La Francesco Barbaro a Trieste il 19 aprile 1941, dopo la ricostruzione della prua, lesionata da una mina (g.c. Giorgio Parodi via www.naviearmatori.net) |
Motonave da carico
di 6343 tsl, 3708 tsn e 10.318 tpl, lunga 134,11 metri, larga 18,44 e pescante
9,11, con velocità di 14,7 nodi. Appartenente alla Società Italiana di
Armamento (SIDARMA) con sede a Fiume, iscritta con matricola 99 al
Compartimento Marittimo di Fiume.
La Barbaro faceva parte di una serie di sei
moderne motonavi gemelle ordinate dalla SIDARMA ai CRDA di Monfalcone alla fine
degli anni Trenta, quando la società aveva aderito alla Legge Benni del 1938,
un piano statale di incentivi agli armatori che mirava al rinnovamento della
flotta mercantile italiana (obiettivo della legge era la costruzione, nel giro
di dieci anni, di ben 2.500.000 tsl di naviglio mercantile). Le altre cinque
erano Marco Foscarini, Vettor Pisani, Andrea Gritti, Pietro Orseolo
e Sebastiano Venier, tutte battezzate
con nomi di dogi ed altri notabili veneziani, e tutte poi perdute in guerra
(anche se la Vettor Pisani venne
successivamente recuperata e rimessa in servizio).
La SIDARMA era
stata una delle prime compagnie italiane ad aderire alla Legge Benni (cosa che
fecero poi tutte le principali società di navigazione del Paese), ed anche una
di quelle che ordinarono più navi: ben nove motonavi da carico di 6300-6400 tsl
(tra cui appunto la Barbaro e le
cinque gemelle; le altre tre, completate nel 1943, erano anch’esse pressoché
uguali alle prime sei, e ricevettero i nomi delle prime tre navi del gruppo
originario ad essere affondate in guerra: Foscarini,
Gritti e Venier) e tre motocisterne da 8400 tsl. Tra i tipi di navi di cui
si proponeva la costruzione, per la Barbaro
e le gemelle la SIDARMA aveva scelto il secondo tipo: navi per trasporto di
merci varie con ampie stive e corridoi, grandi boccaporti, picchi di carico di
elevata portata, verricelli elettrici e due bighi di forza per i colli pesanti;
propulse da motori diesel FIAT a due tempi e doppio effetto e 6 cilindri che
permettevano elevata potenza e velocità (circa 15 nodi, una buona velocità per
una nave mercantile dell’epoca) e ridotti consumi.
La Barbaro e le gemelle, una volta
completate, sarebbero state impiegate sulle linee commerciali per trasporto
merci e passeggeri Genova-Napoli-Marsiglia-Cadice-La Guaira-Curaçao-L’Avana-Veracruz-New
Orleans-Houston (o Galveston). La guerra, ovviamente, vanificò tali piani, dato
che le moderne unità vennero immediatamente requisite per trasportare
rifornimenti in Libia.
La breve vita della
Francesco Barbaro fu caratterizzata
da un particolare accanimento della sfortuna: per ben tre volte, quasi esattamente
ad un anno di distanza l’una dall’altra (e sempre di settembre: nel 1940, nel
1941, nel 1942), venne colpita da mine o siluri, riportando danni gravissimi
nei primi due casi, ed affondando nel terzo ed ultimo. In ventisette mesi di
esistenza, la Barbaro fu di fatto in
condizioni di navigare soltanto per sette od otto mesi complessivamente,
passando il resto del tempo in cantiere per riparazioni.
Breve e parziale cronologia.
26 ottobre 1939
Impostata nei
Cantieri Riuniti dell’Adriatico di Monfalcone (numero di costruzione 1234).
6 aprile 1940
Varata nei Cantieri
Riuniti dell’Adriatico di Monfalcone.
23 giugno 1940
Completata per la
Società Italiana di Armamento (SIDARMA) con sede a Fiume.
24 giugno 1940
Requisita a Trieste
dalla Regia Marina, senza essere iscritta nel ruolo del naviglio ausiliario
dello Stato.
7 luglio 1940
La Francesco Barbaro salpa da Catania a
mezzogiorno diretta in Libia, nell’ambito dell’Operazione «TCM» (Terra, Cielo,
Mare), con la scorta delle torpediniere Giuseppe
Missori (per altra versione, Giuseppe
Cesare Abba) e Rosolino Pilo.
Più tardi nello
stesso giorno, la Barbaro e le
due torpediniere si uniscono al convoglio principale, formato dai trasporti
truppe Esperia e Calitea e dalle motonavi da carico Marco Foscarini e Vettor Pisani, scortate dalle
torpediniere Orsa, Procione, Orione e Pegaso della
IV Squadriglia.
Mentre il convoglio
si trova in Mar Ionio, Supermarina viene informato che alle otto del mattino
dello stesso 7 luglio la Forza H britannica (portaerei Ark Royal, corazzate Valiant e Resolution, incrociatore da battaglia Hood, incrociatori leggeri Arethusa, Delhi ed Enterprise, cacciatorpediniere Faulknor, Foxhound, Fearless, Douglas, Active, Velox, Vortingern, Wrestler, Escort e Forester) è uscita in mare da Gibilterra. Scopo di tale uscita
(operazione «MA 5») è attaccare gli aeroporti della Sardegna, per distogliere
l’attenzione dei comandi italiani da un traffico di convogli tra Alessandria a
Malta (due convogli di mercantili per l’evacuazione di civili e materiali da
inviare ad Alessandria, ed uno di cacciatorpediniere con alcuni rifornimenti
per Malta), con l’appoggio dell’intera Mediterranean Fleet (corazzate Warspite, Malaya e Royal Sovereign, portaerei Eagle, incrociatori leggeri Orion, Neptune, Sydney, Gloucester e Liverpool, cacciatorpediniere Dainty, Defender, Decoy, Hasty, Hero, Hereward, Hyperion, Hostile, Ilex, Nubian, Mohawk, Stuart, Voyager, Vampire, Janus e Juno); questo, però, non è a conoscenza
dei comandi italiani, che decidono di fornire protezione al convoglio diretto a
Bengasi, facendo uscire in mare l’intera flotta italiana.
La scorta diretta
viene così rinforzata dalla II Divisione Navale, con gli incrociatori Bande Nere e Colleoni, dalla X Squadriglia
Cacciatorpediniere con Maestrale, Grecale, Libeccio e Scirocco,
e dalle torpediniere Pilo e Missori; quale scorta a distanza, escono
in mare la 1a Squadra Navale con le Divisioni IV (incrociatori
leggeri Alberico Da Barbiano, Alberto Di Giussano, Luigi Cadorna ed Armando Diaz), V (corazzate Giulio Cesare e Conte di Cavour) e VIII (incrociatori
leggeri Luigi di Savoia Duca
degli Abruzzi e Giuseppe
Garibaldi) e le Squadriglie Cacciatorpediniere VII (Freccia, Dardo, Saetta, Strale), VIII (Folgore, Fulmine, Lampo, Baleno), XIV
(Leone Pancaldo, Ugolino Vivaldi, Antonio Da Noli), XV (Antonio Pigafetta, Nicolò Zeno) e XVI (Nicoloso Da Recco, Emanuele
Pessagno, Antoniotto Usodimare),
e la 2a Squadra Navale con l’incrociatore pesante Pola (nave ammiraglia), le
Divisioni I (incrociatori pesanti Zara, Fiume, Gorizia), III (incrociatori pesanti Trento e Bolzano)
e VII (incrociatori leggeri Emanuele
Filiberto Duca d’Aosta, Eugenio
di Savoia, Raimondo Montecuccoli e Muzio Attendolo) e le Squadriglie
Cacciatorpediniere IX (Vittorio Alfieri, Alfredo Oriani, Vincenzo Gioberti, Giosuè Carducci), XI (Aviere, Artigliere, Geniere, Camicia Nera), XII (Lanciere, Carabiniere, Ascari, Corazziere) e XIII (Granatiere, Bersagliere, Fuciliere, Alpino). Pola, I e III Divisione, con le relative
squadriglie di cacciatorpediniere (IX, XI e XII), si posizionano 35 miglia ad
est del convoglio, per proteggerlo da un attacco navale proveniente da est,
mentre la VII Divisione e la XIII Squadriglia, posizionate 45 miglia ad ovest,
forniscono protezione da attacchi provenienti da Malta; il resto della flotta
(IV, V e VIII Divisione, VII, VIII, XIV, XV e XVI Squadriglia) forma infine un
gruppo di sostegno. Non è tutto: viene organizzata un’intensa ricognizione
aerea con grandi aliquote dei velivoli della ricognizione marittima, il
posamine ausiliario Barletta viene
inviato a posare mine a protezione del porto di Bengasi, e vengono inviati in
tutto 14 sommergibili in agguato nel Mediterraneo orientale.
L’avvistamento
anche della Mediterranean Fleet, uscita da Alessandria nel pomeriggio del 7 –
come si è detto – per proteggere i convogli con Malta, non fa che confermare la
convinzione di Supermarina circa la necessità delle misure adottate.
Il convoglio,
procedendo a 14 nodi, segue rotta apparente verso Tobruk fino a giungere in un
punto situato 245 miglia a nordovest di Bengasi, quindi assume rotta verso
quest’ultimo porto; dopo altre 100 miglia il convoglio si divide, lasciando
proseguire a 18 nodi le più veloci Esperia e Calitea, mentre Barbaro, Foscarini e Pisani mantengono una velocità di
14 nodi.
