Il
varo del Torelli (da www.betasom.it)
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Sommergibile oceanico della classe Marconi (1191 tonnellate di
dislocamento in superficie e 1489 in immersione).
Sotto bandiera italiana effettuò 14 missioni di guerra, 12 in Atlantico
e due in Mediterraneo, percorrendo 61.563 miglia in superficie e 3176 in
immersione, trascorrendo 355 giorni in mare ed affondando 7 navi mercantili per
complessive 42.968 tsl.
Breve e parziale
cronologia.
15 febbraio 1939
Impostazione nei cantieri Odero-Terni-Orlando del Muggiano (La Spezia).
6 gennaio 1940
Varo nei cantieri Odero-Terni-Orlando del Muggiano.
Un’altra immagine del varo (da “Gli squali dell’Adriatico. Monfalcone e i suoi sommergibili nella storia navale italiana” di Alessandro Turrini, Vittorelli Edizioni, 1999, via www.betasom.it)
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15 maggio 1940
Entrata in servizio, meno di un mese prima che l’Italia entri nella
seconda guerra mondiale.
Giugno 1940
Riceve la bandiera di combattimento da Celestina Torelli Rolle, nuora di
Luigi Torelli.
10 giugno 1940
La dichiarazione di
guerra lo sorprende mentre è ancora intento nella fase di prove di collaudo e
addestramento dell’equipaggio, dunque non in grado di partecipare al primo
dispiegamento in massa della flotta subacquea italiana del giugno 1940.
Successivamente,
concluso l’addestramento, eseguirà una missione di ricognizione nel Golfo di
Genova prima di venire destinato alla neocostituita base atlantica italiana di
Betasom, a Bordeaux.
22 luglio 1940
Divenuto operativo, viene
assegnato al II Gruppo Sommergibili di Napoli, ma rimane a La Spezia. Ne assume
il comando il capitano di fregata Aldo Cocchia, comandante del Grupsom cui il
battello appartiene; Cocchia avrà poco più di una settimana per compiere
qualche esercitazione e familiarizzare con il sommergibile e l’equipaggio, non
ancora completamente addestrato.
Il Torelli a La Spezia nel 1940 (Coll. Erminio Bagnasco, via Maurizio
Brescia e www.associazione-venus.it)
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31 agosto 1940
Il Torelli, al comando del capitano di
fregata Aldo Cocchia, salpa nel pomeriggio da La Spezia (o Cagliari) diretto in
Atlantico, facendo parte del primo scaglione di battelli assegnati a Betasom.
L’ordine d’operazioni, modificato all’ultimo momento, prevede un agguato di 5-6
giorni a sud delle Baleari (sembra infatti che unità britanniche siano in mare
nel Mediterraneo occidentale), l’attraversamento dello stretto di Gibilterra in
superficie o in immersione, a scelta, e una breve missione in Atlantico per poi
raggiungere Betasom.
Già nei primi giorni
il comandante Cocchia ha modo di rendersi conto che le attrezzature di bordo
non sono in perfetto ordine: vi sono state infiltrazioni d’acqua nell’olio
nelle tubolature dei servomotori «Calzoni», che azionano timoni, sfoghi d’aria,
allagamenti e manovra periscopi, facendo arrugginire i pistoncini d’acciaio dei
servomotori. Qualcuno suggerisce di tornare a La Spezia per rassettare tale
attrezzatura, ma Cocchia preferisce proseguire; i meccanici dell’equipaggio e
l’operaio del cantiere costruttore appositamente imbarcato passeranno il resto
della missione a smontare, pulire e rimontare i pistoncini, le valvole ed i
riduttori di pressione, il che comunque non basterà ad evitare inconvenienti
(timoni che s’inceppano, sfoghi d’aria che non si aprono,
8 settembre 1940
Dopo aver incrociato
un piroscafo spagnolo illuminato (il mare è calmo con leggera brezza da
ponente, la notte priva di luna), il Torelli
s’immerge alle due di notte – 3 miglia a sud della Rocca di Gibilterra – per
iniziare l’attraversamento dello Stretto di Gibilterra, senza tenere troppo
conto delle rotte e disposizioni particolari da seguire indicate dagli ordini
(Cocchia ritiene, a ragione, che sia più opportuno non seguire disposizioni
troppo restrittive in merito, impartite da chi non ha una effettiva conoscenza
del dispositivo di sorveglianza britannico dello Stretto). Il battello scende a
90 metri di profondità. Cocchia decide di effettuare l’attraversamento ad alta
profondità, senza mai venire a quota periscopica (usando invece lo scandaglio
ultrasonoro per fare il punto), tenendosi al centro dello stretto fino
all’altezza di Tarifa, indi accostare verso l’uscita tenendosi sul lato
africano.
L’attraversamento non
è molestato dal nemico; un paio di volte gli idrofoni rilevano unità in
navigazione ed una di esse, propulsa da motore a scoppio, dà quasi
l’impressione di stare dando la caccia al battello, poiché si ferma e riparte
più volte, restando sempre in sua prossimità; ma non si sente mai l’ASDIC, né
viene lanciata alcuna bomba di profondità.
Le correnti ed i
gorghi sottomarini dello Stretto, che hanno causato seri guai a più di un
sommergibile, creano invece qualche problema, spingendo bruscamente verso il
basso il Torelli, in più occasioni;
ma le “cadute” non superano mai la decina di metri. Vi è una forte corrente
contraria dal centro dello Stretto, ma va calando via via che ci si avvicina
alla costa africana, sino anzi a diventare favorevole in qualche punto; Cocchia
fa mantenere un’andatura sostenuta ed evita così incidenti. Nel primo tratto in
immersione il Torelli viene deviato
verso sinistra da una corrente trasversale e se ne accorge quando gli
ecoscandagli segnalano che la profondità dei fondali sta via via calando, al
che viene corretta la rotta.
Verso mezzogiorno, al
largo di Tarifa, la corrente diviene però così forte da eguagliare quasi la
velocità del Torelli in direzione
opposta: il sommergibile fatica a governare e non avanza più, restando “fermo”
per effetto delle due velocità uguali ed opposte. Non si può accelerare per non
scaricare le batterie dei motori elettrici, né emergere, visto che è giorno
fatto; e per giunta è proprio in quel momento che gli idrofoni rilevano l’unità
navale dotata di motore a scoppio che si ferma e riparte più volte sulla
verticale del battello. Tale situazione dura quattro ore, poi Cocchia fa
accostare verso la sponda africana dello Stretto e riesce a trovare corrente
meno forte, così il sommergibile riesce a procedere e costeggia fino a Capo
Spartel.
Alle 18 vengono usate
le apparecchiature per la rigenerazione dell’aria, soprattutto a titolo di
collaudo. Alle 23, ritenendo di essere ormai fuori dallo Stretto, Cocchia fa
eseguire per qualche minuto ascolto idrofonico e poi ordina l’emersione, coi
motori diesel già ingranati ed i cappelli dei tubi di lancio aperti. Il Torelli emerge a una decina di miglia
dal faro di Capo Spartel, in mezzo ad un gruppo di barche per la pesca con la
lampara, poi si allontana a tutta forza.
Il capitano di fregata Aldo Cocchia, comandante del Torelli nella sua prima missione atlantica (da www.movm.it) |
11-29 settembre 1940
Rimane in agguato/perlustrazione a nordovest delle Azzorre. Nei settori adiacenti sono i sommergibili Capitano Tarantini (a nord) e Comandante Faà di Bruno (a sud). Il Torelli avvista due navi, una delle quali rivelatasi essere neutrale, mentre l’altra non può essere identificata (verosimilmente, un mercantile nemico). Quest’ultima appare davanti al Torelli all’improvviso, in una notte buia; il Torelli le lancia subito un siluro ma la manca, poi tenta di accostare a dritta per lanciarne un altro, ma il timone non va alla banda da quel lato per via degli inconvenienti ai servomotori «Calzoni». Il Torelli è così costretto ad accostare sul lato opposto e lanciare un siluro da poppa, da una distanza eccessiva; il mercantile avvista il siluro, lo evita e si allontana coprendosi con una cortina di nebbia. Il sommergibile deve perdere tempo a completare il giro sulla sinistra (non è ancora possibile accostare a dritta), e quando ha completato il giro la preda è scomparsa. Invano la cercherà a tutta forza per tutta la notte, nella direzione ritenuta più probabile.
Rimane in agguato/perlustrazione a nordovest delle Azzorre. Nei settori adiacenti sono i sommergibili Capitano Tarantini (a nord) e Comandante Faà di Bruno (a sud). Il Torelli avvista due navi, una delle quali rivelatasi essere neutrale, mentre l’altra non può essere identificata (verosimilmente, un mercantile nemico). Quest’ultima appare davanti al Torelli all’improvviso, in una notte buia; il Torelli le lancia subito un siluro ma la manca, poi tenta di accostare a dritta per lanciarne un altro, ma il timone non va alla banda da quel lato per via degli inconvenienti ai servomotori «Calzoni». Il Torelli è così costretto ad accostare sul lato opposto e lanciare un siluro da poppa, da una distanza eccessiva; il mercantile avvista il siluro, lo evita e si allontana coprendosi con una cortina di nebbia. Il sommergibile deve perdere tempo a completare il giro sulla sinistra (non è ancora possibile accostare a dritta), e quando ha completato il giro la preda è scomparsa. Invano la cercherà a tutta forza per tutta la notte, nella direzione ritenuta più probabile.
Successivamente il Torelli s’imbatte in un ciclone a sud
delle Azzorre. Il sommergibile scende fino a 40 metri, la profondità migliore
per l’ascolto idrofonico, ma continua a rollare anche a tale profondità (di
norma ciò non accade oltre i 20-30 metri), e per giunta l’intensità del rollio
è in aumento; scende quindi a 50, poi 60, quindi 80 e infine 90 metri, ma
ancora oscilla di 15° per parte. Cocchia varia la prua del sommergibile, ma
questi continua a oscillare in senso trasversale. Il Torelli rimane immerso il più a lungo possibile, verificando di
quando in quando le condizioni meteo esterne salendo a quota periscopica, ma
alla fine deve emergere; immense montagne di acqua si abbattono su di esso da
tutte le direzioni, entrando all’interno attraverso il portello aperto. La
situazione migliorerà solo dopo qualche ora.
5 ottobre 1940
Giunge a Bordeaux.
Nelle settimane seguenti esce in mare ripetutamente per esercitazioni.
Il Torelli in arrivo a Bordeaux, il 5
ottobre 1940 (sopra: g.c. STORIA militare; sotto, foto USMM, dalla “Rivista
Marittima” dell’ottobre 1994, via www.betasom.it)
Il comandante
Cocchia, divenuto capo di Stato Maggiore di Betasom, viene rimpiazzato nel
comando del Torelli dal capitano di
fregata Primo Longobardo.
11 dicembre 1940
Prende il mare per la
seconda missione in Atlantico, ma dopo pochi giorni dovrà invertire la rotta
per gravi avarie ai motori elettrici principali.
26 dicembre 1940
Rientra a Bordeaux,
dopo di che passa un mese ai lavori di riparazione.
5 (o 9) gennaio 1941
Il Torelli salpa da Bordeaux per una nuova
missione nelle acque a ponente della Scozia (ad ovest del Canale del Nord e
dell’Irlanda, insieme ai sommergibili Marcello
e Malaspina ed a ponente di una linea
costituita dai tedeschi U 93, U 94, U 96 e U 105).
15 gennaio 1941
Mentre si trova 350
miglia a ponente dell’Irlanda, il Torelli
avvista un convoglio di sei-sette mercantili, che attacca in superficie,
secondo una tattica che il comandante Longobardo ha appreso a bordo dell’U 99 del comandante tedesco Otto
Kretschmer (il più grande asso degli U-Boote della seconda guerra mondiale) sul
quale è stato imbarcato per affinare la propria esperienza in una precedente
misione.
Si tratta di alcune
delle navi del convoglio OB. 272, partito dal Clyde l’11 gennaio e dispersosi
poche ore prima dell’arrivo del sommergibile italiano.
Il Torelli attacca in particolare due
piroscafi che sono proseguiti insieme verso sud, il greco Nemea (5198 tsl, in navigazione da Barry a Salonicco con un carico
di carbone) ed il norvegese Brask
(4079 tsl, in navigazione in zavorra da Gourock a Durban).
Alle 20.20 il
sommergibile silura il Nemea in
posizione 52°33’ N e 24°13’ O (700 miglia a ponente di Fastnet e 445 miglia ad
ovest di Rockfall), e ventotto minuti più tardi colpisce anche il Brask, cui si è avvicinato tanto che il
secondo ufficiale di questa nave riesce a distinguere il battello attaccante
come italiano.
Gli equipaggi di
queste due navi andranno incontro ad una incredibile odissea.
Il Brask, colpito da un siluro (sul lato
sinistro) in corrispondenza della stiva numero 2, affonda in tre minuti in
posizione 52°45’ N e 23°59’ O (432 miglia ad ovest di Rockfall), con la prua
dilaniata, senza il tempo di mettere a mare le proprie imbarcazioni. Del suo
equipaggio, dodici uomini (tra cui il comandante) affondano con la nave, mentre
i venti sopravvissuti raggiungono in acqua una delle scialuppe, capovolta, la
raddrizzano e vi prendono posto. La lancia raggiunge poi il Nemea, che, dopo il siluramento (è stato
colpito da un singolo siluro), è stato abbandonato dall’equipaggio su due
lance, ma è rimasto a galla.
I naufraghi del Brask salgono sul deserto Nemea, abbandonandolo poco dopo nel
timore di nuovi attacchi, per poi risalirvi il mattino successivo, rivestirsi e
rifocillarsi con quanto rimasto a bordo e riparare la radio. Anche una
scialuppa con 17 superstiti del Nemea
(degli altri membri dell’equipaggio della nave greca, 5 sono morti nel
siluramento, mentre 13 si sono imbarcati su un’altra scialuppa, che non verrà
mai ritrovata) ritorna poi verso la propria nave; i naufraghi greci e norvegesi
riescono a lanciare un SOS con la radio del Nemea,
poi anche a rimettere in moto le macchine e issare a bordo ambedue le
scialuppe. I greci propongono di raggiungere le Azzorre, i norvegesi l’Irlanda;
dapprima il Nemea dirigerà per le
Azzorre, poi (nel pomeriggio del 16 gennaio), visto il vento contrario, finisce
col fare rotta per l’Irlanda. Col calare della sera, temendo di poter essere
ancora attaccati, greci e norvegesi fermano le macchine e tornano sulle
scialuppe, che legano alla nave con una lunga cima.
Nelle prime ore del
17 avvisano dei razzi all’orizzonte, cui rispondono con i loro razzi, poi
tornano sul Nemea prima dell’alba e
lanciano altri razzi, che vengono avvistati da due cacciatorpediniere
britannici, che accorrono sul posto. I sopravvissuti propongono di restare
sulla nave danneggiata per portarla in salvo, con la scorta dei
cacciatorpediniere, ma l’idea viene rifiutata per via della scarsità di carburante,
così i resti dei due equipaggi vengono infine presi a bordo del
cacciatorpediniere Highlander (che li
sbarcherà a Londonderry), mentre il Nemea
viene abbandonato alla deriva nel punto 52°57’ N e 23°58’ O e affonderà in
seguito.
Il Torelli a Bordeaux (da www.marina.difesa.it,
via Marcello Risolo e www.naviearmatori.net)
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16 gennaio 1941
All’una di notte il Torelli, stando in superficie, colpisce
con un siluro (o due) un terzo piroscafo, il greco Nicolas Filinis da 3111 tsl (in navigazione da Barry a Freetown ed
anch’esso appartenente al disperso convoglio OB. 272), con 3 vittime tra i 29
membri del suo equipaggio; poi lo cannoneggia con il cannone da 120 mm.
Abbandonata dai superstiti, la nave affonderà più tardi in posizione
approssimata 53° N e 24° O (o 52°45’ N e 24°05’ O; 429 miglia a ponente di
Rockfall).
Il Torelli ritiene di aver anche
danneggiato una quarta nave, che sarebbe però sfuggita a causa del maltempo; da
parte britannica, tuttavia, questo quarto siluramento non risulta.
20 gennaio 1941
In immersione, lancia
tre siluri contro altrettanti cacciatorpediniere, ma nessuna delle armi va a
segno. Viene poi sottoposto a caccia antisom da parte dei tre
cacciatorpediniere, con lancio di 18 bombe di profondità.
28 gennaio 1941
Alle 21 il Torelli, restando immerso in condizioni
di maltempo, affonda con un siluro, in posizione 54°54’ N e 19°20’ O (o 54°57’
N e 18°50’ O; 250 miglia ad ovest dell’Irlanda, 234 miglia a ovest-nord-ovest
di Rockwall), il piroscafo britannico Urla
(5198 tsl), unità dispersa del convoglio HX 102, rispetto al quale è rimasto
indietro causa carbone di cattiva qualità. Il piroscafo, carico di acciaio,
grano e legname, era in navigazione da New York e Halifax a Manchester al
comando del capitano Marsden. Dei 42 componenti del suo equipaggio, non ci sono
vittime; il comandante in seconda e 13 uomini, su una scialuppa, vengono
recuperati dopo 40 ore e sbarcati a Londonderry, mentre il comandante e 27
uomini, su un’altra lancia, saranno tratti in salvo dopo sei giorni e sbarcati
ad Oban.
4 febbraio 1941
Il Torelli giunge a Pauillac, vicino a Bordeaux,
concludendo la missione.
Per i risultati
conseguiti – quattro navi affondate per 17.498 tsl, il maggior successo colto
fino ad allora in una singola missione da un sommergibile italiano – il
comandante Longobardo verrà decorato con la Medaglia d’Argento al Valor
Militare, con motivazione «Comandante si sommergibile oceanico, nel corso di
una lunga missione attaccava in superficie con tenacia ed ardimento un
convoglio nemico del quale affondava in azione notturna tre piroscafi. In
successiva azione, affondava un quarto piroscafo ed attaccava due
cacciatorpediniere nemici, dimostrando combattività ed elevate capacità
professionali nel sottrarre la propria unità alla violenta reazione nemica».
Segue il periodo di
usuali riparazioni allo scafo e riposo dell’equipaggio, durante il quale si
verifica un duplice avvicendamento: il comandante Longobardo cede il comando
del sommergibile al tenente di vascello Antonio De Giacomo (altra fonte
posticipa l’avvicendamento a dopo la missione successiva), ed il comandante in
seconda, tenente di vascello Francesco Pedrotti, viene al contempo rimpiazzato
dal sottotenente di vascello Girolamo Fantoni.
Durante i lavori, la
voluminosa torretta viene sostanzialmente ridotta.
Sopra, il
comandante Longobardo (a sinistra) riceve i complimenti del capitano di fregata
Hans-Rudolf Rösing, ufficiale di collegamento tedesco a Betasom, al rientro
dalla missione; sotto, Longobardo, debitamente sbarbato, stringe la mano all’ammiraglio
Karl Dönitz, comandante della flotta subacquea tedesca, mentre a sinistra si
riconosce l’ammiraglio Parona (da “I sommergibili italiani nell’Atlantico
settentrionale. Le operazioni e i problemi operativi (ottobre 1940-maggio 1941)”
di Francesco Mattesini, su www.academia.edu)
Salpa da Bordeaux per
operare ad ovest dell’Irlanda, operando con il gruppo «Da Vinci» (Da Vinci, Torelli, Malaspina e Cappellini).
