domenica 7 gennaio 2018

Manon

Il Manon (Coll. Staatsarchiv di Brema, via www.tynebuiltships.com)

Piroscafo da carico di 5597 (o 5642) tsl, lungo 127,74-128,1 metri, largo 16,78 e pescante 8,69, con velocità di 11 nodi. Appartenente alla Società Anonima Industrie Navali (INSA) di Genova, iscritto con matricola 1328 al Compartimento Marittimo di Genova, nominativo di chiamata ICIQ.

Breve e parziale cronologia.

5 marzo 1901
Varato nel cantiere Neptune Yard di Low Walker della Wigham Richardson & Sons Ltd. di Newcastle-upon-Tyne (numero di costruzione 374) come Wildenfels.
2 o 11 aprile 1901
Completato come Wildenfels per la compagnia tedesca Deutsche Dampfschifffahrts Gesellschaft Hansa, con sede a Brema. La costruzione è costata 81.828 sterline.
Caratteristiche originarie sono 5652 tsl, 3657 tsn, 8570 tpl; alle prove in mare è stata raggiunta la velocità di 11,4 nodi. Nominativo di chiamata QHFP.
Ha sei navi gemelle: Argenfels, Lichtenfels, Marienfels, Neidenfels, Scharzfels e Schönfels.

La nave sotto il nome di Wildenfels (Trove-National Library of Australia-via Flickr)

15 marzo 1905
Il Wildenfels, giunto a Boston proveniente da Calcutta (trovandosi anche a dover sfuggire a due navi da guerra russe durante la navigazione tra Port Arthur e Yokohama, dove infuria la guerra russo-giapponese) ed ormeggiato al Mystic Wharf, viene danneggiato da un incendio scoppiato nella stiva numero 2, contenente iuta. Occorrono tre ore di sforzi da parte di buona parte del locale dipartimento dei pompieri per estinguere le fiamme, che causano 50.000 dollari di danni al carico (il cui valore complessivo è stimato in 1.000.000 di dollari), deformando le piastre dello scafo e danneggiano le paratie che dividono alcuni compartimenti.
Maggio 1908
Mentre il Wildenfels sta trasbordando il suo carico sulla bettolina Rover, nel porto di New York, le merci caricate sulla bettolina finiscono in mare a causa del suo violento rollio. Ne seguirà un caso giudiziario.
29 gennaio 1911
Un nuovo incendio a bordo, sempre partito dalla stiva prodiera: questa volta la nave, partita da Calcutta il 2 dicembre con un carico di canapa ed in procinto di arrivare a New York, si trova nei pressi dell’isola dall’azzeccato nome di Fire Island, quando alle due di notte la mascotte di bordo, un grosso cane marrone dal nome di Bruin, sveglia alcuni membri dell’equipaggio col suo abbaiare, portando alla scoperta dell’incendio. Il Wildenfels chiede allora aiuto con un S.O.S., e due battelli antincendio accorrono prontamente in suo aiuto, riuscendo ad estinguere l’incendio dopo alcune ore.

Il Wildenfels a Sutherland Dock (Don Sheraman-Flickr)