8 luglio 1940
All’1.50
l’ammiraglio Inigo Campioni, comandante della flotta italiana, a seguito di
avvistamenti della ricognizione che rivelano la presenza in mare della
Mediterranean Fleet britannica (anch’essa uscita a tutela di convogli), ordina al
convoglio, che si trova in rotta 147° (per Bengasi) di assumere rotta 180°, in
modo da essere pronto ad essere dirottato su Tripoli in caso di necessità. Alle
7.10, appurato che la Mediterranean Fleet non può essere diretta ad
intercettare il convoglio, Campioni ordina a quest’ultimo di tornare sulla
rotta per Bengasi.
La Barbaro e le altre navi del
convoglio entrano a Bengasi tra le 18 e le 22, così concludendo la traversata
senza inconvenienti. In tutto, il convoglio porta in Libia 2190 uomini (1571 sull’Esperia e 619 sulla Calitea), 72 carri armati M11/39, 232
automezzi, 5720 tonnellate di carburante e 10.445 tonnellate di rifornimenti. Di
questo quantitativo complessivo, la Barbaro ha
trasportato 56 autoveicoli e 5720 tonnellate di carburanti e lubrificanti in
fusti. A causa delle scarse capacità logistiche del porto di Bengasi, ci
vorranno dieci giorni per scaricare le tre motonavi da carico.
Durante la
navigazione di rientro alle basi, la flotta italiana si scontrerà con quella
britannica, nell’inconclusivo confronto divenuto poi noto come battaglia di
Punta Stilo.
19 luglio 1940
Alle sei del
mattino Barbaro, Foscarini, Pisani, Esperia e Calitea lasciano Bengasi per
tornare in Italia. La scorta diretta è costituita ancora dalla XIV Squadriglia
Torpediniere (caposcorta Procione,
nonché Orsa, Orione e Pegaso), poi rinforzata in mattinata dalla X Squadriglia
Cacciatorpediniere (Maestrale, Grecale, Libeccio, Scirocco)
proveniente da Tripoli. Per scorta indiretta esce da Taranto l’VIII Divisione
Navale (Duca degli Abruzzi e Garibaldi) con i relativi
cacciatorpediniere, mentre la III Divisione si tiene pronta a Messina, per
intervenire rapidamente in caso di necessità.
21 luglio 1940
Il convoglio arriva
a Napoli alle 00.30, senza che si siano manifestati problemi.
27 luglio 1940
La Barbaro salpa da Napoli alle 5.30
diretta a Tripoli, in convoglio con i piroscafi Maria Eugenia, Bainsizza e Gloriastella e le motonavi Mauly, Col di Lana e Città di
Bari, nell’ambito dell’operazione «Trasporto Veloce Lento» (T.V.L.). Si
tratta del convoglio lento, avente velocità 7,5 nodi, la cui scorta diretta
consiste nelle torpediniere Procione (caposquadriglia), Orsa, Orione e Pegaso della
IV Squadriglia.
A protezione di
questo e di un secondo convoglio diretto a Bengasi (quello veloce, che procede
a 16 nodi: trasporti truppe Marco
Polo, Città di Palermo e Città di Napoli, torpediniere Alcione, Airone, Aretusa ed Ariel) saranno in mare, dal 30 luglio al
1° agosto, gli incrociatori pesanti Pola, Zara, Fiume, Trento e Gorizia (I Divisione), gli
incrociatori leggeri Alberico Da
Barbiano ed Alberto Di
Giussano della IV Divisione e Luigi
di Savoia Duca degli Abruzzi, Eugenio di Savoia, Raimondo Montecuccoli e Muzio Attendolo della VII
Divisione, e le Squadriglie Cacciatorpediniere IX (Alfieri, Oriani, Gioberti, Carducci), XII (Lanciere, Corazziere, Carabiniere, Alpino),
XIII (Granatiere, Bersagliere, Fuciliere, Ascari) e
XV (Pigafetta, Malocello, Zeno). Sempre a copertura di questi movimenti, viene anche ordinato
di potenziare lo schieramento dei sommergibili nei due bacini del Mediterraneo
(23 unità in tutto) e vengono disposte capillari ricognizioni con aerei della
ricognizione marittima e dell’Armata Aerea.
L’operazione
T.V.L., oltre ai due convogli citati, ne comprende anche un terzo (piroscafi Caffaro e Bosforo, torpediniere Vega,
Perseo, Cascino e Papa) partito
da Trapani e diretto a Tripoli.
28 luglio 1940
A seguito
dell’avvistamento di notevoli forze navali britanniche uscite in mare sia da
Alessandria (il grosso della Mediterranean Fleet) che da Gibilterra
(l’incrociatore da battaglia Hood,
le corazzate Valiant e Resolution e le portaerei Argus ed Ark Royal), i due convogli dell’operazione T.V.L. ricevono ordine
da Supermarina di rifugiarsi immediatamente nei porti della Sicilia.
Il convoglio lento
giunge a Catania in serata e vi sosta per due giorni.
30 luglio 1940
Passata la
minaccia, il convoglio riparte in mattinata da Catania, con il rinforzo della X
Squadriglia Cacciatorpediniere (Maestrale, Grecale, Libeccio e Scirocco)
Intorno alle 14 il
convoglio viene attaccato, circa 20 miglia a sud di Capo dell’Armi (ed a
sudovest di Capo Spartivento), dal sommergibile britannico Oswald (capitano di corvetta David
Alexander Fraser), che lancia alcuni siluri contro il Grecale e la Col di
Lana: il cacciatorpediniere riesce però a schivare le armi, che mancano
anche la motonave. (La data dell’attacco è tuttavia visibilmente incongruente
con quella della partenza del convoglio da Catania: ad ora l’autore non ha
trovato una spiegazione, se non che una delle due date dev’essere errata). L’Oswald lancia via radio un segnale
di scoperta relativo al convoglio.
1° agosto 1940
Il convoglio
raggiunge indenne Tripoli alle 9.45.
10 agosto 1940
La Barbaro ed il trasporto truppe Marco Polo lasciano Tripoli alle 21,
diretti a Bengasi, con la scorta di due unità della XII Squadriglia
Torpediniere.
11 agosto 1940
Barbaro, Marco Polo e scorta
giungono a Bengasi alle 2.30.
18 agosto 1940
La Barbaro lascia Bengasi per Tripoli alle
20, scortata dalla torpediniera Centauro.
20 agosto 1940
Barbaro e Centauro arrivano
a Tripoli alle 11.
24 agosto 1940
La Barbaro lascia Tripoli alle 6.25 insieme
alla piccola motonave armata Lago Tana,
diretta a Palermo, con la scorta della torpediniera Andromeda.
26 agosto 1940
Le tre navi
arrivano a Palermo alle 18.30.
5 settembre 1940
La Barbaro, carica di 3000 tonnellate di
munizioni, provviste, carri armati, automezzi ed altro materiale bellico, salpa
da Napoli per Tripoli alle 22 insieme al Marco
Polo (avente a bordo 2000 militari), scortati fino a Trapani dalle
torpediniere Circe ed Aldebaran.
6 settembre 1940
Alle 14.56, al
largo di Trapani (nel punto a 5 miglia per 245° dal Faro di Marettimo), i
cacciatorpediniere Antonio Da Noli
(caposcorta, capitano di vascello Giovanni Galati), Lanzerotto Malocello e Luca
Tarigo della XIV Squadriglia sostituiscono Circe ed Aldebaran nella
scorta a Barbaro e Marco Polo.
Malocello e Tarigo si
portano a proravia del convoglio per effettuare dragaggio protettivo, mentre il
Da Noli assume posizione di scorta
ravvicinata.
Il convoglio supera
le isole Egadi e segue le rotte costiere della Tunisia; alle 18 incontra un
convoglio di due piroscafi scortati dalla torpediniera Procione, ed alle 19.20 è già al traverso di Capo Bon.
7 settembre 1940
Alle 5.20, al
traverso della boa n. 3 di Kerkennah (posizione 34°57’30” N e 11°45’30” E),
viene avvistato un piroscafo che procede di controbordo. Alle 16 (al largo di
Sabratha) si avvistano ricognitori italiani.
Giunto nel punto
convenzionale «D» alle 17.35, il convoglio entra nel porto di Tripoli alle
17.45 (18.30 per altra versione).
8 settembre 1940
Barbaro e Marco Polo
ripartono da Tripoli per Bengasi all’una di notte, scortati sempre da Malocello, Tarigo e Da Noli (caposcorta).
Il Da Noli procede in testa, seguito da Marco Polo e Barbaro; la squadriglia di cacciatorpediniere si dispone in
posizione di scorta ravvicinata.
Alle due di notte
s’incrocia il piroscafo Pallade diretto
a Tripoli, ed alle 7.08 ha inizio lo zigzagamento di convoglio e scorta, che
proseguirà sino alle 19.18.
9 settembre 1940
Il convoglio
raggiunge il punto «D» di Bengasi alle 7.18, e poco dopo entra in porto,
ormeggiandosi al molo sottoflutto alle 8.15.
La Barbaro impiegherà otto giorni per
scaricare il suo carico nel porto di Bengasi.
16 settembre 1940
Mentre la Barbaro si trova ancora ormeggiata a
Bengasi, il comandante della Mediterranean Fleet, ammiraglio Andrew Browne
Cunningham, decide di lanciare un attacco aereo contro quel porto, a seguito
dell’avvistamento (il mattino del 15 settembre, da parte di un ricognitore
Short Sunderland del 230th Squadron) di un convoglio italiano
(piroscafi Maria Eugenia e Gloria Stella, torpediniera Fratelli Cairoli) in navigazione nel
Golfo della Sirte e diretto appunto a Bengasi.
