L’Aussa nei primi anni Trenta (g.c. Mauro Millefiorini via www.naviearmatori.net) |
Piroscafo da carico
di 5441 tsl e 3426 tsn, lungo 123,20 metri, largo 16,40 e pescante 9,00, con
velocità 11,5 nodi. Appartenente alla Società Anonima di Navigazione Italia,
con sede a Genova, ed iscritto con matricola 111 al Compartimento Marittimo di
Trieste.
Breve e parziale cronologia.
Giugno 1921
Completato dal
Cantiere San Rocco di Trieste (numero di costruzione 56) per la Navigazione
Libera Triestina Società Anonima, con sede a Trieste.
Fa parte di un gruppo
di 19 navi di diversa tipologia e dimensione, ordinate dalla Navigazione Libera
Triestina nei primi anni Venti, a seguito dell’ottenimento di finanziamenti
previsti da una legge del 1919 a sostegno della Marina Mercantile. Stazza lorda
e netta originarie sono 5734 tsl e 3528 tsn.
Impiegato in
prevalenza sulle rotte per il Nord America.
1923-1925
Noleggiato al Lloyd Triestino, durante un periodo di crisi della Navigazione
Libera Triestina.
Novembre-Dicembre 1935
In seguito allo
scoppio della guerra d’Etiopia, l’Aussa
ed un altro piroscafo, il Bainsizza,
trasportano in Africa Orientale 41 aerei da ricognizione Caproni Ca. 111 R.C.
1936 o 1937
Trasferito alla
Italia Società Anonima di Navigazione, in seguito alla ristrutturazione della
Finmare, che ha appena assorbito la Navigazione Libera Triestina.
L’Aussa viene rimorchiato ad Hoboken dopo la cattura, il 4 marzo 1941 (Alan B. Deitsch via catalogs.marinersmuseum.com) |
Da New York all’Artico
Quando
l’Italia entrò nella seconda guerra mondiale, il 10 giugno 1940, l’Aussa (al comando del capitano di lungo
corso Erminio Scaleggeri) era uno degli oltre 200 mercantili italiani che la
dichiarazione di guerra sorprese al di fuori del Mediterraneo: in quel momento,
infatti, il piroscafo era a New York, nei neutrali Stati Uniti.
Non
vi era, naturalmente, alcuna possibilità di rientrare in Italia, pertanto all’Aussa non rimase altro da fare che restare
a New York e farvisi internare, quale nave mercantile di Paese belligerante in
un porto neutrale. Non era il solo bastimento italiano a trovarsi così bloccato
nel porto della Grande Mela: insieme all’Aussa,
infatti, vennero internati a New York altri tre piroscafi da carico, Arsa, Alberta e San Leonardo,
ed una nave cisterna, la Brennero
(quest’ultima apparteneva alla Regia Marina, ma era armata con personale civile
e data in gestione alla Cooperativa Garibaldi di Genova).
Per
alcuni mesi non avvenne nulla che fosse degno di nota; l’Aussa rimase fermo ed ormeggiato a Port Newark, in condizioni di
virtuale disarmo. Non si verificarono eventi di rilievo, se non una causa
contro la Società Italia, intentata in tribunale dalla Asiatic Petroleum
Corporation, che nel maggio 1940 aveva rifornito di carburante l’Aussa (che in quel momento si trovava a
New York e si stava preparando al viaggio di ritorno in Italia, che poi non
poté avere luogo), il piroscafo Belvedere
(che si trovava a Philadelphia) ed altri due piroscafi rimasti poi bloccati nel
New Jersey, Arsa ed Alberta, per un costo complessivo di 137.000
dollari. L’Asiatic Petroleum Company era una compagnia britannica, e la
dichiarazione di guerra che vide i due Paesi diventare nemici impedì il
pagamento del prezzo pattuito da parte della Società Italia, pagamento che già
era in ritardo di parecchi giorni (già il 31 maggio, dieci giorni prima della
dichiarazione di guerra, l’Asiatic Petroleum Company aveva sollecitato il
pagamento da parte della Società Italia). La società britannica richiese il
pignoramento di Aussa, Arsa ed Alberta per recuperare la somma del mancato pagamento, ma la
richiesta venne respinta dalla corte d’appello del New Jersey, dato che il
pagamento era stato impedito dallo stato di guerra sopravvenuto (la legge
italiana, essendo il Regno Unito divenuto un Paese nemico, impediva alla
Società Italia di pagare il fornitore del carburante) e che il contratto di
fornitura del carburante era stato stipulato tra cittadini italiani e cittadini
britannici, con pagamento da effettuarsi a Londra, pertanto al di fuori della
giurisdizione dei tribunali statunitensi.
