martedì 8 settembre 2015

Luigi Torelli

Il varo del Torelli (da www.betasom.it

Sommergibile oceanico della classe Marconi (1191 tonnellate di dislocamento in superficie e 1489 in immersione).
Sotto bandiera italiana effettuò 14 missioni di guerra, 12 in Atlantico e due in Mediterraneo, percorrendo 61.563 miglia in superficie e 3176 in immersione, trascorrendo 355 giorni in mare ed affondando 7 navi mercantili per complessive 42.968 tsl.

Breve e parziale cronologia.

15 febbraio 1939
Impostazione nei cantieri Odero-Terni-Orlando del Muggiano (La Spezia).
6 gennaio 1940
Varo nei cantieri Odero-Terni-Orlando del Muggiano.

Un’altra immagine del varo (da “Gli squali dell’Adriatico. Monfalcone e i suoi sommergibili nella storia navale italiana” di Alessandro Turrini, Vittorelli Edizioni, 1999, via www.betasom.it

15 maggio 1940
Entrata in servizio, meno di un mese prima che l’Italia entri nella seconda guerra mondiale.
Giugno 1940
Riceve la bandiera di combattimento da Celestina Torelli Rolle, nuora di Luigi Torelli.
10 giugno 1940
La dichiarazione di guerra lo sorprende mentre è ancora intento nella fase di prove di collaudo e addestramento dell’equipaggio, dunque non in grado di partecipare al primo dispiegamento in massa della flotta subacquea italiana del giugno 1940.
Successivamente, concluso l’addestramento, eseguirà una missione di ricognizione nel Golfo di Genova prima di venire destinato alla neocostituita base atlantica italiana di Betasom, a Bordeaux.
22 luglio 1940
Divenuto operativo, viene assegnato al II Gruppo Sommergibili di Napoli, ma rimane a La Spezia. Ne assume il comando il capitano di fregata Aldo Cocchia, comandante del Grupsom cui il battello appartiene; Cocchia avrà poco più di una settimana per compiere qualche esercitazione e familiarizzare con il sommergibile e l’equipaggio, non ancora completamente addestrato.

Il Torelli a La Spezia nel 1940 (Coll. Erminio Bagnasco, via Maurizio Brescia e www.associazione-venus.it

31 agosto 1940
Il Torelli, al comando del capitano di fregata Aldo Cocchia, salpa nel pomeriggio da La Spezia (o Cagliari) diretto in Atlantico, facendo parte del primo scaglione di battelli assegnati a Betasom. L’ordine d’operazioni, modificato all’ultimo momento, prevede un agguato di 5-6 giorni a sud delle Baleari (sembra infatti che unità britanniche siano in mare nel Mediterraneo occidentale), l’attraversamento dello stretto di Gibilterra in superficie o in immersione, a scelta, e una breve missione in Atlantico per poi raggiungere Betasom.
Già nei primi giorni il comandante Cocchia ha modo di rendersi conto che le attrezzature di bordo non sono in perfetto ordine: vi sono state infiltrazioni d’acqua nell’olio nelle tubolature dei servomotori «Calzoni», che azionano timoni, sfoghi d’aria, allagamenti e manovra periscopi, facendo arrugginire i pistoncini d’acciaio dei servomotori. Qualcuno suggerisce di tornare a La Spezia per rassettare tale attrezzatura, ma Cocchia preferisce proseguire; i meccanici dell’equipaggio e l’operaio del cantiere costruttore appositamente imbarcato passeranno il resto della missione a smontare, pulire e rimontare i pistoncini, le valvole ed i riduttori di pressione, il che comunque non basterà ad evitare inconvenienti (timoni che s’inceppano, sfoghi d’aria che non si aprono,
8 settembre 1940
Dopo aver incrociato un piroscafo spagnolo illuminato (il mare è calmo con leggera brezza da ponente, la notte priva di luna), il Torelli s’immerge alle due di notte – 3 miglia a sud della Rocca di Gibilterra – per iniziare l’attraversamento dello Stretto di Gibilterra, senza tenere troppo conto delle rotte e disposizioni particolari da seguire indicate dagli ordini (Cocchia ritiene, a ragione, che sia più opportuno non seguire disposizioni troppo restrittive in merito, impartite da chi non ha una effettiva conoscenza del dispositivo di sorveglianza britannico dello Stretto). Il battello scende a 90 metri di profondità. Cocchia decide di effettuare l’attraversamento ad alta profondità, senza mai venire a quota periscopica (usando invece lo scandaglio ultrasonoro per fare il punto), tenendosi al centro dello stretto fino all’altezza di Tarifa, indi accostare verso l’uscita tenendosi sul lato africano.
L’attraversamento non è molestato dal nemico; un paio di volte gli idrofoni rilevano unità in navigazione ed una di esse, propulsa da motore a scoppio, dà quasi l’impressione di stare dando la caccia al battello, poiché si ferma e riparte più volte, restando sempre in sua prossimità; ma non si sente mai l’ASDIC, né viene lanciata alcuna bomba di profondità.
Le correnti ed i gorghi sottomarini dello Stretto, che hanno causato seri guai a più di un sommergibile, creano invece qualche problema, spingendo bruscamente verso il basso il Torelli, in più occasioni; ma le “cadute” non superano mai la decina di metri. Vi è una forte corrente contraria dal centro dello Stretto, ma va calando via via che ci si avvicina alla costa africana, sino anzi a diventare favorevole in qualche punto; Cocchia fa mantenere un’andatura sostenuta ed evita così incidenti. Nel primo tratto in immersione il Torelli viene deviato verso sinistra da una corrente trasversale e se ne accorge quando gli ecoscandagli segnalano che la profondità dei fondali sta via via calando, al che viene corretta la rotta.
Verso mezzogiorno, al largo di Tarifa, la corrente diviene però così forte da eguagliare quasi la velocità del Torelli in direzione opposta: il sommergibile fatica a governare e non avanza più, restando “fermo” per effetto delle due velocità uguali ed opposte. Non si può accelerare per non scaricare le batterie dei motori elettrici, né emergere, visto che è giorno fatto; e per giunta è proprio in quel momento che gli idrofoni rilevano l’unità navale dotata di motore a scoppio che si ferma e riparte più volte sulla verticale del battello. Tale situazione dura quattro ore, poi Cocchia fa accostare verso la sponda africana dello Stretto e riesce a trovare corrente meno forte, così il sommergibile riesce a procedere e costeggia fino a Capo Spartel.
Alle 18 vengono usate le apparecchiature per la rigenerazione dell’aria, soprattutto a titolo di collaudo. Alle 23, ritenendo di essere ormai fuori dallo Stretto, Cocchia fa eseguire per qualche minuto ascolto idrofonico e poi ordina l’emersione, coi motori diesel già ingranati ed i cappelli dei tubi di lancio aperti. Il Torelli emerge a una decina di miglia dal faro di Capo Spartel, in mezzo ad un gruppo di barche per la pesca con la lampara, poi si allontana a tutta forza.

Il capitano di fregata Aldo Cocchia, comandante del Torelli nella sua prima missione atlantica (da www.movm.it)

11-29 settembre 1940
Rimane in agguato/perlustrazione a nordovest delle Azzorre. Nei settori adiacenti sono i sommergibili Capitano Tarantini (a nord) e Comandante Faà di Bruno (a sud). Il Torelli avvista due navi, una delle quali rivelatasi essere neutrale, mentre l’altra non può essere identificata (verosimilmente, un mercantile nemico). Quest’ultima appare davanti al Torelli all’improvviso, in una notte buia; il Torelli le lancia subito un siluro ma la manca, poi tenta di accostare a dritta per lanciarne un altro, ma il timone non va alla banda da quel lato per via degli inconvenienti ai servomotori «Calzoni». Il Torelli è così costretto ad accostare sul lato opposto e lanciare un siluro da poppa, da una distanza eccessiva; il mercantile avvista il siluro, lo evita e si allontana coprendosi con una cortina di nebbia. Il sommergibile deve perdere tempo a completare il giro sulla sinistra (non è ancora possibile accostare a dritta), e quando ha completato il giro la preda è scomparsa. Invano la cercherà a tutta forza per tutta la notte, nella direzione ritenuta più probabile.
Successivamente il Torelli s’imbatte in un ciclone a sud delle Azzorre. Il sommergibile scende fino a 40 metri, la profondità migliore per l’ascolto idrofonico, ma continua a rollare anche a tale profondità (di norma ciò non accade oltre i 20-30 metri), e per giunta l’intensità del rollio è in aumento; scende quindi a 50, poi 60, quindi 80 e infine 90 metri, ma ancora oscilla di 15° per parte. Cocchia varia la prua del sommergibile, ma questi continua a oscillare in senso trasversale. Il Torelli rimane immerso il più a lungo possibile, verificando di quando in quando le condizioni meteo esterne salendo a quota periscopica, ma alla fine deve emergere; immense montagne di acqua si abbattono su di esso da tutte le direzioni, entrando all’interno attraverso il portello aperto. La situazione migliorerà solo dopo qualche ora.
5 ottobre 1940
Giunge a Bordeaux. Nelle settimane seguenti esce in mare ripetutamente per esercitazioni.


Il Torelli in arrivo a Bordeaux, il 5 ottobre 1940 (sopra: g.c. STORIA militare; sotto, foto USMM, dalla “Rivista Marittima” dell’ottobre 1994, via www.betasom.it)


7 ottobre 1940
Il comandante Cocchia, divenuto capo di Stato Maggiore di Betasom, viene rimpiazzato nel comando del Torelli dal capitano di fregata Primo Longobardo.
11 dicembre 1940
Prende il mare per la seconda missione in Atlantico, ma dopo pochi giorni dovrà invertire la rotta per gravi avarie ai motori elettrici principali.
26 dicembre 1940
Rientra a Bordeaux, dopo di che passa un mese ai lavori di riparazione.
5 (o 9) gennaio 1941
Il Torelli salpa da Bordeaux per una nuova missione nelle acque a ponente della Scozia (ad ovest del Canale del Nord e dell’Irlanda, insieme ai sommergibili Marcello e Malaspina ed a ponente di una linea costituita dai tedeschi U 93, U 94, U 96 e U 105).
15 gennaio 1941
Mentre si trova 350 miglia a ponente dell’Irlanda, il Torelli avvista un convoglio di sei-sette mercantili, che attacca in superficie, secondo una tattica che il comandante Longobardo ha appreso a bordo dell’U 99 del comandante tedesco Otto Kretschmer (il più grande asso degli U-Boote della seconda guerra mondiale) sul quale è stato imbarcato per affinare la propria esperienza in una precedente misione.
Si tratta di alcune delle navi del convoglio OB. 272, partito dal Clyde l’11 gennaio e dispersosi poche ore prima dell’arrivo del sommergibile italiano.
Il Torelli attacca in particolare due piroscafi che sono proseguiti insieme verso sud, il greco Nemea (5198 tsl, in navigazione da Barry a Salonicco con un carico di carbone) ed il norvegese Brask (4079 tsl, in navigazione in zavorra da Gourock a Durban).
Alle 20.20 il sommergibile silura il Nemea in posizione 52°33’ N e 24°13’ O (700 miglia a ponente di Fastnet e 445 miglia ad ovest di Rockfall), e ventotto minuti più tardi colpisce anche il Brask, cui si è avvicinato tanto che il secondo ufficiale di questa nave riesce a distinguere il battello attaccante come italiano.
Gli equipaggi di queste due navi andranno incontro ad una incredibile odissea.
Il Brask, colpito da un siluro (sul lato sinistro) in corrispondenza della stiva numero 2, affonda in tre minuti in posizione 52°45’ N e 23°59’ O (432 miglia ad ovest di Rockfall), con la prua dilaniata, senza il tempo di mettere a mare le proprie imbarcazioni. Del suo equipaggio, dodici uomini (tra cui il comandante) affondano con la nave, mentre i venti sopravvissuti raggiungono in acqua una delle scialuppe, capovolta, la raddrizzano e vi prendono posto. La lancia raggiunge poi il Nemea, che, dopo il siluramento (è stato colpito da un singolo siluro), è stato abbandonato dall’equipaggio su due lance, ma è rimasto a galla.
I naufraghi del Brask salgono sul deserto Nemea, abbandonandolo poco dopo nel timore di nuovi attacchi, per poi risalirvi il mattino successivo, rivestirsi e rifocillarsi con quanto rimasto a bordo e riparare la radio. Anche una scialuppa con 17 superstiti del Nemea (degli altri membri dell’equipaggio della nave greca, 5 sono morti nel siluramento, mentre 13 si sono imbarcati su un’altra scialuppa, che non verrà mai ritrovata) ritorna poi verso la propria nave; i naufraghi greci e norvegesi riescono a lanciare un SOS con la radio del Nemea, poi anche a rimettere in moto le macchine e issare a bordo ambedue le scialuppe. I greci propongono di raggiungere le Azzorre, i norvegesi l’Irlanda; dapprima il Nemea dirigerà per le Azzorre, poi (nel pomeriggio del 16 gennaio), visto il vento contrario, finisce col fare rotta per l’Irlanda. Col calare della sera, temendo di poter essere ancora attaccati, greci e norvegesi fermano le macchine e tornano sulle scialuppe, che legano alla nave con una lunga cima.
Nelle prime ore del 17 avvisano dei razzi all’orizzonte, cui rispondono con i loro razzi, poi tornano sul Nemea prima dell’alba e lanciano altri razzi, che vengono avvistati da due cacciatorpediniere britannici, che accorrono sul posto. I sopravvissuti propongono di restare sulla nave danneggiata per portarla in salvo, con la scorta dei cacciatorpediniere, ma l’idea viene rifiutata per via della scarsità di carburante, così i resti dei due equipaggi vengono infine presi a bordo del cacciatorpediniere Highlander (che li sbarcherà a Londonderry), mentre il Nemea viene abbandonato alla deriva nel punto 52°57’ N e 23°58’ O e affonderà in seguito.

Il Torelli a Bordeaux (da www.marina.difesa.it, via Marcello Risolo e www.naviearmatori.net

16 gennaio 1941
All’una di notte il Torelli, stando in superficie, colpisce con un siluro (o due) un terzo piroscafo, il greco Nicolas Filinis da 3111 tsl (in navigazione da Barry a Freetown ed anch’esso appartenente al disperso convoglio OB. 272), con 3 vittime tra i 29 membri del suo equipaggio; poi lo cannoneggia con il cannone da 120 mm. Abbandonata dai superstiti, la nave affonderà più tardi in posizione approssimata 53° N e 24° O (o 52°45’ N e 24°05’ O; 429 miglia a ponente di Rockfall).
Il Torelli ritiene di aver anche danneggiato una quarta nave, che sarebbe però sfuggita a causa del maltempo; da parte britannica, tuttavia, questo quarto siluramento non risulta.
20 gennaio 1941
In immersione, lancia tre siluri contro altrettanti cacciatorpediniere, ma nessuna delle armi va a segno. Viene poi sottoposto a caccia antisom da parte dei tre cacciatorpediniere, con lancio di 18 bombe di profondità.
28 gennaio 1941
Alle 21 il Torelli, restando immerso in condizioni di maltempo, affonda con un siluro, in posizione 54°54’ N e 19°20’ O (o 54°57’ N e 18°50’ O; 250 miglia ad ovest dell’Irlanda, 234 miglia a ovest-nord-ovest di Rockwall), il piroscafo britannico Urla (5198 tsl), unità dispersa del convoglio HX 102, rispetto al quale è rimasto indietro causa carbone di cattiva qualità. Il piroscafo, carico di acciaio, grano e legname, era in navigazione da New York e Halifax a Manchester al comando del capitano Marsden. Dei 42 componenti del suo equipaggio, non ci sono vittime; il comandante in seconda e 13 uomini, su una scialuppa, vengono recuperati dopo 40 ore e sbarcati a Londonderry, mentre il comandante e 27 uomini, su un’altra lancia, saranno tratti in salvo dopo sei giorni e sbarcati ad Oban.
4 febbraio 1941
Il Torelli giunge a Pauillac, vicino a Bordeaux, concludendo la missione.
Per i risultati conseguiti – quattro navi affondate per 17.498 tsl, il maggior successo colto fino ad allora in una singola missione da un sommergibile italiano – il comandante Longobardo verrà decorato con la Medaglia d’Argento al Valor Militare, con motivazione «Comandante si sommergibile oceanico, nel corso di una lunga missione attaccava in superficie con tenacia ed ardimento un convoglio nemico del quale affondava in azione notturna tre piroscafi. In successiva azione, affondava un quarto piroscafo ed attaccava due cacciatorpediniere nemici, dimostrando combattività ed elevate capacità professionali nel sottrarre la propria unità alla violenta reazione nemica».
Segue il periodo di usuali riparazioni allo scafo e riposo dell’equipaggio, durante il quale si verifica un duplice avvicendamento: il comandante Longobardo cede il comando del sommergibile al tenente di vascello Antonio De Giacomo (altra fonte posticipa l’avvicendamento a dopo la missione successiva), ed il comandante in seconda, tenente di vascello Francesco Pedrotti, viene al contempo rimpiazzato dal sottotenente di vascello Girolamo Fantoni.
Durante i lavori, la voluminosa torretta viene sostanzialmente ridotta.