Alle 21.30 del 16
settembre quindici bombardieri Fairey Swordfish iniziano a decollare dal ponte
di volo della portaerei Illustrious,
salpata da Alessandria assieme alla corazzata Valiant, agli incrociatori leggeri Orion, Kent, Liverpool e Gloucester ed a 9
cacciatorpediniere (Hereward, Hyperion, Hasty, Hero, Nubian, Mohawk, Waterhen, Jervis e Decoy). La formazione, suddivisa in tre gruppi (Forza A, incaricata
dell’attacco, con Illustrious ed Orion e 4 cacciatorpediniere, Forza
B di scorta alla Forza A e composta dalla Valiant con 3 cacciatorpediniere, Forza C di sostegno con le
altre unità 20-25 miglia più a sud del resto della formazione), è giunta
alle 21 cento miglia a nordest di Bengasi, come previsto.
Nove degli
Swordfish, appartenenti all’815th Squadron della Fleet Air Arm,
hanno l’incarico di attaccare le navi in porto con bombe dirompenti da 227 e
114 kg ed incendiarie da 45 kg, mentre gli altri sei, dell’819th Squadron,
devono posare ciascuno una mina magnetica Mk I da 680 kg all’imboccatura del
porto.
Alle 21.15, in seguito
ad un bombardamento aereo che ha colpito l’aeroporto di Benina, non lontano da
Bengasi, viene dato l’allarme, ma non segue poi il preallarme della Difesa
Contraerea Territoriale, che, non avendo potuto far partire i motopescherecci
assegnati al servizio di vigilanza foranea, non è in grado di avvistare gli
Swordfish che arrivano da nordest, dal mare.
17 settembre 1940
Alle 00.57, senza
che nessuno li abbia precedentemente avvistati, gli aerei britannici (che sono
giunti sul cielo di Bengasi già dalle 00.30, ed hanno sorvolato il porto per
meglio individuare i loro bersagli) passano all’attacco, in due ondate.
Le bombe vanno a
segno con tremenda precisione: nel primo passaggio, effettuato alle 00.57 da
nordovest verso sudest, viene affondato il piroscafo Gloria Stella, la torpediniera Cigno viene danneggiata gravemente ed il rimorchiatore Salvatore Primo ed il pontone a
biga Giuliana sono colpiti,
sebbene senza riportare danni gravi; nel secondo passaggio, compiuto tre minuti
dopo il primo, vengono affondati il cacciatorpediniere Borea ed il piroscafo Maria Eugenia.
L’incendio dei due
piroscafi colpiti (che si propaga attraverso il carburante incendiato che
galleggia sulla superficie del mare), che si trovano sopravvento rispetto alla Barbaro, minaccia seriamente di
coinvolgere anche quest’ultima; con pronta ed abile manovra, che gli varrà la
Medaglia di Bronzo al Valor Militare, il comandante della Barbaro, capitano di lungo corso Giulio Zagabria da Fianona
d’Istria, riesce a portare la sua nave al di fuori della zona pericolosa,
facendola poi ormeggiare in un altro e più sicuro punto del porto.
Nella confusione
del bombardamento, nessuno a terra sembra fare troppo caso alle sagome scure
dei sei Swordfish dell’819th Squadron che gettano le loro sei
mine magnetiche a circa 75 metri dall’imboccatura del porto: solo il 18
settembre, ormai troppo tardi per evitare danni, si saprà che qualcuno aveva
visto un aereo abbassarsi a posare delle mine nell’avamporto.
I devastati
risultati del bombardamento hanno dimostrato la vulnerabilità di Bengasi, come
in precedenza di Tobruk, agli attacchi aerei; inoltre, Maria Eugenia e Gloria
Stella sono ancora in fiamme e circondati da un vero e proprio mare di
nafta, che continua a costituire una minaccia per le altre navi: pertanto si
decide subito di decongestionarne il fin troppo affollato porto trasferendo a
Tripoli, ritenuta più sicura (in ragione della sua maggiore distanza dalle basi
aeree britanniche), alcune delle navi rimaste indenni.
Nella mattinata del
17 settembre, di conseguenza, la Barbaro parte
da Bengasi per trasferirsi a Tripoli con la scorta della vecchia
torpediniera Generale Antonino
Cascino (sono le prime navi a lasciare il porto cirenaico dopo il
bombardamento), ma non appena è uscita dall’imboccatura del porto, alle 11.38,
la motonave viene investita dall’esplosione di una delle mine magnetiche posate
durante l’attacco dagli Swordfish dell’819th Squadron. I gravi danni
alla parte prodiera dello scafo costringono a rimorchiare la nave nuovamente in
porto, con l’assistenza di alcuni rimorchiatori, ed a portarla a poggiare con
la prua su bassifondali nel bacino di ponente.
Nonostante una fuga
di anidride carbonica minacci di asfissiarli tutti, il personale di macchina della
Barbaro, guidato dal direttore di macchina
Virgilio Iacobini, triestino (poi insignito della Croce di Guerra al Valor
Militare), rimane al proprio posto e permette così di riportare in porto la
nave gravemente danneggiata.
Muoiono per lo
scoppio della mina due membri dell’equipaggio della Barbaro: il nostromo Giovanni De Vescovi, di 50 anni, da Rovigno,
ed il marinaio Gaspare Zagabria, di 32 anni, da Fianona d’Istria, compaesano e
quasi omonimo del comandante. Entrambi sono decorati con la Croce di Guerra al
Valor Militare, alla memoria.
I feriti della Barbaro, come pure quelli delle altre
navi affondate e danneggiate, vengono portati a bordo della nave ospedale California, presente anch’essa in porto.
Sulle mine posate
dagli Swordfish, poche ore dopo il danneggiamento della Barbaro, affonderà anche il cacciatorpediniere Aquilone (anch’esso partito da Bengasi per trasferirsi a Tripoli,
insieme al gemello Turbine),
nonostante un attento dragaggio delle mine fatto eseguire dopo quanto accaduto
alla Barbaro.
16 ottobre 1940
Riportata in
condizioni di galleggiamento e sottoposta alle prime riparazioni provvisorie
per rimetterla in grado di tenere il mare, la Barbaro lascia Bengasi a mezzogiorno insieme al piroscafo Pallade e con la scorta della
torpediniera Pilo, per trasferirsi a
Tripoli.
18 ottobre 1940
Barbaro, Pallade e Pilo entrano a Tripoli alle 7.
2 novembre 1940
La Barbaro e la motonave Marco Foscarini lasciano Tripoli alle
15.35 dirette a Palermo, con la scorta della torpediniera Generale Achille Papa.
4 novembre 1940
Barbaro, Foscarini e Papa arrivano a Palermo alle 8.30.
La Barbaro, priva della prua, in bacino a Monfalcone nel 1940 (a sinistra). Sulla destra la nuova motonave Sabaudia, ex svedese Stockholm (g.c. Giorgio Parodi via www.naviearmatori.net) |
Dicembre 1940
Rimorchiata a
Monfalcone, torna nei Cantieri Riuniti dell’Adriatico, dov’è stata ultimata
appena pochi mesi prima, per essere sottoposta a più estesi lavori di
riparazione dei danni subiti a Bengasi il 17 settembre.
A causa dei
gravissimi danni subiti dalle sue strutture prodiere, si decide di costruire ex
novo una nuova prua, che verrà poi “attaccata” al resto dello scafo.
Marzo 1941
Ultimata la
costruzione della nuova prua, si procede ad unirla al resto della nave.
La nuova prua realizzata per la Barbaro, fotografata a Monfalcone nel marzo 1941 (g.c. Giorgio Parodi via www.naviearmatori.net) |
19 aprile 1941
I lavori di
riparazione dello scafo e di unione della nuova prua vengono ultimati.
Maggio 1941
Ritorna in
servizio.
30 giugno 1941
La Barbaro parte da Napoli per Tripoli alle
18 in convoglio con le motonavi Barbarigo, Rialto, Ankara (tedesca), Andrea
Gritti e Sebastiano Venier,
scortate dai cacciatorpediniere Freccia
(caposcorta), Dardo, Turbine e Strale.
2 luglio 1941
Il convoglio giunge
a destinazione alle 18.
27 luglio 1941
La Barbaro lascia Tripoli per Napoli a
mezzogiorno, rimorchiando la torpediniera Antonio
Mosto, diretta in Italia per le riparazioni dei gravi danni subiti quando,
alcune settimane prima, un aereo britannico le è precipitato in coperta durante
un bombardamento su Tripoli. Le scorta la torpediniera Clio.
28 luglio 1941
Alle 18.30 la Barbaro lascia la Mosto all’imboccatura del porto di Lampedusa, dove dovrà
temporaneamente sostare, e prosegue da sola verso Napoli.
29 luglio 1941
Il convoglio giunge
a Napoli alle 21.30.
13 agosto 1941
Barbaro, Pisani, Gritti, Rialto e Venier
partono da Napoli alle 17 dirette a Tripoli, scortate dai
cacciatorpediniere Ugolino Vivaldi (caposcorta,
capitano di vascello Giovanni Galati), Folgore, Strale, Lanzerotto Malocello e Fulmine e dalla torpediniera Orsa. Poco dopo la partenza il convoglio
viene attaccato da sommergibile, ma l’attacco viene sventato dalla scorta.
Poco più tardi,
però, durante un allarme aereo, sul Vivaldi scoppia
accidentalmente un proiettile in un cannone da 120 mm, costringendo la nave al
rientro per via dei danni subiti e delle gravi condizioni di alcuni feriti. Al
suo posto, il Folgore (capitano
di fregata Giuriati) assume il ruolo di caposcorta.