Null’altro
accadde fino al 30 marzo 1941, quando, benché gli Stati Uniti fossero ancora
neutrali, le autorità statunitensi ordinarono la confisca di tutte le navi di
Paesi membri dell’Asse (od ad essa assoggettati, come la Danimarca) che si
trovavano nei porti degli Stati Uniti. Si trattò del primo caso di uso della
forza militare da parte statunitense nella seconda guerra mondiale; complessivamente
vennero catturate 296.615 tsl di naviglio, tra navi italiane (28), tedesche
(due) e danesi (35).
Il
pretesto per quest’azione fu che gli equipaggi italiani e tedeschi avessero
iniziato a sabotare le loro navi, e che l’intervento militare statunitense
fosse necessario per fermarli, in esecuzione delle norme dell’Espionage Act del
1917.
In
effetti gli equipaggi delle navi dell’Asse avevano davvero iniziato a sabotare
le loro navi, ma non senza motivo: obbedivano ad una direttiva impartita
dall’ammiraglio Alberto Lais, addetto navale italiano a Washington, che già nel
gennaio 1941 era venuto a conoscenza dei piani statunitensi per impadronirsi
dei mercantili italiani presenti nei porti del Paese ed utilizzarli, con
bandiera statunitense, per trasportare materiale bellico dall’America al Regno
Unito (od anche, secondo un’altra versione, per consegnarli al Regno Unito, che
aveva disperatamente bisogno di navi mercantili, visto il crescendo delle
perdite inflitte dagli U-Boote tedeschi). All’inizio del marzo 1941, durante
una riunione indetta da Ascanio Colonna, ambasciatore italiano negli USA, l’ammiraglio
Lais aveva esposto le intenzioni del Dipartimento della Difesa statunitense
circa il naviglio italiano. Dopo aver ottenuto le necessarie autorizzazioni da
Roma, Lais aveva studiato un piano per rendere le navi inutilizzabili (per un
lungo periodo di tempo) prima della cattura, senza che le autorità statunitensi
se ne accorgessero; il lavoro di distruzione si sarebbe concentrato
esclusivamente sugli apparati motori, da rendere inservibili nel modo più
silenzioso possibile (quindi rinunciando all’uso di esplosivi), mediante la
fiamma ossidrica. Gli ordini precisavano che le navi non dovevano in alcun caso
essere incendiate od affondate, per evitare di recare danno alle strutture
portuali od ai cittadini statunitensi, non essendovi uno stato di guerra tra le
due nazioni: l’opera di distruzione doveva essere esclusivamente “interna”.
L’Aussa seguì la sorte delle altre navi
italiane presenti nei porti statunitensi: il 30 marzo 1941 personale armato
della Guardia Costiera statunitense salì a bordo del piroscafo, ormeggiato a
Port Newark, e ne assunse il controllo; l’equipaggio venne sbarcato ed
internato, e la nave venne presidiata da sentinelle armate della U. S. Coast
Guard. Prima che la nave venisse catturata, tuttavia, l’equipaggio era riuscito
a sabotarne l’apparato motore, mettendolo fuori uso per lungo tempo.
Qualche
giorno dopo, il 3 aprile, l’Aussa
venne rimorchiato dal suo precedente ormeggio di Port Newark ad Hoboken, sul
fiume Hudson.
Gli
equipaggi di 26 dei 28 mercantili italiani catturati riuscirono ad eseguire gli
ordini dell’ammiraglio Lais, sabotando le loro navi per evitare che cadessero
intatte in mano statunitense: tutti e 26 i bastimenti sabotati, infatti,
richiesero lunghi lavori di riparazione in cantiere prima di poter tornare in
efficienza. Un articolo del "New York Times" dell’11 febbraio 1942
menzionò che molte delle navi catturate erano state sabotate tanto abilmente
che era stato impossibile scoprire la vera entità dei danni inflitti fino a
quando non erano uscite una prima volta in mare aperto («many of the seized German and Italian ships were so deftly sabotaged
that it was impossible to discover all of the damage until they took a pounding
at sea»).
I
rappresentanti diplomatici della Germania e dell’Italia inviarono
immediatamente lettere di protesta al segretario di Stato americano Cordell
Hull, denunciando l’illegalità della cattura delle navi, e pretendendo il loro
rilascio; tali istanze vennero però respinte. Da parte statunitense si sostenne
che il sabotaggio delle navi avesse messo in pericolo la sicurezza dei porti
americani e la libertà di navigazione, e che pertanto la confisca fosse stata
necessaria e giustificata dall’Espionage Act; inoltre, il sabotaggio di una
nave da parte del suo equipaggio nelle acque degli Stati Uniti era considerato
reato dalla legge statunitense, pertanto – secondo il punto di vista americano
– non vi sarebbe stata alcuna illegalità nel confiscarle, ed anzi sarebbe stato
preciso dovere delle autorità statunitensi impedire che gli equipaggi potessero
recare ai bastimenti ulteriore danno.