Il Torelli fa ritorno a Bordeaux, il 4 febbraio 1941: in torretta è il comandante Longobardo (con la sciarpa bianca), mentre l’ammiraglio Angelo Parona, comandante delle forze subacquee italiane in Atlantico, assiste dalla banchina (g.c. STORIA militare)


(USMM via www.regiamarina.net)



Sopra, il comandante Longobardo (a sinistra) riceve i complimenti del capitano di fregata Hans-Rudolf Rösing, ufficiale di collegamento tedesco a Betasom, al rientro dalla missione; sotto, Longobardo, debitamente sbarbato, stringe la mano all’ammiraglio Karl Dönitz, comandante della flotta subacquea tedesca, mentre a sinistra si riconosce l’ammiraglio Parona (da “I sommergibili italiani nell’Atlantico settentrionale. Le operazioni e i problemi operativi (ottobre 1940-maggio 1941)” di Francesco Mattesini, su www.academia.edu)


17 aprile 1941
Salpa da Bordeaux per operare ad ovest dell’Irlanda, operando con il gruppo «Da Vinci» (Da Vinci, Torelli, Malaspina e Cappellini).
Non avendo avvistato alcuna nave, riceve poi ordine di trasferirsi a ponente della Scozia, ma di nuovo non si vedono risultati.
18 aprile 1941
Forma una linea di pattugliamento ad ovest dell’Irlanda insieme ai sommergibili italiani Da Vinci, Cappellini e Malaspina ed ai tedeschi U 73, U 101 e U 110.
22 aprile 1941
Avvista un convoglio diretto in Gran Bretagna, ma non riesce a contattare i sommergibili tedeschi U 101 e U 110 per lanciare un attacco coordinato. L’indomani un ricognitore Focke-Wulf FW 200 del I/KG. 40 viene inviato a perlustrare la zona indicata dal Torelli, ma non riesce a trovare traccia del convoglio.
9 maggio 1941
Viene inviato, insieme al Cappellini, a cercare un convoglio avvistato da un FW 200 tedesco a ponente dell’Islanda, ma la posizione indicata dall’aereo è sbagliata di oltre cento miglia.
11 maggio 1941
Lascia il settore assegnato per rientra alla base.
16 maggio 1941
Raggiunge Bordeaux.
29 giugno 1941
Prende il mare per una missione ad ovest di Gibilterra, per operare in gruppo con i sommergibili  Da Vinci, Baracca, Alessandro Malaspina, Comandante Cappellini, Michele Bianchi, Morosini, Barbarigo e Alpino Bagnolini.
5 luglio 1941
Intercetta un piccolo convoglio a ponente di Gibilterra e richiama sul posto i sommergibili Da Vinci, Baracca, Morosini e Malaspina per un attacco coordinato, poi tenta infruttuosamente di attaccare un cacciatorpediniere, ma viene respinto dall’immediata reazione della scorta, e non può così completare l’attacco.
7 luglio 1941
Avvista ed attacca un altro convoglio (forse l’HG. 66), con rotta nord/ovest, in posizione 35°15’ N e 10°25’ O, venendo di nuovo respinto dalla scorta. Da Vinci, Baracca e Morosini ed il tedesco U 103 vengono inviati ad intercettare il convoglio, ma nessuno riesce a trovarlo.
18 luglio 1941
A seguito dell’avvertimento dei comandi tedeschi, da parte di agenti spagnoli, che il convoglio britannico HG 67 ha lasciato Gibilterra, il Torelli, insieme ai sommergibili italiani Malaspina, Morosini, Barbarigo e Bagnolini, viene posizionato per intercettare il convoglio; ma i comandi britannici, appreso ciò dalle decrittazioni di “ULTRA”, modificano la rotta seguita dall’HG 67, che evita così lo sbarramento di sommergibili.
21 luglio 1941
Alle 21.34 (ora italiana, differente da quella di bordo dell’Ida Knudsen) il Torelli attacca la motonave cisterna norvegese Ida Knudsen (8913 tsl), in navigazione isolata da Port of Spain a Gibilterra con oltre 13.000 tonnellate di benzina. La petroliera avrebbe dovuto incontrare la scorta ad essa assegnata il giorno stesso, nel punto 34°30’ N e 15°oo’ O, ma non l’ha trovata, in quanto essa non è stata inviata per vari problemi (solo due pescherecci armati erano disponibili, e, mancando informazioni aggiornate sulla posizione dell’Ida Knudsen, sono stati mandati ad assistere un’altra nave), ed è pertanto proseguita da sola lungo la rotta prestabilita, sperando di incontrare la scorta più avanti. È a questo punto, durante la sera del 21, che il Torelli la avvista al largo di Capo Blanca, una settantina di miglia a nordest di Madera.
Sulla Ida Knudsen vengono avvertiti rumori di motori sulla sinistra alle 19.50, il che desta speranza che sia una nave scorta in arrivo, ma per sicurezza l’equipaggio norvegese provvede a modificare la rotta in modo da avere il nuovo arrivato (che è il Torelli) a poppa, e viene armato il cannone da 101 mm montato a poppa. Poco dopo il Torelli attacca: un primo siluro va a segno alle 20.10 (ora norvegese), colpendo l’Ida Knudsen sulla sinistra, vicino al locale pompe, e provocando una perdita di carburante. Un secondo siluro passa a proravia della nave cisterna, e un terzo segue rotta parallela ad essa, mancandola. La petroliera si trova nel punto 34°34’ N e 13°14’ O (a ponente di Gibilterra e 153 miglia a nordest di Madera).
L’equipaggio invia un SOS e poi abbandona la nave su quattro lance (una delle quali si allaga e sbalza in mare quattro dei suoi sei occupanti, che annegano, perché messa a mare mentre la nave è ancora in movimento, in quanto i motori continuano a funzionare anche dopo l’ordine di fermarli). Non appena le scialuppe si sono allontanate dalla Ida Knudsen, il Torelli la colpisce con altri due siluri, a poppavia del castello di prua (sul lato dritto) e poco dopo a centro nave, continuando a girare in cerchio attorno alla sua vittima, a tratti immerso, a tratti emerso (e passando così vicino alle lance da permettere al comandante norvegese di identificarlo come italiano, pur sbagliando la classe, che ritiene essere la classe “Tazzoli”).
Alle 21 un ultimo siluro del Torelli colpisce la Ida Knudsen in corrispondenza della sala macchine, facendola affondare. (Altra fonte parla invece del lancio di quattro o sei siluri in tutto da parte del Torelli, due dei quali a segno causando l’affondamento).
Dell’equipaggio della Ida Knudsen, cinque uomini perdono la vita, 14 superstiti su due scialuppe (compreso il comandante) saranno raccolti il 25 luglio dal piropeschereccio portoghese Altair e portati a Las Palmas, mentre altri 17 naufraghi su una lancia raggiungeranno Agadir (Marocco) il 28 luglio e due (sulla scialuppa semiallagata) arriveranno a Tenerife il 9 agosto.
28 luglio 1941
Il Torelli rientra a Bordeaux.

Il Torelli in manovra per entrare nel bacino a livello costante di Bordeaux (g.c. STORIA militare)

7 settembre 1941
Lascia Bordeaux, inviato a ponente dello stretto di Gibilterra, per operare in gruppo con i sommergibili Archimede, Comandante Cappellini, Morosini, Alessandro Malaspina, Maggiore Baracca e Leonardo Da Vinci.
18 settembre 1941
A seguito dell’avvistamento, da parte di un ricognitore tedesco Focke-Wulf FW 200 “Condor”, del grosso convoglio HG. 73 (25 navi mercantili scortate da 5 cacciatorpediniere, uno sloop e 8 corvette), partito il giorno prima da Gibilterra per il Regno Unito, Torelli, Da Vinci, Morosini e Malaspina vengono inviati alla sua ricerca.
20 settembre 1941
In serata avvista a ponente di Gibilterra l’HG. 73 e ne segnala l’avvistamento, salvo perdere poi il contatto.
21 settembre 1941
Ritrova il convoglio e lo attacca alle 22.30: lancia un siluro, stando in superficie, contro un mercantile, ma senza successo, dopo di che i cacciatorpediniere Vimy (capitano di corvetta Henry Graham Dudley De Chair) e Wild Swan passano al contrattacco. Il Torelli s’immerge con la rapida a 100 metri, ma viene bombardato con cariche di profondità; gli attacchi proseguono per gran parte della notte, mentre il convoglio (ma non i cacciatorpediniere impegnati nella caccia antisom) si allontana. Alla fine il sommergibile riesce a sottrarsi alla caccia.
22 settembre 1941
Dato che la situazione sembra essersi calmata, il Torelli riemerge e ripete l’attacco al convoglio, alle 00.30 (di nuovo con il lancio di un singolo siluro, in superficie, contro una nave mercantile), ma di nuovo il Vimy, che non si è allontanato, contrattacca. Il battello italiano deve di nuovo effettuare un’immersione rapida seguita da navigazione silenziosa, ma le bombe di profondità esplodono piuttosto vicine, ed il sommergibile sprofondare sino a 180 metri di profondità, ben oltre la quota di collaudo. Iniziano a verificarsi infiltrazioni d’acqua in più punti, molte tubazioni saltano; il comandante De Giacomo si consulta rapidamente con gli ufficiali e poi ordina di scaricare in mare della nafta, per far credere ai cacciatori di essere affondato, ma l’espediente non funziona. Mentre le bombe di profondità seguitano ad esplodere, i nervi di alcuni membri dell’equipaggio iniziano a cedere: alcuni bestemmiano o piangono, uno prende a gridare come un folle e si dirige verso il deposito delle armi per suicidarsi, ma viene fermato. L’ossigeno inizia a scarseggiare, le batterie dei motori elettrici  si vanno lentamente esaurendo; ogni attività è ridotta al minimo. Il comandante De Giacomo gira di quando in quando tra i locali per risollevare il morale, ma la maggior parte dell’equipaggio è in preda all’apatia.
Dopo alcune ore di apparente tranquillità, infine, De Giacomo ordina di emergere, poi perlustra attentamente la superficie con il periscopio: infine l’annuncio liberatorio: «orizzonte libero!» che scatena l’urrà di tutto l’equipaggio.
Dopo aver vuotato le sentine e riparato le tubazioni colpite, il Torelli deve dirigere per rientrare alla base a causa della serietà dei danni subiti. In tutto è stato oggetto del lancio di una trentina di bombe di profondità.
25 settembre 1941
Arriva a Bordeaux.

Il capitano di corvetta Antonio De Giacomo (da “Il T.V. Antonio De Giacomo comandante del smg. Torelli in Atlantico”)

5-23 dicembre 1941
Il Torelli (sempre al comando di De Giacomo, promosso ora capitano di corvetta) viene inviato, insieme ai più grandi Pietro Calvi, Giuseppe Finzi ed Enrico Tazzoli, a soccorrere i naufraghi della nave corsara tedesca Atlantis (affondata il 22 novembre dall’incrociatore pesante HMS Devonshire) e della rifornitrice tedesca Python (affondata il 1° dicembre dall’incrociatore pesante HMS Dorsetshire dopo aver recuperato i superstiti dell’Atlantis). I quattro grossi sommergibili italiani, richiesti appositamente da Karl Dönitz per l’operazione di soccorso in virtù della loro capienza, partono con equipaggi ridotti (in modo da avere spazio per i naufraghi) e dirigono verso sud alla massima velocità (gli ordini consentono di attaccare solo mercantili isolati all’andata ed in condizioni favorevoli, mentre al ritorno, imbarcati i naufraghi, sarà interdetta ogni azione offensiva), raggiungono al largo delle Isole di Capo Verde i sommergibili tedeschi U-A, U 68, U 124 ed U 129, che hanno recuperato i 414 sopravvissuti, e – tra il 13-14 ed il 17-18 dicembre, con mare forza 4-5 – trasbordano 254 naufraghi, principalmente dell’Atlantis, usando per il trasbordo le piccole zattere di gomma degli U-Boote. Il Torelli, in particolare, il 14 dicembre imbarca 55 superstiti dell’Atlantis trasbordati dall’U-A, e quattro giorni dopo ne prende a bordo altri 34 trasferiti dal Tazzoli; poi, dopo aver superato anche un pesante bombardamento con cariche di profondità da parte di un’unità sottile britannica, raggiunge Saint-Nazaire con i naufraghi il 23 dicembre (per altre fonti il 25 o il 29). A Saint-Nazaire i sommergibili con i naufraghi vengono accolti dal contrammiraglio Eugen Lindau, comandante della Kriegsmarine nella Francia settentrionale; il comandante De Giacomo, al pari degli altri comandanti, verrà decorato con l’Ordine al merito dell’Aquila Tedesca dall’ammiraglio Karl Dönitz. Il Torelli rientra da Saint-Nazaire a Bordeaux il giorno stesso.
Viene poi sottoposto a lavori per aumentare l’autonomia in vista di un suo impiego nelle acque delle Americhe. Per raggiungere quelle acque, ricche di navi mercantili isolate e poco protette  seguito dell’entrata in guerra degli Stati Uniti, dovrà per la prima volta viaggiare per più di 10.000 miglai.
I lavori, diretti capo servizio Genio Navale di Betasom, maggiore del Genio Navale Giulio Fenu, otterranno il risultato voluto ma a discapito della già modesta “comodità” dell’equipaggio: è necessario ricavare spazio per stivare carburante (sul Torelli, per questa missione, 191 tonnellate di nafta), lubrificante, pezzi di ricambio, siluri (la cui riserva è portata, sul Torelli, da dodici a quattordici armi) e proiettili d’artiglieria (sul Torelli ne vengono imbarcati 210) in ogni luogo non strettamente necessario alle operazioni di manovra. Sul Torelli, per stivare le dotazioni di provviste (che sono state raddoppiate per la missione, racimolando tutto quello che si riesce a trovare a Bordeaux: carne congelata, insaccati, frutta e verdura, in modo da avere scorte per 7° giorni), si rende necessario persino eliminare le cuccette.

Il Torelli giunge a Saint Nazaire con i naufraghi dell’Atlantis; sulla sinistra l’ammiraglio tedesco Lindau (da www.ahoy.tk-jk.net

1° (o 2) febbraio 1942
Lascia Pauillac diretto in Martinica (a levante delle Antille), per la sua prima missione al largo delle coste americane, nuovo e fruttuoso “territorio di caccia” per i sommergibili dell’Asse dopo l’entrata in guerra degli Stati Uniti. È in corso l’operazione «Neuland», l’attacco combinato dei sommergibili italo-tedeschi contro il naviglio mercantile Alleato nei Caraibi, che produrrà notevoli risultati per tutti i sommergibili impiegati. Il Torelli è appunto tra i battelli prescelti per «Neuland», in gruppo con Da Vinci, Finzi, Tazzoli e Morosini (gruppo «Da Vinci»).
La navigazione avviene, fino a dopo le Azzorre (cioè finché ci si trova nel raggio d’azione dei ricognitori e delle navi britanniche in pattugliamento), con entrambi i motori (a 12 nodi), poi con un solo motore (a 6 nodi).
Per il Torelli gli ordini (ordine d’operazione n. 90) sono di «operare contro il traffico nemico lungo le rotte e nelle zone stabilite» e «raccogliere tutti gli elementi possibili sul traffico nemico e neutrale»; è consentito spostarsi verso nordovest rispetto alla zona d’agguato assegnata, restando nei limiti dell’autonomia. Qualora durante il ritorno vi dovesse essere scarsità di nafta, è prevista la possibilità di rifornirsi segretamente dalla nave cisterna Fulgor, internata nel porto spagnolo di Cadice e attrezzata da lungo tempo come nave appoggio.
Sul Torelli, destinato a raggiungere le acque più calde (al largo della Guyana), si è imbarcato per l’occasione il capitano medico Roberto Lo Schiavo, che al rientro presenterà una dettagliata relazione sulla missione, con varie proposte per migliorare quanto più possibile le condizioni di vita a bordo durante tali missioni.

