L’Andromeda (foto USMM, via ANMI Monza)
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Torpediniera della
classe Spica tipo Perseo (dislocamento standard di 630 tonnellate, in carico
normale 970, a pieno carico 1020). In guerra fu brevemente impiegata nella
scorta ai convogli tra la Sicilia e l’Africa settentrionale, poi sulle rotte
tra Italia ed Albania, sino alla perdita; effettuò in tutto 48 missioni di
scorta e due di bombardamento navale.
Breve e parziale cronologia.
2 ottobre 1935
Impostazione nei
cantieri Ansaldo di Sestri Ponente.
28 giugno 1936
Varo nei cantieri
Ansaldo di Sestri Ponente.
6 dicembre 1936
Entrata in servizio.
Compie una crociera nell’Egeo e nel Dodecaneso, poi opera in Mar Tirreno.
1937-1938
Prende parte alla
guerra civile spagnola, con azioni di contrasto del contrabbando di rifornimenti
per le forze spagnole repubblicane.
In particolare
partecipa, con altre unità (incrociatori leggeri Luigi Cadorna ed Armando
Diaz, cacciatorpediniere Freccia, Dardo, Borea, Ostro, Espero, Zeffiro, Saetta e Strale, torpediniere Cigno, Climene, Centauro, Castore, Altair, Antares, Aldebaran) al blocco del Canale di
Sicilia, per impedire l’invio di rifornimenti alle forze repubblicane spagnole.
5 maggio 1938
Partecipa alla
rivista navale «H» svoltasi nel Golfo di Napoli in occasione della visita in
Italia di Adolf Hitler.
Agosto 1938
Prende parte ad un
ciclo addestrativo nelle acque dell’Elba.
1938
Insieme al resto
della XII Squadriglia Torpediniere (Antares,
Altair ed Aldebaran), di cui fa parte, l’Andromeda
viene assegnata alla Scuola Comando di Augusta, in Sicilia, e di nuovo
impiegata in numerosi pattugliamenti anticontrabbando tra Pantelleria e Malta,
per intercettare eventuali navi provenienti dal Mar Nero e dirette in Spagna
con rifornimenti per le forze repubblicane spagnole.
6 marzo 1939
A seguito della
notizia che la flotta spagnola repubblicana ha lasciato i suoi porti –
nell’imminenza della definitiva caduta degli ultimi territori della Repubblica
nelle mani dei nazionalisti di Franco – con destinazione ignota, e nel timore
che il suo intento possa essere quello di raggiungere il Mar Nero per
consegnarsi ai sovietici, i comandi italiani ordinano alle torpediniere della
Scuola Comando, che si trovano in quel momento in visita a Tripoli, di salpare
immediatamente per tentare l’intercettazione delle forze repubblicane, in
cooperazione con una squadra di incrociatori, che viene fatta partire da
Taranto allo scopo.
7 marzo 1939
In mattinata, appreso
che le navi repubblicane si sono rifugiate a Biserta (Tunisia), l’operazione
viene annullata.
Aprile 1939
Svolge attività di
scorta e pattugliamento in Alto Tirreno, mentre in Adriatico si svolgono le
operazioni per l’occupazione dell’Albania.
Terminata questa
attività, l’Andromeda torna al suo
ruolo addestrativo presso la Scuola Comando di Augusta.
30 aprile 1940
Assume il comando
dell’Andromeda il capitano di
corvetta Enea Picchio.
25 maggio 1940
Nell’imminenza
dell’ingresso in guerra, la Scuola Comando viene soppressa e l’Andromeda, insieme al resto della XII
Squadriglia Torpediniere, viene trasferita da Augusta a Trapani.
10 giugno 1940
All’entrata in guerra
dell’Italia l’Andromeda, insieme alle
gemelle Antares, Altair ed Aldebaran,
forma la XII Squadriglia Torpediniere, con base a Messina. Comanda la nave il
capitano di corvetta Enea Picchio.
6 giugno-10 luglio 1940
L’Andromeda partecipa alla posa di
numerosi campi minati nelle acque della Sicilia: due sbarramenti
antisommergibili di 45 mine ciascuno (tipo Elia) al largo di Palermo (insieme
all’Aldebaran ed all’incrociatore
ausiliario Adriatico); due sbarramenti
antinave, anch’essi di 45 mine tipo Elia, al largo di Castellammare del Golfo
(sempre insieme ad Adriatico ed Aldebaran); due sbarramenti antinave ed
uno antisommergibile, tutti di 45 mine tipo Elia o tipo Bollo, a nord di
Trapani, uno antinave di 50 mine e due antisommergibile (uno di 45 mine e
l’altro di 50) tra Marettimo e Levanzo, e due sbarramenti antisom di 50 mine
ciascuno tra Marettimo e Favignana, tutti con mine tipo Elia o tipo Bollo
(insieme, di volta in volta, all’Adriatico
ed alle gemelle Alcione, Aldebaran, Aretusa, Airone ed Ariel); tre sbarramenti antinave di 50
mine ciascuno (tipo Bollo) al largo di Porto Empedocle (insieme ad Adriatico ed Aldebaran). Le missioni di posa si svolgono di notte, col favore
del buio.
14 giugno 1940
In serata Andromeda, Antares, Altair ed Aldebaran ricevono ordine di lasciare Trapani
e raggiungere subito La Spezia – a seguito del bombardamento navale di Genova,
Savona e Vado Ligure da parte di una squadra francese – per andare a
rafforzarne le difese.
16 giugno 1940
Forzando l’andatura,
le quattro torpediniere della XII Squadriglia arrivano in Mar Ligure all’alba e
pattugliano la zona fino a mezzogiorno, per prevenire eventuali nuovi attacchi.
Rimangono poi in
Liguria fino a fine mese.
28 giugno 1940
A seguito della resa
della Francia, l’Andromeda rientra a
Trapani.
3-4 luglio 1940
L’Andromeda (tenente di vascello Enea
Picchio) e la gemella Altair
(capitano di fregata Adone Del Cima) salpano da Trapani alle 16.40 del 3 e scortano
il posamine ausiliario (ex traghetto ferroviario) Scilla, impegnato nella posa di uno sbarramento antinave di 400
mine (tipo Elia e tipo Bollo), il 3 AN, tra la Sicilia e Pantelleria
(precisamente a nord di Pantelleria; lo sbarramento ha un’estensione di 25 km).
Nonostante le non eccelse condizioni del mare (forte vento ed alte onde che
sballottano le navi), l’operazione viene condotta a termine senza intoppi,
grazie alla perizia degli equipaggi.
Luglio 1940
Svolge missioni
notturne di ricerca antisommergibili a rastrello.
29 luglio 1940
Salpa da Augusta di
scorta, con altre unità, al trasporto truppe Marco Polo ed agli incrociatori ausiliari (impiegati come
trasporti) Città di Palermo e Città di Napoli, diretti a Bengasi
nell’ambito dell’operazione «T.V.L.» (Trasporto Veloce Lento).
1° agosto 1940
Il convoglio scortato
dall’Andromeda raggiunge Bengasi.
1-6 agosto 1940
L’Andromeda scorta per tre volte Città di Napoli, Città di Palermo e Marco Polo
che fanno la spola tra Tripoli e Bengasi.
19 agosto 1940
Salpa da Bengasi alle
14 e scorta a Tripoli la moderna motonave Marco
Foscarini.
Settembre-ottobre 1940
Sottoposta a lavori
di manutenzione, dapprima a Palermo e poi (in bacino di carenaggio) a La
Spezia, per riparare l’apparato motore e le caldaie, logorate dall’intenso
servizio. A fine ottobre effettua le prove in mare, che durano qualche giorno.
28 ottobre 1940
La XII Squadriglia
Torpediniere (Andromeda, Altair, Aretusa ed Antares) viene
posta da Supermarina alle dipendenze del Comando Superiore Traffico Albania
(Maritrafalba, con sede a Brindisi e compiti di scorta ai convogli tra Italia
ed Albania nonché ricerca e caccia antisommergibile sulle stesse rotte),
restandovi per diversi mesi.
Alle 13.30 l’Andromeda salpa da Augusta alla volta di
Brindisi, sua nuova base, da dove inizierà le missioni di scorta sulle rotte
Brindisi-Valona e Bari-Durazzo.
29 ottobre 1940
Arriva a Brindisi alle
nove del mattino, mentre è in corso un bombardamento aereo; si difende con le
proprie mitragliere.
