveva localizzato il relitto del
Pola, Edelsten stava tranquillamente
controllando l’orizzonte sulla destra, con un binocolo, dalla plancia
ammiraglio della Warspite. Alle 22.25
Edelsten disse con calma a Cunningham di aver avvistato due grandi
incrociatori, preceduti da uno di dimensioni minori, che stavano attraversando
la rotta della formazione britannica a proravia della stessa, ad una distanza
di un paio di miglia, sulla dritta. Il comandante della Mediterranean Fleet si
accertò egli stesso dell’esattezza dell’avvistamento, ed il capitano di fregata
Power, esperto nel riconoscimento delle navi italiane, confermò che si trattava
di due incrociatori classe Zara e
(erroneamente) uno da 5000-6000 tonnellate, probabilmente tipo Colleoni. Erano le navi di Cattaneo, in
navigazione in linea di fila su rotta 130°.
Le navi britanniche erano
tutte munite di colorazione mimetica, che ne diminuiva di molto la probabilità
di avvistamento, mentre quelle italiane, a parte il Fiume, avevano ancora la loro colorazione grigio chiaro, senza
mimetizzazione, che le rendeva molto più visibili di notte.
Proprio in quei
minuti, alle 22.29, le navi di Cattaneo avevano avvistato un razzo Very rosso
levarsi nel cielo a poca distanza, a 40° di prora sinistra: l’aveva lanciato il
Pola, per farsi vedere, temendo che
le sagome scure che aveva visto transitare nei suoi pressi poco prima fossero
le navi di Cattaneo, e che non l’avessero visto (in realtà erano le corazzate
di Cunningham). Di conseguenza la I Divisione, ridotta la velocità a 16 nodi,
iniziò ad accostare a sinistra, verso il punto da cui era partito il razzo.
Intanto il Pola aveva
effettuato segnalazioni anche con la lampada Donath: ma queste ed il razzo
erano stati visti non solo dalla I Divisione, ma anche dalle navi da battaglia
britanniche.
Cunningham ordinò che
la formazione accostasse ad un tempo di 40° sulla dritta, ricostituendo la
linea di fila sul rombo 280°; poi le torri dei cannoni delle tre corazzate –
nell’ordine Warspite, Valiant e Barham, distanziate di circa 600 metri l’una dall’altra –
vennero puntate nella direzione da cui provenivano le navi della I Divisione. Alle
22.27 Cunningham ordinò alla Formidable di
uscire dalla formazione ed allontanarsi verso destra, essendo al momento
inutile ed anzi a rischio di essere coinvolta in un combattimento notturno nel
quale non avrebbe potuto difendersi adeguatamente se attaccata. Al Griffin, che si trovava ancora sulla
linea di tiro delle corazzate in procinto d’aprire il fuoco, fu ordinato in
malo modo di levarsi di mezzo.
Alle 22.29 precise
tutti gli uomini sulla plancia del Carducci
videro un razzo Very rosso sollevarsi verso est, 40° da prora a sinistra,
descrivere un’ampia traiettoria e poi cadere in mare. Il comandante Ginocchio
commentò “Quello è il Pola!”, e
questa fu l’impressione di tutti in plancia, ma un attimo dopo il mare venne
improvvisamente illuminato da fasci di proiettori e bengala che si accesero per
tutto il cielo, sulla dritta della formazione, mentre Ninni si girava e diceva
qualcosa che Ginocchio non sentì. Il fascio di un proiettore proveniente da
sinistra illuminò il Fiume, altri
illuminarono lo Zara. Per un attimo
Ginocchio pensò che forse quelli erano i proiettori del Pola, ma era evidente che erano troppo lontani per poterlo essere. E
difatti, più o meno contemporaneamente venne intercettato un messaggio del Pola, che diceva di essere attaccato e
chiedeva aiuto.
Mentre verso destra
si accendevano le vampate di cannoni che facevano fuoco, Ninni gridò “Non è il Pola! Non è il Pola! Questi sono cannoni di grosso calibro!”. Un attimo più tardi,
Zara e Fiume vennero colpiti e presero a bruciare furiosamente: dalla
plancia del Carducci, Ninni vide
chiaramente diversi proiettili colpire lo Zara,
e gli scoppi delle riservette di munizioni sulla coperta del Fiume. La I Divisione era finita sotto
il tiro di corazzate che sparavano stando nascoste nel buio, mentre i
cacciatorpediniere ai lati illuminavano i bersagli con i proiettori.
Sul Carducci gli uomini, abbagliati da
bengala e riflettori, non riuscivano a vedere il nemico. Più tardi, Ginocchio
avrebbe stimato che l’azione di fuoco non dovesse essere durata più di tre
minuti contro gli incrociatori e l’Alfieri
ed uno e mezzo contro il Carducci, e
che da parte britannica dovessero aver sparato diverse corazzate assistite da
incrociatori e cacciatorpediniere; quest’ultimi erano i responsabili del tiro
rapido illuminante che aveva accecato tutti, dato che sembrava tiro di pezzi da
100 mm.
La prima ad aprire il
fuoco, alle 22.30, fu la Warspite, da
3500 metri di distanza. Subito la seguirono la Valiant e la Barham:
ventiquattro cannoni da 381 mm riversarono un diluvio di proiettili sui due
incrociatori della I Divisione, mentre i proiettori del cacciatorpediniere Greyhound e delle corazzate illuminavano
lo Zara, il Fiume e l’Alfieri.
Lo Zara ed il Fiume, colti completamente alla sprovvista, non ebbero nemmeno il
tempo di abbozzare una reazione: entrambi gli incrociatori vennero ridotti, in
capo a tre minuti, a due relitti galleggianti, devastati dall’uragano di fuoco
che si era abbattuto su di loro.
Alle 22.35 (o 22.33)
la Barham aprì il fuoco per ultima,
prima contro l’Alfieri e poi contro
lo Zara.
Poco dopo, i proiettori
delle navi britanniche avvistarono tre dei quattro cacciatorpediniere della IX
Squadriglia: ai britannici sembrò che questi, sbucati da dietro gli
incrociatori, si fossero inizialmente diretti verso la formazione britannica e
poi, probabilmente dopo aver lanciato i siluri, avessero accostato a dritta per
poi allontanarsi coprendosi la ritirata con cortine fumogene.
Niente di tutto
questo era in realtà avvenuto: le quattro unità della IX Squadriglia, benché –
a differenza degli incrociatori – avessero le proprie artiglierie ed i propri
tubi lanciasiluri armati e pronti al fuoco (come di norma per la navigazione
notturna delle siluranti in tempo di guerra), furono state talmente colte di
sorpresa e frastornate da quanto stava accadendo – all’iniziale sorpresa seguirono
violente e rapide raffiche di proiettili da 152 mm – che non spararono un colpo
né tentarono il contrattacco silurante. La loro posizione era particolarmente
sfavorevole: si erano venuti a trovare un po’ a ridosso degli incrociatori pesanti
ed erano così centrati dal tiro delle navi britanniche che sparavano
defilandosi dietro gli incrociatori della I Divisione; i cacciatorpediniere non
potevano così impiegare le armi, perché rischiavano di colpire gli incrociatori
di Cattaneo.
Investiti dal tiro
delle navi britanniche ed abbagliati dai fasci luminosi dei proiettori puntati
su di essi, l’Alfieri per primo, e
subito dopo gli altri tre (per imitazione della manovra del caposquadriglia),
accostarono immediatamente a dritta per disimpegnarsi, ed accelerarono tentando
di sottrarsi al tiro delle unità britanniche coprendosi con cortine nebbiogene,
senza capire cosa stesse accadendo. Il Carducci
fu subito inquadrato subito dal tiro britannico, e così pure l’Oriani che lo seguiva.
Ripetendosi che
doveva essere un sogno, Ginocchio si fiondò sul clacson e suonò l’allarme, poi
Fontana, l’ufficiale di rotta (che al momento dell’apertura del fuoco era
appena entrato in sala nautica perché chiamato dal radiotelegrafista di
guardia, e si era subito precipitato nuovamente in plancia), lo mise in
comunicazione telefonica con la centrale di tiro: più o meno in quel momento,
il Carducci venne percorso da uno
scossone. Doveva essere stato colpito a prua da qualche proiettile (più o meno
contemporaneamente, infatti, venne osservato da bordo dell’Alfieri che si era scatenato un incendio sulla prua del Carducci). Dalla centrale di tiro non
giunse risposta, per cui Ginocchio ordinò al sottocapo cannoniere Francesco Di
Maio, che si trovava in plancia, di andare in centrale di tiro per recare
l’ordine di iniziare subito a sparare contro i proiettori con i cannoni da 120
mm. A Ninni, che aspettava ordini, Ginocchio disse di andare a prua e vedere
cosa fosse accaduto; mentre Ninni scattava, Ginocchio ordinò alla sala macchine
“Macchine avanti massima!” e gridò al timoniere Calafiore “Vai per 270°!” (cioè
barra a dritta, un’accostata per imitare la manovra del caposquadriglia), mettendosi
anche lui alla ruota per aiutarlo ad accostare (in quel momento, secondo il
ricordo del sottotenente di vascello Fontana, il Carducci aveva rotta 160°). Anche l’Alfieri era ora avvolto dalle fiamme.
In sala nautica, il
tenente di vascello Cimaglia stava cercando di riposare quando sentì gridare
“Razzo rosso!” e simultaneamente il Carducci
venne fatto oggetto di una gragnola di colpi. Saltato in piedi e ricevuto dal
comandante l’ordine di mandare gli uomini al posto di combattimento generale,
Cimaglia diede l’allarme ai complessi da 120 ed ordinò di smistare il tiro sul
lato sinistro, dove aveva visto vampe di cannoni che sparavano ed un proiettore
acceso. Intanto, sentì Ginocchio ordinare delle ampie accostate a tutta forza e
l’emissione di fumo; accostate che vennero prontamente eseguite dal timoniere
Calafiore, sempre calmo, che manovrò la barra ripetendo gli ordini del
comandante. Cimaglia si fermò un attimo accanto a Calafiore, cercando infruttuosamente
di scorgere il nemico ed attendendo l’ordine di aprire il fuoco.
Poco dopo, una prima
coppiola di proiettili colpì il Carducci
sotto la plancia, devastando il castello (per altra versione questa salva
avrebbe colpito sotto la linea di galleggiamento, esplodendo molto all’interno
della nave), facendo sussultare il cacciatorpediniere e provocando l’esplosione
di cassette di munizioni e bombe da getto in coperta. Furono colpiti anche il
complesso prodiero da 120, che fu messo fuori uso con quasi tutto il personale
ucciso o ferito, l’infermeria (nella quale scoppiò un violento incendio) e la
direzione del tiro, scatenando un primo incendio a bordo. Il ponte di comando
venne investito da una pioggia di schegge, che mandò in pezzi vetri e
strumentazioni: passato questo “turbine”, il sottotenente di vascello Fontana
domandò ad alta voce “C’è qualcuno al timone?”. Rispose Calafiore, che era
rimasto al suo posto, attaccato alla ruota senza scomporsi.
Il cielo era pieno di
razzi illuminanti e grappoli di bengala, e diversi proiettori continuavano ad
essere puntati sulle navi italiane; un singolo bengala giallo-arancione, in
particolare, illuminava a giorno il Carducci.
In plancia, si aveva erroneamente l’impressione che Fiume e Zara stessero
facendo fuoco, ma non si riusciva a distinguere da dove provenissero le vampate
che si vedevano.
Il supposto attacco
silurante dei cacciatorpediniere italiani aveva frattanto indotto le corazzate
ad aprire il fuoco con i cannoni di medio calibro (152 mm) verso le navi della
IX Squadriglia, mentre i cacciatorpediniere britannici – Stuart (australiano), Havock,
Griffin e Greyhound – si lanciavano al contrattacco aprendo il fuoco con i
propri cannoni. Nella confusione generale, anzi, l’Havock aveva scordato di accendere i fanali di riconoscimento in
uso nelle azioni notturne e venne perciò scambiato per italiano e fatto segno
di due salve da 152 della Warspite,
uscendone tuttavia indenne. Alle 22.31 la Valiant
spostò la sua attenzione dall’ormai devastato Zara al Carducci, aprendo
il fuoco contro di esso con i pezzi secondari da 152 mm: fu il tiro di questa
corazzata a colpire più volte il cacciatorpediniere, con effetto catastrofico.
Il sottotenente
Sponza, al momento dell’apertura del fuoco da parte britannica, si trovava in
segreteria artiglieria, intento anche lui a cercare di riposarsi un poco;
all’improvviso aveva visto il cielo illuminarsi a giorno per l’accensione di
proiettori e bengala, e prima di poter capire cosa stesse accadendo sentì due
colpi sordi allo scafo: i primi proiettili nemici andati a segno. Mentre le
macchine rallentavano e si fermavano, si precipitò al suo posto di
combattimento, nella sala macchine di poppa, dove aiutò il capo guardia ad
intercettare il vapore. Successivamente salì in coperta per chiedere ordini al
comandante.
Dopo essersi
arrestato quasi di colpo, il Carducci
riprese ad avanzare, spinto dall’abbrivio. Ginocchio gridò allora a Calafiore
di mettere la barra a sinistra (rotta 130°), poi vide il sottocapo Di Maio e
gli chiese, gridando, “Perché non spariamo? In centrale sono impazziti?”, per
poi rendersi conto che Di Maio aveva una profonda ferita al ventre, dalla quale
perdeva molto sangue. Questi rispose che non arrivava la corrente, poi si
sedette su uno sgabello e prese ad esaminare la ferita.
Scartando
notevolmente, il Carducci era
arrivato all’altezza del Gioberti, e
Ginocchio ordinò a Fontana di dire alla sala macchine di emettere subito fumo, poi
gridò: “Via alla massima!”; la nave accostò lentamente ed assunse una rotta
quasi parallela a quelle di Gioberti,
Alfieri, Zara e Fiume. Proposito
di Ginocchio era di coprire le unità superstiti con una cortina fumogena, per
permettere loro di fuggire, anche a costo di sacrificare la propria nave. Con
questa manovra, infatti, il Carducci
ritornò più o meno sulla rotta originaria e si trovò ad essere l’unica nave
italiana bene in vista per i cannonieri britannici: su di esso si riversarono
dunque innumerevoli colpi da 120 e 152 mm, con effetti devastanti.
Verso sud vennero
visti quattro grossi scoppi e incendi, che Ginocchio ritenne avvenuti sugli
incrociatori. Ormai i grossi calibri tacevano: sparavano ora cannoni a tiro
rapido, con proiettili illuminanti. Dopo appena tre minuti di fuoco, le
corazzate di Cunningham avevano infatti spento i proiettori alle 22.32 ed avevano
accostato ad un tempo di 90° sulla dritta per evitare gli ipotetici – ma
inesistenti – siluri lanciati dalla IX Squadriglia (in questa fase la Warspite tirò alla cieca una salva da
381 contro i cacciatorpediniere italiani, cui era più vicina), dopo di che si
allontanarono rapidamente dal luogo dello “scontro”, assumendo rotta 010°
insieme alla Formidable (alle 23.30
le navi di Cunningham assunsero poi rotta 070° e velocità 18 nodi).
Rimasero sul posto i
cacciatorpediniere Stuart
(caposquadriglia, capitano di vascello Hector Macdonald Laws Waller), Havock (tenente di vascello Geoffrey
Robert Gordon Watkins), Griffin (capitano
di corvetta John Lee-Barber) e Greyhound
(capitano di fregata Walter Roger Marshall-A’Deane), cui Cunningham ordinò alle
22.38 di dare il colpo di grazia alle navi semidistrutte, mentre le tre
corazzate e la Formidable si
riunivano e riformavano la linea di fila, assumendo rotta 10°, per poi
allontanarsi verso nordest. I quattro cacciatorpediniere britannici avrebbero
incrociato a lungo nelle acque del disastro, attaccando saltuariamente i
relitti galleggianti delle navi italiane.
Nel buio della notte,
Zara e Fiume non erano altro che due enormi roghi, e non molto diversa era
la situazione dell’Alfieri, che per
un momento sembrò sparare contro i proiettori. Sul Carducci, una volta finito di trasmettere al centralino macchine,
per via telefonica, l’ordine di emettere la nebbia, il sottotenente di vascello
Fontana si girò verso prua giusto in tempo per veder scadere sulla dritta, in
conseguenza dell’accostata a sinistra, una grande fiammata che avvolgeva
l’incastellatura di un incrociatore, forse il Fiume.
Cimaglia cercò di
capire dove fosse il nemico, in modo da dirigere la punteria del complesso
poppiero da 120, l’unico ancora funzionante: per cercare di avvistare le navi
britanniche si spostò dal lato sinistro a quello di dritta e poi tornò
nuovamente a sinistra, ma non riuscì a vedere gli avversari. Vide invece il Gioberti, interamente illuminato dai
proiettori, mentre navigava con rotta quasi opposta a quella del Carducci (stimò l’angolo tra le due
rotte in circa 130°). I primi colpi incassati, intanto, avevano messo fuori uso
anche il timone, ragion per cui fu ordinato di passare al timone a mano.
Il Carducci iniziò ad emettere la sua
cortina fumogena, e poco dopo Ginocchio vide l’Oriani superare a tutta forza la sua nave, eseguire una veloce
conversione ed infilarsi nella cortina, sparendo alla vista; il Gioberti fece lo stesso, e Ginocchio
pensò solo che ce la dovevano fare.
Il Carducci, invece, non ce l’avrebbe
fatta. Poco dopo, una seconda salva nemica lo colpì a centro nave sulla dritta,
in corrispondenza dei locali macchine e caldaie, mettendo fuori uso la motrice
prodiera, il centralino macchine e le turbodinamo; si sentì un sibilo
fortissimo mentre un’enorme nube di vapore veniva sprigionata dal locale
caldaie, e contemporaneamente la nave perse velocità. La prua continuava a
virare a sinistra, per effetto dell’abbrivio. In plancia si comprese subito che
il gruppo caldaie era stato seriamente colpito; le macchine si fermarono ed in
sala caldaie si scatenò un incendio violentissimo, come avrebbe poi raccontato
a Cimaglia il sergente meccanico Francesco Lezzi. Venne a mancare la corrente
elettrica ed il Carducci precipitò
nel buio, arrestandosi bruscamente mentre del vapore usciva dal fumaiolo
sforacchiato.
Fontana esclamò
“Comandante! Siamo fermi!”, e Ginocchio assentì. Fontana chiese allora se
dovesse affondare le pubblicazioni segrete, ed ebbe risposta affermativa. Cimaglia
stimò poi che fossero passati al massimo cinque minuti da quando era stato
lanciato il razzo rosso, Fontana ritenne invece che ne fossero trascorsi poco
più di due.
In quella manciata di
minuti il Carducci, illuminato in
pieno dai proiettori e dai bengala, era stato centrato da tre salve di medio
calibro (152 mm) della Valiant o
della Warspite, a mezzo minuto l’una
dall’altra.
La prima salva aveva
devastato il castello, mentre la seconda, che aveva colpito il Carducci quando Ginocchio aveva ordinato
a Calafiore di virare a sinistra, aveva centrato ed immobilizzato le tre
caldaie, gravemente danneggiato il locale turbodinamo e la trasmissione di
manovra del timone e fatto saltare la corrente, così vanificando i tentativi di
mandare in punteria i cannoni da 120. I colpi giunti a bordo appiccarono anche
diversi incendi, che l’equipaggio tentò di domare senza successo.
Altre cannonate si
abbatterono ancora sulla nave ormai ridotta a relitto. Un’altra salva britannica
sradicò dal suo posto il complesso prodiero da 120, gettandolo in mare, e
subito dopo altri due colpi demolirono la prua del cacciatorpediniere. La
plancia era fiocamente illuminata dalla luce verde di sicurezza, che «dava ai
presenti un aspetto come di persone già morte». Arrivò Ninni, di ritorno dal
suo giro per controllare i danni, e spiegò con calma che i colpi arrivati a
centro nave – oltre a fermare le macchine ed incendiare uno dei due depositi
principali della nafta – avevano aperto delle falle dalle quali l’acqua si
riversava copiosamente all’interno; il Carducci
stava per affondare. Altri ufficiali riferirono che oltre ai locali caldaie erano
stati colpiti anche le trasmissioni del timone ed il locale dinamo, nonché vari
punti dell’opera morta. Ginocchio ordinò di prepararsi ad abbandonare la nave.
In plancia si spense
anche l’ultima luce verde, e Ginocchio e gli altri scesero in coperta. Adesso
non si sentiva più sparare, ed anche bengala e proiettori si erano spenti; all’inferno
di poco prima era subentrata una strana calma. Uniche luci sul mare erano gli
incendi che divampavano a bordo di Zara,
Fiume, Alfieri e Carducci.
Vicino ad una mitragliera, un marinaio era appeso ad alcuni ferri, morto in
piedi. Il Carducci stava avanzando
ancora, girando con il timone alla banda, ma era spinto solo dall’abbrivio, le
macchine ormai erano morte. La velocità decresceva gradualmente fino a quando
la nave, esaurita la spinta, si arrestò del tutto. Le paratie prodiere,
sottoposte alla pressione del mare, iniziarono a cedere: Ginocchio ne percepì
lo schianto sotto i suoi piedi. La nave iniziò ad assumere un leggero
appruamento, e due marinai seminudi scavalcarono il parapetto e si buttarono in
acqua, uno dopo l’altro. Ginocchio gridò a Ninni di fermarli, ma si rese conto
lui stesso che quell’ordine non aveva senso.
Sulla poppa ardeva un
violento incendio, e di quando in quando esplodeva una bomba di profondità,
raggiunta dalle fiamme. Aveva preso fuoco anche un doppio fondo nel quale era
stivata della nafta, per cui in quella zona le fiamme uscivano anche dai
boccaporti; gettare in mare le munizioni non sarebbe servito a migliorare la
situazione. Sperando che fosse ancora possibile salvare la nave, Ginocchio
chiese al capo meccanico Angelo Guglielmi di andare di sotto per vedere a quale
distanza fosse l’incendio dalle riservette di munizioni; Guglielmi gli chiese
se sarebbe potuto andare a prendere anche la bandiera di combattimento, ed il
sergente meccanico Francesco Lezzi, sebbene ferito al volto e alle mani, lo
seguì immediatamente per aiutarlo. Ginocchio cercò di fermare Lezzi, ma questi
scese nel boccaporto e sparì.
Lentamente, il Carducci stava affondando di prua, in
modo quasi impercettibile. Ginocchio ordinò a due marinai, Gaetano De Rosa e
Gino Rosteghin, di aiutare i feriti più gravi, e si diresse verso prua: il mare
tuonava nel penetrare attraverso le paratie dilaniate.
Alle 23.30 Ginocchio
dovette rassegnarsi: il Carducci era
perduto. Nel buio circostante si vedevano ancora ardere i relitti di Zara e Fiume, mentre l’Alfieri
era sparito, probabilmente già affondato.
Ninni chiese e
ottenne da Ginocchio l’autorizzazione di distruggere i cifrari e le altre carte
dell’archivio segreto, operazione che fu materialmente eseguita da Fontana:
questi, con l’aiuto di due radiotelegrafisti, chiuse tutte le pubblicazioni
segrete della stazione radio (codici, cifrari e nominativi) e gli altri
documenti segreti dei quali era prevista la distruzione nell’apposita cassetta
bucherellata, che gettò poi in mare dall’aletta di plancia di sinistra. Fatto
questo, lasciò la plancia ed insieme al tenente di vascello Venticinque
raggiunse Ginocchio, il quale, giudicando che fosse arrivato il momento di
abbandonare la nave, ordinò loro di radunare gli uomini, ordinandoli in modo
che i feriti, specie quelli gravi, venissero messi in salvo per primi. Non
essendo più possibile trasmettere l’ordine a tutta la nave, con tutti i sistemi
di comunicazione fuori uso, Fontana e Venticinque scelsero sei o sette uomini
che mandarono in tutte le zone del Carducci
a diffondere il “Si salvi chi può”. Arrivò Cimaglia, il direttore del tiro, che
chiese ordini; dovette ripetere la sua domanda, perché Ginocchio si era perso
nei suoi pensieri. In precedenza, Cimaglia si era brevemente trattenuto in
coperta a poppa per incitare i pochi timorosi, che avevano paura di tuffarsi
perché non sapevano nuotare, a saltare in acqua e raggiungere le zattere.
Quando tornò alla realtà, Ginocchio ordinò a Cimaglia di far saltare la nave,
distruggerla, affondarla, e lo disse quasi rabbiosamente, cosa di cui si
stupirono entrambi. Ricevuto l’ordine di far brillare le cariche di
autodistruzione nel deposito munizioni di poppa, Cimaglia si diresse nel suo
alloggio, dove a tentoni – dato che tutta la nave era al buio –, con l’aiuto
del marinaio Mario Rebora, ordinanza del comandante Ginocchio, recuperò la
chiave dei depositi ed una candela. Cimaglia e Rebora scesero insieme nel
deposito munizioni ed accesero la candela; Rebora fece luce con la candela,
mentre Cimaglia cercava di aprire la prima carica. Per preparare le micce delle
cariche di autodistruzione bisognava aprire un coperchio saldato, sfilare la
miccia e distenderla; ma il contenitore era saldato talmente forte che la
linguetta di chiusura si spezzò in mano a Cimaglia. Questi mandò allora Rebora
nel riposto ufficiali, e poco dopo il marinaio fece ritorno con un coltello,
usando il quale, a costo di ferirsi in più punti le mani, Cimaglia riuscì
infine ad aprire il coperchio ed estrarre la miccia; ma srotolandosi in modo
irregolare, questa si tagliò contro il bordo del coperchio. Intanto la
situazione diventava sempre più preoccupante: di sopra erano state aperte le
valvole Kingston e le saracinesche per procedere all’allagamento e
autoaffondamento (i sottufficiali meccanici incaricati avevano avviato le
manovre di allagamento dei depositi di munizioni e teste cariche), e l’acqua
stava entrando anche nel deposito; Cimaglia si trovava già con l’acqua alle
ginocchia.