L’ammiraglio
Lais, ritenuto – a ragione – responsabile di aver ordinato il sabotaggio, venne
dichiarato persona non gradita ed immediatamente espulso dagli Stati Uniti. Al
momento di lasciare l’America, Lais lamentò l’utilizzo della parola
“sabotaggio” da parte della stampa statunitense, ribadì (come dichiarato da uno
dei comandanti) che le navi erano state sabotate per evitare che venissero
usate per trasportare nel Regno Unito bombe destinate ad essere usate contro
l’Italia, e dichiarò che i comandanti dei bastimenti italiani avevano
«semplicemente seguito quel giuramento di onore e dovere scritto nel 1813 sulla
bandiera del vostro valoroso commodoro Perry con le splendide parole “Non
abbandonare la nave”».
Per
aver messo fuori uso la propria nave, il comandante Erminio Scaleggeri ed altri
nove membri dell’equipaggio dell’Aussa
vennero messi sotto processo dalla corte federale di Newark, con l’accusa di
sabotaggio. Homer L. Loomis, avvocato difensore dei marittimi italiani, ammise
il danneggiamento ma spiegò che il sabotaggio era stato attuato per evitare che
la nave potesse essere trasferita in mani britanniche, e chiese l’assoluzione
degli imputati, sostenendo che l’accusa di sabotaggio non potesse aver
fondamento, dato che l’Italia non era in guerra contro gli Stati Uniti. Nessuno
dei marittimi dell’Aussa venne
chiamato al banco dei testimoni; il procuratore Thorn Lord lesse una
dichiarazione scritta sotto giuramento dal capitano Scaleggeri, nella quale si
dichiarava che l’ordine di distruggere l’apparato motore e due caldaie dell’Aussa era stato impartito
dall’ammiraglio Lais, con un messaggio in codice.
Il
processo durò appena due giorni; il 19 giugno 1941, dopo una riunione per
deliberazione durata cinque ore e 40 minuti, la corte presieduta dal giudice
William F. Smith li giudicò tutti colpevoli, condannandoli a pene detentive
(fino ad un massimo di 20 anni di carcere, anche se le pene poi effettivamente
comminate non superarono i tre anni), da scontare in un penitenziario. Su
richiesta di Lord, Smith respinse invece le accuse contro Rinaldo Negri,
sovrintendente della società Italia, che era stato a sua volta accusato di
corresponsabilità nel sabotaggio.
Quando
il giudice Smith si alzò dal suo seggio dopo aver pronunciato il verdetto, gli
uomini dell’Aussa, secondo quanto
riportarono i giornali statunitensi dell’epoca, «batterono i tacchi e
scambiarono il saluto romano con Italo Verando», funzionario della società
Italia (direttore generale, secondo uno degli articoli), scatenando le proteste
dei presenti nell’aula; lo sceriffo William Brady redarguì subito Verando per
"una simile condotta in un’aula di giustizia americana", e l’avvocato
difensore Loomis rispose "Sono un cittadino americano e questa corte non è
in seduta. Posso salutare come diavolo mi pare", dopo di che alzò il
braccio e disse a Brady "Lo farò quante volte vorrò. Conosco i miei diritti".
Mentre
venivano condotti fuori dal tribunale, Verando incitò i marittimi dell’Aussa, che «eruppero in esternazioni
patriottiche e saluti fascisti in omaggio a Mussolini»; i passanti risposero
urlando e fischiando, ed i funzionari della corte dovettero affrettarsi ad intervenire
prima che la situazione degenerasse in un tumulto. Un altro giornale precisò
che mentre i condannati venivano condotti fuori dell’aula, Verrando fece il
saluto romano e tutti i marittimi risposero, tranne il comandante Scaleggeri.
Mentre
i dieci uomini condannati per sabotaggio venivano imprigionati in carceri del
tipo “reformatory”, il resto dell’equipaggio dell’Aussa venne internato inizialmente a Petersburg, in Virginia. Qui i
marittimi ricevettero la visita, nel maggio 1942, del delegato apostolico negli
USA, il quale celebrò una messa, amministrò la cresima ad alcuni degli
internati e distribuì loro doni a nome del Papa; i marittimi chiesero di far
sapere alle loro famiglie che, nonostante il loro status di internati, si
trovavano in buone condizioni generali e di salute, e che mandavano affettuosi
saluti ai loro cari.