Fine ottobre 1940
Sempre a fine ottobre
l’Andromeda, insieme alle
torpediniere Altair, Aretusa, Antares, Antonio Bassini,
Nicola Fabrizi e Giacomo Medici, agli anziani cacciatorpediniere Carlo Mirabello ed Augusto Riboty, ai vecchi incrociatori leggeri Bari e Taranto ed alle navi cisterna/da sbarco Tirso, Sesia e Garigliano, viene assegnata alla neonata
Forza Navale Speciale, al comando dell’ammiraglio di squadra Vittorio Tur,
creata per la prevista operazione di sbarco a Corfù (con l’impiego della
Divisione di fanteria «Bari» e di un battaglione del Reggimento «San Marco»
della Marina), all’inizio dell’invasione della Grecia. Gli ordini d’operazione
vengono diramati il 22 (Supermarina, ordine generale di operazione) e 26
ottobre (Forza Navale Speciale, ordine più particolareggiato), ed in
quest’ultimo giorno viene disposta la sospensione di tutte le partenze dai
porti nel Basso Adriatico a sud di Manfredonia, tranne che per le navi di
Maritrafalba; lo sbarco è pianificato per il 28 ottobre, in contemporanea con
l’inizio delle operazioni terrestri contro la Grecia, ma il maltempo (mare in
tempesta) costringe a rimandare l’operazione dapprima al 30 e poi al 31
ottobre. Il 31 Supermarina dirama l’ordine esecutivo per lo sbarco, da
effettuarsi il 2 novembre, ma nel frattempo la situazione rivelata dai primi
giorni di combattimento in Grecia, con operazioni che vanno molto più a rilento
del previsto e si rivelano molto più difficili a causa del maltempo, delle
interruzioni nella rete stradale e dell’accanita resistenza greca, induce
Mussolini ad annullare l’operazione contro Corfù, inviando invece la Divisione
«Bari» in Albania come rinforzo.
Le unità della XII
Squadriglia verranno inizialmente utilizzate per compiti di ricerca e caccia
antisommergibili (essendo le torpediniere più moderne tra quelle disponibili
nel Canale d’Otranto), ma dopo pochi giorni saranno anch’esse adibite alla
scorta diretta dei convogli. Nel frattempo vengono dotate di idrofoni girevoli,
e viene aumentata la loro scorta di bombe di profondità.
1° novembre 1940
Salpa da Brindisi in
serata, scortando un convoglio che trasporta in Albania il primo scaglione
della Divisione fanteria «Bari».
2 novembre 1940
Il convoglio arriva a
Valona in mattinata.
4 novembre 1940
Lascia Valona e
ritorna a Brindisi.
12 novembre 1940
Salpa da Bari in
serata, insieme ad altre navi, inviata in pattugliamento nel Canale d’Otranto a
seguito dell’incursione navale britannica della notte precedente (una coda
dell’operazione britannica «Judgment»: mentre gli aerosiluranti della portaerei
Illustrious attaccavano Taranto e vi
siluravano tre corazzate, una divisione di quattro incrociatori e due
cacciatorpediniere ha compiuto una scorreria nel Canale d’Otranto, affondando i
mercantili Premuda, Antonio Locatelli, Capo Vado e Catalani e
danneggiando gravemente la torpediniera Nicola
Fabrizi che li scortava), nella quale un convoglio italiano è stato
distrutto.
Maritrafalba aveva
chiesto già il mattino dell’11 che la XII Squadriglia Torpediniere fosse
inviata in crociera di protezione del traffico nel Canale d’Otranto, dal
momento che da giorni si sapeva di movimenti navali britannici (si trattava
appunto della preparazione di «Judgment», anche se questo non lo si poteva
ancora sapere), ma non era stata ascoltata.
13 novembre 1940
Alle 18, dopo quasi
ventiquattr’ore di pattugliamento, fa ritorno a Bari.
Dopo essersi
rifornite di viveri e carburante, l’Andromeda
e la gemella Altair salpano da Bari
all’1.30 scortando i piroscafi Argentina
e Quirinale, aventi a bordo il primo
scaglione della Divisione Fanteria «Bari» (1543 militari e 30,5 tonnellate di
materiali). Il convoglio arriva a Valona alle 14.
15 novembre 1940
Parte da Bari alle
23.30 di scorta, insieme all’anziana torpediniera Confienza ed all’incrociatore ausiliario Egeo, le motonavi Verdi e Puccini, che trasportano 1347 uomini
della Divisione Alpina «Tridentina», cinque quadrupedi e 69,5 tonnellate di
materiali.
16 novembre 1940
Il convoglio arriva a
Durazzo alle 15.
19 novembre 1940
Parte da Bari all’una
di notte scortando, insieme alla vecchia torpediniera Giacomo Medici ed all’incrociatore ausiliario Capitano A. Cecchi, i piroscafi Argentina
e Sardegna, che trasportando 3084
uomini della Divisione Fanteria «Modena» e 162 tonnellate di materiali. Il
convoglio arriva a Valona alle 13. Le ultime missioni si sono svolte tutte in
pessime condizioni meteomarine, mettendo a dura prova nave ed equipaggio.
20 novembre 1940
L’Andromeda e la gemella Antares lasciano Valona alle 11
scortando il piroscafo Galilea e le
motonavi Città di Savona, Città di Marsala e Donizetti, tutte scariche; il convoglio arriva a Brindisi alle 19.
25 novembre 1940
L’Andromeda e l’incrociatore ausiliario Arborea partono da Bari alle 3.30
scortando le motonavi Verdi e Puccini, con a bordo 1496 militari della
Divisione Fanteria «Taro» e 80,5 tonnellate di materiali; il convoglio
raggiunge Durazzo alle 16, dopo una navigazione resa difficoltosa dal mare
mosso e dalla lentezza dei mercantili.
26 novembre 1940
L’Andromeda lascia Durazzo alle 16.30,
scortando i mercantili scarichi Monstella,
Città di Agrigento e Città di Savona, aventi a bordo feriti,
malati e congelati che rimpatriano.
27 novembre 1940
Il convoglio arriva a
Bari alle 8.25.
29 novembre 1940
L’Andromeda e l’incrociatore ausiliario Francesco Morosini lasciano Bari alle
00.30, scortando un convoglio formato dai piroscafi Milano e Firenze e dalla
motonave Città di Marsala, aventi a
bordo 2683 soldati della Divisione Fanteria «Taro», 107 quadrupedi e 120
tonnellate di materiali. Il convoglio arriva a Durazzo alle 15.40.
Il tempo è sempre
pessimo, la nave deve lottare contro le onde durante ogni missione. Il morale è
basso, anche sul fronte terrestre, in Grecia, le cose vanno male a causa del
maltempo.
Dicembre 1940
Assume il comando
dell’Andromeda il capitano di
corvetta Corrado Villani, suo ultimo comandante.
1° dicembre 1940
Parte da Durazzo alle
20.30 scortando Milano, Firenze e Città di Marsala, di ritorno scarichi.
2 dicembre 1940
Il convoglio arriva a
Bari alle 14.45.
4 dicembre 1940
Salpa da Bari alle
17.15, di scorta ad un convoglio composto dai piroscafi Monrosa e Monstella e
dalla motonave Marin Sanudo, che
trasportano 187 militari, 1884 quadrupedi, 128 veicoli e 720,5 tonnellate di
materiali.
5 dicembre 1940
Il convoglio giunge a
Durazzo alle nove.
Alle 20.20 l’Andromeda riparte scortando i piroscafi Italia e Quirinale e la motonave Donizetti,
di ritorno con a bordo dei feriti.
6 dicembre 1940
Il convoglio arriva a
Bari alle 8.30.
Alle 18 l’Andromeda e la gemella Altair salpano da Brindisi per un
pattugliamento antisommergibili nel Canale d’Otranto.
Secondo alcune fonti,
le due torpediniere avrebbero affondato con cariche di profondità, durante la
notte successiva, il sommergibile britannico Triton (tenente di vascello Guy Claud Ian St. Barbe Slade Watkins),
che scomparve in quell’area dopo aver silurato e danneggiato il piroscafo Olimpia (in posizione 41°06’ N e 18°39’
E, a 40 miglia da Brindisi).
Il capo meccanico
Alberto Prandoni, scrivendo alla sorella Bice il 10 gennaio 1941, fece
riferimento ad un recente evento per il quale lei sarebbe dovuta essere fiera
di lui, e per il quale l’equipaggio ora stava aspettando una ricompensa;
Prandoni non poté dire di più nella lettera, per via della censura, e non poté
raccontare maggiori dettagli alla famiglia perché non la rivide più, essendo
tra le vittime dell’affondamento dell’Andromeda
due mesi dopo. Il radiotelegrafista Antonio Cotrone, ultimo superstite dell’Andromeda all’età di novant’anni,
affermò invece in una conversazione che la caccia era avvenuta, e che il
sommergibile venne affondato.