Nel frattempo, un
marinaio aveva riferito a Ginocchio che il sottotenente Sponza, dalla sala
macchine, domandava l’autorizzazione per sfondare le tubolature di circolazione
dei condensatori. Ginocchio scese personalmente in sala macchine, dove Sponza –
unico ufficiale di macchina ancora in vita – ed alcuni marinai attendevano la
risposta, mazze alla mano, pronti a sfasciare le tubature. Il comandante del Carducci diede la sua autorizzazione, e
gli uomini cominciarono a sfondare le tubature ed allagare la sala macchine. Fu
a questo punto che Cimaglia, che nel deposito munizioni semiallagato stava
cercando di riparare la miccia tranciata per distenderla nella sua interezza e
portare a termine il suo compito, sentì Ninni che dalla coperta gli ordinava di
lasciar perdere, dato che il Carducci
stava già affondando per l’allagamento dei locali colpiti dal tiro nemico e per
gli squarci aperti dal sottotenente Sponza.
Lasciata la sala
macchine, Ginocchio imboccò il corridoio che conduceva alla mensa ufficiali per
tornare in coperta: mentre lo attraversava, il Carducci fu di nuovo percorso da un violento scossone, ed una
colonna di vapore di levò nella direzione della mensa. Ginocchio s’imbatté in
Cimaglia, il quale, il volto annerito e sanguinante da una guancia, gli spiegò
che non riusciva ad attivare le cariche di autodistruzione perché le micce
erano difettose: non era possibile far saltare il Carducci. Ginocchio volle andare a controllare di persona, insieme
a Cimaglia, e constatò che i detonatori a tempo erano difettosi, e le micce
erano troppo corte, rendendo un’accensione diretta troppo pericolosa.
Ma affondare il Carducci era l’ultimo della schiera di
problemi che si presentavano. La nave lo stava già facendo da sola: anche il
secondo deposito di nafta, contenente almeno 70 tonnellate di carburante, aveva
preso fuoco, facendo sussultare l’unità. Le cariche di autodistruzione erano
superflue; Ginocchio ordinò a Cimaglia di mandare gli uomini ad aprire tutti
gli oblò che fossero raggiungibili senza rischiare di restare intrappolati
(vennero aperti anche i portelli di murata, le porte stagne di poppa, le
saracinesche dei condensatori e la portelleria degli alloggi dello Stato
Maggiore, ed aperti completamente gli allagamenti del deposito teste cariche),
poi raggiunse Fontana e gli ordinò di far mettere a mare le zattere Carley.
Fontana rispose che due degli zatteroni erano inutilizzabili, perché colpiti
dal tiro britannico, e Ginocchio disse allora di buttare in mare il massimo
quantitativo possibile di legno. Molti uomini, tra i quali un nostromo
gravemente ferito, si erano radunati presso i Carley; sul castello, a poppavia
del complesso da 120 mm, giacevano parecchi morti e feriti, così tanti da
intralciare le operazioni di messa a mare dei galleggianti.
Dietro ordine di
Fontana, gli uomini gettarono in mare due zattere del lato sinistro, dopo di
che Fontana si recò a centro nave per ammainare battelli e motolancia. Quando
alcuni marinai cercarono di ammainare la motolancia, che era rimasta appesa al
solo paranco prodiero (quello poppiero, colpito da schegge, si era rotto),
questa cadde in mare, si capovolse e affondò. Anche il battello, non appena fu
messo in mare, affondò perché danneggiato da schegge. Tra gli uomini che
cercarono di mettere in mare le imbarcazioni vi era anche il nocchiere di
seconda classe Augusto Simonelli, che diede il suo aiuto nonostante fosse
gravemente ferito; ma nel farlo, questi, dolorante e stremato, finì in mare e
scomparve.
Furono liberate e
messe a mare le zattere collocate sotto le ali di plancia e lateralmente ad
essa; lo stesso fu fatto con le zattere di poppa, che vennero raggiunte da
Fontana e dal sottotenente di vascello Rossi, gli ufficiali loro assegnati dal
ruolo. Fu più difficile calare i due grandi zatteroni posti ai lati della stazione
segnali, ma ci si riuscì. In una scena quasi surreale, il cuoco uscì da sotto
la plancia e passò accanto al comandante, recando un cesto di patate e
mugugnando qualcosa; Ginocchio gli ordinò di lasciare le patate e di andare con
gli altri a poppa, dove Ninni stava riunendo l’equipaggio. Il cuoco lasciò il
cesto e si diresse verso poppa dopo aver risposto soltanto “Peccato!”.
Capo Guglielmi,
tornato con la bandiera di combattimento dopo aver provveduto ad aprire tutti
gli oblò di poppa per accelerare l’affondamento, consegnò il vessillo a Ninni;
dopo aver chiesto il parere di Ginocchio, questi la ripose nel suo cofano.
A poppa, intanto,
erano scoppiati altri due incendi; oltre ad immergersi lentamente di prua, il Carducci stava anche assumendo un
marcato sbandamento sulla sinistra. A Ninni si era unito Fontana, che lo
aiutava ad ordinare gli uomini; la maggior parte di questi ultimi avevano
mantenuto la calma, ma quando Ginocchio arrivò a poppa, Ninni gli disse che non
aveva potuto impedire che diversi uomini, presi dal panico, si tuffassero in
mare, e che essi chiedevano ora di essere ripresi a bordo. Ginocchio rispose
che la nave doveva essere abbandonata subito, quindi dovevano allontanarsi, non
tornare a bordo; vennero buttati in acqua salvagenti circolari, paglioli,
carabottini, plancette ed ogni altro pezzo di legno che fu possibile trovare.
Ninni disse a Fontana che si stava per far saltare la nave e che doveva quindi
abbandonare la nave con gli uomini che aveva ai suoi ordini sul lato sinistro, dopo
di che chiese tranquillamente a Ginocchio l’autorizzazione per andare a
recuperare qualche bottiglia di gin dal locale dove erano tenute, permesso che
fu accordato.
Sotto la direzione di
Fontana, dopo il grido tradizionale “Viva il re, viva l’Italia, viva il Carducci” fatto lanciare dal comandante,
gli uomini scesero ordinatamente nelle zattere frattanto messe a mare
sottobordo. Il mare era abbastanza calmo. Un marinaio tentò di tornare a bordo,
dicendo che voleva recuperare le foto della madre e della fidanzata, ma venne
gettato forzatamente sullo zatterone, ormai quasi al completo. Gli uomini
rimasti indenni diedero aiuto e precedenza a quanti non erano in grado di
nuotare; i feriti gravi vennero imbarcati sulle zattere rimaste accanto alla
nave, quelli più leggeri invece vennero spinti in acqua, ricevendo se
necessario un secondo salvagente, ed affidati ad uomini illesi che nuotavano
nei pressi. Un po’ per volta, scesero in acqua o sulle zattere tutti, tranne
gli ufficiali, gli uomini incaricati di provvedere all’affondamento, alcuni
feriti ed alcuni uomini timorosi di buttarsi perché incapaci di nuotare. Di
tanto in tanto, qualche bengala illuminava ancora il Carducci; Ninni notò che una nave italiana (doveva certamente essere
l’Alfieri) sembrava impegnata in un
duello d’artiglieria con navi britanniche. Ginocchio, Ninni e Fontana
controllarono che tutti indossassero il giubbotto salvagente, e che i feriti ne
possedessero due ciascuno, come avevano ordinato; Ginocchio notò che il
marinaio Gennaro Conte ne era sprovvisto di salvagente ed esitava a calarsi in
mare, pertanto lo chiamò e gli diede il suo. Conte aveva perso entrambe le
braccia, amputate da una raffica di schegge, e piangeva in silenzio. Una volta
indossato il giubbotto salvagente con l’aiuto di Cimaglia, scese insieme agli
altri, senza dire nulla, sempre piangendo; Ninni, del quale Conte era
attendente, lo accompagnò fino alla zattera.
Quando le zattere
furono piene ed il centro nave, lato sinistro, fu completamente sgombro, Fontana
avvisò Ninni che sarebbe salito su una zattera per cercare di regolare
l’imbarco degli uomini sui vari galleggianti. Indi, si gettò in mare e
raggiunse una zattera, cui ordinò di allontanarsi dalla nave fin quando fu a
circa 200 metri di distanza. A quel punto, ordinò di fermarsi, per attendere
gli ultimi uomini che erano rimasti ancora a bordo.
Cimaglia, tornato in
coperta, trovò che regnava ancora la calma: gli uomini che restavano a bordo,
tranne alcuni feriti ed ustionati che non erano ancora riusciti a raggiungere
le zattere, erano calmissimi. Una piccola zattera, sul castello a dritta, non
era stata ancora messa a mare; Cimaglia aiutò il sottonocchiere Mario Bonatelli
ed il marinaio Giulio Sessuru a filarla in acqua, poi imbragò alla medesima
cima del paranchetto il capo cannoniere Francesco Marino, che aveva perso
entrambe le gambe, e lo fece mettere sulla zattera, cui diede quindi ordine di
allontanarsi dalla nave. In infermeria ardeva un violentissimo incendio, ben
visibile attraverso il ponte squarciato, e fiamme uscivano anche dall’accesso
del deposito munizioni prodiero, che però era stato allagato (così gli fu
riferito; Ninni, però, nella sua relazione scrisse invece che il groviglio di
lamiere causato da un colpo caduto vicino all’infermeria aveva impedito
l’accesso al deposito munizioni, e di conseguenza anche il suo allagamento).
Sul castello giaceva gravemente ferito il marinaio Martino Mellano, che si
lamentava e stava già rantolando. Non era rimasto sul Carducci un solo pezzo di legno che si potesse gettare in acqua:
persino la passerella, il barcarizzo e la plancia da sbarco erano state buttate
a mare per servire come sostegno ai naufraghi. I più paurosi vennero convinti a
gettarsi in mare ed aggrapparsi ai vari galleggianti che si trovavano attorno
alla nave, e quelli che continuavano a rifiutarsi furono gettati di peso ed
affidati a nuotatori più esperti che si trovavano nei loro pressi. Gli ultimi
feriti gravi rimasti ancora a bordo vennero sbarcati su una zattera rimasta in
prossimità del Carducci.
Infine rimasero a
bordo in sette, tutti radunati a centro nave, sulla dritta: erano Ginocchio,
Ninni, Sponza, Cimaglia, il sergente Lezzi, il marinaio fuochista Domenico
Minniti ed il marinaio cannoniere Domenico Angioletti. Questi ultimi due non si
erano ancora tuffati perché non sapevano nuotare.
Alle 23.15 la nave
era quasi completamente deserta; Ginocchio ordinò agli ufficiali di abbandonare
la nave, e si trattenne a bordo da solo ancora per mezz’ora, onde sincerarsi
che l’allagamento procedesse come previsto. Il ponte di coperta ormai non
distava più di un metro dalla superficie del mare, e Cimaglia, quando Ginocchio
gli ordinò di abbandonare la nave, non dovette neanche tuffarsi; si lasciò
scivolare lungo il bordo. Non appena fu in mare, Cimaglia s’imbatté in una
delle passerelle di legno che di solito erano collocate su complessi
lanciasiluri, tra un tubo e l’altro; essendo ancora vicino alla nave, da bordo
gli gridarono che gli avrebbero affidato Lezzi, Angioletti e Minniti. Cimaglia
adagiò Lezzi sul carabottino e fece aggrappare ai bordi Angioletti e Minniti,
dopo di che, non essendoci più posto, si allontanò nuotando con le gambe per
cercare qualche oggetto o galleggiante per sé. Purtroppo, Lezzi, Angioletti e
Minniti non sarebbero mai più stati rivisti, come tanti altri che scesero in
mare quella notte. Cimaglia raggiunse presto un nutrito gruppo di uomini in
acqua, che gridavano e si agitavano; quando si accorsero di lui, iniziarono a
chiamarlo e a domandargli quale fosse la situazione. Preferì mentire, dicendo
che era stato lanciato l’SOS e che stavano già arrivando delle navi per
salvarli, e continuò a raccomandare la calma e cercare di tranquillizzare i
naufraghi. Vicino a Cimaglia era anche Venticinque: benché il primo gli
assicurasse che il Carducci stava
affondando, Venticinque disse che intendeva tornare a bordo e si allontanò a
nuoto nella direzione della nave, sparendo alla vista. Dopo circa un quarto
d’ora, Cimaglia venne raggiunto da Ninni; anche Sponza nuotava vicino a loro.
Ninni, vedendo alcuni fasci di proiettore molto lontani, credette che
probabilmente delle navi britanniche stessero recuperando i naufraghi delle
altre unità italiane affondate.
Alle 23.45 Ginocchio
era l’ultimo uomo vivo ancora a bordo del Carducci.
Il livello dell’acqua nei locali era ormai tale da garantire che la nave
sarebbe affondata da un momento all’altro. Zara
e Fiume, ancora a galla, continuavano
a bruciare, scossi di tanto in tanto da qualche esplosione.
Il Carducci era fortemente sbandato, al
punto che Ginocchio poté abbandonare la nave semplicemente scavalcando il
parapetto e lasciandosi scivolare lungo lo scafo fino al mare. Urtò con una
gamba un oggetto duro che protrudeva dall’opera viva, ma non si ferì; al
termine della sua scivolata cadde in mare e sprofondò sott’acqua per un paio di
metri, poi riemerse e si mise a nuotare verso alcune voci che sentiva. L’acqua
era gelida.
Adesso sul Carducci restavano solo i morti: entro
pochi minuti il Mar Egeo sarebbe divenuto la tomba loro e della loro nave.
Intanto, i quattro
cacciatorpediniere britannici si aggiravano tra i relitti delle navi italiane,
ansiosi di completare il lavoro iniziato dalle corzzate. Alle 22.40, Griffin e Greyhound si misero all’inseguimento di Gioberti ed Oriani, che avevano
visto accostare verso ovest; aprirono il fuoco e vedono alcuni colpi andare a
segno (sull’Oriani), dopo di che le
navi italiane, alle 23.20, accostarono verso sud e si dileguarono
nell’oscurità, coprendosi con cortine fumogene. Secondo una versione, Griffin e Greyhound avvistarono alla luce degli illuminanti il Carducci, già danneggiato a prua con
vistosi incendi in quella parte, e fecero fuoco su di esso, dopo di che
superarono con un’accostata la nave ormai in fiamme e si spinsero nella cortina
fumogena stesa dal Carducci per
inseguire Oriani e Gioberti, ma nella nebbia artificiale
non riuscirono più a trovarli.
Maggior frutto ebbero
le ricerche di Stuart ed Havock, che rintracciarono i relitti di Alfieri e Carducci, dei quali accelerarono l’affondamento. Le fonti italiane
e britanniche riferiscono unanimemente che il Carducci agonizzante ricevette il colpo di grazia da uno dei
cacciatorpediniere britannici, ma sembra esserci discordanza circa
l’identificazione di tale cacciatorpediniere. La storia ufficiale redatta
dall’U.S.M.M. nel 1959 afferma che il Carducci
venne finito dal cacciatorpediniere australiano Stuart, mentre l’Havock
fece lo stesso con l’Alfieri; di
questo parere sembra essere anche Vince O’Hara nel suo libro "Struggle for
the Middle Sea". Secondo la ricostruzione di O’Hara, Stuart ed Havock invertirono
la rotta alle 22.40, dirigendo per sudest lungo il lato sinistro di quella che
era stata la colonna di navi italiane; vennero attratti dalle luci degli
incendi che divampavano a bordo del Carducci,
e puntarono in quella direzione. Alle 22.59 avvistarono un incrociatore
immobilizzato in fiamme e subito dopo anche quello che sembrava un incrociatore
più piccolo, che girava in cerchio attorno al primo; lanciarono entrambi dei siluri
contro questo secondo “incrociatore”, e lo Stuart,
che ne aveva lanciati otto (cioè tutti quelli che aveva), vide un’esplosione
che attribuì ad un siluro andato a segno. Probabilmente questo “incrociatore”
era in realtà l’Alfieri, che in
questo frangente vide lo Stuart passargli
accanto ed a sua volta lanciò dei siluri ed aprì il fuoco contro la nave
australiana, senza risultato. Lo Stuart
prese poi a cannoneggiare in successione i relitti del Fiume e dello Zara, ma
alle 23.08 vide una sagoma emergere dall’oscurità: lo Stuart dovette accostare bruscamente per evitare la collisione, e
le due navi si scambiarono cannonate da una distanza inferiore ai 140 metri; lo
Stuart ritenne di aver messo tre
colpi a segno sull’unità avversaria, che gli era passata vicinissima sulla
dritta. Verso nord, lo Stuart vide l’Havock intento a fare fuoco contro un
cacciatorpediniere, apparentemente il medesimo col quale lo Stuart stesso si era appena scontrato,
che di lì a poco saltò in aria con una grande esplosione. La nave affrontata
dallo Stuart in questa breve
scaramuccia, e poi vista dallo Stuart
esplodere sotto il tiro dell’Havock, viene
identificata da varie fonti britanniche, tra cui anche la storia ufficiale
della Royal Navy ("Naval Staff
History – Second World War, Selected Operations (Mediterranean), 1940 – Battle
Summaries Nos. 2, 8, 9 & 10"), nel Carducci. O’Hara mette però in dubbio tale identificazione, dal
momento che a quell’ora il Carducci
si trovava già immobilizzato, mentre il cacciatorpediniere di cui parla lo Stuart stava ancora navigando ad elevata
velocità: probabilmente la nave incontrata dallo Stuart era invece l’Havock,
che nella concitazione del momento e nel buio della notte venne scambiato dallo
Stuart per una nave italiana, e
nessun colpo dello Stuart andò a
segno.
Alle 23.15 l’Havock lanciò quattro siluri da 533 mm
da ridottissima distanza (appena 150 metri) contro un cacciatorpediniere
italiano, rivendicando un siluro a segno a centro nave. Questa nave è
identificata da O’Hara come l’Alfieri.
La maggior parte delle altre fonti britanniche (e anche parte di quelle
italiane), invece, invertono l’identificazione dei “carnefici”: sarebbe stato
l’Havock a finire il Carducci, mentre lo Stuart diede il colpo di grazia all’Alfieri. La nave silurata dall’Havock
alle 23.15 sarebbe dunque il Carducci,
che venne poi finito a cannonate dal cacciatorpediniere britannico, affondando alle
23.30. Secondo un’altra versione, leggermente differente, il Carducci fu ingaggiato da Stuart ed Havock alle 23.08 ed affondato sempre alle 23.30. Affondò di prua,
capovolgendosi sul lato sinistro.
D’altro canto,
secondo le fonti italiane le 23.30 sarebbero l’ora di affondamento dell’Alfieri, mentre il Carducci sarebbe affondato un po’ più tardi, alle 23.45. Permane
dunque una certa confusione.
Il comandante Ginocchio
stava ancora nuotando quando, percorsi circa cinquanta metri, si girò a
guardare verso il suo cacciatorpediniere. La poppa del Carducci si era levata nel cielo, e si potevano chiaramente vedere
le eliche di bronzo; all’interno dello scafo ci fu una nuova esplosione, che
espulse un getto di vapore bianco dal fumaiolo. Dopo di che, il Giosuè Carducci scivolò silenziosamente
sotto la superficie, nel punto 35°21’ N e 20°57’ E, una cinquantina di miglia a
sudovest di Capo Matapan (secondo "Navi militari perdute" dell’USMM;
gli ultimi calcoli del comandante Ginocchio indicavano invece la posizione
35°58’ N e 21°38’ E).
Era passata circa
un’ora e un quarto da quando le navi britanniche avevano aperto il fuoco sulla
I Divisione. Nel buio della notte rimanevano i roghi del Fiume e dello Zara.
Continuando a nuotare
nella direzione da cui provenivano le voci, Ginocchio raggiunse e riunì alcuni
gruppi di naufraghi, cui disse di muoversi per evitare il congelamento; in
acqua vicino a lui c’erano Ninni e Cimaglia. Sopraggiunse uno zatterone,
sospinto dalla corrente, con a bordo numerosi naufraghi tra cui Fontana;
Cimaglia lo afferrò, ma dovette restare in acqua per un altro po’, per poi
arrampicarsi a bordo quando si fece un po’ di posto. Fontana, sulla zattera
sovraccarica, si faceva in quattro per mantenere la calma e disporre gli uomini
in modo da conservare un sufficiente equilibrio del galleggiante; ma
ciononostante la zattera ondeggiava paurosamente, ed a tratti gli occupanti erano
immersi nell’acqua fino al collo. Cimaglia, vedendo Ginocchio in mare nelle
vicinanze, gli offrì di salire a bordo, dicendo che avrebbero fatto posto per
lui; Ginocchio declinò inizialmente l’offerta, dicendo di far salire altri due
marinai che erano in acqua. Fece quindi un ampio giro tutt’intorno, per vedere
se vi fossero altri uomini in mare nelle vicinanze, dopo di che tornò alla
zattera e, quando Cimaglia gli offrì di nuovo di prenderlo a bordo, accettò e
venne issato sul galleggiante.
Sullo zatterone
c’erano in tutto una quarantina (secondo Ginocchio) o una cinquantina di uomini
(secondo Cimaglia), tra i quali diversi ufficiali: Ninni, il comandante in
seconda; Cimaglia, il direttore del tiro; Fontana, l’ufficiale di rotta;
Sponza, sottotenente del Genio Navale. Ninni indossava ancora la sua giacca, ma
non aveva più i pantaloni, ed aveva una sola scarpa. Questa concentrazione di
ufficiali su una sola zattera fu essa stessa motivo di preoccupazione per
Ginocchio, dal momento che significava che altre zattere erano probabilmente
prive di comando, anche se aveva ordinato che su ogni zattera ci fosse un
sottufficiale. Non si sapeva con certezza neanche quante zattere fossero state
messe a mare: sei secondo Cimaglia, sette secondo Ninni. Tirava un vento fresco
da sud; sul fondo della zattera, parecchi marinai si stringevano l’uno con
l’altro per cercare di riscaldarsi. Faceva freddissimo, e Ginocchio disse di
non smettere mai di muoversi, per evitare di addormentarsi e morire assiderati.
Cimaglia e Fontana controllarono i naufraghi e li divisero a gruppi, facendo
sistemare quelli meno vestiti al centro della zattera, riscaldati dal fiato dei
compagni.
Dopo qualche minuto
venne avvistata un’altra zattera, che fu avvicinata e legata a quella di
Ginocchio con un cavo. Si provvide poi a controllare il fondo del galleggiante
per vedere quali fossero le dotazioni di emergenza: c’erano un barilotto
d’acqua da 50 litri, dieci pacchi di gallette e, chissà come, una guida di
Napoli. Ma il barilotto perdeva, il suo contenuto era contaminato dall’acqua di
mare, ed anche le gallette erano inzuppate dall’acqua di mare. Sulle prime
questo non sembrò un grosso problema; anche le altre zattere dovevano avere
cibo ed acqua, e l’indomani mattina, quando la luce del giorno avrebbe permesso
di avvistarle, ci si sarebbe riuniti e si sarebbero distribuite equamente le
dotazioni. Il mare era piuttosto calmo, anche se c’era un po’ di vento da
ovest, e ad un certo punto il cavo teso tra le due zattere si spezzò e dovette
essere sostituito.
I roghi di Zara e Fiume erano ancora visibili in lontananza.
Tutti, sulla zattera,
pensavano che i soccorsi sarebbero arrivati presto: Zara o Fiume dovevano
aver comunicato la loro posizione, e ad ogni modo il mattino successivo
sarebbero stati certamente avvistati dai ricognitori.
Ma non tutti
sarebbero arrivati vivi al mattino. I primi a soccombere furono quelli che non
riuscirono a salire a bordo delle zattere, o che vennero respinti per mancanza
di posto: aggrappati alle corde esterne, col corpo immerso nell’acqua gelida,
non sopravvissero a lungo. Il marinaio Luigi Pellino disse al comandante
Ginocchio di vedere delle mani prive di vita serrate attorno ad un tratto di
corda: appartenevano a due uomini, con la testa sott’acqua ma le mani ancora avvinghiate
alla corda. Ginocchio li fece issare a bordo e spogliare, dato che i vestiti
sarebbero potuti servire agli uomini ancora in vita, dopo di che disse di
cercare qualcosa di pesante per affondarli: l’unico oggetto pesante presente
nella zattera era una piccola cassetta metallica, che fu legata ai piedi dei
due morti, che furono poi spinti in acqua. Non affondarono; rimasero a galla
accanto alla zattera, completamente immersi tranne che per la testa. Un
marinaio cercò di allontanarli con una pertica, ma senza risultato.
Sul lato opposto
della zattera, un altro marinaio disse di aver sentito delle richieste di
aiuto; con i remi la zattera si spostò lentamente verso il punto indicato, fino
a giungere nei pressi di un gruppo di naufraghi che si trovavano in acqua senza
niente con cui tenersi a galla, forse cinquanta uomini. Ginocchio stava per
ordinare agli uomini sulla zattera di togliere i giubbotti salvagente per
lanciarli agli uomini in mare, ma qualcun altro sul galleggiante gridò: “Ci
vengono addosso! Ci vengono addosso!”. A circa 300 metri dalla zattera vennero
infatti avvistate delle luci rosse-arancioni: luci di posizione di due
cacciatorpediniere – Ginocchio, vedendone le sagome, stimò che fossero della
classe Tribal – che si avvicinavano ad alta velocità, oltre 30 nodi, puntando
apparentemente proprio verso il gruppo di naufraghi. Si trattava del Griffin e del Greyhound, i quali, terminato il combattimento, dirigevano per
riunirsi al resto della squadra britannica, senza vedere, o badare, agli uomini
che si trovavano in mare. Il cacciatorpediniere più a destra dei due passò ad
appena dieci metri dalla zattera del comandante Ginocchio, facendolo
capovolgere e rovesciandone in mare tutti gli occupanti. Alcuni dei nuotatori
meno esperti vennero annegati dalle onde generate dai cacciatorpediniere.