A bordo del Torelli, nel febbraio 1942 (da “Operazione Westindien” di Francesco Mattesini, via www.academia.edu)

12 febbraio 1942
Durante la navigazione di avvicinamento alla zona d’agguato, il comandante De Giacomo riceve da Bordeaux una lieta notizia: «Per Comandante De Giacomo: nato maschietto tutto bene. Rallegramenti». È il suo secondo figlio; festeggia assieme a tutto l’equipaggio.
19 febbraio 1942
Poco dopo le nove del mattino il Torelli, mentre sta attraversando il Mar dei Sargassi diretto alla zona assegnata (dov’è quasi arrivato), incontra il piroscafo britannico Scottish Star, di 7224 tsl. La nave, partita da Liverpool il 2 febbraio (provenendo da Londra) e facente parte del disperso convoglio ONS. 63, è diretta a Montevideo e Buenos Aires con un carico di 2000 tonnellate di merci varie, ed il suo comandante le ha fatto seguire una rotta più ad est di quella usuale nella speranza di restare al di fuori del “terreno di caccia” dei battelli dell’Asse: invece incontra il Torelli, il quale si pone al suo inseguimento, che si protrae per tutto il giorno.
Alle 21.05 il Torelli colpisce lo Scottish Star con uno o due siluri (nella stiva numero 3, sul lato di dritta), che uccidono i quattro uomini di guardia in sala macchine e provocano il rapido allagamento della stiva 3, della sala macchine e della stiva carbonaia, facendolo abbassare rapidamente sull’acqua. Alle 21.30 l’equipaggio abbandona la nave su quattro lance. Dopo che l’equipaggio si è messo in salvo, il sommergibile apre il fuoco anche col cannone (cinque salve) contro il piroscafo, che affonda alle 00.27 del 20 febbraio in posizione 13°24’ N e 49°36’ O (770 miglia ad est della Martinica, 700 miglia ad est-nord-est di Trinidad e 667 miglia a levante di Barbados), senza che il comando di Trinidad, che ha ricevuto il suo segnale SSS, possa fare alcunché. Del suo equipaggio, vi sono 4 vittime su 73 uomini; tre delle quattro scialuppe, cariche in tutto di 51 naufraghi (tra cui il comandante, capitano Edgar Norton Rhodes), verranno soccorse dall’incrociatore leggero britannico Diomede (che sbarcherà i superstiti a Port of Spain), mentre la quarta (con il primo ufficiale e 16 membri dell’equipaggio) raggiungerà Barbados il 27 febbraio.
L’affondamento dello Scottish Star è il primo successo colto da un sommergibile italiano nelle acque delle Americhe.

Il Torelli durante una missione atlantica nel 1942 (g.c. STORIA militare)

22 febbraio 1942
Riceve ordine da Betasom di spostarsi al largo di Capo Orange, in Brasile, dove U-Boote tedeschi hanno segnalato esservi un intenso traffico navale. La radio funziona in modo irregolare, rendendo difficili i contatti con Bordeaux.
24 febbraio 1942
Navigando in superficie, giunge ad est di Trinidad e vi incontra il giorno stesso due piroscafi, che non riesce ad attaccare perché troppo veloci, nonché per via di piovaschi che riducono di molto la visibilità. Lo stesso accade più tardi, quando avvista una nave cisterna.
25 (o 26) febbraio 1942
Attacca nel mar dei Caraibi, alle 00.43, la moderna motonave cisterna panamese (in servizio per gli Stati Uniti) Esso Copenhagen, di 9245 tsl, in navigazione da Aruba a Buenos Aires con un carico di 15.000 tonnellate di olio combustibile.
Il Torelli dapprima lancia due siluri, che non vanno a segno per un errore nell’apprezzamento della velocità della petroliera, poi ne lancia un terzo da 1500 metri di distanza, ma l’arma segue una rotta irregolare e passa a proravia dell’Esso Copenhagen, mancandola. Il quarto siluro va invece a segno, immobilizzando e incendiando la nave cisterna, mentre il quinto e ultimo non colpisce a causa della rotta a zig zag seguita dalla Esso Copenhagen.
Il Torelli apre poi fuoco intimidatorio con cannone e mitragliere, per obbligare l’equipaggio ad abbandonare la nave; cessa il tiro quando gli uomini della petroliera ammainano le lance, per dar loro il tempo di porsi in salvo. Una delle scialuppe si capovolge, facendo finire in mare i suoi sette occupanti, che si reggono a galla a stento nel denso strato di nafta che copre il mare; sentendoli chiedere aiuto, il comandante De Giacomo porta il Torelli verso una lancia vuota che galleggia ad un centinaio di metri dai naufraghi, vi manda a bordo alcuni suoi uomini per distruggere la radio (a scopo precauzionale) e poi rimorchia l’imbarcazione verso gli uomini in acqua, che possono così arrampicarvisi a bordo.
Il Torelli riprende poi il tiro col cannone contro l’ormai deserta Esso Copenhagen: divorata dalle fiamme, la petroliera affonderà di prua il mattino seguente, nel punto 10°32’  N e 53°20’ O (480 o 525 miglia a levante di Trinidad).
38 dei 39 uomini del suo equipaggio verranno tratti in salvo.



Quattro immagini, scattate da bordo del Torelli, dell’attacco all’Esso Copenhagen (sopra: g.c. STORIA militare; sotto: da Francesco Mattesini, “Operazione Westindien”, su www.academia.edu)



9 marzo 1942
Avvista un piroscafo postale francese.
10 marzo 1942
Lascia l’area d’agguato per tornare alla base.
13 marzo 1942
Poco prima del tramonto, il Torelli incontra la motonave armata britannica Orari, da 10.350 tsl, in posizione 13° N e 57° O (o 13°20’ N e 56°40’ O; a nordest di Trinidad), ma la superiore velocità di quest’ultima (che procede a zig zag a 14-16 nodi) non gli permette di portarsi in una posizione adatta ad attaccare.
Restando in superficie, il Torelli lancia egualmente un siluro contro l’Orari, alle 00.56 del 14, e ritiene di averla colpita, ma in realtà la scia dell’arma viene avvistata dalle vedette britanniche, e la motonave riesce ad evitarla con pronta manovra.
19 marzo 1942
Avvista un piroscafo spagnolo.
26 marzo 1942
Mentre il Torelli naviga a nordest delle Azzorre, gli uomini in torretta avvistano il periscopio di un sommergibile sconosciuto e, prudenzialmente (non essendo possibile accertare se sia amico o nemico), il comandante De Giacomo ordina di disimpegnarsi rapidamente con la manovra.
31 marzo 1942
Arriva a Bordeaux insieme a Giuseppe Finzi ed Enrico Tazzoli, anch’essi di ritorno da «Neuland» dopo aver affondato rispettivamente tre e sei mercantili. L’arrivo dei tre battelli, sui cui periscopi sventolano orgogliosamente undici bandierine (una per ogni nave affondata) è accolto trionfalmente dal personale di Betasom, dal comandante della Base Atlantica contrammiraglio Romolo Polacchini, dal console italiano a Bordeaux, da rappresentanze delle scuole italiane e delle organizzazioni fasciste in uniforme, da cineoperatori dell’Istituto Luce (appositamente inviati da Marina Roma per filmare il rientro), da giovani italiani che offrono mazzi di fiori ai comandanti, dall’ammiraglio tedesco Menche, dal generale tedesco Von Roteberg, da rappresentanze della Wehrmacht e delle organizzazioni del lavoro tedesche e da donne tedesche che offrono ai marinai mazzi di fiori legati con nastri dai colori italiani e tedeschi.
Causa un funzionamento irregolare delle batterie, la nafta nei serbatoi è stata consumata fino all’ultima goccia.
In 69 giorni, il Torelli ha percorso 12.180 miglia, affondando 16.469 tsl di naviglio.
Durante gli usuali lavori di manutenzione, il comandante De Giacomo viene sostituito dal tenente di vascello Augusto Migliorini.

Il comandante De Giacomo, al centro, viene complimentato dal contrammiraglio Polacchini (a destra) e dal suo capo di Stato Maggiore, capitano di fregata Giuseppe Caridi (a sinistra), al rientro dalla fruttuosa missione al largo dei Caraibi (da “Operazione Westindien” di Francesco Mattesini, su www.academia.edu)

Leigh Light

La fortuna del Torelli, uno dei battelli di maggior successo di Betasom, si esaurì nel marzo 1942.
Dopo gli usuali lavori, infatti, nel pomeriggio del 2 giugno 1942 il sommergibile lasciò La Pallice per una nuova missione in acque americane, e precisamente 330 miglia a nordest di San Salvador (Bahamas).
Il Torelli prese il mare insieme ad un altro sommergibile diretto in acque americane, il Morosini; entrambi erano sovraccarichi di carburante, per la lunga missione che li attendeva, ed in ritardo di un giorno, a causa del tempo avverso. Dopo poche miglia i due battelli si separarono, ognuno diretto alla propria destinazione.
Alle 3 di notte del 3 giugno, il Torelli virò per assumere rotta 264°, dirigendo per la sua zona d’operazioni.
La sua navigazione (effettuata in immersione di giorno, coi motori elettrici, per evitare attacchi aerei, ed in superficie di notte), tuttavia, durò soltanto due giorni: il 4 giugno 1942, infatti, il Torelli acquisì un involontario primato nella storia della battaglia dell’Atlantico, quello di essere stato il primo sommergibile dell’Asse a venire attaccato con la «Leigh Light».
Era questo un potente proiettore di cui diversi aerei antisommergibile Alleati erano stati dotati in quel periodo, per migliorarne le potenzialità negli attacchi notturni. I velivoli erano infatti provvisti di radar, che permetteva di individuare i sommergibili di notte (l’ASV2 aveva un raggio di sette miglia), ma non certo di “vederli” bene; e problema principale dei radar per aerei era il fatto che, nell’ultimo minuto (mentre si percorreva l’ultimo miglio) dell’avvicinamento al bersaglio da attaccare, le caratteristiche del radar ed il “riflesso” del radar “offuscavano” il segnale, facendo perdere il bersaglio proprio quando si stava per attaccare. Ruolo della «Leigh Light» era appunto di illuminare i sommergibili precedentemente localizzati con il radar, in modo da permettere attacchi più precisi, con grappoli di bombe, contro un bersaglio ben visibile.

Il tenente di vascello Augusto Migliorini (g.c. Giovanni Pinna)

Nella notte tra il 3 ed il 4 giugno, quattro bombardieri Vickers Wellington Mark III del 172nd Squadron della Royal Air Force, dotati per la prima volta del nuovo apparato (oltre che di radar ASV2), erano decollati da Chivenor (Devon settentrionale) per andare a caccia di sommergibili nel Golfo di Biscaglia. Uno di essi, l’ES986 battezzato «F for Freddie» e pilotato dal maggiore (Squadron Leader) Jeaff H. Greswell, comandante del 172nd Squadron, trovò il Torelli, intento a navigare in superficie una settantina di miglia a nord di Gijón (Spagna) e precisamente nel punto 44°43’ N e 06°46’ O (44°33’ N e 06°46’ O per fonti italiane).
Il sommergibile stava procedendo in superficie a 9 nodi di velocità, con rotta 267°, nella notte oscura, priva di luna ma caratterizzata da forte fosforescenza del mare, che faceva risaltare la scia (anche se questo, contrariamente a quanto poi ritenuto dal comandante del Torelli, non ebbe alcuna parte nella sua localizzazione).
Greswell localizzò dapprima il sommergibile con il radar, a 5-6 miglia di distanza, quindi si avvicinò e ad un miglio di distanza accese il proiettore, ma – dato che un mutamento della pressione atmosferica (avvenuto dopo il decollo) aveva alterato la regolazione dell’altimetro (che era stato regolato in base alle previsioni meteorologiche), che segnava una quota 30 metri più bassa di quella effettiva – si avvicinò volando a quota troppo alta per poter avvistare il battello italiano, che fu visto dall’aereo troppo tardi, quando lo stava già sorvolando. Il proiettore aveva illuminato il mare più lontano, al di là del battello italiano.
Sul Torelli, alle 2.27 (ora italiana, per altre fonti 2.17; 1.27 per l’orario britannico) del 4 giugno gli uomini di guardia in torretta sentirono il rumore di un aereo che si avvicinava volando a bassa quota, poi videro il proiettore del Wellington – che li stava sorvolando – accendersi a circa un chilometro di prora e illuminare il mare poco distante, mancando di poco il sommergibile. Quest’ultimo vide l’aereo volare sopra di sé, indi spegnere il proiettore e sparire nuovamente nel buio.
Quanto accadde successivamente presenta alcune discrepanze a seconda della versione.
In entrambi i casi, il comandante Migliorini, data la zona del Golfo di Biscaglia in cui si trovava (l’estremo angolo sudoccidentale) ed il fatto che l’aereo li aveva sorvolati a bassa quota senza attaccare, ritenne che il velivolo potesse essere aereo della Luftwaffe in pattugliamento, ma per sicurezza ordinò comunque alle vedette in plancia di scendere sottocoperta, per essere pronti ad un’immersione d’emergenza; fece anche abbassare la velocità, così riducendo la sua scia fosforescente (non sapendo del radar, attribuiva il suo avvistamento alla fosforescenza della scia), e fece armare le mitragliere della torretta.
Tutti i resoconti di parte britannica dell’azione, tuttavia, affermano anche che Migliorini, proprio perché riteneva il nuovo arrivato un aereo tedesco, fece sparare dei razzi di riconoscimento rossi, Bianchi e verdi, il cui lancio permise a Greswell (dopo un iniziale dubbio se in effetti il sommergibile non fosse amico, subito dissipato dal ricordo che i sommergibili britannici non usavano i razzi come mezzo di riconoscimento) d’individuare con precisione il suo bersaglio. Da parte italiana non si fa alcuna menzione di questo episodio, che non è quindi chiaro se sia effettivamente accaduto; anzi risulta che Migliorini, dopo qualche minuto, ordinò prudenzialmente d’immergersi – pur ritenendo difficile che l’aereo potesse essere tanto “fortunato” da poterlo avvistare di nuovo – ed il nuovo attacco avvenne proprio mentre gli uomini in torretta stavano scendendo sottocoperta.
In ogni caso Greswell, dopo aver fatto ri-tarare l’altimetro al suo copilota (sottotenente Allan W. R. Triggs), tornò all’attacco, stavolta volando a circa 76 metri di quota, indi accese nuovamente la «Leigh Light» da una distanza di tre quarti di miglio. A bordo del sommergibile, si sentì l’aereo sconosciuto virare  e tornare verso il battello, scendendo di quota; attaccò provenendo dal traverso a dritta. Questa volta, il Torelli fu investito in pieno dal fascio di luce del proiettore: seguirono quattro bombe di profondità Mk 8 sganciate da soli 15 metri d’altezza, regolate per scoppiare a profondità minima e distanziate tra loro di dieci metri, ciascuna contenente 136 kg di esplosivo Torpex (un esplosivo almeno del 30 % più potente dell’amatolo usato in precedenza per tali armi). Migliorini diede l’ordine d’immersione, ma era già troppo tardi.
La piccola fortuna del sommergibile italiano fu che gli ordigni, per via delle spolette difettose, non esplosero alla profondità impostata (erano regolati per detonare a 7,6 metri di profondità), bensì a profondità maggiore, causando al suo scafo danni tremendi, ma non fatali. Uno dei quattro, difettoso, non detonò; degli altri tre, uno scoppiò circa 4,5 metri a poppa dritta del sommergibile, e due sulla sua sinistra.
Le altre tre bombe scoppiarono mentre il personale di guardia in torretta si precipitava sottocoperta: lo scossone delle esplosioni, però, fece sbloccare il gancio che teneva aperto il portello della torretta, che si chiuse e si bloccò, chiudendo fuori il nostromo, ultimo a scendere. Questi rimase inerme a guardare mentre il Wellington, ormai privo di bombe, effettuava altri due passaggi mitragliando la torretta, per poi allontanarsi. Rimase illeso.
Il comandante Migliorini, penultimo a scendere sottocoperta, annullò all’ultimo momento l’ordine d’immersione mentre stava scendendo in torretta, dato che ormai il danno era già fatto (e probabilmente il Torelli, se si fosse immerso in quelle condizioni, non sarebbe mai più riemerso).
Sottocoperta, i motori diesel ancora in funzione risucchiarono tutta l’aria presente nei locali, creando una forte depressione (che impedì la propagazione di qualsiasi suono) e quasi soffocando l’equipaggio, e poi si bloccarono per mancanza d’aria.
La situazione, dopo l’attacco, appariva disperata: il Torelli era appruato, immobilizzato e privo di luce e corrente elettrica; nel compartimento batterie prodiero era anche scoppiato un violento incendio, che obbligò l’equipaggio ad allagare subito il deposito munizioni (non prima di aver prelevato alcuni proiettili per un eventuale impiego del cannone). Fumo e gas di cloro fuoriuscivano dalle batterie.
Le squadre di controllo si misero subito all’opera: per ripristinare l’assetto ed alleggerire la prua, il carburante in eccesso che era stato stivato nei doppi fondi venne espulso (finendo in mare) e sostituito con aria compressa pompata al suo posto. Per isolare l’incendio e la nube di gas di cloro del locale batterie furono chiusi tutti i portelli stagni tra i compartimenti prodieri, isolando tali locali (compreso quello radio); il sommergibile si ritrovò però senza bussola di rotta, e con i comandi del timone fuori uso.

