Cacciatorpediniere,
già esploratore leggero, della classe Leone (dislocamento standard di 1773
tonnellate, in carico normale 2003 tonnellate, a pieno carico 2203 o 2648).
Durante la seconda
guerra mondiale effettuò 10 missioni di guerra (per intercettazione di convogli
britannici nel Mar Rosso), percorrendo in tutto 2706 miglia nautiche.
Breve e parziale cronologia.
23 gennaio 1922
Impostazione nei
cantieri Gio. Ansaldo & C. di Sestri Ponente (Genova); numero di
costruzione 240.
7 agosto 1924
Varo nei cantieri
Gio. Ansaldo & C. di Sestri Ponente (Genova). È madrina la marchesa Viola
Pallavicini Spinola.
10 ottobre 1924
Entrata in servizio.
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La nave
durante le prove in mare al largo di Portofino, nel 1924 (Fondazione Ansaldo). |
6 marzo 1925
Insieme ai gemelli Leone e Pantera, va a formare il Gruppo Autonomo Esploratori Leggeri. Le
tre unità svolgono un breve periodo di addestramento integrato di squadriglia.
4 aprile-22 settembre 1925
Le tre unità, sotto
il comando del capitano di vascello Domenico Cavagnari (futuro capo di Stato
Maggiore della Marina), imbarcato sul Pantera
(è invece comandante del Tigre il
capitano di fregata Inigo Campioni, un altro dei futuri protagonisti della
guerra navale italiana nella seconda guerra mondiale), compiono una crociera di
rappresentanza in Spagna, Portogallo, Regno Unito, Norvegia, Danimarca, Unione
Sovietica, Finlandia, Estonia, Lettonia, Germania, Paesi Bassi, Belgio,
Francia, Algeria e Libia. Dopo la partenza da La Spezia (4 aprile 1925),
vengono toccati i porti di Valenza (6-9 aprile), Almeria (10-11 aprile), Malaga
(11-15 aprile), Cadice (15-23 aprile), Lisbona (24-27 aprile), Vigo (28-29
aprile), Portsmouth (1-8 maggio), Bristol (9-12 maggio), Liverpool (13-17
maggio), Glasgow (18-24 maggio), Edimburgo (26 maggio-3 giugno), Bergen (4-10
giugno), Oslo (11-17 giugno), Copenhagen (17-24 giugno), Leningrado (25-29
giugno, una delle prime visite di un Paese occidentale alla Russia
post-rivoluzionaria, dopo anni di isolamento), Helsinki (30 giugno-4 luglio),
Reval (4-6 luglio), Riga (6-8 luglio), Brema (10-14 luglio), Amsterdam (15-21
luglio), Gand (21-27 luglio), Ostenda (27-31 luglio; i comandanti degli
esploratori si recano a Bruxelles dove sono ricevuti dal re del Belgio Alberto
I), Le Havre (1-6 agosto), Lorient (7-12 agosto), Bordeaux (13-20 agosto),
Santander (21-25 agosto; qui le navi sono visitate dai reali di Spagna),
Gibilterra (27-28 agosto), Orano (29 agosto-2 settembre) e Tripoli (4-15
settembre). In ogni porto l’accoglienza, da parte sia delle autorità che della
popolazione locale, è molto cordiale, tranne che a Brema, dove il trattamento
riservato è piuttosto freddo, forse per la guerra ancora troppo vicina. Navi ed
equipaggi danno ottima prova di sé, sia nell’affrontare ogni impedimento lungo
nella navigazione, che nelle visite nei porti.
Durante la visita a
Leningrado e Kronstadt dell’estate 1925, il capitano di vascello Cavagnari
stabilisce i primi contatti con la Marina sovietica, contatti che saranno
ulteriormente sviluppati sino a portare la Marina sovietica, alcuni anni più
tardi, ad ordinare la costruzione di diverse navi in cantieri italiani.
Lasciata Tripoli, i
tre esploratori fanno scalo a Napoli dal 16 al 21 settembre ed infine
concludono la crociera (soprannominata dai marinai “crociera delle belve”) a La
Spezia, dove giungono il 22 settembre 1925 dopo aver percorso in tutto 12.000
miglia.
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Il Tigre in transito presso il ponte girevole di Taranto (da xoomer.virgilio.it)
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30 settembre 1926
Il Tigre viene visitato a Livorno da Benito
Mussolini e da Austen Chamberlain, segretario di Stato per gli affari esteri
del Governo britannico, recatosi a Livorno per discutere con Mussolini delle
relazioni tra Italia e Regno Unito e di varie questioni internazionali.
1928
Altra crociera di
rappresentanza con Leone e Pantera, questa volta in Spagna.
1930
Nuova crociera, in
Mar Egeo.
1930-1931
Lavori di
rimodernamento; i 6 tubi lanciasiluri DAAN-Whitehead da 450 mm in impianti
trinati vengono sostituiti con 4 San Giorgio da 533 mm, in due impianti binati,
e vengono imbarcate due mitragliere Vickers-Terni 1917 da 40/39 mm a
potenziamento dell’armamento contraereo.
1931
Il Tigre, insieme ai cacciatorpediniere Nazario Sauro, Cesare Battisti, Francesco
Crispi e Quintino Sella, forma la
II Flottiglia Cacciatorpediniere della 2a Divisione della I Squadra
Navale.
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Foto ‘di profilo’ (da Navypedia)
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1935-1936
Il Tigre ed i due gemelli vengono
sottoposti a lavori di adattamento per l’impiego in climi tropicali (vengono
dotati di impianti di condizionamento dell’aria e di refrigerazione dei
depositi munizioni, per evitarne un pericoloso surriscaldamento) e subiscono
l’eliminazione di due cannoni da 76/40 mm per allungare di alcuni metri il
castello, allo scopo di ricavare un nuovo locale per i compressori dei
macchinari dell’impianto di condizionamento. Viene anche leggermente
incrementata la scorta di carburante; il dislocamento diviene di 2000
tonnellate standard, 2150 in carico normale e 2648 a pieno carico.
Completati i lavori, Tigre, Leone e Pantera vengono
assegnati alla Divisione Navale Africa Orientale (che oltre ad essi comprende
gli incrociatori leggeri Bari, Taranto e Quarto, i cacciatorpediniere Francesco
Nullo e Daniele Manin, le
torpediniere Audace, Generale Antonio Cantore e Giacinto Carini, i sommergibili Luigi Settembrini, Ruggero Settimo, Narvalo,
Tricheco, Salpa e Serpente, le navi
appoggio sommergibili Alessandro Volta
ed Antonio Pacinotti e l’incrociatore
ausiliario Arborea) e dunque dislocati
in Eritrea.
In questo periodo (1935-1936) è comandante del Tigre in Mar Rosso il capitano di fregata Manlio De Pisa.
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Il Tigre in Mar Rosso nel 1938 (g.c. STORIA Militare)
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1938
Riceve un
potenziamento dell’armamento contraereo (vengono aggiunte due mitragliere
binate Breda Mod. 31 da 13,2/76 mm e due o quattro mitragliatrici singole Colt
da 6,5/80 mm), stante l’accresciuta minaccia posta dall’arma aerea rispetto
agli ormai lontani tempi della sua entrata in servizio. Viene installata una
stazione di direzione del tiro. Il dislocamento standard sale da 1745 a 2150
tonnellate, quello a pieno carico da 2289 a 2650 tonnellate.