14 agosto 1941
Dopo mezzanotte, a
sud di Lampione, il convoglio viene attaccato da aerosiluranti, con lancio di
bengala illuminanti. Di nuovo, la reazione della scorta vanifica l’attacco.
15 agosto 1941
Il convoglio giunge
a Tripoli alle 14. Il caposcorta, nella sua relazione, segnalerà i problemi di
comunicazione tra navi mercantili e scorta, possibili soltanto con la radio
principale (non conveniente) o con segnalazioni luminose (troppo lunghe e
troppo pericolose, potrebbero portare all’avvistamento da parte nemica),
chiedendo che al più presto i mercantili vengano dotati di radiosegnalatori.
19 agosto 1941
Barbaro, Gritti, Pisani, Rialto e Venier lasciano
Tripoli alle 15, scortate dai cacciatorpediniere Freccia (caposcorta), Euro e Dardo e dalla torpediniera Procione.
21 agosto 1941
Lasciate a Palermo,
dove giungono alle due di notte, Euro e Rialto, il resto del convoglio prosegue
per Napoli, dove arriva alle otto del mattino.
1° settembre 1941
La Barbaro (comandante civile comandante capitano
di lungo corso Giulio Zagabia, comandante militare capitano di fregata Luigi Martini),
insieme a Gritti, Pisani, Rialto e Venier, salpa
da Napoli per Tripoli alle 22 (per altra fonte alle 24), con la scorta dei
cacciatorpediniere Dardo, Folgore, Strale e Nicoloso
Da Recco (caposcorta, capitano
di vascello Stanislao Esposito). Il convoglio attraversa lo Stretto di Messina
ed imbocca la rotta di levante, per tenersi il più possibile al di fuori del
raggio d’azione degli aerosiluranti di Malta.
2 settembre 1941
Durante la notte
sul 2 settembre, nel Tirreno, il convoglio, informato della probabile presenza
di un sommergibile nemico, devia dalla rotta, manovra che lo farà passare nello
stretto di Messina con tre ore di ritardo. Passato lo stretto, il convoglio si
divide in due colonne, con Rialto e Pisani a dritta, Barbaro e Gritti a sinistra, Venier più
a poppavia, tra le due colonne, e la scorta tutt’intorno (Da Recco in testa, Freccia e Strale a dritta, Folgore e Dardo a sinistra). La deviazione compiuta in precedenza fa
però sì che il convoglio si trovi in acque pericolose – nel raggio d’azione
degli aerei britannici di base a Malta – in acque notturne (senza cioè poter
fruire della scorta aerea italiana, che vi è solo di giorno), contrariamente
alle previsioni iniziali. Al calare della notte, come al solito, la scorta
aerea se ne va.
3 settembre 1941
Non appena in
franchia dello stretto di Messina, il convoglio assume rotta 116° (mettendo la
prua sulla Morea), cioè verso est, per uscire dal cerchio di raggio 160 miglia
con centro su Malta (che corrisponde al raggio d’azione dei suoi aerei, che
possono colpire nella zona dello stretto e fino a sud di Capo Spartivento, ma
non più ad est) prima di assumere rotta sud. Il ritardo accumulato nello
stretto di Messina fa sì che il convoglio si trovi nella zona pericolosa (entro
il raggio d’azione degli aerei di Malta) nelle ore notturne, quando non è
disponibile la scorta aerea.
Alle
00.25-00.30, a circa 26 miglia per 140° (a sud-sudest) di Capo
Spartivento Calabro (nel punto 37°33’ N e 16°26 E), cioè mentre ancora si trova
– per poche miglia – entro il raggio d’azione degli aerei di Malta, il convoglio
viene attaccato da nove aerosiluranti Fairey Swordfish dell’830th Squadron
F.A.A. decollati da Malta.
Gli aerei,
provenienti dal lato sinistro, nonostante la reazione delle artiglierie
contraeree delle navi (il Folgore abbatte
un aerosilurante), colpiscono Gritti e Barbaro con un siluro ciascuna.
Sulla Barbaro – che in quel momento si trova
nel punto stimato 37°35’ N e 16°23’ E (circa 24 miglia a sudest di Capo
Spartivento) e sta seguendo rotta 116° – il comandante militare Martini avvista
alle 00.25, nella luce lunare, un aereo sul lato sinistro; Martini assume
immediatamente il comando della nave, fa aprire il fuoco contro l’aereo ed
ordina al contempo di mettere tutto il timone a sinistra, ma nello stesso
momento la motonave viene colpita dal siluro. L’arma colpisce la Barbaro all’estrema poppa, mettendo
subito fuori uso gli apparati di propulsione e di governo e così immobilizzando
la nave. Si sente una sorda esplosione e la nave viene percorsa da un violento
scossone, mentre il tunnel dell’elica (chiuso da una porta stagna) e la vicina
stiva numero 6 (nella quale sono state stivate soprattutto delle munizioni)
vengono subito allagati dall’acqua riversatasi nella falla.
Al contempo, un
altro aereo (o forse lo stesso di prima) appare d’ala a 45° dalla prua sulla
dritta della Barbaro: il capitano di
fregata Martini fa aprire il fuoco contro di esso; il tiro appare ben diretto,
e l’aereo sembra essere colpito e sparisce subito alla vista. Verso sinistra, a
poppavia del traverso, si vede che un’altra nave ha anch’essa aperto il fuoco,
ma in un’altra direzione. Subito dopo, non molto distante dal punto in cui si
trova la nave che ha aperto il fuoco, “si verifica sul mare una violenta
esplosione accompagnata da un’altissima ed ampia colonna di terrificante vivido
fumo rossastro con ricadenti scintille e sprazzi che determina un sinistro
chiarore illuminante a giorno per circa tre minuti il mare e l’orizzonte
annebbiati”: la Gritti è appena
esplosa, uccidendo tutti i 349 uomini a bordo tranne due.
Meno grave la
situazione della Barbaro: il
comandante militare Martini, valutando l’assetto ed il comportamento della nave
(che è rimasta immobilizzata, ma perfettamente in assetto), giudica che essa
non stia per affondare da un momento all’altro, e che al contrario, salvo nuovi
attacchi nemici, subitanei cedimenti strutturali od altri imprevisti che
possano aggravare la situazione, sia possibile salvarla.
Il comandante
civile Zagabia ed il comandante militare Martini convengono a riguardo e
decidono di trasmettere con la radio di emergenza un marconigramma “Ditra”
(Difesa traffico) a Marina Messina, per richiedere che tale Comando mandi
rimorchiatori e soccorsi, ma all’1.05, prima che tale messaggio venga
trasmesso, il Dardo (capitano di
corvetta Ferdinando Corsi) si avvicina alla Barbaro
per prestarle assistenza. Il resto del convoglio, intanto, prosegue per la sua
rotta (arriverà a Tripoli l’indomani, senza subire altre perdite).
Il comandante
militare Martini ed il comandante Corsi del Dardo
si accordano per provvedere all’immediato trasbordo di tutto il personale di
passaggio (9 ufficiali e 294 sottufficiali e soldati del Regio Esercito) e tale
operazione ha inizio all’1.40, ma le condizioni del mare costringono a
procedere con estrema lentezza e rendono il trasbordo molto pericoloso; verso
le 3.30, pertanto, Martini, in vista del tramonto della luna (e pur ponderando
l’eventualità che la nave sia attaccata ancora mentre è ferma e pressoché
indifesa), decide di sospendere il trasbordo fino all’alba, dato che in quelle
condizioni e con l’oscurità notturna sarebbe quasi certa la perdita in mare di
uomini durante tale operazione.
Alle 5.15, con le
prime luci dell’alba, il trasbordo viene ripreso, venendo finalmente ultimato
intorno alle sette: in tutto, vengono trasbordati dalla Barbaro al Dardo 300
militari di passaggio – 9 ufficiali e 291 tra sottufficiali e soldati – e 95
uomini di equipaggio. Completata quest’operazione, la Barbaro passa al Dardo il
suo migliore cavo di acciaio, ammanigliato su tre lunghezze di catena, dopo di
che il cacciatorpediniere inizia a rimorchiare la motonave in direzione di Capo
dell’Armi. Nel frattempo arriva sul posto anche il cacciatorpediniere Strale, che comunica col Dardo, trasborda del personale e poi si
allontana a tutta forza verso sudest.
Verso le 7.30
giungono nel cielo della Barbaro due
aerei da cacca e poco dopo anche un idrovolante, che ne assumono la scorta
aerea.
Verso le 9
sopraggiungono i cacciatorpediniere Ascari e Lanciere, inviati ad assumere la scorta
di Barbaro e Dardo; i due cacciatorpediniere iniziano subito un’alacre opera di
protezione, zigzagando attorno a Barbaro
e Dardo, che avanzano a stento
(bassissima velocità) a causa delle condizioni della motonave, del vento e
del mare avversi che intralciano il rimorchio.
Poco più tardi la
scorta viene rafforzata dal cacciasommergibili Albatros e poi anche dal cacciatorpediniere Carabiniere,
mentre nel pomeriggio sopraggiungono anche i rimorchiatori Titano e Porto Recanati, inviati a dare assistenza al Dardo nel rimorchio. Alle 16.30 la Barbaro, senza fermarsi, passa un cavo
d’acciaio anche al Titano,
permettendo di aumentare un po’ la velocità del rimorchio.
Alle 18.30 (o 19)
la Barbaro e la sua nutrita
scorta riescono infine a raggiungere la rada di Messina; il comandante militare
Martini cede nuovamente il comando al comandante civile Zagabria. Nel
siluramento e nelle successive operazioni per il salvataggio della nave non vi
è stata alcuna vittima tra il personale imbarcato sulla Barbaro.