La disastrosa situazione generale indusse il comandante Migliorini a dirigere verso Saint-Jean-de-Luz, piccolo porto francese vicino al confine spagnolo, pena altrimenti la perdita dell’unità.
Durante questa navigazione furono visti di nuovi proiettori accendersi nella notte, ma la presenza di banchi di nebbia offrì riparo da nuovi avvistamenti.
Dato però che tutti gli strumenti di navigazione erano rimasti danneggiati nell’attacco, l’equipaggio doveva governare manualmente, seguendo una rotta approssimativamente verso sud ed orientandosi con le stelle. Progressivamente fu possibile estinguere l’incendio, organizzare la distribuzione dell’energia elettrica direttamente dai motori diesel (essendo le batterie inutilizzabili), riparare il timone e, alla meglio, anche la girobussola, che era però alimentata a tensione scostante. Nulla da fare per la bussola magnetica, scardinata e priva di magneti compensatori.
Giunto a sei miglia dalla costa, il Torelli accostò verso est per rientrare alla base, ma per i motivi sopracitati (più il malfunzionamento della girobussola, del quale non si ebbe sentore, e la mancanza di carte nautiche dettagliate della zona) finì su una rotta errata, che, congiuntamente ad un fitto banco di nebbia (che lo proteggeva da ulteriori attacchi aerei, ma al contempo impediva di vedere i punti di riferimento sulla costa) nel quale era finito presso Capo Penas, lo portò ad incagliarsi su una scogliera antistante il promontorio di Capo Penas, sulla costa spagnola.
L’incaglio avvenne con l’alta marea; la risacca aggravò i danni allo scafo.
L’arrivo di un peschereccio spagnolo sbloccò la situazione: dopo un breve colloquio, due ufficiali italiani vi salirono per recarsi a terra a chiedere aiuto, ed in breve giunsero un rimorchiatore ed un motoveliero che, aiutati dall’alta marea, disincagliarono il Torelli.
Il malridottissimo sommergibile poté essere rimorchiato nel porto spagnolo di Aviles, dove i controlli rivelarono una situazione disastrosa; gli strumenti per la navigazione erano tutti fuori uso e lo scafo presentava una serie di falle. Difficile riprendere il mare, fuori discussione la possibilità d’immergersi. Per maggior sicurezza, date le sue precarie condizioni, dovette essere portato in secco su un banco di sabbia, non lontano da una fermata del tram. L’equipaggio fu alloggiato provvisoriamente su di un piroscafo.
Nel frattempo, la notizia dell’attacco aveva raggiunto anche i comandi tedeschi: a destare preoccupazione non fu la «Leigh Light» in sé, quanto la scoperta che i britannici avevano saputo realizzare dei radar adatti ad essere montati su aerei. Il comandante della flotta subacquea tedesca, grande ammiraglio Karl Dönitz, richiese subito che venisse sviluppato un apparato per la rilevazione delle onde emesse dai radar, da installare sui sommergibili. Lo strumento, denominato «Metox», fu messo a punto in breve tempo.

Il Torelli, visibilmente sbandato, ad Aviles (da www.regiamarina.net

Ad Aviles, i danni più gravi furono rattoppati alla meglio: i danni allo scafo furono provvisoriamente tamponati con del cemento a presa rapida; nei compartimenti prodieri (mantenuti isolati dai portelli chiusi), per ripristinarne la galleggiabilità, fu necessario pompare dell’aria compressa mediante dei compressori. Fu chiesto alle autorità spagnole il permesso per poter restare ad Aviles per qualche giorno, onde ultimare le riparazioni più necessarie, ma il 6 giugno il locale comando della Marina spagnola comunicò che per disposizioni di Madrid, in base alle regole sulla neutralità, il sommergibile avrebbe dovuto lasciare il porto entro la mezzanotte, altrimenti sarebbe stato internato.
Dopo alcune riparazioni provvisorie (non comunque tali da permettere di tornare ad immergersi), il 6 giugno il Torelli dovette lasciare Aviles per raggiungere Bordeaux. La partenza avvenne alle 23.30: essendo costretto a restare in superficie, l’equipaggio sperava di riuscire ad effettuare la traversata di notte, dove comunque il rischio aereo era più contenuto. Ma la velocità ottenibile in quelle condizioni era troppo bassa, e ormai i britannici sapevano che il sommergibile, danneggiato, avrebbe presto dovuto lasciare Aviles: durante il suo breve soggiorno in quel porto, aerei britannici lo avevano sorvolato in più occasioni.
Dato che alcuni locali erano chiusi ed isolati, metà dell’equipaggio dovette rimanere in coperta  – con indosso i giubbotti salvagente, per ogni evenienza – durante la navigazione, che fu effettuata ancora orientandosi senza bussola.
L’indomani, pertanto, il Torelli venne nuovamente attaccato da aerei: due idrovolanti antisommergibile Short Sunderland Mark II del 10th Squadron della Royal Australian Air Force (di base a Mountbatten nel Devonshire), il W3994/X pilotato dal sottotenente (pilot officer) Thomas A. Egerton ed il W4019/A pilotato dal capitano (flight lieutenant) Edwin St. Clare Yeoman.
Il primo ad avvistare il Torelli, da una distanza di cinque miglia, fu il Sunderland del sottotenente Egerton, che stava volando a 460 metri di quota: provenendo dalla direzione del sole, l’aereo aprì il fuoco con le mitragliatrici in ripetuti attacchi a bassa quota, ed il sommergibile rispose a sua volta col tiro delle proprie mitragliere quando la distanza fu calata a 915 metri. Si cercò di usare anche il cannone di coperta in funzione contraerea, ma l’alzo non era sufficiente (e per giunta i proiettili erano muniti di spolette antinave, non antiaeree); alcuni uomini giunsero persino ad appostarsi in torretta armati di mitra e fucili: qualsiasi cosa potesse respingere gli aerei. Qualcuno, scherzando, disse al comandante che avrebbero potuto abbattere l’aereo alzando il periscopio quando li sorvolava.
Tra i serventi delle mitragliere era anche il direttore di macchina, capitano del Genio Navale Rinaldo Rinaldi, salito in coperta per partecipare all’azione, e che riuscì a centrare il suo bersaglio (Rinaldi fu decorato con la Medaglia d’Argento al Valor Militare, con motivazione: «Capo Servizio G.N. di sommergibile in missione di guerra in Atlantico, gravemente danneggiato nel corso di un duro combattimento con aerei nemici, dimostrava in ogni circostanza elevata perizia professionale nell’apprezzare tecnicamente la situazione e nell’adottare con tempestività e competenza i provvedimenti intesi a ristabilire la completa efficienza dell’unità. Sottoposto il sommergibile a nuovi, reiterati attacchi aerei, concorreva con coraggio ed ardimento alla vivace reazione, infliggendo con l’intenso fuoco della mitragliera gravi danni agli apparecchi attaccanti. Noncurante del pericolo ed animato da indomito spirito combattivo, proseguiva tenacemente a far fuoco contro gli aerei finché la sua arma non gli veniva inutilizzata dal tiro nemico»).
L’aereo, avvicinatosi a bassa quota, fu colpito, con il ferimento di due membri del proprio equipaggio, ma riuscì a sganciare un grappolo di sette (oppure otto) bombe di profondità – che sollevò dal mare la poppa del Torelli, ma non provocò danni gravi – e a richiamare sul posto il Sunderland di Yeoman. Le bombe di Egerton mancarono di poco il Torelli, che proprio in quel momento aveva subito un’avaria al timone (così agevolando l’attacco), ferendo tutti i serventi del cannone, che ciononostante continuò a sparare, al pari delle mitragliere. Nonostante i danni, il sommergibile continuò a procedere e fare fuoco, mentre il Sunderland, pure danneggiato, continuò il mitragliamento per poi allontanarsi.
L’aereo di Yeoman rilevò un contatto alle 3.58 della notte, a tre miglia al traverso a sinistra, girò in cerchio, si avvicinò ed avvistò il sommergibile italiano, che procedeva in superficie a 12 nodi.
Di nuovo il Torelli aprì il fuoco, colpendo la deriva di coda del nuovo arrivato (e danneggiando il suo timone); ma quest’ultimo sganciò a sua volta – da 30 metri di altezza, con un’angolazione di 30° – un pacchetto di otto bombe di profondità da 113 kg, due delle quali esplosero sotto il sommergibile, sollevandolo dal mare (sull’aereo sembrò persino che la scossa avesse fatto fuoriuscire un siluro dai tubi poppieri) ed inondandolo fino in torretta. Il sommergibile fece ancora in tempo a vendicarsi: mentre l’aereo di Yeoman si allontanava, le mitragliere del Torelli lo colpirono ancora, colpendone il motore esterno di dritta e perforandone il galleggiante destro. Oltre alle bombe, il Sunderland di Yeoman aveva sparato circa 1075 proiettili con le proprie mitragliatrici; avendo iniziato a vibrare per i danni subiti, dovette dirigere per rientrare alla base.

A bordo del Torelli, il nuovo attacco ferì il comandante ed un ufficiale; il tiro delle mitragliere dei Sunderland uccise il sergente Fiovo Pallucchini e ferì cinque uomini. Sui due Sunderland, entrambi seriamente danneggiati dal tiro del sommergibile, vi furono tre feriti.
I nuovi danni rendevano impossibile proseguire nel viaggio: il battello era immobilizzato, il timone era inceppato, la galleggiabilità in diminuzione, tanto da costringere a gettare fuori bordo il cannone di coperta – che d’altra parte era divenuto inutilizzabile, essendo stato “scavalcato”, al pari delle mitragliere: una era scomparsa in mare, l’altra era spezzata – per alleggerire l’unità. Il sommergibile aveva vie d’acqua a poppa, con conseguente appoppamento (fu necessaria l’intercettazione dei locali poppieri, che si stavano allagando), ed era pericolosamente sbandato sulla sinistra; una decina di uomini era stata gettata in mare dagli scoppi, o vi si era gettata ritenendo l’affondamento imminente. Il compressore era fuori uso, quindi non si poteva più neanche pompare aria nei locali danneggiati, come fatto in precedenza.
Come nel primo caso, l’attacco non era stato fatale perché le bombe di profondità erano affondate troppo velocemente e portando con sé una bolla d’aria, che ritardava l’attivazione della spoletta (per risolvere tale problema, i britannici avrebbero in seguito applicato dei coni su entrambe le estremità della bomba, così che colpisse la superficie “di lato” anziché “di punta”, affondando più lentamente e scoppiando alla profondità desiderata).
In un quarto d’ora, i motoristi furono in grado di rimettere in moto i motori, che funzionavano quasi senza olio. Dopo una provvisoria riparazione del timone (che era incastrato alla banda), il Torelli – dovendo comunque perlopiù governare coi motori – provvide a recuperare gli uomini finiti in mare che riuscì a rintracciare, mentre gli altri vennero tratti in salvo da alcune imbarcazioni spagnole.
Tra questi ultimi c’era il motorista navale Giovanni Volpato: era uno degli uomini che erano dovuti restare in coperta e, al momento dell’attacco, era girato intorno alla torretta con dei compagni per ripararsi dal mitragliamento, ma era stato improvvisamente gettato in mare, senza neanche poter capire da cosa. Riemerse a fatica, in mezzo agli altri compagni finiti in mare, che annaspavano per restare a galla; poco lontano si vedeva il Torelli, fortemente sbandato ed in apparente procinto di affondare. Volpato vide due uomini in torretta scendere ed iniziare a buttare in mare di tutto per recuperare gli uomini in mare, mentre per parte sua, insieme ad altri sei o sette compagni illesi ed in buono stato fisico, tentò di raggiungere la costa a nuoto, mentre la corrente tendeva a spingerli verso il largo. Vedendo che il Torelli – sempre più sbandato – recuperava via via gli uomini in mare, si fermarono anche loro per non sprecare forze, aspettando che raggiungesse anche loro, ma non li vide e passò oltre, dirigendosi verso la costa. Un altro naufrago, Cascone, continuava a gridare aiuto, ma Volpato gli disse infine di non sprecare fiato, essendo ormai inutile. Passarono quelle che parvero delle ore, senza che si vedesse cenno di qualche soccorso in arrivo; Volpato rivolse le sue preghiere alla Madonna ed a Sant’Antonio da Padova, disse anche che se avesse avuto dei figli avrebbe detto loro di fare i bravi “sennò li avrei mandati in marina!”. Gli parve di vedere delle barche, poi perse i sensi; si svegliò su una barca di pescatori, che lo aveva tratto in salvo insieme ai suoi compagni. Furono poi condotti a terra ed ospitati brevemente nella modesta abitazione dei pescatori – pavimento di terra, vecchi mobili –, che offrirono loro latte e coperte, prima di essere trasferiti in ambulanza all’Albergo Concession di Standander (dove Volpato sarebbe stato poi colto dalla febbre, che non lo avrebbe più lasciato per mesi).
Per non affondare, il Torelli dovette cercare di nuovo rifugio in acque spagnole, nel porto di Santander, distante a poche miglia, dove giunse a mezzogiorno e si adagiò su un bassofondo sabbioso. Nonostante le sue condizioni disastrose, entrò in porto con la bandiera di combattimento a riva e l’equipaggio schierato in coperta. Migliorini, lievemente ferito, protestò presso il comandante del porto, per non aver inviato alcun mezzo in soccorso del sommergibile in difficoltà.


Il Torelli arenato su un bassofondale della rada di Santander visto da un aereo, e, sotto, fortemente sbandato e fotografato da una delle unità spagnole inviate in soccorso (g.c. STORIA militare)


Nove feriti (otto dei quali in modo grave) furono trasferiti nell’ospedale militare della città (furono progressivamente dimessi nel corso del mese successivo e tornarono tutti a bordo del Torelli), mentre gli altri 51 uomini, vestiti in abiti civili, furono alloggiati negli alberghi di Santander. Quindici-venti uomini non più necessari, soprattutto cuochi e siluristi, furono poi rimandati a Bordeaux via terra.
Subito, l’8 giugno, l’equipaggio si mise al lavoro per riparare gli estesi danni subiti e rimettere il battello in condizione di navigare. Il 9 giugno, approfittando dell’alta marea, il Torelli fu risollevato dal fondale chiudendo tutti i portelli e pompando aria compressa all’interno, dopo di che poté essere immesso in bacino di carenaggio. Apparve subito che non avrebbe potuto riprendere il mare se non dopo prolungate riparazioni.
Per meglio rendersi conto della situazione si recò personalmente a Santander una commissione composta dal maggiore del Genio Navale Fenu, capo servizio Genio Navale di Betasom, dal capitano di fregata Giuseppe Caridi, capo di Stato Maggiore di Betasom, e da un capitano commissario, insieme con alcuni operai della base atlantica ed i pezzi di ricambio più indispensabili.
I danni più gravi riguardavano le quattro batterie accumulatori, completamente distrutte; il Torelli avrebbe poi finito, data la difficoltà nel procurarsene delle altre, con l’avere solo quattro sottobatterie, tutte di tipo e capacità diverse. Le falle nello scafo (e gli sfoghi d’aria dei doppi fondi) furono chiuse con lastre di metallo (flange) saldate provvisoriamente.
Essendo le batterie completamente inutilizzabili, i motori diesel vennero collegati direttamente ai generatori elettrici; venne allestita anche una nuova stazione radio di fortuna, essendo quella precedente andata distrutta. Niente da fare per l’armamento e le munizioni.