Non avendo avvistato
alcuna nave, riceve poi ordine di trasferirsi a ponente della Scozia, ma di
nuovo non si vedono risultati.
18 aprile 1941
Forma una linea di
pattugliamento ad ovest dell’Irlanda insieme ai sommergibili italiani Da Vinci, Cappellini e Malaspina ed
ai tedeschi U 73, U 101 e U 110.
22 aprile 1941
Avvista un convoglio
diretto in Gran Bretagna, ma non riesce a contattare i sommergibili tedeschi U 101 e U 110 per lanciare un attacco coordinato. L’indomani un ricognitore
Focke-Wulf FW 200 del I/KG. 40 viene inviato a perlustrare la zona indicata dal
Torelli, ma non riesce a trovare
traccia del convoglio.
9 maggio 1941
Viene inviato,
insieme al Cappellini, a cercare un
convoglio avvistato da un FW 200 tedesco a ponente dell’Islanda, ma la
posizione indicata dall’aereo è sbagliata di oltre cento miglia.
11 maggio 1941
Lascia il settore
assegnato per rientra alla base.
16 maggio 1941
Raggiunge Bordeaux.
29 giugno 1941
Prende il mare per
una missione ad ovest di Gibilterra, per operare in gruppo con i
sommergibili Da Vinci, Baracca, Alessandro Malaspina, Comandante Cappellini, Michele Bianchi, Morosini, Barbarigo e Alpino Bagnolini.
5 luglio 1941
Intercetta un piccolo
convoglio a ponente di Gibilterra e richiama sul posto i sommergibili Da Vinci, Baracca, Morosini e Malaspina per un attacco coordinato, poi
tenta infruttuosamente di attaccare un cacciatorpediniere, ma viene respinto
dall’immediata reazione della scorta, e non può così completare l’attacco.
7 luglio 1941
Avvista ed attacca un
altro convoglio (forse l’HG. 66), con rotta nord/ovest, in posizione 35°15’ N e
10°25’ O, venendo di nuovo respinto dalla scorta. Da Vinci, Baracca e Morosini ed il tedesco U 103 vengono inviati ad intercettare il
convoglio, ma nessuno riesce a trovarlo.
18 luglio 1941
A seguito
dell’avvertimento dei comandi tedeschi, da parte di agenti spagnoli, che il
convoglio britannico HG 67 ha lasciato Gibilterra, il Torelli, insieme ai sommergibili italiani Malaspina, Morosini, Barbarigo e Bagnolini, viene posizionato per intercettare il convoglio; ma i
comandi britannici, appreso ciò dalle decrittazioni di “ULTRA”, modificano la
rotta seguita dall’HG 67, che evita così lo sbarramento di sommergibili.
21 luglio 1941
Alle 21.34 (ora
italiana, differente da quella di bordo dell’Ida Knudsen) il Torelli
attacca la motonave cisterna norvegese Ida
Knudsen (8913 tsl), in navigazione isolata da Port of Spain a Gibilterra
con oltre 13.000 tonnellate di benzina. La petroliera avrebbe dovuto incontrare
la scorta ad essa assegnata il giorno stesso, nel punto 34°30’ N e 15°oo’ O, ma
non l’ha trovata, in quanto essa non è stata inviata per vari problemi (solo
due pescherecci armati erano disponibili, e, mancando informazioni aggiornate
sulla posizione dell’Ida Knudsen,
sono stati mandati ad assistere un’altra nave), ed è pertanto proseguita da
sola lungo la rotta prestabilita, sperando di incontrare la scorta più avanti.
È a questo punto, durante la sera del 21, che il Torelli la avvista al largo di Capo Blanca, una settantina di
miglia a nordest di Madera.
Sulla Ida Knudsen vengono avvertiti rumori di
motori sulla sinistra alle 19.50, il che desta speranza che sia una nave scorta
in arrivo, ma per sicurezza l’equipaggio norvegese provvede a modificare la
rotta in modo da avere il nuovo arrivato (che è il Torelli) a poppa, e viene armato il cannone da 101 mm montato a
poppa. Poco dopo il Torelli attacca:
un primo siluro va a segno alle 20.10 (ora norvegese), colpendo l’Ida Knudsen sulla sinistra, vicino al
locale pompe, e provocando una perdita di carburante. Un secondo siluro passa a
proravia della nave cisterna, e un terzo segue rotta parallela ad essa,
mancandola. La petroliera si trova nel punto 34°34’ N e 13°14’ O (a ponente di
Gibilterra e 153 miglia a nordest di Madera).
L’equipaggio invia un
SOS e poi abbandona la nave su quattro lance (una delle quali si allaga e
sbalza in mare quattro dei suoi sei occupanti, che annegano, perché messa a
mare mentre la nave è ancora in movimento, in quanto i motori continuano a
funzionare anche dopo l’ordine di fermarli). Non appena le scialuppe si sono
allontanate dalla Ida Knudsen, il Torelli la colpisce con altri due
siluri, a poppavia del castello di prua (sul lato dritto) e poco dopo a centro
nave, continuando a girare in cerchio attorno alla sua vittima, a tratti
immerso, a tratti emerso (e passando così vicino alle lance da permettere al
comandante norvegese di identificarlo come italiano, pur sbagliando la classe,
che ritiene essere la classe “Tazzoli”).
Alle 21 un ultimo
siluro del Torelli colpisce la Ida Knudsen in corrispondenza della sala
macchine, facendola affondare. (Altra fonte parla invece del lancio di quattro o
sei siluri in tutto da parte del Torelli,
due dei quali a segno causando l’affondamento).
Dell’equipaggio della
Ida Knudsen, cinque uomini perdono la
vita, 14 superstiti su due scialuppe (compreso il comandante) saranno raccolti il
25 luglio dal piropeschereccio portoghese Altair
e portati a Las Palmas, mentre altri 17 naufraghi su una lancia raggiungeranno
Agadir (Marocco) il 28 luglio e due (sulla scialuppa semiallagata) arriveranno
a Tenerife il 9 agosto.
28 luglio 1941
Il Torelli rientra a Bordeaux.
Il Torelli in manovra per entrare nel bacino a livello costante di
Bordeaux (g.c. STORIA militare)
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7 settembre 1941
Lascia Bordeaux, inviato
a ponente dello stretto di Gibilterra, per operare in gruppo con i sommergibili
Archimede, Comandante Cappellini, Morosini,
Alessandro Malaspina, Maggiore Baracca e Leonardo Da Vinci.
18 settembre 1941
A seguito
dell’avvistamento, da parte di un ricognitore tedesco Focke-Wulf FW 200
“Condor”, del grosso convoglio HG. 73 (25 navi mercantili scortate da 5
cacciatorpediniere, uno sloop e 8 corvette), partito il giorno prima da
Gibilterra per il Regno Unito, Torelli,
Da Vinci, Morosini e Malaspina
vengono inviati alla sua ricerca.
20 settembre 1941
In serata avvista a
ponente di Gibilterra l’HG. 73 e ne segnala l’avvistamento, salvo perdere poi
il contatto.
21 settembre 1941
Ritrova il convoglio
e lo attacca alle 22.30: lancia un siluro, stando in superficie, contro un
mercantile, ma senza successo, dopo di che i cacciatorpediniere Vimy (capitano di corvetta Henry Graham
Dudley De Chair) e Wild Swan passano
al contrattacco. Il Torelli s’immerge
con la rapida a 100 metri, ma viene bombardato con cariche di profondità; gli
attacchi proseguono per gran parte della notte, mentre il convoglio (ma non i
cacciatorpediniere impegnati nella caccia antisom) si allontana. Alla fine il
sommergibile riesce a sottrarsi alla caccia.
22 settembre 1941
Dato che la
situazione sembra essersi calmata, il Torelli
riemerge e ripete l’attacco al convoglio, alle 00.30 (di nuovo con il lancio di
un singolo siluro, in superficie, contro una nave mercantile), ma di nuovo il Vimy, che non si è allontanato,
contrattacca. Il battello italiano deve di nuovo effettuare un’immersione
rapida seguita da navigazione silenziosa, ma le bombe di profondità esplodono
piuttosto vicine, ed il sommergibile sprofondare sino a 180 metri di
profondità, ben oltre la quota di collaudo. Iniziano a verificarsi
infiltrazioni d’acqua in più punti, molte tubazioni saltano; il comandante De
Giacomo si consulta rapidamente con gli ufficiali e poi ordina di scaricare in
mare della nafta, per far credere ai cacciatori di essere affondato, ma
l’espediente non funziona. Mentre le bombe di profondità seguitano ad
esplodere, i nervi di alcuni membri dell’equipaggio iniziano a cedere: alcuni
bestemmiano o piangono, uno prende a gridare come un folle e si dirige verso il
deposito delle armi per suicidarsi, ma viene fermato. L’ossigeno inizia a scarseggiare,
le batterie dei motori elettrici si
vanno lentamente esaurendo; ogni attività è ridotta al minimo. Il comandante De
Giacomo gira di quando in quando tra i locali per risollevare il morale, ma la
maggior parte dell’equipaggio è in preda all’apatia.
Dopo alcune ore di
apparente tranquillità, infine, De Giacomo ordina di emergere, poi perlustra
attentamente la superficie con il periscopio: infine l’annuncio liberatorio:
«orizzonte libero!» che scatena l’urrà di tutto l’equipaggio.
Dopo aver vuotato le
sentine e riparato le tubazioni colpite, il Torelli
deve dirigere per rientrare alla base a causa della serietà dei danni subiti.
In tutto è stato oggetto del lancio di una trentina di bombe di profondità.
25 settembre 1941
Arriva a Bordeaux.
Il capitano di corvetta Antonio De Giacomo (da “Il T.V. Antonio De Giacomo comandante del smg. Torelli in Atlantico”) |
5-23 dicembre 1941
Il Torelli (sempre al comando di De
Giacomo, promosso ora capitano di corvetta) viene inviato, insieme ai più
grandi Pietro Calvi, Giuseppe Finzi ed Enrico Tazzoli, a soccorrere i naufraghi della nave corsara tedesca
Atlantis (affondata il 22 novembre
dall’incrociatore pesante HMS Devonshire)
e della rifornitrice tedesca Python
(affondata il 1° dicembre dall’incrociatore pesante HMS Dorsetshire dopo aver recuperato i superstiti dell’Atlantis). I quattro grossi sommergibili
italiani, richiesti appositamente da Karl Dönitz per l’operazione di soccorso
in virtù della loro capienza, partono con equipaggi ridotti (in modo da avere
spazio per i naufraghi) e dirigono verso sud alla massima velocità (gli ordini
consentono di attaccare solo mercantili isolati all’andata ed in condizioni
favorevoli, mentre al ritorno, imbarcati i naufraghi, sarà interdetta ogni
azione offensiva), raggiungono al largo delle Isole di Capo Verde i
sommergibili tedeschi U-A, U 68, U 124 ed U 129, che hanno
recuperato i 414 sopravvissuti, e – tra il 13-14 ed il 17-18 dicembre, con mare
forza 4-5 – trasbordano 254 naufraghi, principalmente dell’Atlantis, usando per il trasbordo le piccole zattere di gomma degli
U-Boote. Il Torelli, in particolare,
il 14 dicembre imbarca 55 superstiti dell’Atlantis
trasbordati dall’U-A, e quattro
giorni dopo ne prende a bordo altri 34 trasferiti dal Tazzoli; poi, dopo aver superato anche un pesante bombardamento con
cariche di profondità da parte di un’unità sottile britannica, raggiunge
Saint-Nazaire con i naufraghi il 23 dicembre (per altre fonti il 25 o il 29). A
Saint-Nazaire i sommergibili con i naufraghi vengono accolti dal
contrammiraglio Eugen Lindau, comandante della Kriegsmarine nella Francia
settentrionale; il comandante De Giacomo, al pari degli altri comandanti, verrà
decorato con l’Ordine al merito dell’Aquila Tedesca dall’ammiraglio Karl Dönitz.
Il Torelli rientra da Saint-Nazaire a
Bordeaux il giorno stesso.
Viene poi sottoposto
a lavori per aumentare l’autonomia in vista di un suo impiego nelle acque delle
Americhe. Per raggiungere quelle acque, ricche di navi mercantili isolate e
poco protette seguito dell’entrata in
guerra degli Stati Uniti, dovrà per la prima volta viaggiare per più di 10.000
miglai.
I lavori, diretti
capo servizio Genio Navale di Betasom, maggiore del Genio Navale Giulio Fenu,
otterranno il risultato voluto ma a discapito della già modesta “comodità”
dell’equipaggio: è necessario ricavare spazio per stivare carburante (sul Torelli, per questa missione, 191
tonnellate di nafta), lubrificante, pezzi di ricambio, siluri (la cui riserva è
portata, sul Torelli, da dodici a
quattordici armi) e proiettili d’artiglieria (sul Torelli ne vengono imbarcati 210) in ogni luogo non strettamente
necessario alle operazioni di manovra. Sul Torelli,
per stivare le dotazioni di provviste (che sono state raddoppiate per la
missione, racimolando tutto quello che si riesce a trovare a Bordeaux: carne
congelata, insaccati, frutta e verdura, in modo da avere scorte per 7° giorni),
si rende necessario persino eliminare le cuccette.
Il Torelli giunge a Saint Nazaire con i naufraghi dell’Atlantis; sulla sinistra l’ammiraglio tedesco Lindau (da www.ahoy.tk-jk.net)
|
1° (o 2) febbraio 1942
Lascia Pauillac
diretto in Martinica (a levante delle Antille), per la sua prima missione al
largo delle coste americane, nuovo e fruttuoso “territorio di caccia” per i
sommergibili dell’Asse dopo l’entrata in guerra degli Stati Uniti. È in corso
l’operazione «Neuland», l’attacco combinato dei sommergibili italo-tedeschi
contro il naviglio mercantile Alleato nei Caraibi, che produrrà notevoli
risultati per tutti i sommergibili impiegati. Il Torelli è appunto tra i battelli prescelti per «Neuland», in gruppo
con Da Vinci, Finzi, Tazzoli e Morosini (gruppo «Da Vinci»).
La navigazione
avviene, fino a dopo le Azzorre (cioè finché ci si trova nel raggio d’azione
dei ricognitori e delle navi britanniche in pattugliamento), con entrambi i
motori (a 12 nodi), poi con un solo motore (a 6 nodi).
Per il Torelli gli ordini (ordine d’operazione
n. 90) sono di «operare contro il traffico nemico lungo le rotte e nelle zone
stabilite» e «raccogliere tutti gli elementi possibili sul traffico nemico e
neutrale»; è consentito spostarsi verso nordovest rispetto alla zona d’agguato
assegnata, restando nei limiti dell’autonomia. Qualora durante il ritorno vi
dovesse essere scarsità di nafta, è prevista la possibilità di rifornirsi
segretamente dalla nave cisterna Fulgor,
internata nel porto spagnolo di Cadice e attrezzata da lungo tempo come nave
appoggio.
Sul Torelli, destinato a raggiungere le
acque più calde (al largo della Guyana), si è imbarcato per l’occasione il capitano
medico Roberto Lo Schiavo, che al rientro presenterà una dettagliata relazione
sulla missione, con varie proposte per migliorare quanto più possibile le
condizioni di vita a bordo durante tali missioni.
A bordo del Torelli, nel febbraio 1942 (da “Operazione Westindien” di Francesco Mattesini, via www.academia.edu) |
12 febbraio 1942
Durante la
navigazione di avvicinamento alla zona d’agguato, il comandante De Giacomo
riceve da Bordeaux una lieta notizia: «Per Comandante De Giacomo: nato
maschietto tutto bene. Rallegramenti». È il suo secondo figlio; festeggia
assieme a tutto l’equipaggio.
19 febbraio 1942
Poco dopo le nove del
mattino il Torelli, mentre sta
attraversando il Mar dei Sargassi diretto alla zona assegnata (dov’è quasi
arrivato), incontra il piroscafo britannico Scottish
Star, di 7224 tsl. La nave, partita da Liverpool il 2 febbraio (provenendo
da Londra) e facente parte del disperso convoglio ONS. 63, è diretta a Montevideo
e Buenos Aires con un carico di 2000 tonnellate di merci varie, ed il suo
comandante le ha fatto seguire una rotta più ad est di quella usuale nella
speranza di restare al di fuori del “terreno di caccia” dei battelli dell’Asse:
invece incontra il Torelli, il quale si
pone al suo inseguimento, che si protrae per tutto il giorno.
Alle 21.05 il Torelli colpisce lo Scottish Star con uno o due siluri (nella stiva numero 3, sul lato
di dritta), che uccidono i quattro uomini di guardia in sala macchine e
provocano il rapido allagamento della stiva 3, della sala macchine e della
stiva carbonaia, facendolo abbassare rapidamente sull’acqua. Alle 21.30
l’equipaggio abbandona la nave su quattro lance. Dopo che l’equipaggio si è
messo in salvo, il sommergibile apre il fuoco anche col cannone (cinque salve)
contro il piroscafo, che affonda alle 00.27 del 20 febbraio in posizione 13°24’
N e 49°36’ O (770 miglia ad est della Martinica, 700 miglia ad est-nord-est di
Trinidad e 667 miglia a levante di Barbados), senza che il comando di Trinidad,
che ha ricevuto il suo segnale SSS, possa fare alcunché. Del suo equipaggio, vi
sono 4 vittime su 73 uomini; tre delle quattro scialuppe, cariche in tutto di 51
naufraghi (tra cui il comandante, capitano Edgar Norton Rhodes), verranno
soccorse dall’incrociatore leggero britannico Diomede (che sbarcherà i superstiti a Port of Spain), mentre la
quarta (con il primo ufficiale e 16 membri dell’equipaggio) raggiungerà Barbados
il 27 febbraio.
L’affondamento dello Scottish Star è il primo successo colto
da un sommergibile italiano nelle acque delle Americhe.
Il Torelli durante una missione atlantica nel 1942 (g.c. STORIA militare)
|
22 febbraio 1942
Riceve ordine da
Betasom di spostarsi al largo di Capo Orange, in Brasile, dove U-Boote tedeschi
hanno segnalato esservi un intenso traffico navale. La radio funziona in modo
irregolare, rendendo difficili i contatti con Bordeaux.
24 febbraio 1942
Navigando in
superficie, giunge ad est di Trinidad e vi incontra il giorno stesso due
piroscafi, che non riesce ad attaccare perché troppo veloci, nonché per via di
piovaschi che riducono di molto la visibilità. Lo stesso accade più tardi,
quando avvista una nave cisterna.
25 (o 26) febbraio 1942
Attacca nel mar dei
Caraibi, alle 00.43, la moderna motonave cisterna panamese (in servizio per gli
Stati Uniti) Esso Copenhagen, di 9245
tsl, in navigazione da Aruba a Buenos Aires con un carico di 15.000 tonnellate
di olio combustibile.
Il Torelli dapprima lancia due siluri, che
non vanno a segno per un errore nell’apprezzamento della velocità della
petroliera, poi ne lancia un terzo da 1500 metri di distanza, ma l’arma segue
una rotta irregolare e passa a proravia dell’Esso Copenhagen, mancandola. Il quarto siluro va invece a segno,
immobilizzando e incendiando la nave cisterna, mentre il quinto e ultimo non
colpisce a causa della rotta a zig zag seguita dalla Esso Copenhagen.