Successivamente,
la totalità dei marittimi internati vennero inviati a Fort Missoula, nel
Montana, una installazione militare che nel 1941 era stata trasferita sotto il
controllo del Dipartimento Immigrazione e Naturalizzazione (Department of
Immigration and Naturalization) degli Stati Uniti per essere impiegato come
centro detenzione per stranieri (Alien Detention Center). Il campo
d’internamento di Fort Missoula era specificamente dedicato all’internamento di
civili italiani; furono complessivamente 1200 i cittadini italiani internati a
Fort Missoula nel corso della guerra, in massima parte marittimi delle 28 navi
confiscate nel marzo 1941 (ma anche operai che avevano lavorato al padiglione
italiano dell’Esposizione universale di New York del 1939-1940 e non erano
potuti rientrare in Italia, nonché altri cittadini italiani che si trovavano
negli Stati Uniti). Un documento datato 31 maggio 1941 elenca i nominativi di
26 marittimi italiani, provenienti da varie navi sequestrate a fine marzo,
consegnati due giorni prima a Jersey City all’ispettore E. M. Kline per essere
trasferiti a Fort Missoula: tra di essi figuravano anche tre ex membri
dell’equipaggio dell’Aussa (Vittorio
Doerfler, di 37 anni; Cesare Patti, di 29 anni; Alberto Bisagno, di 36 anni).
La
delegazione pontificia a Washington, ed in particolare monsignor Egidio
Vagnozzi, intercedettero nel frattempo presso le autorità statunitensi affinché
anche i marittimi condannati ed incarcerati per sabotaggio (326,
complessivamente) potessero essere trasferiti a Fort Missoula (dove le
condizioni erano nettamente migliori rispetto alle carceri), dove già si
trovavano i loro colleghi non condannati, come semplici internati anziché detenuti;
tali sforzi ebbero infine successo, e tra luglio 1942 e gennaio 1943 anche i
marittimi incarcerati raggiunsero Fort Missoula (il primo gruppo di 12 arrivò
nel campo il 20 luglio 1942, altri 7 il 26 settembre, 182 il 5 ottobre 1942 ed
i restanti 125 tra la fine del 1942 e l’inizio del 1943).
Troppo
tardi, putroppo, per il comandante dell’Aussa,
capitano di lungo corso Erminio Scaleggeri: era morto in carcere il 19 aprile
1942.
Una
relazione del comitato internazionale della Croce Rossa, alcuni membri del
quale visitarono il campo tra il 28 ed il 30 ottobre 1942, così descriveva le
condizioni di vita a Fort Missoula: nel campo, situato a circa 1000 metri
s.l.m. in una vallata la cui produzione agricola ed industriale consisteva
principalmente nello zucchero, erano internati complessivamente 1143 italiani e
29 giapponesi; fiduciario era il capitano Paolo Saglietto. Gli internati erano
alloggiati in baracche di legno dotate di impianti di riscaldamento, acqua
corrente sia calda che fredda, stanze con uno o due letti per gli ufficiali e
spaziosi dormitori per la “bassa forza”, nonché stanze di soggiorno ben areate
ed impianti igienici in ottime condizioni. Le baracche occupavano uno spazio di
circa un chilometro, recintato con filo di ferro.
Fuori
dal recinto sorgeva un moderno edificio adibito ad ospedale, con stanze per i degenti da 12 letti
ciascuna, una sezione d’isolamento, una sala chirurgica ed un gabinetto
dentistico; ai malati era fornito lo stesso vitto del dottore e degli impiegati
statunitensi del campo. L’ospedale era diretto da un medico statunitense,
assistito da due infermieri e da un medico italiano; due volte a settimana,
inoltre, un dentista faceva visita al campo, operando gratuitamente sugli
internati che ne abbisognavano, grazie ad un contratto stipulato con la
direzione del campo. Nelle cucine del campo, che occupavano un altro grande
edifico in legno, lavoravano un cuoco italiano e 20 tra aiuto cuochi,
inservienti e camerieri scelti tra gli internati che, a bordo delle navi,
facevano parte del personale di cucina e di camera; la mensa equipaggi
conteneva otto ordini di tavoli, e gli internati andavano a ritirare i piatti
da un bancone che separava tale locale dalla cucina. Per gli ufficiali, invece,
c’era una mensa a parte, più piccola, ed erano serviti dai camerieri di bordo.
Le provviste fornite, per dichiarazione unanime degli internati, erano di
ottima qualità, con razioni giornaliere uguali a quelle fornite ai militari
statunitensi. Anche la fornitura di abiti e calzature era adeguata, mentre
destava parecchie lamentele il servizio postale: nell’ottobre 1942 628
internati non avevano ricevuto alcuna lettera dall’Italia da almeno tre mesi, e
parecchi di essi da tempi molto più lunghi (10, 12, anche 15 mesi).