In base alle ricerche
dello storico Platon Alexiades, tuttavia, nessun documento relativo alle due
torpediniere parla di attacchi con bombe di profondità nella data in questione;
i diari di Supermarina del periodo non contengono alcuna annotazione in merito
a questa presunta caccia, e nemmeno la cartella «Azioni contro sommergibili
nemici».
Platon Alexiades nota
anche che, se le torpediniere avessero avvistato dei rottami dopo aver gettato
le proprie cariche di profondità (che le abbiano lanciate è di per sé
possibile; più difficile che fossero riuscite effettivamente a localizzare il Triton, essendo entrambe sprovviste di
ecogoniometro), probabilmente si sarebbero trattenute in zona almeno per
qualche altra ora del giorno, mentre l’orario di rientro a Brindisi (le 10.45
del 7) sembra suggerire che si siano avviate sulla rotta di rientro verso
l’alba.
Altre navi (la
torpediniera Castelfidardo ed alcuni MAS) diedero la caccia al Triton, ma non rivendicarono alcun
successo; sembra probabile che il sommergibile sia affondato su uno dei tanti
campo minati italiani presenti nella zona.
7 dicembre 1940
Al termine del
pattugliamento, Andromeda ed Altair rientrano a Brindisi alle 10.45.
8 dicembre 1940
Andromeda e Morosini salpano da Bari all’una di notte, scortando le
motonavi Verdi e Puccini (con 1441 militari e 87,5 tonnellate di materiali al
seguito delle truppe), ed arrivano a Durazzo alle 14.30.
14 dicembre 1940
L’Andromeda e l’incrociatore ausiliario Egeo salpano da Bari alle 22 scortando i
piroscafi Milano, Aventino e Firenze, aventi a bordo il primo scaglione della Divisione Alpina
«Cuneense» (3060 uomini, 138 quadrupedi, 205 tonnellate di materiali).
15 dicembre 1940
Il convoglio arriva a
Durazzo alle dieci del mattino.
16 dicembre 1940
Lascia Durazzo alle
3.40, scortando Aventino, Milano e Firenze che tornano scarichi: il convoglio arriva a Bari alle
16.35.
18 dicembre 1940
Salpa da Bari alle
13.3o scortando il piroscafo Diana,
la motonave Birmania (che hanno a
bordo 31 militari, 173 automezzi, 420 quadrupedi e 843,5 tonnellate di
materiali delle Divisioni «Taro» e «Trieste») e la motonave Caldea, adibita a traffico civile. Il
convoglio giunge a Durazzo alle 19.
21 dicembre 1940
Lascia Durazzo alle
tre di notte ed arriva a Bari alle 17.40, scortando i piroscafi Italia e Quirinale e le motonavi Città
di Savona e Donizetti, scariche.
La situazione è
sempre la stessa, che rispecchia in tutto e per tutto la fallimentare campagna
di Grecia: il tempo costantemente avverso, pioggia, vento, freddo, onde che
s’infrangono di continuo sul ponte della nave, tosse e geloni per i marinai. Il
pericolo è costante ma il nemico non si vede; sul fronte di terra le cose vanno
molto peggio. Il morale è basso.
24 dicembre 1940
L’Andromeda e l’incrociatore ausiliario Barletta partono da Bari all’una di
notte, scortando un convoglio formato dai piroscafi Italia, Firenze, Zeno e Monrosa e dalla motonave Barbarigo.
Giunto nel punto di riunione dinanzi a Brindisi, il convoglio subisce una
modifica: Barbarigo, Zeno e Monrosa si separano ed entrano nel porto, loro destinazione, mentre
escono il piroscafo Argentina e la
motonave Narenta, che formano insieme
ad Italia e Firenze un unico convoglio diretto a Valona, con a bordo in tutto
3070 tra ufficiali e soldati diretti in Albania, 711 quadrupedi, 334 tonnellate
di viveri e 1095 tonnellate di altri materiali.
Dopo la riunione, il
convoglio mette in moto alle 7.30, assumendo una velocità di dodici nodi, con
arrivo a Valona previsto per le 14.30. I piroscafi procedono a zig zag in linea
di fila. L’Andromeda, come al solito,
è sballottata dalle onde, che provocano mal di mare per qualche membro
dell’equipaggio.
Alle 12.25 del 24
dicembre, in posizione 40°42’ N e 18°57’ E (una ventina di miglia a nordovest
di Saseno), il Barletta evita un
siluro lanciato da un sommergibile; il convoglio prosegue nella navigazione ma,
alle 13.20, il Firenze viene silurato
dal sommergibile greco Papanikolis
(capitano di corvetta Miltiadis Iatridis) e rimane immobilizzato, lanciando il
segnale di soccorso, nel punto 40°34’ N e 19°02’ E (una dozzina di miglia ad
ovest-nord-ovest di Saseno).
Mentre gli altri
mercantili proseguono verso la meta ormai vicina, Andromeda e Barletta si
fermano ad assistere il Firenze
danneggiato; da Valona vengono inviati in soccorso anche due rimorchiatori, sei
motovelieri e la torpediniera Generale
Antonio Cantore.
Mentre il Barletta si affianca al Firenze ed inizia il difficoltoso
trasbordo dei quasi mille alpini imbarcati, l’Andromeda dà invano la caccia al Papanikolis, che – sceso a 30 metri di profondità – evita le bombe
di profondità, regolate per scoppiare ad una quota maggiore. Una delle bombe
cade proprio sul ponte del sommergibile e vi rimane per qualche tempo, ma non
esplode: il sommergibile ellenico evaderà indenne dalla caccia, per poi
raggiungere Salamina. Conclusa senza costrutto la ricerca dell’attaccante,
anche l’Andromeda si unisce alle
operazioni di soccorso, mettendo a mare le proprie imbarcazioni e setacciando
il mare alla ricerca dei naufraghi gettatisi in mare negli iniziali momenti di
panico seguiti al siluramento. Il salvataggio è reso ancor più difficile dal
mare mosso e dal panico di molti alpini, non abituati al mare e spesso incapaci
di nuotare.
In tutto la torpediniera
riesce a salvare 29 alpini (altri 13 sono recuperati quando sono ormai privi di
vita); il capitano di corvetta Corrado Villani, comandante dell’Andromeda, esorterà poi così i naufraghi
salvati: “Alpini, non dimenticate mai che a salvarvi la vita è stato l’Andromeda. Ricordatelo sempre. Se avrete
una figlia mettetele quel nome, vi ricorderà per la vita questa avventura”.
Almeno uno degli
alpini rispetterà questo impegno (Cipriano Tarditi, il quale, non avendo avuto
figlie femmine, darà Andromeda come secondo nome ad una sua nipote).
Alle dieci del 25
dicembre l’Andromeda trasborda i
naufraghi sulla nave ospedale Gradisca,
che arriverà a Taranto il 29.
Grazie all’opera dei
soccorritori, nonostante le avverse condizioni del mare vengono salvati in
tutto 903 uomini, su 996 che erano imbarcati sul Firenze. Il relitto del piroscafo, abbandonato alla deriva (non è
possibile salvarlo), affonderà durante la notte di Natale.
Il Firenze sarà l’unica nave mercantile
affondata durante una missione di scorta dell’Andromeda.
25 dicembre 1940
Pranzo di Natale,
mentre la nave è in rada a Valona: gallette e carne in scatola.
27 dicembre 1940
Parte da Valona alle
11.30, scortando i piroscafi scarichi Silvano,
Titania e Tagliamento, diretti a Brindisi (dove giungono alle 23).
5 gennaio 1941
L’Andromeda, l’incrociatore ausiliario Brindisi ed i cacciatorpediniere Vittorio Alfieri e Vincenzo Gioberti salpano da Brindisi alle sette del mattino,
scortando i piroscafi Piemonte, Argentina e Galilea, con a bordo il primo scaglione della Divisione Fanteria
«Legnano» (5345 uomini, 28 automezzi, quattro quadrupedi e 446 tonnellate di
provviste, munizioni ed altri materiali). Il convoglio arriva a Valona alle
13.45.
Nella notte
successiva, cinque cacciatorpediniere greci bombardano Valona; non si
registrano danni, perché il tiro è corto e tutti i proiettili cadono in mare.