Il Torelli apre poi fuoco intimidatorio con
cannone e mitragliere, per obbligare l’equipaggio ad abbandonare la nave; cessa
il tiro quando gli uomini della petroliera ammainano le lance, per dar loro il
tempo di porsi in salvo. Una delle scialuppe si capovolge, facendo finire in
mare i suoi sette occupanti, che si reggono a galla a stento nel denso strato
di nafta che copre il mare; sentendoli chiedere aiuto, il comandante De Giacomo
porta il Torelli verso una lancia
vuota che galleggia ad un centinaio di metri dai naufraghi, vi manda a bordo
alcuni suoi uomini per distruggere la radio (a scopo precauzionale) e poi
rimorchia l’imbarcazione verso gli uomini in acqua, che possono così
arrampicarvisi a bordo.
Il Torelli riprende poi il tiro col cannone
contro l’ormai deserta Esso Copenhagen:
divorata dalle fiamme, la petroliera affonderà di prua il mattino seguente, nel
punto 10°32’ N e 53°20’ O (480 o 525 miglia
a levante di Trinidad).
38 dei 39 uomini del
suo equipaggio verranno tratti in salvo.
Quattro
immagini, scattate da bordo del Torelli,
dell’attacco all’Esso Copenhagen (sopra:
g.c. STORIA militare; sotto: da Francesco Mattesini, “Operazione Westindien”, su www.academia.edu)
9 marzo 1942
Avvista un piroscafo
postale francese.
10 marzo 1942
Lascia l’area
d’agguato per tornare alla base.
13 marzo 1942
Poco prima del
tramonto, il Torelli incontra la
motonave armata britannica Orari, da
10.350 tsl, in posizione 13° N e 57° O (o 13°20’ N e 56°40’ O; a nordest di
Trinidad), ma la superiore velocità di quest’ultima (che procede a zig zag a
14-16 nodi) non gli permette di portarsi in una posizione adatta ad attaccare.
Restando in
superficie, il Torelli lancia egualmente
un siluro contro l’Orari, alle 00.56 del
14, e ritiene di averla colpita, ma in realtà la scia dell’arma viene avvistata
dalle vedette britanniche, e la motonave riesce ad evitarla con pronta manovra.
19 marzo 1942
Avvista un piroscafo
spagnolo.
26 marzo 1942
Mentre il Torelli naviga a nordest delle Azzorre,
gli uomini in torretta avvistano il periscopio di un sommergibile sconosciuto
e, prudenzialmente (non essendo possibile accertare se sia amico o nemico), il
comandante De Giacomo ordina di disimpegnarsi rapidamente con la manovra.
31 marzo 1942
Arriva a Bordeaux
insieme a Giuseppe Finzi ed Enrico Tazzoli, anch’essi di ritorno da
«Neuland» dopo aver affondato rispettivamente tre e sei mercantili. L’arrivo
dei tre battelli, sui cui periscopi sventolano orgogliosamente undici
bandierine (una per ogni nave affondata) è accolto trionfalmente dal personale
di Betasom, dal comandante della Base Atlantica contrammiraglio Romolo
Polacchini, dal console italiano a Bordeaux, da rappresentanze delle scuole
italiane e delle organizzazioni fasciste in uniforme, da cineoperatori
dell’Istituto Luce (appositamente inviati da Marina Roma per filmare il
rientro), da giovani italiani che offrono mazzi di fiori ai comandanti, dall’ammiraglio
tedesco Menche, dal generale tedesco Von Roteberg, da rappresentanze della
Wehrmacht e delle organizzazioni del lavoro tedesche e da donne tedesche che
offrono ai marinai mazzi di fiori legati con nastri dai colori italiani e
tedeschi.
Causa un
funzionamento irregolare delle batterie, la nafta nei serbatoi è stata
consumata fino all’ultima goccia.
In 69 giorni, il Torelli ha percorso 12.180 miglia,
affondando 16.469 tsl di naviglio.
Durante gli usuali
lavori di manutenzione, il comandante De Giacomo viene sostituito dal tenente
di vascello Augusto Migliorini.
Il comandante De Giacomo, al centro, viene complimentato dal contrammiraglio Polacchini (a destra) e dal suo capo di Stato Maggiore, capitano di fregata Giuseppe Caridi (a sinistra), al rientro dalla fruttuosa missione al largo dei Caraibi (da “Operazione Westindien” di Francesco Mattesini, su www.academia.edu) |
Leigh Light
La fortuna del Torelli, uno dei battelli di maggior
successo di Betasom, si esaurì nel marzo 1942.
Dopo gli usuali
lavori, infatti, nel pomeriggio del 2 giugno 1942 il sommergibile lasciò La
Pallice per una nuova missione in acque americane, e precisamente 330 miglia a
nordest di San Salvador (Bahamas).
Il Torelli prese il mare insieme ad un
altro sommergibile diretto in acque americane, il Morosini; entrambi erano sovraccarichi di carburante, per la lunga
missione che li attendeva, ed in ritardo di un giorno, a causa del tempo
avverso. Dopo poche miglia i due battelli si separarono, ognuno diretto alla
propria destinazione.
Alle 3 di notte del 3
giugno, il Torelli virò per assumere
rotta 264°, dirigendo per la sua zona d’operazioni.
La sua navigazione
(effettuata in immersione di giorno, coi motori elettrici, per evitare attacchi
aerei, ed in superficie di notte), tuttavia, durò soltanto due giorni: il 4
giugno 1942, infatti, il Torelli acquisì
un involontario primato nella storia della battaglia dell’Atlantico, quello di
essere stato il primo sommergibile dell’Asse a venire attaccato con la «Leigh
Light».
Era questo un potente
proiettore di cui diversi aerei antisommergibile Alleati erano stati dotati in
quel periodo, per migliorarne le potenzialità negli attacchi notturni. I
velivoli erano infatti provvisti di radar, che permetteva di individuare i
sommergibili di notte (l’ASV2 aveva un raggio di sette miglia), ma non certo di
“vederli” bene; e problema principale dei radar per aerei era il fatto che,
nell’ultimo minuto (mentre si percorreva l’ultimo miglio) dell’avvicinamento al
bersaglio da attaccare, le caratteristiche del radar ed il “riflesso” del radar
“offuscavano” il segnale, facendo perdere il bersaglio proprio quando si stava
per attaccare. Ruolo della «Leigh Light» era appunto di illuminare i
sommergibili precedentemente localizzati con il radar, in modo da permettere
attacchi più precisi, con grappoli di bombe, contro un bersaglio ben visibile.
Nella notte tra il 3
ed il 4 giugno, quattro bombardieri Vickers Wellington Mark III del 172nd
Squadron della Royal Air Force, dotati per la prima volta del nuovo apparato
(oltre che di radar ASV2), erano decollati da Chivenor (Devon settentrionale)
per andare a caccia di sommergibili nel Golfo di Biscaglia. Uno di essi, l’ES986
battezzato «F for Freddie» e pilotato dal maggiore (Squadron Leader) Jeaff H.
Greswell, comandante del 172nd Squadron, trovò il Torelli, intento a navigare in
superficie una settantina di miglia a nord di Gijón (Spagna) e precisamente nel
punto 44°43’ N e 06°46’ O (44°33’ N e 06°46’ O per fonti italiane).
Il sommergibile stava
procedendo in superficie a 9 nodi di velocità, con rotta 267°, nella notte
oscura, priva di luna ma caratterizzata da forte fosforescenza del mare, che
faceva risaltare la scia (anche se questo, contrariamente a quanto poi ritenuto
dal comandante del Torelli, non ebbe
alcuna parte nella sua localizzazione).
Greswell localizzò
dapprima il sommergibile con il radar, a 5-6 miglia di distanza, quindi si
avvicinò e ad un miglio di distanza accese il proiettore, ma – dato che un
mutamento della pressione atmosferica (avvenuto dopo il decollo) aveva alterato
la regolazione dell’altimetro (che era stato regolato in base alle previsioni
meteorologiche), che segnava una quota 30 metri più bassa di quella effettiva –
si avvicinò volando a quota troppo alta per poter avvistare il battello
italiano, che fu visto dall’aereo troppo tardi, quando lo stava già sorvolando.
Il proiettore aveva illuminato il mare più lontano, al di là del battello
italiano.
Sul Torelli, alle 2.27 (ora italiana, per
altre fonti 2.17; 1.27 per l’orario britannico) del 4 giugno gli uomini di
guardia in torretta sentirono il rumore di un aereo che si avvicinava volando a
bassa quota, poi videro il proiettore del Wellington – che li stava sorvolando
– accendersi a circa un chilometro di prora e illuminare il mare poco distante,
mancando di poco il sommergibile. Quest’ultimo vide l’aereo volare sopra di sé,
indi spegnere il proiettore e sparire nuovamente nel buio.
Quanto accadde
successivamente presenta alcune discrepanze a seconda della versione.
In entrambi i casi,
il comandante Migliorini, data la zona del Golfo di Biscaglia in cui si trovava
(l’estremo angolo sudoccidentale) ed il fatto che l’aereo li aveva sorvolati a
bassa quota senza attaccare, ritenne che il velivolo potesse essere aereo della
Luftwaffe in pattugliamento, ma per sicurezza ordinò comunque alle vedette in
plancia di scendere sottocoperta, per essere pronti ad un’immersione
d’emergenza; fece anche abbassare la velocità, così riducendo la sua scia
fosforescente (non sapendo del radar, attribuiva il suo avvistamento alla fosforescenza
della scia), e fece armare le mitragliere della torretta.
Tutti i resoconti di
parte britannica dell’azione, tuttavia, affermano anche che Migliorini, proprio
perché riteneva il nuovo arrivato un aereo tedesco, fece sparare dei razzi di
riconoscimento rossi, Bianchi e
verdi, il cui lancio permise a Greswell (dopo un iniziale dubbio se in effetti
il sommergibile non fosse amico, subito dissipato dal ricordo che i
sommergibili britannici non usavano i razzi come mezzo di riconoscimento) d’individuare
con precisione il suo bersaglio. Da parte italiana non si fa alcuna menzione di
questo episodio, che non è quindi chiaro se sia effettivamente accaduto; anzi
risulta che Migliorini, dopo qualche minuto, ordinò prudenzialmente
d’immergersi – pur ritenendo difficile che l’aereo potesse essere tanto
“fortunato” da poterlo avvistare di nuovo – ed il nuovo attacco avvenne proprio
mentre gli uomini in torretta stavano scendendo sottocoperta.
In ogni caso
Greswell, dopo aver fatto ri-tarare l’altimetro al suo copilota (sottotenente Allan
W. R. Triggs), tornò all’attacco, stavolta volando a circa 76 metri di quota,
indi accese nuovamente la «Leigh Light» da una distanza di tre quarti di miglio.
A bordo del sommergibile, si sentì l’aereo sconosciuto virare e tornare verso il battello, scendendo di
quota; attaccò provenendo dal traverso a dritta. Questa volta, il Torelli fu investito in pieno dal fascio
di luce del proiettore: seguirono quattro bombe di profondità Mk 8 sganciate da
soli 15 metri d’altezza, regolate per scoppiare a profondità minima e
distanziate tra loro di dieci metri, ciascuna contenente 136 kg di esplosivo
Torpex (un esplosivo almeno del 30 % più potente dell’amatolo usato in
precedenza per tali armi). Migliorini diede l’ordine d’immersione, ma era già
troppo tardi.
La piccola fortuna
del sommergibile italiano fu che gli ordigni, per via delle spolette difettose,
non esplosero alla profondità impostata (erano regolati per detonare a 7,6
metri di profondità), bensì a profondità maggiore, causando al suo scafo danni
tremendi, ma non fatali. Uno dei quattro, difettoso, non detonò; degli altri
tre, uno scoppiò circa 4,5 metri a poppa dritta del sommergibile, e due sulla
sua sinistra.
Le altre tre bombe
scoppiarono mentre il personale di guardia in torretta si precipitava
sottocoperta: lo scossone delle esplosioni, però, fece sbloccare il gancio che
teneva aperto il portello della torretta, che si chiuse e si bloccò, chiudendo
fuori il nostromo, ultimo a scendere. Questi rimase inerme a guardare mentre il
Wellington, ormai privo di bombe, effettuava altri due passaggi mitragliando la
torretta, per poi allontanarsi. Rimase illeso.
Il comandante
Migliorini, penultimo a scendere sottocoperta, annullò all’ultimo momento
l’ordine d’immersione mentre stava scendendo in torretta, dato che ormai il
danno era già fatto (e probabilmente il Torelli,
se si fosse immerso in quelle condizioni, non sarebbe mai più riemerso).
Sottocoperta, i
motori diesel ancora in funzione risucchiarono tutta l’aria presente nei locali,
creando una forte depressione (che impedì la propagazione di qualsiasi suono) e
quasi soffocando l’equipaggio, e poi si bloccarono per mancanza d’aria.
La situazione, dopo
l’attacco, appariva disperata: il Torelli
era appruato, immobilizzato e privo di luce e corrente elettrica; nel
compartimento batterie prodiero era anche scoppiato un violento incendio, che
obbligò l’equipaggio ad allagare subito il deposito munizioni (non prima di
aver prelevato alcuni proiettili per un eventuale impiego del cannone). Fumo e
gas di cloro fuoriuscivano dalle batterie.
Le squadre di
controllo si misero subito all’opera: per ripristinare l’assetto ed alleggerire
la prua, il carburante in eccesso che era stato stivato nei doppi fondi venne
espulso (finendo in mare) e sostituito con aria compressa pompata al suo posto.
Per isolare l’incendio e la nube di gas di cloro del locale batterie furono
chiusi tutti i portelli stagni tra i compartimenti prodieri, isolando tali
locali (compreso quello radio); il sommergibile si ritrovò però senza bussola
di rotta, e con i comandi del timone fuori uso.
La disastrosa
situazione generale indusse il comandante Migliorini a dirigere verso
Saint-Jean-de-Luz, piccolo porto francese vicino al confine spagnolo, pena
altrimenti la perdita dell’unità.
Durante questa
navigazione furono visti di nuovi proiettori accendersi nella notte, ma la
presenza di banchi di nebbia offrì riparo da nuovi avvistamenti.
Dato però che tutti
gli strumenti di navigazione erano rimasti danneggiati nell’attacco, l’equipaggio
doveva governare manualmente, seguendo una rotta approssimativamente verso sud
ed orientandosi con le stelle. Progressivamente fu possibile estinguere
l’incendio, organizzare la distribuzione dell’energia elettrica direttamente
dai motori diesel (essendo le batterie inutilizzabili), riparare il timone e,
alla meglio, anche la girobussola, che era però alimentata a tensione
scostante. Nulla da fare per la bussola magnetica, scardinata e priva di
magneti compensatori.
Giunto a sei miglia
dalla costa, il Torelli accostò verso
est per rientrare alla base, ma per i motivi sopracitati (più il
malfunzionamento della girobussola, del quale non si ebbe sentore, e la
mancanza di carte nautiche dettagliate della zona) finì su una rotta errata,
che, congiuntamente ad un fitto banco di nebbia (che lo proteggeva da ulteriori
attacchi aerei, ma al contempo impediva di vedere i punti di riferimento sulla
costa) nel quale era finito presso Capo Penas, lo portò ad incagliarsi su una
scogliera antistante il promontorio di Capo Penas, sulla costa spagnola.
L’incaglio avvenne
con l’alta marea; la risacca aggravò i danni allo scafo.
L’arrivo di un
peschereccio spagnolo sbloccò la situazione: dopo un breve colloquio, due
ufficiali italiani vi salirono per recarsi a terra a chiedere aiuto, ed in
breve giunsero un rimorchiatore ed un motoveliero che, aiutati dall’alta marea,
disincagliarono il Torelli.
Il malridottissimo
sommergibile poté essere rimorchiato nel porto spagnolo di Aviles, dove i
controlli rivelarono una situazione disastrosa; gli strumenti per la
navigazione erano tutti fuori uso e lo scafo presentava una serie di falle.
Difficile riprendere il mare, fuori discussione la possibilità d’immergersi.
Per maggior sicurezza, date le sue precarie condizioni, dovette essere portato
in secco su un banco di sabbia, non lontano da una fermata del tram.
L’equipaggio fu alloggiato provvisoriamente su di un piroscafo.
Nel frattempo, la
notizia dell’attacco aveva raggiunto anche i comandi tedeschi: a destare
preoccupazione non fu la «Leigh Light» in sé, quanto la scoperta che i
britannici avevano saputo realizzare dei radar adatti ad essere montati su
aerei. Il comandante della flotta subacquea tedesca, grande ammiraglio Karl
Dönitz, richiese subito che venisse sviluppato un apparato per la rilevazione
delle onde emesse dai radar, da installare sui sommergibili. Lo strumento,
denominato «Metox», fu messo a punto in breve tempo.
Il Torelli, visibilmente sbandato, ad Aviles (da www.regiamarina.net)
|
Ad Aviles, i danni
più gravi furono rattoppati alla meglio: i danni allo scafo furono
provvisoriamente tamponati con del cemento a presa rapida; nei compartimenti
prodieri (mantenuti isolati dai portelli chiusi), per ripristinarne la
galleggiabilità, fu necessario pompare dell’aria compressa mediante dei
compressori. Fu chiesto alle autorità spagnole il permesso per poter restare ad
Aviles per qualche giorno, onde ultimare le riparazioni più necessarie, ma il 6
giugno il locale comando della Marina spagnola comunicò che per disposizioni di
Madrid, in base alle regole sulla neutralità, il sommergibile avrebbe dovuto
lasciare il porto entro la mezzanotte, altrimenti sarebbe stato internato.
Dopo alcune
riparazioni provvisorie (non comunque tali da permettere di tornare ad
immergersi), il 6 giugno il Torelli dovette
lasciare Aviles per raggiungere Bordeaux. La partenza avvenne alle 23.30:
essendo costretto a restare in superficie, l’equipaggio sperava di riuscire ad
effettuare la traversata di notte, dove comunque il rischio aereo era più
contenuto. Ma la velocità ottenibile in quelle condizioni era troppo bassa, e
ormai i britannici sapevano che il sommergibile, danneggiato, avrebbe presto
dovuto lasciare Aviles: durante il suo breve soggiorno in quel porto, aerei
britannici lo avevano sorvolato in più occasioni.
Dato che alcuni
locali erano chiusi ed isolati, metà dell’equipaggio dovette rimanere in
coperta – con indosso i giubbotti
salvagente, per ogni evenienza – durante la navigazione, che fu effettuata
ancora orientandosi senza bussola.
L’indomani, pertanto,
il Torelli venne nuovamente attaccato
da aerei: due idrovolanti antisommergibile Short Sunderland Mark II del 10th
Squadron della Royal Australian Air Force (di base a Mountbatten nel
Devonshire), il W3994/X pilotato dal sottotenente (pilot officer) Thomas A.
Egerton ed il W4019/A pilotato dal capitano (flight lieutenant) Edwin St. Clare
Yeoman.
Il primo ad avvistare
il Torelli, da una distanza di cinque
miglia, fu il Sunderland del sottotenente Egerton, che stava volando a 460
metri di quota: provenendo dalla direzione del sole, l’aereo aprì il fuoco con
le mitragliatrici in ripetuti attacchi a bassa quota, ed il sommergibile
rispose a sua volta col tiro delle proprie mitragliere quando la distanza fu
calata a 915 metri. Si cercò di usare anche il cannone di coperta in funzione
contraerea, ma l’alzo non era sufficiente (e per giunta i proiettili erano
muniti di spolette antinave, non antiaeree); alcuni uomini giunsero persino ad
appostarsi in torretta armati di mitra e fucili: qualsiasi cosa potesse
respingere gli aerei. Qualcuno, scherzando, disse al comandante che avrebbero
potuto abbattere l’aereo alzando il periscopio quando li sorvolava.