23 febbraio 1914
Il Wildenfels, durante un viaggio da Amburgo a Calcutta con merci e passeggeri, soccorre i naufraghi del del piroscafo danese Ekliptika, naufragato in una tempesta nel Golfo di Biscaglia (in posizione 46°30’ N e 7°9’ O).
Quando il Wildenfels raggiunge l’Ekliptika, il piroscafo è ancora a galla, ma danneggiato e alla deriva; il piroscafo tedesco mette a mare delle lance per cercare di soccorrere l’equipaggio della nave danese, ma quest’ultima affonda prima, di prua. Scompaiono in mare 21 uomini, mentre il Wildenfels ne trae in salvo tredici, tra cui un passeggero ed il comandante; quest’ultimo, tuttavia, muore sul Wildenfels per le ferite riportate. Durante l’operazione di soccorso il Wildenfels lancia anche un S.O.S., che inizialmente viene scambiato per una richiesta di soccorso fatta dal Wildenfels perché esso stesso in pericolo.
19 agosto 1914
Il Wildenfels, sprovvisto di radio, arriva a Melbourne, provenendo da New York (via Capetown), senza sapere che intanto è scoppiata la prima guerra mondiale, e che Germania e Australia sono ora Paesi nemici: all’arrivo in porto, l’ignaro piroscafo viene sequestrato dalle autorità australiane.
Seguirà anche una controversia giudiziaria presso la Corte delle Prede di Melbourne (giudice Hood), in seguito alla denuncia della società statunitense che aveva noleggiato il Wildenfels per il suo viaggio da Melbourne a New York, e che vorrebbe che alla nave sia permesso di proseguire verso Sydney e Newcastle per scaricarvi le merci ivi destinate, anche sotto scorta o sorveglianza. La Corte non ha nulla da eccepire al riguardo, ma vi è incertezza sulla sua competenza giurisdizionale.
15 settembre 1914
Il Wildenfels lascia Melbourne per Sydney, battendo bandiera australiana.
1915
Requisito dalle autorità australiane, ribattezzato Gilgai (nominativo di chiamata JLBW) e trasferito al governo australiano, con la sigla C11 (secondo la nomenclatura assegnata dal Governo australiano alle navi acquisite durante il conflitto, la lettera indica la funzione svolta – "C" significa "Cargo" – mentre "11" sta ad indicare che si tratta dell’undicesima nave acquisita come preda di guerra) verniciata sulle murate, il piroscafo viene registrato a Londra, affidato alla Australian Government Line of Steamers (nota anche come Australian Commonwealth Line, creata durante la Grande Guerra per soddisfare alle necessità australiane e sopperire alla mancanza di naviglio necessario a trasportare il grano e la lana australiana acquistati dal Regno Unito), ed impiegato in guerra.
Il Gilgai viene utilizzato nel trasporto di merci oltremare per conto del Dipartimento della Marina australiana, alle cui dirette dipendenze viene posto. L’equipaggio è sottoposto a disciplina militare; la nave è armata con alcuni cannoni di piccolo calibro, e batte bandiera della Marina australiana, pur non facendone parte. Durante la guerra, quattro comandanti si avvicenderanno al suo comando: T. Moore; W. MacGowan; J. Buchanan; H.C.C. Mills.
Stazza lorda e netta registrate in questo periodo risultano essere 5512 tsl e 3536 tsn.

Il Gilgai sotto bandiera italiana, ben visibile la sigla C 11 (State Library of Victoria, via www.shipsnostalgia.com)

8 marzo 1915
Lascia Port Pirrie con un carico di minerale, che trasporta a Galveston (Stati Uniti) con scalo intermedio a Durban.
Nel viaggio di ritorno, trasporterà grano da Bahia Blanca.
Novembre 1915
Compie un viaggio dalla costa orientale australiana a Port Adelaide.
13 dicembre 1915
Il Gilgai, al comando del capitano McGowan, salpa da Port Adelaide diretto a Boston con un carico di 15.000 balle di cotone del valore complessivo di oltre 2.000.000 di dollari, 5000 tonnellate di zinco per Galveston, 143 balle di pelli di coniglio, 750 sacchi di gomma, 33 casse di cuoio, 131 sacchi di ossa, ed altre merci.
Febbraio 1916
Durante un viaggio da Port Adelaide a Boston, il Gilgai, in navigazione al largo di Dakar, sfugge per caso, senza nemmeno rendersene conto, alla “nave corsara” tedesca Möwe, che negli stessi giorni cattura ed affonda diversi mercantili britannici nelle stesse acque attraversate dal Gilgai. Durante la navigazione al largo di Bermuda, il Gilgai incrocia un piroscafo passeggeri illuminato, ed una seconda nave che, tenendosi a maggiore distanza, segue il piroscafo passeggeri e gli punta contro un proiettore. La nave passeggeri, che segue il Gilgai nella scia, dopo un po’ lo supera sulla dritta, a sole 2-3 miglia di distanza. Gli uomini del Gilgai non hanno la minima idea della presenza di navi ostili nei paraggi: solo dopo il loro arrivo in porto sapranno che la nave passeggeri era la britannica Appam, catturata dal Möwe, e che la nave con il proiettore era probabilmente proprio la “corsara” tedesca.

Il Gilgai durante la prima guerra mondiale, con colorazione mimetica (Gordy Ross via www.shipsnostalgia.com)

Maggio 1916
Compie un viaggio da New York a Port Adelaide.
Luglio 1916
Viaggio da Fremantle a Newcastle con un carico di carbone.
Agosto 1916
Salpa da Albany a fine mese con un carico di grano, diretto a Napoli.
29 ottobre 1916
Arriva a Napoli dopo aver fatto scalo a Durban, St. Vincent e Gibilterra.
1917
Impiegato nel trasporto di provviste dall’Australia all’Europa, carbone da Calcutta all’Australia (durante uno sciopero nel settore del carbone) e carta da New York e Botwood all’Australia.
Gennaio 1918
Viaggio dalla costa orientale australiana a Port Adelaide.
1° maggio 1918
Trasferito alla Commonwealth Government Line (altra fonte: Australian Commonwealth Line of Steamers), con sede a Londra. (Diverse altre fonti datano questo trasferimento come avvenuto nel 1923).
Maggio 1918
Il Gilgai trasporta in Australia, insieme ad altro materiale, due biplani CFS21-CFS28 Airco D.H.6 destinati alla Central Flying School di Point Cook (Victoria).