6 gennaio 1941
Aggregata alla XIV
Squadriglia Torpediniere insieme alle gemelle Altair, Pallade e Partenope, partecipa, unitamente ad esse ed alla IX
Squadriglia Cacciatorpediniere (Vittorio
Alfieri, Vincenzo Gioberti, Giosuè Carducci e Fulmine), ad un bombardamento navale delle posizioni greche a Porto
Palermo, in Albania. Le unità, partite da Valona, eseguono il bombardamento
all’alba del 6 gennaio e ritornano poi nella base albanese prima di
mezzogiorno.
L’Andromeda, in particolare, ha per
obiettivo un ponte della strada costiera presso Porto Palermo, che viene
colpito. Dopo aver ridotto al silenzio, col tiro delle mitragliere, un piccolo
natante armato greco che ha cercato di contrattaccare, l’Andromeda lascia la baia sotto il violento tiro dell’artiglieria
ellenica, e fa ritorno a Valona.
7 gennaio 1941
Parte da Valona alle
otto del mattino scortando le motonavi Narenta,
Città di Agrigento e Città di Marsala, scariche, con le quali
arriva a Bari alle 21.30.
9 gennaio 1941
Andromeda e Brindisi salpano da
Bari alle 00.30 di scorta all’incrociatore ausiliario Città di Palermo (impiegato come trasporto) ed ai piroscafi Tagliamento e Monstella, che trasportano in tutto 1044 militari, 1216 quadrupedi
e 112 tonnellate di materiali. Il convoglio giunge a Valona alle 13.
13 gennaio 1941
Parte da Brindisi
alle 5.30 di scorta alle motonavi Piero
Foscari (in servizio postale) e Barbarigo
(con a bordo 684 militari della Divisione «Lupi di Toscana»), 151 veicoli e 500
tonnellate di materiali, arrivando a Durazzo alle 15.10.
14 gennaio 1941
Salpa da Durazzo alle
10.15 di scorta alla Foscari, in
servizio postale, e con essa arriva a Brindisi alle 16.30.
19 gennaio 1941
Andromeda e Brindisi partono da
Valona alle 8.15 scortando i piroscafi Piemonte
e Galilea, con a bordo 2839 soldati della
Divisione Fanteria «Cacciatori delle Alpi» e 215 tonnellate di materiali; il
convoglio raggiunge Valona alle 14.30.
Poco dopo l’Andromeda riparte, torna a Brindisi e di
nuovo salpa per l’Albania di scorta alla motonave Foscari, avente a bordo 508 militari, tre automezzi e 396
tonnellate di materiali e diretta a Valona.
20 gennaio 1941
Lascia Brindisi
all’1.45 scortando i piroscafi Absirtea,
Favorita, Ausonia e Cesco
(quest’ultimo adibito a traffico civile), aventi a bordo 95 militari, 4289
quadrupedi e 2932 tonnellate di foraggio, provviste e materiali vari. Il
convoglio raggiunge Valona alle 12.15.
21 gennaio 1941
Lascia Valona alle
13.45 e raggiunge Brindisi alle 23.45, scortando i piroscafi scarichi Aprilia, Monrosa e Galilea.
28 gennaio 1941
Andromeda e Brindisi salpano da
Brindisi alle due di notte ed arrivano a Valona a mezzogiorno, scortando le
motonavi Città di Bastia, Città di Agrigento e Città di Trapani ed il piroscafo Aventino, aventi a bordo 2852 uomini della
Divisione «Sforzesca» e 105 tonnellate di artiglieria, munizioni e materiali
vari. Il convoglio viene infruttuosamente attaccato dal sommergibile greco Papanikolis (tenente di vascello
Iatrides) al largo di Brindisi.
29 gennaio 1941
Lascia Valona alle
7.30 di scorta ad Aventino, Città di Trapani e Città di Bastia, di ritorno scariche, ed arriva a Brindisi alle
18.40.
31 gennaio 1941
Parte da Brindisi
alle 23.45 insieme all’incrociatore ausiliario Egeo, scortando Città di
Agrigento e Città di Trapani
dirette a Durazzo con 1333 militari della Divisione Fanteria «Cagliari» e 1085
quadrupedi.
1° febbraio 1941
Il convoglio arriva a
Durazzo alle 9.45.
6 febbraio 1941
L’Andromeda e l’incrociatore ausiliario Brioni partono da Bari alle 00.30
scortando la motonave Verdi ed i
piroscafi Milano, Aventino e Quirinale, che trasportano 2726 militari della Divisione «Forlì» e
124 tonnellate di materiali; il convoglio giunge a Durazzo alle 13.45.
8 febbraio 1941
Lascia Durazzo alle
3.30 scortando a Bari il piroscafo Vesta
e le motonavi Città di Alessandria e Città di Bastia, scariche. Il convoglio
giunge a destinazione alle 18.20.
10 febbraio 1941
Andromeda e Brioni partono da
Bari alle quattro del mattino e giungono a Durazzo alle 17.10, scortando il
piroscafo Città di Tripoli e le
motonavi Città di Savona, Donizetti e Rossini, aventi a bordo 3258 militari della Divisione «Forlì» e 322
tonnellate di materiali.
15 febbraio 1941
Parte da Durazzo alle
8.30, scortando i piroscafi scarichi Pontinia
ed Elvira Vaselli.
16 febbraio 1941
Il convoglio arriva a
Bari alle 4.30.
19 febbraio 1941
L’Andromeda e l’incrociatore ausiliario Barletta salpano da Bari alle nove del
mattino e giungono a Durazzo alle 19.20, scortando il piroscafo Italia e la motonave Birmania (aventi a bordo 1244 militari
della Divisione «Puglie», 167 automezzi e 75 tonnellate di materiali).
24 febbraio 1941
Lascia Durazzo alle
15.45 scortando i piroscafi scarichi Titania,
Carnia e Padenna.
25 febbraio 1941
Il convoglio arriva a
Bari alle 13.15.
1° marzo 1941
L’Andromeda ed il cacciatorpediniere Riboty bombardano delle posizioni greche
sulla costa albanese.
2 marzo 1941
Parte da Valona alle
12.45 e scorta a Brindisi i piroscafi scarichi Santa Maria e Monstella.
4 marzo 1941
Finalmente una
giornata di sole.
Andromeda e Riboty, scortati da
tre MAS e da aerei Fiat G. 50 e FIAT CR. 42 del 24° Gruppo Caccia Terrestre, salpano
da Valona alle 11.30 e compiono in mattinata un’altra azione di bombardamento navale
contro la strada costiera tra Himara e Porto Palermo. Le navi italiane vengono
avvistate e scambiate per una formazione molto più potente – due incrociatori e
tre cacciatorpediniere –, così la Royal Air Force di base in Grecia decide di
inviare ad attaccarle ben 15 bombardieri Bristol Blenheim, nove del 211st
Squadron (maggiore Gordon-Finlayson) e sei (dei quali, però, uno non decollato)
dell’84th Squadron (maggiore H. D. Jones), scortati da dieci caccia
Hawker Huricane (quattro dell’80th Squadron, guidati dal capitano
Marmaduke Thomas St. John Pattle, e sei del 33rd Squadron) e seguiti
da 17 caccia biplani Gloster Gladiator (14 del 112th Squadron,
guidati dal maggiore Brown, e tre dell’80th Squadron). Alle 15 i
Blenheim avvistano le navi italiane dieci miglia a sud di Valona, e passano
all’attacco, eseguendo un bombardamento in quota: diverse bombe cadono vicine alle
navi, ma nessuna va a segno, grazie alle rapide contromanovre eseguite ad alta
velocità. Segue uno scontro tra i caccia delle opposte formazioni: due caccia
italiani e due britannici vengono abbattuti.
Le navi raggiungono
Valona alle 17.30. Il bollettino del giorno seguente riferirà che «Unità della
nostra Marina hanno bombardato obiettivi nemici lungo la costa albanese. Una
forte formazione aerea nemica, che tentava di attaccare le nostre unità, è
stata respinta dal violento fuoco contraereo delle navi e da un reparto da
caccia, il quale, con audace risolutezza attaccava la formazione nemica».
11 marzo 1941
Parte da Brindisi
alle 5.50 e scorta un convoglio in Albania; si ormeggia in rada a Valona alle
21.30.
Swordfish
Dopo l’11 marzo, l’Andromeda rimase a Valona per proteggere
le numerose navi alla fonda da eventuali incursioni aeree. Il 9 marzo era
infatti iniziata la nuova offensiva italiana contro le linee greche, denominata
«Operazione Primavera» e conclusasi il 16 marzo con un sanguinoso insuccesso;
di conseguenza, la rada di Valona era particolarmente affollata dalle navi in
arrivo dall’Italia con rinforzi e rifornimenti, e nuove minacce si addensavano
su di esse.