I gravissimi danni riportati dal Torelli, visibili dopo la sua immissione in bacino a Santander, l’8 giugno 1942 (g.c. STORIA militare)

Tale lavoro richiese quasi un mese: solo il 4 luglio il Torelli fu nuovamente in grado di prendere il mare, ma nel frattempo aveva largamente superato il tempo massimo che le convenzioni internazionali consentivano, a nave da guerra di una nazione belligerante, di passare in un porto neutrale prima di essere internato: si parlò anche di un suo trasferimento alla Marina spagnola.
Le autorità di Santander, pur mostrandosi benevole e pronte a dare ogni aiuto necessario (al pari della popolazione locale, che trattò cordialmente l’equipaggio italiano), richiesero che venissero smontati alcuni organi – a partire dalle eliche – per assicurarsi che il sommergibile non potesse lasciare il porto senza autorizzazione di Madrid, ma Migliorini rifiutò e temporeggiò, spiegando che comunque non aveva più carburante, dunque non poteva andare da nessuna parte (in realtà, una dozzina di tonnellate di nafta erano state travasate, di nascosto, in uno dei serbatoi dell’acqua), il che acquietò il locale Comando della Marina spagnola. Ad ogni modo, la richiesta, da parte di Migliorini, di un rifornimento d’acqua incontrò un netto rifiuto.
Nel frattempo il Torelli era divenuto bersaglio di un duello diplomatico: le autorità britanniche avevano cominciato ad accusare (abbastanza a ragione) quelle spagnole di essere troppo “benevole” nel trattamento delle unità italo-tedesche, facendo pressione affinché il Torelli fosse internato; le autorità italiane, da parte loro, rilevavano (pure a ragione) che il secondo attacco ai danni del Torelli era avvenuto in acque territoriali spagnole, quindi in violazione delle regole sulla neutralità, e premettero perché gli fosse concesso di ripartire. La questione giunse a coinvolgere i rispettivi Ministeri degli Esteri e persino il dittatore spagnolo, Francisco Franco.
Il comandante Migliorini era totalmente all’oscuro di queste schermaglie diplomatiche; non sapeva altro all’infuori del fatto che il Comando dell’Armada Española di Santander gli vietava a partenza. Passarono dieci giorni senza che il Torelli, pronto a lasciare il bacino di carenaggio, si muovesse: una sequela di ordini, contrordini e rinvii.
Nel frattempo partì da Betasom una nuova “missione di soccorso” per organizzare la fuga del sommergibile: la componevano l’aiutante di bandiera del contrammiraglio Polacchini, capitano di corvetta Anfossi, e l’autista dell’ammiraglio, marinaio Andrea Fucci. Anfossi si recò a San Sebastian, vicino al confine, il 12 luglio, ed il giorno seguente Fucci lasciò Betasom in abiti civili, alla guida di un’autovettura Ford targata RM 43. I due s’incontrarono a Biarritz ed attraversarono il confine con la Spagna ad Irun in maniera piuttosto rocambolesca: Fucci non aveva il passaporto e dovette attraversare il confine nascosto nel bagagliaio, ed Anfossi distrasse i militari tedeschi e spagnoli con uno scambio di battute, evitando controlli.
Una volta in Spagna s’incontrarono anche con il console italiano; la sera seguente, a causa di un equivoco con la polizia spagnola circa alcuni documenti relativi al garage dove l’automobile era stata parcheggiata, Anfossi, il console ed una nobildonna con cui avevano cenato furono portati dalla polizia spagnola nella locale “comandancia”, mentre Fucci fu lasciato andare perché creduto spagnolo. Chiarito l’equivoco, comunque, furono tutti rilasciati con scuse dopo poche ore.
Il 13 luglio, Fucci ed Anfossi arrivarono a Santander, nell’alloggio dov’erano stati ospitati gli uomini del Torelli, intanto già tornati a bordo. Anfossi diede a Migliorini una busta che Fucci aveva portato da Bordeaux, contenente gli ordini sul da farsi; Fucci ebbe poi l’incarico di vigilare, dalla camera d’albergo, e segnalare con una torcia elettrica qualsiasi movimento di navi militari spagnole od altro evento anomalo che avesse notato nel porto.
Fu concordato con Betasom un piano per fuggire, appena in grado di farlo, e raggiungere Bordeaux con navigazione notturna; ma Migliorini finì col concludere che l’unica speranza era di partire nel momento in cui fosse stato aperto il bacino di carenaggio, quand’anche ciò comportasse di navigare di giorno. Le autorità spagnole, infatti, intendevano rimorchiare il Torelli, una volta uscito dal bacino, in una darsena interna in fondo al porto, da dove non sarebbe stato più possibile uscire senza assistenza.
Di nascosto vennero caricate, a bordo del sommergibile, anche alcune casse di acqua minerale.
Il 14 luglio, alle 17, le autorità spagnole decisero di trasferire il sommergibile nella parte interna del porto di Santander. Il bacino di carenaggio dove ancora si trovava venne allagato; verificato che il Torelli galleggiava senza problemi, la porta del bacino fu aperta e due rimorchiatori presero il sommergibile a rimorchio, per portarlo in fondo al porto. Nel mentre un aereo non identificato, forse britannico, sorvolava la zona, mentre il console britannico assisteva dal molo.
Per maggior sicurezza, sul Torelli era stato imbarcato un ufficiale del Genio Navale del comando di Santander dell’Armada Española, per sorvegliare sull’esecuzione della manovra; il comandante in seconda del porto incrociava nei pressi su un motoscafo; la cannoniera spagnola San Martin vigilava sull’uscita del porto. A bordo del sommergibile, l’equipaggio era al posto di manovra, in abiti civili. Migliorini ed alcuni marinai presenti in coperta salutarono la San Martin, ed un picchetto della cannoniera rispose al saluto presentando le armi.
Quando, durante la manovra, il Torelli si venne a trovare con la poppa davanti all’ingresso del porto, il comandante Migliorini decise di cogliere l’occasione per fuggire: chiese di far effettuare al battello una rotazione completa, adducendo a motivazione la verifica sul sole delle deviazioni della bussola magnetica (che in realtà era inutilizzabile, data la mancanza dei compensatori), e per agevolare la rotazione chiese e ottenne che uno dei due rimorchiatori, quello che rimorchiava il Torelli a prua, mollasse i cavi. A questo punto Migliorini ordinò al nostromo di tagliare i cavi di rimorchio del rimorchiatore di poppa (il che fu fatto, a colpi d’accetti) e fece accendere i motori; il comandante in seconda del porto, resosi conto che la situazione gli stava sfuggendo di mano, salì sul Torelli per chiedere cosa stesse accadendo, ma ormai il Torelli aveva la prua sull’uscita del porto ed era “lanciato” alla massima velocità possibile lungo il canale che conduceva fuori dal porto. Superata di slancio la San Martin, che non aprì il fuoco, incerta sul da farsi, il sommergibile italiano fuggì dal porto a tutta forza, portando con sé anche il comandante in seconda del porto e l’ufficiale del Genio Navale spagnolo, rimasti a bordo. La San Martin si pose all’inseguimento del Torelli, sempre senza sparare, ma fu presto distanziata, troppo lenta anche per un Torelli così malconcio e rattoppato. Quando il sommergibile incrociò un peschereccio, i due ufficiali spagnoli, furiosi per l’accaduto, furono trasbordati sulla piccola nave, poi l’unità italiana proseguì verso Bordeaux. Dopo cinque ore scese la rassicurante cortina protettiva dell’oscurità, che riduceva la probabilità di attacchi aerei anche se – come il Torelli aveva avuto modo di scoprire a sue spese – non era più in grado di evitarli del tutto.
La navigazione, durante la notte successiva, fu effettuata orientandosi con le stelle: la bussola, infatti, non era ancora stata riparata.
Dopo tante e tali peripezie, protrattesi per quasi un mese e mezzo, il Torelli rivide infine Bordeaux il 15 luglio 1942: prima dell’alba incontrò un dragamine, che lo scortò attraverso i campi minati difensivi, e finalmente, alle otto di quella sera, il sommergibile fece il suo ingresso in porto.
Il comandante Migliorini, per essere riuscito a salvare il suo sommergibile in condizioni tanto disperate, venne decorato con la Medaglia di Bronzo al Valor Militare; la stessa decorazione, in aggiunta alla precedente Medaglia d’Argento, fu conferita al direttore di macchina Rinaldi, alla cui instancabile opera (lavorò giorno e notte per riparare le avarie che si presentavano) si doveva molto se il sommergibile era riuscito a restare a galla e raggiungere Bordeaux.
Per dirla come l’ammiraglio Girolamo Fantoni, che all’epoca dei fatti era imbarcato sul Torelli come guardiamarina: «Il Torelli è entrato nella storia delle battaglie “aereo contro sommergibile” come il primo battello a essere illuminato e attaccato con la “Leigh Light”, ma ha fatto ogni sforzo per respingere anche il ruolo di “prima vittima”. E c’è riuscito».

Il Torelli (da www.grupsom.com

Ultime missioni: dalla Regia Marina alla Marina Imperiale

Le riparazioni effettuate a Santander con i pochi mezzi a disposizione erano però solo quelle d’emergenza: per tornare pienamente in efficienza, il Torelli necessitò di sei mesi di lavori di riparazione. Durante tale periodo, il tenente di vascello Migliorini, destinato al comando della corvetta Cicogna, venne nuovamente sostituito come comandante del Torelli dal suo predecessore, capitano di corvetta Antonio De Giacomo.
Il 21 febbraio 1943 il Torelli lasciò Bordeaux per una nuova e lunga missione, stavolta nelle acque del Brasile. L’11 marzo, il battello si rifornì di 25 tonnellate di nafta dal sommergibile Barbarigo, ma cinque giorni dopo, mentre già incrociava al largo delle coste brasiliane, incappò di nuovo nel suo vecchio nemico: gli aerei, stavolta ben tre PBY Catalina. Avrebbe potuto evitarli immergendosi, ma proprio in quel momento il Torelli si trovava con il valvolone (presa d’aria) dei  motori termici in avaria, il che gli precluse l’immersione. Di nuovo il sommergibile ingaggiò un furioso scontro in superficie: uno dei velivoli venne centrato dalle sue mitragliere e precipitò in mare in fiamme, ed un secondo parve danneggiato, ma gli altri, prima di ritirarsi, ebbero il tempo di infliggere nuovi e gravi danni con il tiro delle loro mitragliere. Parecchi membri dell’equipaggio rimasero feriti: tra di essi il comandante De Giacomo (in modo grave), che dovette cedere il comando al secondo, il direttore di macchina, capitano del Genio Navale Giuseppe Sguerra, il guardiamarina Alfio Petralia ed il sottocapo radiotelegrafista Francesco Lobrano. Uno dei feriti, il sottocapo Lobrano, sarebbe poi deceduto per la gravità delle lesioni riportate.
A seguito dei danni subiti, il Torelli dovette dirigere per il rientro a Bordeaux, dove arrivò il 3 aprile 1943.

Il sottocapo radiotelegrafista Francesco Lobrano, figlio di Antonio Lobrano e Clelia Alivesi, nato a La Maddalena il 24 agosto 1921 ed ivi domiciliato. Arruolatosi volontario a 19 anni, nell’ottobre 1940, divenne radiotelegrafista e fu assegnato a richiesta sui sommergibili. Nel giugno 1941 era imbarcato sul Medusa, dal quale successivamente fu trasferito sul Torelli, dove trovò la morte. Il suo cognome è erroneamente riportato nella banca dati di Onorcaduti come Lubrano (g.c. Giovanni Pinna)


Nel frattempo il comandante di Betasom, capitano di vascello Enzo Grossi, constatando che l’inferiorità tecnica ed il logorio operativo avevano fortemente menomato la capacità offensiva dei suoi sommergibili, aveva proposto all’ammiraglio Dönitz di trasformare i restanti sommergibili di Betasom in sommergibili da trasporto, da impiegare per missioni di trasporto di materie prime strategiche e nuovi ritrovati della tecnologia bellica dall’Europa al Giappone e viceversa (la Germania necessitava infatti di sommergibili da trasporto per svolgere queste missioni, ma non ne possedeva in quel momento); in cambio la Kriegsmarine avrebbe ceduto alla Regia Marina altrettanti U-Boote tipo VII C, da armarsi con equipaggi italiani. La proposta era stata accettata, ed erano iniziati i lavori di conversione di quasi tutti i sommergibili di Betasom: anche il Torelli, entrato in cantiere, ne uscì non solo riparato, ma anche trasformato in sommergibile da trasporto.
Ciò comportò la rimozione del cannone di coperta (ma non delle mitragliere contraeree, necessarie alla difesa dai velivoli nemici: sebbene i nuovi quadrimotori statunitensi ricevessero ben poco danno dalle modeste Breda da 13,2 mm) e la trasformazione dei tubi lanciasiluri e dei depositi di munizioni in depositi di carburante, nonché la riduzione del numero delle batterie elettriche (così sacrificando gran parte dell’autonomia in immersione) e delle dimensioni degli alloggi degli ufficiali e dell’equipaggio (per poter caricare più merce): con una sola latrina in luogo delle precedenti tre, e nessuna doccia né più alcuno stipetto, la traversata si presentava molto più dura per gli uomini del Torelli. La capacità di carico così ottenuta ammontava, in teoria, a 150 tonnellate di materiale.
I lavori di conversione erano stati svolti celermente – specie considerando che vi erano poche risorse e che non c’era personale specializzato – dagli uomini della base di Bordeaux, diretti dal maggiore del Genio Navale Giulio Fenu.
Ogni sommergibile, secondo i piani, sarebbe partito da Bordeaux con 100-200 tonnellate di mercurio, barre d’acciaio ed alluminio, prototipi di bombe, mitragliere da 20 mm, progetti di carri armati ed altro ancora (ed eventualmente alcuni passeggeri), da trasportare a Sabang (Sumatra) e Singapore, dove avrebbe imbarcato un’uguale quantità di gomma, zinco, tungsteno, chinino, oppio, bambù, palme ed altro (compresi alcuni passeggeri) e fatto ritorno in Europa.
L’operazione venne chiamata «Aquila», ed i battelli da trasporto ricevettero un nominativo di copertura consistente appunto nella parola Aquila più numero progressivo: al Torelli fu assegnato il nominativo di Aquila VI.

Il Torelli, al comando del tenente di vascello Enrico Gropalli, salpò da Bordeaux per l’Estremo Oriente il 14 giugno 1943, per poi lasciare Le Verdon – ultimo lembo di terra francese – due giorni dopo: non sarebbe mai più tornato in Europa.
A bordo, oltre all’equipaggio, c’erano il colonnello nipponico Satake Kinjo (ufficiale specializzato in telecomunicazioni che tornava in Giappone dopo essersi addestrato in Germania), l’ingegnere tedesco Heinrich Foders (progettista dei radar Würzburg imbarcati, aveva con sé i progetti di tali radar), l’ingegnere giapponese Seiji e due ufficiali italiani destinati alla costituenda base sommergibilistica italiana in Estremo Oriente. (Altra fonte parla di Kinjo, Foders, due meccanici civili e tre ingegneri tedeschi del cantiere Deshimar AG Weser di Brema, diretti in “missione tecnica” in Giappone). Foders e Sateke avrebbero sofferto il mal di mare per tutta la traversata, passando 79 giorni senza mai vedere la luce del sole.
Il carico consisteva in 130 tonnellate di materiali di vario genere,  in particolare metalli speciali (mercurio e acciaio) e prodotti dell’industria militare tedesca (800 mitragliere contraeree Mauser MG 151/20, munizioni, bombe d’aereo tra cui una bomba SG 500 da 500 kg, siluri e due radar Würzburg destinati all’Esercito ed alla Marina giapponese).
Assieme al Torelli prese il mare un altro sommergibile destinato alle missioni di trasporto, il Barbarigo, ma i due battelli si separarono una volta usciti dalla rotta di sicurezza, al largo di Bordeaux. Del Barbarigo non si seppe più nulla.
I comandi britannici, a seguito di decrittazioni, erano a conoscenza della partenza del Torelli, che sin dall’inizio della navigazione venne cercato da unità navali provenienti da Gibilterra e Freetown, oltre che da idrovolanti antisommergibile PBY Catalina e Short Sunderland. Nessuno riuscì a trovarlo.
Il 12 agosto 1943 il Torelli, a corto di carburante, si rifornì (78 metri cubi di nafta) dal sommergibile tedesco U 178 a sudest del Madagascar, poi proseguì nell’Oceano Indiano insieme all’U-Boot; il 26 agosto 1943 raggiunse Sabang, in Malesia, dove si rifornì e sbarcò due ufficiali italiani.
L’indomani il battello, ora accompagnato dalla nave appoggio sommergibili Eritrea, ripartì per Penang, ov’era stata stabilita una base di U-Boote tedeschi e dove il Torelli giunse il 28 luglio insieme all’U 178: qui sbarcò il proprio carico. Lasciata Penang il 2 settembre, il giorno successivo arrivò a Singapore, sua destinazione finale.