Un’altra foto del Gilgai durante la Grande Guerra (g.c. Mauro Millefiorini, via www.naviearmatori.net)

13 marzo 1920
Poco prima delle cinque del mattino il Gilgai (al comando del capitano F. W. Hutchence), in navigazione dal Texas a Melbourne (da dove poi dovrà proseguire per Adelaide e Fremantle) con un grosso carico di petrolio e cherosene, s’incaglia per via della nebbia su un banco di sabbia un paio di miglia ad ovest dal faro di Point Lonsdale (Australia). Provenendo da Sydney, la nave non nota l’ingresso della baia di Port Phillip e non sente la sirena di Point Lonsdale che suona continuamente per segnalare il pericolo; non rendendosi conto, a causa della fitta nebbia, di quanto la riva sia vicina (appena ¾ di miglio), il Gilgai va ad arenarsi sull’unica striscia di sabbia affiorante della zona.
Il bastimento non subisce comunque danni di rilievo nell’incaglio (rimane anche in assetto, senza sbandare), pur essendosi arenato nella sabbia per circa metà nave (dalla prua a centro nave). Quando la nebbia si dissolve, nella tarda mattinata, il comandante Hutchence fa segnali al faro di Point Lonsdale, chiedendo l’invio di rimorchiatori; la richiesta viene trasmessa a Melbourne, da dove escono i rimorchiatori James Paterson e Racer, cui se ne aggiunge poi un terzo, lo Sprightly. Il Dipartimento della Marina australiana invia sul posto anche il cacciatorpediniere HMAS Yarra.
Verso le 10 il piroscafo pilota Victoria trasborda sul Gilgai il pilota Paterson, che supervisiona le operazioni di disincaglio; è il Victoria, teso un cavo di rimorchio dalla poppa del Gilgai, a disincagliare il piroscafo verso le tre del pomeriggio, con l’aiuto dell’alta marea frattanto alzatasi.
Una volta disincagliato, il Gilgai viene portato a Williamstown.
Maggio 1920
Viaggio da Fremantle a Port Adelaide.
20 dicembre 1920
Il Gilgai soccorre al largo di Sydney il piroscafo italiano Monte Bianco, il quale, durante un viaggio da Genova a Newcastle, è stato spinto fuori rotta da una tempesta ed ha esaurito tutti i viveri (di cui già vi era scarsità, avendone potuti imbarcare solo in ridotta quantità a Genova, per via della tumultuosa situazione della città nel periodo del Biennio Rosso) da cinque giorni. Il Gilgai incontra il Monte Bianco in posizione 38°30’ S e 62°15’ E; la vedetta del piroscafo australiano nota che la nave italiana sta cercando di ridurre le distanze, e quando ciò è avvenuto il Monte Bianco segnala con le bandiere "Mi servono provviste". Il Gilgai trasferisce al Monte Bianco viveri per 60 giorni, dopo di che la nave italiana riprende la navigazione verso Sydney.

Un’altra immagine del Gilgai (da www.flotilla-australia.com)

29 dicembre 1920
Il Gilgai subisce un’avaria all’apparato motore a Fremantle.
Marzo 1923
Durante un viaggio da Aberdeen a Melbourne, il Gilgai incappa in una violenta tempesta (definita dal comandante la peggiore da lui vista in sedici anni) nel Golfo di Biscaglia. Al largo di Lisbona il mare danneggia il timone, costringendo la nave a sostare nella capitale portoghese, dove giunge il 1° marzo, per ripararlo.
1925
Acquistato dall’armatore Accame Emanuele & Figli (Salvatore & Emanuele F. lli Accame) di Genova (ma da un articolo dell’"Otago Times" del luglio 1925, l’acquirente risulterebbe invece essere la Società Anonima di Navigazione La Serenissima, di Genova) per un prezzo di 16.500 sterline, viene ribattezzato Sursum Corda, con bandiera italiana.
Dopo la vendita, l’equipaggio australiano rientra in Australia sul piroscafo Barrnbool.