La zattera venne
faticosamente raddrizzata, ma all’improvviso comparvero innumerevoli altri
naufraghi, apparsi dal nulla, che cercarono tutti di salire: si lottava per
arrampicarsi a bordo, tra grida, suppliche e bestemmie. Ginocchio non tentò di
riportare l’ordine – non ci sarebbe riuscito – e preferì non cercare neanche di
risalire sulla zattera, aggrappandosi ad un cesto ed attendendo in disparte, a
qualche metro dalla ressa. Vicino a lui galleggiavano di schiena due corpi, gli
stessi che prima, sulla zattera, avevano spogliato e gettato in mare dopo
averli insufficientemente zavorrati. Passò in acqua circa un’ora, dopo di che
il vento girò a sud e iniziò a diventare più fresco; avvertendo nelle gambe i
sintomi dell’ipotermia, e faticando a respirare, gridò verso la zattera, dove
sembrava tornata una certa calma e dove poteva udire le voci di Cimaglia e
Fontana. Venne subito issato a bordo. Durante la notte spirarono diversi degli
occupanti della zattera: primi a cedere furono i feriti, poi, paradossalmente,
morirono i nuotatori più forti, perché si erano agitati e spogliati più degli
altri e più degli altri si erano dati da fare per sostenere i feriti,
consumando più energie. Cimaglia ed il sottocapo cannoniere Giacomo Casalini strinsero
tra di loro, per tutta la notte, il comandante in seconda Ninni, che rischiava
l’assideramento, riscaldandolo col fiato e con il continuo sfregamento. Avevano
l’acqua alla cintola, e gli ufficiali erano posizionati nei punti più scomodi
della zattera, più esposti alle onde e al vento. Ginocchio ordinò che gli
uomini si alternassero a turni nello stare al centro della zattera, dove erano
relativamente più riparati dal vento.
All’alba un marinaio,
impazzito, si gettò in mare e morì.
Non diversa era la
situazione dei naufraghi sulle altre zattere del Carducci. Il marinaio Cesare Montanari, 21 anni, era finito in
mezzo ad una chiazza di nafta nera che galleggiava sull’acqua, quando vide una
zattera che galleggiava nei pressi. La raggiunse a nuoto e gli uomini già a
bordo, alcuni marinai e due giovani ufficiali, lo aiutarono a salire; Montanari
tremava dal freddo, l’acqua era gelida. Ancora altri naufraghi si arrampicarono
sul piccolo galleggiante, fino a quando non ci fu più posto: in tutto una ventina
di uomini riuscirono a salire sulla zattera, fino ad essere stipati “come
sardine”, mentre molti altri, tra cui anche parecchi feriti, dovettero restare
in acqua, aggrappati al bordo del piccolo galleggiante. Un sottotenente di
vascello, il più alto in grado tra i naufraghi a bordo della zattera (Montanari
non ne fece il nome nel suo racconto, ma doveva quasi certamente essere Luigi
Rossi od Aldo Venticinque), ordinò di fare posto ai feriti; la zattera, già
semiallagata, s’immerse ancora di più. Le onde portarono la zattera di
Montanari vicino ad un’altra zattera ancora più sovraccarica della sua, e poi
ad una terza zattera che invece era quasi vuota: molti degli occupanti della
zattera di Montanari trasbordarono pertanto su quest’ultima, dopo di che i
naufraghi delle tre zattere legarono insieme i tre galleggianti come a formarne
uno solo. In tutto si trovavano sulle tre zattere più di 40 uomini, senza
contare quelli che si trovavano in acqua, aggrappati ai bordi.
Tutt’intorno c’erano
rottami di ogni tipo, naufraghi in acqua che gridavano e si agitavano ed altri
che erano già morti, sorretti solo dai salvagente. Alcuni uomini finirono in
mezzo alle chiazze di nafta incendiata che galleggiavano sulla superficie del
mare, e morirono tra le fiamme.
Nel buio si vedevano
tre cacciatorpediniere, uno abbastanza vicino e due più lontani, che
ispezionavano il mare con i loro riflettori e recuperavano gli uomini che erano
in mare, tralasciando invece le zattere. Il mare, da calmo, era diventato mosso,
con onde corte.
Quando iniziò a
sorgere il sole, gli uomini sulla zattera del comandante Ginocchio poterono
finalmente osservare la scena intorno alla zattera: uno scenario apocalittico.
Tutt’intorno c’erano altre zattere, un’abnorme quantità di legname e centinaia
di naufraghi, in tutto 200 o 300, non solo del Carducci ma anche di altre navi. Si riusciva a vedere fino a 4 o 5
chilometri di distanza – non essendo ancora giorno fatto – ma di Zara e Fiume non c’era più traccia: erano evidentemente affondati durante
la notte. Neanche Oriani, Gioberti e Pola erano in vista; Ginocchio ne trasse la conclusione che i primi
due fossero riusciti a fuggire, mentre niente si sapeva di cosa fosse accaduto
al terzo. Nel punto in cui il Carducci
era affondato ore prima si andava allargando un’estesa chiazza di nafta densa e
oleosa, che le luci dell’alba coloravano di azzurro perlaceo. Si vedevano altre
due zattere, appartenenti all’Alfieri,
legate tra loro con un cavo; sulla più grande delle due si vedevano dei corpi stesi
bocconi lungo il bordo, evidentemente morti. Ginocchio decise di non ridurre le
distanze dalle altre zattere, in quanto se queste fossero state più
sparpagliate avrebbero avuto maggiori probabilità di essere avvistate.
Faceva ancora freddo,
e per scaldarsi Ginocchio indossò un maglione levato ad uno dei due morti
spogliati e spinti in mare in precedenza. Invece del sole, che avrebbe permesso
di asciugarsi almeno un po’, arrivarono nubi basse e la pioggia, anche se
abbastanza debole. Ginocchio contò gli uomini sulle sue due zattere: erano in
34 sullo zatterone sul quale si trovava, e 6 su quella più piccola legata allo
zatterone con un cavo. Il numero era già calato di molto dai 40-50 di poche ore
prima. Ninni, Fontana, Cimaglia e Sponza c’erano ancora tutti. Tutti i
naufraghi avevano ormai recuperato la calma, qualcuno dei più giovani trovò la
forza di scherzare.
Un naufrago isolato,
un giovane dagli occhi marroni, sopraggiunse “navigando” seduto su un
rudimentale galleggiante fatto di giubbotti salvagente legati assieme, remando
con le braccia; Ginocchio lo invitò a salire sulla sua zattera, ma il naufrago,
dopo aver fatto un giro attorno allo zatterone sovraccarico, soppesandolo a
fondo, decise che stava meglio sul suo galleggiante e si allontanò di alcuni
metri dopo aver ringraziato per l’offerta.
Ginocchio tenne una
specie di consiglio con i quattro ufficiali che erano con lui; si rimandò a più
tardi l’istituzione di turni di guardia, mentre si decise che la priorità era
di verificare le condizioni dei feriti più gravi. Dei 34 uomini sulla zattera,
cinque versavano in gravi condizioni, quasi tutti ustionati; uno, invece, era
morto. Giaceva sul fondo della zattera, col camisaccio sulla testa, e gli altri
avevano pensato che stesse dormendo, ma quando venne girato videro che era
stato colpito da una scheggia di granata nel basso ventre. Doveva essere morto
dissanguato nel corso della notte, senza neanche lamentarsi, o senza essere
sentito da nessuno. D’altra parte, non ci sarebbe stato nulla da fare in ogni
caso.
Quando finalmente
smise di piovere, Ginocchio decise di gettare il morto in mare. Non c’era nulla
con cui zavorrarlo, stavolta, per cui rimase a galla, bocconi. Poco dopo, con
l’aumentare della luce, gli occupanti della zattera videro una grossa macchia
scura a circa 400 metri di distanza: parevano alghe, invece erano dei morti,
forse più di 200, che galleggiavano tutti nella stessa posizione. Su ordine di
Ginocchio, la zattera remò verso i cadaveri e poi entrò in quella specie di
cimitero galleggiante, navigandovi per qualche minuto mentre Ginocchio e
Cimaglia prelevavano da ognuno le piastrine di riconoscimento: non passò molto
prima che entrambi ne avessero le mani piene. Erano troppi per poterli
recuperare tutti, così alla fine Ginocchio decise di rinunciare ed allontanarsi
dai morti.
Il mare rimaneva
calmo; ad un certo punto si sentì nel cielo il rumore di un aereo, e infatti
dopo un attimo apparve verso nord un idrovolante che volava a bassissima quota,
con l’apparente intenzione di ammarare. Su entrambe le zattere gli uomini
presero a gridare ed esultare, credendo di essere ad un passo dalla salvezza;
un marinaio voleva tuffarsi in mare per raggiungere a nuoto il velivolo, che
stava ammarando, ed un altro tirò fuori una piccola valigetta di cartone –
chissà come aveva fatto a portarla con sé sulla zattera e conservarla durante
la notte –, si levò il maglione e lo ripiegò con cura, mettendolo nella
valigia, «come se si preparasse a prendere il treno o la corriera». Un altro
ancora, che fino a quel momento aveva portato le scarpe appese al collo, se le
infilò ai piedi.
Ma poi i naufraghi si
resero conto che l’idrovolante, frattanto ammarato, era britannico, e che stava
avanzando sull’acqua con i motori al minimo, passando proprio in mezzo al gruppo
di cadaveri di prima; poi il velivolo si fermò, si aprì un portellone e si
affacciò un giovane con un giaccone in pelle, con in mano una cinepresa:
filmava i naufraghi. Cimaglia commentò seccato “Ci hanno presi per divi del
cinema?”. Quando l’uomo ebbe finito di filmare, richiuse il portellone e
l’idrovolante decollò e se ne andò, senza aver recuperato nessuno.
La delusione fu
grande, ma ci si consolò dicendosi che forse i britannici avrebbero riferito
alle autorità italiane la posizione dei naufraghi.
Fontana, intanto, si
era spostato sulla zattera più piccola per verificarne la situazione. Quasi
tutti i sei uomini a bordo di quel galleggiante erano feriti, due dei quali in
modo grave; la zattera aveva delle dotazioni d’emergenza – un barilotto d’acqua
non contaminata dall’acqua di mare, sei pacchi di gallette e qualche tavoletta
di cioccolato di glucosio – ma bastavano appena per i sei uomini che aveva a
bordo, quindi Ginocchio decise, per il momento, di non trasferire niente alla
sua zattera.
Il cielo si era in
parte aperto, con notevole miglioramento della visibilità; verso l’orizzonte si
potevano vedere delle altre zattere ed altri naufraghi, probabilmente dello Zara e del Fiume. Alle dieci del mattino (i naufraghi potevano sapere che ora
fosse grazie a Ninni, il cui orologio andava ancora) la zattera più piccola si
accostò a quella di Ginocchio, ed un marinaio offrì un pacco di gallette.
Comunque, il Carducci era affondato
da meno di dodici ore; per il momento fame e sete non si facevano ancora
sentire gran che, e si confidava ancora in un pronto arrivo dei soccorsi. I
naufraghi erano ancora abbastanza calmi. Era iniziata la rotazione dei turni di
guardia per controllare se fossero in vista navi od aerei: per la verità dei
turni non erano necessari, dato che bastava che gli uomini sulla zattera
guardassero verso nord (solo da lì potevano arrivare i soccorsi), ma almeno
servivano a tenere occupati gli uomini.
Intorno alle 11, il
sergente cannoniere Guglielmo Fiorilla ed il sottocapo cannoniere Vincenzo Padua
dissero che stavano arrivando i soccorsi: verso nord si vedeva del fumo,
proprio all’orizzonte. Ginocchio, osservando bene, dedusse che si trattava di
una nutrita squadra da battaglia; per un momento sperò che fossero la Vittorio Veneto e la III Divisione, ma
si rese conto che era impossibile, perché quelle navi non avevano abbastanza
carburante per tornare indietro. Dovevano essere navi britanniche. Nondimeno, i
marinai erano nuovamente esultanti; il naufrago seduto sul mucchio di
salvagente, quello che qualche ora prima aveva declinato l’offerta di salire
sullo zatterone, spuntò da un mucchio di legname galleggiante, credendo anche
lui, evidentemente, che i soccorsi fossero in arrivo. Poi anche loro si
accorsero che le navi avvistate erano nemiche, ma continuarono comunque a
gridare: la prigionia era preferibile ad una lenta morte in mare.
Le navi più grandi si
tennero a distanza, mentre due cacciatorpediniere si avvicinarono ai naufraghi
ed iniziarono l’opera di salvataggio, dando la precedenza agli uomini che si
trovavano in acqua. Le zattere vennero ignorate, almeno per il momento;
Ginocchio approvò quest’ordine di priorità, avrebbe fatto lo stesso se si fosse
trovato al loro posto. Preparandosi al salvataggio, tenne un breve discorso ai
suoi uomini: la guerra per loro era finita; rammentò loro che dovevano tenere
un atteggiamento dignitoso in prigionia, e che non dovevano rivelare al nemico
niente più che il nome e numero di matricola, senza neanche dire il nome della
loro nave.
Qualche ora prima, alle
4.30 del 29 marzo, la Formidable
aveva lanciato tre Albacore con l’incarico di ispezionare le acque nelle quali
era stata annientata la I Divisione: tornati dopo due ore, gli aerei avevano
riferito di non aver visto altro che rottami e numerosi naufraghi aggrappati ai
relitti; anche tre Swordfish dell’815th Squadron F.A.A., decollati
da Maleme, riferirono di scene analoghe al loro rientro. Sorvolarono la zona
anche degli idroricognitori Short Sunderland, uno dei quali, il L2160 pilotato
dal capitano P. R. Woodward, ammarò in una zona costellata di grandi chiazze di
nafta, rottami e ben 25 zattere. Woodward stimò che ci fossero in vista circa
600 naufraghi, ma quando cercò di scoprire a quale nave appartenessero,
ricevette soltanto richieste di acqua. Informò la base di Scaramanga della
posizione dei naufraghi, dopo di che riprese il volo per proseguire il suo
pattugliamento. È possibile che l’aereo di Woodward fosse quello visto la
mattina del 29 dai naufraghi del Carducci.
Ad
ogni modo, con la luce del sole la squadra di Cunningham, riunitasi alle cinque
nel punto 35°34’ N e 21°38’ O (una cinquantina di miglia a sudovest di Capo
Matapan), si diresse nuovamente sul luogo della mattanza della notte
precedente, e verso le otto del mattino i cacciatorpediniere britannici
iniziarono a recuperare dal mare centinaia di naufraghi italiani, molti dei
quali feriti: si trattava dei superstiti degli incrociatori. Solo molto più
tardi, verso le undici del mattino, le navi soccorritrici si accorsero di altri
naufraghi più a sud dei precedenti, che compresero appartenere ai
cacciatorpediniere affondati durante l’azione notturna: erano infatti gli
uomini di Alfieri e Carducci.
Uno dei
cacciatorpediniere si avvicinò fino a poco più di un centinaio di metri dalla
zattera del comandante Ginocchio; procedeva a bassissima velocità, raccogliendo
dal mare naufraghi isolati. Un cavo venne gettato verso il naufrago seduto sul
mucchio di salvagente, che lo afferrò subito e venne issato a bordo. Il
cacciatorpediniere aveva raccolto anche parecchi cadaveri, senza però issarli a
bordo; erano legati “a mazzo” in acqua, assicurati alla nave da un cavo,
probabilmente con l’intento di tirarli a bordo una volta finito di recuperare i
vivi.
Sembrava che i
superstiti del Carducci fossero
davvero in salvo, ormai, e invece all’improvviso comparvero nel cielo degli
aerei della Luftwaffe. I velivoli tedeschi si buttarono subito sui due
cacciatorpediniere britannici, bombardando e mitragliando; le navi britanniche
risposero al fuoco, colpendo uno degli attaccanti, che si allontanò lasciando
dietro di sé una scia di fumo nero. Gli altri aerei perseverarono
nell’attaccare, e parecchie raffiche finirono in mare, uccidendo anche dei
naufraghi. Gli scoppi delle bombe cadute in mare sospinsero le due zattere al
comando di Ginocchio più lontano dal cacciatorpediniere, verso la chiazza di
nafta che marcava la tomba del Carducci,
finendo quasi al centro di essa.
Sotto questo attacco,
i due cacciatorpediniere britannici rimisero in moto, tagliarono il cavo che assicurava
ad essi il gruppo dei cadaveri e si allontanarono di gran carriera, evoluendo
in velocità ed abbandonando la loro opera di soccorso.
Un’ultima bomba,
caduta vicino alle due zattere di Ginocchio, le capovolse con la sua
esplosione, gettando tutti gli occupanti nel mare cosparso di nafta.
Anche Cesare
Montanari, dalla sua zattera, vide i tre cacciatorpediniere che aveva avvistato
durante la notte – i quali, all’alba, avevano iniziato a recuperare anche i
naufraghi a bordo delle zattere più malridotte o sovraccariche, oltre a quelli
in acqua – accelerare a tutta forza ed allontanarsi fino a sparire. Gli uomini
sulla zattera di Montanari, a differenza di quelli sul galleggiante del
comandante Ginocchio, non videro gli aerei tedeschi, e solo in seguito seppero
il motivo che aveva indotto le navi soccorritrici ad andarsene.
I cacciatorpediniere
britannici erano stati attaccati, alle undici del mattino del 29 marzo, da
bombardieri tedeschi Junkers Ju 88 A-4 del X Fliegerkorps, decollati da
Catania: anche se nessuna nave era stata colpita, l’ammiraglio Cunningham aveva
dato subito ordine a tutte le sue unità di interrompere i soccorsi e tornare
alla base, per non esporle al rischio di subire danni nel caso di ulteriori e
più pesanti attacchi aerei. Centinaia di naufraghi delle navi affondate durante
la notte vennero così abbandonati in mare: tra di essi anche tutti i superstiti
del Carducci, in quanto, benché da
bordo di varie sue zattere fossero stati visti i cacciatorpediniere britannici
intenti ai soccorsi, nessun naufrago di questa nave era stato ancora recuperato
nel momento in cui gli attacchi aerei tedeschi indussero i britannici ad
andarsene. Tutti i 1062 naufraghi salvati dalle navi di Cunningham
appartenevano infatti agli equipaggi degli incrociatori: per la maggior parte
erano uomini del Pola, ed in misura
minore dello Zara e del Fiume. I naufraghi di Alfieri e Carducci, insieme a molti altri del Fiume e dello Zara,
rimasero in balia del mare.
Cunningham prese però
l’iniziativa di trasmettere in chiaro (sulla frequenza di emergenza usata dalla
Marina Mercantile) a Roma, via Malta, la posizione in cui si trovavano i
naufraghi non raccolti dalle sue navi, suggerendo l’invio di una nave ospedale.
Il capo di Stato Maggiore della Marina italiana, ammiraglio Arturo Riccardi,
destinatario del messaggio, ringraziò Cunningham e rispose che la nave ospedale
Gradisca era già partita. Questa nave
era giunta a Taranto il mattino del 29 marzo con 704 militari feriti e malati
dall’Albania (a bordo si trovavano anche le salme di tre crocerossine decedute
nell’affondamento della nave ospedale Po,
affondata due settimane prima da aerosiluranti britannici in quanto trovatasi a
luci spente durante un attacco notturno) e si stava preparando a sbarcare i
degenti, quando ricevette l’ordine di affrettare lo sbarco onde ripartire
subito. Lo sbarco venne dunque svolto il più in fretta possibile; l’operazione
fu completata alle 14.30, e mezz’ora dopo la Gradisca mise in moto. Mollati gli ormeggi alle 15.30 del 29, non
appena in franchia la nave ospedale mise le macchine a tutta forza, dirigendo
verso il Mar Egeo alla massima velocità possibile. La Gradisca era la più veloce nave ospedale della Marina italiana (era
in grado di raggiungere i 16 nodi, anche se in quell’occasione il vento teso ed
il mare agitato da sudovest limitarono tale velocità a 14 nodi) ed anche la più
vicina alle acque in cui era andata distrutta la I Divisione, ma ci avrebbe
messo comunque più di un giorno per raggiungere la zona del disastro. L’ordine
d’operazioni era di dirigere verso il punto 35°30’ N e 20°50’ E, per missione
di ricerca e salvataggio di naufraghi. Era promessa, a questo scopo, la
collaborazione di aerei, ma proprio come la scorta aerea per le navi coinvolte
nell’Operazione «Gaudo», quei velivoli non si sarebbero mai fatti vedere.
Intanto, le due zattere
al comando del comandante Ginocchio erano state raddrizzate, ed i naufraghi si erano
nuovamente arrampicati a bordo. Risultò che in quattro mancavano all’appello:
il marinaio S.D.T. Giuseppe Maronati, il sottocapo radiotelegrafista Luigi
Pericotti ed i marinai Giovanni Silvestri e Gennaro Criscuolo (la sorte di
quest’ultimo non è però del tutto chiara, perché nella sua relazione il tenente
di vascello Cimaglia scrisse in seguito che “…fui costretto più volte ad usare
le mie residue forze contro il marò Criscuolo che voleva ad ogni costo andare
in franchigia”, il che sembrerebbe significare che Criscuolo fosse
sopravvissuto più a lungo a bordo della zattera). Altri due uomini erano
rimasti gravemente feriti; tutti avevano ingerito nafta, che si era infilata
ovunque, bruciando occhi (e rendendo insopportabile alla vista la rifrazione
prodotta dal mare) e orecchie, ed incollando i capelli alla testa. Il ferito più
grave era un nostromo, che si era fratturato il cranio nel capovolgimento dello
zatterone: la sua testa si era gonfiata e addirittura deformata per la
gravissima frattura, perdeva sangue dalle orecchie e ad un certo punto
rinvenne, aprì gli occhi ed iniziò a parlare velocissimamente, pronunciando
parole senza senso. Un marinaio, non sopportando quella vista, cercò di
saltargli addosso brandendo un coltello, ma qualcuno gli diede un calcio sul
polso, facendo cadere in mano il coltello. Continuando a parlare, il nostromo
si portò sull’orlo della zattera, sporgendosi, finché perse l’equilibrio per
un’onda e cadde in mare con un grido altissimo. Scomparve.
Venne la sera, e la
fame iniziò a diventare un problema. Gli uomini sulla zattera più piccola
avevano furtivamente tagliato il cavo che li univa all’altra e si erano
distanziati da essa di alcune decine di metri, temendo di dover dividere le
poche provviste che avevano; alcuni, sullo zatterone, domandarono a Ginocchio
di ordinare loro di riavvicinarsi per dividere il cibo. Questi rispose che era
meglio lasciare a quegli uomini i pochi viveri che avevano: in caso di rapido
arrivo dei soccorsi, non sarebbe stato necessario ridistribuire le provviste;
se invece fosse passato del tempo prima del salvataggio, era meglio lasciare
quel cibo agli uomini sulla zattera più piccola, che avrebbero potuto
sopravvivere più a lungo, anziché distribuirlo tra i tanti occupanti dello
zatterone, dove quelle poche provviste, distribuite tra tutti, non avrebbero
permesso a nessuno di durare a lungo. Non tutti erano d’accordo, e sui volti di
alcuni la preoccupazione lasciò il posto all’aggressività, ma obbedirono tutti
al loro comandante. Ancora si credeva che i soccorsi sarebbero arrivati durante
la notte, o al più tardi l’indomani mattina.
Alle 19 Ginocchio
chiamò i marinai del nuovo turno di guardia, ordinando loro di farsi sostituire
dopo due ore; aveva scelto per sé il turno dalle 21 alle 23. Alle 20.30,
qualcuno lo avvisò che Pellino, il marinaio che gli aveva indicato, durante la
prima notte, i due morti aggrappati alla zattera, era impazzito. Due uomini lo
tenevano fermo per evitare atti sconsiderati, ma lui sembrava tranquillo;
sorrideva e rabbrividiva violentemente. Parlava di questioni familiari, legate
ad una piccola proprietà agricola che la sua famiglia aveva dalle parti di
Salerno; temeva che il cognato, approfittando della sua assenza, gli rubasse
gli ortaggi e le galline. Poi fu colto da quello che sembrava un attacco
epilettico, al punto che si rese necessario legarlo; gli altri compresero che
doveva aver bevuto acqua di mare. Si mise a gridare, e qualcuno lo imbavagliò,
ma Ginocchio ordinò di levare subito il bavaglio; poi, a poco a poco, si calmò
e andò irrigidendosi. Spirò poco prima dell’alba del 30 marzo. Mezz’ora dopo la
sua morte venne gettato in acqua, e anche lui rimase a galla nella stessa
posizione degli altri, di schiena; ma stavolta si sentì un rumore strano,
strisciante, e con un improvviso gorgoglio il corpo di Pellino sussultò, poi
venne trascinato sott’acqua da qualcosa. Qualcuno nominò il pericolo cui
nessuno, fino a quel momento, aveva pensato: squali.
Dai 34 uomini che
erano sullo zatterone il mattino del 29 marzo, il numero era già calato a 27.
Anche gli occupanti
della zattera più piccola si accorsero degli squali: temendo, forse, che
potessero rovesciare il loro minuscolo galleggiante – non ci sarebbero potuti
riuscire con quello del comandante Ginocchio, troppo grande –, chiesero a gran
voce di potersi riunire allo zatterone; venne quindi teso un nuovo cavo, e i
due galleggianti tornarono ad unirsi.
Ormai le correnti
avevano disperso i naufraghi ed i rottami, allontanandoli gli uni dagli altri. Il
marinaio Cesare Montanari, sulla sua zattera, si levò la divisa e la fece
asciugare al sole, che era abbastanza forte. Il sottotenente di vascello, lo
stesso che aveva ordinato di fare spazio per i feriti, disse agli altri
naufraghi che era necessario alternarsi con quelli in acqua, fare a turni per
stare sulla zattera: lui per primo scese in mare per dare l’esempio. Non tornò
mai più a bordo.
Il cambio non ci fu,
parecchi uomini che erano in acqua si arrampicarono sulle zattere, ma nessuno
di quelli che erano a bordo volle scendere in mare, così che i piccoli
galleggianti si riempirono a dismisura e rischiarono di capovolgersi. Molti
dovevano stare sul bordo delle zattere, con le gambe immerse nell’acqua.