Sia il comandante
civile Zagabria che il comandante militare Martini verranno decorati con la
Medaglia di Bronzo al Valor Militare per essere riusciti a salvare la nave
nonostante i gravi danni subiti e le avverse condizioni del mare.
Successivamente la Barbaro verrà nuovamente portata nei
CRDA di Monfalcone, per nuovi lavori di riparazione dei gravi danni causati dal
siluro, che le è esploso sotto l’estrema poppa.
Giugno-Settembre 1942
I lavori di
riparazione hanno inizio solamente in giugno, ben nove mesi dopo il
siluramento, e si protraggono fino ai primi di settembre.
La Barbaro a Monfalcone il 10 luglio 1942, durante i lavori di riparazione dei danni subiti nel settembre 1941 (g.c. STORIA militare) |
L’affondamento
Terminate le nuove riparazioni,
la Barbaro si preparò a tornare sulle
rotte dei convogli per la Libia, ma la sfortuna che l’aveva accompagnata per
tutta la sua vita non era intenzionata a lasciarla: il suo primo viaggio per la
Libia dopo il completamento delle riparazioni fu anche l’ultimo.
Alle 12.30 del 26
settembre 1942 la Barbaro, dopo aver
imbarcato 175 militari diretti in Libia ed un ingente carico di veicoli e
rifornimenti per le forze operanti in Africa Settentrionale (21 carri armati,
151 tra automezzi e rimorchi, 547 tonnellate di nafta e carbone, 1217
tonnellate di munizioni e materiale d’artiglieria e 2334 tonnellate di
materiali vari), partì da Brindisi alla volta di Bengasi, scortata dal cacciatorpediniere
Lampo e dalle torpediniere Partenope e Clio. Comandava la motonave il capitano di lungo corso Leo Stelè.
Il carico della
nave comprendeva, oltre ad alcuni mezzi corazzati tedeschi, anche tutto il
materiale ed i mezzi da combattimento del Comando, dello Squadrone Comando e
dello Squadrone Semoventi da 47/32 (5° Squadrone, II Gruppo Squadroni) del 15°
Raggruppamento Esplorante Corazzato "Cavalleggeri di Lodi", del quale
era in corso il trasferimento in Africa Settentrionale; a bordo erano tra
l’altro tutti i semoventi L40 da 47/32 di quel Raggruppamento, i primi mezzi di
questo tipo inviati in Nordafrica. Anche molti dei militari imbarcati di
passaggio appartenevano ai Cavalleggeri di Lodi, che accompagnavano i loro
mezzi nel viaggio per mare, mentre vi erano anche una cinquantina di soldati tedeschi.
Tutti i mezzi del
Reggimento Cavalleggeri di Lodi ed il relativo personale di accompagnamento (il
resto della truppa, invece, sarebbe stato trasferito per via aerea) erano stati
avviati verso Brindisi e Taranto il 21 settembre, prendendo poi imbarco su tre
diverse motonavi in partenza per l’Africa: oltre alla Barbaro, la D’Annunzio e
la Valfiorita.
Il reparto di
Cavalleggeri di Lodi che prese imbarco sulla Barbaro era comandato dal tenente Giacomo Pirzio Biroli. Una volta
a bordo, a ciascun soldato venne consegnato un salvagente; il comandante della
nave provvide poi a spiegare la procedura da seguire in caso di affondamento:
salvagente sempre indosso, slacciare le scarpe, gettarsi in mare soltanto dopo
l’ordine “Si salvi chi può”; dopo tale comando, i soldati si sarebbero dovuti
radunare e si sarebbero dovuti tuffare avendo cura di chiudere le narici, per
poi allontanarsi il più possibile dalla nave, per sottrarsi al risucchio
generato dal bastimento in affondamento.
Nelle stive, i
sacchi di farina che facevano parte del carico erano stati sistemati sui lati,
in modo da attutire, almeno un poco, i danni causati dallo scoppio di siluri o
proiettili di cannone che fossero giunti a segno.
Alle sette del
mattino del 27 settembre la Barbaro e
la sua scorta si unirono ad un altro gruppo, partito da Taranto e diretto
anch’esso a Bengasi, formato dalla moderna motonave Unione scortata dal cacciatorpediniere Giovanni Da Verrazzano (capitano di fregata Carlo Rossi,
caposcorta) e dalle torpediniere Aretusa
e Lince; i due gruppi formarono così
un unico convoglio (denominato appunto «Barbaro»), del quale era caposcorta il Da Verrazzano.
Procedendo a 14
nodi, il convoglio imboccò le rotte costiere della Grecia occidentale, ma fin
dal mattino del 27 settembre iniziò ad essere tallonato da velivoli da
ricognizione nemici.
La loro presenza
non era casuale: già il 26 settembre l’organizzazione britannica “ULTRA” aveva
intercettato e decifrato messaggi italiani dai quali aveva potuto apprendere
che «L’Unione partirà da Taranto alle
20.30 del 26 e la Barbaro da Brindisi
alle 22.30 del 26, per riunirsi in mare alle 06.00 del 27 e procedere per
Bengasi dove giungeranno alle 16.00 del 28». Ne fu informato il sommergibile
britannico P 35 (poi
divenuto Umbra), al comando del tenente
di vascello Stephen Lynch Conway Maydon.
Alle 15.40 del 27
settembre il P 35 avvistò un aereo
che volava in cerchio a 8 miglia per 280° e, presumendo che si trattasse
di uno dei velivoli della scorta aerea del convoglio segnalato da “ULTRA”, portò
la velocità al massimo per portarsi in quella zona. Alle 16.02 il sommergibile avvistò
infatti il convoglio, formato da due grossi mercantili scortati da cinque tra
cacciatorpediniere e torpediniere più degli aerei, su rilevamento 285°. Alle
16.30 Maydon scelse come bersaglio il mercantile più vicino, ossia la Barbaro, della quale sovrastimò un poco
la stazza, valutandola come compresa tra le 8000 e le 10.000 tsl. La distanza
era di circa 5500 metri; il comandante britannico stimò rotta e velocità del
convoglio come 150° e 14 nodi, e ritenne che vi fossero sei tra
cacciatorpediniere e torpediniere a scortarlo.
Alle 16.33, in
posizione 37°04’ N e 20°36’ E (35 miglia a sud di Capo Marathia sull’isola
di Zacinto), il P 35 lanciò quattro
siluri verso la Barbaro, da una distanza
compresa tra i 7300 e gli 8300 metri.
I velivoli della
scorta aerea avvistarono le scie dei siluri dopo il lancio, e vi si avventarono
contro aprendo il fuoco con le mitragliatrici, nel tentativo di colpirli e
farli esplodere prima che potessero raggiungere il bersaglio. Il secondo capo
cannoniere Cosimo Calorì, di Gallipoli, 31 anni di cui 10 trascorsi in Marina,
assisté alla scena da bordo della Barbaro:
alcuni dei siluri vennero colpiti prima
di andare a segno, ma uno di essi colpì la Barbaro
a prua, sul lato sinistro. Erano le 16.40 (o 16.42); la nave si trovava in quel
momento a circa 60 miglia per 275° (ad ovest) da Navarino.
Si trovavano in
coperta al momento dell’attacco anche molti dei Cavalleggeri di Lodi: gli
equipaggi dei semoventi, perlopiù friulani, tra cui il tenente Pirzio Biroli,
il cavalleggero Domenico Giacomuzzi (da Sedegliano, in provincia di Udine),
Primo Macuglia, Anselmo Scruzzi, Luigi Pividori, Giuseppe Rosso ed altri. Anche
loro videro il tentativo degli aerei della scorta di distruggere i siluri a
colpi di mitragliatrice, e poi l’impatto di un siluro a prua, in un deposito di
nafta.
L’acqua iniziò
subito a riversarsi all’interno della falla aperta dal siluro, allagando alcuni
locali di prua, mentre ne fuoriusciva del carburante contenuto nel deposito
colpito. Sulla Barbaro si scatenarono
la confusione ed il panico: molti uomini, credendo che la nave stesse per
affondare, si precipitarono a poppa e cercarono convulsamente di mettere a mare
le imbarcazioni per abbandonare la nave. Tra di essi Domenico Giacomuzzi e
molti cavalleggeri suoi commilitoni, ed anche il capo cannoniere Cosimo Calorì
con alcuni compagni dell’equipaggio. Quest’ultimo, con altri marinai, tentò di
calare una scialuppa; la manovra, però, riuscì soltanto in parte, a causa del
mare mosso che impedì alla lancia di staccarsi dalla nave. Ancora peggio andò ai
tedeschi, che stavano anch’essi cercando di calare altre scialuppe: una lancia si
capovolse a causa del mare mosso, sbalzando in mare i tedeschi che si trovavano
a bordo; alcuni di essi rimasero impigliati e intrappolati nelle corde, altri
furono risucchiati dall’elica, che ancora girava.
Vedendo queste
scene, alcuni dei migliori nuotatori che si trovavano a bordo, anziché
affidarsi all’incerta sicurezza delle lance, preferirono calarsi in mare lungo
delle cime di fortuna, per poi tentare di allontanarsi a nuoto: tra di essi
anche Cosimo Calorì, il quale, essendo un ottimo nuotatore, decise di calarsi
in mare lungo una corda, indossando un salvagente, per cercare di allontanarsi
a nuoto dalla nave. Con lui si calarono anche altri marinai; solo dopo
parecchio tempo, lottando contro le onde, Calorì riuscì ad allontanarsi dalla Barbaro, ma si accorse di essere rimasto
solo, mentre calava il buio della sera. La motonave era ancora in vista, ormai
lontana, ed il marinaio gallipolino era convinto che sarebbe affondata nel giro
di poco tempo.