Tra i serventi delle
mitragliere era anche il direttore di macchina, capitano del Genio Navale
Rinaldo Rinaldi, salito in coperta per partecipare all’azione, e che riuscì a
centrare il suo bersaglio (Rinaldi fu decorato con la Medaglia d’Argento al
Valor Militare, con motivazione: «Capo Servizio G.N. di sommergibile in
missione di guerra in Atlantico, gravemente danneggiato nel corso di un duro
combattimento con aerei nemici, dimostrava in ogni circostanza elevata perizia
professionale nell’apprezzare tecnicamente la situazione e nell’adottare con
tempestività e competenza i provvedimenti intesi a ristabilire la completa
efficienza dell’unità. Sottoposto il sommergibile a nuovi, reiterati attacchi
aerei, concorreva con coraggio ed ardimento alla vivace reazione, infliggendo
con l’intenso fuoco della mitragliera gravi danni agli apparecchi attaccanti.
Noncurante del pericolo ed animato da indomito spirito combattivo, proseguiva
tenacemente a far fuoco contro gli aerei finché la sua arma non gli veniva
inutilizzata dal tiro nemico»).
L’aereo, avvicinatosi
a bassa quota, fu colpito, con il ferimento di due membri del proprio
equipaggio, ma riuscì a sganciare un grappolo di sette (oppure otto) bombe di
profondità – che sollevò dal mare la poppa del Torelli, ma non provocò danni gravi – e a richiamare sul posto il
Sunderland di Yeoman. Le bombe di Egerton mancarono di poco il Torelli, che proprio in quel momento
aveva subito un’avaria al timone (così agevolando l’attacco), ferendo tutti i
serventi del cannone, che ciononostante continuò a sparare, al pari delle
mitragliere. Nonostante i danni, il sommergibile continuò a procedere e fare
fuoco, mentre il Sunderland, pure danneggiato, continuò il mitragliamento per
poi allontanarsi.
L’aereo di Yeoman
rilevò un contatto alle 3.58 della notte, a tre miglia al traverso a sinistra, girò
in cerchio, si avvicinò ed avvistò il sommergibile italiano, che procedeva in
superficie a 12 nodi.
Di nuovo il Torelli aprì il fuoco, colpendo la
deriva di coda del nuovo arrivato (e danneggiando il suo timone); ma
quest’ultimo sganciò a sua volta – da 30 metri di altezza, con un’angolazione
di 30° – un pacchetto di otto bombe di profondità da 113 kg, due delle quali
esplosero sotto il sommergibile, sollevandolo dal mare (sull’aereo sembrò
persino che la scossa avesse fatto fuoriuscire un siluro dai tubi poppieri) ed
inondandolo fino in torretta. Il sommergibile fece ancora in tempo a
vendicarsi: mentre l’aereo di Yeoman si allontanava, le mitragliere del Torelli lo colpirono ancora, colpendone
il motore esterno di dritta e perforandone il galleggiante destro. Oltre alle
bombe, il Sunderland di Yeoman aveva sparato circa 1075 proiettili con le
proprie mitragliatrici; avendo iniziato a vibrare per i danni subiti, dovette
dirigere per rientrare alla base.
A bordo del Torelli, il nuovo attacco ferì il
comandante ed un ufficiale; il tiro delle mitragliere dei Sunderland uccise il
sergente Fiovo Pallucchini e ferì cinque uomini. Sui due Sunderland, entrambi
seriamente danneggiati dal tiro del sommergibile, vi furono tre feriti.
I nuovi danni rendevano
impossibile proseguire nel viaggio: il battello era immobilizzato, il timone
era inceppato, la galleggiabilità in diminuzione, tanto da costringere a
gettare fuori bordo il cannone di coperta – che d’altra parte era divenuto
inutilizzabile, essendo stato “scavalcato”, al pari delle mitragliere: una era
scomparsa in mare, l’altra era spezzata – per alleggerire l’unità. Il
sommergibile aveva vie d’acqua a poppa, con conseguente appoppamento (fu
necessaria l’intercettazione dei locali poppieri, che si stavano allagando), ed
era pericolosamente sbandato sulla sinistra; una decina di uomini era stata
gettata in mare dagli scoppi, o vi si era gettata ritenendo l’affondamento
imminente. Il compressore era fuori uso, quindi non si poteva più neanche
pompare aria nei locali danneggiati, come fatto in precedenza.
Come nel primo caso,
l’attacco non era stato fatale perché le bombe di profondità erano affondate
troppo velocemente e portando con sé una bolla d’aria, che ritardava
l’attivazione della spoletta (per risolvere tale problema, i britannici
avrebbero in seguito applicato dei coni su entrambe le estremità della bomba, così
che colpisse la superficie “di lato” anziché “di punta”, affondando più
lentamente e scoppiando alla profondità desiderata).
In un quarto d’ora, i
motoristi furono in grado di rimettere in moto i motori, che funzionavano quasi
senza olio. Dopo una provvisoria riparazione del timone (che era incastrato
alla banda), il Torelli – dovendo
comunque perlopiù governare coi motori – provvide a recuperare gli uomini
finiti in mare che riuscì a rintracciare, mentre gli altri vennero tratti in
salvo da alcune imbarcazioni spagnole.
Tra questi ultimi
c’era il motorista navale Giovanni Volpato: era uno degli uomini che erano
dovuti restare in coperta e, al momento dell’attacco, era girato intorno alla
torretta con dei compagni per ripararsi dal mitragliamento, ma era stato
improvvisamente gettato in mare, senza neanche poter capire da cosa. Riemerse a
fatica, in mezzo agli altri compagni finiti in mare, che annaspavano per
restare a galla; poco lontano si vedeva il Torelli,
fortemente sbandato ed in apparente procinto di affondare. Volpato vide due
uomini in torretta scendere ed iniziare a buttare in mare di tutto per
recuperare gli uomini in mare, mentre per parte sua, insieme ad altri sei o
sette compagni illesi ed in buono stato fisico, tentò di raggiungere la costa a
nuoto, mentre la corrente tendeva a spingerli verso il largo. Vedendo che il Torelli – sempre più sbandato –
recuperava via via gli uomini in mare, si fermarono anche loro per non sprecare
forze, aspettando che raggiungesse anche loro, ma non li vide e passò oltre,
dirigendosi verso la costa. Un altro naufrago, Cascone, continuava a gridare
aiuto, ma Volpato gli disse infine di non sprecare fiato, essendo ormai
inutile. Passarono quelle che parvero delle ore, senza che si vedesse cenno di
qualche soccorso in arrivo; Volpato rivolse le sue preghiere alla Madonna ed a
Sant’Antonio da Padova, disse anche che se avesse avuto dei figli avrebbe detto
loro di fare i bravi “sennò li avrei mandati in marina!”. Gli parve di vedere
delle barche, poi perse i sensi; si svegliò su una barca di pescatori, che lo
aveva tratto in salvo insieme ai suoi compagni. Furono poi condotti a terra ed
ospitati brevemente nella modesta abitazione dei pescatori – pavimento di
terra, vecchi mobili –, che offrirono loro latte e coperte, prima di essere
trasferiti in ambulanza all’Albergo Concession di Standander (dove Volpato
sarebbe stato poi colto dalla febbre, che non lo avrebbe più lasciato per
mesi).
Per non affondare, il
Torelli dovette cercare di nuovo
rifugio in acque spagnole, nel porto di Santander, distante a poche miglia,
dove giunse a mezzogiorno e si adagiò su un bassofondo sabbioso. Nonostante le sue
condizioni disastrose, entrò in porto con la bandiera di combattimento a riva e
l’equipaggio schierato in coperta. Migliorini, lievemente ferito, protestò
presso il comandante del porto, per non aver inviato alcun mezzo in soccorso
del sommergibile in difficoltà.
Il Torelli arenato su un bassofondale della rada di Santander visto da un aereo, e, sotto, fortemente sbandato e fotografato da una delle unità spagnole inviate in soccorso (g.c. STORIA militare)
Nove feriti (otto dei
quali in modo grave) furono trasferiti nell’ospedale militare della città
(furono progressivamente dimessi nel corso del mese successivo e tornarono
tutti a bordo del Torelli), mentre
gli altri 51 uomini, vestiti in abiti civili, furono alloggiati negli alberghi
di Santander. Quindici-venti uomini non più necessari, soprattutto cuochi e
siluristi, furono poi rimandati a Bordeaux via terra.
Subito, l’8 giugno, l’equipaggio
si mise al lavoro per riparare gli estesi danni subiti e rimettere il battello
in condizione di navigare. Il 9 giugno, approfittando dell’alta marea, il Torelli fu risollevato dal fondale
chiudendo tutti i portelli e pompando aria compressa all’interno, dopo di che
poté essere immesso in bacino di carenaggio. Apparve subito che non avrebbe
potuto riprendere il mare se non dopo prolungate riparazioni.
Per meglio rendersi
conto della situazione si recò personalmente a Santander una commissione
composta dal maggiore del Genio Navale Fenu, capo servizio Genio Navale di
Betasom, dal capitano di fregata Giuseppe Caridi, capo di Stato Maggiore di
Betasom, e da un capitano commissario, insieme con alcuni operai della base
atlantica ed i pezzi di ricambio più indispensabili.
I danni più gravi
riguardavano le quattro batterie accumulatori, completamente distrutte; il Torelli avrebbe poi finito, data la
difficoltà nel procurarsene delle altre, con l’avere solo quattro
sottobatterie, tutte di tipo e capacità diverse. Le falle nello scafo (e gli
sfoghi d’aria dei doppi fondi) furono chiuse con lastre di metallo (flange)
saldate provvisoriamente.
Essendo le batterie
completamente inutilizzabili, i motori diesel vennero collegati direttamente ai
generatori elettrici; venne allestita anche una nuova stazione radio di
fortuna, essendo quella precedente andata distrutta. Niente da fare per
l’armamento e le munizioni.
I gravissimi danni riportati
dal Torelli, visibili dopo la sua
immissione in bacino a Santander, l’8 giugno 1942 (g.c. STORIA militare)
|
Tale lavoro richiese quasi un mese: solo il 4 luglio il Torelli fu nuovamente in grado di prendere il mare, ma nel frattempo aveva largamente superato il tempo massimo che le convenzioni internazionali consentivano, a nave da guerra di una nazione belligerante, di passare in un porto neutrale prima di essere internato: si parlò anche di un suo trasferimento alla Marina spagnola.
Le autorità di
Santander, pur mostrandosi benevole e pronte a dare ogni aiuto necessario (al
pari della popolazione locale, che trattò cordialmente l’equipaggio italiano),
richiesero che venissero smontati alcuni organi – a partire dalle eliche – per
assicurarsi che il sommergibile non potesse lasciare il porto senza
autorizzazione di Madrid, ma Migliorini rifiutò e temporeggiò, spiegando che
comunque non aveva più carburante, dunque non poteva andare da nessuna parte (in
realtà, una dozzina di tonnellate di nafta erano state travasate, di nascosto,
in uno dei serbatoi dell’acqua), il che acquietò il locale Comando della Marina
spagnola. Ad ogni modo, la richiesta, da parte di Migliorini, di un
rifornimento d’acqua incontrò un netto rifiuto.
Nel frattempo il Torelli era divenuto bersaglio di un
duello diplomatico: le autorità britanniche avevano cominciato ad accusare
(abbastanza a ragione) quelle spagnole di essere troppo “benevole” nel
trattamento delle unità italo-tedesche, facendo pressione affinché il Torelli fosse internato; le autorità
italiane, da parte loro, rilevavano (pure a ragione) che il secondo attacco ai
danni del Torelli era avvenuto in
acque territoriali spagnole, quindi in violazione delle regole sulla neutralità,
e premettero perché gli fosse concesso di ripartire. La questione giunse a
coinvolgere i rispettivi Ministeri degli Esteri e persino il dittatore
spagnolo, Francisco Franco.
Il comandante Migliorini
era totalmente all’oscuro di queste schermaglie diplomatiche; non sapeva altro
all’infuori del fatto che il Comando dell’Armada Española di Santander gli
vietava a partenza. Passarono dieci giorni senza che il Torelli, pronto a lasciare il bacino di carenaggio, si muovesse:
una sequela di ordini, contrordini e rinvii.
Nel frattempo partì
da Betasom una nuova “missione di soccorso” per organizzare la fuga del
sommergibile: la componevano l’aiutante di bandiera del contrammiraglio
Polacchini, capitano di corvetta Anfossi, e l’autista dell’ammiraglio, marinaio
Andrea Fucci. Anfossi si recò a San Sebastian, vicino al confine, il 12 luglio,
ed il giorno seguente Fucci lasciò Betasom in abiti civili, alla guida di
un’autovettura Ford targata RM 43. I due s’incontrarono a Biarritz ed
attraversarono il confine con la Spagna ad Irun in maniera piuttosto
rocambolesca: Fucci non aveva il passaporto e dovette attraversare il confine
nascosto nel bagagliaio, ed Anfossi distrasse i militari tedeschi e spagnoli
con uno scambio di battute, evitando controlli.
Una volta in Spagna
s’incontrarono anche con il console italiano; la sera seguente, a causa di un
equivoco con la polizia spagnola circa alcuni documenti relativi al garage dove
l’automobile era stata parcheggiata, Anfossi, il console ed una nobildonna con
cui avevano cenato furono portati dalla polizia spagnola nella locale
“comandancia”, mentre Fucci fu lasciato andare perché creduto spagnolo.
Chiarito l’equivoco, comunque, furono tutti rilasciati con scuse dopo poche
ore.
Il 13 luglio, Fucci
ed Anfossi arrivarono a Santander, nell’alloggio dov’erano stati ospitati gli
uomini del Torelli, intanto già
tornati a bordo. Anfossi diede a Migliorini una busta che Fucci aveva portato
da Bordeaux, contenente gli ordini sul da farsi; Fucci ebbe poi l’incarico di
vigilare, dalla camera d’albergo, e segnalare con una torcia elettrica
qualsiasi movimento di navi militari spagnole od altro evento anomalo che
avesse notato nel porto.
Fu concordato con
Betasom un piano per fuggire, appena in grado di farlo, e raggiungere Bordeaux
con navigazione notturna; ma Migliorini finì col concludere che l’unica
speranza era di partire nel momento in cui fosse stato aperto il bacino di
carenaggio, quand’anche ciò comportasse di navigare di giorno. Le autorità
spagnole, infatti, intendevano rimorchiare il Torelli, una volta uscito dal bacino, in una darsena interna in
fondo al porto, da dove non sarebbe stato più possibile uscire senza
assistenza.
Di nascosto vennero
caricate, a bordo del sommergibile, anche alcune casse di acqua minerale.
Il 14 luglio, alle
17, le autorità spagnole decisero di trasferire il sommergibile nella parte interna
del porto di Santander. Il bacino di carenaggio dove ancora si trovava venne
allagato; verificato che il Torelli
galleggiava senza problemi, la porta del bacino fu aperta e due rimorchiatori
presero il sommergibile a rimorchio, per portarlo in fondo al porto. Nel mentre
un aereo non identificato, forse britannico, sorvolava la zona, mentre il
console britannico assisteva dal molo.
Per maggior
sicurezza, sul Torelli era stato
imbarcato un ufficiale del Genio Navale del comando di Santander dell’Armada
Española, per sorvegliare sull’esecuzione della manovra; il comandante in
seconda del porto incrociava nei pressi su un motoscafo; la cannoniera spagnola
San Martin vigilava sull’uscita del
porto. A bordo del sommergibile, l’equipaggio era al posto di manovra, in abiti
civili. Migliorini ed alcuni marinai presenti in coperta salutarono la San Martin, ed un picchetto della
cannoniera rispose al saluto presentando le armi.
Quando, durante la
manovra, il Torelli si venne a
trovare con la poppa davanti all’ingresso del porto, il comandante Migliorini
decise di cogliere l’occasione per fuggire: chiese di far effettuare al battello
una rotazione completa, adducendo a motivazione la verifica sul sole delle
deviazioni della bussola magnetica (che in realtà era inutilizzabile, data la
mancanza dei compensatori), e per agevolare la rotazione chiese e ottenne che
uno dei due rimorchiatori, quello che rimorchiava il Torelli a prua, mollasse i cavi. A questo punto Migliorini ordinò
al nostromo di tagliare i cavi di rimorchio del rimorchiatore di poppa (il che
fu fatto, a colpi d’accetti) e fece accendere i motori; il comandante in seconda
del porto, resosi conto che la situazione gli stava sfuggendo di mano, salì sul
Torelli per chiedere cosa stesse
accadendo, ma ormai il Torelli aveva
la prua sull’uscita del porto ed era “lanciato” alla massima velocità possibile
lungo il canale che conduceva fuori dal porto. Superata di slancio la San Martin, che non aprì il fuoco,
incerta sul da farsi, il sommergibile italiano fuggì dal porto a tutta forza,
portando con sé anche il comandante in seconda del porto e l’ufficiale del
Genio Navale spagnolo, rimasti a bordo. La San
Martin si pose all’inseguimento del Torelli,
sempre senza sparare, ma fu presto distanziata, troppo lenta anche per un Torelli così malconcio e rattoppato.
Quando il sommergibile incrociò un peschereccio, i due ufficiali spagnoli,
furiosi per l’accaduto, furono trasbordati sulla piccola nave, poi l’unità
italiana proseguì verso Bordeaux. Dopo cinque ore scese la rassicurante cortina
protettiva dell’oscurità, che riduceva la probabilità di attacchi aerei anche
se – come il Torelli aveva avuto modo
di scoprire a sue spese – non era più in grado di evitarli del tutto.
La navigazione,
durante la notte successiva, fu effettuata orientandosi con le stelle: la
bussola, infatti, non era ancora stata riparata.
Dopo tante e tali
peripezie, protrattesi per quasi un mese e mezzo, il Torelli rivide infine Bordeaux il 15 luglio 1942: prima dell’alba
incontrò un dragamine, che lo scortò attraverso i campi minati difensivi, e
finalmente, alle otto di quella sera, il sommergibile fece il suo ingresso in
porto.
Il comandante
Migliorini, per essere riuscito a salvare il suo sommergibile in condizioni
tanto disperate, venne decorato con la Medaglia di Bronzo al Valor Militare; la
stessa decorazione, in aggiunta alla precedente Medaglia d’Argento, fu conferita
al direttore di macchina Rinaldi, alla cui instancabile opera (lavorò giorno e
notte per riparare le avarie che si presentavano) si doveva molto se il
sommergibile era riuscito a restare a galla e raggiungere Bordeaux.
Per dirla come
l’ammiraglio Girolamo Fantoni, che all’epoca dei fatti era imbarcato sul Torelli come guardiamarina: «Il Torelli è entrato nella storia delle
battaglie “aereo contro sommergibile” come il primo battello a essere
illuminato e attaccato con la “Leigh Light”, ma ha fatto ogni sforzo per
respingere anche il ruolo di “prima vittima”. E c’è riuscito».
Il Torelli (da www.grupsom.com)
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Ultime missioni: dalla Regia Marina alla
Marina Imperiale
Le riparazioni
effettuate a Santander con i pochi mezzi a disposizione erano però solo quelle
d’emergenza: per tornare pienamente in efficienza, il Torelli necessitò di sei mesi di lavori di riparazione. Durante
tale periodo, il tenente di vascello Migliorini, destinato al comando della
corvetta Cicogna, venne nuovamente sostituito
come comandante del Torelli dal suo predecessore,
capitano di corvetta Antonio De Giacomo.