Su
iniziativa del capitano Saglietto, all’interno del campo venne realizzata una
scuola che teneva corsi delle materie più svariate (alcune delle quali, per
ovvi motivi, di carattere marittimo): italiano, inglese, tedesco, spagnolo,
francese, matematica, navigazione, motori marini, legislazione marittima,
disegno e geometria. Complessivamente, 968 dei 1143 internati seguivano uno o
più corsi.
Due
volte a settimana venivano proiettati nel campo film di produzione
statunitense; con i mezzi messi a disposizione dal campo, inoltre, gli internati
formarono due orchestre ed un gruppo artistico di prosa. Un prete internato,
padre Bruno, celebrava la messa ogni domenica e si occupava dell’assistenza
religiosa.
I
servizi del campo includevano anche una grande lavanderia (disponibile
gratuitamente agli internati, dotata di apparecchi a vapore ed azionata da
motori elettrici), una biblioteca (con 4000 libri in italiano e diverse
centinaia di libri in inglese e francese), un campo di calcio realizzato dagli
internati, tavoli di ping pong ed una cantina-spaccio (in cui erano in vendita
a prezzi ragionevoli sigari, sigarette, articoli di cancelleria, oggetti di
toeletta, generi alimentari come formaggio e sardine ed altro ancora).
Gli
internati erano impiegati nel lavoro principalmente nelle aziende agricole
della zona di Missoula (coltivazione di barbabietole), divisi in gruppi di
20-50 internati per ogni fattoria (essendo ogni tenuta molto grande); altri
ancora vennero impiegati in industrie della zona o nella lotta contro gli
incendi boschivi. I contratti per l’impiego degli internati prevedevano un
regolare salario, in base alla legislazione statunitense. Internamente al
campo, attività fiorente era la realizzazione di modellini di navi: essi
venivano poi messi in vendita, ed i ricavi andavano per i 9/10 a chi li aveva
realizzati e per 1/10 ad un fondo comune.
Una
nota curiosa che emerge dal rapporto della Croce Rossa è che il 28 ottobre
1942, ventesimo anniversario della marcia su Roma, le autorità (statunitensi) del
campo non solo permisero agli internati di celebrare la ricorrenza (all’epoca
festività in Italia) decorando la sala delle feste con fasci e ritratti di
Vittorio Emanuele III e di Benito Mussolini, ma giunsero persino a fornire
delle camicie nere agli internati per i festeggiamenti (!).
I
delegati della C.R.I. interrogarono anche numerosi marittimi provenienti dalle
carceri federali e comunali, i quali dichiararono unanimemente che il
trattamento in prigione era stato pessimo; anche il cibo era scadente, e
bisognava pagare per averne di migliore.
I
marittimi italiani rimasero internati a Fort Missoula fino al 1944, quando
vennero rilasciati in seguito alla nuova situazione di co-belligeranza tra
Italia ed Alleati seguita all’armistizio di Cassibile.
Il
15 luglio 1941 l’Aussa venne formalmente
sequestrato dalle autorità statunitensi, ad Hoboken, in base all’Espionage Act
del 1917. L’ordine di formale confisca di questa e di molte altre navi italiane
era stato impartito dal segretario del Tesoro statunitense, Henry Morgenthau,
dopo che questi aveva ottenuto dal Dipartimento di Giustizia assicurazione che
vi fosse "probabile causa" per la confisca delle navi ed il loro
trasferimento agli Stati Uniti senza compensazione, stanti i sabotaggi commessi
dai loro equipaggi mentre i bastimenti si trovavano inattivi nei porti
statunitensi. L’11 luglio l’ambasciata britannica a Washington aveva annunciato
che il governo britannico avrebbe rinunciato ai suoi "diritti di
belligerante" e che non avrebbe sequestrato nessuna delle navi dell’Asse
requisite dagli Stati Uniti, in vista dell’impiego che questi bastimenti
avrebbero avuto.
Il
16 luglio le autorità statunitensi presentarono presso la corte distrettuale
del New Jersey una querela con la quale richiedevano che l’Aussa venisse confiscato in base alla sezione 3 del titolo 2 della
legge del 15 giuno 1917 (cioè l’Espionage Act), emendata dalla sezione 3b della
legge del 28 marzo 1940, indicando come causa della confisca "la
violazione di detta legge, vale a dire, il volontario danneggiamento e
distruzione della nave, e l’uso della nave come rifugio per persone che hanno
cospirato e si sono preparate a commettere reati cntro gli Stati Uniti".
L’8 agosto la società Italia rispose a sua volta con una querela, con la quale
riaffermava la sua proprietà dell’Aussa
ed il suo diritto di possesso del piroscafo, sollevando eccezioni in merito
alla regolarità della denuncia presentata dalle autorità statunitensi.