I comandi greci,
infatti, furono in grado di respingere gli attacchi italiani, ma richiesero un
contributo più incisivo da parte dell’aviazione britannica, che avrebbe dovuto
attaccare porti e retrovie italiane.
Per tutta risposta,
la mattina del 12 marzo la Fleet Air Arm trasferì i sei aerosiluranti Fairey
Swordfish dell’815th Squadron (che aveva assorbito anche quelli
dell’819th Squadron) dall’aeroporto di Atene, dove si trovavano fino
ad allora, a quello di Paramythia, più vicino al fronte: loro preciso compito
era di attaccare il naviglio italiano nelle rade di Valona (che fu di fatto
l’unico obiettivo, essendo più vicina e più importante) e Durazzo, allo scopo
di ostacolare l’arrivo dei rifornimenti e così alleggerire la pressione
italiana, nei limiti del possibile. Un ruolo cui gli Swordfish dell’815th
Squadron, al comando del capitano di corvetta Jackie Jago, non erano nuovi:
questi aerei avevano infatti partecipato anche all’attacco aerosilurante su
Taranto dell’11/12 novembre 1940.
Già la notte
successiva al trasferimento, gli Swordfish di Paramythia, accompagnati da
bombardieri Bristol Blenheim, diedero inizio ai loro attacchi. All’1.45 gli
aerei decollarono dall’aeroporto greco, per giungere sull’obiettivo alle 5.30. L’incursione
fu una sgradita sorpresa per le difese italiane: fino ad allora, infatti, gli
attacchi aerei su Valona erano avvenuti solo di giorno e solo con l’impiego di
bombardieri che sganciavano da 3000-3500 metri di quota, in modo tanto
impreciso che mai nessuna nave era stata colpita. Ora le cose cambiavano
completamente; gli aerosiluranti potevano colpire le navi con precisione molto
maggiore, ed il buio della notte impediva quasi completamente l’utilizzo della
caccia aerea italiana, oltre a ridurre fortemente l’efficacia della contraerea.
L’attacco degli
Swordfish venne ostacolato dalla nebbia, che impedì a quattro dei cinque
velivoli di trovare i loro bersagli: uno, però, lo trovò e silurò il piroscafo Santa Maria, affondandolo. I britannici
pagarono questo successo con la perdita del loro comandante: l’aereo di Jago,
infatti, venne abbattuto, ed il suo pilota catturato.
L’attacco degli
aerosiluranti destò grande turbamento tra i comandi locali: non provenivano da
una portaerei – la ricognizione non ne aveva avvistata alcuna – e non si sapeva
dove si trovasse la loro base (Paramythia, nascosta in mezzo alle montagne e
raggiungibile solo per via aerea, non essendovi neppure una strada, non era
ancora stata scoperta); l’interrogatorio di Jago non portò a nulla, così ci si
dovette limitare ad incrementare la vigilanza e disperdere le navi in vari
punti della baia, anziché tenerle concentrate nel porto, per renderne più
difficili la localizzazione e l’attacco.
Il mattino del 14
marzo il porto di Valona venne bombardato da diversi bombardieri Vickers
Wellington e Bristol Blenheim, che non causarono danni, grazie anche
all’intervento dei caccia Macchi C. 200 della Regia Aeronautica.
Alle 21.15 dello
stesso giorno tre Swordfish, al comando del tenente di vascello Michael
Torrens-Spence (che aveva rimpiazzato Jago) decollarono di nuovo da Paramythia,
arrivando su Valona alle 23.15. Stavolta la visibilità era favorevole, e
proprio Torrens-Spence trovò ed attaccò un grosso piroscafo, che colpì con un
siluro. Il bersaglio era in realtà la nave ospedale Po: benché provvista di illuminazione regolamentare, non l’aveva
accesa, in ottemperanza alle norme sull’oscuramento, e non era così stata
riconosciuta. La Po affondò in meno
di dieci minuti; l’Andromeda ed altre
torpediniere sopraggiunsero subito sul posto e recuperarono i superstiti, 217 in
tutto, mentre le vittime furono 23.
La mattina del 15
marzo Valona venne sorvolata da un ricognitore, e nel pomeriggio arrivarono di
nuovo i bombardieri, che però non colpirono nessuna nave. Alle 20.30 altri tre
Swordfish decollarono da Paramythia; giunti su Valona un’ora dopo, vennero
stavolta accolti da un intenso fuoco di contraerea, e, non riuscendo a trovare
le navi (grazie al loro diradamento in tutta la baia), dovettero tornare
indietro a mani vuote.
Al tramonto del 16
marzo 1941, l’Andromeda ricevette
ordine di porsi all’ormeggio nel tratto di mare a levante della penisola di
Karaborum, nella baia di Valona. In quell’area si trovavano alla fonda sei navi
mercantili, a 600-700 metri dalla riva (le navi, oscurate, assunsero le loro
posizioni alla fonda alle 18.30): l’Andromeda
e la vecchia torpediniera Giuseppe Cesare
Abba si ormeggiarono alle opposte estremità (l’Andromeda a sud) della fila di bastimenti ancorati, per fornire
loro protezione dagli attacchi aerei. Andromeda
ed Abba tenevano le caldaie accese,
restando pronte a muovere in caso di bisogno; il loro compito era di difendere
i mercantili con le loro armi contraeree. Più ad est di queste navi, si
trovavano all’ormeggio la nave cisterna e da sbarco Sesia ed il motopeschereccio d’altura/nave frigorifera Genepesca Seconda, ai quali era
assegnato l’incarico di provvedere ai soccorsi qualora qualche nave fosse stata
colpita. Altre sei navi mercantili erano state posizionate in altri punti (tre
a Valona, tre a Ducati). L’Andromeda
si mise all’ancora nella posizione assegnata, con la prua rivolta verso la
costa. La sua posizione era quella più vicina alla Sella di Petrunes: proprio
attraverso questo valico passavano di solito gli Swordfish che, provenienti da
Paramythia, arrivavano sulla baia.
L’attacco britannico,
anche quella sera, non si fece attendere.
Quattro Swordfish,
decollati alle 22.30 da Paramythia, erano diretti per la prima volta non più
contro Valona, ma Durazzo; ma un quinto aerosilurante, l’aereo «P» pilotato dal
sottotenente di vascello August Sidney Macaulay (navigatore Regan), prese il
volo alle 23.45 per condurre un solitario attacco su Valona.
Era una serata fredda
– i monti circostanti la baia erano ancora coperti di neve – e serena, grazie
al (freddo) vento di tramontana; la luna brillava sulla baia creando uno
scenario da fiaba, tanto da poter dimenticare per un poco di essere in guerra.
Ma l’incanto non tardò a spezzarsi.
Alle 23.50 la
stazione di vedetta di Derni, a qualche chilometro da Valona, avvistò lo
Swordfish di Macaulay; alle 23.58 l’avvistamento venne confermato dalla
stazione aerofonica di Saseno. Alle 24 la contraerea diede inizio al violento fuoco
di sbarramento, ma due minuti dopo i caccia della Regia Aeronautica del vicino
aeroporto decollarono per contrattaccare (ciò fu segnalato lanciando un razzo
bianco) e, come precedentemente pattuito, la contraerea interruppe il tiro per
non colpire i propri aerei. Un errore fatale, perché i caccia non furono in
grado di fermare Macaulay – che in quel momento stava sorvolando la Sella di
Petrunes a 300 metri di quota –, che invece ebbe la gradita sorpresa di veder
svanire il muro di proiettili traccianti che gli si presentava davanti.
A bordo dell’Andromeda, il radiotelegrafista Antonio
Cotrone era da poco smontato di guardia (il cambio avveniva a mezzanotte) e se
ne stava appoggiato alle draglie accanto al fumaiolo, quando sentì il rumore
degli aerei che si avvicinavano; subito dopo furono suonati l’allarme ed il
posto di combattimento.
Sull’Andromeda e sull’Abba si sentì il rumore prodotto dal motore dell’aereo, e venne
cominciato il tiro di sbarramento: ciò non bastò ad impedire che lo Swordfish,
ridotti al minimo i giri del motore, planasse quasi silenziosamente sulla baia,
scendendo fino a soli 15 metri di quota, quindi – circondato dalle scie dei
proiettili traccianti sparati dalle mitragliere della torpediniera – riportasse
il motore al massimo dei giri, si dirigesse verso l’Andromeda (la cui sagoma, con la prua verso la costa, aveva
avvistato nella luce lunare, scegliendola come bersaglio) e, avvicinatosi a
soli 300 metri, sganciasse il proprio siluro con un’angolazione di 90°.