La notte tra il 29 ed
il 30 marzo falcidiò gli uomini che erano ancora in acqua: all’alba del 30 non
c’era quasi più nessuno aggrappato al bordo esterno della zattera di Montanari.
Anche tra gli uomini a bordo della zattera ci furono delle vittime: sei feriti
gravi spirarono nel corso della notte. Altri ancora sarebbero morti la notte
seguente. Vennero tutti calati in mare.
Giunse l’alba del 30
marzo anche per gli uomini sulla zattera del comandante Ginocchio. I turni di
guardia erano stati rispettati; due marinai scandagliavano l’orizzonte, mentre
la maggior parte degli altri erano sdraiati sul fondo della zattera,
silenziosi. In un momento in cui non vi era altro da fare, Ginocchio ripensò al
macello di due notti prima,
all’affondamento del Carducci ed alla
commissione d’inchiesta speciale che sarebbe stata certamente istituita, come
di rito, per la perdita della sua nave; si fece prestare una penna da un
marinaio e cercò di scrivere qualche appunto sulla sua piccola agenda, al fine
di mettere per iscritto ciò che ricordava finché aveva la memoria ancora
fresca, ma non ci riuscì perché alla penna mancava l’inchiostro.
Mentre il sole lentamente
si levava nel cielo, gli occupanti della zattera si svegliarono e si misero a
sedere. Adesso, a differenza che nei giorni precedenti, il cielo era sereno, e
qui si presentava un nuovo pericolo: il sole, che avrebbe battuto per tutto il
giorno sui naufraghi impossibilitati a mettersi all’ombra. Per ripararsi dal
sole, parecchi uomini si affrettarono a realizzare, con i loro camisacci,
cappelli di molteplici forme e dimensioni; quelli che indossavano soltanto
mutande o pantaloncini arrotolarono intorno alle gambe degli stracci, legandoli
con dello spago, e si coprirono le spalle con dei pezzi di tela. La sete,
ormai, si faceva sentire.
Nel corso della
notte, la deriva doveva aver sospinto le due zattere di qualche miglio verso
ovest; non si vedeva più la distesa di salme del giorno prima, mentre invece la
luce del giorno rivelò la presenza, sulla destra, di altre zattere ed altri
naufraghi in acqua, in tutto tra i 150 e i 200 uomini, probabilmente dello Zara o del Fiume. Le due zattere del Carducci
si diressero verso di loro, ma Ginocchio ordinò di non avvicinarsi troppo, dato
che lo zatterone era già sovraccarico, per non rischiare che venisse preso
d’assalto dagli uomini in mare. Questi ultimi, ad ogni modo, non davano segni
di agitazione: come i naufraghi del Carducci,
attendevano con calma l’arrivo dei soccorsi. Persino alcuni degli uomini che si
trovavano in acqua, tenuti a galla dai giubbotti salvagente, avevano provveduto
a realizzare dei copricapi di stracci per ripararsi dal sole; parevano dei
funghi galleggianti. Un naufrago era seduto a cavalcioni di una grossa asse, un
altro, completamente nudo, era steso bocconi su una grossa cassa quasi
completamente sommersa, immobile; non si capiva se fosse ancora vivo o no.
Quando il sole fu
alto nel cielo, e cominciò a picchiare, la situazione dei naufraghi andò
peggiorando: l’effetto combinato del sole e della nafta che ancora ricopriva in
gran parte i naufraghi (era pressoché impossibile lavarla via) fu tremendo,
facendo nuovamente lacrimare gli occhi, indurire e spaccare la pelle,
infiammare le mucose. La maggior parte dei naufraghi restavano zitti, cambiando
posizione di quando in quando per alleviare i dolori, mentre altri continuavano
a chiedere agli ufficiali se Zara e Fiume, prima di affondare, fossero
riusciti a chiedere aiuto. Ginocchio rispose che sicuramente delle navi
ospedale erano in navigazione verso di loro, e che prima del tramonto sarebbero
certamente apparsi i ricognitori che le guidavano, i quali avrebbero comunicato
loro la posizione dei naufraghi. Sarebbero stati salvati all’alba dell’indomani.
Ma dopo essersi calmati per qualche minuto, gli uomini ripresero a chiedere se
fosse davvero certo che fosse stato lanciato il segnale di soccorso: allora li
redarguì aspramente, e smisero di fare domande, limitandosi a guardare
silenziosamente l’orizzonte.
Ad un certo punto
Ginocchio notò che due o tre marinai, chini sulla “prua” dello zatterone,
stavano cercando di filtrare dell’acqua di mare con un pezzo di tela,
travasandola poi in una bottiglia: ma “filtrare” l’acqua in quel modo non
l’avrebbe affatto depurata, rimaneva acqua salata che non doveva essere bevuta,
pena gravissime conseguenze per l’organismo, anche mortali in quelle
condizioni, come aveva mostrato la sorte di Pellino. Temendo che stessero
iniziando a perdere la testa, Ginocchio si slanciò verso quegli uomini, li
spintonò via – uno bestemmiò pesantemente – e buttò in mare con un calcio
bottiglia e “filtri”, con tanta foga da cadere lui stesso fuori bordo. Nuotò
verso la “poppa” dello zatterone, dove si trovavano gli ufficiali, e venne
nuovamente issato a bordo; non appena ebbe fiato, gridò che se qualcun altro
avesse tentato di filtrare dell’acqua di mare lo avrebbe ucciso.
Durante il pomeriggio
del 30 marzo si ebbe un’altra vittima: un sergente cannoniere, probabilmente
imbarcato da poco tempo, dato che Ginocchio non sapeva come si chiamasse. Aveva
circa vent’anni e pareva quasi, per il suo aspetto, uno studente; Ginocchio,
che ci aveva parlato qualche ora prima che morisse, ne aveva tratto
l’impressione che prima di imbarcarsi sul Carducci
non fosse mai stato per mare. Aveva una grave ferita allo stomaco, che era
risultata fatale dopo quasi due giorni trascorsi senza che si fosse potuta
prestare alcuna cura. Nonostante il suo stato, non si era mai lamentato, non
volendo dar fastidio agli altri naufraghi; si spense silenziosamente intorno
alle 18.
Poi, calò ancora una
volta il buio. Ricominciarono le continue domande, da parte dei marinai, su
quando sarebbero giunti i soccorsi; faceva freddissimo, e lo zatterone cominciò
ad imbarcare acqua dal fondo. Ginocchio diede ordine di sistemare i feriti in
modo che fossero il più possibile al riparo e riservò i posti più scomodi a sé
ed agli altri ufficiali, mentre dispose i marinai illesi lungo il bordo della
zattera, dove potevano rimanere abbastanza all’asciutto. Così, però, i marinai
avevano paura di cadere in acqua, dove erano riapparsi gli squali: preferivano
attaccare di notte, col favore del buio. Si sentiva l’acqua muoversi attorno
alla zattera, e nel buio il grido di qualche naufrago assalito mentre si
trovava in acqua da solo. Dovevano essercene parecchi; Ginocchio riuscì a
vederne qualcuno, e stimò che raggiungessero i cinque metri di lunghezza. Quando
uno squalo sbatté violentemente contro lo zatterone, molti uomini preferirono
abbandonare i loro posti all’asciutto lungo i bordi per tornare al centro della
zattera, dove dovevano stare parzialmente immersi nell’acqua, ma si sentivano
al sicuro dagli squali. Ginocchio riuscì ad allontanare lo squalo, almeno
temporaneamente, colpendo ripetutamente la superficie con un remo; ma nel buio
e nel panico non riuscì a calmare gli uomini, e temette che muovendosi così
tanto avrebbero potuto sfondare la fragile zattera. Cimaglia richiamò gli
uomini a sua volta, poi iniziò a recitare la Preghiera del Marinaio: era lui a
recitarla, ogni sera, a bordo del Carducci,
dinanzi all’equipaggio riunito. Uno ad uno, i naufraghi gradualmente si
calmarono, e si misero a pregare insieme al loro direttore del tiro.
Durante la notte il
mare divenne leggermente agitato, ma tornò a calmarsi con l’approssimarsi del
mattino.
Passò la notte, e
venne anche l’alba del 31 marzo. L’aria era divenuta più fresca, e
all’orizzonte si vedevano grosse nuvole scure; lo zatterone del comandante
Ginocchio, nonostante l’acqua imbarcata, teneva ancora il mare ragionevolmente
bene. Sullo zatterino più piccolo, ancora legato a quello principale da un
cavo, nessuno si muoveva più. Su quello più grande, gli uomini ancora in vita
erano in gran parte inebetiti dal lungo tempo trascorso in mare, dalla fame,
dalla sete atroce, dal sole che aveva picchiato sulle loro teste senza sosta
per tutto il giorno precedente. Durante il mattino Ginocchio cercò di scuoterli,
farli muovere, affidando loro incarichi al solo scopo di impedir loro di
sprofondare nell’apatia che spesso, nei naufraghi, precedeva la morte; ma solo
un paio risposero, i più se ne rimasero sdraiati sul fondo della zattera,
inerti. Verso mezzogiorno le nuvole si dissiparono e riprese a battere il sole,
anche se meno forte del giorno prima; ormai gli uomini non sentivano neanche
più male.
Alle due del
pomeriggio, essendosi levato un lieve venticello, qualcuno propose di
realizzare una vela; Ginocchio sapeva che non sarebbe servito a raggiungere la
terraferma – erano troppo lontani dalla terra più vicina, e la zattera non
sarebbe riuscita a raggiungere neanche un nodo di velocità – ma non si oppose,
dato che almeno sarebbe servito a tenere occupati gli uomini (anche nei primi
giorni si era vogato per tutto il giorno verso terra, che al mattino appariva
lontanissima, al solo scopo di tenere alto il morale ed evitare che gli uomini
si lasciassero andare e venissero vinti dall’intorpidimento), e poi avrebbe
reso la zattera più facilmente avvistabile. Al centro della zattera venne
piantata una pertica, cui fu issata una rudimentale vela fabbricata con pezzi
di tela ed una tuta appartenuta ad un sottufficiale deceduto. Un remo fungeva
da timone; si cercò di governare verso nord, e vennero stabiliti dei turni di
guardia per manovrarlo, giorno e notte (di notte, i turni venivano regolati sul
corso dell’orsa maggiore).
Più o meno alla
stessa ora, spirò il marinaio fuochista Amleto Galgani, le cui gambe si erano
fortemente gonfiate per una grave frattura che aveva subito in precedenza, e
che non era stato possibile curare in alcun modo sulla zattera. Un altro
fuochista, Aiello – quello che, poche ore prima dell’affondamento, era salito
in plancia per dire a Ginocchio che le riserve di nafta erano molto esigue –,
aveva perso la vista a causa del terribile sole del giorno precedente; ad un
tratto disse “Sono cieco, non ci vedo più”, poi morì a sua volta. A differenza
di quanto fatto con le vittime precedenti, Ginocchio ordinò di non buttarli in
mare; pensava che i soccorsi ormai stessero per arrivare, ed avrebbe voluto che
le due salme venissero recuperate in modo da avere una tomba in Italia. Due
squali seguirono le zattere dal primo pomeriggio fino alla sera.
Dopo qualche ora, il
venticello smise di soffiare, e lo zatterone cessò di “veleggiare” e ricominciò
ad essere spinto soltanto dalla deriva. Ci si decise infine a vedere cosa fosse
stato degli occupanti dello zatterino più piccolo, che continuavano a non dare
segni di vita; venne tirato il cavo, per riavvicinare il galleggiante. Dei sei
uomini che erano stati sullo zatterino, soltanto tre erano ancora a bordo,
tutti morti. Gli altri tre erano spariti. I corpi vennero gettati in mare
insieme a quelli di Aiello e Galgani, che i marinai non volevano vedere a
bordo, il cavetto fu reciso, lo zatterino ormai deserto venne abbandonato alla
deriva.
Ai corpi, prima di
lasciarli alle onde, venivano sempre levati i vestiti per permettere ai viventi
di potersi coprire e riparare un po’ meglio dal sole del giorno e dal freddo
della notte, ma quegli indumenti erano invariabilmente laceri e fradici. La
biancheria venne usata per fasciare le ferite.
Nel tardo pomeriggio,
tre dei naufraghi cominciarono a gridare, svegliando i molti – tra cui
Ginocchio, Ninni e Fontana – che si erano frattanto addormentati. Dicevano che
c’era una nave gigantesca a soli trecento metri di distanza, e che si stava
avvicinando per recuperarli: ma Ginocchio e i pochi altri che avevano preservato
una sufficiente lucidità, guardando nella direzione indicata, non videro nulla.
Era un’allucinazione collettiva, come se ne verificarono parecchie, in quei
giorni, tra i naufraghi spinti alla follia dal sole e dalla sete. Altri naufraghi,
contagiati dalla follia, credettero anche loro di “vedere” la nave
soccorritrice; un uomo si tuffò in mare per raggiungerla, altri seguirono,
nonostante gli sforzi degli ufficiali che tentavano di fermarli. Ginocchio,
cercando di afferrare le gambe di quelli che volevano tuffarsi, si prese anche
un calcio in faccia. In tutto, sei o sette uomini si tuffarono e cominciarono a
nuotare verso il miraggio. Un altro giovane marinaio, invece, si rizzò in piedi
mettendosi sull’attenti, e con tutta calma domandò a Ginocchio il permesso di
scendere dal treno: era arrivato al suo paese, disse, e voleva salutare la
madre, anche solo per un momento; spiegò che sarebbe poi salito sul treno
seguente. Detto questo, saltò in acqua anche lui e cominciò a nuotare verso il
nulla, con molta calma.
Ginocchio e Fontana
si tuffarono allora a loro volta per ricondurre indietro quelli che si erano
tuffati; essendo entrambi provetti nuotatori, raggiunsero presto il gruppo dei
marinai, che intanto si erano fermati, avendo infine realizzato che la nave
soccorritrice non esisteva. Anche così, però, non volevano saperne di tornare
sulla zattera, e i due ufficiali dovettero ricorrere alle maniere forti per
riportarli alla ragione; uno dei marinai abbrancò Ginocchio per il collo e lo
trascinò tre o quattro metri sotto la superficie. L’ufficiale rischiò di
affogare, ma ad un tratto il marinaio smise di fare forza, e Ginocchio riuscì a
riemergere. Fontana, intanto, a forza di grida e pugni era riuscito ad indurre
gli altri marinai a tornare verso la zattera: non però quello che aveva chiesto
il permesso di “scendere dal treno”, il quale intanto aveva notevolmente
distanziato gli altri, e continuava a nuotare senza una meta. Ginocchio ordinò
a Fontana, più giovane e forte di lui, di andarlo a recuperare; ma dopo qualche
bracciata anche Fontana, ormai stremato, disse che non ce la faceva più, e
dovette rinunciare. Il marinaio continuò a nuotare, fino a sparire alla vista.
Ginocchio, Fontana ed i marinai che si erano tuffati risalirono tutti sulla
zattera.
Adesso sulla zattera
restava soltanto una ventina di uomini, poco più della metà degli occupanti
originari.
Ninni, che nei primi
momenti del naufragio era stato uno degli uomini che più si erano prodigati,
più calmo forse dello stesso Ginocchio, appariva ora distaccato, silenzioso;
non si sforzò molto di riordinare gli uomini tornati a bordo, a differenza del
solito. Ginocchio gli domandò come stesse, e Ninni rispose quasi urlando:
“Grazie! Perfettamente bene! Agli ordini!”.
Mentre le navi erano
immaginarie, erano reali i ricognitori britannici che più volte, nel corso dei
giorni trascorsi alla deriva, sorvolarono i naufraghi del Carducci. Ogni volta gli aerei si abbassavano e sembravano spegnere
i motori, tanto da far sperare nel salvataggio, invece si limitavano a scattare
foto per poi allontanarsi. Un pomeriggio (quello del terzo giorno, secondo
Ginocchio, o del quarto giorno, secondo Ninni, che però non sembra aver avuto
esatta cognizione del tempo) venne avvistato un idrovolante Sunderland: i
naufraghi fecero delle segnalazioni, gli aviatori britannici risposero, l’aereo
sorvolò la zattera a più riprese, a bassa quota, scattando foto per poi
andarsene.
Il capo meccanico di
terza classe Mario Riccio morì tra le braccia di Ginocchio, dicendo prima di
spirare: “Ci hanno dimenticati!”. Scrisse poi Ginocchio: «Ma non c’era rancore
nelle sue parole, soltanto delusione»…
Intanto, verso le
19.30 del 30 marzo, la Gradisca era
giunta nei pressi del luogo in cui erano affondate le navi della I Divisione
(35°33’ N e 20°55’ E), come indicato dall’avvistamento dei primi rottami e
delle prime chiazze di nafta, ed aveva dato inizio alle ricerche. Per tutta la
notte e poi la giornata del 31 marzo la nave setacciò inutilmente il mare: dapprima,
la sera del 30, giunse da Supermarina la notizia dell’avvistamento di una
zattera di naufraghi in posizione 35°20’ N e 21°00’ E (più a sud di dove si
trovava la Gradisca); portatasi nel
punto indicato alle 20, tuttavia, la Gradisca
non vi trovò nulla, pur avendo setacciato il mare coi proiettori fino alle
21.30. Invertì poi la rotta e diresse per nordest, poi per ovest, di nuovo
senza costrutto; dopo di che venne raggiunta da un nuovo messaggio di
Supermarina, che annunciava l’avvistamento di altre zattere da parte di
ricognitori, più a sud, ed impartiva nuovi ordini per le ricerche. La Gradisca si diresse verso il nuovo punto
indicato (in realtà, tale segnalazione era del tutto errata e stava soltando
allontanando la nave dal punto degli affondamenti), ma di nuovo non trovò
traccia di naufraghi o di zattere. Il mattino del 31 la nave assunse nuovamente
rotte nord per tornare nel punto in cui erano state avvistate le prime macchie
di nafta; vi giunse alle 10. Vennero infatti avvistate delle chiazze di nafta,
che indicavano la vicinanza al punto di affondamento di una nave, e poco dopo
comparve una prima zattera, che però era vuota. Nelle ore successive (nelle
quali la Gradisca diresse nuovamente
verso sud e poi ancora verso nord a partire dalle 11) non furono trovati altro
che rottami di ogni tipo, zattere vuote e cadaveri che galleggiano nei
salvagente: solo alle 21 le vedette della Gradisca
sentirono finalmente delle grida lontane. La nave fermò le macchine e tutti si
misero ad ascoltare: erano proprio delle voci. Furono puntati i proiettori in
quella direzione, e vennero presto avvistate una zattera; a bordo c’erano due
ufficiali e due marinai dell’Alfieri,
semiassiderati ed affamati (per altra fonte, in questa circostanza vennero
soccorse non una ma tre zattere, dalle quali sarebbero stati soccorsi numerosi
naufraghi tra cui anche alcuni superstiti del Carducci). Vennero tutti tratti in salvo ed uno di essi,
l’ufficiale di rotta dell’Alfieri,
spiegò che nelle vicinanze dovevano esserci altre zattere, sia dell’Alfieri che del Carducci: indicò una rotta approssimata lungo la quale cercarle, e
la nave ospedale iniziò a percorrerla in cerca di altri naufraghi.
Alle 23 le tre
vedette di prua della Gradisca
sentirono di nuovo delle voci in lontananza; le macchine vennero fermate
un’altra volta, furono accesi i riflettori e si precipitarono a prua molti
altri uomini. Decine di occhi scrutarono il mare con l’aiuto della luce dei
riflettori, che spazzarono tutta l’area circostante; ma il tempo lavorò contro
di loro: lo stato del mare era peggiorato, diventando piuttosto agitato, e per
qualche minuto si mise anche a piovere, una pioggerella fredda che ridusse la
visibilità. Non si riusciva a vedere niente, e non si sentivano più neanche le
voci. Dopo mezz’ora, la Gradisca
rimise in moto e si allontanò verso nord.
Le vedette non si
erano sbagliate: la nave era davvero giunta in vista di una zattera, proprio
quella del comandante Ginocchio. Verso le 23, i marinai sulla zattera avevano
ripreso a gridare come qualche ora prima: ma questa volta non per
un’allucinazione, bensì per una nave autentica, completamente illuminata,
distante un paio di chilometri. Le grandi croci rosse luminose visibili sulla
murata la rendevano chiaramente riconoscibile come una nave ospedale; si
muoveva a lentissimo moto. Tutti gridavano per farsi sentire, ed anche
Ginocchio si unì all’esultanza generale. I naufraghi videro la nave mettere la
prua verso di loro, accendere i proiettori ed iniziare a puntarli sul mare
circostante, e furono certi che la loro odissea fosse giunta alla fine; invece,
ad un certo punto, la Gradisca rimise
in moto, accostò ed iniziò ad allontanarsi verso nord. I naufraghi gridarono
più forte che poterono, ma non furono più sentiti; non c’era sulla zattera
nessun razzo di segnalazione, né torce elettriche per fare segnali luminosi. Si
cercò di governare col remo-timone per avvicinarsi alla rotta della nave ospedale,
ma invano. La Gradisca non era
riuscita a vederli, e se ne andò via, segnando per i superstiti del Carducci la terza terribile delusione in
meno di tre giorni. Per alcuni, questa fu l’ultima e definitiva spinta verso la
follia. I naufraghi furono presi dalla rabbia, dall’isteria e dalla paura, si
misero a piangere, gridare od imprecare; invano gli ufficiali cercarono di
riportare la calma. Qualcuno nella zattera urlò che un inglese lo stava
assassinando, e si scatenò una nuova calca; altri uomini caddero in acqua, si
fece fatica a tirarli nuovamente a bordo, qualcuno si tuffò deliberatamente e
non riemerse più. Tutti gli uomini rimasti sulla zattera si ammassarono sulla
“prua”, come temendo un pericolo invisibile. Durante la notte, terribilmente
fredda, Cimaglia recitò di nuovo la Preghiera del Marinaio, e di nuovo i
naufraghi – anche gli impazziti e i moribondi – si unirono a lui nella
preghiera.
Il mattino del 1°
aprile 1941, quarto giorno alla deriva, la conta rivelò che altri due uomini
erano scomparsi durante la notte. Probabilmente erano caduti in mare durante la
calca scatenatasi quanto la Gradisca
si era allontanata, ed erano annegati. I superstiti versavano in uno stato
sempre peggiore, disidratati e sanguinanti dalle piaghe causate dal sole e
dalla nafta; parecchi, tra cui lo stesso Ginocchio, avevano subito gravi
lesioni oculari a causa del battito incessante del sole. Ninni, il comandante
in seconda, stava ormai dando segni di squilibrio: non rispondeva, diceva cose
senza senso, continuava a togliersi e rimettersi la giacca; propose a Ginocchio
di alzare una seconda vela ed un fiocco, poi si levò la giacca di nuovo e
rimase in piedi a fissare l’orizzonte, per alcuni minuti, senza dire nulla. Non
era il solo a perdere la testa: un cannoniere aveva fissato la fotografia di
una ragazza sul bordo interno della zattera; un gruppetto di naufraghi si
radunò intorno a guardarla silenziosamente, poi uno di essi l’afferrò e la
nascose nel suo camisaccio, venendo subito aggredito dal proprietario dell’immagine.
Si scatenò una rissa, che arrecò ulteriori danni alla zattera. Gli episodi di
pazzia si moltiplicavano: qualcuno diceva di vedere bottiglie di birra in fondo
al mare, altri immaginavano navi e fumi all’orizzonte che esistevano solo nella
loro mente. Qualcuno diceva che guardando il sole sarebbe potuto morire,
qualcun altro cercava la cambusa sotto il pagliolo della zattera, altri ancora
volevano bere l’acqua del mare ad ogni costo, credendo che fosse cognac o latte.
Un naufrago disse che doveva assolutamente andare ad un appuntamento con degli
amici al caffè Sport di La Spezia, ma che sarebbe tornato subito. I più folli
saltavano in acqua, e venivano riportati a bordo da quelli rimasti savi fino a
quando questi ultimi ebbero ancora abbastanza forza per farlo.
Altri naufraghi
“vedevano” la costa vicinissima, e si dicevano certi di poterla raggiungere. Quando
qualcuno veniva preso dallo scoramento, era lo stesso Ginocchio a dire che la
terra era in vista, non perché delirasse anche lui, ma per tenere alta la
speranza ed il morale degli uomini, ed impedire che si lasciassero andare;
quando Cimaglia, non capendo, mise in dubbio questa affermazione, Ginocchio lo
fulminò con lo sguardo e Cimaglia comprese.
Per cercare di porre
rimedio alla fame e alla sete si tentò di tutto: si cercò di mangiucchiare
suole, corde, pezzi di legno, ma niente passava al di là dei denti; qualcuno
bevve anche urina raccolta nel fondo di un binocolo.
Durante il pomeriggio
del 1° aprile, forse verso le due, Ninni prese a parlare a bassa voce a
Ginocchio. Gli spiegò che la sua figlia piccola, Rosalba, era molto malata,
forse aveva una febbre infettiva; necessitava di continue cure, ma la moglie
era sola a Taranto, non c’erano altri parenti. Di notte la bimba non riusciva a
dormire, calmandosi solo quando il padre la prendeva in braccio. Era questo il
motivo per cui era sceso a terra senza permesso qualche giorno prima della
partenza, ma non glie l’aveva mai detto: sapendolo, ora, e ripensando alla
punizione che per questo gli aveva comminato, Ginocchio ne rimase profondamente
colpito. Se l’avesse saputo, avrebbe soprasseduto. Finito di spiegare, Ninni ricominciò
a raccontare di nuovo quanto aveva appena detto, però cambiando vari
particolari; e chiese il permesso di scendere a terra per andare dalla
famiglia. Guardava fisso verso qualcosa di indefinibile, lontano; Ginocchio
cercò inutilmente di scuoterlo, ma Ninni non lo ascoltò. Allora il comandante
del Carducci cercò di far sedere il
suo secondo sul fondo della zattera, ma Ninni cercò invece di divincolarsi e di
tuffarsi in acqua: per fermarlo prima che potesse gettarsi, o che qualcuno lo
vedesse lottare con un ufficiale – temeva che ciò avrebbe avuto effetto
negativo sul morale degli uomini –, Ginocchio gli tirò un pugno sulla bocca, e
in tal modo riuscì a calmarlo. Ninni si sedette, e con sguardo assente chiese a
Ginocchio chi avrebbe cullato la figlia; questi rispose che la stava cullando
lui, che lei stava benissimo ed era felice, e mimò anche il gesto con le
braccia. Ciò ebbe finalmente l’effetto di tranquillizzare Ninni, che sorrise e
poco dopo si addormentò.