L’11
settembre 1941 (altra fonte parla dell’agosto 1941) la United States Maritime
Commission requisì "l'uso e la proprietà" dell'Aussa (che venne così ufficialmente trasferito al Governo
statunitense), in base alla legge del 6 giugno 1941, appositamente emanata per
consentire la requisizione e l’impiego delle navi dell’Asse sequestrate a fine
marzo, nonché in seguito all’ordine esecutivo 8771, emesso in base alla Public
Law 101. Il 14 ottobre 1941 la corte distrettuale riconobbe la validità della
requisizione ed il trasferimento della proprietà dell’Aussa alla US Maritime Commission – War Shipping Administration,
con sede a Washington, pur mantenendo "custodia giurisdizionale" del
bastimento per i fini della causa giudiziaria ancora in corso tra gli Stati
Uniti e la società Italia.
Il
piroscafo venne ribattezzato Africander
e registrato, per ragioni di "praticità", sotto bandiera panamense:
ciò perché l’Aussa, come molte delle
navi italiane catturate, era troppo anziano per poter essere immatricolato nei
registri navali statunitensi, che seguivano criteri alquanto stringenti. La
registrazione a Panama garantiva, ad esempio, norme meno restrittive in merito
agli equipaggi. All’Africander venne
assegnato il nominativo di chiamata radio HPXU.
Il
20 ottobre 1941 l’Africander venne
dato in gestione dalla War Shipping Administration alla Waterman Steamship
Company di Mobile, Alabama, che avrebbe dovuto impiegarlo secondo un accordo di
tipo «General Agency Agreement». Nel corso dei lavori di riparazione dei danni
provocati dal sabotaggio attuato dall’equipaggio nel marzo 1941, l’Africander venne anche dotato di un
armamento difensivo.
La
diatriba legale sulla proprietà dell’Aussa
si protrasse anche quando ormai la nave aveva cambiato nome ed aveva iniziato a
navigare per il nuovo armatore americano. L’11 dicembre 1941 venne formalizzato
lo stato di guerra (dichiarato all’indomani dell’attacco su Pearl Harbour) tra
Italia e Stati Uniti d’America, ed il 22 luglio 1942 l’autorità statunitense
per la custodia delle proprietà estere (Alien Property Custodian) dichiarò la
nave sotto sequestro, anche se in realtà il piroscafo era già stato sequestrato
un anno prima e navigava da mesi per conto degli Stati Uniti, in gestione alla
Waterman Lines e con bandiera panamense ed il suo nuovo nome. Sul piano
pratico, il provvedimento del 22 luglio 1942 non cambiò nulla per l’Africander.
La
società Italia era stata privata di ogni diritto riguardo al bastimento, senza
titolo ad alcuna compensazione, e nel 1943 la corte distrettuale del New Jersey
concluse che, stante i rivolgimenti frattanto verificatisi – la dichiarazione
di guerra tra i due Paesi e la confisca da parte dell’Alien Property Custodian
–, la disputa legale tra la Società Italia e gli Stati Uniti era ormai priva di
significato.
L’8
novembre 1941, terminati i lavori di riparazione, l’Africander lasciò New York alla volta di Boston, dove giunse
l’indomani; il 17 novembre ripartì da Boston diretto a Sydney (Nuova Scozia,
Canada; da non confondersi con il più famoso porto australiano dal medesimo
nome) dove si sarebbe dovuto unire al convoglio SC 57, composto da 33 navi, che
sarebbe dovuto partire per Liverpool il 28 novembre. Giunto a Sydney il 21
novembre, il piroscafo rimase tuttavia danneggiato, apparentemente a seguito
dell’urto accidentale contro un’ostruzione, e fu costretto a rinunciare alla
traversata, lasciando nuovamente Sydney il 26 e rientrando a Boston proprio il
28 novembre.
Riparati
i danni, il 31 gennaio 1941 l’Africander
salpò nuovamente da Boston e si trasferì ad Halifax, giungendovi il 2 gennaio
1942, per poi partire sei giorni più tardi con il convoglio HX. 169 (39 navi
mercantili e 16 navi scorta, al comando del capitano di fregata Walter W.
Webb), diretto a Liverpool. Ma la nave ex italiana sembrava perseguitata dalla
sfortuna: due giorni dopo la partenza, infatti, a causa della fitta nebbia, l’Africander entrò in collisione con un
altro mercantile del convoglio, l’olandese Palembang,
e dovette tornare in porto a rimorchio, arrivando a St. John’s il 13 gennaio.
Qui rimase fino al 23 febbraio, quando ripartì alla volta di Halifax,
arrivandovi il 26 febbraio e proseguendo l’indomani verso New York, dove giunse
il 1° marzo.