Trascorsero però soltanto cinque giorni prima che, l’8 settembre 1943, venisse annunciato l’armistizio stipulato tra l’Italia e gli Alleati. Ciò sorprese il Torelli ancora a Singapore: il sommergibile si trovava ormeggiato alla banchina di Keppel Harbour, scarico e privo di nafta, e con lavori di revisione in corso. Affiancato ad esso, sul lato esterno, era il Reginaldo Giuliani, legato al Torelli con cavi di acciaio. A bordo dei due battelli c’era solo il personale di guardia (un ufficiale e due marinai) ed un turno di operatori radio, mentre il resto degli equipaggi erano alloggiati a Pasir Panjang, a circa nove chilometri dalla base dei sommergibili (fino all’armistizio, avevano a disposizione alcune motociclette per raggiungere la base in caso di urgenza, mentre gli altri collegamenti erano effettuati con veicoli messi a disposizione dalle autorità nipponiche).
Il 9 settembre (causa fuso orario) la notizia dell’armistizio raggiunse l’Estremo Oriente. L’Eritrea, che si trovava nello stretto di Malacca, ricevette l’ordine «Unità navali dirigano per un porto neutrale o si autoaffondino» inviato da Supermarina al Comando Navale Estremo Oriente, lo ricifrò e lo ritrasmise ai sommergibili, ma questo messaggio non arrivò mai a Keppel Harbour.
Fu uno dei radiotelegrafisti di guardia a bordo di Torelli e Giuliani, alle quattro del mattino del 9 settembre, ad intercettare una trasmissione che parlava di «resa incondizionata dell’Italia». L’ufficiale più alto in grado presente sul posto, il comandante Tei del Giuliani, era allettato per una forte febbre, dunque mandò due ufficiali a bordo dei sommergibili con l’ordine di autoaffondarli non appena fossero stati ricevuti ordini in tale senso, oppure anche d’iniziativa, senza aspettare ordini, se le forze giapponesi avessero tentato di catturarli. A causa della conformazione di Keppel Harbour, non era possibile tentare la fuga; sia per l’autoaffondamento che per un’eventuale cessione alle forze tedesche (proprietarie del carico) occorreva prima un ordine specifico.
I due ufficiali mandati a bordo dei sommergibili trovarono che le micce collegate a delle bombe di profondità, trasferite dall’Eritrea dopo il 25 luglio per un rapido autoaffondamento in caso di necessità, erano state asportate.
Alle 15 sopraggiunse il capitano di fregata giapponese Michio Hara, capo di Stato Maggiore dell’ammiraglio Ryuichiro Enomoto, comandante della base navale giapponese di Singapore. Hara, presentatosi insieme all’ufficiale di collegamento, tenente Komatzuki, spiegò che era in corso un’esercitazione di sbarco e pertanto la franchigia era sospesa. In serata l’ammiraglio Enomoto confermò che l’Italia si era arresa, ed impartì disposizioni restrittive per i sommergibili ed i loro uomini: gli equipaggi italiani erano consegnati negli alloggi, il personale di guardia a bordo sarebbe stato ridotto, gli otturatori delle armi sarebbero stati consegnati alle forze nipponiche, le radio e le relative antenne rese inutilizzabile, la nafta e le munizioni sbarcate.
Poi si passò alle vie di fatto: gli uomini di guardia a bordo vennero rapidamente catturati e portati dapprima a bordo di una cannoniera, per poi essere imprigionati, l’indomani, in una baracca del porto.
Il 12 settembre iniziarono le discussioni tra il personale dei sommergibili, consegnato negli alloggi. Sottufficiali ed operai militarizzati, che conoscevano la brutalità delle truppe nipponiche, temevano la loro reazione, ed erano decisi a non divenirne prigionieri: si proponevano di tornare in Europa con ogni mezzo, quand’anche ciò comportasse di arruolarsi nelle forze tedesche. Da parte loro i giapponesi non fecero nulla per sedare tali conflitti, anzi li alimentarono diffondendo appositamente notizie in parte vere (Mussolini liberato dai tedeschi) ed in parte false (Vittorio Emanuele III fuggito in Svizzera) e permettendo la propaganda da parte di elementi filofascisti.
L’equipaggio si divise: gli ufficiali rimasero fedeli alle autorità italiane, mentre gran parte dei sottufficiali e marinai decisero di proseguire la guerra a fianco di tedeschi e giapponesi.
Tutti, ad ogni modo, il 23 settembre furono trasferiti dalle autorità giapponesi nel campo d’internamento di Sime Road, vicino a Singapore: il trattamento era durissimo, come usuale per le autorità giapponesi nei confronti dei prigionieri. Meno duro per coloro che fin da subito – cioè la maggioranza – si dichiararono disposti ad accettare di continuare a combattere con le forze tedesche; peggiore per i 28 uomini del Torelli e del Giuliani che rifiutarono di collaborare e vennero pertanto trattati come prigionieri.
Quando, alcune settimane più tardi, fu costituita la Repubblica Sociale Italiana, la maggior parte dei sottufficiali e marinai del Torelli aderì ad essa. Non lo fecero, invece, tutti gli ufficiali (tranne uno) e otto tra sottufficiali e marinai, che rimasero così prigionieri.
Il 28 ottobre 1943 gli aderenti alla RSI giurarono solennemente fedeltà a Benito Mussolini, e tre giorni dopo poterono lasciare Sime Road, dove rimasero invece 15 ufficiali e 9 sottufficiali e marinai dei due battelli. Il 24 novembre uno degli ufficiali, il capitano Armi Navali Matteo Silvestro, iniziò a dare segni di squilibrio mentale, causato dalle durissime condizioni di detenzione.

Il futuro di coloro che aderirono alla RSI fu deciso dalla loro specialità: gli uomini appartenenti in prevalenza ai corpi tecnici, per la loro conoscenza degli impianti di bordo, tornarono a far parte dell’equipaggio dell’UIT 25, che si trovò così ad avere un equipaggio misto italo-tedesco (non vi era infatti sufficiente personale tedesco per poter armare tutti e tre i sommergibili); gli altri furono in parte trasferiti in Giappone ed in parte imbarcati sui violatori di blocco tedeschi Burgenland e Weserland, che avrebbero tentato il rientro in Europa.
Non ci riuscirono: il Burgenland (che aveva a bordo lo stato maggiore del Cappellini, il guardiamarina Luigi Montalbetti del Torelli e 26 marinai dei due sommergibili) fu intercettato il 5 gennaio 1944 dall’incrociatore statunitense Omaha e dal cacciatorpediniere Jouett, cannoneggiato e costretto ad autoaffondarsi in posizione 08°06’ S e 26°45’ O. I 240 naufraghi vennero recuperati nei nove giorni successivi da diverse unità statunitensi e brasiliane; tutti, compresi gli italiani, finirono dapprima nel campo di prigionia di Monticello (Arkansas) e poi, dal 10 aprile, furono trasferiti nel campo di Hereford, in Texas (il guardiamarina Montalbetti, nell’agosto 1944 riuscì a fuggire da Hereford e quasi a raggiungere il Messico, prima di essere ricatturato; e non prima di aver per qualche tempo sostato e lavorato alla fattoria di una famiglia locale, i Lovejoy, facendosi passare per marinaio franco-gollista). Nel settembre 1944 quelli, tra di essi, che rifiutarono di collaborare vennero trasferiti dapprima a Seattle e poi a Honolulu, in un campo di prigionia particolarmente duro.
Il Weserland (con a bordo 37 marinai italiani) aveva subito la stessa sorte già due giorni prima, il 3 gennaio, quando era stato intercettato e affondato a cannonate dal cacciatorpediniere statunitense Somers nel punto 14°55’ S e 21°39’ O, 900 miglia a sud di Sant’Elena. Fu lo stesso Somers a recuperare i 134 sopravvissuti (che finirono in prigionia come quelli del Burgenland); tra i morti del Weserland ci furono invece due marinai del Torelli, Paolo Rea e Mario Sganzerli.
Gli uomini inviati in Giappone, imbarcati sui piroscafi Quito, Braghe e Bogotà, non raggiunsero neanch’essi la loro destinazione: i più rimasero nella zona di Batavia fino alla fine della guerra. Di alcuni non si seppe più nulla; qualcuno si stabilì definitivamente in Giappone o altre aree dell’Estremo Oriente, dove visse per il resto della sua vita senza più tornare in Italia (tra di essi il sergente motorista Raffaello Sanzio, del Torelli, che dopo la guerra si stabilì in Giappone, sposò una donna del luogo e cambiò il cognome in Kobayashi).
I 28 tra sottufficiali, marinai ed operai dei sommergibili, imprigionati dalle autorità giapponesi e non aderenti alla RSI, rimasero in prigionia fino alla fine del conflitto: da Sime Road, dopo l’arrivo di migliaia di prigionieri Alleati, furono temporaneamente trasferiti nel campo di Kranji, poi fecero ritorno a Sime Road il 1° aprile 1944, e da qui, l’8 maggio, furono caricati su autocarri e trasferiti nella prigione di Changi, ove si trovava uno delle più “celebri” campi di prigionia allestiti dalle autorità giapponesi a Singapore. Due giovani ufficiali del Torelli, tra cui il sottotenente di vascello Sergio Corsini, durante la prigionia giunsero a mutare radicalmente le loro vedute politiche, sino a diventare di sentimenti socialisti e repubblicani.
I 28 uomini rimasero a Changi fino a dopo la conclusione della guerra: liberati, s’imbarcarono sull’Eritrea, sopravvissuta alla guerra, soltanto nell’ottobre 1945. Rividero l’Italia il 7 febbraio 1946, quando l’Eritrea raggiunse Taranto. Appena venti giorni più tardi, per singolare coincidenza, fecero ritorno in Italia, a Napoli, i loro commilitoni che dopo l’armistizio avevano fatto scelta di campo opposta, ed erano stati catturati dagli americani dopo l’affondamento di Burgenland e Weserland: liberati a loro volta, erano stati rimpatriati sul mercantile statunitense Marine Tiger.

Il guardiamarina Luigi Montalbetti, qui come aspirante in una foto scattata dall’amico e concittadino Vittorio Villa al termine del corso all’Accademia Navale di Livorno (per g.c. del figlio Alberto Villa). Nato a Varese il 27 luglio 1919, dopo il completamento del corso fu destinato sui sommergibili, partecipando sull’Axum alla battaglia di Mezzo Agosto del 1942, per la quale fu decorato di Medaglia di Bronzo al Valor Militare. Trasferito sul Torelli, raggiunse l’Estremo Oriente e qui fu sorpreso dall’armistizio; dopo la cattura da parte dei giapponesi, inizialmente rifiutò sia di rinnovare il giuramento di fedeltà a Vittorio Emanuele III, reo di aver tradito il suo popolo, sia di riconoscere il neocostituito governo Mussolini, dichiarando “me ne frego di S. M. il re e me ne frego di Mussolini” e, alla domanda circa agli ordini di chi avrebbe combattuto se fosse riuscito a tornare in Italia, “in Italia troverei il modo di combattere per la mia patria”. Alla fine, fu l’unico ufficiale del Torelli ad accettare la collaborazione con i tedeschi, non per convinzione ma per trovare il modo di tornare in Europa: lì avrebbe potuto meglio decidere sul da farsi. Imbarcato sulla Burgenland, vide sfumare i propri piani quando questa fu intercettata ed affondata da navi statunitensi e lui venne catturato, finendo nel campo di prigionia texano di Hereford. Non si diede comunque per vinto, escogitando a più riprese piani di fuga: il primo mentre ancora era a bordo della nave che lo portava verso la prigionia negli Stati Uniti. Al largo di Belem, in Brasile, accarezzò l’idea di fuggire gettandosi in mare dall’oblò e raggiungendo la costa, ma rinunciò in considerazione degli squali che infestavano quelle acque. Finito a Hereford, preparò la fuga nei dettagli: camminò ogni giorno per chilometri attorno al campo per allenarsi a lunghe marce a piedi, studiò il percorso da seguire per raggiungere il confine con il Messico (nei limiti consentiti dal materiale che aveva a disposizione), perfezionò la sua conoscenza della lingua francese. Infine, nella notte del 4 agosto 1944 indossò una divisa da lavoro usata dai marinai statunitensi e passò attraverso il reticolato dal campo degli ufficiali a quello dei soldati, dove si nascose per due giorni con l’aiuto di alcuni suoi ex marinai; in questo modo, quando risultò mancante all’appello, le guardie del campo e le forze di polizia locali si affannarono per due giorni a cercarlo nei dintorno ed a capire come fosse potuto fuggire senza praticare un buco nel reticolato, non sapendo che in realtà si trovava ancora nel campo. Una volta nascondendosi all’interno di un pagliericcio ed un’altra addirittura dentro un frigorifero, riuscì a sfuggire anche alla perquisizione delle baracche del campo condotta dalle guardie, mentre il quotidiano locale “Amarillo Daily News” pubblicava la sua foto chiedendo a chiunque lo avesse visto di fornire informazioni. Calmatesi le acque, il 7 agosto uscì con un gruppo di 80 prigionieri inviati a lavorare in un campo di mais ad una cinquantina di chilometri da Hereford, da dove fuggì di soppiatto nascondendosi tra il mais. Dopo aver vagato per tre giorni e per tre notti attraverso immensi campi di mais, sempre andando verso sud, raggiunse la strada Bula-Littlefield, dove un’auto gli offrì un passaggio fino a Portales, che non sapeva trovarsi più a nord e dunque più lontano dalla sua meta; al conducente raccontò di essere un marinaio francese in servizio in Martinica, aderente alla causa gollista e recatosi negli Stati Uniti per visitare dei parenti. A Portales comprò da mangiare, dopo di che ottenne un altro passaggio da una coppia di anziani che lo portarono a Milnesand, in New Mexico, dove si sistemò provvisoriamente nel magazzino di una fattoria ma fu subito scoperto dal proprietario, Oce Kyle Lovejoy. Anche a lui raccontò di essere un marinaio francese, dicendo di chiamarsi Louis Dupont; Lovejoy, che aveva combattuto in Francia durante la prima guerra mondiale, gli propose di restare a lavorare da lui per qualche giorno, e Montalbetti accettò, lavorando per due settimane come contadino e mandriano ed aiutando in casa, venendo pagato venti dollari. Ripartito, viaggiò di notte passando per Tatum, Lovington e Hobbs, da dove in autostop raggiunse Carlsbad; da quella città ottenne un passaggio da due militari dell’aviazione statunitense, un tenente bianco ed un sergente nero, che sembrarono credere al suo racconto e lo lasciarono a Pecos, da dove sperava di poter raggiungere Ciudad Juarez e poi Città del Messico. A Pecos comprò da mangiare, ma appena uscito dal negozio – era il 31 agosto – venne fermato da un’auto della polizia di frontiera: i due poliziotti gli chiesero i documenti, che naturalmente non aveva. Raccontò di essere arrivato negli Stati Uniti il 5 marzo 1944 sulla nave Edison, ma una verifica rivelò che quella nave era affondata anni prima. Non gli rimase che confessare, dopo di che venne arrestato ed incarcerato dapprima nella prigione di Alpine e poi in quella di Marfa, da dove venne prelevato da un sergente di Hereford che lo ricondusse al campo. Era rimasto a piede libero per 23 giorni, durante i quali aveva viaggiato per 300 chilometri: di gran lunga la fuga più lunga tra quelle tentate dai prigionieri di Hereford, nessuna delle quali fu coronata da successo. Al comandante del campo raccontò di essere campione di salto con l’asta e di aver scavalcato il reticolato con un salto; fu punito con un mese a pane ed acqua, la prima metà del quale in isolamento.
Finita la guerra, divenne professore di matematica nella sua Varese. Il racconto in prima persona della sua fuga è riportato in fondo a questa pagina.