Altri uomini, che
avevano tentato anch’essi di calarsi in mare, vennero invece risucchiati
dall’elica. Fra quanti avevano intrapreso questo tentativo vi era anche il
tenente Pirzio Biroli dei Cavalleggeri di Lodi: assistendo alla tragica fine di
alcuni dei suoi predecessori, preferì rinunciare e risalì a bordo,
arrampicandosi lungo la cima.
Domenico
Giacomuzzi, cavalleggero ventottenne imbarcato in accompagnamento ai semoventi,
si trovava a poppa insieme ai commilitoni Anselmo Scruzzi e Luigi Pividori. Non
avendo ancora sentito l’ordine “Si salvi chi può”, i tre decisero di restare
uniti e di calarsi da un’altra parte, dove non ci fosse il rischio di essere
risucchiati dall’elica. Così fecero, dopo di che iniziarono a nuotare; dopo diverse
forti bracciate, Giacomuzzi non vide più i due compagni. Insieme ad altri
naufraghi, Giacomuzzi riuscì a raggiungere una zattera gettata in mare dall’equipaggio
della Barbaro, con la quale, remando con
le braccia, raggiunsero una delle navi di scorta mentre iniziava a calare la
sera. Anche Scruzzi e Pividori sarebbero sopravvissuti, salvati dopo tre o
quattro ore da una motobarca messa a mare da una delle unità di scorta col
preciso incarico di cercare i naufraghi che il mare aveva portato più lontano
dalla motonave colpita.
Benché gravemente
danneggiata, la Barbaro continuò a
galleggiare ancora per parecchie ore, tanto da far sperare di poterla salvare
ancora una volta: per ordine del caposcorta, il Lampo prese a rimorchio la motonave danneggiata ed iniziò a
trainarla verso Navarino, mentre Partenope
e Clio davano dapprima la caccia al
sommergibile britannico, assumendo poi la scorta di Barbaro e Lampo. L’Unione, col resto della scorta, proseguì
invece per la sua rotta.
Frattanto il P 35, dopo aver lanciato, era sceso in
profondità, aveva assunto rotta 300° ed aveva fatto uno “scatto” a tutta forza
per cinque minuti, allo scopo di allontanarsi dal convoglio prima che iniziasse
la reazione della scorta.
Questa ebbe inizio
alle 16.43, quando una bomba di profondità scoppiò piuttosto vicina al
sommergibile; quest’ultimo accostò allora per 270°, ma seguirono altre bombe
d’aereo, dieci in tutto, l’ultima delle quali alle 17.57. Alle 17.06, tra un
attacco e l’altro, il P 35 ebbe modo
di tornare a quota periscopica e di osservare il proprio bersaglio, che si
trovava ora su rilevamento 176°: la Barbaro
era leggermente appoppata ed appariva immobilizzata, con un cacciatorpediniere
nei pressi; si levava da essa parecchio fumo nero. Essendovi aerei
tutt’intorno, Maydon scese a 15 metri ed assunse rotta 200°, ed alle 17.13
iniziò a ricaricare i tubi lanciasiluri per tentare un nuovo attacco. Alle
17.33, vedendo che dalla motonave non si levava più del fumo, il P 35 accostò per 240°, ma alle 17.34
ebbe inizio un pesante contrattacco da parte della scorta, che costrinse il
sommergibile a scendere a 60 metri ed a manovrare per sottrarsi alla caccia. Ne
uscì comunque di nuovo indenne, ed alle 17.52 rilevò il bersaglio su
rilevamento 155°, notando dopo cinque minuti che c’erano tre cacciatorpediniere
o torpediniere in un raggio di 3660 metri.
Alle 18.25 il P 35 tornò a quota periscopica:
avvistato un cacciatorpediniere o torpediniera a poppavia, distante 1370 metri,
diretto verso di lui ed in avvicinamento, Maydon se ne tornò a 60 metri. La
nave italiana lanciò undici bombe di profondità, che esplosero piuttosto
vicine, arrecando alcuni lievi danni al P
35; alle 19.03 seguirono altre sei bombe di profondità, esplose molto
vicine al sommergibile, che tuttavia proseguì nella manovra di attacco. Alle
19.36 il battello britannico accostò per 250° per portarsi ad ovest prima di
sferrare l’attacco, in modo da godere del vantaggio dato dalla luna che
sorgeva; venne ultimato il ricaricamento dei tubi lanciasiluri. Alle 20.06 il P 35 riemerse nel punto 37°06’ N e
20°28’ E; la Barbaro appariva ancora
a galla ma sempre ferma, su rilevamento 070°, ad una distanza di circa quattro
miglia. Tre tra cacciatorpediniere e torpediniere le giravano intorno in
cerchio, ad un distanza di un paio di miglia. Nelle due ore seguenti il P 35 si mantenne in contatto visivo col
bersaglio, per attaccare col favore del buio una volta calata la notte, e ridusse
le distanze procedendo in superficie, per poi tornare ad immergersi alle 22.25.
Cinque minuti dopo, in posizione 37°09’ N e 20°27’ E, il sommergibile lanciò
due siluri contro l’immobile Barbaro
da una distanza compresa tra i 5500 ed i 7300 metri, per poi scendere subito
dopo a 36 metri di profondità, mettendo tutta la barra a dritta.
Maydon avvertì
un’esplosione dopo dieci minuti, molto più tardi di quanto da lui calcolato in
base alla distanza stimata: in realtà, questa volta nessun siluro era giunto a
segno.
Alle 23.10 il P 35 avvistò quattro navi su rilevamenti
compresi tra 079° e 061°, l’ultima delle quali (rilevamento 061°) era la Barbaro. Maydon fece ricaricare gli
altri due tubi lanciasiluri, ed alle 00.34 del 28 settembre assunse rotta 360°,
allo scopo di portarsi nuovamente in posizione favorevole rispetto alla luna;
alle 00.45 avvistò due cacciatorpediniere o torpediniere su rilevamenti 044° e
058°, e cinque minuti dopo riemerse in posizione 37°07’ N e 20°21’ E. La
motonave italiana appariva ancora a galla, ma avvolta da un “velo” di fumo, con
le navi scorta che continuavano a girarle intorno. Il P 35 si trattenne in zona, senza per il momento lanciare nuovi
attacchi.
Il secondo attacco
del P 35 non aveva prodotto risultati,
ma il rimorchio della Barbaro verso
Navarino non fu comunque coronato da successo: l’incendio scoppiato a bordo
dopo il primo siluramento, infatti, si rivelò incontenibile, ed alle 4.41 del
28 settembre le fiamme raggiunsero le munizioni che facevano parte del carico
(altra versione parla di un’esplosione verificatasi durante la notte
all’interno della stiva colpita dal siluro ed incendiata), e la Francesco Barbaro esplose ed affondò
punto approssimato 37°15’ N e 19°55’ E, una cinquantina di miglia a sudovest di
Capo Marathia nell’isola di Zacinto.
Cosimo Calorì,
tutto questo, lo venne a sapere soltanto molto tempo dopo: mentre il Lampo lottava vanamente per portare in
salvo la Barbaro ed il P 35 cercava in ogni modo di finirla,
lui si trovava da solo in mezzo al mare, alla deriva, circondato soltanto dal
buio della notte.
Si mise a pregare
la Madonna del Canneto, che le madri gallipoline pregavano per la salvezza dei
loro figli pescatori, e smise di nuotare, ormai esausto, lasciando che fosse il
salvagente a tenerlo a galla. Pensò alla famiglia, alla figlia appena nata che
non aveva ancora potuto vedere, al paese natio, agli amici, alla prospettiva
della morte imminente; mentre il freddo iniziava a fargli perdere la
sensibilità di gambe e braccia, perse i sensi.
Riprese conoscenza
per un breve momento quando si accorse di essere sollevato dall’acqua da uomini
dalle facce abbronzate, con barbe incolte; poi svenne di nuovo. Si sarebbe
risvegliato soltanto alcuni giorni più tardi, avvolto in una coperta ed
adagiato accanto alla caldaia di una nave, indolenzito ma vivo. Portato in
Grecia, rimase ricoverato per parecchio tempo; sarebbe sopravvissuto alla
guerra, vivendo fino all’età di 95 anni.
Anche Domenico
Giacomuzzi e gli altri Cavalleggeri di Lodi sopravvissuti vennero portato in
Grecia, nel Peloponneso. Al momento dello sbarco, molti cavalleggeri si misero
a baciare la terra, per la gioia di esserne usciti vivi. Il tenente Pirzio
Biroli fece l’appello dei superstiti, esprimendo il suo dispiacere per quanti
erano scomparsi. I cavalleggeri superstiti sarebbero rientrati in treno a
Savona dopo circa un mese, per poi essere nuovamente mandati in Africa.
Su un totale di 278
uomini (223 italiani e 55 tedeschi), tra equipaggio e militari di passaggio,
che erano imbarcati sulla Francesco
Barbaro, 248 vennero tratti in salvo. In 30 persero la vita, morti o
dispersi in mare; tra di essi 15 uomini del Raggruppamento Esplorante Corazzato
"Cavalleggeri di Lodi" e sette membri dell'equipaggio civile.
I sopravvissuti,
recuperati da Lampo, Partenope e Clio (secondo documenti consultati da Platon Alexiades,
risulterebbe che 125 furono salvati dalla Clio
e 123 dal Lampo, mentre non si parla
della Partenope), vennero da esse
sbarcati a Navarino alle 10.30 dello stesso 28 settembre.