L’11
aprile 1942 l’Africander, al comando
del capitano norvegese Bjarne A. Lia, salpò da New York diretto ad Halifax
(dove giunse due giorni dopo), e da lì in Europa, dove si sarebbe dovuto unire
ad uno dei convogli che rifornivano l’Unione Sovietica passando nel Mar
Glaciale Artico. Lasciata Halifax il 23 aprile con il convoglio SC. 81 (68 navi
mercantili e 19 navi scorta), il piroscafo giunse sul Clyde il 9 maggio 1942,
ripartendone nove giorni dopo alla volta di Reykjavik, in Islanda, dove giunse
il 25 maggio insieme al convoglio UR. 25 (partito da Loch Ewe il 21 maggio con
19 mercantili e 5 navi scorta), dopo aver fatto scalo a Loch Ewe il 20. Qui
rimase ancorato fino al 3 agosto, quando gli venne ordinato di tornare sul
Clyde e poi di raggiungere Loch Ewe, in Scozia; si aggregò quindi al convoglio
RU. 34 (composto da 26 navi mercantili e 2 navi scorta), che lasciò Reykjavik
lo stesso 3 agosto e giunse a Loch Ewe cinque giorni dopo (ma l’Africander raggiunse invece il Clyde, da
dove ripartì il 22 agosto per Loch Ewe, che raggiunse il 24).
Il
2 settembre 1942 l’Africander, con a
bordo un carico di macchinari nelle stive, più 5 carri armati e 6 aerei sul
ponte, salpò da Loch Ewe facendo parte del convoglio britannico PQ. 18, diretto
ad Arcangelo (Arkhangelsk, Russia; per altra fonte Murmansk) con rifornimenti
per l’Unione Sovietica. Il PQ. 18 seguiva il disastroso convoglio PQ. 17, che
nel luglio precedente aveva subito la perdita di 24 navi mercantili su 35 che
lo componevano, un colpo così duro da indurre ad una temporanea sospensione dei
“convogli artici” verso la Russia (fu forse questo il motivo per cui, il 3
agosto, l’Africander ricevette
l’ordine di lasciare l’Islanda e tornare in Scozia).
Dato
che le gravi perdite subite dal PQ. 17 erano in gran parte ascrivibili alla
mancanza di copertura aerea, per questo convoglio i britannici aggregarono alla
scorta la nuova portaerei di scorta Avenger,
appena arrivata dagli Stati Uniti. Il convoglio consisteva di 40 navi
mercantili: 20 statunitensi, 11 britanniche, 6 sovietiche e 3 panamensi, più
quattro navi ausiliarie, due navi cisterna per rifornimento, una nave soccorso
ed una nave "CAM" (un mercantile dotato di catapulte per il lancio di
aerei da caccia). Le tre navi panamensi erano tutte ex italiane: oltre all’Africander, si trattava del White Clover, ex Monfiore, e del Macbeth,
ex Ida Z. O., entrambe navi italiane
confiscate dagli USA nel marzo 1941, come l’Aussa.
La
scorta diretta (caposcorta, capitano di fregata A. B. Russell) consisteva in
tre cacciatorpediniere, quattro corvette, due navi antiaeree, quattro
pescherecci armati antisommergibili e tre dragamine; il gruppo di supporto ravvicinato
consisteva invece nell’Avenger con i
suoi cacciatorpediniere di scorta, ed in un gruppo di 16 cacciatorpediniere di
squadra guidati dall’incrociatore Scylla
(contrammiraglio Robert Burnett). Da Murmansk sarebbero inoltre partiti per
rinforzare la scorta diretta quattro cacciatorpediniere e tre dragamine sovietici.
Per la copertura a distanza, nel caso di attacchi di superficie della
Kriegsmarnine, vi erano una forza di copertura pesante al comando del
viceammiraglio Bruce Fraser, con le corazzate Anson e Duke of York, un
incrociatore e sei cacciatorpediniere, ed una seconda forza di copertura al
comando dell’ammiraglio Bonham-Carter, con tre incrociatori più i relativi
cacciatorpediniere.
Il
convoglio PQ. 18 lasciò Loch Ewe il 2 settembre e venne raggiunto il 7
settembre dalla scorta ravvicinata, che sostituì la scorta locale che l’aveva
accompagnato nel primo tratto (cambiò anche la composizione del convoglio: si
unirono ad esso otto mercantili provenienti da Reykjavik, mentre tre di
mercantili di Loch Ewe lasciarono il convoglio per raggiungere la capitale islandese).