La giornata del 31
marzo aveva decimato anche i naufraghi della zattera del marinaio Cesare Montanari.
In acqua, ormai, non c’era più nessun naufrago vivo: soltanto cadaveri sorretti
dai salvagente. Anche gli occupanti della zattera cedettero a poco a poco al
freddo della notte, al sole implacabile di giorno, e soprattutto alla sete, di
gran lunga il problema più grande, che spingeva alcuni marinai a crisi di
follia.
Uno dopo l’altro, i
naufraghi morirono e vennero gettati in mare. Dopo qualche giorno – difficile
dire quale, dato che la memoria di Montanari era confusa dal tanto tempo
passato sulla zattera: probabilmente il 1° aprile – della quarantina di uomini
che erano stati inizialmente sulla zattera di Montanari erano rimasti soltanto
in sei, uno dei quali moribondo. Quel giorno, nel primo pomeriggio, un marinaio
si alzò e, puntanto il dito verso l’orizzonte, iniziò a gridare: “Là! Laggiù!
Il Colleoni, il Colleoni che è tornato a galla e ci viene a salvare!”. I naufraghi
avevano ben presente la storia dell’incrociatore leggero Colleoni, la prima nave maggiore perduta in guerra dalla Marina
italiana. Era stato affondato otto mesi prima, nel luglio 1940, nelle acque di
Creta, non lontanissimo da dove ora loro si trovavano. Fu forse per questo
motivo – la perdita del Colleoni
aveva avuto molta risonanza tra gli equipaggi della flotta – che vi furono
diversi casi, tra i naufraghi di Matapan, di uomini che credettero di vedere il
Colleoni riemergere dalle acque.
Naturalmente non era che un’illusione: il marinaio che aveva “visto” il Colleoni si gettò in mare e prese a
nuotare vigorosamente, allontanandosi dalla zattera, fino a quando, esaurite le
poche forze residue, annegò.
Morì anche un altro
naufrago, ed il giorno seguente soltanto quattro uomini restavano in vita, tra
cui Montanari. Ormai avevano quasi perso ogni speranza e non avevano più forze,
ma compresero che l’unico modo di prolungare almeno un poco la loro
sopravvivenza consisteva nel mangiare qualcuno dei gabbiani che volavano sopra
di loro, e che di tanto in tanto si posavano sul bordo della zattera. Durante
la giornata, i quattro naufraghi studiarono con cura – il tempo di certo non
mancava – il modo migliore per riuscire a catturare uno degli uccelli:
impossibile prenderli al volo, bisognava riuscire a colpirne uno quando si
posava sul bordo. I gabbiani che si posavano sulla zattera, però, erano molto
guardinghi, e coglierli di sorpresa non sarebbe stato facile.
I naufraghi attesero
il momento propizio, tenendo un piccolo remo, molto leggero, a portata di mano:
ed infine, nel pomeriggio, due gabbiani si posarono sul bordo. Montanari prese
il remo, lo alzò lentamente e poi colpì uno dei gabbiani prima che potesse spiccare
il volo. Il volatile venne rapidamente spezzato in quattro parti, che i
naufraghi si divisero, succhiandole per dissetarsi (il sangue degli animali può
rappresentare, come estrema ratio, un sostituto dell’acqua) e poi mangiandone
la carne così com’era, cruda. Quella poca carne ridiede loro un poco di forza.
La giornata del 1°
aprile fu, per la Gradisca, la
più fruttuosa. All’alba la nave individuò coi proiettori due zattere cariche di
naufraghi, che vennero prontamente soccorsi, nonostante il mare piuttosto
agitato, dal motoscafo della Gradisca;
subito dopo vennero avvertite delle altre grida, che provenivano da destra, ed
i proiettori rivelarono altre zattere, stavolta in gran numero. Vennero messe a
mare anche altre motobarche, che per quattro ore si prodigarono incessantemente
recuperando decine e decine di naufraghi, anche feriti. Per la maggior parte
essi appartenevano all’equipaggio del Fiume,
ma ce n’erano anche alcuni dei cacciatorpediniere.
Terminata questa
prima fase di salvataggi, la Gradisca
riprese a cercare, e più tardi durante la mattinata vennero avvistate verso sud
delle altre zattere. Di nuovo la nave si diresse loro incontro, per poi
fermarsi una volta nelle vicinanze e mettere a mare i motoscafi. Molti di
questi naufraghi erano allo stremo delle forze, sdraiati sul fondo delle
zattere, il capo reclinato sulle ginocchia dei compagni; quando i motoscafi li
portarono sulla Gradisca, iniziarono
a chiedere dell’acqua, senza sosta. Il tenente commissario Ermanno De Maio,
della Gradisca, vide che tra i
naufraghi salvati c’era un suo cugino (è possibile che questi fosse Francesco
De Maio o Di Maio, sottocapo cannoniere del Carducci),
e corse ad abbracciarlo. Per altri, invece, arrivarono cattive notizie: tra gli
ufficiali medici della Gradisca era
anche il tenente medico Giulio Venticinque, fratello di Aldo Venticinque,
sottotenente di vascello del Carducci,
che non era sopravvissuto. Uno dei naufraghi tratti in salvo, quando lo vide,
proruppe in esclamazioni disperate: “Signor Venticinque! Signor Venticinque!
Vostro fratello è morto!”. Fulminato dall’inaspettata notizia, l’ufficiale si
abbandonò tra le braccia di un collega. Neanche Giulio Venticinque sarebbe
sopravvissuto alla guerra: dopo l’armistizio, catturata la Gradisca dai tedeschi in Grecia, sarebbe fuggito per unirsi ai
partigiani greci, e sarebbe stato catturato ed impiccato dai tedeschi nel 1944.
Nelle prime ore del
1° aprile, tra le 5.25 e mezzogiorno, la Gradisca
riuscì a trarre in salvo ben 122 sopravvissuti, da un totale di 18 zattere.
(Secondo il libro "Le missioni avventurose di una squadra di navi bianche",
scritto dal generale Mario Peruzzi, già capo del Corpo Sanitario Militare
Marittimo, e pubblicato nel 1951 dal Ministero della Marina, risulterebbe che
tutti i naufraghi salvati il 1° aprile appartenessero allo Zara, Fiume ed all’Alfieri, rispettivamente in numero di 8,
106 e 8, recuperati da una zattera dello Zara
– la prima avvistata quel giorno –, 16 zattere del Fiume e da una dell’Alfieri,
mentre non sarebbero stati recuperati in quella giornata superstiti del Carducci. Tuttavia l’episodio di
Venticinque – ufficiale del Carducci,
la cui morte poteva essere nota solo ai naufraghi di questa nave – e forse
anche quello di Di Maio, narrati entrambi nel diario della crocerossina volontaria
Maria Corazza, imbarcata sulla Gradisca,
fanno pensare che in realtà tra i naufraghi salvati il 1° aprile dovessero
esservene anche alcuni del Carducci.
A meno che la data indicata sul diario non sia sbagliata).
Terminato il recupero
di questi naufraghi, a mezzogiorno nave ospedale proseguì nella sua ricerca,
basandosi sulle informazioni fornite da Supermarina e da quanto raccontato dai
naufraghi recuperati in precedenza, navigando verso ovest, fino a giungere in
un punto non lontano da quello in cui aveva iniziato le ricerche una volta
giunta sul luogo della battaglia. Degli aerei che avrebbero dovuto cooperare
nella ricerca non c’era traccia: solo un singolo aereo di soccorso della C.R.I.
perlustrò vanamente la zona per un po’ di tempo, tenendosi in contatto radio
con la Gradisca ma senza riferire
nulla di utile. Poco prima era transitato anche un aereo tedesco, ma volando ad
alta quota, diretto verso sudest. Apparve invece, alle tre del pomeriggio, un
aereo britannico, un idrovolante Short Sunderland, che effettuò due giri a
bassa quota sopra la Gradisca –
qualcuno ritenne di vedere un segnale – e poi si allontanò immediatamente verso
nordest. La nave continuò a cercare navigando a velocità moderata, dapprima
verso sud, poi verso ovest e quindi verso nordest e nordovest, per tutta la
giornata del 1° aprile, la notte seguente e poi la giornata del 2 aprile. Alle
nove del mattino del 2 aprile, in posizione 35°38’ N e 21°20’ E, vennero
avvistati due gavitelli rossi e ben 16 zattere di salvataggio, tutte vuote: non
c’erano né naufraghi vivi né cadaveri, e opinione degli uomini della Gradisca fu che quelle zattere fossero
del Pola, e che i loro occupanti
fossero stati probabilmente recuperati in precedenza dai britannici.
Nel pomeriggio del 2
aprile, finalmente, vennero trovati degli altri naufraghi: appartenevano al Carducci e versavano in condizioni
peggiori di quelli recuperati in precedenza. Alcuni di essi raccontarono di
aver visto la Gradisca durante la
notte, ma di non essere riusciti a comprendere quale fosse la sua nazionalità.
Alcuni non avevano osato avvicinarsi perché temevano di finire prigionieri,
altri al contrario avevano gridato per farsi sentire ed avevano cercato di
vogare con le mani verso la nave ospedale, ma senza successo, com’era accaduto
sulla zattera del comandante Ginocchio. Avevano perso la speranza di essere
salvati, alcuni erano impazziti, mentre altri avevano cercato di
tranquillizzarli ed incoraggiarli. Molti, credendo di essere prossimi alla
morte, volevano confessarsi subito: il cappellano della Gradisca, don Ezio Chidini, riuscì a convincerli che ne avrebbero
ancora avuto di tempo per confessarsi, per il momento si dovevano prima di
tutto riposare.
Nel pomeriggio del 2
aprile, i quattro naufraghi sulla zattera di Cesare Montanari videro
all’improvviso qualcosa che si avvicinava, ed a poco a poco riuscirono a
distinguere una nave, interamente verniciata di bianco: quando venne più vicina
poterono discernere anche le croci rosse sulle murate e sui fumaioli, e furono
certi che si trattava di una nave ospedale.
Era infatti la Gradisca: giunta nei loro pressi, mise a
mare una motolancia ed un motoscafo. La prima si diresse verso delle altre
zattere più lontane, mentre il motoscafo puntò diritto sulla loro. Montanari fu
preso dalla gioia: rise, si alzò, cadde nell’acqua al centro della zattera
semiallagata, e perse i sensi.
Rinvenne nelle
braccia di un marinaio, mentre un tenente di vascello gli porgeva una mano per
aiutarlo a salire sul motoscafo: a bassa voce l’ufficiale gli diceva “Forza
marinaio, ce l’hai fatta, fatti forza, non cedere proprio ora...”. Insieme ai
tre compagni, venne portato a bordo della Gradisca
e messo in un letto; fu visitato da un ufficiale medico assistito da un
sergente infermiere e due crocerossine. Per parte sua, Montanari continuava a
chiedere acqua: non beveva da cinque giorni, eccettuato il gabbiano che aveva
succhiato. Infermieri e crocerossine gli passarono delle garze umide sulle
labbra, poi gli fecero bere dell’acqua e aranciata con un cucchiaino da caffè,
poco per volta; gli fu fatto indossare un pigiama bianco. Le crocerossine erano
particolarmente premurose, sempre a portata con acqua o altre bevande, che
venivano somministrate con garze o cucchiai: dopo tanti giorni senza bere, i
naufraghi non potevano ingerire subito grandi quantità di liquidi in un sol
colpo, anche se continuavano a chiedere acqua.
Passato abbastanza
tempo, finalmente, Montanari poté bere una tazza di brodo. Ad un medico, che
gli chiedeva come stesse, rispose con un modo di dire romagnolo: “Sto come un
pesce nel pagliaio”. Il medico non capì, ed una crocerossina gli spiegò allora
il significato: “Mettere un pesce in un pagliaio ed un essere umano sottacqua
sono la stessa cosa”. Ci volle parecchio tempo per placare quella tremenda
sete.
Ciò che accadde sulla
zattera del comandante Ginocchio tra il 1° ed il 2 aprile non è noto, dato che
tutti i sopravvissuti erano ormai scivolati in uno stato di semincoscienza,
sull’orlo della morte, e nessuno conservò memorie precise di quel che successe.
Alcuni uomini morirono, altri, cedendo alla follia o alla disperazione, si
gettarono in mare, assottigliando sempre più il numero degli occupanti. Cimaglia
scrisse nella sua relazione, redatta nel dopoguerra, che i pochi rimasti erano
ormai rassegnati ed aspettavano semplicemente la morte, sdraiati in silenzio;
solo Ninni seguitava ad avere allucinazioni, continuando a chiedere a Ginocchio
“Comandante, mia figlia Rosalba è ammalata. Permette che scenda a terra a
chiamare un medico?”, e dicendo di vedere le luci di Taranto. Alcuni pregavano
che i loro parenti non soffrissero troppo per la loro morte.
La Gradisca, intanto, continuava a cercare,
dirigendo prima verso nordest, poi verso nordovest e poi verso sudovest, per
ampliare gradualmente la zona delle ricerche. Nel primo pomeriggio del 2 aprile,
le vedette della nave ospedale avvistarono due zattere del Carducci, a circa dieci miglia di distanza. Erano la zattera del
comandante Ginocchio e l’altro zatterino, ormai vuoto, che anche dopo aver tagliato
il cavo era rimasto nei suoi pressi.
La Gradisca si precipitò sul posto; giunti
ad una cinquantina di metri di distanza, gli uomini a bordo videro che la
zattera più piccola era vuota, mentre su quella più grande c’erano alcuni
uomini, che però non davano segni di vita. Fu messa a mare una lancia con sei
uomini, che raggiunse i due galleggianti: venne verificato che sulla zattera
piccola non ci fosse proprio nessuno, mentre sulla zattera più grande gli
uomini ancora in vita erano sette: tra di essi vi erano Ginocchio, Ninni,
Fontana e Cimaglia. Dopo cinque giorni alla deriva, questi 7 uomini erano gli
unici sopravvissuti dei 34 che si erano trovati a bordo della zattera il
mattino del 29 marzo.
Cimaglia era ancora cosciente,
sebbene a malapena. Sentì qualcuno dire che c’era un fumo all’orizzonte, ma
dopo tutti i falsi allarmi e le delusioni dei giorni precedenti non si volse
nemmeno a guardare, e rimase sdraiato sul fondo della zattera. Invece, a un
certo punto sentì un rumore vicino, vide che c’era davvero una nave che si era
fermata ed una motolancia che veniva verso di lui, e sentì due braccia che lo
sollevavano e lo avvolgevano in una coperta.
I sette superstiti
erano in condizioni disperate, tutti privi di sensi, disidratati e scottati dal
sole; subito portati a bordo della Gradisca,
vennero dapprima adagiati in coperta, uno accanto all’altro, e poi trasferiti
nei letti dell’ospedale. Gli ufficiali, che erano tra quelli in condizioni
peggiori, poterono essere identificati dai loro piastrini di riconoscimento.
Uno dei sette uomini, un fuochista, spirò poco dopo il salvataggio.
Verso sera, dopo le
prime cure, i superstiti della zattera iniziarono a riprendere conoscenza:
alcuni deliravano, altri continuavano a chiedere acqua. Ginocchio scivolava
dalla lucidità al delirio e viceversa; disse che nella zona dovevano esserci
altre zattere del Carducci, e che
voleva andare in plancia per assistere l’ufficiale di rotta nelle ricerche, ma
venne fermato e ricominciò a delirare. Si riprese alle due di notte del 3
aprile e ricominciò a chiedere di potersi alzare dal letto; gli fu allora messa
accanto la crocerossina Fausta Bertolini. Questa raccontò a Ginocchio quanto
sapeva: che oltre al Carducci erano
stati affondati Zara, Pola, Fiume ed Alfieri; che
5000 marinai erano morti o prigionieri; che l’ammiraglio Cattaneo era
presumibilmente morto; che il comandante Toscano dell’Alfieri – il caposquadriglia di Ginocchio, sempre di buon umore ed
adorato dai suoi uomini, che lui ammirava ed invidiava – era volontariamente
affondato con la sua nave. Sentito tutto questo, Ginocchio iniziò a gridare “Si
poteva evitare! Si poteva evitare!”, ripetendolo continuamente, e a dimenarsi
per lasciare il letto, con calci e pugni; la Bertolini dovette immobilizzarlo
con degli asciugamani, poi andò a prendere delle strisce di tela perché sarebbe
probabilmente riuscito a strappare gli asciugamani.
È da notare qualche
discrepanza: dalle zattere di Montanari e Ginocchio risulterebbero esservi
stati, secondo i racconti dei sopravvissuti, rispettivamente 4 e 7 uomini
ancora in vita al momento del salvataggio, dunque in tutto 11 naufraghi; mentre
il già citato libro "Le missioni avventurose d’una squadra di navi bianche",
basandosi sul rapporto di missione della Gradisca,
riferisce invece che alle 14.12 del 2 aprile, mentre dirigeva per sudovest
(avendo ampliato l’area delle ricerche), la Gradisca
avvistò in posizione 35°56' N e 21°14' E due zattere, dalle quali furono
recuperati in tutto 21 naufraghi del Carducci.
Anche sulle circostanze vi è qualche discordanza, dato che dai racconti di
Montanari e dei sopravvissuti della zattera di Ginocchio si ricava
l’impressione che le due zattere siano state soccorse separatamente, in tempi
diversi (alcuni superstiti della zattera di Ginocchio collocano il salvataggio
alle 16.30; nessuno parla di un’altra zattera con superstiti, né Montanari
parla della zattera di Ginocchio), mentre dal citato volume apparirebbe che le
due zattere siano state trovate e soccorse contemporaneamente.
Qualcuno degli uomini
raccolti il 2 aprile, dopo il salvataggio, affermò che, pur non potendo fornire
indicazioni precise sulla presenza o meno di altre zattere nelle vicinanze,
certamente se ne sarebbero trovare delle altre verso sudest, pertanto la Gradisca continuò a cercare in tale area
per tutto il resto della giornata e della notte seguente. Alle 15.55 sorvolò la
nave un aereo tedesco, diretto a nordest; alle 16 fu la volta di un velivolo
britannico, diretto a sud. Poco più tardi la radio della Gradisca captò dei deboli segnali radio da un aereo italiano, che
richiedeva un rilevamento radiogoniometrico per raggiungere la nave, ma i
segnali erano troppo deboli per permettere di rilevare la posizione.
Nel corso della notte
la Gradisca, ridotta la velocità a
6,5 nodi, incrociò in lungo e in largo in cerca di naufraghi, finché il mattino
del 3 aprile si ritrovò più o meno nello stesso punto del giorno prima. A quel
punto, accostò verso sud con velocità normale.
Il 3 aprile il
considerevole miglioramento dello stato del mare consentì infatti alla Gradisca di mettere a mare le motolancie,
così da estendere la zona delle ricerche. A mezzogiorno la nave aveva appena
fatto il punto ed assunto rotta per perlustrare la zona compresa tra 35°42’ N e
35°52’ N e tra 21°14’ E e 21°23’ E, quando le vedette di plancia e di prua
avvistarono qualcosa in lontananza. Tra le 12.38 e le 14.06 vennero così
individuate e soccorse, una dopo l’altra, quattro zattere, tutte del Carducci. A bordo c’erano, in tutto,
altri 14 sopravvissuti del cacciatorpediniere: versavano in condizioni
spaventose. Non si reggevano in piedi, erano completamente disidratati, con
bocca inaridita, labbra screpolate, occhi infossati, gambe tumefatte. La
temperatura corporea era inferiore a 36° C (il medico che li visitò li trovò
freddi, quasi come cadaveri), respiravano ancora ma il polso quasi non si
sentiva. Tutti presentavano gravi scottature da sole, e le ferite erano
macerate dal sale. Chiedevano incessantemente acqua, una sete inestinguibile, e
non potevano ingerire quasi nulla, a parte bevande zuccherate, a causa di
continuo singhiozzo e vomito. Alcuni erano ancora preda delle allucinazioni;
qualcuno gridava ai soccorritori “Ce ne sono delle altre! Le abbiamo viste
all’alba, e stanotte abbiamo sentito chiamare vicino a noi!” ed anche altri
insistevano che dovessero esservi altre zattere, mentre altri dicevano di non
aver sentito altro che lo sciabordio delle onde.
I 14 uomini del Carducci salvati il 3 aprile furono in
assoluto gli ultimi naufraghi di Matapan ad essere soccorsi; erano rimasti alla
deriva per sei giorni e sei notti.
Le condizioni dei
naufraghi recuperati nei giorni precedenti, intanto, andavano lentamente
migliorando. Passata la sete, subentrava fortissima la fame: il personale
sanitario consolava i naufraghi spiegando che “quando il malato ha fame vuol
dire che è guarito”. A molti si gonfiarono braccia e gambe, a causa del molto
tempo passato in acqua: però massaggi, frizioni ed iniezioni per riattivare la
circolazione fecero passare tutto abbastanza in fretta. Le crocerossine erano
sempre pronte ad essere di aiuto; vedevano i naufraghi come eroi e, infervorate
dalla propaganda dell’epoca, parlavano di «Vittoria e Destini della Patria».
La Gradisca riprese ad esplorare le acque a
nordovest ed a sudest del punto in cui si presumevano essere affondate le navi,
ampliando ancora la zona delle ricerche. Alle 15 ed alle 16.39 passarono nel
cielo un aereo britannico ed uno italiano, ad alta quota, senza effettuare
comunicazioni. Alle 17.38 apparve un aereo tedesco, proveniente da sud, che
venne incontro alla Gradisca, sganciò
cinque bombe in mare e poi se ne andò.
Calata la sera, la
nave rallentò la velocità per la ricerca notturna; nel corso della notte
descrisse tre lati di un vasto quadrilatero, ed il mattino del 4 aprile tornò
sul punto 35°30’ N e 20°50’ E, poi proseguì verso sudest. Alle sette del
mattino la Gradisca entrò in un vero
e proprio cimitero galleggiante: per tutta la mattinata la nave si trovò a
navigare in mezzo ad una distesa di cadaveri, 200, 250, forse anche 300 o 400.
Galleggiavano lasciando affiorare solo il dorso. L’equipaggio venne schierato
col capo scoperto, ed il cappellano di bordo impartì la benedizione e
l’assoluzione alle vittime.
Per il resto della
giornata, la Gradisca non trovò altro
che zattere vuote o già controllate; continuò comunque a cercare superstiti
fino alla sera del 5 aprile, incrociando con rotte varie attorno alla zona
della chiazza di nafta che segnava la nave affondata, con un percorso di
ricerca a reticolo che e puntate verso sud e verso nordest, passando e
ripassando anche in zone già controllate, e cercando di ipotizzare le possibili
rotte di deriva dove vento e correnti potevano aver spinto le zattere. Il
mattino del 5 vennero avvistate tre zattere vuote, nel pomeriggio una
motolancia semiaffondata. Non fu trovato nessun altro naufrago, ed anche il
tempo si mise contro i soccorritori: prima si levò una fitta foschia, poi vento
sempre più violento da est, che rese il mare via via più agitato.
Ciò risulta dal libro
"Le missioni avventurose di una squadra di navi bianche" e di nuovo contrasta
con il diario della crocerossina Maria Corazza, secondo il quale l’ultimo
salvataggio sarebbe invece avvenuto il 5 aprile, cioè a ben sette giorni dagli
affondamenti. In esso è infatti scritto che, il 5 aprile, la Gradisca avvistò una zattera in
lontananza; mentre la nave si dirigeva verso di essa, venne avvistata sulla
destra un’altra zattera, con a bordo un unico naufrago, che gridava e si
agitava, avvicinandosi alla nave ospedale. La Gradisca fermò le macchine e mise a mare il motoscafo; quando
quest’ultimo era già a poche decine di metri dalla zattera, il naufrago si
gettò in acqua e prese a nuotare verso di esso, come impazzito. Venne
prontamente issato a bordo dagli uomini del motoscafo; si trattava di un
sergente, che quando giunse sottobordo alla Gradisca
gridò “Grazie! Grazie! Viva l’Italia” in preda alla gioia. Avvolto nelle
coperte di lana, venne portato a bordo: era l’unico sopravvissuto della sua
zattera. La Gradisca rimise poi subito
in modo, senza neanche curarsi di recuperare il motoscafo per fare prima, e si
diresse verso la zattera che era stata avvistata per prima, che fu presto
raggiunta. Un altro motoscafo, calato in mare, raggiunse la zattera e ne
recuperò gli occupanti, che giacevano inerti sul fondo: sette uomini, tutti,
tranne due, in gravi condizioni, che giacevano inerti sul fondo del
galleggiante. I marinai della Gradisca
li avvolsero nelle coperte e diedero loro acqua, cognac e caffè, a sorsi.
Questi furono gli ultimi naufraghi tratti in salvo: dopo di loro, la Gradisca trovò ancora molte zattere, ma
alcune «portavano trasversalmente una specie di remo o recavano nel fondo
mucchi di salvagente, per significare che i naufraghi furono salvati», mentre
altre erano vuote. Tuttavia, si può esprimere qualche dubbio sull’esattezza
della data indicata sul diario di Maria Corazza, dal momento che più avanti si
parla di una messa celebrata a bordo l’8 aprile, durante la navigazione di
rientro, mentre risulterebbe che la Gradisca
sia arrivata in porto già il 7 aprile.