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La nave fotografata il 23 febbraio
1938 (foto Aldo Fraccaroli, da “Mussolini’s Navy: A Reference Guide to the
Regia Marina 1930-1945” di Maurizio Brescia, Naval Institute Press, 2012)
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Settembre 1938
Viene riclassificato
cacciatorpediniere, analogamente a Leone
e Pantera, ed insieme ad essi viene
assegnato alla V Squadriglia Cacciatorpediniere, di base a Massaua. Ormai le
navi della classe Leone sono anziane, obsolete ed usurate.
1939
In seguito a nuovi
lavori, le mitragliatrici da 13,2 e 6,5 mm vengono sostituite da due
mitragliere binate Breda da 20/65 mm Mod. 1935.
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Il Tigre, a sinistra, ed il Pantera
visti da bordo della nave coloniale Eritrea
durante un’esercitazione in Mar Rosso nel 1939 (g.c. STORIA militare)
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10 giugno 1940
All’ingresso
dell’Italia nel secondo conflitto mondiale, il Tigre fa parte della V Squadriglia Cacciatorpediniere, di base
a Massaua, insieme ai gemelli Leone
e Pantera.
Le condizioni
operative in Mar Rosso sono particolarmente difficili, specialmente a causa del
clima: temperature di 55° C all’ombra, umidità prossima al 100%, uniti alla
mancanza di aria condizionata e di frigoriferi, causa la deficienza di corrente
elettrica e di gas per i relativi impianti. Nelle missioni di guerra, con tutte
le caldaie accese, le macchine si trasformano in un vero e proprio inferno; in
porto, non si possono stendere tende sui ponti per avere un po’ d’ombra, perché
gli attacchi aerei sono continui e le tende intralciano l’impiego delle armi
contraeree. Ad ogni missione si registrano regolarmente numerosi svenimenti e
colpi di calore; gli equipaggi, che in gran parte vivono in questo clima già da
due o tre anni, lamentano molti casi di ulcere ed esaurimento fisico, che
devono essere sovente sbarcati subito prima delle uscite in mare ed inviati per
lunghi periodi di riposo sugli altopiani dell’Eritrea interna, dove il clima è
più clemente.
Il clima non logora
solo gli uomini ma anche i macchinari, riducendone la non già elevata
efficienza; gli operai, spossati dal caldo, che rende insopportabile il lavoro
in locali chiusi (lavoro, per giunta, frequentemente interrotto dai continui
allarmi aerei, che impediscono anche di riposare), faticano a mantenere un
rendimento passabile nei lavori.
27-28 giugno 1940
Tigre,
Leone, Pantera ed i più piccoli cacciatorpediniere Nazario Sauro e Daniele Manin
compiono un’uscita in mare alla ricerca di naviglio britannico, senza
risultati.
28-29 agosto 1940
Tigre
e Pantera effettuano un’infruttuosa missione
offensiva notturna.
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Un’altra immagine del Tigre.
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6-7 settembre 1940
Inviato assieme
a Leone, Battisti e Manin a
cercare il convoglio britannico «BS. 4» (segnalato dalla ricognizione aerea
italiana), proveniente da Suez e diretto ad Aden con la scorta dell’incrociatore
leggero Leander, dell’incrociatore
antiaereo Carlisle, del
cacciatorpediniere Kingston e
degli sloops Grimsby, Auckland, Clive e Parramatta.
Durante la missione vengono lanciati siluri contro un cacciatorpediniere
britannico, che viene tuttavia mancato.
Il convoglio viene
anche cercato dai sommergibili Guglielmotti
e Ferraris, senza successo, ed
attaccato da bombardieri italiani a nord dell’isola di Jabal al-Tair, anche in
questo caso infruttuosamente.
9 novembre 1940
Muore in Mar Rosso il
marinaio fuochista Mario Battaglia, di Catania, membro dell’equipaggio del Tigre.
11 novembre 1940
Muoiono in Mar Rosso
(probabilmente durante un’incursione aerea su Massaua, avente come obiettivo le
navi in porto, ma che va invece a danneggiare alcune baracche in città) i
marinai Sante Farinelli, di Comacchio, e Quirino Serretti, di Fermignano, ed il
marinaio fuochista Carmelo Meli, di Catania, tutti facenti parte
dell’equipaggio del Tigre.
3-5 dicembre 1940
Tigre,
Leone, Sauro e Manin,
così come il sommergibile Ferraris, vengono mandati a cercare un
convoglio, che non riescono a trovare.
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Il Tigre con Pantera, Eritrea, Sauro e Battisti a
Massaua nel 1940 (g.c. STORIA militare)
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24-25 gennaio 1941
In missione offensiva
notturna insieme a Sauro e Pantera. Nessun risultato.
2-3 febbraio 1941
Tigre,
Sauro e Pantera salpano nella notte da Massaua per compiere una ricerca a rastrello
del convoglio britannico «BN 14», composto da 39 mercantili scortati
dall’incrociatore leggero Caledon,
dal cacciatorpediniere Kingston e
dagli sloops Indus e Shoreham. Il Sauro avvista il convoglio per primo, comunica l’avvistamento alle
altre unità ed attacca coi siluri, ma senza successo. Il segnale di scoperta
lanciato dal Sauro non viene però
ricevuto dalle altre due navi: mentre il Pantera
incontra ugualmente il convoglio, che attacca infruttuosamente, il Tigre non avvista le navi nemiche.
Durante la
navigazione di ritorno verso il canale sud di Massaua, il Sauro incontra il Kingston,
e, essendo rimasto senza più siluri, si ritira a tutta forza: temendo che le
forze britanniche abbiano preparato un’imboscata, Tigre e Pantera
convergono verso il Sauro e
richiedono anche l’intervento dell’aviazione all’alba, ma alla fine tutte e tre
le unità giungeranno indenni a Massaua.
L’attività dei
cacciatorpediniere di Massaua, a causa della crescente penuria di carburante e
pezzi di ricambio, declina sempre più.
La fine
Le sorti della V
Squadriglia Cacciatorpediniere seguirono quelle dell’Africa Orientale Italiana,
colonia priva di collegamenti con l’Italia, non rifornibile, circondata da
territori nemici e condannata alla caduta, se il conflitto si fosse prolungato
per un anno o più.
Gli eventi che
portarono alla caduta dell’A.O.I. sono già stati descritti; agli inizi del 1941
le forze del Commonwealth, forti dei propri successi in Africa Settentrionale
(dove la distruzione della 10a Armata italiana e l’invasione della
Cirenaica aveva eliminato ogni possibilità che le truppe italiane avanzati
dalla Libia potessero raggiungere ed unirsi a quelle in Africa Orientale) e del
supporto dei guerriglieri etiopi, lanciarono la loro offensiva sulle colonie
italiane del Corno d’Africa. La Somalia cadde per prima, in febbraio, e truppe
britanniche entrarono anche in Etiopia; il 27 marzo, dopo quasi due mesi di
durissima battaglia, le forze del Commonwealth sfondarono le linee italiane a
Cheren, in Eritrea, puntando su Asmara e Massaua.