La nave sotto il nome di Sursum Corda (Gerhard Fiebiger via www.tynebuiltships.com)

1° settembre 1926
Sei membri dell’equipaggio del Sursum Corda disertano a Louisburg durante una sosta della nave per rifornimento di carbone. Subito arrestati dalle autorità locali, vengono rinchiusi nella locale prigione fino al momento della partenza del piroscafo; a questo punto vengono fatti reimbarcare, ma cercano di opporsi con la forza e si rende necessario l’intervento di tre commissari per costringerli a tornare a bordo.
21 ottobre 1935
Il Sursum Corda, approdato a Mombasa (nella colonia britannica del Kenya) per caricarvi 1000 tonnellate di carbone, si vede negare il permesso di imbarcarlo in base alle disposizioni delle autorità britanniche ed alle regole internazionali sulla neutralità: l’Italia, infatti, sta combattendo la guerra d’Etiopia. In base alle norme sulla neutralità, le autorità del Kenya britannico permettono al Sursum Corda d’imbarcare solo 125 tonnellate di carbone, lo stretto necessario per raggiunger la Somalia italiana, e gli ingiungono di ripartire entro ventiquattr’ore.
1937
Acquistato dalla Società Anonima Industrie Navali (INSA) dell’armatore Giovanni Gavarone, con sede a Genova. Gavarone, appassionato di teatro lirico, battezza tutte le sue navi con nomi di opere liriche: il Sursum Corda cambia così nome in Manon (da “Manon Lescaut” di Puccini).
 
Il Manon con i colori dell’INSA di Gavarone (g.c. Mauro Millefiorini via www.naviearmatori.net)

Chisimaio

Chisimaio, in somalo Kismaayo, è la città principale dell’Oltregiuba, la regione più sudoccidentale della Somalia, confinante con il Kenya. Nel 1940, questa città rappresentava il terzo centro della Somalia italiana per importanza economica e sociale: insieme a quello di Mogadiscio, il suo era il porto principale della colonia, oltre che la sede dell’unica, ancorché modesta, base navale italiana in Somalia. Qui aveva sede il Comando della Marina in Somalia, retto dal capitano di vascello Fucci.
Non sorprende quindi se fu a Chisimaio che si radunarono tutte le navi mercantili italiane che l’ingresso dell’Italia nel secondo conflitto mondiale, il 10 giugno 1940, sorprese in Somalia o nei mari vicini.
All’atto della dichiarazione di guerra, si trovavano a Chisimaio cinque navi mercantili italiane e tre tedesche (i piroscafi Uckermark, Ascari e Tannenfels, oltre al rimorchiatore Kionga), queste ultime bloccate in Somalia fin dal 1939; ad esse si aggiunsero in seguito altre quattro navi da carico e due petroliere (Marghera e Pensilvania), sorprese dallo scoppio della guerra in alto mare e che avevano trovato in Chisimaio il rifugio più vicino.
Tra le navi bloccate o riparate a Chisimaio vi era anche il Manon; gli altri bastimenti che trovarono rifugio nel porto somalo, oltre a quelli già nominati, erano i piroscafi misti Adria e Somalia, i piroscafi da carico Carso, Integritas, Savoia ed Erminia Mazzella, la motonave da carico Duca degli Abruzzi ed il piroscafo passeggeri Leonardo Da Vinci.
Tutte e quattordici le navi avevano a bordo considerevoli carichi di merci di valore; essendo evidente che non avrebbero potuto trasportarli da nessuna parte (la Marina britannica controllava gli oceani, e la terra amica più vicina distava migliaia di miglia), il Comando Marina di Chisimaio diede ordine di sbarcare ed immagazzinare a terra le merci di maggior interesse militare e quelle più deperibili.
Essendo i bastimenti costretti ad un periodo indefinibile di forzata immobilità nel porto somalo, anche la presenza a bordo del grosso degli equipaggi risultava superflua; di conseguenza, venne deciso di mantenere a bordo solo i marittimi indispensabili per la custodia, mentre il resto del personale venne sbarcato ed adibito ad incarichi a terra, di natura sia civile che militare.
Pur nella loro immobilità, i mercantili poterono svolgere un ruolo utile almeno nel decentramento delle riserve di nafta disponibili a Chisimaio. I serbatoi principali della base, tre per complessive 15.000 tonnellate di capienza, si trovavano tutti sull’isola dei Serpenti (la maggiore dell’arcipelago delle Isole Giuba o Bajuni, oggi unita alla terraferma), antistante il porto; nel timore che un unico attacco aereo ben centrato potesse distruggere tutte le riserve di carburante, si decise di travasare parte di quella nafta nei serbatoi dei mercantili all’ormeggio, in modo da disperderla e ridurre i danni che una singola incursione aerea avrebbe potuto causare.