Alle 22 del 5 aprile Supermarina
ordinò per radio alla Gradisca di
dirigere per Messina: ormai non era più ragionevole aspettarsi di trovare altri
sopravvissuti. In tutto la nave ospedale aveva salvato 162 uomini: 35 del Carducci, 106 del Fiume, 12 dell’Alfieri, 8
dello Zara. Due dei 162 erano deceduti
a bordo della Gradisca. Vennero
inoltre recuperate sette salme, mentre centinaia di altre erano state viste ma
le si era dovute lasciare alla deriva, per cercare uomini ancora vivi.
Forse, scrisse poi il
generale Peruzzi, la Gradisca avrebbe
potuto rintracciare la maggior parte delle zattere già il primo giorno (dato
che l’avvistamento di rottami e chiazze di nafta già la sera del 30 era prova
che essa era già giunta nella zona in cui le navi erano affondate), se i
messaggi radio di Supermarina, che indicavano avvistamenti in vari punti nei
quali non furono trovati né naufraghi né zattere vuote, non l’avessero
fuorviata. In tal caso si sarebbero potuti salvare molti più uomini. Anche le
indicazioni fornite dai primi naufraghi tratti in salvo non erano state di
aiuto per le ricerche. Purtroppo era mancata la collaborazione dell’unico mezzo
che avrebbe potuto davvero fornire un contributo efficace, gli aerei.
Il 6 aprile si tenne
una messa di suffragio per gli uomini scomparsi in mare a Capo Matapan, cui
presero parte l’equipaggio e quei naufraghi che erano in condizione di reggersi
in piedi. Non era tra questi il comandante Ginocchio, che delirava nel suo
letto, preda di febbre altissima e vomito; nei brevi momenti in cui era in sé,
continuava a domandare che la Gradisca
continuasse a cercare, dicendo che la nave avrebbe certamente trovato altri
superstiti del Carducci. Quando
infine comprese che non potevano esserci altri sopravvissuti, chiamò il
cappellano e lo tempestò di domande sullo stato dei naufraghi del Carducci che la Gradisca aveva tratto in salvo; il cappellano preferì mentire
piuttosto che dirgli della triste verità: di tutto il suo equipaggio erano
stati salvati appena 35 uomini, i più in condizioni pietose.
Un’altra messa venne
celebrata per i naufraghi che versavano in condizioni più gravi, ed il
cappellano passò nei reparti a distribuire l’eucarestia anche a quelli che non
potevano alzarsi dal letto.
La dieta
somministrata ai naufraghi recuperati, che dopo giorni trascorsi senza mangiare
né bere non potevano ingerire subito grandi quantità di cibo, consisteva in
acqua zuccherata con un goccio di cognac, e succhi di frutta. I medici della Gradisca effettuarono alcuni interventi
d’urgenza, perlopiù per fratture: d’altra parte, i feriti gravi non erano
sopravvissuti alla lunga attesa sulle zattere. Durante la navigazione verso
Messina, gli ufficiali della Gradisca
iniziarono anche ad interrogare i naufraghi in condizioni migliori, per cercare
di capire come si fosse svolta l’azione notturna che aveva portato
all’annientamento della I Divisione. Al momento dell’arrivo in porto, molti dei
naufraghi recuperati nei primi giorni, che avevano passato relativamente meno tempo
in mare e più tempo sulla Gradisca,
si erano ripresi quasi del tutto.
La Gradisca arrivò a Messina alle 8.30 del
7 aprile, ed i 55 naufraghi in condizioni peggiori vennero subito trasportati
in ambulanza all’ospedale Regina Margherita. Tra questi erano il comandante
Ginocchio e molti altri superstiti del Carducci,
i cui naufraghi erano quelli che erano rimasti in mare più a lungo di tutti.
Gli altri 105 uomini recuperati dalla Gradisca,
che si ritenne si fossero sufficientemente ristabiliti, vennero invece inviati
al locale deposito C.R.E.M. (Corpo Reali Equipaggi Marittimi). Le nove salme
vennero tumulate nel Sacrario Militare di Cristo Re.
Ginocchio era ancora
febbricitante e stentava ad alzarsi dal letto, ma quella stessa sera gli arrivò
un ordine del Comando di Squadra, che richiedeva di mandare entro qualche ora
un rapporto su quanto accaduto. Dei comandanti delle cinque navi affondate a
Matapan, lui era l’unico che fosse stato recuperato da una nave italiana: tre,
Toscano dell’Alfieri, Corsi dello Zara e Giorgis del Fiume, erano scomparsi in mare; uno, De Pisa del Pola, era stato fatto prigioniero.
Nonostante le sue condizioni e la contrarietà dei medici, Ginocchio si sforzò
di obbedire, ed alle 00.30 dell’8 marzo scrisse il suo rapporto, anche se i
suoi ricordi erano ancora confusi (ci volle del tempo per convincerlo che fosse
stato sulla zattera per cinque giorni: nella sua mente, quella interminabile
attesa sembrava essere durata otto o nove giorni). Per lo meno, a Messina aveva
ricevuto la buona notizia che Oriani
e Gioberti erano si erano salvati ed
erano giunti a Taranto nel pomeriggio del 30 marzo.
Ginocchio rimase
ricoverato nell’ospedale Regina Margherita per quasi due mesi, fino a fine
maggio. Gli esami gli trovarono una grave forma di gastrite acuta,
probabilmente causata dall’ingestione di acqua di mare; le piaghe causate dal
sole e dalla nafta guarirono molto lentamente. Uscì dall’ospedale per la prima
volta il 20 maggio, e andò a farsi visitare da un oculista privato di Messina:
non voleva farsi visitare dal personale del Regina Margherita perché temeva che
le lesioni agli occhi causate dal sole, se scoperte, avrebbero potuto
comportare la fine del suo servizio attivo. Era ancora molto debole, e per
spostarsi necessitò di una carrozzina.
Dei 206 uomini che
componevano l’equipaggio del Carducci,
sopravvissero soltanto 5 ufficiali, 4 sottufficiali e 26 tra sottocapi e
marinai, tutti recuperati dalla Gradisca.
Trovarono la morte a Capo Matapan, caduti in combattimento o scomparsi in mare
nei giorni successivi, 171 uomini del Carducci:
4 ufficiali, 22 sottufficiali e 145 tra sottocapi e marinai.
I loro nomi:
Guido Addeo, marinaio fuochista, disperso
Gaetano Aiello, marinaio fuochista, disperso
Salvatore Aiello, marinaio fuochista, deceduto
Giuseppe Aiolfi, marinaio fuochista, disperso
Carlo Alessandri, marinaio cannoniere,
disperso
Luigi Amato, secondo capo cannoniere, disperso
Antonio Ambrosino, marinaio, disperso
Angelo Angioletti, marinaio cannoniere,
disperso
Michele Arena, marinaio fuochista, disperso
Pasquale Astarita, tenente del Genio Navale,
disperso
Giuseppe Bagordo, secondo capo elettricista,
disperso
Catullo Balducci, sergente cannoniere,
disperso
Giuseppe Balestrin, sottocapo S.D.T., disperso
Giovanni Barattieri, sergente cannoniere,
disperso
Vincenzo Barbieri, marinaio furiere, deceduto
Matteo Barone, marinaio fuochista, deceduto
Rosario Barresi, marinaio, disperso
Mario Bax, marinaio fuochista, disperso
Silvio Belvedere, marinaio, disperso
Massimiliano Benassi, marinaio fuochista,
disperso
Liberato Bengardino, marinaio cannoniere,
disperso
Filippo Bertoglio, sottocapo S.D.T., disperso
Emilio Berton, secondo capo S.D.T., deceduto
Armando Bertotto, marinaio cannoniere,
disperso
Remo Bevilacqua, sottocapo segnalatore,
deceduto
Mario Bindi, marinaio silurista, disperso
Guido Bisotti, marinaio fuochista, disperso
Mario Bolognesi, marinaio fuochista, disperso
Gino Bortolusso, marinaio fuochista, disperso
Giovanni Brignoli, marinaio meccanico,
disperso
Letterio Bruno, marinaio cannoniere, deceduto
Vitantonio Buono, marinaio, disperso
Giuseppe Calafiore, marinaio nocchiere,
disperso
Cosimo Calò, marinaio elettricista, disperso
Salvatore Campisi, marinaio, disperso
Oscar Candiotto, sottocapo meccanico, disperso
Giuseppe Carfora, marinaio fuochista, disperso
Giacomo Casalini, sottocapo cannoniere,
deceduto
Settimo Casano, marinaio fuochista, disperso
Ottavio Cavallari, marinaio cannoniere,
disperso
Cesare Cecconi, marinaio fuochista, disperso
Giuseppe Cingolani, marinaio fuochista,
disperso
Angelo Colucci, sottocapo cannoniere, disperso
Gennaro Conte, marinaio, disperso
Gennaro Criscuolo, marinaio, disperso
Matteo Criscuolo, sottocapo torpediniere,
disperso
Domenico Currò, marinaio fuochista, deceduto
Giovanni De Rosa, capo meccanico di terza classe,
disperso
Gaetano De Rosa, marinaio, deceduto
Gennaro De Silvestro, marinaio, disperso
Marino De Steno, marinaio fuochista, disperso
Pierino De Troia, marinaio, disperso
Edoardo Dell’Arte, motorista navale, disperso
Antimo Di Frischia, marinaio segnalatore,
disperso
Sebastiano Di Scala, marinaio, disperso
Nicola Dimiccoli, marinaio fuochista, disperso
Federico D’Onora, marinaio fuochista, disperso
Raffaele Esposito, sottocapo infermiere,
disperso
Pasquale Esposito, marinaio, deceduto
Vincenzo Esposito, marinaio, disperso
Girolamo Esposito D’Ardia, marinaio
cannoniere, disperso
Luciano Ferrante, secondo capo elettricista,
disperso
Wladimiro Ferri, sottocapo cannoniere,
deceduto
Pietro Ficarotta, sottocapo cannoniere,
deceduto
Domenico Filocamo, marinaio cannoniere,
disperso
Antonio Fausto Finetto, capo musicante di
seconda classe, deceduto
Guglielmo Fiorilla, sergente cannoniere,
deceduto
Leonardo Fois, secondo capo meccanico,
deceduto
Virgilio Fracassi, marinaio segnalatore,
disperso
Giuseppe Frattini, marinaio fuochista,
disperso
Ultimo Fusi, marinaio fuochista, deceduto
Alfredo Gadda, secondo capo meccanico,
deceduto
Lorenzo Gaeta, marinaio fuochista, disperso
Domenico Galati, marinaio, disperso
Amleto Galgani, marinaio fuochista, deceduto
Giobatta Gasperini, sottocapo, deceduto
Giacomo Gattinoni, marinaio fuochista,
deceduto
Francesco Gentile, marinaio fuochista,
disperso
Salvatore Gerbino, marinaio meccanico,
disperso
Giuseppe Ghielmi, capo meccanico di prima
classe, disperso
Doloino Grassini, marinaio cannoniere,
disperso
Giuseppe Grasso, marinaio fuochista, disperso
Domenico Grattarola, marinaio, disperso
Severino Guaiumi, marinaio motorista, disperso
Angelo Guglielmi, capo meccanico di seconda
classe, disperso
Mario Gulmini, marinaio, disperso
Luigi Iacomino, marinaio cannoniere, disperso
Tommaso Ilari, marinaio, disperso
Giuseppe Iurchio, marinaio fuochista, disperso
Guerrino Katich Zodan, marinaio cannoniere,
disperso
Pasquale Laudanna, sottocapo S.D.T., disperso
Francesco Lezzi, sergente meccanico, disperso
Aldo Liniero, marinaio fuochista, disperso
Giuseppe Lombardi, marinaio cannoniere,
disperso
Aldo Lombardo, marinaio cannoniere, deceduto
Giuseppe Longhi, marinaio fuochista, disperso
Mario Lorenzutti, marinaio fuochista, deceduto
Giuseppe Santo Lo Savio, marinaio
torpediniere, disperso
Michele Magliola, marinaio, disperso
Germano Marrapese, marinaio silurista, disperso
Francesco Marino, capo cannoniere di prima
classe, disperso
Giuseppe Maronati, marinaio S.D.T., deceduto
Mario Marozzi, marinaio meccanico, disperso
Antonio Marzano, marinaio, disperso
Andrea Massaro, marinaio, deceduto
Giuseppe Mastromatteo, marinaio, disperso
Aldo Mozzanti, marinaio elettricista, disperso
Francesco Mazzella, marinaio
radiotelegrafista, disperso
Onelio Mazziari, secondo capo cannoniere,
disperso
Luigi Mazzini, marinaio cannoniere, disperso
Martino Mellano, marinaio, disperso
Domenico Minniti, marinaio fuochista, disperso
Natale Montessi, marinaio cannoniere, deceduto
Filippo Muggeo, marinaio fuochista, disperso
Giuseppe Mungo, sottocapo cannoniere, disperso
Giuseppe Nani, marinaio, disperso
Gastone Nart, marinaio meccanico, disperso
Gastone Nart, marinaio meccanico, disperso
Cesare Natini, marinaio cannoniere, disperso
Renato Negrini, marinaio fuochista, disperso
Luigi Nervi, marinaio S.D.T., disperso
Giovannino Nicoli, marinaio, deceduto
Sergio Orlandi, marinaio fuochista, disperso
Vincenzo Padua, sottocapo cannoniere, deceduto
Ottorino Paglialunga, sottocapo S.D.T.,
disperso
Sergio Paoli, marinaio elettricista, deceduto
Gaetano Papinutti, marinaio cannoniere,
disperso
Walter Pareschi, marinaio, disperso
Luigi Pellino, marinaio, disperso
Giuseppe Penniccioli, marinaio fuochista,
disperso
Luigi Pericotti, sottocapo radiotelegrafista,
deceduto
Guerrino Piacentini, marinaio cannoniere,
disperso
Lorenzo Pirrera, sottocapo cannoniere,
disperso
Ezio Pisani, marinaio radiotelegrafista,
deceduto
Pietro Rambuschi, secondo capo cannoniere,
deceduto
Redo Ravasio, marinaio cannoniere, disperso
Emilio Raveglia, marinaio cannoniere, disperso
Giorgio Rè, sottocapo silurista, disperso
Mario Riccio, capo meccanico di seconda
classe, deceduto
Danilo Righi, marinaio elettricista, deceduto
Luigi Rossi, sottotenente di vascello,
disperso
Oscar Rossinovich, marinaio fuochista,
disperso
Gino Rosteghin, marinaio, deceduto
Renato Saccari, capo meccanico di seconda
classe, disperso
Giuseppe Saffiotti, marinaio cannoniere,
disperso
Giuseppe Santi, sottocapo meccanico, disperso
Michele Santoro, marinaio, disperso
Abbondanzio Sassi, marinaio, disperso
Remigio Savini, capo furiere di terza classe,
deceduto
Alfonso Scala, marinaio furiere, deceduto
Giuseppe Scelsa, capitano del Genio Navale
(direttore di macchina), disperso
Gaetano Sica, marinaio cannoniere, disperso
Giovanni Silvestri, marinaio, deceduto
Augusto Simonelli, marinaio nocchiere,
disperso
Giuseppe Simonetta, marinaio fuochista,
deceduto
Carlo Sozzoni, marinaio, disperso
Mario Spinadin, marinaio fuochista, disperso
Ezio Taverna, marinaio fuochista, disperso
Ruggiero Toffoluti, capo radiotelegrafista di
seconda classe, disperso
Silvano Uberti, marinaio cannoniere, disperso
Salvatore Urdi, marinaio fuochista, disperso
Ippazio Vallo, marinaio nocchiere, disperso
Giovanni Vellere, sottocapo cannoniere,
disperso
Aldo Venticinque, tenente di vascello,
disperso
Pantaleo Ventura, marinaio cannoniere,
disperso
Ino Vercesi, marinaio elettricista, disperso
Pietro Verzillo, sottocapo S.D.T., disperso
Luigi Vianello, sottocapo elettricista,
disperso
Alceste Vusio, marinaio, disperso
Rizzardo Zambelli, marinaio, disperso
Serafino Zanetta, marinaio silurista, disperso
Amedeo Zennaro, marinaio elettricista,
disperso
(1) NOTA: L’elenco (preso da www.regiamarina.net) potrebbe contenere
degli errori, per i quali ci si scusa e si ringrazia chi vorrà segnalarli.
I pochi
sopravvissuti: capitano di fregata Alberto Ginocchio; tenente di vascello Vito
Ninni; sottotenente di vascello Michele Cimaglia; sottotenente di vascello
Michele Fontana; sottotenente G. N. D. M. Antonio Sponza; secondo capo
radiotelegrafista Regileno Massa; secondo capo S.D.T. Andrea Mazzei; secondo
capo meccanico Giuseppe Solaro; sergente meccanico Romano Turco; sottocapo
nocchiere Mario Bonaielli; sottocapo torpediniere Francesco De Maio; sottocapo
furiere Mario Di Terlizzi; sottocapo puntatore scelto Vittorio Raffaghelli;
sottocapo S.D.T. Umberto Raschioni; marinaio Alvaro Arcuri; marinaio Giuseppe
Arena; marinaio silurista Aldo Baroni; marinaio S.D.T. Laerte Bergonzoni; marinaio Giorgio Bruzzi; marinaio
cannoniere Armando Canevari; marinaio cannoniere Antonio Crucitti; marinaio
cannoniere Edoardo Kossuta; marinaio cannoniere S.D.T. Silvio Arancini;
marinaio Emanuele Innocente; marinaio silurista Angelo Invernizzi; marinaio
Ferdinando Liotta; marinaio fuochista Aldo Livieri; marinaio segnalatore Elvino
Maran; marinaio fuochista Angelo Massa; marinaio Cesare Montanari; marinaio
Antonio Montanga; marinaio Leonardo Nardelli; marinaio Mario Rebora; marinaio
cannoniere Giovanni Scuttari; marinaio fuochista Salvatore Sergi; marinaio
Giulio Sessuru.
Un’altra immagine del Carducci (da www.marina.difesa.it) |
Oggetto di lunghissima
disputa furono la manovra intrapresa dal Carducci
per coprire la ritirata degli altri cacciatorpediniere, ed i suoi effettivi
risultati. Nel rapporto steso subito dopo l’arrivo a Messina, nella notte tra
il 7 e l’8 marzo, Ginocchio aveva scritto di aver deciso di nascondere con
cortine nebbiogene gli altri cacciatorpediniere ed eventualmente qualche
incrociatore fosse riuscito a lasciarsi scadere; aveva pertanto compiuto
un’accostata con tutta la barra a dritta per costringere l’Oriani ad accostare a un tempo, poi – dopo essere stato colpito ed
incendiato – aveva nuovamente accostato a sinistra, aveva portato la velocità
al massimo ed ordinato di emettere una cortina di nebbia artificiale tra Oriani e Gioberti e le unità britanniche. Nel corso di tale manovra, il Carducci era stato colpito
ripetutamente, ma era rimasto governabile ed aveva proseguito nella manovra;
poco dopo, però, era stato colpito in sala macchine da un’altra salva, che
aveva posto fuori uso l’apparato motore.
In un primo incontro
con l’ammiraglio Iachino, nel giugno 1941, Ginocchio si sentì dire da questi
che egli riteneva che la manovra del Carducci
fosse stata intenzionale, ma che non fosse stata effettivamente eseguita,
perché prima di poterla mettere in atto la nave era stata immobilizzata dal
tiro britannico. Il comandante del Carducci
ne rimase esterrefatto e spiegò a Iachino, con l’aiuto della carta nautica, le
due accostate eseguite per emettere la cortina fumogena al fine di coprire Oriani e Gioberti, ma Iachino, pur rimanendo cordiale, rimase del suo
parere: Ginocchio aveva progettato tale manovra, ma questa non era poi stata
portata a termine a causa dell’immediata immobilizzazione del Carducci, causata dalla prima salva
nemica, che aveva impedito di eseguire la seconda accostata e di emettere la
cortina fumogena. Dopo questo primo infruttuoso incontro, Ginocchio scrisse a
Iachino una lettera con cui chiedeva di rettificare la sua “Ricostruzione degli
avvenimenti”, sostenendo che il Carducci
avesse eseguito la sua manovra e che questa avesse permesso ad Oriani e Gioberti di salvarsi. Inviò copia della missiva anche al Capo di
Stato Maggiore della Marina, ammiraglio Arturo Riccardi, ma non arrivò nessuna
risposta.
Iachino, nello
stendere la sua relazione, aveva utilizzato anche il rapporto del capitano di
fregata Vittorio Chinigò, comandante dell’Oriani,
che aveva scritto tra l’altro «…E pertanto approfittando che il Carducci era a poppavia del mio traverso
a dritta, e mi avrebbe forse mascherato temporaneamente alla vista del nemico,
ho accostato a dritta di circa 30° per cercare di guadagnare acqua verso
ponente…», senza parlare esplicitamente di una manovra effettivamente
intrapresa dal Carducci per coprirlo.
Ciò, però, era dovuto al fatto che Chinigò aveva incentrato il suo rapporto
sull’azione dell’Oriani, senza
soffermarsi molto su cosa avessero fatto le altre navi; a fine luglio 1941, in
un incontro con Ginocchio, Chinigò confermò che dopo i primi colpi il Carducci aveva compiuto delle ampie
accostate ed emesso cortine fumogene. Chinigò aveva visto benissimo le
accostate del Carducci, come pure la
cortina, della quale aveva approfittato per disimpegnarsi. Forte di questa
conferma, l’11 agosto Ginocchio scrisse nuovamente a Iachino ed al
sottosegretario alla Marina, ribadendo quanto detto. Il 1° settembre fu il
comandante Chinigò ad intervenire, scrivendo al Comando di Squadra una lettera
nella quale riferiva: «Alle 22.30 il Carducci
ha eseguito un’accostata sul lato dritto molto forte (maggiore di 45°) tanto
che, poiché ho iniziato l’accostata su tale lato qualche istante dopo di lui,
non mi è stato possibile mantenermi sul lato dritto e sono stato quindi
costretto a passargli di poppa per non investirlo. Data l’ampiezza
dell’accostata effettuata inizialmente dal Carducci e il fatto che
successivamente il Gioberti, l’Oriani ed il Carducci sono venuti a trovarsi in
linea di rilevamento e con rotte parallele, il Carducci, dopo la prima
accostata a dritta, ne ha sicuramente effettuata un’altra sul lato sinistro.
Alle 22.35 il Carducci era a poppavia del mio traverso ed effettivamente
emetteva fumo, tanto che ho deciso, approfittando del temporaneo occultamento
che mi avrebbe dato, di tentare l’attacco col siluro (…) Se il fumo che il Carducci emetteva fosse
dovuto al nebbiogeno o alla combustione in caldaia non ho avuto agio di poterlo
giudicare, dato che nel frattempo la distanza era aumentata. Alle 22.41 il Carducci
scade decisamente di poppa emettendo denso fumo nero: lo ritengo colpito.
Essendo stato anch’io colpito, assumo rilevamento per 180°. È probabile che,
oltre il fumo che do ordine di emettere, anche quello emesso dal Carducci abbia
contribuito ad occultarmi temporaneamente favorendomi nell’allontanamento».
Il 25 ottobre 1941 il
comandante Ginocchio ricevette la Medaglia d’Argento al Valor Militare per la
sua azione a Capo Matapan: nella motivazione si riconosceva, finalmente, che la
manovra del Carducci fosse stata
effettuata («…abilmente manovrava per proteggere con cortine di nebbia le altre
unità del proprio gruppo…»), senza però menzionare che avesse effettivamente
permesso ad Oriani e Gioberti di salvarsi. Iachino, infatti,
era rimasto del suo parere, e nella relazione sulla battaglia aveva scritto che
la manovra del Carducci fosse stata
pensata ma non eseguita: «Non appena
avvistato il very, il comandante [Ginocchio] ordinò (…) al timoniere di
mettere tutta la barra a dritta, a poppa di far nebbia e alle macchine la
massima forza. Subito dopo venne ordinato di mettere la barra a sinistra per
proteggere le unità della I Divisione con cortine di nebbia, ma l’ordine non
poté essere eseguito perché la seconda salva fece fermare le macchine e
immobilizzò il cacciatorpediniere con prora a ponente». Ginocchio decise di
non insistere ulteriormente per sé, ma il 24 aprile 1942 scrisse al Ministero
della Marina chiedendo che fossero concesse alcune decorazioni, a viventi ed
alla memoria, ad alcuni suoi uomini che erano stati segnalati come meritevoli
nelle relazioni dei suoi ufficiali, ma non nella sua (proprio perché già citati
dagli ufficiali), e che non avevano ricevuto nulla. Tornò invece sulla
questione della manovra tre anni dopo, nel luglio 1945, a guerra finita, quando
scrisse nuovamente al Ministero per ribadire che il Carducci, pur già colpito e con incendio a bordo, aveva compiuto la
manovra per coprire le altre unità, e che questa aveva permesso ad Oriani e Gioberti di salvarsi: «…Questa manovra occultò senz’altro il Gioberti che era in posizione avanzata, mentre
l’Oriani, che con la prima accostata
era un po’ scaduto, vi si infilò in mezzo riuscendo a far perdere le sue
tracce…». Non avendo avuto risposta, Ginocchio – che nel frattempo era stato
promosso capitano di vascello – sollecitò una replica nel dicembre 1946, e nel
maggio 1947, essendo state frattanto istituite le Commissioni d’Inchiesta
Speciali (CIS) su ciascuna delle navi perdute a Matapan, chiese agli uffici
competenti di trasmettere la documentazione da lui inviata ai membri della CIS.