Era questione di
giorni prima che le truppe britanniche investissero la piazzaforte di Massaua;
il contrammiraglio Mario Bonetti, comandante delle forze navali italiane in
Africa Orientale, si trovò costretto ad una triste cernita: le navi dotate di
autonomia sufficiente per affrontare una traversata oceanica, sarebbero partite
per la Francia o per il Giappone (così fecero i quattro sommergibili, la nave
coloniale Eritrea, gli incrociatori
ausiliari RAMB I e RAMB II ed otto mercantili, con alterne
fortune); quelle impossibilitate a partire e poco o punto armate, si sarebbero
autoaffondate per evitare la cattura ed al contempo bloccare il porto di
Massaua (così fecero le unità minori ed ausiliarie e quasi tutti i mercantili);
quelle ancora in grado di recare danno al nemico, sarebbero partite in un
ultimo e disperato tentativo d’attacco. Tra queste ultime, tutti i
cacciatorpediniere.
Le condizioni
generali di questi ultimi erano ben lungi dall’ottimale: unità già obsolescenti
allo scoppio del conflitto, erano ulteriormente logorate dal servizio di guerra
nel torrido clima eritreo, dalla mancanza di pezzi di ricambio, dalla
irregolarità dei lavori di manutenzione, causata dal caldo e dagli attacchi
aerei. Per le tre unità della V Squadriglia, i 22 nodi erano divenuti “velocità
critica”, oltrepassata la quale emettevano dai fumaioli fumo e scintille che ne
facilitavano l’individuazione; solo a fine marzo 1941 erano giunte le piastrine
per polverizzatori, che permettevano di migliorare la combustione ed evitare
l’inconveniente delle scintille. I loro strumenti di navigazione erano in
condizioni disastrose. Ma ormai, la loro vita era giunta alla fine.
Bonetti pianificò due
attacchi contemporanei, da affidare alle due squadriglie di cacciatorpediniere
ai suoi ordini: la V Squadriglia con Tigre,
Leone e Pantera, navi più grandi e di maggiore autonomia, avrebbero
risalito tutto il Mar Rosso per attaccare Suez (500 miglia più a nord,
navigazione che avrebbe richiesto almeno 50 ore); la III Squadriglia, con i più
piccoli Sauro, Battisti e Manin,
avrebbero invece attaccato la più vicina Port Sudan.
Per tutti la consegna
era di infliggere i maggiori danni possibili alle installazioni portuali ed
alle navi britanniche nei due porti, indi raggiungere le coste dell’Arabia
Saudita ed autoaffondarvisi (così che gli equipaggi sbarcassero in Arabia
Saudita, Paese neutrale). Come che andasse, il ritorno non era una possibilità:
non solo perché a Massaua li avrebbe attesi solo l’autoaffondamento, ma anche
perché il poco carburante ancora disponibile (portato da Assab a Massaua dalla
nave cisterna Niobe) bastava soltanto
per il viaggio di andata.
La sortita della V
Squadriglia, nei piani, doveva avvenire in contemporanea ad un bombardamento
aereo su Suez da parte di bombardieri tedeschi Heinkel He 111, decollati da
Creta. Non era invece prevista alcuna copertura aerea da parte della Regia
Aeronautica, ormai ridotta al lumicino in Africa Orientale; i
cacciatorpediniere avrebbero dovuto trascorrere due giorni in acque sostanzialmente
controllate dal nemico.
I comandi britannici
si aspettavano una possibile ultima mossa italiana contro i loro porti del Mar
Rosso, pertanto avevano inviato a Suez due cacciatorpediniere classe J quale
rinforzo delle forze navali là presenti.
La missione della V
Squadriglia ebbe inizio alle 18 del 31 marzo 1941, quando Tigre (al comando del capitano di fregata Gaetano Tortora), Leone (capitano di fregata Uguccione
Scroffa) e Pantera (capitano di
vascello Andrea Gasparini, caposquadriglia) lasciarono Massaua diretti a Suez. Il
porto era stato da poco sorvolato da un ricognitore britannico, visita ormai
abituale: avrebbe riferito che tutte le navi italiane erano ancora in porto. La
III Squadriglia rimase invece in porto; stante la minor distanza di Porto Sudan,
sarebbe salpata l’indomani, in modo che i due attacchi si svolgessero
contemporaneamente.
Normalmente doveva
essere il Pantera, in qualità di
caposquadriglia, a procedere in testa: a riprova del cattivo stato in cui erano
ridotte le navi del Mar Rosso, tanto la girobussola quanto il solcometro di
questa unità erano guasti, mentre la sua bussola magnetica era stata messa
fuori uso da un fulmine. A guidare la formazione fu così il Leone, unico cacciatorpediniere con bussola
magnetica, solcometro, ecoscandaglio e girobussola ancora in efficienza; il Tigre lo seguiva in linea di fila, il Pantera chiudeva la formazione. Velocità
18 nodi.
Lasciandosi alle
spalle Massaua, Tigre, Leone e Pantera dovevano attraversare di notte l’arcipelago delle Dahlak
(caratterizzato da innumerevoli isole, isolotti, scogli e secche talvolta non
segnate sulle carte nautiche), seguendo una “rotta di sicurezza” attraverso il
Canale di Nord-Est per uscire dall’arcipelago; superata l’isola di Dohul,
avrebbero dovuto poi assumere rotta verso nord. Attraversare le Dahlak di
notte, con gli strumenti di navigazione in uno stato pietoso, aggiungeva altri
rischi a quelli rappresentati dal nemico.
Verso le 22 del 31
marzo Tigre, Leone e Pantera si
lasciarono al traverso a dritta le isole di Tanam, Wusta ed Isratu
(nell’estremità settentrionale dell’arcipelago delle Dahlak), e intorno a
mezzanotte si lasciarono al traverso anche l’isolotto di Awali Hutub. A questo
punto la zona più pericolosa per la navigazione era stata superata; la V
Squadriglia era entrata in acque più profonde e meno insidiose, dove poté anche
incrementare la propria velocità (che fu portata a 24 nodi), così da potersi
avvicinare a Suez con il favore della notte. Ma poco dopo, alle 00.30 del 1°
aprile, il Leone venne scosso da un
forte urto e si immobilizzò dopo pochi metri; Tigre e Pantera,
proseguendo a 24 nodi, passarono a fianco del Leone – uno a dritta e l’altro a sinistra – a pochissima distanza, senza
che loro accadesse nulla (intanto, gli ecoscandagli continuavano a segnalare
profondità ben maggiori di quelle del limite di sicurezza), poi rallentarono e
ritornarono verso di esso, prestando la massima attenzione ad eventuali
ostacoli. Il Leone era finito contro
una formazione madreporica, non segnata sulle carte nautiche, circa tredici
miglia a nord di Awali Hutub e 45 miglia a nord di Massaua. Sul
cacciatorpediniere incagliato la situazione andò gradatamente fuori controllo:
l’acqua entrava copiosa da numerose lacerazioni nello scafo, e, come se non
bastasse, scoppiò anche un incendio a bordo.