Quanto al Torelli, risultò in tali condizioni di logoramento da necessitare un periodo di lavori, dopo la cattura, nei cantieri Kawasaki di Kobe. Le forze giapponesi che lo avevano catturato, dopo lunghi negoziati, il 13 (o 22) ottobre 1943 lo consegnarono alla Kriegsmarine, che lo pose in servizio il 6 dicembre 1943: ribattezzato UIT 25, in dicembre fu affidato al comando del capitano di fregata Werner Striegler, assegnato alla 12. Unterseebootsflottille di Bordeaux (e poi, il 1° ottobre 1944, trasferito alla 33. Unterseebootsflottille di Flensburg, avendo però sempre base effettiva  Penang) ed armato con un equipaggio tedesco.
L’UIT 25, con a bordo sei italiani (rimandati a bordo nel novembre 1943; altre fonti parlano di una ventina) oltre ai tedeschi, fu sottoposto ad un periodo di lavori di raddobbo (durante i quali le mitragliere da 13,2 mm vennero eliminate e sostituite con una mitragliera binata C/38 da 20/65 mm) per rimetterlo in grado di compiere la traversata di ritorno in Francia.
Inizialmente, infatti, era stato previsto di caricare gli UIT catturati in Estremo Oriente con materie prime e rimandarli in Europa, come peraltro stabilito dal piano originario; quando poi, nell’estate 1944, la maggior parte della Francia (Bordeaux compresa) venne riconquistata dagli Alleati a seguito dello sbarco in Normandia, si decise che la destinazione dell’UIT 25 (che dopo la cattura aveva ricevuto il nuovo nominativo convenzionale di Mercator V in luogo del precedente Aquila VI) sarebbe divenuta la Norvegia. Il sommergibile sarebbe dovuto salpare nel settembre 1944, ma la distruzione, nel mentre, di tutte le unità rifornitrici tedesche operanti tra gli oceani Atlantico e Indiano, cancellò ogni possibilità di rifornimento dei sommergibili durante la traversata, e costrinse pertanto a rinunciare a questo proposito. I residui battelli vennero invece adibiti al traffico “locale” tra Indonesia e Giappone, trasportando all’andata viveri per i cittadini italiani e tedeschi residenti in Giappone, ed al ritorno armi e munizioni per le guarnigioni giapponesi delle ormai ex Indie Olandesi. Tali rotte erano sempre più insidiate da sommergibili ed aerei statunitensi.
Striegler lasciò il comando del battello il 13 febbraio 1944 per assumere il comando dell’UIT 23, ex Giuliani, ma già il giorno seguente, recuperato dal mare, dovette tornare al suo comando precedente: l’UIT 23 era stato affondato dal sommergibile britannico Tally Ho nello Stretto di Malacca, e Striegler si era salvato a stento.
Il comando dell’UIT 25 passò poi ad interim (dal settembre 1944) da Striegler al tenente di vascello Herbert Schrein ed infine (febbraio 1945) al tenente di vascello Alfred Meier (per altra fonte, invece, il comando passò da Striegler – assegnato all’UIT 23 ex Giuliani – a Schrein, poi nel febbraio 1944 a Meier ed in settembre di nuovo a Striegler, dopo l’affondamento dell’UIT 23).
L’UIT 25 fu impiegato a partire dal febbraio 1944 in viaggi di trasporto tra Kobe, Penang (sede di una base di U-Boote tedeschi in Estremo Oriente) e Surabaya (Indonesia).
L’8 febbraio 1944 il sommergibile lasciò Singapore alla volta di Penang, arrivandovi due giorni dopo, ed il 7 marzo, dopo aver caricato 150 tonnellate di gomma grezza e 50 tonnellate di stagno, ripartì per Surabaya, giungendovi quattro giorni più tardi dopo aver fatto ancora scalo, il 9 marzo, a Singapore per riparazioni minori. A Surabaya il carico fu messo a terra e ci fu una nuova e prolungata sosta per lavori di riparazione. In giugno, decrittatori statunitensi decifrarono un messaggio che riferiva della presenza dell’UIT 25 a Surabaya.
Il 10 giugno 1944 l’UIT 25 salpò da Surabaya diretto a Tama, dove arrivò il 25 giugno, per poi trasferirsi a Kobe in luglio (per altra fonte il sommergibile giunse direttamente a Kobe il 25 giugno; secondo versione ancora differente, si trasferì da Penang a Batavia nel novembre 1944, insieme agli altri U-Boote, e da lì si trasferì a Kobe per lavori nel febbraio 1945, trasportando nel viaggio personale e materiali). Nell’autunno del 1944 la base sommergibilistica tedesca di Penang, dinanzi all’avanzata Alleata, dovette essere evacuata; i sommergibili superstiti furono trasferiti a Jakarta.
Nel marzo 1945 l’UIT 25 entrò nei cantieri Kawasaki di Kobe per nuovi e urgenti lavori di riparazione e grande manutenzione. Il 17 marzo proprio i cantieri Kawasaki furono tra gli obiettivi del pesante bombardamento di Kobe da parte di bombardieri Boeing B-29 “Superfortress” statunitensi, decollati da Tinian; vi fu una vittima tra il personale tedesco dell’UIT 25 (secondo una fonte, l’UIT 25 fu anche danneggiato e abbandonato dall’equipaggio il 17 marzo durante il bombardamento, che distrusse gran parte di Kobe; la notizia non è però confermata da fonti più autorevoli, e sembra dunque infondata).
L’8 maggio 1945, la Germania si arrese, e due giorni dopo la bandiera tedesca dell’UIT 25 venne ammainata. Ma nemmeno allora finì, per esso, la guerra.

Caduta anche la Germania, restava il Giappone. Il 10 maggio 1945 si ripeté la scena che aveva avuto luogo il 10 settembre 1943: questa volta, però, ad essere catturati dalle forze giapponesi furono i sommergibili tedeschi, che si trovavano ormeggiati al molo Mitsubishi di Kobe. Gli equipaggi, sia i tedeschi che gli italiani, furono internati in un albergo di Kobe.
Dopo due mesi la Marina Imperiale giapponese incorporò l’UIT 25 nei suoi ranghi (ed assegnandolo – ma solo sulla carta – alla 6a Flotta, Distretto Navale di Kure), ribattezzandolo I 504 il 17 luglio 1945 ed imbarcando un equipaggio nipponico (l’autorevole sito www.combinedfleet.com, tuttavia, afferma invece che nessun equipaggio giapponese venne assegnato a questa unità); a bordo, tuttavia, rimasero ancora in servizio diversi marinai italiani, oltre che tedeschi (degli italiani internati nell’albergo di Kobe, furono una ventina quelli che decisero di continuare a combattere).
Il Torelli, insieme al Comandante Cappellini che ebbe simile sorte, fu così uno dei due soli sommergibili ad aver prestato servizio per tutte e tre le principali Marine dell’Asse: il suo ultimo equipaggio annoverava “rappresentanze” di tutti e tre i Paesi. Suo comandante fu, dal 14 luglio, il tenente di vascello Hirota Hidezo.
Il battello non vide però servizio attivo sotto bandiera giapponese, trovandosi, in quel periodo, in cantiere per lavori; fu formalmente posto in servizio nella Marina Imperiale solo il 15 luglio, ma da maggio rimase inattivo in cantiere in attesa che cominciassero i pianificati lavori di sostituzione dei suoi motori originali, ormai troppo usurati, con altri di produzione locale. Tali lavori non poterono mai avere inizio.
Secondo alcune fonti, il 22 o 30 agosto 1945, a Kobe, l’I 504 abbatté con le proprie mitragliere da 13,2 mm un bombardiere statunitense B-25 “Mitchell”: si tratterebbe in tal caso, probabilmente, dell’ultimo aereo americano abbattuto da un’unità della Marina giapponese. Va però detto che tale episodio, il cui racconto è molto diffuso su Internet, non sembra invece essere citato dalle fonti ufficiali, facendo sorgere dei dubbi sulla sua veridicità, specie se si considera che il Giappone si arrese il 15 agosto 1945, dunque non vi sarebbe stata ragione per l’USAAF di attaccare il suolo giapponese settimane dopo la fine delle ostilità (oltre al fatto che il battello era in quel momento fermo per lavori in cantiere).
Con la resa del Giappone, anche l’I 504 si arrese alle forze statunitensi: lo fece il 2 settembre 1945 a Kobe, dove si trovava nei cantieri Kawasaki (per altra fonte, invece, la resa avvenne il 28 o 30 agosto: secondo “The Last Century of Sea Power”, di H. P. Willmott, invece, in nessuna di queste tre date le forze americane si trovavano a Kobe). I marinai italiani che ancora restavano nel suo equipaggio vennero ora imprigionati dagli americani; le autorità della neonata Repubblica Italiana li privarono di grado e pensione.
Il 30 novembre 1945 l’I 504 venne radiato dai ruoli della Marina Imperiale giapponese. Giudicato troppo malconcio per poter essere ancora utilizzabile, ne fu decretato l’affondamento nell’ambito delle operazioni per la liquidazione della residua flotta subacquea giapponese.
Il 16 aprile 1946 il sommergibile, dopo aver superato tante peripezie e servito sotto tre bandiere, venne dapprima impiegato come bersaglio per delle esercitazioni di bombardamento da parte di B-25 statunitensi, e poi affondato dalla Task Force 96.5 della US Navy nel punto 33°40’ N e 134°52’ O, nel canale di Kii (Kii Suido, tra le isole di Honshu e Shikolu), al largo di Kobe.


Caduti sul Torelli durante la guerra:

Francesco Lobrano, sottocapo radiotelegrafista, per attacco aereo il 16.3.1943

Fiovo Pallucchini, sergente, per attacco aereo il 7.6.1942


Il Torelli a Bordeaux a inizio ottobre 1940 (g.c. STORIA militare)

Il racconto della fuga di Luigi Montalbetti dalla prigionia in Texas, tratto dal libro “Fame in America” di Armando Boscolo (si ringrazia Alberto Villa):
 