Il 9 settembre si unirono al convoglio i cacciatorpediniere di squadra
dell’ammiraglio Burnett e l’Avenger,
ma il giorno prima il PQ. 18 era stato avvistato da un primo ricognitore
tedesco; anche gli U-Boote (ne erano stati disposti in agguato dodici)
iniziarono a segnalare i primi contatti con il convoglio. Il 12 settembre la
scorta affondò uno dei sommergibili, l’U
88, ma il mattino seguente vennero affondati i primi due mercantili,
proprio dai sommergibili. Il 13 settembre il convoglio venne avvistato
nuovamente da un ricognitore tedesco partito da Banak (Norvegia). Un primo
attacco aereo, con bombardamento in picchiata da parte di bombardieri Junkers
Ju 88 del Kampfgeschwader 30 (tenente Erich Bloedorn), risultò infruttuoso, ma
mentre i caccia Hawker Hurricane dell’Avenger
erano lontani dal convoglio, impegnati a mettere in fuga gli Ju 88, venne il
turno degli aerosiluranti: 38 velivoli (24 Heinkel He 111 del I/Kampfgeschwader
26 e 14 Ju 88 del III/Kampfgeschwader 26), che attaccarono sperimentando una
nuova tattica, il “Goldene Zange” (“pettine d’oro”), pensata specificamente per
l’attacco ai convogli grandi e lenti. Per primi attaccarono i 24 He 111 del
I/KG 26, decollati da Bardufoss e guidati dal maggiore Werner Klümper, in due
ondate che volavano basse per ritardare il rilevamento dai radar; subito dopo
venne la terza ondata, consistente nei 16 Ju 88 del III/KG 26 decollati da
Banak, guidati dal capitano Klaus Nocken. Gli aerosiluranti si avvicinarono al
convoglio volando in linea di fronte ed in formazione serrata, distanziati di
appena 30 metri l’uno dall’altro, e sganciarono i loro siluri simultaneamente,
da una distanza di circa 1000 metri, così formando un vero e proprio
“rastrello” di quasi ottanta siluri. Il capoconvoglio ordinò alle navi di
virare a sinistra, per assumere una rotta parallela a quella seguita dai siluri
(e così ridurre le probabilità che essi andassero a segno), ma nella confusione
del momento i bastimenti delle due colonne di dritta (cioè proprio il lato
attaccato) fraintesero l’ordine e proseguirono per la loro rotta; anche il tiro
contraereo venne iniziato in ritardo. Il risultato fu catastrofico: otto
mercantili, sei della colonna esterna di dritta e due della colonna interna di
dritta, vennero colpiti e affondati.
Tra
le navi affondate in questo attacco vi fu anche l’Africander, che all’interno del convoglio occupava la posizione
#94. Alle 15.50 del 13 settembre, infatti, due dei siluri sganciati – da una
quota di circa 45 metri – dagli He 111 del I/KG. 26 colpirono il piroscafo sul
lato di dritta, a poppavia della stiva numero 3, provocando un lento ma
inarrestabile appoppamento del bastimento.
Non
ci furono incendi, ma gli apparati di governo vennero messi fuori uso dagli
scoppi dei siluri, che lesionarono anche le paratie stagne; le macchine vennero
fermate immediatamente, e nel giro di pochi minuti l’Africander, abbandonato dall’equipaggio, affondò di poppa nel punto
76° N e 09°30’ E (nel Mare di Barents, al largo delle Isole Lofoten), una
sessantina (od una novantina) di miglia a ovest/sudovest di Spitsbergen e a
nordovest dell’Isola Bear.
Tutti
i 46 componenti dell’equipaggio dell’Africander
(35 marittimi civili di varie nazionalità e 11 militari statunitensi addetti
all’armamento di bordo) riuscirono a salvarsi: abbandonata la nave sulle
scialuppe, sotto mitragliamento da parte degli aerei tedeschi, vennero tratti
in salvo dalle unità della scorta e successivamente portati prima in Islanda e
poi in Scozia (durante il viaggio dall’Islanda alla Scozia sul cacciatorpediniere
HMS Milne, però, uno di essi, il
marinaio Vladimir Trushko, venne trascinato in mare da un’onda, scomparendo),
da dove vennero rimpatriati con il transatlantico Queen Mary, arrivando a Boston il 15 ottobre 1942.
Nel
medesimo attacco venne affondata anche un’altra delle navi ex italiane: il Macbeth (gli altri sei mercantili colati
a picco erano gli statunitensi John Penn,
Oregonian e Wacosta, i britannici Empire
Beaumont ed Empire Stevenson ed
il sovietico Sukhona).
Il
convoglio PQ. 18 proseguì per la propria rotta; nei giorni seguenti vi furono
altri attacchi aerei, ma nessuno ebbe altrettanto successo del “pettine d’oro”
del 13 settembre. Complessivamente il PQ. 18 perse 13 mercantili, ma l’arrivo a
destinazione di altri 28 fu considerato un successo dagli Alleati, specie dopo
la sorte del PQ. 17. Le perdite tedesche ammontarono a tre U-Boote affondati e
40 aerei abbattuti.
L’Aussa intorno al 1937 (g.c. Agenzia Bozzo – www.agenziabozzo.it) |
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