Le vedette dell’Andromeda avvistarono l’aereo quando era
a 400 metri: suonato il posto di combattimento, i mitraglieri aprirono un
violento fuoco contraereo ed il comandante Villani mise personalmente i
telegrafi di macchina sull’avanti tutta, nel tentativo di mettere in moto ed
evitare l’impatto, ma con la nave ferma ed il siluro sganciato da così poca
distanza, non c’era nessuna speranza di fare in tempo: alle 00.02 o 00.003 del
17 marzo, infatti, quando l’Andromeda
aveva cominciato a muoversi da pochi secondi, il siluro la centrò sul lato
sinistro, sotto il fumaiolo. La sala macchine fu dilaniata dall’esplosione, che
investì anche le caldaie in pressione, le quali scoppiarono a loro volta dopo
pochi istanti, aggravando enormemente i danni: lo squarcio si estese fino al
lato di dritta, e la nave venne sollevata dall’acqua dall’esplosione,
espellendo una colonna di fumo nero attraverso il fumaiolo. Ricadendo in acqua,
l’Andromeda si spezzò in due.
Il comandante
Villani, lanciato in coperta dall’esplosione, vide che i mitraglieri di prua
erano morti, mentre quelli di poppa continuavano a sparare contro lo Swordfish
in allontanamento. L’aereo di Macaulay, passato sopra l’Andromeda dopo lo sgancio, e vanamente inseguito dal suo tiro
contraereo, riprese quota e si allontanò verso sud (atterrò a Paramythia
all’1.20).
I due tronconi dell’Andromeda si distanziarono un po’ tra di
loro, quindi presero ad insellarsi al centro e cominciarono ad affondare:
Villani diede l’ordine di abbandonare la nave; furono gettati in mare
salvagente, tavole, zattere ed altri improvvisati ausili al galleggiamento, poi
l’Andromeda colò a picco in soli tre
minuti nel punto 40°21’ N e 19°28’ E, impennando verso il cielo – a
perpendicolo sul mare – entrambe le estremità. La poppa affondò per prima, la
prua qualche minuto più tardi, espellendo violentemente aria da ogni apertura.
Il mare tutt’attorno venne ricoperto dalla nafta.
Molte furono le
vittime tra il personale di macchina, perché la sfortunata coincidenza
dell’attacco con l’orario del cambio del turno fece sì che l’esplosione del
siluro sorprendesse in sala macchine, insieme, sia il personale montante che
quello smontante.
Il direttore di
macchina dell’Andromeda tentò di
liberare i tavoloni che erano legati nel carruggio di sinistra che portava in
coperta, così che potessero essere usati come galleggianti dai naufraghi, ma
venne investito in pieno da una nube di vapore surriscaldato, riportando
ustioni mortali (aveva anche respirato il vapore). Riuscì ancora a tagliare i
cavi per liberare i tavoloni, abbandonare la nave e sopravvivere fino
all’arrivo dei soccorsi.
Antonio Cotrone
indossò un salvagente recuperato appena due giorni prima durante i soccorsi
alla Po, ma poi se lo tolse e lo
diede ad un torpediniere lombardo, che non sapeva nuotare. Tuffatosi in mare,
cercò con altri di raggiungere a nuoto la costa non lontanissima, ma il freddo
tolse rapidamente le forze ai superstiti in acqua, intorpidendoli; poi il
risucchio del troncone prodiero li trascinò sott’acqua, e solo una dozzina di
quelli che formavano il gruppo venne riportata a galla dalle bolle d’aria.
Cotrone e gli undici compagni si tennero a galla aggrappandosi a tavoloni e
brande che galleggiavano sul mare, finché non sopraggiunse la torpediniera Abba, che li recuperò e li rifocillò.
Avendo assistito
all’affondamento, il piroscafo Iseo
suonò quattro colpi con la sirena, per allertare Valona, poi chiese assistenza
via radio; sopraggiunsero alcune motonavi, che iniziarono a recuperare i
superstiti, diversi dei quali feriti, ustionati o semisoffocati dalla nafta. Il
comandante di Marina Valona, capitano di vascello Mario Schiavuta, elogiò poi
il comportamento dei naufraghi, che nonostante le loro disperate condizioni
avevano mantenuto la calma e non avevano espresso un lamento.
Dei 137 uomini che
componevano l’equipaggio dell’Andromeda,
88 furono ripescati ancora in vita dalle acque della baia, ma altri quattro
furono trovati cadaveri; i rimanenti 45 erano affondati con la nave. Il
direttore di macchina morì il giorno successivo in ospedale, portando il
bilancio finale a 50 vittime e 87 sopravvissuti. Il comandante Villani fu tra i
superstiti.
I naufraghi vennero
trasbordati il mattino del 17 marzo sulla nave ospedale Gradisca, che il giorno seguente li rimpatriò sbarcandoli a
Brindisi. Antonio Cotrone, ritornato nel suo paese, vi avrebbe incontrato un
amico marinaio che – avendo saputo dell’affondamento, ed essendogli stato
erroneamente riferito che anche Cotrone era morto – gli disse di aver fatto
celebrare una messa in suo suffragio.
Il 20 marzo, la
ricognizione italiana riuscì ad individuare l’aeroporto di Paramythia, che il
22 marzo venne bombardata e messa fuori uso; fu però rimessa in efficienza dopo
qualche tempo, e gli Swordfish nuovamente operativi affondarono ancora i
piroscafi Luciano e Stampalia in rada a Valona, il 15 aprile
1941. Quello stesso giorno, un nuovo attacco aereo, stavolta della Luftwaffe,
distrusse Paramythia ed i suoi aerei una volta per tutte.
August Sidney
Macaulay, per l’affondamento dell’Andromeda,
venne decorato con la sua seconda Distinguished Service Cross. Di quella
guerra, Macaulay, non avrebbe visto la fine: sarebbe precipitato nell’Oceano
Indiano il 25 giugno 1942, durante un’esercitazione. Forse un incidente, forse
un suicidio: già da tempo dava segni di instabilità mentale.
Il 23 giugno 1941,
alla memoria dei morti e dei dispersi dell’Andromeda,
venne conferita la Croce di guerra al Valor Militare con motivazione «Imbarcato
su Torpediniera Andromeda attaccata
da aerosiluranti nemiche, assolveva con ardimento ai propri incarichi e
scompariva in mare nell’affondamento dell’unità. Basso Adriatico, 17
marzo 1941».
Le vittime:
Pietrino Amerio, sottocapo cannoniere,
disperso
Ugo Ballerini, marinaio carpentiere, disperso
Bruno Banfo, marinaio silurista, disperso
Italo Barbini, sottocapo nocchiere, disperso
Aladino Bardini, marinaio cannoniere, disperso
Giuseppe Beccalossi, marinaio, disperso
Leandro Bertagna, secondo capo silurista,
disperso
Carlo Boemo, marinaio, disperso
Nicolò Bongiorno, marinaio cannoniere,
disperso
Romano Carminati, marinaio fuochista, disperso
Enrico Castaldi, sottotenente di vascello,
disperso
Antonio Castrovilli, marinaio meccanico,
disperso
Faliero Catani, sergente cannoniere, disperso
Francesco Chiattelli, marinaio meccanico,
disperso
Efisio Chiesa, secondo capo radiotelegrafista,
deceduto
Vincenzo Congedi, marinaio fuochista, disperso
Pasquale D’Ambrosio, marinaio fuochista,
disperso
Dino Da Milano, capo elettricista di terza
classe, deceduto
Antonio Dell’Isola, marinaio fuochista,
disperso
Giuseppe Farris, sottocapo cannoniere,
disperso
Aldo Dante Ferretti, marinaio S. D. T.,
disperso
Concetto Fidemi, marinaio cannoniere, disperso
Luigi Garzoglio, secondo capo furiere,
disperso
Angelo Giuseppini, capo meccanico di terza
classe, deceduto
Massimo Innocenti, sottocapo torpediniere,
disperso
Pantaleo Leone, marinaio, disperso
Virgilio Manca, marinaio fuochista, disperso
Michele Marano, marinaio cannoniere, disperso
Aladino Marini, secondo capo meccanico,
disperso
Alessandro Martini, sottocapo meccanico,
disperso
Angelo Mazzarisi, sottocapo infermiere,
disperso
Giovanni Mollica, marinaio fuochista, disperso
Italo Vito Morelli, marinaio cannoniere,
disperso
Vladimiro Nacinovich, sottocapo nocchiere,
disperso
Fioravante Nuzzo, sergente furiere, disperso
Vinicio Pantaleoni, sergente cannoniere,
disperso
Pietro Pavia, marinaio, deceduto
Giuseppe Pazzona, marinaio fuochista, deceduto
per le ferite il 20 marzo 1941
Luigi Pedio, sottocapo cannoniere, disperso
Lorenzo Petrarolo, marinaio fuochista,
disperso
Ubaldo Pizzati, marinaio, disperso
Alberto Prandoni, capo meccanico di prima
classe, disperso
Rocco Ranalli, marinaio fuochista, disperso
Bruno Ravarino, sottocapo torpediniere,
disperso
Domenico Sammartino, marinaio cannoniere,
disperso
Matteo Schiavone, capo silurista di terza
classe, disperso
Mario Soravia, marinaio silurista, disperso
Giuseppe Tosatto, marinaio, disperso
Antonio Vassalle, marinaio fuochista, disperso
Il relitto dell’Andromeda, con gli uomini in esso sepolti, non poté riposare in pace sui fondali della rada di Valona. Dal 1956 al 1961, infatti, l’Albania, divenuto Paese comunista ed alleato dell’Unione Sovietica, concesse a quest’ultima l’uso della base di Pasha Liman, a Valona, per i propri sommergibili (si trattava dell’unica base sommergibilistica sovietica in Adriatico). In questo periodo i sommergibili sovietici utilizzarono l’Andromeda, che giaceva a 45 metri di profondità, come bersaglio per le loro esercitazioni di lancio dei siluri, arrecandole ulteriori danni.