Alla fine si dovette
concludere che la nave era persa; l’equipaggio del Leone fu trasferito su Tigre
e Pantera, poi il cacciatorpediniere
danneggiato aprì le prese a mare per autoaffondarsi; occorse anche l’intervento
del Pantera, che lo finì a cannonate,
alle cinque del mattino del 1° aprile.
Dato che il tempo
perso a causa del sinistro del Leone
impediva di avvicinarsi a Suez col favore della notte, Tigre e Pantera
abbandonarono la missione e fecero ritorno a Massaua, dove giunsero in tarda
mattinata (per altra fonte, la sera del 1° aprile), sbarcandovi l’equipaggio
dell’unità gemella. La sosta nel porto eritreo, comunque, non durò a lungo.
La Luftwaffe, nel
mentre, comunicò che non avrebbe più potuto effettuare il bombardamento su
Suez; in considerazione di ciò e della perdita del Leone, il contrammiraglio Bonetti modificò il piano originale. Tutti
e cinque i cacciatorpediniere rimasti, compresi Tigre e Pantera, avrebbero
attaccato Porto Sudan, bombardando con le proprie artiglierie le installazioni
portuali britanniche. Le navi avrebbero navigato alla massima velocità per
compiere l’intero tragitto (265 miglia) di notte, così da evitare di essere
avvistate.
All’una del
pomeriggio del 2 aprile 1941 Tigre e Pantera lasciarono di nuovo Massaua,
stavolta per sempre. Un’ora più tardi presero il mare anche Sauro (capitano di corvetta Enrico
Moretti degli Adimari), Battisti
(capitano di corvetta Riccardo Papino) e Manin
(capitano di fregata Araldo Fadin, caposquadriglia della III Squadriglia)
I problemi non
tardarono a manifestarsi. A nord di Massaua la formazione fu avvistata da
ricognitori britannici della Fleet Air Arm (appartenenti alla portaerei Eagle, ma ora assegnati a basi
terrestri), annullando la sorpresa; dopo circa due ore dalla partenza, i
cacciatorpediniere subirono il primo attacco aereo, anche se ne uscirono
indenni.
Nella notte il Battisti ebbe un’avaria alle macchine,
ed alle 3.15 del 3 aprile, non potendo tenere il passo con le altre navi,
dovette abbandonare la formazione diretto verso le coste arabe, dove si sarebbe
autoaffondato.
Dopo il primo attacco
aereo a due ore dalla partenza, il resto della giornata del 2 aprile e la notte
seguente non furono turbati da altri attacchi, anche se i ricognitori pedinarono
le navi italiane senza mai mollare la presa.
Dopo l’avaria del Battisti, le quattro navi rimaste
proseguirono in due gruppi separati (Tigre-Pantera e Sauro-Manin), avanzando a
tutta forza; per 235 delle 265 miglia che separavano Massaua da Porto Sudan non
si verificarono altri problemi, ed alle 6.30 del 3 aprile, ad una trentina di
miglia da Port Sudan, i due gruppi si riunirono, ed i quattro
cacciatorpediniere proseguirono insieme verso il loro obiettivo.
Alle 6.55, tuttavia,
quando ormai non mancavano che 19 miglia a Port Sudan, la reazione britannica
si realizzò sotto forma dei primi aerosiluranti Fairey Swordfish degli
Squadrons 813 e 824 della Fleet Air Arm (solitamente imbarcati sulla portaerei
Eagle, ma in questa occasione decollati da basi terrestri di Port Sudan),
equipaggiati con bombe e guidati dal capitano di corvetta Charles Lindsay
Keighly-Peach (che per questa azione avrebbe ricevuto l’Order of British
Empire), e di bombardieri Bristol Blenheim del 14th Squadron della
Royal Air Force, che attaccarono le navi con bombe da 110 e 224 kg. (Secondo
fonti italiane, i Blenheim erano una settantina, gli Swordfish una dozzina; per
fonte britannica vi era un imprecisato numero di Swordfish dell’813th
e 824th Squadron FAA rinforzati da cinque Blenheim del 14th
Squadron RAF. Gli aerei attaccarono in più ondate).
Poco dopo le 7,
inoltre, il Pantera avvistò anche
quelle che furono identificate come tre navi da guerra nemiche, tra cui un
incrociatore, ed il capo formazione (il capitano di vascello Gasparini del Pantera) decise di abbandonare l’attacco
contro Port Sudan, per ingaggiare invece battaglia contro queste (presunte) unità.
Più tardi si vide che le navi nemiche non c’erano: doveva trattarsi di
un’illusione ottica.
I quattro
cacciatorpediniere italiani, sotto una pioggia di bombe, ruppero la formazione
e proseguirono zigzagando e sparando sugli aerei con le proprie modeste
mitragliere da 13,2 mm, ma ci fu poco da fare: verso le 7.30 Sauro e Manin, più piccoli e vulnerabili, divennero il bersaglio principale
degli attacchi aerei.
Grazie alla vicinanza
delle loro basi, i velivoli britannici, dopo ogni attacco, potevano rientrare
alla base, rifornirsi di bombe e carburante e poi tornare ad attaccare di
nuovo, mentre le armi contraeree delle unità italiane erodevano inesorabilmente
le proprie riserve di munizioni, oltre a subire un crescendo di avarie. Mentre
fino a quel momento i bombardieri britannici si erano tenuti a quote
relativamente elevate, e nessuna nave italiana aveva subito danni gravi, il
progressivo calo d’intensità del tiro contraereo italiano (dovuto alle cause
appena accennate) rese più arditi i piloti britannici, che presero ad attaccare
da quote più basse, aumentando la loro precisione.
A mezzogiorno, Tigre e Pantera diressero verso est, separandosi da Sauro e Manin (i quali
furono poi colpiti ed affondati entrambi: prima il Sauro, alle nove del mattino, e poi il Manin, tre ore più tardi) e dirigendosi verso la costa araba. Il
caposquadriglia Gasparini pensava ancora di poter tentare un’ultima puntata
offensiva col favore del buio: una volta che le due navi si fossero rifugiate
nelle acque dell’Arabia Saudita, il Tigre
avrebbe trasferito al Pantera la
nafta che gli era rimasta nei depositi, permettendo a quest’ultimo di condurre,
da solo, un ultimo attacco contro Al Kuseir, Hurgada od Aqaba, tutte basi
britanniche. Poi si sarebbe autoaffondato, cosa che avrebbe fatto anche il Tigre, rimasto senza carburante.
Poco prima delle 14
del 3 aprile, Tigre e Pantera diedero fondo nelle acque
antistanti Someina, un villaggio situato 14 miglia a sud della cittadina
saudita di Gedda; ma alle 14.20, mentre erano in corso i preparativi per il
trasferimento della nafta dal Tigre
al Pantera, i due cacciatorpediniere
vennero attaccati da bombardieri Vickers Vincent del 47th Squadron
RAF e Vickers Wellesley del 223rd Squadron, decollati da Port Sudan.