Alberto Ginocchio e Vito Ninni con le mogli, Ada Marullo e Ninetta Colucci, presso la casa dei Ninni a Taranto (g.c. Giovanni Pinna) |
La CIS sulla perdita
del Carducci, istituita appunto a
inizio maggio 1947, era formata dagli ammiragli Gino Pavesi ed Arturo Solari, e
presieduta dall’ammiraglio Emilio Brenta; per prima cosa, oltre ad esaminare la
documentazione di Ginocchio (in tutto tre relazioni), la Commissione chiese a
Cimaglia e Ninni di stendere ciascuno una relazione particolareggiata degli
eventi che avevano visto protagonista il Carducci
dal momento dell’ordine di invertire la rotta per soccorrere il Pola. Ninni, nella sua relazione,
scrisse che dopo l’apertura del fuoco da parte delle corazzate britanniche il Carducci aveva accostato con tutta la
barra dritta sino ad assumere rotta ovest, portando le macchine alla massima
forza e stendendo una cortina fumogena con il nebbiogeno di poppa e quello del
fumaiolo. Pochi secondi dopo la nave era stata colpita, con conseguente avaria
del timone, e si era passati al timone a mano, dopo di che il Carducci era stato colpito ancora nei
locali caldaie, con gravi danni ed una diminuzione della velocità. La
Commissione esaminò anche la “Ricostruzione degli avvenimenti” compilata dal
Comando di Squadra nel maggio 1941 e gli atti dell’inchiesta sulla perdita
dello Zara, sede del Comando della I
Divisione, nonché quattro rapporti dell’Oriani,
un estratto di brogliaccio radio dell’Oriani,
due rapporti e due estratti di brogliacci radio del Gioberti ed una relazione di Sponza.
Nello stesso anno
venne anche pubblicato il libro “Gaudo e Matapan” scritto dall’ammiraglio
Iachino, che sull’azione del Carducci
ripeteva quanto l’ex comandante della Squadra Navale aveva già scritto nella
sua relazione anni prima: il cacciatorpediniere era stato immobilizzato dal
tiro britannico mentre si apprestava a stendere una cortina fumogena, quindi
prima di poterlo fare. Ginocchio, temendo che il libro potesse influenzare la
CIS, inviò a quest’ultima una nuova relazione con la quale aggiungeva altri particolari
e contestava quanto scritto dal suo vecchio comandante di squadra, che
affermava tra l’altro che il Carducci
aveva la prua verso ponente, a riprova che non aveva completato la sua manovra.
Ginocchio citò a sostegno di quando diceva il rapporto dell’Oriani e soprattutto quello del Gioberti, risalente al 30 marzo 1941
(prima ancora del salvataggio dei superstiti del Carducci), nel quale si diceva tra l’altro «…ore 22.32 (…) si scorge a non
più di trecento metri il Carducci in accostata verso sud già scaduto a poppavia
del traverso ed avvolto in una densa nube di fumo nero. (…) Ore 22.41 (…) in questo preciso momento un cacciatorpediniere, probabilmente il Carducci,
si infiamma al centro e si spezza in due…», il che contraddiceva
l’affermazione di Iachino che il Carducci
avesse la prua verso ovest.
La CIS sulla perdita
dello Zara (ammiragli Silvio Salsa,
Gino Ducci e Wladimiro Pini), che aveva svolto i suoi lavori qualche mese
prima, aveva analizzato brevemente anche le vicende che avevano coinvolto la IX
Squadriglia Cacciatorpediniere; in base a quanto concluso dalla Commissione le
quattro unità della squadriglia, venutesi a trovare improvvisamente sotto il
tiro britannico, avevano manovrato subito per disimpegnarsi, ed il tiro
britannico si era inizialmente concentrato su Alfieri e Carducci,
mentre Oriani e Gioberti erano stati lasciati relativamente indisturbati. L’Alfieri era stato subito immobilizzato,
mentre il Carducci, «facendo nebbia,
passò di poppa al Gioberti e finì per
coprire l’Oriani e forse appunto per
tale protezione essi andarono immuni dal tiro delle corazzate e furono i soli
superstiti della Divisione»: dunque si riconosceva la manovra del Carducci e la possibilità che essa fosse
il motivo per cui Oriani e Gioberti si erano salvati. La CIS dello Zara proseguiva poi dicendo che la
formazione italiana si era a quel punto divisa in due gruppi, uno formato da Zara, Fiume, Pola ed Alfieri ed un secondo composto da Oriani, Gioberti e Carducci che
si erano venuti a trovare ad ovest dei primi. L’Alfieri era affondato tra le 22.55 e le 23 e poco prima era colato
a picco il Carducci, spezzandosi in
due. I superstiti dello Zara avevano
riferito di aver visto dalla loro nave due cacciatorpediniere immobilizzati,
uno dei quali continuava a sparare mentre affondava (l’Alfieri) mentre l’altro aveva un grande incendio a bordo ed era
esploso dopo circa un’ora (il Carducci).
Esaminato tutto il
materiale disponibile, la CIS sul Carducci
scrisse nei suoi atti che «È dimostrato che la nave eseguì una seconda accostata
sulla sinistra», dando ragione a Ginocchio e torto a Iachino: il Carducci aveva realmente eseguito la
manovra ordinata da Ginocchio per coprire con cortine nebbiogene gli altri
cacciatorpediniere, non era stato immobilizzato prima di poterla compiere. Questa
era la conclusione che si poteva trarre dalle relazioni di Ginocchio, Ninni,
Cimaglia e dei comandanti di Oriani e
Gioberti. Tuttavia, la Commissione
giudicò anche che non era stata la manovra del Carducci a permettere ad Oriani
e Gioberti di salvarsi: vale a dire,
la nave di Ginocchio aveva effettivamente manovrato per coprire le unità
gemelle con una cortina fumogena, ma senza successo, ed Oriani e Gioberti erano
scampati alla strage per le loro pronte manovre e per il caso, e non per la
cortina del Carducci.
Sulla base dei
documenti disponibili, la CIS stabilì che dopo la seconda ed ultima accostata
del Carducci i tre superstiti
cacciatorpediniere della IX Squadriglia (l’Alfieri
era già stato immobilizzato) si erano venuti a trovare praticamente in linea di
rilevamento e con rotte parallele, nell’ordine Gioberti, Oriani e Carducci. I primi due avevano accostato
subito verso sud, il Carducci lo
aveva invece fatto solo dopo la seconda accostata, per correggere – in senso
inverso – l’eccessiva ampiezza della prima. Grosso modo le tre unità avevano
manovrato nello stesso modo, accostando quasi ad un tempo per 170°-180° circa;
il Carducci era stato colpito per la
prima volta durante la prima accostata, aveva iniziato ad emettere fumo alle
22.30 ed era stato immobilizzato alle 22.32, mentre compiva la seconda
accostata, circa un minuto e mezzo dopo aver ricevuto la prima salva e dopo
l’inizio dell’emissione di fumo. Dopo la prima accostata del Carducci, l’Oriani gli era passato di poppa, venendosi quindi a trovare tra
esso ed il Gioberti; aveva assunto
dapprima rotta 170° e poco dopo rotta 180°, vedendo sempre il Carducci a poppavia del traverso a
dritta, e vedendolo poi scadere gradualmente verso poppa. Il Gioberti aveva assunto prima rotta 170°
e poi, alle 22.32, rotta 210°. Il Carducci
e la cortina fumogena da esso stesa erano sempre rimasti ad ovest dal
“meridiano” costituito dalla rotta 180° assunta dall’Oriani. A meno che vi fosse stato un forte vento dal terzo al
quarto quadrante, l’Oriani non avrebbe
potuto pertanto infilarsi nella cortina fumogena del Carducci, essendogli passato di poppa e poi rimasto sempre a
sinistra: per coprire l’Oriani con la
cortina, il Carducci sarebbe dovuto
passare di prora all’Oriani, dalla
dritta alla sinistra di quest’ultimo, in modo che i tre cacciatorpediniere
fossero disposti nella successione Gioberti-Carducci-Oriani, mentre la successione effettiva era stata Gioberti-Oriani-Carducci. Di
conseguenza, la cortina fumogena stesa dal Carducci
non aveva avuto un ruolo nella fuga di Oriani
e Gioberti.
Così la CIS concluse
i suoi lavori relativi all’ultima azione del Carducci, con delibera del 25 settembre 1947. Il 25 ottobre Michele
Fontana, l’ex ufficiale di rotta del Carducci,
inviò alla Commissione una lunga relazione sui fatti del 28 marzo-2 aprile 1941.
In essa si diceva tra l’altro che Ginocchio aveva ordinato di mettere tutta la
barra a sinistra e di emettere nebbia dopo aver giudicato che l’incendio
causato dalla prima salva giunta a bordo era indomabile, stimando che se il Carducci avesse continuato a seguire Oriani e Gioberti, con l’incendio a bordo che lo rendeva facilmente
individuabile, avrebbe finito con l’attirare anche su di essi il tiro nemico.
L’accostata a sinistra avrebbe invece permesso di distogliere dalle unità
gemelle l’attenzione dei cannoni britannici, occultandole con la cortina
fumogena; il Carducci aveva dunque
accostato verso il nemico ed iniziato ad emettere nebbia, dopo di che era stato
colpito dalla seconda salva ed immobilizzato. Dopo aver preso in esame la
relazione di Fontana, il 10 dicembre 1947 la CIS redasse un supplemento a
quanto già scritto, nel quale si concludeva che tale relazione non apportava
elementi che potessero modificare il giudizio già espresso. Per il
comportamento tenuto durante i cinque terribili giorni trascorsi sulla zattera,
nei quali si era prodigato al massimo delle sue forze per tenere in vita i suoi
uomini, la CIS propose Ginocchio per il conferimento della Medaglia d’Oro al
Valor di Marina, decorazione conferita per atti di perizia marinaresca e
differente dalla Medaglia d’Oro al Valor Militare, insignita invece per fatti
d’arme. Anche la storia ufficiale della Marina Militare ("La Marina
italiana nella seconda guerra mondiale – La guerra nel Mediterraneo – Le azioni
navali: Tomo I, dal 10 giugno 1940 al 31 marzo 1941", USMM, 1959) si
sarebbe poi allineata a questo giudizio: «Il
Ct Carducci (…) accostò a dritta
insieme colle altre unità della sua squadriglia e cominciò a distendere una
cortina di nebbia artificiale. Aumentando di velocità, si spostò sulla destra
della formazione, ma poi mise il timone a sinistra, riprendendo press’a poco la
vecchia rotta. Il suo comandante, C.F. Ginocchio, ha riferito che egli
intendeva proteggere colla sua cortina di nebbia gli altri Ct della Squadriglia
ed eventualmente anche gli incrociatori, ma ciò gli fu impedito dai colpi che
investirono il caccia dall’inizio della nuova accostata e ben presto lo
immobilizzarono. La sua generosa manovra non poté quindi essere portata a
compimento; il Carducci non riuscì infatti mai a mettersi fra il nemico e gli
incrociatori della I Divisione, e i comandanti dei Ct Oriani e Gioberti che
sfuggirono alla distruzione, hanno escluso di aver potuto sottrarsi al tiro
nemico grazie alla cortina del Carducci», anche se più oltre il medesimo
testo afferma: «Il Ct Oriani (C.F.
Vittorio Chinigò), dopo avere accostato verso sud, riaccostò di altri 30° sulla
dritta per guadagnare cammino verso ponente, al riparo – sia pure per breve
tempo – della cortina che stava stendendo il Carducci, con l’intenzione di
passare dall’altro lato della formazione avversaria e attaccarla col siluro».
Occorre dire che
molti anni più tardi lo storico Francesco Mattesini, nella sua monografia "L’operazione
Gaudo e lo scontro notturno di Capo Matapan" pubblicata nel 1998
dall’Ufficio Storico della Marina Militare, è stato più possibilista sull’esito
della manovra del Carducci:
riprendendo in parte il giudizio espresso nel 1947 dalla CIS sulla perdita
dello Zara, egli ha infatti scritto
che «il Carducci, prima di arrestarsi
definitivamente [dopo aver compiuto le due accostate ed essere stato
colpito dalle salve che ne misero fuori uso l’apparato motore] continuò a venire a sinistra per abbrivio.
Nel contempo, dallo svuotamento delle caldaie che erano state colpite si
verificò una maggiore e vasta emissione di fumo, che poi servì a nascondere il Gioberti
e, in parte anche l’Oriani, agevolandoli nella loro manovra di disimpegno».
Nell’aprile del 1948
la relazione della CIS sulla perdita del Carducci
venne inviata all’ammiraglio Francesco Maugeri, capo di Stato Maggiore della
Marina, che dopo averla vagliata espresse un parere ancora più favorevole
rispetto a quello della CIS: ossia, che la manovra intrapresa dal Carducci per occultare le unità gemelle
meritasse riconoscimento al di là del fatto che avesse avuto successo o meno,
dal momento che il suo esito non mutava il valore di chi l’aveva intrapresa.
Maugeri elogiò la condotta del comandante Ginocchio e dell’equipaggio del Carducci, ed inoltrò all’Ufficio
Ricompense della Marina la proposta di commutare la Medaglia d’Argento al Valor
Militare, già conferita a Ginocchio nel 1941, in una Medaglia d’Oro al Valor
Militare, e di riesaminare anche le altre decorazioni conferite a caduti e superstiti
del Carducci, allo scopo di eliminare
le iniquità rispetto a quelle concesse agli uomini dell’Alfieri. Dal momento che l’Alfieri
aveva risposto al fuoco nemico ed il Carducci
no, infatti, nel 1941 si era presa la decisione generale di conferire all’equipaggio
del Carducci decorazioni di grado
inferiore rispetto a quelle insignite agli uomini dell’Alfieri, anche quando le azioni individuali alla base del
conferimento erano sostanzialmente simili: ad esempio, gli ufficiali dell’Alfieri distintisi nell’azione e poi nei
giorni trascorsi alla deriva avevano ricevuto medaglie d’argento, mentre agli
ufficiali del Carducci, protagonisti
di azioni analoghe, erano state concesse medaglie di bronzo. L’Ufficio
Ricompense era tuttavia indipendente, nelle sue decisioni, rispetto al Capo di
Stato Maggiore della Marina, che poteva soltanto esprimere un parere non
vincolante; e non furono apportate commutazioni od altre modifiche alle
decorazioni concesse. Nell’aprile 1950 venne invece conferita al comandante
Ginocchio la Medaglia d’Oro al Valor di Marina, ma il conferimento, come del
resto la proposta di Maugeri, giunse postumo.
Nel frattempo, infatti,
le condizioni di salute del comandante Ginocchio erano andate deteriorandosi: a
differenza dei suoi ufficiali, più giovani e forti, il comandante del Carducci non si era mai ripreso
completamente delle conseguenze dei cinque giorni trascorsi in balia del mare,
senza cibo né acqua. La sua vecchia colite, che si era aggravata dopo l’affondamento
del Carducci, andò via via peggiorando,
fino a costringere al ricovero dell’ufficiale. Il 6 dicembre 1947 il capitano
di vascello Alberto Manlio Ginocchio morì all’ospedale civile di La Spezia per
occlusione intestinale, infermità che venne riconosciuta come contratta per
causa di servizio. Aveva 46 anni. Fu lui, forse, l’ultima vittima della
terribile notte di Matapan.
Il Carducci nel 1938 (Coll. Luigi Accorsi, via www.associazione-venus.it) |
La motivazione della
Medaglia d’Argento al Valor Militare conferita al capitano di fregata Alberto
Manlio Ginocchio, nato a La Spezia il 29 novembre 1901:
“Comandante di
cacciatorpediniere, attaccato nella notte da superiori forze nemiche, abilmente
manovrava per proteggere con cortine di nebbia le altre unità del proprio
gruppo, prodigando con ardimento la sua opera sotto il violento e ininterrotto
fuoco avversario che provocava incendi e feriti a bordo. Resasi inutile ogni
ulteriore resistenza e presi gli opportuni provvedimenti per la salvezza
dell’equipaggio, ordinava l’affondamento della nave, che egli abbandonava per
ultimo. Nella lunga e fortunosa navigazione sulla zattera infondeva in tutti,
con elevato senso di abnegazione, serenità e coraggio.
(Mediterraneo
Orientale, 28 marzo 1941).”
La motivazione della
Medaglia d’Argento al Valor Militare conferita alla memoria del capitano del
Genio Navale Direzione Macchine Giuseppe Scelsa, nato a Palermo il 13 novembre
1899:
“Direttore di
macchina di cacciatorpediniere, gravemente colpito in un combattimento navale
notturno contro preponderanti forze nemiche, coadiuvava con serenità e fierezza
il comandante nell’attuazione delle misure necessarie per fronteggiare
l’attacco e prestare assistenza ai numerosi feriti a bordo. Mentre prodigava la
sua opera instancabile sotto l’intenso uoco nemico, scompariva nell’adempimento
del dovere.
(Mediterraneo
Orientale, 28 marzo 1941).”
La motivazione della
Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita alla memoria del sottotenente di
vascello Aldo Venticinque, nato a Roma il 12 giugno 1917:
“Imbarcato su
cacciatorpediniere, gravemente colpito durante uno scontro notturno con preponderanti
forze nemiche, coadiuvava il comandante con sereno coraggio e perizia nei
provvedimenti intesi a fronteggiare l’attacco. Intervenuto l’ordine di
abbandonare la nave in preda agli incendi, si prodigava per l’opera di
salvataggio del personale, finché, esaurite le forze, scompariva in mare
nell’adempimento del dovere”.
La motivazione della
Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita alla memoria del nocchiere di
seconda classe Augusto Simonelli, nato a Dosolo (Mantova) il 18 agosto 1906:
“Imbarcato su
cacciatorpediniere, gravemente colpito nel corso di un attacco notturno da
parte di preponderanti forze nemiche, pur avendo riportato una ferita durante
il combattimento, prestava con serenità e coraggio la sua opera per la messa in
mare delle imbarcazioni. Mentre era intento alle operazioni di salvataggio,
dolorante per la ferita e
stremato di forze,
scompariva in mare nell’adempimento del dovere.
(Mediterraneo
Orientale, 28 marzo 1941).”
La motivazione della
Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita alla memoria del nocchiere
Giuseppe Calafiore, nato a Messina il 6 maggio 1920:
“Imbarcato su
cacciatorpediniere gravemente colpito in un attacco notturno da parte di
preponderanti forze nemiche, rimaneva al suo posto di guardia al timone, incurante
della intensa e prolungata azione di fuoco avversaria. Con sereno coraggio e
ardimento assolveva il suo compito fino all’ordine di abbandonare la nave che
era in procinto di affondare.
(Mediterraneo
Orientale, 28 marzo 1941).”
La motivazione della
Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita alla memoria del capo meccanico
di seconda classe Angelo Guglielmi, nato ad Isernia il 29 giugno 1907:
“Imbarcato su
cacciatorpediniere, attaccato nella notte da forze nemiche superiori, si
adoperava con energia e sereno coraggio per le operazioni di allagamento dei
locali macchine colpiti. All’atto di abbandono della nave, si preoccupava più
che della propria salvezza, di cbiedere ordini per la bandiera di
combattimento, e scompariva con
l’unità che si
inabissava, nell’adempimento del dovere”.
La motivazione della
Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita alla memoria del secondo capo
meccanico Francesco Lezzi, nato a Novoli (Lecce) il 2 gennaio 1916:
“Imbarcato su
cacciatorpediniere, gravemente colpito in uno scontro notturno con
preponderanti forze nemiche, si adoperava con sereno coraggio e noncuranza del
pericolo per lo spegnimento di un incendio nel locale caldaie, proseguendo con
tenacia ed elevatissimo senso del dovere nella sua opera, nonostante fosse
ferito alle mani ed al viso.
Scompariva in mare
nell’affondamento dell’unità, nell’adempimento del proprio dovere.”
La motivazione della
Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita alla memoria del tenente del
Genio Navale Direzione Macchine Pasquale Astarita, nato a Meta (Napoli) il 5
maggio 1900:
“Imbarcato su
cacciatorpediniere, attaccato nella notte da preponderanti forze nemiche, si
prodigava con sereno coraggio, perizia e noncuranza del pericolo nel tentativo
di ripristinare l’efficienza dell’unità colpita e incendiata. Nell’adempimento
del dovere impostosi, scompariva in mare poco tempo prima che la nave
affondasse”.
La motivazione della
Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita al tenente di vascello Vito
Ninni, nato a Taranto:
“Ufficiale in 2a di
cacciatorpediniere colpito in combattimento notturno contro superiori forze
nemiche, coadiuvava il comandante attuando con calma e precisione, sotto
l’intenso fuoco dell’avversario, i provvedimenti intesi a fronteggiare
l’attacco.
Intervenuto l’ordine
di abbandonare la nave, si prodigava nella salvezza dell’equipaggio con
serenità e alto senso del dovere. Nella lunga permanenza in mare sulla zattera
teneva contegno esemplare e coraggioso.
(Mediterraneo
Orientale, 28 marzo 1941).”
La motivazione della
Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita al sottotenente del Genio Navale
Antonio Sponza, da Trieste:
“Imbarcato su
cacciatorpediniere gravemente colpito in un’azione notturna contro
preponderanti forze nemiche, eseguiva con serenità, sotto l’intenso fuoco
avversario, l’ordine del comandante relativo all’allagamento dei locali
macchine, rimanendo a bordo fino all’esplicito ordine di abbandonare la nave.
Prodigava, quindi, la sua opera per la salvezza dell’equipaggio, con elevato
senso del dovere.
(Mediterraneo
Onentale, 28 marzo 1941).”
La motivazione della
Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita al tenente di vascello Michele
Cimaglia, da Napoli:
“Imbarcato, quale
Direttore di tiro, su cacciatorpediniere gravemente colpito nella notte in uno
scontro con preponderanti forze nemiche, attuava con calma e perizia, sotto
l’intenso fuoco avversario, le direttive del comandante intese a fronteggiare
la situazione.
Ricevuto l’ordine di
accelerare l affondamento della nave eseguiva personalmente nel deposito di
munizioni la manovra prescritta, prodigando, quindi, con alto senso del dovere,
la sua opera la salvezza dell’equipaggio. Nella lunga permanenza in mare sulla
zattera era di esempio ai compagni per volontà, forza d’animo e sereno coraggio.
(Mediterraneo
Centrale, 28 marzo 1941).”
La motivazione della
Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita al sottotenente di vascello
Michele Fontana, da Molfetta (Bari):
“Imbarcato, quale
ufficiale di rotta, su cacciatorpediniere gravemente colpito durante un attacco
notturno di preponderanti forze nemiche, coadiuvava con serenità il comandante
nel fronteggiare la situazione, incurante dell’intenso fuoco avversario. Resosi
necessario l’abbandono della nave, si prodigava con elevato senso del dovere
per la salvezza dell’equipaggio. Nella lunga permanenza in mare sulla zattera
era di esempio ai compagni per volontà, forza d’animo e sereno coraggio.
(Mediterraneo
Orientale, 28 marzo 1941).”
La motivazione della
Croce di Guerra al Valor Militare conferita al marinaio Mario Rebora, nato a
Genova il 4 ottobre 1917:
“Imbarcato su C. T.,
attaccato nella notte da preponderanti forze nemiche, coadiuvava
volontariamente il D. T. scendendo nel deposito munizioni per tentame la
distruzione, malgrado l‘unità gravemente colpita fosse in procinto di
affondare. Raccolto su una zattera, prodigava per cinque giorni e cinque notti
efficace assistenza ai camerati”.
Il Carducci a Venezia, il 17 settembre 1938 (foto Aldo Fraccaroli, via Coll. Luigi Accorsi e www.associazione-venus.it) |
Il ricordo del
marinaio Cesare Montanari, da Cattolica (Rimini), imbarcato sul Carducci nella sua ultima missione (da
“Matapan, un superstite racconta” di Franco G. Mascilongo, su www.gradara.bcc.it):
“Marinaio di leva,
classe 1920, nel 1941 ero imbarcato sul Cacciatorpediniere Carducci, a posto di combattimento ero servente alle mitragliere
contraeree. Quindi ero in coperta e potevo rendermi conto, meglio di tanti
altri, di quello che succedeva attorno a noi, in mare ed in cielo. Il Carducci, Comandato dal CF Alberto
Ginocchio (un valoroso ufficiale che si salvò, si comportò da eroe e sarà poi
decorato con medaglia d’oro al valor di Marina), era un moderno
Cacciatorpediniere della “classe poeti” (Alfieri,
Carducci, Oriani, e Gioberti) da
1.400 tonnellate, 253 uomini di equipaggio. Questi formavano la 9a squadriglia
Cacciatorpediniere di scorta alla 1a divisione Incrociatori Pesanti che era
agli ordini dell’Ammiraglio di Divisione Carlo Cattaneo, con base a Taranto e
costituita dagli incrociatori Zara
(nave ammiraglia di Cattaneo), Fiume
e Pola. In gran segreto, la nostra
divisione lascia l’ormeggio di Taranto, la notte del 26 marzo 1941 per
raggiungere il giorno dopo la zona di operazioni che era stata tenuta
segretissima. Solo durante la navigazione veniamo a sapere che è in mare quasi
tutta la flotta italiana (o meglio quella momentaneamente disponibile dopo i
siluramenti, da parte degli aereosiluranti inglesi nel porto i Taranto di
qualche mese prima) al comando dell’ammiraglio di Squadra Angelo Iachino
imbarcato sull’Ammiraglia, la grande corazzata Vittorio Veneto. Navighiamo in linea di fila, in testa l’Alfieri caposquadriglia dei CC TT
(Comandante e Capo Squadriglia CV Salvatore Toscano) poi gli altri CC TT e poi
gli incrociatori, suona l’allarme sommergibili e si va al posto di
combattimento. Gli incrociatori aumentano la velocità, zigzagando molto alla
lunga, noi a tutta forza, forse 38 nodi [sic], giriamo attorno alla formazione
e lanciamo qualche bomba di profondità. Poi cessa l’allarme, si torna al posto
di navigazione (notturna), ma cambiamo formazione: l’Alfieri davanti agli incrociatori, noi sulla dritta, gli altri due,
che non riesco a vedere, sono uno dietro e uno a sinistra. Dopo un’ora circa,
nuovamente allarme sommergibili, eseguiamo le stesse manovre di prima, ma
l’allerta dura molto meno anche se lanciamo un maggior numero di bombe di
profondità. Qualcosa deve essere accaduto perché i sommergibili non vengono più
rilevati. Comincia ad albeggiare, incontriamo dei banchi di foschia e qualche
breve piovasco. I tedeschi ci avevano promesso la scorta degli aerei, ma non se
ne vedono e tanto meno speriamo in quelli italiani che hanno un minore
autonomia. La mattinata del 27 marzo va avanti sempre così. Nel pomeriggio
allarme aereo, tutti ai posti di combattimento ed io vado alla mia mitragliera.