I mesi che seguirono furono piuttosto monotoni. Tre giorni dopo l’entrata in guerra, il 13 giugno 1940, Chisimaio subì il suo primo bombardamento aereo: alcuni bombardieri Bristol Blenheim attaccarono la base volando a bassa quota, ma l’immediata reazione delle batterie contraeree li costrinse ad allontanarsi e sganciare le bombe lontano da obiettivi d’interesse militare. Questa incursione fu seguita da moltissime altre, con notevole frequenza, negli otto mesi che intercorsero tra l’inizio della guerra e la caduta della Somalia; ma le difese contraeree della base reagirono sempre efficacemente, e gli aerei attaccanti furono sempre costretti a tenersi a distanza, senza mai riuscire a causare danni (difatti, nessuna delle 14 navi ormeggiate a Chisimaio in quel periodo fu mai colpita da aerei).
Alle incursioni aeree si aggiunsero anche frequenti “comparse” di incrociatori: con una certa regolarità, un incrociatore britannico si presentava nelle acque antistanti Chisimaio, ma la minaccia non si traduceva quasi mai in un vero e proprio attacco. L’incrociatore si limitava a defilare lungo la costa, tenendosi appena fuori il limite della gittata delle batterie costiere italiane, senza aprire il fuoco. Probabile scopo di queste “apparizioni” era di scoraggiare gli spostamenti di naviglio tra Chisimaio e gli altri porti della Somalia, ma in realtà il traffico – pressoché indispensabile per i collegamenti tra i porti, dato il cattivo stato delle strade e la carenza di automezzi e copertoni – tra Chisimaio, Mogadiscio e gli altri porti minori (Burgao, Dante e Brava) venne sempre effettuato senza problemi, perlopiù con naviglio minore, regolando le partenze in modo che avvenissero nei periodi di tempo che trascorrevano tra un’“incursione” e l’altra (la cui cadenza, come detto, poteva essere stimata con una certa regolarità). Sovente, su richiesta del Comando Marina, l’Aeronautica inviò qualcuno dei pochi aerei disponibili in Somalia ad attaccare gli incrociatori, ritenendo in più di un’occasione di averli colpiti (dopo i primi attacchi aerei, gli incrociatori iniziarono a presentarsi dinanzi a Chisimaio soltanto verso il tramonto, così da poter approfittare dell’arrivo del buio per potersi allontanare senza essere attaccati).

Ben pochi eventi interruppero la monotonia della vita di Chisimaio. Nel novembre 1940 giunse nel porto somalo il piroscafo giapponese Jamamari Maru (il Giappone era all’epoca ancora neutrale, sebbene aderente al Patto Tripartito), carico di 8000 tonnellate di benzina per aerei, copertoni, camere d’aria, zucchero e riso; la nave nipponica si trattenne a Chisimaio per otto giorni, mettendo a terra il suo carico, per poi ripartire. I materiali così ricevuti vennero trasferiti a Mogadiscio via mare, con il Somalia, la Duca degli Abruzzi e mezzi minori.
Pochi giorni dopo, il 1° dicembre 1940, giunse a Chisimaio il piroscafo jugoslavo Durmitor: carico di sale, era stato catturato dalla nave corsara tedesca Atlantis e mandato a Mogadiscio con un equipaggio di preda tedesco e numerosi prigionieri appartenenti agli equipaggi di altre navi affondate dall’Atlantis. Giunse a Chisimaio dopo un travagliato viaggio di una settimana, durante il quale aveva esaurito tutto il carbone ricevuto a Mogadiscio. Equipaggio e prigionieri vennero sbarcati, e la nave fu accantonata in attesa che si decidesse cosa farne.
Il 10 dicembre la ricognizione aerea su Chisimaio fu più intensa del solito, ed al tramonto un incrociatore pesante si presentò nelle acque antistanti il porto e, a differenza del solito, ridusse rapidamente le distanze rispetto alla costa ed iniziò a sparare contro le navi ancorate. La batteria dell’isola dei Pescicani (la seconda per dimensioni delle Isole Giuba, situata all’estremità opposta della baia di Chisimaio rispetto all’Isola dei Serpenti) reagì subito, inquadrando l’incrociatore alla terza salva; a quel punto, la nave nemica cessò il fuoco e se ne andò, senza aver causato danni.