Sfumata di nuovo la sorpresa anche per questo secondo tentativo, con le navi
impossibilitate a trasferire il carburante sotto attacco aereo (in tutto, tra
Port Sudan e Someina il Tigre ebbe a
subire ben otto attacchi aerei) ed impossibilitate ad andare da qualsiasi altra
parte con il poco carburante che era rimasto a ciascuna di esse, il
caposquadriglia Gasparini dovette desistere da ogni ulteriore proposito offensivo,
ed ordinò che Tigre e Pantera si autoaffondassero
immediatamente, sul posto. Così fu fatto; iniziate le manovre per
l’autoaffondamento, gli equipaggi dei due cacciatorpediniere abbandonarono le
navi.
Le procedure messe in
atto per l’autoaffondamento non si rivelarono però molto efficaci: alle ore 17,
quando gli equipaggi erano già in salvo sulla costa e sopraggiunse sul posto il
cacciatorpediniere britannico Kingston
(inviato alla ricerca delle unità italiane non ancora affondate dagli aerei), Tigre e Pantera erano ancora a galla e stentavano ad affondare, tanto da
dare al comandante dell’unità britannica l’impressione di avere a che fare con
navi ancora intatte ed in efficienza. Il Kingston
sparò sui due relitti con i propri pezzi da 120 mm; non essendoci reazione (a
bordo non c’era più nessuno), la nave britannica si avvicinò fino alla distanza
di due miglia, mentre il Tigre veniva
fatto oggetto di un ennesimo attacco di bombardieri Wellesley. Colpito dalle
bombe, quest’ultimo iniziò ad affondare lentamente di poppa, per poi
capovolgersi e sparire del tutto sotto la superficie.
Il Kingston aprì nuovamente il fuoco sul
deserto Pantera (quasi una
esercitazione di tiro, per dirla nelle parole del marinaio britannico William
Davidson), colpendolo con alcune granate, ma la nave rimase a galla; mentre il Tigre s’inabissava, il Kingston lanciò un siluro contro il Pantera, colpendolo a prua e causando
gravi danni. Al calare del buio, l’unità britannica si ritirò a Gedda; quando
tornò sul posto, all’alba del 4 aprile, trovò che entrambi i cacciatorpediniere
italiani erano affondati. Del Tigre,
capovolto, affiorava parte della carena della prua (più tardi scomparve
anch’essa sotto la superficie), mentre del Pantera,
affondato in assetto di navigazione, spuntavano dalla superficie le estremità
degli alberi. Prima di andarsene il Kingston
recuperò dal mare una scialuppa, che fu poi consegnata all’Eagle per aumentarne la dotazione di imbarcazioni.
Gli equipaggi raggiunsero
la riva in parte sulle imbarcazioni disponibili, dov’erano trasbordati prima di
iniziare l’autoaffondamento, ed in parte a nuoto, sbarcando sulla costa
desertica dell’Arabia Saudita, terra neutrale. Tra chi raggiunse la riva a
nuoto vi fu buona parte del personale di macchina, rimasto per ultimo a bordo
per allontanare la nave dalla costa e portarla in fondali abbastanza profondi
da rendere inattuabile un suo successivo recupero. Una nuotata non priva di
rischi: il sottocapo macchinista Valentino Campagnolo, un trevisano di ventidue
anni, che come altri raggiunse la riva nuotando con indosso un giubbotto di
sughero, fu sfiorato da uno squalo che gli toccò le gambe. Quell’unico tocco lo
spaventò molto più di tutti gli attacchi aerei subiti nelle ore precedenti.
Purtroppo, non tutti
ce l’avevano fatta: l’equipaggio del Tigre
aveva dovuto lamentare due dispersi, il secondo capo furiere Giuseppe Morelli
di La Spezia ed il sottocapo cannoniere Rosario Villardo di S. Salvatore di
Fitalia, ed un ferito grave, il sergente nocchiere Carmine Marasco di Scigliano,
che sarebbe poi deceduto per le ferite durante l’internamento a Gedda, il 5
dicembre 1941 (la sua salma sarebbe tornata nel paese natale solo a distanza di
69 anni, nel 2010).
Meno chiara è la
sorte del marinaio Giovanni Previtali, di Pescate, che morì in prigionia in
Sudafrica il 22 gennaio 1943: non è qui noto se egli fu catturato perché
rimasto a terra a Massaua, magari malato, e quindi catturato alla caduta della
piazzaforte, oppure non giunto a terra con gli altri e raccolto dal Kingston, oppure catturato dai
britannici in circostanze ancora differenti. Anche alcuni altri membri
dell’equipaggio del Tigre finirono in
campi di prigionia britannici, in Africa ed in India.
Dopo l’arrivo a
terra, i naufraghi di Tigre e Pantera raggiunsero Gedda a piedi, con
una marcia di mezza giornata attraverso il deserto. Nel deserto in prossimità
di Gedda, i marinai del Tigre trovarono
un grosso cane bastardo, energico e giocherellone, che presero con loro,
battezzandolo “Borraccia”.
Le autorità saudite,
trattandosi di militari di un Paese belligerante, provvidero al loro
internamento; inizialmente, dal 4 aprile, gli equipaggi dei due
cacciatorpediniere vennero concentrati provvisoriamente in una caserma di
Gedda, detta “Chishla”. Qui li raggiunsero dapprima, il 7 aprile, i naufraghi
del Battisti, autoaffondatosi in un
punto della costa più lontano da Gedda (avevano dovuto marciare per tre giorni
nel deserto per raggiungere la città), e poi, il 12 aprile, 45 naufraghi del Manin, approdati sulla costa araba dopo
una settimana di estenuante navigazione in una scialuppa sovraffollata (gli
altri superstiti di quell’unità erano stati fatti prigionieri dalla nave
britannica Flamingo, che li aveva
soccorsi dopo alcuni giorni). L’arrivo dei commilitoni del Manin, ridotti in condizioni pietose dai giorni trascorsi in mare
senza cibo e con poca acqua, destò grande commozione tra gli equipaggi, che
dopo uno sconcertato silenzio abbracciarono i compagni redivivi.
La Chishla era una
costruzione a dir poco spartana, per giunta non ancora ultimata: mancavano
pavimenti, porte, finestre, intonaco, impianti idrici (l’acqua, parte acqua
piovana raccolta nei pozzi e parte prodotta da un distillatore gestito da un
russo), servizi igienici. Solo pochi locali risultavano abitabili, così gran parte
dei marinai si adattò a vivere e dormire nel lungo corridoio che attraversava
l’edificio; prima sulla nuda terra, poi, dopo qualche giorno, su stuoie
frattanto arrivate. Ben poco era rimasto delle loro uniformi, ridotte, al
momento dell’autoaffondamento, al minimo indispensabile per non intralciare il
nuoto, e poi ulteriormente ridotte durante la marcia verso Gedda sotto il sole
rovente (e difatti i naufraghi del Manin,
attraversando la zona in camion pochi giorni dopo, videro abbandonati lungo la
strada resti di bottiglie e pezzi di capi di corredo da marinai della Regia
Marina); i più indossavano solo pantaloncini e maglietta, mentre la locale
Legazione d’Italia aveva fornito loro sapone, asciugamani e copertine. Durante
la breve permanenza nella Chishla, gli equipaggi di Tigre e Pantera
realizzarono nel cortile una rudimentale “doccia” (due taniche riempite d’acqua
appese ad altrettante forche, sistemate in mezzo al cortile, senza niente che
potesse fungere da paravento) e scavarono in un locale interno delle fosse che,
circondate da supporti in legno per gli utilizzatori (anche qui nessuna sorta
di paravento, l’intimità non era una possibilità in condizioni simili;
arrivarono delle stuoie, per fungere da tramezze, soltanto pochi giorni prima
del trasferimento degli internati in altra sede), servirono da latrine. I pasti
consistevano invariabilmente in riso e caprone, consumati in piedi od
appoggiati ai davanzali delle finestre in pochi piatti di smalto usati a
rotazione; ciascuno aveva anche un cucchiaio ed un bicchiere d’alluminio.