Le vittime:
Alessio Anelli, cavalleggero Rgt. "Cavalleggeri
di Lodi"
Francesco Bianchi, cavalleggero Rgt. "Cavalleggeri
di Lodi"
Armando Cabrini, cavalleggero Rgt. "Cavalleggeri
di Lodi"
Ernesto Calcich, carpentiere, da Fiume
Armando Cesena, cavalleggero Rgt. "Cavalleggeri
di Lodi"
Giovanni Chituzzi, ingrassatore, da Venezia
Antonio Curma Picione, caporale Rgt. "Cavalleggeri
di Lodi"
Michele Farelli, garzone di cucina, da Torre del Greco
Luigi Ferrandi, cavalleggero Rgt. "Cavalleggeri
di Lodi"
Luigi Gilardi, cavalleggero Rgt. "Cavalleggeri
di Lodi"
Alberto Gonsalvi, cavalleggero Rgt. "Cavalleggeri
di Lodi"
Adriano Kececi, sergente maggiore Rgt. "Cavalleggeri
di Lodi"
Giuseppe Maiori, cavalleggero Rgt. "Cavalleggeri
di Lodi"
Attilio Marcato, marinaio R. Marina, da Megliadino S. Fidenzio
Attilio Marcato, marinaio R. Marina, da Megliadino S. Fidenzio
Pietro Marcio, secondo cuoco, da Brindisi
Romano Massaferro, cavalleggero Rgt. "Cavalleggeri
di Lodi"
Bruno Mazzeri, cavalleggero Rgt. "Cavalleggeri
di Lodi"
Antonio Muscoli, marittimo civile, da Fiume
Walter Pagliani, sergente Rgt. "Cavalleggeri
di Lodi"
Giovanni Riccio, marinaio, da Mola di Bari
Giuseppe Rosso, caporale Rgt. "Cavalleggeri
di Lodi"
Andrea Saglietto, caporale Rgt. "Cavalleggeri
di Lodi"
Marco Solazzo, piccolo di camera, da Brindisi
Antonio Zircovich (o Zivcovich), nostromo, da
Trieste
Risultano mancare ancora sei nomi, probabilmente uomini appartenenti all'equipaggio militare o militari tedeschi.
Il P 35, che era rimasto nell’area dopo il
secondo attacco, sentì poco prima delle cinque il rumore di una nave che
affondava, e quando tornò a quota periscopica, poco dopo le sei del mattino,
non avvistò più nulla.
“ULTRA”,
decrittando ulteriori messaggi italiani il 28 ed il 29 settembre, poté
informare i comandi britannici del successo ottenuto.
L’affondamento
della Francesco Barbaro nel ricordo
del cavalleggero Domenico Giacomuzzi (tratto da “Reggimento Cavalleggeri di
Lodi (15°) 1859-1995” del Gen. Dario Temperino, che si ringrazia per la
concessione, su www.tempiocavalleriaitaliana.it):
“Dopo alcuni giorni, lo Squadrone veniva caricato
sulla nave da trasporto Francesco Barbaro
per destinazione ignota. In attesa della partenza, un compagno, che con me
aveva prestato servizio di leva a Codroipo e che, nel frattempo, era di
servizio nel porto di Brindisi, dopo le effusioni dell’incontro, mi proponeva
una festicciola brindando al felice incontro insieme ai commilitoni Scruzzi e
Pividori. Il mio amico, nelle reciproche confidenze ci augurava di tutto cuore
una libera traversata, soggiungendo che forse gli Alleati avevano già avuto
sentore della nostra partenza e presumeva che stessero predisponendo l’attacco
al nostro convoglio quando fosse stato in mare aperto. Nonostante questa
infausta confidenza, la serata trascorreva in allegria: eravamo giovani e
spensierati ! ! ! All’indomani sulla nave, ad ognuno di noi veniva dato il
salvagente. Quindi il Comandante (civile, come tutto l’equipaggio) volle darci
le istruzioni nel caso la nave fosse affondata: il salvagente sempre addosso,
le scarpe slacciate, gettarsi a mare solamente all’ordine: “ Si salvi chi può”,
indi chiuderci le narici, ammucchiarsi e tuffarsi , allontanandosi il più
lontano possibile, al fine di evitare d’essere risucchiati dai gorghi della
nostra stessa nave. Sulla ‘Francesco
Barbaro’, nave da carico di 13.000 tonnellate, erano stati caricati carri
armati italiani e tedeschi, autocarri vari, le dotazioni personali, oltre a
tonnellate di esplosivi e munizioni. Tra il cospicuo contingente di
rifornimento viveri, vi erano numerosi sacchi di farina, opportunamente
disposti in punti strategici per attutire i danni da eventuali squarci
provocati da colpi nemici. Dopo la partenza, ci eravamo uniti in convoglio con
una nave sorella salpata da Taranto, con tutte le garanzie di offesa e difesa:
palloni frenanti, sei cacciatorpediniere di scorta, apparecchi sonar, ecc…,
oltre a formazioni di caccia italiane e tedesche. All’indomani, verso le
quindici del 27 o 28 settembre, eravamo in coperta, gli equipaggi dei
semoventi, in maggioranza friulani, Macuglia Primo, Scruzzi Anselmo, Pividori
Luigi, Ballaben di Gorizia, Rosso Giuseppe, il sottoscritto, compreso il nostro
Comandante Pirzio Biroli, quand’ecco giungere a turbare la nostra tranquillità
la caccia italiana e tedesca che si lanciava in picchiata con raffiche di
mitraglia verso i siluri nemici diretti alla nostra nave, siluri che si
potevano intravedere dalla scia e che venivano colpiti prima di raggiungere il
bersaglio. Il momento era inquietante e tragico. . . . Purtroppo, dopo
interminabili tentativi nemici, si sentì un grande boato: la nave era stata
colpita a prua nel deposito della nafta. Dallo squarcio fuoriusciva il
carburante ed entrava l’acqua, dando così inizio all’affondamento del
trasporto. Subito ci portavamo in poppa: in questi tragici, angosciosi momenti,
si cercava di raggrupparci per concertare una manovra d’emergenza e salvare le
nostre vite. Io ed il gruppo di commilitoni a me vicino, ci sentivamo travolti
dal caos, scoraggiati e sgomenti. Nella confusione determinatasi, i tedeschi
iniziavano dalla loro parte a staccare le scialuppe e vedevo una di queste
ribaltarsi ed i tedeschi in mare, alcuni aggrovigliati dalle corde contorte e
pensavo che tra qualche istante avrei potuto trovarmi anch’io in quella
condizione, se non peggiore. E’ indescrivibile l’angoscia, il terrore che
provavo in quei momenti. Alcuni italiani cercavano di sganciare una scialuppa,
riuscendovi in parte: il mare, però, era mosso ed impediva alla barca di
staccarsi dalla nave. Vedendo questi tentativi dall’esito incerto, i migliori
nuotatori si calavano in mare mediante corde di fortuna, ma le eliche in
funzione ne risucchiavano alcuni nei loro vortici. . . . Fra questi vi era
anche il nostro Comandante, il quale, intuita la pericolosità della manovra,
istintivamente si aggrappava alla corda e risaliva a bordo. Da questo momento
ho perso con lui ogni contatto. Presumo si sia salvato con altra scialuppa. Non
udendo il ‘si salvi chi può’, io, Pividori e Scruzzi, decidemmo di tenerci
uniti e, calatici da un’altra parte, iniziavamo a nuotare. Dopo poderose e
parecchie bracciate, voltandomi non vidi più i miei due amici. Loro trovandosi
in una posizione più lontana, dopo tre o quattro ore sono stati presi a bordo
da una motobarca di una nostra cacciatorpediniera adibita alla ricerca dei
naufraghi lontani, mentr’io, unitamente ad altri sventurati, raccolta una
zattera lanciata dall’equipaggio della nostra nave e, remando con le braccia,
abbiamo raggiunto la cacciatorpediniera, mentre sopraggiungevano le ombre della
sera. All’indomani, dopo questa tragica disavventura, durata interminabili ore,
siamo stati sbarcati nel Peloponneso (Grecia) e, lasciatemelo dire, ho visto
molti compagni baciare la terra, felici per lo scampato pericolo. Il Comandante
Pirzio Biroli, ritrovandosi fra noi scampati, ha fatto l’appello dei rimasti,
formulando profondo dispiacere per i militari mancanti. Dopo circa un mese
siamo rientrati in ferrovia al nostro Reggimento in Savona.“ Fin qui il
racconto del reduce che, sia pure con qualche diversità, non si discosta nella
sostanza a quanto racconta il cavalleggero Gabriele Cadeddu di Pinerolo,
anch’esso sfortunato passeggero di quella nave. Il Barbaro, infatti, si era inabissato il 28 settembre con tutto il
materiale ed i mezzi da combattimento del Comando, dello squadrone comando,
dello squadrone semoventi 47/ 32. I superstiti sarebbero stati tratti in salvo
dopo molte ore di angosciante attesa nelle scure acque del Mediterraneo.
Quattordici i dispersi di cui non si seppe più niente.”
L’affondamento
della Francesco Barbaro nel ricordo
del secondo capo cannoniere Cosimo Calorì (da www.monterotondesi.it):
“Dopo aver caricato il materiale destinato alle truppe italiane dislocate in
Africa, composto di viveri di vario genere, sacchi di farina messi all’interno
lungo le fiancate della nave per attutire eventuali colpi nemici, carri armati,
autocarri, carburante oltre a grosse quantità di munizioni ed esplosivi,
attendiamo l’imbarco di una parte del Reggimento Cavalleggeri di Lodi proveniente
dal nord Italia.