Il 21 febbraio 1943
il Torelli lasciò Bordeaux per una
nuova e lunga missione, stavolta nelle acque del Brasile. L’11 marzo, il
battello si rifornì di 25 tonnellate di nafta dal sommergibile Barbarigo, ma cinque giorni dopo, mentre
già incrociava al largo delle coste brasiliane, incappò di nuovo nel suo
vecchio nemico: gli aerei, stavolta ben tre PBY Catalina. Avrebbe potuto
evitarli immergendosi, ma proprio in quel momento il Torelli si trovava con il valvolone (presa d’aria) dei motori termici in avaria, il che gli precluse
l’immersione. Di nuovo il sommergibile ingaggiò un furioso scontro in
superficie: uno dei velivoli venne centrato dalle sue mitragliere e precipitò
in mare in fiamme, ed un secondo parve danneggiato, ma gli altri, prima di
ritirarsi, ebbero il tempo di infliggere nuovi e gravi danni con il tiro delle
loro mitragliere. Parecchi membri dell’equipaggio rimasero feriti: tra di essi
il comandante De Giacomo (in modo grave), che dovette cedere il comando al
secondo, il direttore di macchina, capitano del Genio Navale Giuseppe Sguerra,
il guardiamarina Alfio Petralia ed il sottocapo radiotelegrafista Francesco
Lobrano. Uno dei feriti, il sottocapo Lobrano, sarebbe poi deceduto per la
gravità delle lesioni riportate.
A seguito dei danni
subiti, il Torelli dovette dirigere
per il rientro a Bordeaux, dove arrivò il 3 aprile 1943.
Il sottocapo
radiotelegrafista Francesco Lobrano, figlio di Antonio Lobrano e Clelia
Alivesi, nato a La Maddalena il 24 agosto 1921 ed ivi domiciliato. Arruolatosi volontario
a 19 anni, nell’ottobre 1940, divenne radiotelegrafista e fu assegnato a
richiesta sui sommergibili. Nel giugno 1941 era imbarcato sul Medusa, dal quale successivamente fu
trasferito sul Torelli, dove trovò la
morte. Il suo cognome è erroneamente riportato nella banca dati di Onorcaduti
come Lubrano (g.c. Giovanni Pinna)
Nel frattempo il
comandante di Betasom, capitano di vascello Enzo Grossi, constatando che
l’inferiorità tecnica ed il logorio operativo avevano fortemente menomato la
capacità offensiva dei suoi sommergibili, aveva proposto all’ammiraglio Dönitz
di trasformare i restanti sommergibili di Betasom in sommergibili da trasporto,
da impiegare per missioni di trasporto di materie prime strategiche e nuovi
ritrovati della tecnologia bellica dall’Europa al Giappone e viceversa (la
Germania necessitava infatti di sommergibili da trasporto per svolgere queste
missioni, ma non ne possedeva in quel momento); in cambio la Kriegsmarine
avrebbe ceduto alla Regia Marina altrettanti U-Boote tipo VII C, da armarsi con
equipaggi italiani. La proposta era stata accettata, ed erano iniziati i lavori
di conversione di quasi tutti i sommergibili di Betasom: anche il Torelli, entrato in cantiere, ne uscì
non solo riparato, ma anche trasformato in sommergibile da trasporto.
Ciò comportò la
rimozione del cannone di coperta (ma non delle mitragliere contraeree,
necessarie alla difesa dai velivoli nemici: sebbene i nuovi quadrimotori
statunitensi ricevessero ben poco danno dalle modeste Breda da 13,2 mm) e la
trasformazione dei tubi lanciasiluri e dei depositi di munizioni in depositi di
carburante, nonché la riduzione del numero delle batterie elettriche (così
sacrificando gran parte dell’autonomia in immersione) e delle dimensioni degli
alloggi degli ufficiali e dell’equipaggio (per poter caricare più merce): con
una sola latrina in luogo delle precedenti tre, e nessuna doccia né più alcuno
stipetto, la traversata si presentava molto più dura per gli uomini del Torelli. La capacità di carico così
ottenuta ammontava, in teoria, a 150 tonnellate di materiale.
I lavori di
conversione erano stati svolti celermente – specie considerando che vi erano
poche risorse e che non c’era personale specializzato – dagli uomini della base
di Bordeaux, diretti dal maggiore del Genio Navale Giulio Fenu.
Ogni sommergibile,
secondo i piani, sarebbe partito da Bordeaux con 100-200 tonnellate di
mercurio, barre d’acciaio ed alluminio, prototipi di bombe, mitragliere da 20 mm,
progetti di carri armati ed altro ancora (ed eventualmente alcuni passeggeri),
da trasportare a Sabang (Sumatra) e Singapore, dove avrebbe imbarcato un’uguale
quantità di gomma, zinco, tungsteno, chinino, oppio, bambù, palme ed altro
(compresi alcuni passeggeri) e fatto ritorno in Europa.
L’operazione venne
chiamata «Aquila», ed i battelli da trasporto ricevettero un nominativo di
copertura consistente appunto nella parola Aquila più numero progressivo: al Torelli fu assegnato il nominativo di Aquila VI.
Il Torelli, al comando del tenente di
vascello Enrico Gropalli, salpò da Bordeaux per l’Estremo Oriente il 14 giugno
1943, per poi lasciare Le Verdon – ultimo lembo di terra francese – due giorni
dopo: non sarebbe mai più tornato in Europa.
A bordo, oltre
all’equipaggio, c’erano il colonnello nipponico Satake Kinjo (ufficiale
specializzato in telecomunicazioni che tornava in Giappone dopo essersi
addestrato in Germania), l’ingegnere tedesco Heinrich Foders (progettista dei
radar Würzburg imbarcati, aveva con sé i progetti di tali radar), l’ingegnere
giapponese Seiji e due ufficiali italiani destinati alla costituenda base
sommergibilistica italiana in Estremo Oriente. (Altra fonte parla di Kinjo,
Foders, due meccanici civili e tre ingegneri tedeschi del cantiere Deshimar AG
Weser di Brema, diretti in “missione tecnica” in Giappone). Foders e Sateke
avrebbero sofferto il mal di mare per tutta la traversata, passando 79 giorni
senza mai vedere la luce del sole.
Il carico consisteva
in 130 tonnellate di materiali di vario genere,
in particolare metalli speciali (mercurio e acciaio) e prodotti
dell’industria militare tedesca (800 mitragliere contraeree Mauser MG 151/20,
munizioni, bombe d’aereo tra cui una bomba SG 500 da 500 kg, siluri e due radar
Würzburg destinati all’Esercito ed alla Marina giapponese).
Assieme al Torelli prese il mare un altro
sommergibile destinato alle missioni di trasporto, il Barbarigo, ma i due battelli si separarono una volta usciti dalla
rotta di sicurezza, al largo di Bordeaux. Del Barbarigo non si seppe più nulla.
I comandi britannici,
a seguito di decrittazioni, erano a conoscenza della partenza del Torelli, che sin dall’inizio della
navigazione venne cercato da unità navali provenienti da Gibilterra e Freetown,
oltre che da idrovolanti antisommergibile PBY Catalina e Short Sunderland. Nessuno
riuscì a trovarlo.
Il 12 agosto 1943 il Torelli, a corto di carburante, si
rifornì (78 metri cubi di nafta) dal sommergibile tedesco U 178 a sudest del Madagascar, poi proseguì nell’Oceano Indiano
insieme all’U-Boot; il 26 agosto 1943 raggiunse Sabang, in Malesia, dove si
rifornì e sbarcò due ufficiali italiani.
L’indomani il
battello, ora accompagnato dalla nave appoggio sommergibili Eritrea, ripartì per Penang, ov’era
stata stabilita una base di U-Boote tedeschi e dove il Torelli giunse il 28 luglio insieme all’U 178: qui sbarcò il proprio carico. Lasciata Penang il 2
settembre, il giorno successivo arrivò a Singapore, sua destinazione finale.
Trascorsero però soltanto
cinque giorni prima che, l’8 settembre 1943, venisse annunciato l’armistizio
stipulato tra l’Italia e gli Alleati. Ciò sorprese il Torelli ancora a Singapore: il sommergibile si trovava ormeggiato
alla banchina di Keppel Harbour, scarico e privo di nafta, e con lavori di revisione
in corso. Affiancato ad esso, sul lato esterno, era il Reginaldo Giuliani, legato al Torelli
con cavi di acciaio. A bordo dei due battelli c’era solo il personale di
guardia (un ufficiale e due marinai) ed un turno di operatori radio, mentre il
resto degli equipaggi erano alloggiati a Pasir Panjang, a circa nove chilometri
dalla base dei sommergibili (fino all’armistizio, avevano a disposizione alcune
motociclette per raggiungere la base in caso di urgenza, mentre gli altri
collegamenti erano effettuati con veicoli messi a disposizione dalle autorità
nipponiche).
Il 9 settembre (causa
fuso orario) la notizia dell’armistizio raggiunse l’Estremo Oriente. L’Eritrea, che si trovava nello stretto di
Malacca, ricevette l’ordine «Unità navali dirigano per un porto neutrale o si
autoaffondino» inviato da Supermarina al Comando Navale Estremo Oriente, lo
ricifrò e lo ritrasmise ai sommergibili, ma questo messaggio non arrivò mai a
Keppel Harbour.
Fu uno dei
radiotelegrafisti di guardia a bordo di Torelli
e Giuliani, alle quattro del mattino
del 9 settembre, ad intercettare una trasmissione che parlava di «resa
incondizionata dell’Italia». L’ufficiale più alto in grado presente sul posto,
il comandante Tei del Giuliani, era
allettato per una forte febbre, dunque mandò due ufficiali a bordo dei
sommergibili con l’ordine di autoaffondarli non appena fossero stati ricevuti
ordini in tale senso, oppure anche d’iniziativa, senza aspettare ordini, se le
forze giapponesi avessero tentato di catturarli. A causa della conformazione di
Keppel Harbour, non era possibile tentare la fuga; sia per l’autoaffondamento
che per un’eventuale cessione alle forze tedesche (proprietarie del carico)
occorreva prima un ordine specifico.
I due ufficiali
mandati a bordo dei sommergibili trovarono che le micce collegate a delle bombe
di profondità, trasferite dall’Eritrea
dopo il 25 luglio per un rapido autoaffondamento in caso di necessità, erano
state asportate.
Alle 15 sopraggiunse
il capitano di fregata giapponese Michio Hara, capo di Stato Maggiore
dell’ammiraglio Ryuichiro Enomoto, comandante della base navale giapponese di
Singapore. Hara, presentatosi insieme all’ufficiale di collegamento, tenente
Komatzuki, spiegò che era in corso un’esercitazione di sbarco e pertanto la
franchigia era sospesa. In serata l’ammiraglio Enomoto confermò che l’Italia si
era arresa, ed impartì disposizioni restrittive per i sommergibili ed i loro
uomini: gli equipaggi italiani erano consegnati negli alloggi, il personale di
guardia a bordo sarebbe stato ridotto, gli otturatori delle armi sarebbero
stati consegnati alle forze nipponiche, le radio e le relative antenne rese
inutilizzabile, la nafta e le munizioni sbarcate.
Poi si passò alle vie
di fatto: gli uomini di guardia a bordo vennero rapidamente catturati e portati
dapprima a bordo di una cannoniera, per poi essere imprigionati, l’indomani, in
una baracca del porto.
Il 12 settembre
iniziarono le discussioni tra il personale dei sommergibili, consegnato negli
alloggi. Sottufficiali ed operai militarizzati, che conoscevano la brutalità
delle truppe nipponiche, temevano la loro reazione, ed erano decisi a non
divenirne prigionieri: si proponevano di tornare in Europa con ogni mezzo,
quand’anche ciò comportasse di arruolarsi nelle forze tedesche. Da parte loro i
giapponesi non fecero nulla per sedare tali conflitti, anzi li alimentarono
diffondendo appositamente notizie in parte vere (Mussolini liberato dai
tedeschi) ed in parte false (Vittorio Emanuele III fuggito in Svizzera) e
permettendo la propaganda da parte di elementi filofascisti.
L’equipaggio si
divise: gli ufficiali rimasero fedeli alle autorità italiane, mentre gran parte
dei sottufficiali e marinai decisero di proseguire la guerra a fianco di
tedeschi e giapponesi.
Tutti, ad ogni modo,
il 23 settembre furono trasferiti dalle autorità giapponesi nel campo
d’internamento di Sime Road, vicino a Singapore: il trattamento era durissimo,
come usuale per le autorità giapponesi nei confronti dei prigionieri. Meno duro
per coloro che fin da subito – cioè la maggioranza – si dichiararono disposti
ad accettare di continuare a combattere con le forze tedesche; peggiore per i
28 uomini del Torelli e del Giuliani che rifiutarono di collaborare
e vennero pertanto trattati come prigionieri.
Quando, alcune
settimane più tardi, fu costituita la Repubblica Sociale Italiana, la maggior
parte dei sottufficiali e marinai del Torelli
aderì ad essa. Non lo fecero, invece, tutti gli ufficiali (tranne uno) e otto
tra sottufficiali e marinai, che rimasero così prigionieri.
Il 28 ottobre 1943
gli aderenti alla RSI giurarono solennemente fedeltà a Benito Mussolini, e tre
giorni dopo poterono lasciare Sime Road, dove rimasero invece 15 ufficiali e 9
sottufficiali e marinai dei due battelli. Il 24 novembre uno degli ufficiali,
il capitano Armi Navali Matteo Silvestro, iniziò a dare segni di squilibrio
mentale, causato dalle durissime condizioni di detenzione.
Il futuro di coloro
che aderirono alla RSI fu deciso dalla loro specialità: gli uomini appartenenti
in prevalenza ai corpi tecnici, per la loro conoscenza degli impianti di bordo,
tornarono a far parte dell’equipaggio dell’UIT
25, che si trovò così ad avere un equipaggio misto italo-tedesco (non vi
era infatti sufficiente personale tedesco per poter armare tutti e tre i
sommergibili); gli altri furono in parte trasferiti in Giappone ed in parte
imbarcati sui violatori di blocco tedeschi Burgenland
e Weserland, che avrebbero tentato il
rientro in Europa.
Non ci riuscirono: il
Burgenland (che aveva a bordo lo
stato maggiore del Cappellini, il
guardiamarina Luigi Montalbetti del Torelli
e 26 marinai dei due sommergibili) fu intercettato il 5 gennaio 1944
dall’incrociatore statunitense Omaha
e dal cacciatorpediniere Jouett,
cannoneggiato e costretto ad autoaffondarsi in posizione 08°06’ S e 26°45’ O. I
240 naufraghi vennero recuperati nei nove giorni successivi da diverse unità
statunitensi e brasiliane; tutti, compresi gli italiani, finirono dapprima nel
campo di prigionia di Monticello (Arkansas) e poi, dal 10 aprile, furono
trasferiti nel campo di Hereford, in Texas (il guardiamarina Montalbetti,
nell’agosto 1944 riuscì a fuggire da Hereford e quasi a raggiungere il
Messico, prima di essere ricatturato; e non prima di aver per qualche tempo
sostato e lavorato alla fattoria di una famiglia locale, i Lovejoy, facendosi
passare per marinaio franco-gollista). Nel settembre 1944 quelli, tra di essi,
che rifiutarono di collaborare vennero trasferiti dapprima a Seattle e poi a
Honolulu, in un campo di prigionia particolarmente duro.
Il Weserland (con a bordo 37 marinai
italiani) aveva subito la stessa sorte già due giorni prima, il 3 gennaio,
quando era stato intercettato e affondato a cannonate dal cacciatorpediniere
statunitense Somers nel punto 14°55’
S e 21°39’ O, 900 miglia a sud di Sant’Elena. Fu lo stesso Somers a recuperare i 134 sopravvissuti (che finirono in prigionia
come quelli del Burgenland); tra i
morti del Weserland ci furono invece
due marinai del Torelli, Paolo Rea e
Mario Sganzerli.
Gli uomini inviati in
Giappone, imbarcati sui piroscafi Quito,
Braghe e Bogotà, non raggiunsero neanch’essi la loro destinazione: i più
rimasero nella zona di Batavia fino alla fine della guerra. Di alcuni non si
seppe più nulla; qualcuno si stabilì definitivamente in Giappone o altre aree
dell’Estremo Oriente, dove visse per il resto della sua vita senza più tornare
in Italia (tra di essi il sergente motorista Raffaello Sanzio, del Torelli, che dopo la guerra si stabilì
in Giappone, sposò una donna del luogo e cambiò il cognome in Kobayashi).
I 28 tra
sottufficiali, marinai ed operai dei sommergibili, imprigionati dalle autorità
giapponesi e non aderenti alla RSI, rimasero in prigionia fino alla fine del
conflitto: da Sime Road, dopo l’arrivo di migliaia di prigionieri Alleati,
furono temporaneamente trasferiti nel campo di Kranji, poi fecero ritorno a
Sime Road il 1° aprile 1944, e da qui, l’8 maggio, furono caricati su autocarri
e trasferiti nella prigione di Changi, ove si trovava uno delle più “celebri”
campi di prigionia allestiti dalle autorità giapponesi a Singapore. Due giovani
ufficiali del Torelli, tra cui il
sottotenente di vascello Sergio Corsini, durante la prigionia giunsero a mutare
radicalmente le loro vedute politiche, sino a diventare di sentimenti
socialisti e repubblicani.
I 28 uomini rimasero
a Changi fino a dopo la conclusione della guerra: liberati, s’imbarcarono sull’Eritrea, sopravvissuta alla guerra,
soltanto nell’ottobre 1945. Rividero l’Italia il 7 febbraio 1946, quando l’Eritrea raggiunse Taranto. Appena venti
giorni più tardi, per singolare coincidenza, fecero ritorno in Italia, a
Napoli, i loro commilitoni che dopo l’armistizio avevano fatto scelta di campo
opposta, ed erano stati catturati dagli americani dopo l’affondamento di Burgenland e Weserland: liberati a loro volta, erano stati rimpatriati sul
mercantile statunitense Marine Tiger.
Quanto al Torelli, risultò in tali condizioni di
logoramento da necessitare un periodo di lavori, dopo la cattura, nei cantieri
Kawasaki di Kobe. Le forze giapponesi che lo avevano catturato, dopo lunghi
negoziati, il 13 (o 22) ottobre 1943 lo consegnarono alla Kriegsmarine, che lo
pose in servizio il 6 dicembre 1943: ribattezzato UIT 25, in dicembre fu affidato al comando del capitano di fregata
Werner Striegler, assegnato alla 12. Unterseebootsflottille di Bordeaux (e poi,
il 1° ottobre 1944, trasferito alla 33. Unterseebootsflottille di Flensburg,
avendo però sempre base effettiva
Penang) ed armato con un equipaggio tedesco.
L’UIT 25, con a bordo sei italiani (rimandati
a bordo nel novembre 1943; altre fonti parlano di una ventina) oltre ai
tedeschi, fu sottoposto ad un periodo di lavori di raddobbo (durante i quali le
mitragliere da 13,2 mm vennero eliminate e sostituite con una mitragliera
binata C/38 da 20/65 mm) per rimetterlo in grado di compiere la traversata di
ritorno in Francia.