Il problema più grave
era rappresentato dalle zanzare anofeli, che infestavano tutta la zona in cui
sorgeva la caserma; un terzo degli internati, durante la breve permanenza alla
Chishla, si ammalò di malaria, senza che vi fosse nulla per curarla.
Dopo circa un mese
passato alla Chishla, i marinai italiani vennero trasferiti dalle autorità
arabe nelle isole di El Wasta ed Abu Saad, al largo di Gedda. Usate fino a poco
tempo prima come luoghi di ricovero per pellegrini appestati diretti alla Mecca
(distante solo 80 km da Gedda), le due isole, distanti 3-4 km dalla costa e 8
dal porto di Gedda, vennero ritenute dalle autorità dell’Arabia Saudita il
luogo più indicato per un internamento prolungato dei marinai italiani, che
assommavano in tutto a circa 700 uomini, ai quali si aggiungevano un centinaio
di civili e militari italiani giunti in Arabia dall’Eritrea, attraversando il
Mar Rosso su mezzi di fortuna, per non cadere prigionieri dei britannici.
L’equipaggio del Tigre, insieme al gruppo del Manin e parte dei militari e civili
“sfusi” giunti dall’Eritrea (circa 300 uomini in tutto), venne alloggiato ad El
Wasta, mentre gli equipaggi di Battisti
e Pantera (circa 500 uomini) furono
sistemati ad Abu Saad.
El Wasta era
un’isolotto di 375 metri di perimetro (con l’alta marea; la bassa marea
decuplicava la superficie dell’isola, ma questa parte non era, ovviamente,
abitabile), piatto, privo di alberi, erba od altra vegetazione (eccetto per
qualche rado cespuglio) e cosparso di dune sabbiose. I quattro quinti degli
internati trovarono posto in otto vecchi e malconci capannoni in muratura,
mentre gli altri dovettero adattarsi a vivere in tende. Vivevano in tende anche
i militari arabi, una decina (al comando di un graduato), incaricati di
vigilare sugli internati, che si trovavano in uno stato di sostanziale semiprigionia
(sebbene i soldati arabi fossero estremamente amichevoli nei confronti degli
internati, fino anche ad una certa ingenuità, e la sorveglianza risultasse più
che altro una formalità).
Il clima era quello
del Mar Rosso: caldo insopportabile (55° C all’ombra) abbinato ad elevatissima
umidità, senza un alito di vento, che provocavano ininterrotta sudorazione.
Viveri ed acqua giungevano via mare da Gedda, ogni giorno, con motolancie e
sambuchi a vela; qualche volta, se il maltempo impediva per un giorno l’arrivo
delle imbarcazioni, si digiunava (più avanti, risparmiando, fu possibile
costituire una riserva di riso ed acqua).
Assunse il comando
degli internati di El Wasta il capitano di fregata Carlo Felice Albini, giunto
dall’Eritrea sul motoscafo RAMA 1010
della Regia Aeronautica, ufficiale più alto in grado presente sull’isola. Albini
organizzò gli internati come se si trovassero ancora su una nave da guerra; per
mantenere gli uomini coesi ed occupati, istituì precisi orari per sveglia,
colazione, posto di lavaggio, posto di lavoro, assemblea generale, pranzo,
scuole, cena, appello, silenzio (mancando una tromba, si regolava il tutto col
fischietto); parimenti dispose che vi fosse un sottufficiale di guardia, un
piantone, un servizio di guardia, comandante per ritirare i viveri e portarli
alle cucine, rapporti e punizioni, prigione compresa. Su ordine di Albini,
anche i civili giunti dall’Eritrea ricevettero un grado militare provvisorio,
venendo assegnati ai vari reparti e ricevendo gli stessi obblighi dei militari.
Il silurista Gaetano Cafiso
(1918-2010), da Grammichele (Catania), imbarcato sul Tigre durante la guerra. Racconta il nipote Costantino Colasanti,
che si ringrazia per le immagini (sopra, risalente al 1939; sotto, datata 20
gennaio 1940): “…per licenza da Massaua [i
marinai] venivano spediti a un giorno di
treno vicino a Asmara, in un monastero molto curato verde e lussureggiante (…)
Quando il Tigre e gli altri decisero per
l’attacco (suicida) a Port Sudan, il comandante fece un bel discorso
patriottico che fu accettato con grande entusiasmo da parte di tutti. Dopo
l’affondamento del Tigre, tra gli squali, mio nonno guadagnò la costa, appena
arrivati molti si nascosero tra la sabbia e una radura che poi si rivelò un
campo di angurie. Fecero indigestione di angurie mista a sabbia! Poi creando
piccoli gruppetti andarono in esplorazione, venendo quasi subito fermati da
beduini armati con il cammello (polizia saudita?). Gli stessi poi attuarono
l’internamento all’isola di El Wasta. Durante l’internamento mangiavano spesso
riso grezzo (un pugno al giorno) con molte pietruzze e avevano a disposizione 2
litri di acqua per fare tutto”.
L’organizzazione di
Albini, inizialmente criticata da più di qualcuno, si rivelò tuttavia efficace;
lavorando, i marinai dei cacciatorpediniere trovarono modo sia di passare il
tempo che di migliorare la propria condizione. Nel giro di qualche mese,
vennero create una falegnameria che riparava mobili ed infissi e permise
inoltre di realizzare gabinetti e docce su palafitte; una sartoria, che passò
dagli iniziali rammendi ed attaccature di bottoni alla realizzazione di tenute
sahariane; una piccola officina (diretta dal capo meccanico Noce, del Tigre) per la produzione di oggetti
metallici. Alcuni improvvisati giardinieri riuscirono a far crescere nei pressi
dei capannoni un po’ di verde, fiori e persino qualche pianta di pomodoro.
Con il cellophane
ricavato dalla fasciatura delle sigarette per l’estero vennero realizzate
solide cinghie per pantaloni, che ebbero un notevole successo tra la
popolazione della vicina Gedda. Capo Noce, utilizzando la latta dei bidoni di
datteri, costruì anche una distilleria, con la quale fu possibile ricavare
bevande alcoliche (il più delle volte alcol metilico, distillato dalle patate,
ma a volte anche alcol etilico, ricavato da uva secca). Un “reparto lavori
generali” si dedicò ai lavori edili, realizzano una nuova, sebbene piccola,
costruzione in muratura.
In alcune tende,
servendosi di lavagne in ardesia e cavalletti di legno, gli ufficiali ed alcuni
sottufficiali istituirono varie scuole, con corsi di italiano, storia,
geografia, aritmetica, matematica, scienze, lingue straniere, materie
professionali (per lo più legate alle varie specialità della Regia Marina) ed
altro ancora.