Dopo aver atteso e rinviato la partenza,
alle ore 21,30 si salpa. A bordo c’è una discreta euforia, ma siamo in guerra
ed avendo avuto la sensazione che gli inglesi conoscono i nostri spostamenti,
l’animo non è dei più sereni !
Il convoglio si forma definitivamente in
mare aperto, con l’aggiunta di un’altra motonave proveniente da Taranto e sei
cacciatorpediniere di scorta munite di apparecchiature di rilevamento.
Si naviga nel silenzio, a luci spente,
dormendo come si dice, con un occhio solo, sempre attenti alla propria
salvezza!
La serata trascorre tranquillamente: è il
momento del riposo dopo una giornata piuttosto faticosa.
C’è da spiegare che ad ogni marinaio al
momento dell’imbarco, viene assegnato un codice numerico, inciso su una
targhetta metallica, dal quale si comprende tutto quello che è relativo ad ogni
membro dell’equipaggio, cioè: a quale squadra e reparto appartiene, il rancio,
la branda, l’armadietto, il turno di
doccia, la franchigia, il posto di combattimento in navigazione di guerra, in
difesa antiaerea, in fase di antincendio, il salvagente da indossare, su quale
zattera andare, le manovre da eseguire prima dell’abbandono della nave.
Al mattino lo squillo della tromba ci
richiama all’inizio delle attività.
Ci vestiamo rapidamente, arrotoliamo le
brande nascondendole nei cassonetti ( in
termini navali vengono detti, bastingaggi) per avere più spazio.
Consumiamo in fretta la colazione e con l’alzabandiera inizia la
giornata.
La mattinata trascorre abbastanza
tranquilla, ma a metà pomeriggio accade quello che tutti noi pregavamo che non
accadesse mai!
All’improvviso il finimondo.
I caccia italiani e tedeschi lanciandosi in
picchiata, tentano di colpire con raffiche di mitragliatrice i siluri nemici
diretti alla nostra nave. Intravediamo i siluri dalla loro scia, alcuni vengono
colpiti prima di raggiungere il bersaglio.
All’improvviso udiamo un grande boato: la Francesco Barbaro, alle ore 16,40, a 50
miglia nautiche a sud-ovest di Capo Marathia dell’isola di Zacinto in posizione
37º15'N, 19º55'E, dopo un secondo attacco del sommergibile inglese “HMS Umbra”, è stata colpita da un siluro a
prora sinistra.
Dallo squarcio comincia ad entrare l’acqua e
a fuoriuscire il carburante, provocando
così l’allagamento di alcuni locali di prua.
Il momento è drammatico.
Travolti dalla confusione ci spostiamo a poppa:
è inimmaginabile l’angoscia e il terrore che pervade i nostri corpi, in questo
clima si cerca la salvezza.
Iniziano le convulse manovre d’emergenza per tentare di salvare le nostre vite.
Con altri marinai cerco di sganciare una
scialuppa, ma la manovra non riesce completamente; anche alcuni militari tedeschi iniziano a staccare le scialuppe ma
a causa del mare mosso, vedo una di queste ribaltarsi ed i tedeschi sono
sbalzati in mare.
Alcuni di loro, rimasti intrappolati dalle
corde sono risucchiati dai vortici dell’elica rimasta ancora in funzione.
Atterrito dalla visione di queste scene ed
essendo un eccellente nuotatore, (non per niente sono un gallipolino!) mi calo
in mare insieme ad altri marinai con una corda di fortuna ed inizio a nuotare
aggrappato al mio salvagente. Cerco di allontanarmi dalla nave ma la difficoltà
è notevole a causa della forza delle onde che me lo impedisce.
Dopo un tempo infinito e dopo poderose
bracciate riesco nell’intento, ma sopraggiunge l’oscurità e mentre tento di calmarmi e riposarmi un poco
cerco di intravedere se altri compagni sono nelle mie vicinanze. Non vedo né
sento più nessuno, sono rimasto solo!
La Francesco
Barbaro è ormai lontana e penso che affonderà in breve tempo.
Mi sento un uomo morto.
Riecheggiano nella mia mente le suppliche
che le mamme gallipoline fanno alla Madonna del Canneto per la salvezza dei
figli pescatori, i loro pianti. Prego anche io.
Mi abbandono stremato, affidandomi al
salvagente, ma il pensiero torna sempre alla mia famiglia, alla mia prima
figlia Cleonice appena nata e che non ho mai abbracciato, mi riecheggia nel
cervello il suo nome, è tutto un turbinio di immagini, il sole della mia città,
gli amici, la paura della morte, le lacrime si mescolano all’acqua del mare.
Fa freddo, comincio a non avere la
sensibilità alle gambe ed alle braccia, le acque del Mediterraneo forse
nasconderanno per sempre il mio corpo.
Perdo i sensi.
All’improvviso apro gli occhi: intravedo per
un momento delle facce abbronzate con barbe incolte che mi stanno intorno
e mi sollevano.
Non capisco nulla, ma ho la sensazione, non
la certezza, di essere ancora vivo, perdo di nuovo conoscenza.
Mi risveglio soltanto dopo qualche giorno.
Mi trovo disteso vicino alla caldaia di una nave, avvolto in una coperta, con le
ossa e i muscoli tutti indolenziti.
Finalmente sono sicuro di essere ancora nel
mondo dei vivi!
La mia vita ricomincia da qui.
Mi portano in Grecia dove resto ricoverato
per diverso tempo.
Soltanto in seguito ho saputo che la
motonave Francesco Barbaro non
affonda subito, ma dopo il tentativo di rimorchio a Navarino. Infatti alle ore 04.41 del giorno 28 settembre un
incendio, seguito da un'esplosione nella stiva segnano la fine della nave che
si inabissa con tutto il materiale a 37° 15' Nord - 19° 55' Est; altri superstiti sarebbero stati tratti in
salvo dopo molte ore di penosa attesa nelle acque del Mediterraneo.
Quattordici sono i dispersi di cui non si è
saputo più niente [in realtà i morti e i dispersi furono trenta, n.d.a.].”
L’affondamento della
Francesco Barbaro nel giornale di
bordo del P 35 (da Uboat.net):
“27 September
1942
1540 hours - Sighted aircraft circling bearing 280°, range about 8 nautical
miles. Assumed this to be part of the escort of the expected convoy. Increased
to full speed to get into that area.
1602 hours -
Sighted 2 large merchant vessels escorted by 5 destroyers / torpedo boats and
aircraft bearing 285°. Started attack.
1630 hours - The
nearest merchant vessel was chosen as the target. She was 8000 to 10000 tons in
size. Range was estimated as being 6000 yards. It was thought that six
destroyers / torpedo boats were escorting this convoy. Enemy course was 150°,
speed 14 knots.
1633 hours - In
position 37°04'N, 20°36'E fired four torpedoes from 8000 - 9000 yards. One hit was
obtained. After firing Umbra went
deep, changed course to 300° and made a burst at full speed for 5 minutes.
1643 hours - A bomb
exploded fairly close. Altered course to 270°. More aircraft bombs, about 10 in
total, followed up to 1757 hours.
1706 hours -
Returned to periscope depth. The target was seen bearing 176°. She was making
much black smoke and slightly down by the stern. She appeared to be stopped
with a destroyer nearby. As aircraft were all around went to 50 feet and
proceeded on course 200°.
1713 hours -
Started reloading the torpedo tubes.
1733 hours - The
target was no longer smoking. Altered course to 240°.
1734 hours - A
serious counter attack was started by the enemy. P 35 went to 200 feet and took evasive action.
1752 hours - Target
was now bearing 155°.
1757 hours - Three
destroyers / torpedo boats were now within 4000 yards.
1825 hours -
Returned to periscope depth. One destroyer / torpedo boat was 1500 yards astern
and coming towards. Went to 200 feet again. 11 Depth charges were dropped quite
close causing some minor damage.
1903 hours - Six
depth charges were dropped very close.
1936 hours -
Altered course to 250° to get to the Westward in order to have advantage of the
rising moon. Completed the reload of two torpedo tubes.
2006 hours -
Surfaced in position 37°06'N, 20°28'E. The target was still afloat laying
stopped bearing 070°, range about 4 nautical miles. Three destroyers / torpedo
boats were circling her about 2 miles off. P
35 kept within visual range to attack during the night if possible.
2225 hours - After
having closed on the surface, dived to attack again.
2230 hours - In
position 37°09'N, 20°27'E fired two torpedoes from 6000 to 8000 yards at the
stationary target. Upon firing P 35
went to 120 feet and altered course hard to Starboard. One explosion was heard
after almost 10 minutes giving a much greater range.
2252 hours - The
three destroyers / torpedo boats were seen to the North-East about 5 miles
away.
2310 hours - Ships
were sighted bearing 079°, 073°, 067° and 061°. The last was the target.
Reloaded the other two torpedo tubes.
28 September
1942
0034 hours - Altered course to 360° to get down moon again.
0045 hours -
Sighted two destroyers / torpedo boats bearing 044° and 058°.
0050 hours -
Surfaced in position 37°07'N, 20°21'E. The target was still afloat but was
enveloped in a veil of smoke. The escorts were still circling her. P 35 remained in the area. Shortly
before 0500 hours a ship was heard sinking. When P 35 returned to periscope depth shortly after 0600 hours nothing
was in sight.”
Una immagine della Barbaro a Tripoli nel 1941, mentre viene scaricata da mezzi del Genio tedesco (stefsap.wordpress.com) |
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