La nave sprofondò poi nuovamente nell'oblio, fino a quando, nel dicembre 2016, i subacquei italiani del gruppo IANTD ne ritrovarono ed identificarono il relitto nel corso di una spedizione nella baia di Valona.
L'Andromeda giace su un fondale sabbioso di 53 metri, spezzata in due ed in larga parte coperta di reti. Risultano ancora riconoscibili i tre cannoni da 100/47 mm, che hanno avuto un ruolo fondamentale nell'identificazione del relitto.
La nave sprofondò poi nuovamente nell'oblio, fino a quando, nel dicembre 2016, i subacquei italiani del gruppo IANTD ne ritrovarono ed identificarono il relitto nel corso di una spedizione nella baia di Valona.
L'Andromeda giace su un fondale sabbioso di 53 metri, spezzata in due ed in larga parte coperta di reti. Risultano ancora riconoscibili i tre cannoni da 100/47 mm, che hanno avuto un ruolo fondamentale nell'identificazione del relitto.
Il ricordo di Antonio
Cotrone (dal “Bollettino dei Marinai” n. 145/2013, edito dall’Associazione
Radioamatori Marinai Italiani):
“Baia di Valona.
Mezzanotte tra il 16 e il 17 marzo 1941. I monti circostanti sono innevati; fa
molto freddo. Verso ponente, l’isola di Saseno si staglia maestosa
sull’orizzonte e con la sua mole imponente sembra voler proteggere dagli
agguati e dalle insidie della guerra, le navi alla fonda sparse qua e là nella
grande baia. Fra le altre, la nave ospedale Gradisca per i feriti dal fronte
greco – albanese. “Smontato” dalla guardia, me ne stavo appoggiato alle draglie
a fianco del fumaiolo. Da qualche minuto era “battuto” il cambio di guardia di
mezzanotte. La natura offriva uno spettacolo stupendo ed io ne rimanevo
estasiato. La luna brillava in un cielo terso dalla tramontana e rifletteva i
suoi raggi sul mare, che la brezza tesa rendeva come un immenso pascolo di
bianche e pacifiche pecorelle; un luogo dove pareva impossibile potesse
arrivare, da un momento all’altro, la guerra, a rompere quell’incantesimo.
Malgrado tutto, il mio animo romantico mi consentiva di “ascoltare” quel
silenzio, che r e n d e v a quello scenario meraviglioso e mi invitava a
rivolgere un pensiero e una preghiera al Creatore per ringraziarLo di questa
offerta così generosa. Bruscamente venni risvegliato dal mio sogno e riportato
nella cruda realtà. Erano motori d’aereo in ripresa. Seppi poi trattarsi di un
aerosilurante inglese: forse un Sounderland o, più probabilmente, uno
Swordfish. Dopo aver planato, coi motori al minimo, giunto alla giusta quota,
aveva lanciato un siluro sul vicino bersaglio. Come un grosso uccellaccio
notturno, foriero di sventure, l’aerosilurante si era avventato su di noi.
Allarme! Posto di combattimento! La sirena di bordo aveva suonato ripetutamente
il segnale convenuto. Troppo tardi! Il siluro proseguiva la sua corsa,
velocemente ed inesorabilmente, lasciandosi dietro una scia tragicamente
luccicante nel buio, rischiarato soltanto da uno spicchio splendente di luna
affacciatasi da qualche ora dietro i monti albanesi di Valona. Il nemico ci
aveva sorpresi e pochi minuti non furono sufficienti a che i rapidi ordini di
manovra, giunti forti e chiari dalla plancia, potessero evitare l’impatto.
L’ordigno esplose con un fragore d’inferno, squarciando l’opera viva proprio
verso il centro, all’altezza del fumaiolo, appena a poppavia della plancia. Una
descrizione dello “spettacolo” che ne seguì è cosa davvero ardua, e rendere
l’idea a chi non ha vissuto simili eventi, è pressoché impossibile. Faccio
mente locale, chiudo gli occhi e malgrado tanto tempo sia passato in fretta, mi
ci ritrovo. Il mio posto di combattimento era in radio. Smontato da poco dalla
“cuffia”, me ne stavo in coperta, lì fuori dal carruggio antistante il locale
telecomunicazioni. La nave, aveva accusato il tremendo colpo e mostrava, come
se avesse un’anima, le sue mortali ferite, sollevando simultaneamente poppa e
prora come due enormi braccia verso il cielo. Lo scafo era spaccato in due e
pochi minuti, forse tre, forse quattro, bastarono e iniziò inesorabilmente ad
affondare. Avevo con me un salvagente a ciambella recuperato, alcuni giorni
prima, durante l’operazione di soccorso da noi portata in quelle stesse acque,
alla nave ospedale Po, silurata dagli
inglesi e carica di feriti provenienti dal vicino fronte. Non ci rimaneva che
“l’abbandono nave”. Un torpediniere lombardo vicino a me piangeva disperato:
“Non so nuotare!” Appare impossibile ma capita anche che un marinaio non sappia
nuotare. Mi tolsi la ciambella che avevo indossato e gliela porsi fidando, per
me, nel buon Dio e nelle possibilità che si potesse raggiungere a nuoto la
costa; una eventualità che si dimostrò invece lontanissima, irraggiungibile, a
causa del freddo che, in pochi minuti, ci aveva tolto l’uso degli arti, quasi
del tutto irrigiditi. Come abbiamo detto, lo scafo, colpito nella zona centrale
dell’opera viva, si era spezzato in due tronconi; la parte poppiera era
affondata alcuni minuti prima di quella prodiera più voluminosa, producendo il
conseguente risucchio, cioè l’aria dei locali che viene in superficie lasciando
il posto all’acqua. Fu in seguito a questo risucchio che, pensavamo unico e
quindi definitivo, che istintivamente, decidemmo di spostarci a nuoto verso la
costa che comunque, date le condizioni climatiche e la distanza anche se relativa,
non avremmo potuto raggiungere. Ci trovammo così proprio al centro del
risucchio della parte prodiera. Lascio immaginare il danno di quel fenomeno.
Del gruppo abbastanza numeroso, solo in dodici fummo fortunati nel capitare in
bolle d’aria che ci riportarono in superficie assieme al materiale galleggiante
di bordo fra cui brande ben rollate e tavoloni. A proposito dei tavoloni, devo
ricordare l’estremo sacrificio del Direttore di macchina che, per scioglierli,
in quanto legati nel carruggio di sinistra che accede alla coperta, proprio
durante la fase di affondamento, venne investito da una enorme quantità di
vapore surriscaldato che lo danneggiò irreparabilmente. Morì il giorno dopo in
ospedale. Quei dodici fortunati, nella tarda mattinata fummo raccolti dalla
torpediniera Abba (Trepipe) anch’essa
nella zona. A bordo fummo rifocillati e ci dissero, fra l’altro, che il giorno
successivo, il 18 marzo, sarebbero rientrati a Brindisi. Mi balenò un’idea.