Per lo svago vennero
costruiti due campi di bocce, comprensivi di bocce perfettamente sferiche
realizzate dalla falegnameria, ed organizzate gare di corsa e di nuoto (queste
ultime, di rado e solo in acque bassissime, per il pericolo rappresentato dai
pescicani). Parecchi uomini si esercitavano in ginnastiche ed atletica leggera,
non senza rischi: il tenente commissario Castiello, del Tigre, si spezzò l’osso dell’avambraccio destro nel lancio del
giavellotto, a causa della decalcificazione ossea provocata dalla dieta povera
di calcio cui erano costretti gli internati.
Si realizzarono anche
degli alberi della cuccagna; si scrivevano e provavano opere teatrali, e nacque
una vera e propria compagnia filodrammatica, che organizzava spettacoli sulle
due isole.
Ancora, vi era chi si
dedicava alla pesca, chi suonava, chi si appassionava di astronomia, chi
raccoglieva e collezionava conchiglie, coralli, pesci e crostacei. Molti
diffusi i giochi di carte: bridge, tresette, scopone scientifico. Per mezzo
dell’ambasciata italiana a Gedda e della Mezzaluna Rossa del Cairo si poté ottenere
l’invio di un buon numero di libri di vari argomenti, per quanto non
nuovissimi.
Non mancava qualche
“animale da compagnia”: oltre al cane Borraccia, che si guadagnò facilmente la
simpatia di tutti, gli internati adottarono anche due gazzelle, un maschio
(“Gigio”) ed una femmina (“Gigia”), che diedero pubblicamente alla luce un
piccolo, chiamato “Tarik”, nonché una scimmietta, chiamata “Elly”, che però
finì con l’essere cacciata dall’isola per i dispetti sempre più pesanti che si
divertiva a fare.
Più problematica la
situazione sanitaria: per più di un anno l’unico dottore fu il sottotenente
medico Palmieri, che era competente ma doveva operare nella mancanza quasi
assoluta di mezzi. Fu possibile procurarsi solo un po’ di chinino, atebrina e
plasmochina (acquistati presso il suk di Gedda) nonché di alcol e cotone,
mandati sulle isole dopo qualche tempo. Il chinino permise di curare i
moltissimi malati di malaria, ma tre uomini – un militare italiano ed un ascaro
afflitti da un’infezione intestinale, ed un civile malato di sifilide –
morirono per semplice mancanza di medicinali, per malattie che in Europa
sarebbero state agevolmente curabili.
Dopo qualche tempo,
la legazione italiana di Gedda ottenne che gli internati avessero il permesso
di scendere a terra in “franchigia”, a gruppi di 20 o 30, scortati da alcune
sentinelle arabe armate, ancorché non molto minacciose. Durante queste uscite i
marinai giravano per Gedda e visitavano il suk della città, anche se la
magrezza delle risorse economiche – otto riyal sauditi al mese, pari a 48 lire
italiane dell’epoca – non consentiva di comprare altro all’infuori di sapone e
dentifricio.
Monotona
l’alimentazione: ogni giorno, a pranzo e cena, senza scampo, riso (bollito,
condito con olio di semi… e sabbia; qualche rarissima volta ci si poteva
procurare del curry) e caprone, fino alla nausea. Persino la già citata
compagnia filodrammatica venne battezzata, ironicamente, “Riso e caprone”.
Chi pescava, e chi
non fumava e barattava così le sigarette con i pescatori, variava la dieta con
un po’ di pesce bollito, per quanto anch’esso risultasse insipido: la pesca,
praticata sia come passatempo sia allo scopo di variare la dieta, dava frutti
abbondanti (le acque del Mar Rosso al largo di Gedda erano molto pescose), come
lucci, pesci luna (che però risultavano immangiabili, salvo che per il cane Borraccia,
il quale ingrassò enormemente a forza di mangiarne), polpi e talvolta anche
squaletti. Il difetto era che il pesce del Mar Rosso risultava invariabilmente
stopposo ed insipido (proprio gli squali, tra tutti, si rivelarono tra i più
gustosi), anche per la parchezza della cucina dell’isola (potevano solo essere
bolliti e forse conditi con olio di semi), ma quanto meno era un cibo fresco.
In un’occasione, un piroscafo indiano di passaggio diede agli internati un
modesto quantitativo di insalata (simile a bietola o spinacio), col quale
furono preparati dei ravioli; ma l’effetto di questa pietanza fu di causare
violenti attacchi di dissenteria per due o tre giorni.
Dato anche
l’isolamento dell’Arabia Saudita, all’epoca ancora un arretrato regno
desertico, ben poche furono le visite esterne di cui gli internati poterono
godere. Furono visitati in alcune occasioni da una missione sanitaria italiana,
guidata dal maggiore medico della Regia Marina Potzolu, e dal segretario della
legazione italiana a Gedda; oltre a questi, le uniche altre visite furono due
in due anni: una da parte dell’ambasciatore d’Italia in Arabia Saudita, l’altra
da parte di una coppia di civili italiani residenti del Paese (il marito era
l’agente a Gedda del Lloyd Triestino), i coniugi Conti.
Per lo stesso motivo,
poca e rara fu la corrispondenza, la prima della quale giunse alle isole solo
dopo 7-8 mesi. Alla fine, eludendo il divieto imposto dagli arabi, ci si
procurò una radio per poter comunicare con l’Italia.
Ci furono anche due
tentativi di fuga, da parte di altrettanti gruppetti di internati, entrambi
stroncati (uno quasi subito, l’altro dopo che i fuggiaschi sono riusciti a
raggiungere Gedda e percorrere alcune decine di miglia su un motoscafo rubato);
in conseguenza di ciò, il distaccamento delle guardie di El Wasta,
dall’originaria decina di soldati comandati da un graduato, venne aumentato ad un
centinaio di uomini comandati da un ufficiale.
Così la vita andò
avanti per quasi due anni. Nel mentre, però (giugno 1942), Italia e Regno
Unito, con la mediazione della Turchia, avviarono negoziati per uno scambio di
prigionieri: in cambio della liberazione di 838 prigionieri di guerra
britannici, australiani e sudafricani in mano italo-tedesca, la Gran Bretagna
avrebbe acconsentito al rilascio, da parte dell’Arabia Saudita, di 788
internati italiani e tedeschi, ossia i superstiti di Tigre, Pantera, Battisti e Manin più i marittimi tedeschi ed i civili e militari italiani
fuggiti in Arabia alla caduta dell’Eritrea. L’accordo era stato sollecitato
dall’Arabia Saudita, rivoltasi più volte al governo britannico per disfarsi di
tante “bocche da sfamare” (nonché da alloggiare e curare) capitate
indesideratamente sul proprio territorio, e che altrimenti avrebbe dovuto
mantenere per il resto della guerra. Da parte sua, il Regno Unito avrebbe
voluto evitare che centinaia di marinai ancora abili potessero tornare in forza
alla Regia Marina, ma d’altra parte non gradiva la presenza di tanti militari
nemici, sebbene internati e disarmati, non lontani dalle linee di comunicazione
britanniche tra Egitto ed India.