Predisponiamo i caricatori mentre i puntatori brandeggiano le armi verso la
linea dell’orizzonte e attendono gli ordini, ma di aerei neppure l’ombra. Cessa
l’allarme, ma la calma dura poco, dopo una mezz’ora viene battuto posto di
combattimento per allarme aereo. Mi precipito alla mitragliera, passano 15 o 20
minuti e la foschia aumenta poi cessa posto di combattimento e guardie franche
libere, viene però rinforzato il servizio di vedetta. Poi cala la sera. Ho un
amico radiotelegrafista che quando scende dal quadrato RT mi aggiorna sulle
notizie che può racimolare, data la sua posizione di servizio, e questa volta
dice che durante la notte raggiungeremo la zona di operazioni che ci è stata
assegnata per la caccia ai convogli inglesi diretti in Grecia. Verso l’una di notte
allarme generale e posto di combattimento, non lascerò la mitragliera fino alle
13, dodici ore dopo, e consumeremo colazione e pranzo “al volo” nei rispettivi
posti di combattimento. Poco dopo l’alba, dello stesso 28 marzo, si ode un
rombo di cannoni lontani (sono quelli della Divisione “Trento” che si sta scontrando con gli inglesi). Ora notiamo che la
nostra formazione, al completo, sta invertendo la rotta ed aumenta di molto la
velocità, poi nel primo pomeriggio cessa posto di combattimento. Il mio amico
RT mi aggiorna che le operazioni sono annullate e che, forse, rientreremo alla
base. Per ora ci stiamo ricongiungendo al resto della flotta in mare,. Poco
dopo allarme aereo. Vediamo da dritta sei puntini neri verso la linea
dell’orizzonte. Si avvicinano velocemente. Le navi iniziano il fuoco di
sbarramento con i cannoni contraerei, tutta la divisione spara. I velivoli si
avvicinano, ora si distinguono bene, sembrano giocattoli, sono aerosiluranti
biplani, quelli con due ali, una sopra e una sotto. Intanto abbiamo raggiunto
la squadra navale, anch’essa sotto attacco aereo, siamo sulla sua destra e la
stiamo sorpassando lentamente (noi andiamo un po’ più forte). A questo punto
apriamo il fuoco anche con le mitragliere, ma gli aerei che sopraggiungono non ce
l’hanno con noi, ci passano di prua, li inseguiamo con le mitragliere mentre
dirigono verso il grosso della squadra navale. “Di sicuro cercano la Vittorio Veneto”, afferma un sergente
puntatore: ha ragione. Un altro gruppo di aerosiluranti sopraggiunge da poppa e
si dirige anch’esso verso il centro della grande formazione mentre noi abbiamo
diminuito la velocità e ci manteniamo al fianco di essa. Viene ordinato il
cessate fuoco, tutto finisce, poi verso le 15 ancora un gruppo di quattro aerei
da poppa, sempre aerosiluranti, si ripete il tiro contraereo. Ormai tutta la
flotta spara con i cannoni contraerei a tiro rapido, partono i proiettili con
detonazioni fitte e sorde: pom, pom, pom ed esplodono in alto formano tante
nuvolette di colore grigio-scuro: sembrano fuochi d’artificio. Sopraggiunge una
seconda squadriglia, ora sparano all’impazzata anche le mitragliere. Una terza
formazione di aerosiluranti (sei o otto) proviene dalla direzione opposta e si
sta alzando: ha già lanciato dall’altra parte. Uno di questi aerei esplode in
aria come una palla di fuoco e poi tanto fumo e tanti rottami che cadono in
mare. Un altro aerosilurante vola lasciando una lunga scia di fumo, poi si
abbatte in mare. Cessare il fuoco!! Cessato allarme!! Solo ora notiamo che le navi
del centro rallentano la marcia, e si intravvede la Vittorio Veneto, anche se lontana, che sembra fermarsi, anzi è
ferma, alcune navi accostano, altre invertono la rotta. Anche noi riduciamo la
velocità, ma manteniamo la nostra rotta. Poi vediamo la Vittorio Veneto che riprende velocità. È stata colpita gravemente e
le divisioni navali assumono una formazione di protezione all’Ammiraglia.
Mentre si aumenta progressivamente la velocità, la nostra divisione si dispone
a protezione del lato destro, affianca, quindi, il resto della Squadra sulla
dritta su due colonne parallele, all’interno, nell’ordine, Zara, Pola e Fiume, all’estrema destra, la fila dei
CC TT nell’ordine: Alfieri, Gioberti, Carducci e Oriani,
riusciamo a distinguere il Gioberti,
che ci precede, l’Oriani, l’ultimo,
che ci segue e poi sulla sinistra, di prua, il Pola e sempre sulla sinistra, verso poppa, il Fiume. Il Pola, poi, si
distingue molto bene perché non ha il fumaiolo di provavia distaccato dal
torrione come tutti gli altri incrociatori, ma ha una sagoma caratteristica e
molto originale con quel fumaiolo che fa corpo unico con il torrione della
plancia. Alle sette di sera un altro attacco aereo, ce la caviamo senza danni.
Alle 17,30 ancora un altro attacco, sta facendosi buio e speriamo sia l’ultimo.
Mentre la contraerea spara con cannoni e mitragliere, i CC TT accendono anche i
riflettori e puntano i fasci di luce sugli aerei per disorientare i piloti. Gli
aerosiluranti si avvicinano quasi a pelo d’acqua attraverso lo sbarramento del
tiro dei cannoni antiaerei a tiro rapido e delle raffiche delle mitragliere, si
avvicinano ancora e lanciano: uno, due, tre, quattro, cinque, sei siluri, forse
tutti a vuoto, poi ci sorvolano e virano un po’ a destra e un po’ a sinistra
alternati, uno di essi emette una piccola scia di fumo alternata a fiammate, ma
riesce, per ora, a seguire gli altri.. Un altro sembra in difficoltà più serie,
non vira, va dritto e perde quota, poi lo perdiamo di vista nel buio della
notte. Poi finalmente tutto finisce, tutto sembra in ordine anche se,
inspiegabilmente, il Pola, che
vediamo bene per la sua vicinanza e per la sia caratteristica sagoma, ha perso
velocità, lo sorpassiamo e ci scade di poppa, ma apparentemente non appare
colpito. Noi proseguiamo la nostra rotta, ormai è completamente notte, passano
le ore, il solito RT ci informa che il Pola
è in serie difficoltà e sembra che la nostra divisione debba tornare indietro a
raccogliere l’equipaggio e tentare il rimorchio. Poco dopo notiamo un intenso
scambio di segnali a lampi di luce tra l’ammiraglia Zara e il capo squadriglia CC TT Alfieri. Poi lo Zara
inverte la rotta, ci sfila controbordo a distanza ravvicinata e il Fiume lo segue. La nostra squadriglia si
posiziona in coda agli incrociatori, nell’ordine: Alfieri sempre davanti, Carducci
in seconda posizione e non più in terza, poi Oriani e Gioberti; questo
cambio di posizione, come vedremo, ci sarà fatale. Ora ci dirigiamo a gran
velocità verso il Pola che ha bisogno
di aiuto. Verso mezzanotte distinguiamo le sagome di alcune grosse navi da
guerra, cosa sta succedendo??? Un fatto è certo, il Pola non è solo. Non facciamo in tempo a renderci conto di questa
nuova situazione che da distanza molto ravvicinata si accendono alcuni
riflettori che illuminano prima il Fiume,
poi lo Zara e, contemporaneamente,
partono da poche miglia, forse tre, al massimo quattromila metri, le salve di
decine di cannoni di grosso calibro. È un inferno di fuoco, di fumo e di scoppi
assordanti, i due incrociatori ripetutamente colpiti, si incendiano con tante
esplosioni a bordo. Intanto l’Alfieri,
colpito, affonda, un proiettile ci prende in pieno, la coperta è tutta un fuoco
tra morti e feriti, poi arriva un altro colpo e poi, credo, un altro ancora. Il
Carducci è colpito a morte, ma ancora
va a tutta forza ed il comandante Ginocchio ordina di stendere una densa
cortina di nebbia artificiale per togliere dalla vista degli inglesi i caccia Oriani e Gioberti che, anche se colpiti, con morti e feriti a bordo, grazie
a questo intervento potranno tornare indietro e raggiungere la Sicilia.
Affondiamo velocemente, non c’è neanche il tempo di ordinare l’abbandono nave,
ci troviamo in mare tra le esplosioni. Tanti feriti che gridano e implorano
aiuto, si inabissano con la nave. Mi trovo in mare in mezzo ad un chiazza di
olio e nafta nera, c’è una zattera lì vicino, nuoto e la raggiungo, a bordo
alcuni marinai e due giovani ufficiali mi aiutano a salire. L’acqua è gelida ed
io tremo dal freddo. Tanti altri marinai salgono sulla zattera, forse una
ventina, troppi, siamo stipati come le sardine, non ce ne stanno più, quelli
che restano in acqua, e tra loro tanti feriti, si lamentano e gridano
aggrappati ai bordi esterni della zattera. Un ufficiale, forse il più anziano,
un STV, ordina che si faccia posto ai feriti. La zattera, ormai piena d’acqua,
si immerge ancora di più. Intanto ci avviciniamo con la corrente ad un’altra
zattera più stipata della nostra, poi ad un’altra quasi vuota e tanti
trasbordano su quella. Leghiamo insieme le tre zattere, saremo una quarantina
oltre a quelli in acqua aggrappati fuori bordo. Il caos è indescrivibile, il
mare è zeppo di relitti di ogni genere, di naufraghi vivi che si dibattono e
urlano e di morti che non si muovono più, ma galleggiano sui salvagente. Tanti
sono capitati nelle grandi chiazze di nafta incendiata, chi si trova dentro
muore bruciato tra urla disumane. Nessuno può far niente. Lì vicino un
cacciatorpediniere Greco e due Inglesi più lontani, con l’aiuto di fanali e
riflettori, cominciano a recuperare i naufraghi che si trovano in acqua, senza
curasi delle zattere. Il compito è difficile perché il mare non è calmo e con
le eliche in moto si rischia di travolgere e maciullare i naufraghi in acqua.
Verso l’alba iniziano a recuperare anche gli occupanti delle zattere più
malmesse o troppo piene. Poi, improvvisamente, le tre navi se ne vanno a tutta
velocità, sapremo poi che avevano avvistato degli aerei germanici. Ora inizia
il vero dramma, specialmente per chi è rimasto in acqua, mentre le correnti
disperdono e allontanano tra loro relitti e naufraghi. Sulle tre zattere siamo,
come dicevo, oltre quaranta. Io mi spoglio e faccio asciugare la divisa al sole
che è abbastanza forte. Il STV, il più alto in grado, ci dice che è necessario
dare il cambio ogni tanto a quelli che sono in acqua. Lui stesso dà l’esempio
per primo, non lo vedremo più. Purtroppo l’avvicendamento non avviene, molti
salgono, ma nessuno scende e le zattere corrono il rischio di rovesciarsi.
Arriva la notte, la prima delle cinque terribili notti. All’alba del giorno
dopo, 30 marzo, non c’è quasi più nessuno aggrappato fuori bordo: non c’e
l’hanno fatta o si sono lasciati andare. A bordo sei feriti gravi sono già
morti, altri moriranno la notte successiva. Il 31, in acqua, non c’è più
nessuno vivo, solo cadaveri che galleggiano con i salvagente. Restano quelli
sulle zattere, centinaia e centinaia, sparsi per il mare, aggrappati alla
speranza che si affievolisce sempre di più. (…) Ormai eravamo rimasti in sei,
di cui uno in fin di vita, a un certo momento, nel primo pomeriggio, un
marinaio si alza, indica con il dito verso l’orizzonte e grida. La! Laggiù! Il Colleoni, il Colleoni che è tornato a galla e ci viene a salvare!!! Ho saputo in
seguito che anche altri naufraghi, presi dalla follia, hanno creduto di vedere
il Colleoni che sorgeva dall’acqua.
La vicenda dell’incrociatore leggero Bartolomeo Colleoni, affondato in combattimento dagli inglesi a Capo Spada nei
primi mesi di guerra aveva scosso i marinai, il fatto era nella mente di tutti
perché era stata la nostra prima grande nave affondata in guerra. Poi il
marinaio si getta in mare e nuota furiosamente, si allontana, le forze gli
vengono a meno e va a fondo. Il giorno dopo, eravamo rimasti vivi in quattro,
un gabbiano si posa sul bordo della zattera, noi non abbiamo più le forze per
muoverci. Ormai siamo convinti di non farcela più, l’unica speranza di rimanere
ancora in vita o di prolungare di qualche giorno l’esistenza era rappresentata
dalla cattura di uno di quei gabbiani che ci volavano sopra le teste. Non è
un’impresa facile, noi cerchiamo di affinare e perfezionare le tecniche di
cattura, tempo di pensare e di studiare ne abbiamo tanto durante la giornata.
Teniamo a portata di mano un piccolo remo, molto leggero, ma, scartata
l’ipotesi e la possibilità di prenderne uno al volo, cerchiamo di capire come
si possa fare per catturare uno di quelli che qualche volta si posano sul bordo
della zattera che, però, sono estremamente diffidenti. Finalmente, nel
pomeriggio, se ne posano due sul bordo, io prendo il remo, lo alzo lentamente,
poi lo calo giù verso il gabbiamo e lo colpisco. E’ fatta! Lo prendiamo, lo
spezziamo in quatto parti e cominciamo a succhiarlo e poi a mangiarlo crudo. E’
la nostra salvezza, riprendiamo un po’ di forze Nel pomeriggio dell’ultimo
giorno, dopo cinque giorni e cinque notti, vediamo improvvisamente qualcosa che
si avvicina, lentamente distinguiamo una nave tutta bianca. Poi distinguiamo le
croci rosse sui fumaioli e sulle fiancate,.non ci sono più dubbi, è una nave
ospedale, il Gradisca. Si ferma e
mette in mare una motolancia ed un motoscafo. Mentre la motolancia dirige verso
altre zattere più lontane, il motoscafo punta su di noi. Già, puntava proprio
su di noi!!!! La tragedia era finita in bene. Quando ho visto il motoscafo del Gradisca che si avvicinava ho delirato,
non sono stato più padrone di me stesso, sono caduto nell’acqua all’interno
della zattera che era semiaffondata, forse ho riso, forse ho cantato, sono
svenuto, mi sono ripreso in braccio ad un Marinaio, un Tenente di Vascello mi
porge le mani per aiutarmi a salire sul motoscafo, sentivo che mi diceva a voce
bassa e dolce: forza marinaio, ce l’hai fatta, fatti forza, non cedere proprio
ora... nel letto dell’ambulatorio, sotto la lampada un ufficiale medico mi
visitava e dava i primi ordini ad un sergente infermiere e a due crocerossine
che attorniavano il lettino, io chiedevo solo acqua, acqua, acqua, a parte il
gabbiano succhiato, non bevevo da 5 giorni... Acqua... Mi passavano sulle
labbra garze umide non so di cosa... poi acqua e aranciata (almeno credo) piano
piano con un cucchiaino da caffè, mi sono trovato in un letto con un pigiama
bianco, pulito e, quel che più conta asciutto. Grandi queste crocerossine piene
di premure, sempre presenti, sempre vicine con acqua o liquidi di altro genere,
sempre somministrati con garze, cucchiaini o al massimo cucchiai. Noi eravamo
arsi dalla sete, una sete che ci prendeva alla testa, una sete infernale, e
queste che ci dicevano: piano… poco…un poco alla volta... non potete più di così.
E il dottore che ci visitava ogni tanto e ci chiedeva: come stai??... sto come
il famoso pesce nel pagliaio. Col passare delle ore si migliorava, tornavano le
forze ed i “sentimenti”, come diciamo a Cattolica (cioè la capacità
intellettiva) e allora qualcuno scherzava, un dottore voleva sapere cosa voleva
dire “un pesce nel pagliaio”. Una crocerossina disse allora: Mettere un pesce
in un pagliaio ed un essere umano sottacqua sono la stessa cosa. Il giorno in
cui mi diedero finalmente un tazza di brodo fu una gran festa... ma dopo la
sete si sentiva ora la fame, la fame dei vent’anni sommata a vari giorni,
cinque, di digiuno totale. Il personale sanitario ci rincuorava dicendoci:
quando il malato ha fame vuol dire che è guarito. Bella soddisfazione!!!! Scampato
il pericolo, ci avvicinavamo ai bisogni materiali, terreni, di poca
spiritualità: calmare la fame. Anche se ora si gonfiavano gambe e braccia in un
modo impressionante, per la lunga permanenza in acqua, e allora via con
massaggi, frizioni e anche iniezioni per riattivare la circolazione. Ma, a dire
il vero, tutto passò in poco tempo. Ci eravamo salvati, almeno per ora, in
guerra non si sa mai. Le crocerossine in particolare avevano un entusiasmo ed
una volontà pari alla gioia di averci salvato con questa nave bianca. Molte
erano infatuate dalla propaganda dell’epoca, ci vedevano degli eroi e parlavano
di “Vittoria e Destini della Patria”. Noi ci vergognavamo, anche se avevamo
fatto il nostro dovere di italiani con coraggio e sacrificio, ci sentivamo dei
poveri disgraziati e non vedevamo l’ora di tornare a casa, la nostra felicità
non era dovuta tanto al fatto di essere ancora vivi, quanto che le nostre
famiglie che non avrebbero dovuto piangerci morti o dispersi in mare. Tutti
pensavamo alle mamme, alle mogli, ai figli e, a volte, anche alle difficoltà
che avremmo trovato a casa, dovute alla miseria di quei tempi. Ma quando il Gradisca invertì definitivamente la
rotta, la nostra felicità si trasformò in malinconia, pensando che laggiù, a
sud, su quel mare che stava diventando scuro nella sera, oltre la riga
dell’orizzonte, quanti compagni speravano ancora dopo otto giorni di lenta
agonia, senza bere, senza mangiare, senza il conforto di nessuno, specialmente
quelli rimasti soli, per quante ore ancora avranno urlato, pianto invano nel
cuore della notte in attesa di una morte tremenda e orribile, forse avranno
avuto il coraggio, come già tanti altri avevano fatto, di sganciarsi il
salvagente e lasciarsi affondare. Noi preferimmo immaginarli già morti.”
Il Carducci nel 1939 (Coll. E. Bagnasco, dal libro di M. Brescia “Mussolini’s Navy: A Reference Guide to the Regia Marina 1930-1945”, Naval Institute Press, 2012) |
mio padre, Laerte Bergonzoni, era uno dei superstiti dell'affondamento del Carducci; il ricordo della tragedia della notte di Matapan gli è sempre rimasto nel cuore; è morto a Ferrara nel 1978
RispondiEliminaMio zio era il marinaio silurista Zanetta Serafino disperso: dissero ai miei zii dopo la guerra che era morto per le ustioni sulla zattera dopo l'affondamento della Carducci
RispondiEliminaAmleto Galgani era lo zio di mio padre. La mia bisnonna non seppe mai che fine avesse fatto. Grazie per la tua ricerca, adesso sappiamo cosa gli successe. Ingenuamente, in cuor nostro, abbiamo sempre sperato che fosse riuscito a fuggire e a raggiungere gli Stati Uniti come sognava da ragazzino. Aveva 21 anni quando morì
RispondiEliminaSono Patrizio Ninni, figlio del T.V. Vito Ninni che ha partecipato alla battaglia di Capo Matapa. Ho letto con grande emozione questo blog e la ringrazio infinitamente per aver ricostruito con dovizia di particolari e precisione di dati questo tragico episodio. Altri libri che ho letto non trasmettevano lo stesso pathos. Ovviamente la storia mi era nota perchè raccontata da mio padre tanti anni fa. Complimenti per la ricostruzione storica e grazie ancora.
RispondiEliminaLa ringrazio.
EliminaGrazie mio padre mai disse una parola su questo infermo.
RispondiEliminaUomini di altri tempi
Grazie, iteressante! Ho ordinato il libro, sulla Carducci perse la vita un mio cugino Alceste Vusio. Fu dato per disperso, la sua pietra commemorativa si trova nel Parco delle Rimembranze a Trieste. Io possiedo la foto di Alceste e il documento con cui mio trisnonno suo omonimo lo cercò disperatamente. Mia nonna aveva anche le cartoline che le aveva inviato quando era imbarcato, ma non sono in mio possesso.
RispondiEliminaQuesto commento è stato eliminato dall'autore.
RispondiEliminaMi chiamo Umberto Savini e sono il figlio del Capo Furiere di 3^ Classe Remigio Savini, imbarcato sul Cacciatorpediniere Giosuè Carducci dalle origini della nave e deceduto a seguito della battaglia di Capo Matapan.
RispondiEliminaMi complimento e ringrazio per questo lavoro impegnativo e particolareggiato nel quale ho letto con emozione integrazioni a cose conosciute e che mi ha indotto a confronti con mie letture precedenti e con la documentazione in mio possesso.
In spirito di collaborazione, vorrei permettermi qualche precisazione.
1 - Mio padre, che non era elettricista ma come detto Capo Furiere, probabilmente non morì nel corso della battaglia ma su una zattera dalla quale sarebbe stato sfilato a mare al momento del decesso. Di ciò mi avrebbe convinto la lettura di "Morte per acqua a Capo Matapan" rapportata a una nota del 1942 della Regia Marina che, accompagnando la restituzione a mia madre di documenti e oggetti, li dichiarava ",,,comprovanti che vostro marito è stato scoperto in un tratto di mare vicino a Tobruch...". Inoltre un altro documento, sempre del 1942 e della stessa fonte, dichiara "... di non poter procedere ad alcuna rettifica dalla posizione di disperso a caduto..." e conferma la promozione come Capo Furiere "dalla 2^ alla 3^ classe a far data dal 1° gennaio 1941".
2 - Il 25 maggio 1938 la nave era a Tripoli quasi sicuramente per una crociera. Lo testimonia una sequenza di 14 foto fatte da mio padre. Documentano una lieta libera uscita di marinai in quella città.
3 - La bandiera di combattimento fu consegnata nel corso di una cerimonia che ebbe luogo a La Spezia il 16 giugno 1938 e non il 19 luglio. Nell'album fotografico di mio padre sono contenute 13 foto di grande formato a testimoniare l'evento con didascalie illustrative, data compresa, scritte di suo pugno.
4 - Nello stesso album vi sono poi alcune foto della rivista navale in onore del Principe Reggente Paolo di Jugoslavia, evento svoltosi nel maggio 1939 a Napoli. Mio padre documentava solo eventi a cui avesse direttamente preso parte e quindi sono propenso a ritenere che anche il RCT Carducci abbia partecipato a questo evento.
Ringrazio per l'attenzione e resto a disposizione.
3 -
Buongiorno,
Eliminala ringrazio. Apporterò le correzioni alla pagina al mio ritorno dalle vacanze, nella seconda metà del mese.
mio nonno era il capo cannoniere Francesco Marino, disperso in mare
RispondiEliminaBuonasera e grazie per questi racconti, queste informazioni davvero emozionanti. Conservo a casa foglio e croce di guerra del fratello di mio nonno marinaio fuochista Minniti Domenico imbarcato sul carducci e grazie a questa pagina ho capito com' è andata più di preciso. Se volessi informazioni dei miei nonni che combatterono anche loro la seconda guerra mondiale ma sopravvissuti e morti dopo, cosa dovrei fare? So, ad esempio, che mio nonno paterno era stato prigioniero dei tedeschi me lo raccontava lui ma io ero piccolo, mentre mio nonno materno(che giusto in questi giorni ho trovato una sua medaglietta) mi raccontano che lo trovarono in acqua con una grossa ferita alla testa, ma volevo sapere in che battaglia e su che nave era. Ancora grazie.
RispondiEliminaBuonasera,
Eliminapuò scrivere all'Archivio di Stato della loro provincia di nascita richiedendo il loro foglio matricolare: è un documento in cui è registrata tutta la vita militare di ciascun soldato, con i reparti/navi su cui ha prestato servizio e relativi periodi, date di naufragi, ferimenti, cattura, malattia od altri eventi rilevanti.
Sono Domenico Izzo figlio del cap.Arcangelo Izzo imbarcato sulla nave ospedale Gradisca. "Capo Matapan" era una costante dei racconti di guerra di mio padre.
RispondiEliminaComplimenti sinceri all'autore di queste pagine Lorenzo Colombo, che ha dimostrato serietà , precisione e tanto affetto nello stilare le ricerche sul disastro di Matapan. Tra i dispersi del Carducci ,ho letto il nome di un mio cugino, conosciuto come AMELIO GULMINI, ma nell'elenco è riportato col nome di Mario. A meno che non avesse due nomi ed elencato col primo nome. Grazie agli autori di queste ricerche e, in particolare , a Lorenzo Colombo.
RispondiEliminaGianni GULMINI , Carugate (MI)
Buongiorno,
Eliminala ringrazio. Dagli elenchi della Marina ed anche dalla banca dati online di Onorcaduti (https://www.difesa.it/Il_Ministro/ONORCADUTI/Pagine/Amministrativo.aspx) il nome risulterebbe essere Mario Gulmini, nato a Corbola l'8 settembre 1917. Forse era noto come Amelio ma non registrato con questo nome all'anagrafe?
Buongiorno, ho il volume Caduti e Dispersi MM vol 1-A-D . Se volete ve lo trasmetto.
RispondiEliminaalbino@lovera.it
Cordialita'
Buongiorno,
Eliminala ringrazio, possiedo già tutti e tre i volumi.
Cordialmente,
Lorenzo Colombo
Il nome esatto del sergente cannoniere disperso era Catullo Balducci. Grazie davvero.
RispondiElimina