"Nei primi giorni dell'agosto 1944 nel campo si parlava di vigilanza rallentata, in quanto le forze americane sarebbero state impegnate per controllare uno sciopero ad Amarillo. Pensai che poteva essere l'occasione buona per tentare la fuga che da tempo andavo sognando. Nella notte dal 4 al 5 agosto, verso le due, cominciai il tentativo. Avevo indossato la tenuta da lavoro dei marinai americani, equipaggiamento che mi era stato fornito dal Comandante del caccia statunitense « Wilson », che mi aveva raccolto naufrago nell'Atlantico, dopo l'autoaffondamento della « Burgenland », nave carica di gomma che era partita da Singapore ed era stata intercettata davanti alle coste brasiliane, mentre navigava verso Bordeaux. Con un pezzo di bastone di scopa, smussato alle estremità, mi riuscì di allargare il doppio reticolato che divideva il nostro compound dal « 3 », quello dei soldati, compound in quei giorni completamente vuoto. Potevo essere a due o tre metri al di là del reticolato quando d'improvvisò si accesero i fari della garitta più vicina. Tanto valeva giocare il tutto per tutto. Guardai verso la torretta, con tutta la tranquillità che mi riuscì di trovare, accesi una sigaretta e cominciai a passeggiare disinvoltamente, avanti e in dietro. Il boy di guardia evidentemente non riusciva a rendersi conto di quel che vedeva dentro il fascio di luce, può darsi pensasse a un'allucinazione dato che il compound 3 allora non aveva abitanti, Fatto si è che dopo un po' spense la luce. Sollevato, m'involai verso il reticolato del compound 2, che era semplice e non era sorvegliato, così che con discreta facilità potei superarlo. In un soffio attraversai il compound 2, superai il reticolato dividente questo settore dal compound I, che rappresentava la mia prima tappa e dov'erano i miei marinai. Nel compound 1 non v'era una luce, non si udiva una voce. Mi misi a gironzolare, deciso ad attendere l'alba, per non svegliare nessuno, ma ecco che, passando vicino a una delle baracche destinate ai servizi igienici, sentii delle voci. Entrai. Vi era il sergente Forti, del sommergibile « Cappellini ». Gli spiegai la situazione. In un batter d'occhio recuperammo un letto e, udita anche l'opinione di alcuni miei marinai,
decisi di attendere l'occasione favorevole per uscire dal campo con i soldati che si recavano ai lavori. Il giorno dopo conte a non finire e ricerche degli Americani che, nell'appello fatto al compound 4, si erano accorti dell'assenza di un prigioniero. Controllando le schedine determinarono presto che l'assente ero io.
Mentre gli Americani si davano da fare nelle ricerche, il giorno 7 agosto, uscii insieme a un gruppetto di 21 soldati, che erano accompagnati da tre boys, armati di mitra. Ci portarono ad Amarillo. Scaricammo, con certi aggeggi motorizzati, alcuni carri di grano. Una faticaccia, davvero, mentre di fuga nemmeno parlarne. I carri erano nel centro della città, vicino a un enorme silos, e noi eravamo sorvegliati strettamente.
Ritornai in campo col gruppetto e, come all'uscita, anche al rientro le sentinelle americane non si accorsero che c'era un uomo in più. Subito dopo arrivò la notizia che sarebbero occorsi 80 soldati per andare a una cinquantina di chilometri verso Sud-ovest, in un grande campo di mais che doveva essere ripulito. Pensai fosse la volta buona, anche perché era la direzione in cui doveva volgersi la mia fuga. Frattanto le ricerche da parte degli Americani continuavano e io dovevo non farmi pescare. Un simpaticissimo marinaio napoletano con le sue geniali trovate, mi fu di grande aiuto. Per una ispezione americana il marinaio mi mise su una branda, al posto del materasso, mi ricoprì con del cartone, vi mise sopra due coperte. La trovata era magnifica, ma io, sotto a tutta quella roba, quasi soffocavo e sudavo come fossi una fontanella.
Tutti erano fuori per il controllo, la baracca deserta, silenziosa.
Un'attesa tremenda. Qualche boy entrava, cercava, usciva, rientrava. A un certo punto uno prese un'arancia, lasciata da un prigioniero, sedette sul letto, vicino al mio, sbucciò il frutto e mentre faceva lo spuntino si mise a sfogliare una rivista. Disperato, seguivo quei movimenti quasi senza respirare, mentre ero madido e gocce di sudore cominciavano a cadere sul pavimento. Dopo un'eternità il boy se ne andò. I marinai mi misero fuori dopo tre ore che ero in quelle condizioni.
Un'altra ispezione fu tanto improvvisa da non permettere alcuna sistemazione di fortuna. Il marinaio napoletano non ci pensò due volte, mi chiuse nel frigorifero assicurandomi di non temere: « Lo terremo al minimo ». Minimo o non minimo, però, faceva un freddo cane. Ero nervosissimo. Cominciai a mangiare le riserve che vi erano conservate e di tale... abusiva sottrazione me ne dolgo ancor oggi, pronto a offrire un bel pranzo a quanti furono danneggiati dal mio... pasto.
Mentre attendevo di uscire dal campo furono perfezionati i preparativi. Un abilissimo marinaio riuscì a prepararmi due perfette carte geografiche del Texas (una mi fu sequestrata al rientro e l'altra sono riuscito a portarla in Italia). Altri marinai riuscirono a racimolare parecchi dollari e a prepararmi cibi energetici e di lunga durata. Finalmente
venne il gran giorno. Misi due vestiti: sopra quello impiastrato con la scritta P.W. di vernice bianca, sotto quello senza scritta. Avevo un caldo da crepare. Invece di 80, naturalmente, uscimmo in 81 con me. Il solito marinaio napoletano, però, aveva già pensato allo stratagemma: si mise vicino alle sentinelle americane, ad alta voce aiutandole a contare, arrivato al numero 80 allargò la bocca in un grande e convincente sorriso e raggiunse il suo posto nel gruppo. Gli 80 regolari, dunque, uscivano in 81!
Si arrivò al campo di lavoro. Qui mi attendeva un altro difficile ostacolo. Scelto il momento più opportuno, alcuni soldati si misero a chiacchierare con le sentinelle americane attirando la loro attenzione dalla parte opposta rispetto a quella dov'ero io. Era il momento tanto atteso. Mi buttai a terra, strisciando, raggiunsi una strada vicina, che doveva essere larga all'incirca cinque metri ed era completamente deserta, l'attraversai, mi buttai nel campo di mais che non era molto alto, sempre strisciando, continuai ad allontanarmi. Ero madido di sudore.
Mi fermai, dopo circa un'ora, in mezzo al mais, in un punto che mi sembrava sufficientemente nascosto, e attesi il tramonto. Mentre il sole stava abbassandosi, udii avviarsi il motore dell'autocarro che riportava al campo i prigionieri e udii la canzone convenuta, quella che parla del « tamburo principal della banda d'Allori ». Mi sentivo felice. Sempre in pericolo, ma libero, senza filo spinato intorno. Allora mi venne sete e mi venne fame. E non avevo niente. Strisciando, avevo perduto tutto quello che il mio concittadino Mollica mi aveva preparato. Tornare in dietro a cercare, in mezzo a quello sterminato mare di mais, sarebbe stata impresa impossibile. Mi feci forza. Mi levai in piedi e, a passo da bersagliere, m'incamminai. Dopo qualche chilometro, all'esterno della cinta di una casa colonica, trovai un serbatoio d'acqua. La salvezza! Mi avvicinai cautamente, badando a non fare nemmeno il minimo rumore, girai il rubinetto. Maledizione! appena girato, il rubinetto se ne scappò e l'acqua cominciò a uscire con gran rumore. Sembrò come si fosse svegliato tutto il buio. I cani cominciarono ad abbaiare. Due rapidissime boccate d'acqua, una mezza doccia involontaria e via, di gran carriera, come mai credo di avere corso in vita mia. Quando udii nuovamente il silenzio intorno a me, feci un po' di sosta. Nell'immensità del territorio, dove si incontra una farm ogni 40-50 chilometri, non era facile l'orientamento. Era tempo di luna nuova e non si poteva studiare la carta. Rintracciai la Stella polare e decisi di indirizzarmi verso Sud. Chilometri e chilometri in un mare di terra che pareva sempre uguale. Qualche volta finivo contro bassi reticolati, che recingevano campi sterminati ove migliaia di capi di bestiame vivevano allo stato brado ed erano, sotto un certo aspetto, i soli testimoni del mio andare insonne.
Mi fermavo quando non ne potevo più. Infilavo il mio maglione da sommergibilista, mi buttavo a terra e m'addormentavo di colpo. Erano riposi brevi, tuttavia, al massimo tre quarti d'ora. Mi si intorpidivano i muscoli e mi risvegliavo indolenzito, quasi incapace di muovermi.
Dopo tre giorni e tre notti arrivai sulla strada che da Bula porta a Littlefield. Pensai di fare una puntata rapidissima su Bula, per comperare dei viveri e riprendere la gran marcia. Mentre stavo decidendo, arrivò un'automobile. Nemmeno pensare alla fuga, bisognava affrontare la nuova situazione. Cominciai così la nuova era, quella dell'auto-stop. Un auto-stop a rovescio, tuttavia, perché non ero io a fermare le macchine, ma erano gli automobilisti a fermarsi e a offrire un passaggio a quello che forse doveva essere l'ultimo pedone del Texas.
In automobile si andava meglio che a piedi, naturalmente, però dovetti affrontare pericoli ben maggiori: rispondere a quel che mi si chiedeva. Di inglese ne sapevo quanto un ragazzino delle nostre scuole inferiori: lo leggevo bene, a dire il vero, ma Io capivo pochissimo, specialmente se mi si parlava rapidamente, e poi l'accento degli abitanti del Texas era quasi impossibile. lo, però, avevo già preparato la storiella da raccontare. Eccola.
Avevo letto sui giornali che alla fine del lungo assedio americano all'isola Martinica, ove giaceva il tesoro della Banca di Francia, soldati e marinai francesi della guarnigione erano stati spediti negli United States per dei corsi militari, mentre i non cooperatori francesi, che si erano schierati con Petain, erano stati messi in campi di prigionia, come noi. Ai Francesi che avevano sottoscritto la collaborazione, e che avevano parenti in America, era stato concesso il permesso di fare una visita agli stessi. Io raccontavo di essere uno di questi.
Tutto andò per il meglio, soltanto fu un guaio quando l'automobilista mi chiese se andava bene per me arrivare a Portales. Io dissi di sì, sperando che fosse Sud, perché non avevo mai sentito parlare di Portales. Invece, dopo un paio d'ore, mi ritrovai più a Nord, in una cittadina del New Mexico.
Quando me ne resi conto, filosoficamente — del resto c'era niente da fare — pensai che forse era meglio essere fuori dal Texas, dove le ricerche avrebbero potuto essere più accurate. Bene. Entrai in uno store, comperai e bevvi due Coca cola, acquistai miele, pane a fette, tre apple-pie, quindi mi portai fuori Portales, sotto un ombroso albero, in attesa di riprendere la marcia notturna. Raggiunsi Dora e, poiché ero stanco di camminare sempre, feci in modo da usare l'auto-stop. Questa volta i miei ospiti furono due simpatici vecchietti, che andavano su una sgangherata automobile piena di cianfrusaglie. Per evitare guai, dopo aver raccontato la solita storia del soldato francese, a segni feci intendere che ero sordo. I due vecchietti mi fecero scendere a Milnesand, una cittadina che complessivamente contava... 16 abitanti. Al tramonto ripresi la marcia.
Mi sentivo molto stanco, decisi di cercare un rifugio un po' tranquillo per riposare bene, almeno una notte. Dopo qualche chilometro, adocchiai una barn costruita col sistema palafitticolo, cioè con il fondo un metro sopra il terreno. La barn è una sorta di magazzino,
quello che avevo trovato distava circa 600 metri da una farm. Impiegai una buona mezz'ora per togliere il filo di ferro che teneva chiusa la porta della barn. Finalmente riuscii ad entrare.
L'interno era molto sporco, in compenso v'erano parecchi sacchi che mi sarebbero stati preziosi per preparare un giaciglio. V'erano anche molte bottiglie: ne presi una, la riempii d'acqua dal vicino wind-mill. Quindi m'adoperai per sistemarmi un letto. Ecco però il rumore di un autocarro che dalla farm veniva avvicinandosi alla barn. Sperai si portasse sulla strada, invece l'autocarro si arrestò lì presso. Ne scesero il padrone e il suo figlioletto, i quali avevano portato il pasto per i maiali, che erano in una piccola capanna, a una trentina di metri dalla barn.
Pensai che forse me la sarei cavata senza essere disturbato. Invece, il bello doveva ancora venire. Da una botola, che prima non avevo nemmeno notato, ecco spuntare la testa del ragazzino, che si chiamava Holmes. Con Holmes la spiegazione fu semplicissima: gli diedi un buffetto su una guancia e ci scambiammo un sorriso, tutto qui. Il padre, mister Lovejoy, seguiva il ragazzo e si annunciava con una puzza di whisky di cattiva qualità. Mentre l'uomo stava salendo i tre gradini gli diedi un colpetto amichevole sulla spalla. Mister Lovejoy, spaventatissimo, sussultò e lanciò un urlo terribile. Per un attimo stetti in forse se rompergli in testa una bottiglia o affrontare la situazione. Sorrisi con tutta la tranquillità di cui ero capace, e a mister Lovejoy passò lo spavento.
Raccontai la storia del marinaio francese e chiesi di poter pernottare lì. Mi sarei rimesso in cammino il mattino seguente per andare a Sant'Antonio del Texas dove — dissi — avevo i miei parenti. Mister Lovejoy mi rispose che potevo restare lì quanto mi fosse piaciuto. Poi
mi parve si aprisse un altro mondo. “Un, deux, trois, quatre” fece mister Lovejoy in un francese tipo scozzese. Mister Lovejoy ritrovava così l'orgoglio del soldato americano che aveva fatto in Francia la prima guerra mondiale. Fu l'amicizia.
Mister Lovejoy volle sapere di dove fosse il soldato francese. Dissi che ero di Bordeaux. Egli fece un altro sforzo mnemonico e ricordò Place Gambetta, Piace de la République e ancora tutti i luoghi dove l'aveva portato la guerra. Allora mister Lovejoy mi propose di restare per qualche giorno a lavorare con lui, avrei potuto guadagnare quanto mi sarebbe occorso per arrivare a Sant'Antonio in treno. Accettai il job. Ci spostammo alla fattoria. Non c'era nessuno. Andammo nella stalla, dove trovammo mistress Lovejoy nello stallo numero 2, al posto della mucca, che non c'era. Mistress Lovejoy era stata sorpresa mentre esauriva una sua… necessità naturale. Non si confuse, si levò di scatto e le fui presentato come il marinaio francese “mister...” e lì per lì dovetti improvvisare il nome: “Louis Dupont”, dissi, rimediando a una manchevolezza nella preparazione della fuga, perché proprio al nome non avevo pensato.
Aiuto di Lovejoy. Il giorno seguente, dopo una bella dormita, andai in giro col padrone, profittando della domenica. Per miglia e miglia alla ricerca dei vitelli dispersi, montando un bellissimo cavallo di nome « Tex ». Non avevo mai cavalcato in vita mia, feci equilibrismi per non cadere e a sera, per scendere a terra, dovetti essere aiutato poiché le gambe mi si erano irrigidite e nelle natiche avevo due fiacche grosse così.
Lunedì: giorno di lavoro. Erpicatura del granoturco. Non sapevo nemmeno di dove si cominciasse. Comunque, riuscii a cavarmela, ma a sera avevo le fiacche sulle mani. Feci un po' di tutto e tutto male. Di primo mattino mungitura, ma riuscivo a strizzare soltanto poco latte, fortunatamente mi levava d'impaccio la buona mistress Lovejoy con un « I finish for you! ». Con l'autocarro andavo a far rifornimento di acqua, per un'ora facevo ruotare a mano la scrematrice il cui motore a benzina non funzionava più, poi dovevo raccogliere le uova. Meno male che nel pomeriggio riposavo in una specie di letto posto nel carrozzone mobile, mentre alla sera lavavo i piatti.
Rimasi con i Lovejoy più di due settimane, in una proprietà immensa, forse erano più di 10 miglia quadrate. Quando potevo giocavo con il piccolo Holmes, un bel bambino, e con la piccola e sorridente Kalin, che allora aveva appena dieci mesi e cominciava a sgambettare. E v'erano le belle ore prossime al tramonti, quando a cavallo — avevo ormai imparato bene — andavo a raccogliere le mucche che erano state lasciate libere dopo la mungitura e andavo a dar da mangiare ai porci.
Avrei potuto restare a lungo con i Lovejoy, avevamo fatto anche progetti a lungo termine: la casa nuova presso il wind-Mill, una stalla più grande; un piccolo corral, nuove culture, e altro ancora. Pensai che la cosa si faceva troppo seria, dissi che me ne sarei andato. I Lovejoy erano commossi, cercarono di trattenermi, poi, mi diedero i 20 dollari pattuiti, ma chissà cosa avrebbero dato per vedermi restare con loro.
Tatum, Lovington, Hobbs, raggiunsi queste cittadine sempre a piedi, di notte. Con un fortunato auto-stop arrivai nella bella cittadina di Carlsbad, e finalmente qui trovai un po' di verde dopo tanta terra bruciata. Pensavo di raggiungere Ciudad Jurez, nel Messico, quindi in ferrovia arrivare a Città del Messico.
Fra Carlsbad e Pecos, invece, l'avventura incredibile. Attendevo una automobile per proseguire. Arrivò una vettura militare. Era una vettura dell'aeronautica con a bordo un tenente bianco e un sergente negro. Mi fecero salire e fu il solito dialogo. Avevo un comprensibile timore raccontando la storiella del marinaio francese, invece tutto andò bene.
Arrivai a Pecos, mi fecero discendere in centro, proprio davanti a un poliziotto. Con la più grande faccia tosta di questo mondo finsi di niente, mi allontanai tranquillamente verso la periferia dove rimasi, seminascosto da qualche cespuglio, sino a sera. Non avevo potuto fare acquisti a Carlsbad, quindi dovevo fare rifornimenti qui. Al tramonto tornai nella cittadina per comperare miele, torte di mele in cellophane e qualche altra cosa. Uscito dallo store, mi avviai per lasciare la cittadina. Ma, ecco, sfilarmi di fianco una macchina nera con su la targa « U.S. Governement ». Pensai si trattasse di qualche autorità. Mi mancavano cento metri per raggiungere la curva dietro alla quale erano i campi. Alla curva, però, non arrivai mai. La macchina, appena superata la curva, era tornata in dietro. Mi si fermò davanti. Dentro c'erano due tipi vestiti in kaki, con in testa cappelli di tipo canadese. Sbirciai il dischetto che era sulla macchina e lessi « Border patrol ». Pensai che fosse finita. Comunque, tentai ancora. A quel che i due mi chiedevano, risposi raccontando la storia del marinaio francese. Per poco il colpo non riuscì. Il più anziano dei due che — lo seppi dopo — aveva fatto anche lui la prima guerra mondiale in Francia, era propenso a lasciarmi andare; l'altro, il più giovane, sosteneva che era meglio portarmi davanti all'Ispettore, poiché ero senza documenti.
Finii davanti all'Ispettore, che ascoltò il mio racconto, mi chiese altre notizie, poi volle domandare istruzioni, via radio, al suo Comando di Alpine. La radio non funzionava bene. L'Ispettore insistette per sapere quand'ero sbarcato in America. Mi ero preparato bene la risposta e feci, sicuro: « Il 5. marzo 1944, a New Orleans, dalla steam ship " Edison " ». Data e porto di sbarco erano reali, non lo era, invece, il nome del piroscafo poiché io ero in mani americane da alcuni mesi, provenendo dal Brasile con una nave carica di prigionieri di guerra naufraghi delle navi « Burgenland » e « Weserland ».
A questo punto tutti e quattro ci spostammo nel centro di Pecos, presso un'agenzia che aveva la trasmittente. Dopo due ore l'Ispettore mi tornò davanti furibondo, con i baffetti che gli tremavano dalla rabbia. « Non mi si prende in giro — mi urlò in faccia — la steam ship " Edison " è affondata nel 1941 ».
Era finita. Come avrei potuto sapere che la « Edison » era affondata? Raccontai la verità. Mi portarono in un officio della Military Police, dov'era una grande carta del Texas alla quale tutti alzarono gli occhi quando dissi che venivo dal campo di Hereford, che era su, su, presso Amarillo, al limite quasi della grande carta. Scossero la testa increduli pensando stessi raccontando un'altra storiella, come quella del marinaio francese.
Dopo un'altra ora di attesa vennero a dirmi che era vero, che ero fuggito da Hereford, dove avevano telefonato per avere conferma.
Mi trasportarono ad Alpine, al Comando della Border patrol. Mi permisero di dormire sul divano di un ufficio.
Mi svegliai al suono di tre voci femminili. Erano le impiegate della polizia venute a curiosare. Una bionda incendiaria mi chiese se erano belle le donne di « Fogghia », dov'era il suo boy, naturalmente dissi che erano le più belle ragazze del mondo. Colazione abbondante e quindi mi trasferirono nella prigione comune, insieme con un vero nugolo di contrabbandieri messicani. Poco dopo mi portarono alla presenza dello sceriffo, che con molta gentilezza mi chiese il racconto della fuga e anche notizie della mia vita militare. Lo sceriffo era una persona compitissima e nutriva grande simpatia per l'Italia, perciò lo accontentai, e lui ne fu felice.
Ritornai in prigione e non trovai più le due apple-pie che vi avevo lasciato e che il capo del gruppetto di messicani s'era mangiate. Questo capo era una specie di guappo, certo Sandoval José Salazar di Montezuma, che mi spiegò il trattamento che lui e i suoi amici ricevevano dagli Americani, i quali propinavano loro persino delle pillole per provocarne la temporanea impotenza. Perché? Perché se eccitati facevano la rivoluzione, rompevano tutto quel che avevano sottomano e dalle finestre che davano sulla strada urlavano i più sconci epiteti alle ragazze che vi passavano sotto. Facemmo la prova dell'urlo per festeggiare l'amicizia e dovetti promettere che nella prossima fuga sarei passato dal loro paese, dove avrei avuto la più ampia ospitalità, infine mi sottrassero, senza che me ne accorgessi, le ultime lamette da barba.
Poi, mi trasferirono a Marfa. Era un campo della Military Police che in maggioranza raccoglieva soldati puniti per rifiuto d'obbedienza. Mi sequestrarono i pochi dollari che ancora avevo, mi dipinsero gli abiti con il « P W ». Mentre ero in cella, scopersi una botola sul soffitto. Aiutandomi col letto, messo in posizione verticale, provai la resistenza
della botola. Niente da fare, era sprangata dall'esterno.
Dopo due giorni venne a riprendermi il sergente Garcia, un sottufficiale di origine cubana che era nel campo di Hereford. In treno, sia passando da EI Paso sia in altre soste, ebbi più di una occasione per scappare, ma ero troppo stanco, troppo individuabile con quei « P W » giganteschi che portavo addosso, e poi ero senza un dollaro.
A Hereford, il colonnello Carlwolth, mi interrogò gentilmente. Soprattutto ci teneva a sapere come avevo fatto a scappare. In Italia ero campione di salto con l'asta — dissi — e con uno zompo ho scavalcato i reticolati!.. Il col. Carlwolth non seppe niente altro, non seppe nemmeno dell'ospitalità presso i Lovejoy. Scontai la fuga con 15 giorni di pane e acqua in cella isolata e altri 15 senza isolamento.
Rientrato in Italia, nel 1946, scrissi ai Lovejoy confessando che io non ero il marinaio che loro credevano, ma un prigioniero italiano di quelli che gli Americani chiamavano fascisti ed allora ero in fuga dal campo di Hereford. Non ho mai avuto risposta. Scriverò di nuovo, sperando che siano ancora a Milnesand. Vorrei tanto sapere qualcosa di Holmes, che si era affezionato a me e che ora dovrebbe avere 25 anni".
 
William Holmes Lovejoy, il bambino conosciuto da Montalbetti, è morto nel 2011 all’età di 71 anni, dopo una vita trascorsa nel ranch di famiglia a Milnesand, lo stesso dove lavorò Montalbetti durante la fuga.
 
R. Smg. Luigi Torelli, su Regia Marina Italiana

4 commenti:

  1. Incredibile , quanto coraggio, determinazione , eroismo , amor di patria, purtroppo dimenticati o non adeguatamente considerati.

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  2. Sarebbe bello conoscere meglio il motivo per il quale i marinai furono degradati e privati della pensione... Ma immagino non avessero una falce e martello sulla propria uniforme

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  3. Il sergente nocchiero morto si chiamava Fiovo Pallucchini (non Flavio)

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  4. Buongiorno,
    sono figlio di uno dei sopravvissuti, che era imbarcato sul Torelli durante le missioni da Lei fedelmente descritte. Si tratta di uno di quei marinai rientrati a Napoli nel febbraio 46, dopo l'ultima fase di prigionia ad Honolulu.
    Il mio papà mi ha raccontato a più riprese i fatti da Lei descritti, ogni volta con difficoltà per il dolore che gli procuravano certi ricordi. Quando lui è mancato mi sono reso conto di aver commesso un grave errore a non raccogliere in un diario questi racconti di vita Può quindi immaginare quanto io le sia grato di averlo fatto.

    GRAZIE !

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