Inizialmente,
infatti, era stato previsto di caricare gli UIT catturati in Estremo Oriente
con materie prime e rimandarli in Europa, come peraltro stabilito dal piano
originario; quando poi, nell’estate 1944, la maggior parte della Francia
(Bordeaux compresa) venne riconquistata dagli Alleati a seguito dello sbarco in
Normandia, si decise che la destinazione dell’UIT 25 (che dopo la cattura aveva ricevuto il nuovo nominativo
convenzionale di Mercator V in luogo
del precedente Aquila VI) sarebbe
divenuta la Norvegia. Il sommergibile sarebbe dovuto salpare nel settembre
1944, ma la distruzione, nel mentre, di tutte le unità rifornitrici tedesche
operanti tra gli oceani Atlantico e Indiano, cancellò ogni possibilità di
rifornimento dei sommergibili durante la traversata, e costrinse pertanto a
rinunciare a questo proposito. I residui battelli vennero invece adibiti al
traffico “locale” tra Indonesia e Giappone, trasportando all’andata viveri per
i cittadini italiani e tedeschi residenti in Giappone, ed al ritorno armi e
munizioni per le guarnigioni giapponesi delle ormai ex Indie Olandesi. Tali
rotte erano sempre più insidiate da sommergibili ed aerei statunitensi.
Striegler lasciò il
comando del battello il 13 febbraio 1944 per assumere il comando dell’UIT 23, ex Giuliani, ma già il giorno seguente, recuperato dal mare, dovette
tornare al suo comando precedente: l’UIT
23 era stato affondato dal sommergibile britannico Tally Ho nello Stretto di Malacca, e Striegler si era salvato a
stento.
Il comando dell’UIT 25 passò poi ad interim (dal
settembre 1944) da Striegler al tenente di vascello Herbert Schrein ed infine
(febbraio 1945) al tenente di vascello Alfred Meier (per altra fonte, invece,
il comando passò da Striegler – assegnato all’UIT 23 ex Giuliani – a
Schrein, poi nel febbraio 1944 a Meier ed in settembre di nuovo a Striegler,
dopo l’affondamento dell’UIT 23).
L’UIT 25 fu impiegato a partire dal
febbraio 1944 in viaggi di trasporto tra Kobe, Penang (sede di una base di
U-Boote tedeschi in Estremo Oriente) e Surabaya (Indonesia).
L’8 febbraio 1944 il
sommergibile lasciò Singapore alla volta di Penang, arrivandovi due giorni
dopo, ed il 7 marzo, dopo aver caricato 150 tonnellate di gomma grezza e 50
tonnellate di stagno, ripartì per Surabaya, giungendovi quattro giorni più
tardi dopo aver fatto ancora scalo, il 9 marzo, a Singapore per riparazioni
minori. A Surabaya il carico fu messo a terra e ci fu una nuova e prolungata
sosta per lavori di riparazione. In giugno, decrittatori statunitensi
decifrarono un messaggio che riferiva della presenza dell’UIT 25 a Surabaya.
Il 10 giugno 1944 l’UIT 25 salpò da Surabaya diretto a Tama,
dove arrivò il 25 giugno, per poi trasferirsi a Kobe in luglio (per altra fonte
il sommergibile giunse direttamente a Kobe il 25 giugno; secondo versione
ancora differente, si trasferì da Penang a Batavia nel novembre 1944, insieme
agli altri U-Boote, e da lì si trasferì a Kobe per lavori nel febbraio 1945,
trasportando nel viaggio personale e materiali). Nell’autunno del 1944 la base
sommergibilistica tedesca di Penang, dinanzi all’avanzata Alleata, dovette
essere evacuata; i sommergibili superstiti furono trasferiti a Jakarta.
Nel marzo 1945 l’UIT 25 entrò nei cantieri Kawasaki di Kobe
per nuovi e urgenti lavori di riparazione e grande manutenzione. Il 17 marzo
proprio i cantieri Kawasaki furono tra gli obiettivi del pesante bombardamento
di Kobe da parte di bombardieri Boeing B-29 “Superfortress” statunitensi,
decollati da Tinian; vi fu una vittima tra il personale tedesco dell’UIT 25 (secondo una fonte, l’UIT 25 fu anche danneggiato e
abbandonato dall’equipaggio il 17 marzo durante il bombardamento, che distrusse
gran parte di Kobe; la notizia non è però confermata da fonti più autorevoli, e
sembra dunque infondata).
L’8 maggio 1945, la
Germania si arrese, e due giorni dopo la bandiera tedesca dell’UIT 25 venne ammainata. Ma nemmeno
allora finì, per esso, la guerra.
Caduta anche la
Germania, restava il Giappone. Il 10 maggio 1945 si ripeté la scena che aveva
avuto luogo il 10 settembre 1943: questa volta, però, ad essere catturati dalle
forze giapponesi furono i sommergibili tedeschi, che si trovavano ormeggiati al
molo Mitsubishi di Kobe. Gli equipaggi, sia i tedeschi che gli italiani, furono
internati in un albergo di Kobe.
Dopo due mesi la
Marina Imperiale giapponese incorporò l’UIT
25 nei suoi ranghi (ed assegnandolo – ma solo sulla carta – alla 6a
Flotta, Distretto Navale di Kure), ribattezzandolo I 504 il 17 luglio 1945 ed imbarcando un equipaggio nipponico
(l’autorevole sito www.combinedfleet.com,
tuttavia, afferma invece che nessun equipaggio giapponese venne assegnato a
questa unità); a bordo, tuttavia, rimasero ancora in servizio diversi marinai
italiani, oltre che tedeschi (degli italiani internati nell’albergo di Kobe,
furono una ventina quelli che decisero di continuare a combattere).
Il Torelli, insieme al Comandante Cappellini che ebbe simile sorte, fu così uno dei due
soli sommergibili ad aver prestato servizio per tutte e tre le principali
Marine dell’Asse: il suo ultimo equipaggio annoverava “rappresentanze” di tutti
e tre i Paesi. Suo comandante fu, dal 14 luglio, il tenente di vascello Hirota
Hidezo.
Il battello non vide però
servizio attivo sotto bandiera giapponese, trovandosi, in quel periodo, in
cantiere per lavori; fu formalmente posto in servizio nella Marina Imperiale
solo il 15 luglio, ma da maggio rimase inattivo in cantiere in attesa che
cominciassero i pianificati lavori di sostituzione dei suoi motori originali,
ormai troppo usurati, con altri di produzione locale. Tali lavori non poterono
mai avere inizio.
Secondo alcune fonti,
il 22 o 30 agosto 1945, a Kobe, l’I 504
abbatté con le proprie mitragliere da 13,2 mm un bombardiere statunitense B-25
“Mitchell”: si tratterebbe in tal caso, probabilmente, dell’ultimo aereo
americano abbattuto da un’unità della Marina giapponese. Va però detto che tale
episodio, il cui racconto è molto diffuso su Internet, non sembra invece essere
citato dalle fonti ufficiali, facendo sorgere dei dubbi sulla sua veridicità,
specie se si considera che il Giappone si arrese il 15 agosto 1945, dunque non
vi sarebbe stata ragione per l’USAAF di attaccare il suolo giapponese settimane
dopo la fine delle ostilità (oltre al fatto che il battello era in quel momento
fermo per lavori in cantiere).
Con la resa del
Giappone, anche l’I 504 si arrese
alle forze statunitensi: lo fece il 2 settembre 1945 a Kobe, dove si trovava
nei cantieri Kawasaki (per altra fonte, invece, la resa avvenne il 28 o 30
agosto: secondo “The Last Century of Sea Power”, di H. P. Willmott, invece, in
nessuna di queste tre date le forze americane si trovavano a Kobe). I marinai
italiani che ancora restavano nel suo equipaggio vennero ora imprigionati dagli
americani; le autorità della neonata Repubblica Italiana li privarono di grado
e pensione.
Il 30 novembre 1945
l’I 504 venne radiato dai ruoli della
Marina Imperiale giapponese. Giudicato troppo malconcio per poter essere ancora
utilizzabile, ne fu decretato l’affondamento nell’ambito delle operazioni per
la liquidazione della residua flotta subacquea giapponese.
Il 16 aprile 1946 il
sommergibile, dopo aver superato tante peripezie e servito sotto tre bandiere,
venne dapprima impiegato come bersaglio per delle esercitazioni di
bombardamento da parte di B-25 statunitensi, e poi affondato dalla Task Force
96.5 della US Navy nel punto 33°40’ N e 134°52’ O, nel canale di Kii (Kii
Suido, tra le isole di Honshu e Shikolu), al largo di Kobe.
Caduti sul Torelli durante la guerra:
Francesco Lobrano, sottocapo
radiotelegrafista, per attacco aereo il 16.3.1943
Fiovo Pallucchini, sergente, per attacco
aereo il 7.6.1942
Il
racconto della fuga di Luigi Montalbetti dalla prigionia in Texas, tratto dal
libro “Fame in America” di Armando Boscolo (si ringrazia Alberto Villa):
"Nei primi giorni dell'agosto 1944 nel campo si parlava di vigilanza rallentata, in quanto le forze americane sarebbero state impegnate per controllare uno sciopero ad Amarillo. Pensai che poteva essere l'occasione buona per tentare la fuga che da tempo andavo sognando. Nella notte dal 4 al 5 agosto, verso le due, cominciai il tentativo. Avevo indossato la tenuta da lavoro dei marinai americani, equipaggiamento che mi era stato fornito dal Comandante del caccia statunitense « Wilson », che mi aveva raccolto naufrago nell'Atlantico, dopo l'autoaffondamento della « Burgenland », nave carica di gomma che era partita da Singapore ed era stata intercettata davanti alle coste brasiliane, mentre navigava verso Bordeaux. Con un pezzo di bastone di scopa, smussato alle estremità, mi riuscì di allargare il doppio reticolato che divideva il nostro compound dal « 3 », quello dei soldati, compound in quei giorni completamente vuoto. Potevo essere a due o tre metri al di là del reticolato quando d'improvvisò si accesero i fari della garitta più vicina. Tanto valeva giocare il tutto per tutto. Guardai verso la torretta, con tutta la tranquillità che mi riuscì di trovare, accesi una sigaretta e cominciai a passeggiare disinvoltamente, avanti e in dietro. Il boy di guardia evidentemente non riusciva a rendersi conto di quel che vedeva dentro il fascio di luce, può darsi pensasse a un'allucinazione dato che il compound 3 allora non aveva abitanti, Fatto si è che dopo un po' spense la luce. Sollevato, m'involai verso il reticolato del compound 2, che era semplice e non era sorvegliato, così che con discreta facilità potei superarlo. In un soffio attraversai il compound 2, superai il reticolato dividente questo settore dal compound I, che rappresentava la mia prima tappa e dov'erano i miei marinai. Nel compound 1 non v'era una luce, non si udiva una voce. Mi misi a gironzolare, deciso ad attendere l'alba, per non svegliare nessuno, ma ecco che, passando vicino a una delle baracche destinate ai servizi igienici, sentii delle voci. Entrai. Vi era il sergente Forti, del sommergibile « Cappellini ». Gli spiegai la situazione. In un batter d'occhio recuperammo un letto e, udita anche l'opinione di alcuni miei marinai,
decisi di attendere l'occasione favorevole per uscire dal campo con i soldati che si recavano ai lavori. Il giorno dopo conte a non finire e ricerche degli Americani che, nell'appello fatto al compound 4, si erano accorti dell'assenza di un prigioniero. Controllando le schedine determinarono presto che l'assente ero io.
Mentre gli Americani si davano da fare nelle ricerche, il giorno 7 agosto, uscii insieme a un gruppetto di 21 soldati, che erano accompagnati da tre boys, armati di mitra. Ci portarono ad Amarillo. Scaricammo, con certi aggeggi motorizzati, alcuni carri di grano. Una faticaccia, davvero, mentre di fuga nemmeno parlarne. I carri erano nel centro della città, vicino a un enorme silos, e noi eravamo sorvegliati strettamente.
Ritornai in campo col gruppetto e, come all'uscita, anche al rientro le sentinelle americane non si accorsero che c'era un uomo in più. Subito dopo arrivò la notizia che sarebbero occorsi 80 soldati per andare a una cinquantina di chilometri verso Sud-ovest, in un grande campo di mais che doveva essere ripulito. Pensai fosse la volta buona, anche perché era la direzione in cui doveva volgersi la mia fuga. Frattanto le ricerche da parte degli Americani continuavano e io dovevo non farmi pescare. Un simpaticissimo marinaio napoletano con le sue geniali trovate, mi fu di grande aiuto. Per una ispezione americana il marinaio mi mise su una branda, al posto del materasso, mi ricoprì con del cartone, vi mise sopra due coperte. La trovata era magnifica, ma io, sotto a tutta quella roba, quasi soffocavo e sudavo come fossi una fontanella.
Tutti erano fuori per il controllo, la baracca deserta, silenziosa.
Un'attesa tremenda. Qualche boy entrava, cercava, usciva, rientrava. A un certo punto uno prese un'arancia, lasciata da un prigioniero, sedette sul letto, vicino al mio, sbucciò il frutto e mentre faceva lo spuntino si mise a sfogliare una rivista. Disperato, seguivo quei movimenti quasi senza respirare, mentre ero madido e gocce di sudore cominciavano a cadere sul pavimento. Dopo un'eternità il boy se ne andò. I marinai mi misero fuori dopo tre ore che ero in quelle condizioni.
Un'altra ispezione fu tanto improvvisa da non permettere alcuna sistemazione di fortuna. Il marinaio napoletano non ci pensò due volte, mi chiuse nel frigorifero assicurandomi di non temere: « Lo terremo al minimo ». Minimo o non minimo, però, faceva un freddo cane. Ero nervosissimo. Cominciai a mangiare le riserve che vi erano conservate e di tale... abusiva sottrazione me ne dolgo ancor oggi, pronto a offrire un bel pranzo a quanti furono danneggiati dal mio... pasto.
Mentre attendevo di uscire dal campo furono perfezionati i preparativi. Un abilissimo marinaio riuscì a prepararmi due perfette carte geografiche del Texas (una mi fu sequestrata al rientro e l'altra sono riuscito a portarla in Italia). Altri marinai riuscirono a racimolare parecchi dollari e a prepararmi cibi energetici e di lunga durata. Finalmente
venne il gran giorno. Misi due vestiti: sopra quello impiastrato con la scritta P.W. di vernice bianca, sotto quello senza scritta. Avevo un caldo da crepare. Invece di 80, naturalmente, uscimmo in 81 con me. Il solito marinaio napoletano, però, aveva già pensato allo stratagemma: si mise vicino alle sentinelle americane, ad alta voce aiutandole a contare, arrivato al numero 80 allargò la bocca in un grande e convincente sorriso e raggiunse il suo posto nel gruppo. Gli 80 regolari, dunque, uscivano in 81!
Si arrivò al campo di lavoro. Qui mi attendeva un altro difficile ostacolo. Scelto il momento più opportuno, alcuni soldati si misero a chiacchierare con le sentinelle americane attirando la loro attenzione dalla parte opposta rispetto a quella dov'ero io. Era il momento tanto atteso. Mi buttai a terra, strisciando, raggiunsi una strada vicina, che doveva essere larga all'incirca cinque metri ed era completamente deserta, l'attraversai, mi buttai nel campo di mais che non era molto alto, sempre strisciando, continuai ad allontanarmi. Ero madido di sudore.
Mi fermai, dopo circa un'ora, in mezzo al mais, in un punto che mi sembrava sufficientemente nascosto, e attesi il tramonto. Mentre il sole stava abbassandosi, udii avviarsi il motore dell'autocarro che riportava al campo i prigionieri e udii la canzone convenuta, quella che parla del « tamburo principal della banda d'Allori ». Mi sentivo felice. Sempre in pericolo, ma libero, senza filo spinato intorno. Allora mi venne sete e mi venne fame. E non avevo niente. Strisciando, avevo perduto tutto quello che il mio concittadino Mollica mi aveva preparato. Tornare in dietro a cercare, in mezzo a quello sterminato mare di mais, sarebbe stata impresa impossibile. Mi feci forza. Mi levai in piedi e, a passo da bersagliere, m'incamminai. Dopo qualche chilometro, all'esterno della cinta di una casa colonica, trovai un serbatoio d'acqua. La salvezza! Mi avvicinai cautamente, badando a non fare nemmeno il minimo rumore, girai il rubinetto. Maledizione! appena girato, il rubinetto se ne scappò e l'acqua cominciò a uscire con gran rumore. Sembrò come si fosse svegliato tutto il buio. I cani cominciarono ad abbaiare. Due rapidissime boccate d'acqua, una mezza doccia involontaria e via, di gran carriera, come mai credo di avere corso in vita mia. Quando udii nuovamente il silenzio intorno a me, feci un po' di sosta. Nell'immensità del territorio, dove si incontra una farm ogni 40-50 chilometri, non era facile l'orientamento. Era tempo di luna nuova e non si poteva studiare la carta. Rintracciai la Stella polare e decisi di indirizzarmi verso Sud. Chilometri e chilometri in un mare di terra che pareva sempre uguale. Qualche volta finivo contro bassi reticolati, che recingevano campi sterminati ove migliaia di capi di bestiame vivevano allo stato brado ed erano, sotto un certo aspetto, i soli testimoni del mio andare insonne.
Mi fermavo quando non ne potevo più. Infilavo il mio maglione da sommergibilista, mi buttavo a terra e m'addormentavo di colpo. Erano riposi brevi, tuttavia, al massimo tre quarti d'ora. Mi si intorpidivano i muscoli e mi risvegliavo indolenzito, quasi incapace di muovermi.
Dopo tre giorni e tre notti arrivai sulla strada che da Bula porta a Littlefield. Pensai di fare una puntata rapidissima su Bula, per comperare dei viveri e riprendere la gran marcia. Mentre stavo decidendo, arrivò un'automobile. Nemmeno pensare alla fuga, bisognava affrontare la nuova situazione. Cominciai così la nuova era, quella dell'auto-stop. Un auto-stop a rovescio, tuttavia, perché non ero io a fermare le macchine, ma erano gli automobilisti a fermarsi e a offrire un passaggio a quello che forse doveva essere l'ultimo pedone del Texas.
In automobile si andava meglio che a piedi, naturalmente, però dovetti affrontare pericoli ben maggiori: rispondere a quel che mi si chiedeva. Di inglese ne sapevo quanto un ragazzino delle nostre scuole inferiori: lo leggevo bene, a dire il vero, ma Io capivo pochissimo, specialmente se mi si parlava rapidamente, e poi l'accento degli abitanti del Texas era quasi impossibile. lo, però, avevo già preparato la storiella da raccontare. Eccola.
Avevo letto sui giornali che alla fine del lungo assedio americano all'isola Martinica, ove giaceva il tesoro della Banca di Francia, soldati e marinai francesi della guarnigione erano stati spediti negli United States per dei corsi militari, mentre i non cooperatori francesi, che si erano schierati con Petain, erano stati messi in campi di prigionia, come noi. Ai Francesi che avevano sottoscritto la collaborazione, e che avevano parenti in America, era stato concesso il permesso di fare una visita agli stessi. Io raccontavo di essere uno di questi.
Tutto andò per il meglio, soltanto fu un guaio quando l'automobilista mi chiese se andava bene per me arrivare a Portales. Io dissi di sì, sperando che fosse Sud, perché non avevo mai sentito parlare di Portales. Invece, dopo un paio d'ore, mi ritrovai più a Nord, in una cittadina del New Mexico.