Alla fine del dicembre 1940 divenne evidente che i britannici stavano preparandosi a lanciare un’offensiva dal Kenya contro la Somalia. Chisimaio, prevedibilmente, sarebbe stata uno dei primi obiettivi.
Le difese sul fronte a terra di Chisimaio erano estremamente carenti: il retroterra della base era un’enorme distesa di folta boscaglia, con una conformazione geografica che mal si prestava alla difesa, e l’unica difesa presente allo scoppio del conflitto era un reticolato di alcuni chilometri, realizzato nel 1935 ed ormai deterioratosi (in più di un punto, gli indigeni avevano persino aperto dei varchi per permettere il passaggio del bestiame). Uniche truppe dell’Esercito destinate a presidiare queste modeste difese erano due batterie campali in postazione fissa ed un battaglione di ascari; alcune delle batterie della Marina avevano campo di tiro verso il retroterra, ma la maggior parte poteva tirare solo verso il mare, a contrasto di eventuali sbarchi nemici, perché compito della Marina era la sola difesa del fronte a mare, mentre quella del fronte a terra spettava all’Esercito. Il comandante del Comando Marina di Massaua aveva cercato di rimediare in parte a queste deficienze, ma non aveva potuto fare molto, se non ordinare la realizzazione di ulteriori reticolati, di trincee e di postazioni di mitragliatrici con il poco materiale disponibile.
Con il profilarsi dell’imminente invasione britannica, il Comando dello Scacchiere Giuba (retto dal generale Carlo De Simone) fece iniziare lavori per rafforzare le difese di Chisimaio: si cominciò a scavare un fossato anticarro che doveva circondare completamente la piazzaforte, oltre che a realizzare difese passive ed anticarro. Il Comando Marina, per parte sua, destinò alcune compagnie di marinai alla difesa di alcuni settori del fronte a terra, fece riposizionare alcune mitragliere contraeree pesanti per impiegarle anche come armi anticarro, e realizzò improvvisati mezzi anticarro facendo montare su affusti collocati su autocarri le canne da 25 mm delle batterie per i tiri ridotti da esercizio.
Nell’ipotesi, fin troppo realistica, che Chisimaio sarebbe potuta cadere, ci si preparò anche a distruggere tutto ciò che sarebbe potuto tornare utile al nemico: tutte le navi mercantili, in particolare, vennero dotate di cariche esplosive specificamente preparate in modo da affondarle a colpo sicuro e rendere impossibile il recupero.
I bastimenti che erano in condizioni migliori, tali da poter affrontare una lunga navigazione, vennero invece preparati a salpare il prima possibile. Venne reimbarcata la parte di equipaggi necessaria alla navigazione, e si procedette, nei limiti del possibile, ad una parziale pulizia delle carene; le navi scelte per questo tentativo di fuga vennero inoltre rifornire di provviste, acqua e carburante. Il Tannenfels era già partito il 31 gennaio diretto in Francia, dove giunse violando il blocco britannico.
Le merci sbarcate in precedenza dalle navi, per non farle cadere in mano nemica, vennero trasferite ad Addis Abeba, via terra, ed a Mogadiscio, via mare; lo stesso si fece con parte della nafta contenuta nei serbatoi della base navale.
Comandante della Piazza Militare Marittima di Chisimaio era il capitano di vascello Fucci, comandante della Marina in Somalia; essendovi però disaccordo in merito ai limiti territoriali della giurisdizione e responsabilità del comandante della piazza, il comandante dello Scacchiere, in accordo con lo stesso comandante Fucci, trasferì l’incarico di comandante della piazza ad un colonnello dell’Esercito. Poco dopo Fucci ebbe ordine di andare a Massaua, pertanto cedette il comando al capitano di fregata Silvio Montanarella, che già reggeva il Comando Marina di Chisimaio; dato però che questi era in missione a Dante per ordine dello stesso Fucci, il comando passò provvisoriamente al comandante in seconda, capitano di corvetta Giuseppe Campacci Baligioni.