Pregai un sergente di bordo che, non appena giunto a Brindisi, inviasse un
messaggio ai miei familiari. Il testo conteneva solo gli auguri per il 19 marzo
(San Giuseppe), onomastico di mio fratello. Neppure un minimo accenno
sull’evento. Nella stessa mattinata un peschereccio ci prelevò dall’Abba e ci portò sulla nave ospedale Gradisca, anch’essa nella rada di
Valona, per i relativi e necessari controlli. Nel gruppo dei 12 non c’era il
mio carissimo amico e compagno di corso Raffaele Murano, un fatto che mi
rattristava molto. Lo ritrovai sul Gradisca.
La reciproca preoccupazione della eventualità di essere rimasti a fondo si
dissolse e, senza parole, ci abbracciammo piangendo. Seppi, in seguito, che
anche il torpediniere lombardo si era salvato. Ne fui felice. Di un equipaggio
di oltre cento, la sorte avversa aveva preteso uno scotto esoso; all’appello ne
mancarono 49 a cui, qualche giorno più tardi, si aggiunse il direttore di
macchina, che abbandonò la nave solo dopo aver liberato dal bordo tagliando i
cavi che tenevano legato al bordo del materiale galleggiante che sarebbe stato
di aiuto ai naufraghi. Per far ciò aveva respirato del vapore surriscaldato
subendone danni irreparabili. In assemblea il Comandante ci aveva “parlato”
come si può parlare in simili circostanze. Il dolore, frammisto alla rabbia,
aveva sopraffatto l’orgoglio di essere marinai e, tornati uomini, tutti avevamo
pianto i nostri fratelli periti. Ora dopo tanti anni, se ci riuscissi, vorrei
continuare a piangere. Piangere sull’incoerenza e sulla incoscienza degli
uomini responsabili delle guerre. Un’ assurdità che nulla, proprio nulla, può
giustificare. Le guerre non sono né inevitabili né necessarie, né tantomeno
sante e la violenza è contro natura. Essa sa anche nascondersi dietro uno
scenario stupendo di pace, che il Signore vuole darci, ma che noi uomini
rendiamo subdolo, nella completa mancanza di rispetto verso questa Sua
disponibilità e ancora più, verso quel Suo grande dono che è la vita. Io quella
notte sono nato di nuovo. Oggi voglio, non festeggiare, ma solo ricordare. Una
superba e splendida notte che noi abbiamo reso tragica e tristissima con la
scomparsa di tante giovani vite; un pensiero che mi pone nell’anima l’angoscia
che può lasciare soltanto l’ingiustizia e la presunzione degli uomini, che con
il loro egoismo e la loro avidità, trasformano, deturpano, fino a distruggere
l’immensa e generosa eredità promessaci e sempre mantenuta. Sta solo a noi
saperla rilevare. Fino a quando dobbiamo fatalmente percorrere il tracciato di
una condotta stupida e terribilmente testarda, che misconosce la bivalente
natura dell’uomo, esaltandone, sempre e svisceratamente solo quella materiale,
nella maniera più assurda e illogica? La ragione unica di questo declino dei
valori inestimabili della vita, è l’assenza di Dio nell’animo di tanti, di
troppi uomini. E’ lodevole certamente, quanto la scienza fa per ricercare la
conoscenza. Quella di Dio è primaria e non ha bisogno di particolari
laboratori, ma che ognuno può scoprire nel suo animo e sentire nel suo cuore.
Dopo il tramonto, quando la notte liberava l’etere dalle frequenze e l’ascolto
era più chiaro, l’orecchio si avvicinava all’altoparlante e la mano girava la
manopola. “Tu-Tu-tu-tuum. Tu-Tutu-tuum”. Era Radio Londra. Sembrava la Quinta
di Beethoven, e forse lo era. Ma era soprattutto un cupo segnale morse: tre
punti e una linea. Una “V”. Quella di “Victory”, “Vittoria”. L’indice e il
medio di Winston Churchill si materializzavano così e Radio Londra arrivava
nelle case degli italiani. Gli italiani cominciano a fidarsi di Radio Londra.
Così le sue voci diventano familiari. Come quella del colonnello Stevens,
soprannominato il “colonnello Buonasera” perché così iniziano sempre i suoi
commenti. Questa emittente forniva in diretta o quasi, notizie circa
l’andamento delle operazioni di guerra oltre che propaganda antifascista.
L’ascolto di questa emittente in Italia era vietato. Mio zio, Peppino Cardillo,
il marito di zia Anna, sorella di mia madre, ascoltava sistematicamente
l’emittente. Oltre a sentirne la necessità penso che, essendo lui un milite
della MVSN (Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale), si sentisse autorizzato.
Comunque anche la notte fra il 16 e il 17 marzo del ’41 , zio Peppino stava
ascoltando la trasmissione. Quella notte, Radio Londra diede, quasi in diretta,
la notizia dell’affondamento dell’Andromeda.
Una notizia ricca di particolari fra i quali quello dell’ orario del
siluramento che avvenne a cavallo della mezzanotte, cioè durante il cambio
della guardia, lo scafo spezzato in due tronconi e la conseguente perdita di
gran parte dell’ equipaggio. Mio zio sapeva benissimo che io vi ero imbarcato,
per cui si preoccupò molto per me e la mattina del 17, dopo poche ore
dall’affondamento, passò da casa mia come per una normale periodica visita ,
senza rivolgere domande che avrebbero potuto creare dei sospetti, cercando di
sentire se vi fossero delle novità . La stessa cosa avvenne la mattina
successiva. Ancora nulla di nuovo! Comunque queste visite ravvicinate, alle
quali i miei familiari non erano abituati , crearono in essi delle preoccupazioni.
Il giorno 19 marzo giunse a casa mia il messaggio che avevo fatto spedire dal
sergente imbarcato sull’Abba. In
seguito a ciò, anche mio zio Peppino si rasserenò anche se, essendo il solo a
conoscere l’avvenimento, rifletté sul fatto che si trattava di un telegramma e
non di un manoscritto che avrebbe autenticata la mia personale provenienza.
Comunque vi era già una buona speranza. Da Brindisi dove sbarcammo dal Gradisca, partimmo per fruire di una
licenza post-naufragio di 15 giorni. Giunsi a casa all’insaputa. Non so però
come avvenne che, sceso dal treno , la notizia del mio arrivo giunse a casa
prima di me. Incontrai per primo mio padre, invalido della prima guerra
mondiale, aveva la gamba sinistra più corta. Venendomi incontro, non l’avevo
mai visto correre così mentre piangeva come un bambino. Quella licenza fu
davvero distensiva per toglierli dall’incubo dell’attesa. Ero comunque
preoccupato per la mia nuova destinazione che poteva anche essere un nuovo
imbarco e un nuovo probabile naufragio. Durante la licenza, mi venne comunicato
di presentarmi a Maridepo Messina dove, nella solita assemblea delle 14, venni
informato della mia nuova destinazione. Andai in segreteria dove mi vennero
consegnati i documenti per il mio trasferimento. Fui lieto di leggere: “RT
Cotrone Antonio da Maridepo Messina al Centro Radio di Monterotondo (Roma)”.
Presi il primo treno. Passai di notte dal mio paesello, tanto rapidamente, da
riuscire a scorgerlo solo attraverso il mio pensiero e il mio amore per la sua
gente semplice e operosa, per le antiche mura, i vicoli, le interminabili
scalinate, il suo cielo, il suo splendido mare e tutta la mia nostalgica
fanciullezza. Giunsi a Roma, alla stazione Termini. Lo zaino grande in spalla e
quello piccolo a mano. Percorrevo il marciapiedi, di cui non ricordo il numero,
quando ad una certa distanza, scorsi un marinaio che da più vicino riconobbi
essere Luigi, mio caro compagno di corso. Accelerammo il passo, zaini a terra e
con un fraterno abbraccio ci salutammo. Luigi mi osservava incredulo, quasi non
credeva ai suoi occhi, mi disse: “Ho appreso dell’Andromeda e purtroppo mi avevano riferito tristemente anche di te.
Ero in paese in permesso e ho pensato di farti celebrare una messa in
suffragio”. “Ora mi sento davvero confuso. Sono felice di rivederti! Ma sei
proprio tu? Per quello che ho fatto, non ti dispiace vero?” Certo che no! E’
stata una dimostrazione di affetto. Te ne sono grato, sono certo che mi porterà
fortuna. Il suo treno era pronto per partire. Lui era diretto a La Spezia. Ci
abbracciammo senza parole, commossi entrambi. Luigi era davvero un fraterno
amico, era qualcosa di speciale. Era un compagno dell’anima. Giunsi a
destinazione il giorno dopo.”
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