Quando me ne resi conto, filosoficamente — del resto c'era niente da fare — pensai che forse era meglio essere fuori dal Texas, dove le ricerche avrebbero potuto essere più accurate. Bene. Entrai in uno store, comperai e bevvi due Coca cola, acquistai miele, pane a fette, tre apple-pie, quindi mi portai fuori Portales, sotto un ombroso albero, in attesa di riprendere la marcia notturna. Raggiunsi Dora e, poiché ero stanco di camminare sempre, feci in modo da usare l'auto-stop. Questa volta i miei ospiti furono due simpatici vecchietti, che andavano su una sgangherata automobile piena di cianfrusaglie. Per evitare guai, dopo aver raccontato la solita storia del soldato francese, a segni feci intendere che ero sordo. I due vecchietti mi fecero scendere a Milnesand, una cittadina che complessivamente contava... 16 abitanti. Al tramonto ripresi la marcia.
Mi sentivo molto stanco, decisi di cercare un rifugio un po' tranquillo per riposare bene, almeno una notte. Dopo qualche chilometro, adocchiai una barn costruita col sistema palafitticolo, cioè con il fondo un metro sopra il terreno. La barn è una sorta di magazzino,
quello che avevo trovato distava circa 600 metri da una farm. Impiegai una buona mezz'ora per togliere il filo di ferro che teneva chiusa la porta della barn. Finalmente riuscii ad entrare.
L'interno era molto sporco, in compenso v'erano parecchi sacchi che mi sarebbero stati preziosi per preparare un giaciglio. V'erano anche molte bottiglie: ne presi una, la riempii d'acqua dal vicino wind-mill. Quindi m'adoperai per sistemarmi un letto. Ecco però il rumore di un autocarro che dalla farm veniva avvicinandosi alla barn. Sperai si portasse sulla strada, invece l'autocarro si arrestò lì presso. Ne scesero il padrone e il suo figlioletto, i quali avevano portato il pasto per i maiali, che erano in una piccola capanna, a una trentina di metri dalla barn.
Pensai che forse me la sarei cavata senza essere disturbato. Invece, il bello doveva ancora venire. Da una botola, che prima non avevo nemmeno notato, ecco spuntare la testa del ragazzino, che si chiamava Holmes. Con Holmes la spiegazione fu semplicissima: gli diedi un buffetto su una guancia e ci scambiammo un sorriso, tutto qui. Il padre, mister Lovejoy, seguiva il ragazzo e si annunciava con una puzza di whisky di cattiva qualità. Mentre l'uomo stava salendo i tre gradini gli diedi un colpetto amichevole sulla spalla. Mister Lovejoy, spaventatissimo, sussultò e lanciò un urlo terribile. Per un attimo stetti in forse se rompergli in testa una bottiglia o affrontare la situazione. Sorrisi con tutta la tranquillità di cui ero capace, e a mister Lovejoy passò lo spavento.
Raccontai la storia del marinaio francese e chiesi di poter pernottare lì. Mi sarei rimesso in cammino il mattino seguente per andare a Sant'Antonio del Texas dove — dissi — avevo i miei parenti. Mister Lovejoy mi rispose che potevo restare lì quanto mi fosse piaciuto. Poi
mi parve si aprisse un altro mondo. “Un, deux, trois, quatre” fece mister Lovejoy in un francese tipo scozzese. Mister Lovejoy ritrovava così l'orgoglio del soldato americano che aveva fatto in Francia la prima guerra mondiale. Fu l'amicizia.
Mister Lovejoy volle sapere di dove fosse il soldato francese. Dissi che ero di Bordeaux. Egli fece un altro sforzo mnemonico e ricordò Place Gambetta, Piace de la République e ancora tutti i luoghi dove l'aveva portato la guerra. Allora mister Lovejoy mi propose di restare per qualche giorno a lavorare con lui, avrei potuto guadagnare quanto mi sarebbe occorso per arrivare a Sant'Antonio in treno. Accettai il job. Ci spostammo alla fattoria. Non c'era nessuno. Andammo nella stalla, dove trovammo mistress Lovejoy nello stallo numero 2, al posto della mucca, che non c'era. Mistress Lovejoy era stata sorpresa mentre esauriva una sua… necessità naturale. Non si confuse, si levò di scatto e le fui presentato come il marinaio francese “mister...” e lì per lì dovetti improvvisare il nome: “Louis Dupont”, dissi, rimediando a una manchevolezza nella preparazione della fuga, perché proprio al nome non avevo pensato.
Aiuto di Lovejoy. Il giorno seguente, dopo una bella dormita, andai in giro col padrone, profittando della domenica. Per miglia e miglia alla ricerca dei vitelli dispersi, montando un bellissimo cavallo di nome « Tex ». Non avevo mai cavalcato in vita mia, feci equilibrismi per non cadere e a sera, per scendere a terra, dovetti essere aiutato poiché le gambe mi si erano irrigidite e nelle natiche avevo due fiacche grosse così.
Lunedì: giorno di lavoro. Erpicatura del granoturco. Non sapevo nemmeno di dove si cominciasse. Comunque, riuscii a cavarmela, ma a sera avevo le fiacche sulle mani. Feci un po' di tutto e tutto male. Di primo mattino mungitura, ma riuscivo a strizzare soltanto poco latte, fortunatamente mi levava d'impaccio la buona mistress Lovejoy con un « I finish for you! ». Con l'autocarro andavo a far rifornimento di acqua, per un'ora facevo ruotare a mano la scrematrice il cui motore a benzina non funzionava più, poi dovevo raccogliere le uova. Meno male che nel pomeriggio riposavo in una specie di letto posto nel carrozzone mobile, mentre alla sera lavavo i piatti.
Rimasi con i Lovejoy più di due settimane, in una proprietà immensa, forse erano più di 10 miglia quadrate. Quando potevo giocavo con il piccolo Holmes, un bel bambino, e con la piccola e sorridente Kalin, che allora aveva appena dieci mesi e cominciava a sgambettare. E v'erano le belle ore prossime al tramonti, quando a cavallo — avevo ormai imparato bene — andavo a raccogliere le mucche che erano state lasciate libere dopo la mungitura e andavo a dar da mangiare ai porci.
Avrei potuto restare a lungo con i Lovejoy, avevamo fatto anche progetti a lungo termine: la casa nuova presso il wind-Mill, una stalla più grande; un piccolo corral, nuove culture, e altro ancora. Pensai che la cosa si faceva troppo seria, dissi che me ne sarei andato. I Lovejoy erano commossi, cercarono di trattenermi, poi, mi diedero i 20 dollari pattuiti, ma chissà cosa avrebbero dato per vedermi restare con loro.
Tatum, Lovington, Hobbs, raggiunsi queste cittadine sempre a piedi, di notte. Con un fortunato auto-stop arrivai nella bella cittadina di Carlsbad, e finalmente qui trovai un po' di verde dopo tanta terra bruciata. Pensavo di raggiungere Ciudad Jurez, nel Messico, quindi in ferrovia arrivare a Città del Messico.
Fra Carlsbad e Pecos, invece, l'avventura incredibile. Attendevo una automobile per proseguire. Arrivò una vettura militare. Era una vettura dell'aeronautica con a bordo un tenente bianco e un sergente negro. Mi fecero salire e fu il solito dialogo. Avevo un comprensibile timore raccontando la storiella del marinaio francese, invece tutto andò bene.
Arrivai a Pecos, mi fecero discendere in centro, proprio davanti a un poliziotto. Con la più grande faccia tosta di questo mondo finsi di niente, mi allontanai tranquillamente verso la periferia dove rimasi, seminascosto da qualche cespuglio, sino a sera. Non avevo potuto fare acquisti a Carlsbad, quindi dovevo fare rifornimenti qui. Al tramonto tornai nella cittadina per comperare miele, torte di mele in cellophane e qualche altra cosa. Uscito dallo store, mi avviai per lasciare la cittadina. Ma, ecco, sfilarmi di fianco una macchina nera con su la targa « U.S. Governement ». Pensai si trattasse di qualche autorità. Mi mancavano cento metri per raggiungere la curva dietro alla quale erano i campi. Alla curva, però, non arrivai mai. La macchina, appena superata la curva, era tornata in dietro. Mi si fermò davanti. Dentro c'erano due tipi vestiti in kaki, con in testa cappelli di tipo canadese. Sbirciai il dischetto che era sulla macchina e lessi « Border patrol ». Pensai che fosse finita. Comunque, tentai ancora. A quel che i due mi chiedevano, risposi raccontando la storia del marinaio francese. Per poco il colpo non riuscì. Il più anziano dei due che — lo seppi dopo — aveva fatto anche lui la prima guerra mondiale in Francia, era propenso a lasciarmi andare; l'altro, il più giovane, sosteneva che era meglio portarmi davanti all'Ispettore, poiché ero senza documenti.
Finii davanti all'Ispettore, che ascoltò il mio racconto, mi chiese altre notizie, poi volle domandare istruzioni, via radio, al suo Comando di Alpine. La radio non funzionava bene. L'Ispettore insistette per sapere quand'ero sbarcato in America. Mi ero preparato bene la risposta e feci, sicuro: « Il 5. marzo 1944, a New Orleans, dalla steam ship " Edison " ». Data e porto di sbarco erano reali, non lo era, invece, il nome del piroscafo poiché io ero in mani americane da alcuni mesi, provenendo dal Brasile con una nave carica di prigionieri di guerra naufraghi delle navi « Burgenland » e « Weserland ».
A questo punto tutti e quattro ci spostammo nel centro di Pecos, presso un'agenzia che aveva la trasmittente. Dopo due ore l'Ispettore mi tornò davanti furibondo, con i baffetti che gli tremavano dalla rabbia. « Non mi si prende in giro — mi urlò in faccia — la steam ship " Edison " è affondata nel 1941 ».
Era finita. Come avrei potuto sapere che la « Edison » era affondata? Raccontai la verità. Mi portarono in un officio della Military Police, dov'era una grande carta del Texas alla quale tutti alzarono gli occhi quando dissi che venivo dal campo di Hereford, che era su, su, presso Amarillo, al limite quasi della grande carta. Scossero la testa increduli pensando stessi raccontando un'altra storiella, come quella del marinaio francese.
Dopo un'altra ora di attesa vennero a dirmi che era vero, che ero fuggito da Hereford, dove avevano telefonato per avere conferma.
Mi trasportarono ad Alpine, al Comando della Border patrol. Mi permisero di dormire sul divano di un ufficio.
Mi svegliai al suono di tre voci femminili. Erano le impiegate della polizia venute a curiosare. Una bionda incendiaria mi chiese se erano belle le donne di « Fogghia », dov'era il suo boy, naturalmente dissi che erano le più belle ragazze del mondo. Colazione abbondante e quindi mi trasferirono nella prigione comune, insieme con un vero nugolo di contrabbandieri messicani. Poco dopo mi portarono alla presenza dello sceriffo, che con molta gentilezza mi chiese il racconto della fuga e anche notizie della mia vita militare. Lo sceriffo era una persona compitissima e nutriva grande simpatia per l'Italia, perciò lo accontentai, e lui ne fu felice.
Ritornai in prigione e non trovai più le due apple-pie che vi avevo lasciato e che il capo del gruppetto di messicani s'era mangiate. Questo capo era una specie di guappo, certo Sandoval José Salazar di Montezuma, che mi spiegò il trattamento che lui e i suoi amici ricevevano dagli Americani, i quali propinavano loro persino delle pillole per provocarne la temporanea impotenza. Perché? Perché se eccitati facevano la rivoluzione, rompevano tutto quel che avevano sottomano e dalle finestre che davano sulla strada urlavano i più sconci epiteti alle ragazze che vi passavano sotto. Facemmo la prova dell'urlo per festeggiare l'amicizia e dovetti promettere che nella prossima fuga sarei passato dal loro paese, dove avrei avuto la più ampia ospitalità, infine mi sottrassero, senza che me ne accorgessi, le ultime lamette da barba.
Poi, mi trasferirono a Marfa. Era un campo della Military Police che in maggioranza raccoglieva soldati puniti per rifiuto d'obbedienza. Mi sequestrarono i pochi dollari che ancora avevo, mi dipinsero gli abiti con il « P W ». Mentre ero in cella, scopersi una botola sul soffitto. Aiutandomi col letto, messo in posizione verticale, provai la resistenza
della botola. Niente da fare, era sprangata dall'esterno.
Dopo due giorni venne a riprendermi il sergente Garcia, un sottufficiale di origine cubana che era nel campo di Hereford. In treno, sia passando da EI Paso sia in altre soste, ebbi più di una occasione per scappare, ma ero troppo stanco, troppo individuabile con quei « P W » giganteschi che portavo addosso, e poi ero senza un dollaro.
A Hereford, il colonnello Carlwolth, mi interrogò gentilmente. Soprattutto ci teneva a sapere come avevo fatto a scappare. In Italia ero campione di salto con l'asta — dissi — e con uno zompo ho scavalcato i reticolati!.. Il col. Carlwolth non seppe niente altro, non seppe nemmeno dell'ospitalità presso i Lovejoy. Scontai la fuga con 15 giorni di pane e acqua in cella isolata e altri 15 senza isolamento.
Rientrato in Italia, nel 1946, scrissi ai Lovejoy confessando che io non ero il marinaio che loro credevano, ma un prigioniero italiano di quelli che gli Americani chiamavano fascisti ed allora ero in fuga dal campo di Hereford. Non ho mai avuto risposta. Scriverò di nuovo, sperando che siano ancora a Milnesand. Vorrei tanto sapere qualcosa di Holmes, che si era affezionato a me e che ora dovrebbe avere 25 anni".
William Holmes Lovejoy, il bambino conosciuto da Montalbetti, è morto nel 2011 all’età di 71 anni, dopo una vita trascorsa nel ranch di famiglia a Milnesand, lo stesso dove lavorò Montalbetti durante la fuga.
R. Smg. Luigi Torelli, su Regia Marina Italiana"Nei primi giorni dell'agosto 1944 nel campo si parlava di vigilanza rallentata, in quanto le forze americane sarebbero state impegnate per controllare uno sciopero ad Amarillo. Pensai che poteva essere l'occasione buona per tentare la fuga che da tempo andavo sognando. Nella notte dal 4 al 5 agosto, verso le due, cominciai il tentativo. Avevo indossato la tenuta da lavoro dei marinai americani, equipaggiamento che mi era stato fornito dal Comandante del caccia statunitense « Wilson », che mi aveva raccolto naufrago nell'Atlantico, dopo l'autoaffondamento della « Burgenland », nave carica di gomma che era partita da Singapore ed era stata intercettata davanti alle coste brasiliane, mentre navigava verso Bordeaux. Con un pezzo di bastone di scopa, smussato alle estremità, mi riuscì di allargare il doppio reticolato che divideva il nostro compound dal « 3 », quello dei soldati, compound in quei giorni completamente vuoto. Potevo essere a due o tre metri al di là del reticolato quando d'improvvisò si accesero i fari della garitta più vicina. Tanto valeva giocare il tutto per tutto. Guardai verso la torretta, con tutta la tranquillità che mi riuscì di trovare, accesi una sigaretta e cominciai a passeggiare disinvoltamente, avanti e in dietro. Il boy di guardia evidentemente non riusciva a rendersi conto di quel che vedeva dentro il fascio di luce, può darsi pensasse a un'allucinazione dato che il compound 3 allora non aveva abitanti, Fatto si è che dopo un po' spense la luce. Sollevato, m'involai verso il reticolato del compound 2, che era semplice e non era sorvegliato, così che con discreta facilità potei superarlo. In un soffio attraversai il compound 2, superai il reticolato dividente questo settore dal compound I, che rappresentava la mia prima tappa e dov'erano i miei marinai. Nel compound 1 non v'era una luce, non si udiva una voce. Mi misi a gironzolare, deciso ad attendere l'alba, per non svegliare nessuno, ma ecco che, passando vicino a una delle baracche destinate ai servizi igienici, sentii delle voci. Entrai. Vi era il sergente Forti, del sommergibile « Cappellini ». Gli spiegai la situazione. In un batter d'occhio recuperammo un letto e, udita anche l'opinione di alcuni miei marinai,
decisi di attendere l'occasione favorevole per uscire dal campo con i soldati che si recavano ai lavori. Il giorno dopo conte a non finire e ricerche degli Americani che, nell'appello fatto al compound 4, si erano accorti dell'assenza di un prigioniero. Controllando le schedine determinarono presto che l'assente ero io.
Mentre gli Americani si davano da fare nelle ricerche, il giorno 7 agosto, uscii insieme a un gruppetto di 21 soldati, che erano accompagnati da tre boys, armati di mitra. Ci portarono ad Amarillo. Scaricammo, con certi aggeggi motorizzati, alcuni carri di grano. Una faticaccia, davvero, mentre di fuga nemmeno parlarne. I carri erano nel centro della città, vicino a un enorme silos, e noi eravamo sorvegliati strettamente.
Ritornai in campo col gruppetto e, come all'uscita, anche al rientro le sentinelle americane non si accorsero che c'era un uomo in più. Subito dopo arrivò la notizia che sarebbero occorsi 80 soldati per andare a una cinquantina di chilometri verso Sud-ovest, in un grande campo di mais che doveva essere ripulito. Pensai fosse la volta buona, anche perché era la direzione in cui doveva volgersi la mia fuga. Frattanto le ricerche da parte degli Americani continuavano e io dovevo non farmi pescare. Un simpaticissimo marinaio napoletano con le sue geniali trovate, mi fu di grande aiuto. Per una ispezione americana il marinaio mi mise su una branda, al posto del materasso, mi ricoprì con del cartone, vi mise sopra due coperte. La trovata era magnifica, ma io, sotto a tutta quella roba, quasi soffocavo e sudavo come fossi una fontanella.
Tutti erano fuori per il controllo, la baracca deserta, silenziosa.
Un'attesa tremenda. Qualche boy entrava, cercava, usciva, rientrava. A un certo punto uno prese un'arancia, lasciata da un prigioniero, sedette sul letto, vicino al mio, sbucciò il frutto e mentre faceva lo spuntino si mise a sfogliare una rivista. Disperato, seguivo quei movimenti quasi senza respirare, mentre ero madido e gocce di sudore cominciavano a cadere sul pavimento. Dopo un'eternità il boy se ne andò. I marinai mi misero fuori dopo tre ore che ero in quelle condizioni.
Un'altra ispezione fu tanto improvvisa da non permettere alcuna sistemazione di fortuna. Il marinaio napoletano non ci pensò due volte, mi chiuse nel frigorifero assicurandomi di non temere: « Lo terremo al minimo ». Minimo o non minimo, però, faceva un freddo cane. Ero nervosissimo. Cominciai a mangiare le riserve che vi erano conservate e di tale... abusiva sottrazione me ne dolgo ancor oggi, pronto a offrire un bel pranzo a quanti furono danneggiati dal mio... pasto.
Mentre attendevo di uscire dal campo furono perfezionati i preparativi. Un abilissimo marinaio riuscì a prepararmi due perfette carte geografiche del Texas (una mi fu sequestrata al rientro e l'altra sono riuscito a portarla in Italia). Altri marinai riuscirono a racimolare parecchi dollari e a prepararmi cibi energetici e di lunga durata. Finalmente
venne il gran giorno. Misi due vestiti: sopra quello impiastrato con la scritta P.W. di vernice bianca, sotto quello senza scritta. Avevo un caldo da crepare. Invece di 80, naturalmente, uscimmo in 81 con me. Il solito marinaio napoletano, però, aveva già pensato allo stratagemma: si mise vicino alle sentinelle americane, ad alta voce aiutandole a contare, arrivato al numero 80 allargò la bocca in un grande e convincente sorriso e raggiunse il suo posto nel gruppo. Gli 80 regolari, dunque, uscivano in 81!