L’invasione britannica della Somalia ebbe inizio il 21 gennaio 1941, quando le truppe del Commonwealth, al comando del generale Alan Cunningham, oltrepassarono il confine tra Kenya e Somalia.
Le disposizioni del Comando Superiore delle Forze Armate in Africa Orientale prevedevano che, essendo pressoché impossibile difendere il confine con il Kenya, le truppe italiane sarebbero dovute arretrare fino al fiume Giuba, che poteva costituire un pur limitato baluardo naturale; qui sarebbe stata stabilita una linea di difesa da difendere ad oltranza. Chisimaio, che si trovava a sud del Giuba, e dunque tagliata fuori da questa linea, avrebbe dovuto tuttavia essere difesa ad oltranza con le truppe presenti in loco (che consistevano, oltre che nel personale della Marina – 600 italiani e 400 ascari –, in un terzo dei battaglioni e metà delle batterie della 102a Divisione Somala), mentre altre truppe avrebbero dovuto contrattaccare sul fianco sinistro dello schieramento nemico.
Il comandante dello Scacchiere, però, si trovò a fare i conti con una situazione ben misera: il Giuba, quasi completamente asciutto eccetto che negli ultimi 15-20 km del suo corso, era divenuto guadabile quasi dappertutto, dunque la sua efficacia come baluardo difensivo era di molto calata; la pressione nemica era particolarmente forte verso il Basso e Medio Giuba. In una situazione tanto precaria, sembrava inutile e rischioso sprecare tante forze per difendere Chisimaio, isolata dalla linea di resistenza; il generale De Simone, di conseguenza, decise di rinunciare alla difesa di Chisimaio per destinare anche quelle truppe al rafforzamento della linea difensiva sul Basso Giuba, tra Gelib e Giumbo. L’ordine venne dato l’8 febbraio 1941, e nella notte successiva iniziò lo spostamento delle truppe di Chisimaio verso il Giuba.
Il 10 febbraio arrivò in aereo a Mogadiscio il vicerè dell’Africa Orientale Italiana, Amedeo di Savoia-Aosta, che si recò sul Giuba per saggiare la consistenza delle difese, e poi a Chisimaio ove ispezionò gli apprestamenti difensivi. Trascorse una notte a Chisimaio, e giunse alla conclusione che la decisione del generale De Simone era corretta; tutte le truppe dovevano ripiegare fino al Giuba e difendere quella linea ad oltranza, mentre Chisimaio doveva essere sgombrata il prima possibile, trasferendo altrove tutto ciò che si poteva trasportare e distruggendo ogni altra cosa. Il duca d’Aosta, ad ogni modo, era poco convinto anche delle possibilità di un’effettiva resistenza sul Giuba, quasi del tutto prosciugato. Una volta spezzata quella esile linea, tutto sarebbe stato perduto: dal fiume fino alle prime alture dell’Harar si estendevano 700 chilometri di pianura piatta e desertica, non solo del tutto indifendibile, ma anche troppo inospitale per permettere alle truppe in ritirata di sopravvivervi.

Il mattino dell’11 febbraio 1941 vennero dati gli ordini per l’immediato sgombero della piazzaforte e del porto di Chisimaio. Le partenze delle navi mercantili, d’altro canto, erano già iniziate: Somalia (con a bordo 1140 tonnellate di merci), Adria, Savoia ed Erminia Mazzella erano già salpati la sera del 10 febbraio, il primo diretto a Mogadiscio, gli altri a Diego Suarez, nel Madagascar francese, controllato dalla Francia di Vichy e dunque rifugio relativamente sicuro, oltre che unico porto amico o neutrale raggiungibile senza dover attraversare un intero oceano. Delle navi mercantili si occupava in particolare il tenente colonnello di porto Francesco Serra Manichedda, trasferitosi appositamente da Mogadiscio a Chisimaio.
Il mattino stesso dell’11 proprio Serra Manichedda, insieme al comandante Campacci Baligioni, parlarono con il duca d’Aosta dando voce al rincrescimento, loro e della Marina, per dover abbandonare la base; ma il duca, ormai disilluso sulle possibilità di resistenza, ribadì gli ordini dati. Prima di lasciare Chisimaio, il duca d’Aosta approvò gli ordini già impartiti per la partenza delle navi mercantili, ed invitò ad accelerare la partenza dei bastimenti che ancora restavano.
Tra i mercantili ancora in porto, Carso, Marghera ed Integritas non avevano potuto essere rimessi in grado di prendere il mare, dunque si era stabilito di autoaffondarli, decisione che sarebbe stata messa in atto nelle prime ore del 12 febbraio. Il Durmitor, appartenendo ad una nazione neutrale (l’Italia, all’epoca, non era ancora in guerra con la Jugoslavia), sarebbe stato invece lasciato a galla, affinché il suo equipaggio potesse riprenderne possesso, se mai fosse tornato a Chisimaio.
La sera dell’11 febbraio partirono per Mogadiscio la Pensilvania (carica di nafta), l’Askari (carico di fusti vuoti) ed il rimorchiatore Kionga.
Nella notte tra l’11 ed il 12 febbraio 1941, il Manon lasciò Chisimaio, scarico, alla volta di Diego Suarez. Nelle stesse ore salparono anche l’Uckermark, la Duca degli Abruzzi (carica) ed il Leonardo Da Vinci (vuoto), anch’essi diretti a Diego Suarez. Erano le ultime navi ad abbandonare Chisimaio. Le ultime truppe del presidio di Chisimaio lasciarono la città alle 19 del 12 febbraio, dopo aver distrutto tutto ciò che non si poteva asportare, dirette verso il Giuba per un’inutile resistenza. Il 14 febbraio le truppe britanniche sarebbero entrate nella città abbandonata.