Fu proprio la Turchia
a suggerire ai britannici come risolvere il secondo problema compensando il
primo: cioè scambiando gli internati italiani con prigionieri britannici. La
proposta turca, fatta nel giugno 1942 e che accolse il favore dell’Arabia,
venne accettata dai governi britannico ed italiano rispettivamente l’11 ottobre
1942 (pochi giorni dopo essere stata ad esso sottoposta dalla Turchia) ed il 22
gennaio 1943.
Gli internati seppero
che la loro situazione stava per cambiare dopo la visita di un medico svizzero,
rappresentante della Croce Rossa Internazionale, giunto da Ginevra; dopo aver
visto le difficili condizioni climatiche e sanitarie in cui si viveva sulle
isole di Gedda, questi non mancò di perorare la causa del loro rimpatrio.
Quando giunse il
momento di lasciare El Wasta, nel marzo 1943, il preavviso fu di meno di due
giorni; comunque non era necessario molto tempo per sgomberare l’isola, visto
che le proprietà degli internati, all’infuori di chi si era messo a
collezionare conchiglie e coralli, si limitavano quasi sempre ai soli indumenti
che indossavano ed ad un ricambio. La parte più triste consisté nel prendere
commiato dalle gazzelle e soprattutto dal povero Borraccia, che dovette essere
lasciato sull’isola.
A Gedda, i 788
internati italo-tedeschi furono imbarcati sul piroscafo britannico Talma, della British India, dove vennero
inizialmente sistemati nella stiva di prua, rifocillati con patate bollite. L’equipaggio,
per rispettare la neutralità araba, era formalmente composto da soli civili, ma
dopo la partenza una parte di essi tornò ad indossare la divisa militare (ma
già gli internati si erano accorti che parte dei “civili” del Talma erano semplicemente militari in
abito borghese per le circostanze). Visto che i marinai italiani erano ancora
militarmente inquadrati e con spirito elevato, le guardie vennero rafforzate,
specialmente nell’avvicinarsi al Canale di Suez.
Dopo quattro o cinque
giorni, entrati nel Mediterraneo e saputo che gli ufficiali britannici
prigionieri sulla nave ospedale italiana Gradisca
(che li avrebbe portati nel luogo dello scambio) ricevevano trattamento di
prima classe, anche gli ufficiali italiani furono trasferiti in cabine di prima
classe ed il loro menù migliorò di molto, con uova al bacon, porridge,
prosciutto ed altro.
Il 19 marzo, il
giorno prima di raggiungere il porto di Mersina, nella neutrale Turchia,
designato per lo scambio, il Talma,
nonostante i contrassegni concordati per renderla riconoscibile quale nave
adibita al trasporto degli internati italiani, si trovò sotto attacco da parte
di bombardieri italiani decollati da Rodi. Fortuna volle che nessuna bomba raggiungesse
il bersaglio.
Finalmente la Talma giunse a Mersina, dove trovò ad
attenderla la Gradisca, con gli 838
prigionieri del Commonwealth: lo scambio ebbe luogo tra il 20 ed il 21 marzo
1943; prigionieri ed internati vennero trasbordati da Talma a Gradisca e
viceversa mediante delle chiatte. A Mersina gli internati italiani, reduci da
quasi tre anni di caldo torrido del Mar Rosso ed ancora vestiti in tenuta
tropicale, videro per la prima volta da anni la neve, che imbiancava le
montagne attorno alla rada. Sulla Gradisca
ricevettero pacchi dono con tè, caffè, zucchero, sigarette e generi alimentari.
Il freddo, però, per
gli internati così poco vestiti, divenne presto un problema; solo dopo tre
giorni di navigazione con mare grosso e vento di tempesta si scovarono, sulla Gradisca, tenute di fatica da
sommergibilisti per vestire gli ex internati.
La Gradisca raggiunse Bari il 27 marzo
1943; gli internati del Mar Rosso, accolti da Maria José di Savoia, furono poi
inviati in quarantena e successivamente in licenza.
Lo scambio era
avvenuto al di fuori delle regole stabilite dalla Convenzione di Ginevra del
1929 (articolo 74: i prigionieri scambiati non possono più essere impiegati in
servizi militari attivi), così gli uomini scambiati tornarono nuovamente a combattere;
la guerra, per loro, continuava, e non tutti ne avrebbero visto la fine.
Mario Arru, secondo capo
cannoniere che era stato decorato con la Croce di Guerra al Valor Militare per
le sue azioni durante le vicende della perdita del Tigre (era riuscito a trarre in salvo dieci marinai e la bandiera
di combattimento della nave), sarebbe stato assegnato alla corazzata Roma, sopravvivendo al suo affondamento
da parte di bombardieri tedeschi all’indomani dell’armistizio, il 9 settembre
1943; il comandante Tortora avrebbe aderito alla Repubblica Sociale Italiana,
venendo coinvolto nelle vicende dei contrasti tra la Marina Nazionale
Repubblica e la X Flottiglia MAS di Junio Valerio Borghese.
Caduti in guerra tra l’equipaggio del Tigre:
Mario Battaglia, 27 anni, da Catania, marinaio
fuochista, deceduto in Mar Rosso il 9.11.1940
Sante Farinelli, 22 anni, da Comacchio,
marinaio, deceduto in Mar Rosso l’11.11.1940
Carmine Marasco, 26 anni, da Scigliano,
sergente nocchiere, deceduto in internamento in Arabia Saudita il 5.12.1941
Carmelo Meli, 31 anni, da Catania, marinaio
fuochista, deceduto in Mar Rosso l’11.11.1940
Giuseppe Morelli, 27 anni, da La Spezia,
secondo capo furiere, disperso in Mar Rosso il 10.4.1941
Giovanni Previtali, 22 anni, da Pescate,
marinaio, deceduto in prigionia in Sudafrica il 22.1.1943
Quirino Serretti, 22 anni, da Fermignano,
marinaio, deceduto in Mar Rosso l’11.11.1940
Rosario Villardo, 19 anni, da San Salvatore di
Fitalia, sottocapo cannoniere, disperso in Mar Rosso il 4.4.1941
Il Tigre a Taranto quando faceva parte della Flottiglia Scuola Comando
(USMM). |
Ciao, mio nonno C. Balducelli era sul Battisti (credo). Il capitano (o qualche ufficiale) scrisse un libro che pubblicó a tiratura familiare. Raccontava dell affondamento, di Abu Saad (non menzionava Borraccia, credo). Noi nipoti lo ricordavamo urlare la notte, e piangere disperato. Ci raccontava che sognava i suoi compagni, mangiati vivi dagli squali.
RispondiEliminaGrazie per questa pubblicazione, mi tocca profondamente.
Bsera Lorenzo. Il CF Gaetano Tortora, nato a Napoli il 18.8.1900, rimpatriato, dopo l'armistizio aderi' alla RSI.
RispondiEliminaEsatto, l'avevo scritto se hai notato.
EliminaNel 1935-36 il Tigre fu comandato in Mar Rosso dal CF Manlio De Pisa, futuro comandante del Pola a Capo Matapan.
RispondiEliminaGrazie, aggiungo.
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