Si arrivò al campo di lavoro. Qui mi attendeva un altro difficile ostacolo. Scelto il momento più opportuno, alcuni soldati si misero a chiacchierare con le sentinelle americane attirando la loro attenzione dalla parte opposta rispetto a quella dov'ero io. Era il momento tanto atteso. Mi buttai a terra, strisciando, raggiunsi una strada vicina, che doveva essere larga all'incirca cinque metri ed era completamente deserta, l'attraversai, mi buttai nel campo di mais che non era molto alto, sempre strisciando, continuai ad allontanarmi. Ero madido di sudore.
Mi fermai, dopo circa un'ora, in mezzo al mais, in un punto che mi sembrava sufficientemente nascosto, e attesi il tramonto. Mentre il sole stava abbassandosi, udii avviarsi il motore dell'autocarro che riportava al campo i prigionieri e udii la canzone convenuta, quella che parla del « tamburo principal della banda d'Allori ». Mi sentivo felice. Sempre in pericolo, ma libero, senza filo spinato intorno. Allora mi venne sete e mi venne fame. E non avevo niente. Strisciando, avevo perduto tutto quello che il mio concittadino Mollica mi aveva preparato. Tornare in dietro a cercare, in mezzo a quello sterminato mare di mais, sarebbe stata impresa impossibile. Mi feci forza. Mi levai in piedi e, a passo da bersagliere, m'incamminai. Dopo qualche chilometro, all'esterno della cinta di una casa colonica, trovai un serbatoio d'acqua. La salvezza! Mi avvicinai cautamente, badando a non fare nemmeno il minimo rumore, girai il rubinetto. Maledizione! appena girato, il rubinetto se ne scappò e l'acqua cominciò a uscire con gran rumore. Sembrò come si fosse svegliato tutto il buio. I cani cominciarono ad abbaiare. Due rapidissime boccate d'acqua, una mezza doccia involontaria e via, di gran carriera, come mai credo di avere corso in vita mia. Quando udii nuovamente il silenzio intorno a me, feci un po' di sosta. Nell'immensità del territorio, dove si incontra una farm ogni 40-50 chilometri, non era facile l'orientamento. Era tempo di luna nuova e non si poteva studiare la carta. Rintracciai la Stella polare e decisi di indirizzarmi verso Sud. Chilometri e chilometri in un mare di terra che pareva sempre uguale. Qualche volta finivo contro bassi reticolati, che recingevano campi sterminati ove migliaia di capi di bestiame vivevano allo stato brado ed erano, sotto un certo aspetto, i soli testimoni del mio andare insonne.
Mi fermavo quando non ne potevo più. Infilavo il mio maglione da sommergibilista, mi buttavo a terra e m'addormentavo di colpo. Erano riposi brevi, tuttavia, al massimo tre quarti d'ora. Mi si intorpidivano i muscoli e mi risvegliavo indolenzito, quasi incapace di muovermi.
Dopo tre giorni e tre notti arrivai sulla strada che da Bula porta a Littlefield. Pensai di fare una puntata rapidissima su Bula, per comperare dei viveri e riprendere la gran marcia. Mentre stavo decidendo, arrivò un'automobile. Nemmeno pensare alla fuga, bisognava affrontare la nuova situazione. Cominciai così la nuova era, quella dell'auto-stop. Un auto-stop a rovescio, tuttavia, perché non ero io a fermare le macchine, ma erano gli automobilisti a fermarsi e a offrire un passaggio a quello che forse doveva essere l'ultimo pedone del Texas.
In automobile si andava meglio che a piedi, naturalmente, però dovetti affrontare pericoli ben maggiori: rispondere a quel che mi si chiedeva. Di inglese ne sapevo quanto un ragazzino delle nostre scuole inferiori: lo leggevo bene, a dire il vero, ma Io capivo pochissimo, specialmente se mi si parlava rapidamente, e poi l'accento degli abitanti del Texas era quasi impossibile. lo, però, avevo già preparato la storiella da raccontare. Eccola.
Avevo letto sui giornali che alla fine del lungo assedio americano all'isola Martinica, ove giaceva il tesoro della Banca di Francia, soldati e marinai francesi della guarnigione erano stati spediti negli United States per dei corsi militari, mentre i non cooperatori francesi, che si erano schierati con Petain, erano stati messi in campi di prigionia, come noi. Ai Francesi che avevano sottoscritto la collaborazione, e che avevano parenti in America, era stato concesso il permesso di fare una visita agli stessi. Io raccontavo di essere uno di questi.
Tutto andò per il meglio, soltanto fu un guaio quando l'automobilista mi chiese se andava bene per me arrivare a Portales. Io dissi di sì, sperando che fosse Sud, perché non avevo mai sentito parlare di Portales. Invece, dopo un paio d'ore, mi ritrovai più a Nord, in una cittadina del New Mexico.
Quando me ne resi conto, filosoficamente — del resto c'era niente da fare — pensai che forse era meglio essere fuori dal Texas, dove le ricerche avrebbero potuto essere più accurate. Bene. Entrai in uno store, comperai e bevvi due Coca cola, acquistai miele, pane a fette, tre apple-pie, quindi mi portai fuori Portales, sotto un ombroso albero, in attesa di riprendere la marcia notturna. Raggiunsi Dora e, poiché ero stanco di camminare sempre, feci in modo da usare l'auto-stop. Questa volta i miei ospiti furono due simpatici vecchietti, che andavano su una sgangherata automobile piena di cianfrusaglie. Per evitare guai, dopo aver raccontato la solita storia del soldato francese, a segni feci intendere che ero sordo. I due vecchietti mi fecero scendere a Milnesand, una cittadina che complessivamente contava... 16 abitanti. Al tramonto ripresi la marcia.
Mi sentivo molto stanco, decisi di cercare un rifugio un po' tranquillo per riposare bene, almeno una notte. Dopo qualche chilometro, adocchiai una barn costruita col sistema palafitticolo, cioè con il fondo un metro sopra il terreno. La barn è una sorta di magazzino,
quello che avevo trovato distava circa 600 metri da una farm. Impiegai una buona mezz'ora per togliere il filo di ferro che teneva chiusa la porta della barn. Finalmente riuscii ad entrare.
L'interno era molto sporco, in compenso v'erano parecchi sacchi che mi sarebbero stati preziosi per preparare un giaciglio. V'erano anche molte bottiglie: ne presi una, la riempii d'acqua dal vicino wind-mill. Quindi m'adoperai per sistemarmi un letto. Ecco però il rumore di un autocarro che dalla farm veniva avvicinandosi alla barn. Sperai si portasse sulla strada, invece l'autocarro si arrestò lì presso. Ne scesero il padrone e il suo figlioletto, i quali avevano portato il pasto per i maiali, che erano in una piccola capanna, a una trentina di metri dalla barn.
Pensai che forse me la sarei cavata senza essere disturbato. Invece, il bello doveva ancora venire. Da una botola, che prima non avevo nemmeno notato, ecco spuntare la testa del ragazzino, che si chiamava Holmes. Con Holmes la spiegazione fu semplicissima: gli diedi un buffetto su una guancia e ci scambiammo un sorriso, tutto qui. Il padre, mister Lovejoy, seguiva il ragazzo e si annunciava con una puzza di whisky di cattiva qualità. Mentre l'uomo stava salendo i tre gradini gli diedi un colpetto amichevole sulla spalla. Mister Lovejoy, spaventatissimo, sussultò e lanciò un urlo terribile. Per un attimo stetti in forse se rompergli in testa una bottiglia o affrontare la situazione. Sorrisi con tutta la tranquillità di cui ero capace, e a mister Lovejoy passò lo spavento.
Raccontai la storia del marinaio francese e chiesi di poter pernottare lì. Mi sarei rimesso in cammino il mattino seguente per andare a Sant'Antonio del Texas dove — dissi — avevo i miei parenti. Mister Lovejoy mi rispose che potevo restare lì quanto mi fosse piaciuto. Poi
mi parve si aprisse un altro mondo. “Un, deux, trois, quatre” fece mister Lovejoy in un francese tipo scozzese. Mister Lovejoy ritrovava così l'orgoglio del soldato americano che aveva fatto in Francia la prima guerra mondiale. Fu l'amicizia.
Mister Lovejoy volle sapere di dove fosse il soldato francese. Dissi che ero di Bordeaux. Egli fece un altro sforzo mnemonico e ricordò Place Gambetta, Piace de la République e ancora tutti i luoghi dove l'aveva portato la guerra. Allora mister Lovejoy mi propose di restare per qualche giorno a lavorare con lui, avrei potuto guadagnare quanto mi sarebbe occorso per arrivare a Sant'Antonio in treno. Accettai il job. Ci spostammo alla fattoria. Non c'era nessuno. Andammo nella stalla, dove trovammo mistress Lovejoy nello stallo numero 2, al posto della mucca, che non c'era. Mistress Lovejoy era stata sorpresa mentre esauriva una sua… necessità naturale. Non si confuse, si levò di scatto e le fui presentato come il marinaio francese “mister...” e lì per lì dovetti improvvisare il nome: “Louis Dupont”, dissi, rimediando a una manchevolezza nella preparazione della fuga, perché proprio al nome non avevo pensato.
Aiuto di Lovejoy. Il giorno seguente, dopo una bella dormita, andai in giro col padrone, profittando della domenica. Per miglia e miglia alla ricerca dei vitelli dispersi, montando un bellissimo cavallo di nome « Tex ». Non avevo mai cavalcato in vita mia, feci equilibrismi per non cadere e a sera, per scendere a terra, dovetti essere aiutato poiché le gambe mi si erano irrigidite e nelle natiche avevo due fiacche grosse così.
Lunedì: giorno di lavoro. Erpicatura del granoturco. Non sapevo nemmeno di dove si cominciasse. Comunque, riuscii a cavarmela, ma a sera avevo le fiacche sulle mani. Feci un po' di tutto e tutto male. Di primo mattino mungitura, ma riuscivo a strizzare soltanto poco latte, fortunatamente mi levava d'impaccio la buona mistress Lovejoy con un « I finish for you! ». Con l'autocarro andavo a far rifornimento di acqua, per un'ora facevo ruotare a mano la scrematrice il cui motore a benzina non funzionava più, poi dovevo raccogliere le uova. Meno male che nel pomeriggio riposavo in una specie di letto posto nel carrozzone mobile, mentre alla sera lavavo i piatti.
Rimasi con i Lovejoy più di due settimane, in una proprietà immensa, forse erano più di 10 miglia quadrate. Quando potevo giocavo con il piccolo Holmes, un bel bambino, e con la piccola e sorridente Kalin, che allora aveva appena dieci mesi e cominciava a sgambettare. E v'erano le belle ore prossime al tramonti, quando a cavallo — avevo ormai imparato bene — andavo a raccogliere le mucche che erano state lasciate libere dopo la mungitura e andavo a dar da mangiare ai porci.
Avrei potuto restare a lungo con i Lovejoy, avevamo fatto anche progetti a lungo termine: la casa nuova presso il wind-Mill, una stalla più grande; un piccolo corral, nuove culture, e altro ancora. Pensai che la cosa si faceva troppo seria, dissi che me ne sarei andato. I Lovejoy erano commossi, cercarono di trattenermi, poi, mi diedero i 20 dollari pattuiti, ma chissà cosa avrebbero dato per vedermi restare con loro.
Tatum, Lovington, Hobbs, raggiunsi queste cittadine sempre a piedi, di notte. Con un fortunato auto-stop arrivai nella bella cittadina di Carlsbad, e finalmente qui trovai un po' di verde dopo tanta terra bruciata. Pensavo di raggiungere Ciudad Jurez, nel Messico, quindi in ferrovia arrivare a Città del Messico.
Fra Carlsbad e Pecos, invece, l'avventura incredibile. Attendevo una automobile per proseguire. Arrivò una vettura militare. Era una vettura dell'aeronautica con a bordo un tenente bianco e un sergente negro. Mi fecero salire e fu il solito dialogo. Avevo un comprensibile timore raccontando la storiella del marinaio francese, invece tutto andò bene.
Arrivai a Pecos, mi fecero discendere in centro, proprio davanti a un poliziotto. Con la più grande faccia tosta di questo mondo finsi di niente, mi allontanai tranquillamente verso la periferia dove rimasi, seminascosto da qualche cespuglio, sino a sera. Non avevo potuto fare acquisti a Carlsbad, quindi dovevo fare rifornimenti qui. Al tramonto tornai nella cittadina per comperare miele, torte di mele in cellophane e qualche altra cosa. Uscito dallo store, mi avviai per lasciare la cittadina. Ma, ecco, sfilarmi di fianco una macchina nera con su la targa « U.S. Governement ». Pensai si trattasse di qualche autorità. Mi mancavano cento metri per raggiungere la curva dietro alla quale erano i campi. Alla curva, però, non arrivai mai. La macchina, appena superata la curva, era tornata in dietro. Mi si fermò davanti. Dentro c'erano due tipi vestiti in kaki, con in testa cappelli di tipo canadese. Sbirciai il dischetto che era sulla macchina e lessi « Border patrol ». Pensai che fosse finita. Comunque, tentai ancora. A quel che i due mi chiedevano, risposi raccontando la storia del marinaio francese. Per poco il colpo non riuscì. Il più anziano dei due che — lo seppi dopo — aveva fatto anche lui la prima guerra mondiale in Francia, era propenso a lasciarmi andare; l'altro, il più giovane, sosteneva che era meglio portarmi davanti all'Ispettore, poiché ero senza documenti.
Finii davanti all'Ispettore, che ascoltò il mio racconto, mi chiese altre notizie, poi volle domandare istruzioni, via radio, al suo Comando di Alpine. La radio non funzionava bene. L'Ispettore insistette per sapere quand'ero sbarcato in America. Mi ero preparato bene la risposta e feci, sicuro: « Il 5. marzo 1944, a New Orleans, dalla steam ship " Edison " ». Data e porto di sbarco erano reali, non lo era, invece, il nome del piroscafo poiché io ero in mani americane da alcuni mesi, provenendo dal Brasile con una nave carica di prigionieri di guerra naufraghi delle navi « Burgenland » e « Weserland ».
A questo punto tutti e quattro ci spostammo nel centro di Pecos, presso un'agenzia che aveva la trasmittente. Dopo due ore l'Ispettore mi tornò davanti furibondo, con i baffetti che gli tremavano dalla rabbia. « Non mi si prende in giro — mi urlò in faccia — la steam ship " Edison " è affondata nel 1941 ».
Era finita. Come avrei potuto sapere che la « Edison » era affondata? Raccontai la verità. Mi portarono in un officio della Military Police, dov'era una grande carta del Texas alla quale tutti alzarono gli occhi quando dissi che venivo dal campo di Hereford, che era su, su, presso Amarillo, al limite quasi della grande carta. Scossero la testa increduli pensando stessi raccontando un'altra storiella, come quella del marinaio francese.
Dopo un'altra ora di attesa vennero a dirmi che era vero, che ero fuggito da Hereford, dove avevano telefonato per avere conferma.
Mi trasportarono ad Alpine, al Comando della Border patrol. Mi permisero di dormire sul divano di un ufficio.
Mi svegliai al suono di tre voci femminili. Erano le impiegate della polizia venute a curiosare. Una bionda incendiaria mi chiese se erano belle le donne di « Fogghia », dov'era il suo boy, naturalmente dissi che erano le più belle ragazze del mondo. Colazione abbondante e quindi mi trasferirono nella prigione comune, insieme con un vero nugolo di contrabbandieri messicani. Poco dopo mi portarono alla presenza dello sceriffo, che con molta gentilezza mi chiese il racconto della fuga e anche notizie della mia vita militare. Lo sceriffo era una persona compitissima e nutriva grande simpatia per l'Italia, perciò lo accontentai, e lui ne fu felice.
Ritornai in prigione e non trovai più le due apple-pie che vi avevo lasciato e che il capo del gruppetto di messicani s'era mangiate. Questo capo era una specie di guappo, certo Sandoval José Salazar di Montezuma, che mi spiegò il trattamento che lui e i suoi amici ricevevano dagli Americani, i quali propinavano loro persino delle pillole per provocarne la temporanea impotenza. Perché? Perché se eccitati facevano la rivoluzione, rompevano tutto quel che avevano sottomano e dalle finestre che davano sulla strada urlavano i più sconci epiteti alle ragazze che vi passavano sotto. Facemmo la prova dell'urlo per festeggiare l'amicizia e dovetti promettere che nella prossima fuga sarei passato dal loro paese, dove avrei avuto la più ampia ospitalità, infine mi sottrassero, senza che me ne accorgessi, le ultime lamette da barba.
Poi, mi trasferirono a Marfa. Era un campo della Military Police che in maggioranza raccoglieva soldati puniti per rifiuto d'obbedienza. Mi sequestrarono i pochi dollari che ancora avevo, mi dipinsero gli abiti con il « P W ». Mentre ero in cella, scopersi una botola sul soffitto. Aiutandomi col letto, messo in posizione verticale, provai la resistenza
della botola. Niente da fare, era sprangata dall'esterno.
Dopo due giorni venne a riprendermi il sergente Garcia, un sottufficiale di origine cubana che era nel campo di Hereford. In treno, sia passando da EI Paso sia in altre soste, ebbi più di una occasione per scappare, ma ero troppo stanco, troppo individuabile con quei « P W » giganteschi che portavo addosso, e poi ero senza un dollaro.
A Hereford, il colonnello Carlwolth, mi interrogò gentilmente. Soprattutto ci teneva a sapere come avevo fatto a scappare. In Italia ero campione di salto con l'asta — dissi — e con uno zompo ho scavalcato i reticolati!.. Il col. Carlwolth non seppe niente altro, non seppe nemmeno dell'ospitalità presso i Lovejoy. Scontai la fuga con 15 giorni di pane e acqua in cella isolata e altri 15 senza isolamento.
Rientrato in Italia, nel 1946, scrissi ai Lovejoy confessando che io non ero il marinaio che loro credevano, ma un prigioniero italiano di quelli che gli Americani chiamavano fascisti ed allora ero in fuga dal campo di Hereford. Non ho mai avuto risposta. Scriverò di nuovo, sperando che siano ancora a Milnesand. Vorrei tanto sapere qualcosa di Holmes, che si era affezionato a me e che ora dovrebbe avere 25 anni".
William Holmes Lovejoy, il bambino conosciuto da Montalbetti, è morto nel 2011 all’età di 71 anni, dopo una vita trascorsa nel ranch di famiglia a Milnesand, lo stesso dove lavorò Montalbetti durante la fuga.
Incredibile , quanto coraggio, determinazione , eroismo , amor di patria, purtroppo dimenticati o non adeguatamente considerati.
RispondiEliminaSarebbe bello conoscere meglio il motivo per il quale i marinai furono degradati e privati della pensione... Ma immagino non avessero una falce e martello sulla propria uniforme
RispondiEliminaIl sergente nocchiero morto si chiamava Fiovo Pallucchini (non Flavio)
RispondiEliminaBuongiorno,
RispondiEliminasono figlio di uno dei sopravvissuti, che era imbarcato sul Torelli durante le missioni da Lei fedelmente descritte. Si tratta di uno di quei marinai rientrati a Napoli nel febbraio 46, dopo l'ultima fase di prigionia ad Honolulu.
Il mio papà mi ha raccontato a più riprese i fatti da Lei descritti, ogni volta con difficoltà per il dolore che gli procuravano certi ricordi. Quando lui è mancato mi sono reso conto di aver commesso un grave errore a non raccogliere in un diario questi racconti di vita Può quindi immaginare quanto io le sia grato di averlo fatto.
GRAZIE !