Il viaggio verso Diego Suarez ebbe breve durata: per supportare le operazioni contro la Somalia italiana, la Eastern Fleet britannica aveva lanciato l’Operazione «Begum» inviando nelle acque somale la Forza T, composta dalla portaerei Hermes, dagli incrociatori pesanti Hawkins e Shropshire (capitano di vascello John Hereward Edelsten, comandante della Forza T), dagli incrociatori leggeri Ceres e Capetown e dal cacciatorpediniere Kandahar.
Incarico di queste navi era di appoggiare l’avanzata delle truppe di terra, interrompendo le linee di comunicazione italiane lungo la costa somala, bombardando i porti di Mogadiscio e Chisimaio per agevolarne la conquista, e catturare od affondare tutte le navi che avessero tentato di fuggire da Mogadiscio e Chisimaio.
Troppo lenti per sfuggire ad una nave da guerra, e del tutto impossibilitati a difendersi, i mercantili erano attesi al varco da una forza soverchiante: gli aerei della Hermes avrebbero agito sia come ricognitori per agevolare l’individuazione dei bastimenti fuggiaschi (guidando sul posto gli incrociatori), sia come bombardieri ed aerosiluranti per attaccarli essi stessi, qualora gli incrociatori non li avessero raggiunti prima.
Su un totale di dieci navi mercantili salpate da Chisimaio e Mogadiscio per il Madagascar, soltanto Somalia e Duca degli Abruzzi riuscirono a giungere a destinazione. Delle altre, l’Askari e la Pensilvania vennero bombardate e cannoneggiate fino ad incagliarsi sulla costa somala, ridotte a relitti; l’Uckermark si autoaffondò per evitare la cattura, e le rimanenti cinque furono tutte intercettate e catturate dalle navi da guerra britanniche, spesso dopo essere state sabotate dai loro equipaggi.

Il Manon, avvistato da un ricognitore britannico durante la navigazione verso il Madagascar, venne intercettato e catturato dall’incrociatore pesante Hawkins (capitano di vascello Harry Percy Kendall Oram) il 13 febbraio (altra fonte parla del 12), al largo della costa meridionale della Somalia italiana. Il suo equipaggio, come quelli degli altri mercantili italiani e tedeschi che avevano subito la stessa sorte, venne inviato in prigionia in campi situati in Kenya e Sudafrica.
Il direttore di macchina del Manon, il genovese Silvio Casciscia (da Sampierdarena), morì in prigionia a Navaisha (Kenya) il 24 ottobre 1942.

Trasferito alla Liner Division del Ministry of War Transport e registrato a Mombasa, il Manon venne dato in gestione alla British India Steam Navigation Company Ltd. di Londra ed impiegato in guerra sotto bandiera britannica, senza cambiare nome (il suo nominativo di chiamata radio venne però mutato in VRTT).
Alle 16.24 del 7 ottobre 1942, durante un viaggio da Calcutta e Visakhapatnam a Colombo (Ceylon) con un carico di 7100 tonnellate di carbone, il Manon venne colpito da un singolo siluro lanciato dal sommergibile giapponese I 162 (capitano di fregata Shimose Kichiro) ed affondò nel punto 15°00’ N e 80°30’ E (nel Golfo del Bengala), cento miglia a nord di Madras e 200 o 400 miglia ad est-sud-est di Masulipatam.
Sette degli 87 membri dell’equipaggio rimasero uccisi, ed un ottavo morì in seguito per le ferite riportate. I naufraghi sbarcarono a Bangara Pallaur, in India.
 
La nave quando si chiamava Wildenfels (Eric Johnson via www.tynebuiltships.com)


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