domenica 1 novembre 2020

Giorgio Ohlsen

Il Giorgio Ohlsen (Coll. Giorgio Spazzapan, via Mauro Millefiorini e www.naviearmatori.net)

Piroscafo da carico di 5694,04 tsl, 3363,55 tsn e 8650 o 7700 tpl, lungo 120,16 metri, largo 15,81 e pescante 8,40, con velocità di 9,5 nodi. Di proprietà della Società Anonima Industrie Navali (INSA) di Genova, iscritto con matricola 1408 al Compartimento Marittimo di Genova, nominativo di chiamata internazionale IBOO.
Aveva quattro stive, con una capienza complessiva di 11.791 metri cubi.
 
Breve e parziale cronologia.
 
13 luglio 1926
Varato come Valserchio (numero di costruzione 106) nei cantieri di Voltri (Genova) della Società Anonima Cantieri Cerusa per il Lloyd Mediterraneo Società Italiana di Navigazione, con sede a Genova.
Agosto 1926
Prima del completamento, per decisione del consiglio d’amministrazione del Lloyd Mediterraneo, il Valserchio viene ribattezzato Giorgio Ohlsen, in onore dell’amministratore delegato della compagnia, morto improvvisamente alcuni giorni prima.

Notizia su “La Stampa” del 14 agosto 1926 (Archivio La Stampa)

Agosto 1926
Completato come Giorgio Ohlsen per il Lloyd Mediterraneo.
Il cambio di nome verificatosi poco prima del completamento fa sì che il Giorgio Ohlsen sia l’unica nave del Lloyd Mediterraneo a non ricevere un nome iniziante per “Val”, com’è tradizione di questa compagnia (Vallarsa, Valsavoia, Valdirosa, Valfiorita, Vallescura, Valcerusa, Valleluce, Valprato, Valrossa, Valverde, Vallemare, Valnegra, Valperga, Valreale) che internazionalmente è infatti conosciuta anche come “Val Line”.


Sopra, il Valserchio pronto al varo, e sotto, appena varato (g.c. Nedo B. Gonzales, via www.naviearmatori.net)


28 agosto 1926
Visita di prima classifica.
Porto di registrazione Genova, nominativo di chiamata NBSL.
12 novembre 1928
Il Giorgio Ohlsen, in navigazione nell’Atlantico settentrionale al largo della Virginia, riceve l’S.O.S. lanciato dal piroscafo passeggeri britannico Vestris, che sta imbarcando acqua al largo di Norfolk.
Danneggiato da una tempesta il giorno precedente durante un viaggio da New York (da dov’è partito il 10 novembre) al Rio della Plata, il Vestris sta assumendo uno sbandamento via via crescente, nonostante gli sforzi dell’equipaggio (parte del quale, per la verità, all’aggravarsi della situazione abbandona il posto senza aver ricevuto ordini in questo senso dagli ufficiali) per contrastare gli allagamenti con le pompe e con catene di secchi e per cercare di ripristinare l’assetto della nave, giungendo anche a gettare parte del carico in mare in un estremo tentativo di alleggerire la nave. Lo spostamento del carico provoca ulteriori falle ed aumenta lo sbandamento. Alle 9.10, quando lo sbandamento è già così accentuato da rendere difficile ogni movimento lungo i ponti, viene trasmesso un primo messaggio a tutte le navi nelle vicinanze: “Stiamo sbandando e potremmo necessitare di assistenza”; venti minuti dopo il Vestris ferma le macchine, per dedicare le caldaie interamente all’alimentazione delle pompe, ed alle 9.58 lancia l’S.O.S., seguito dal messaggio “Ci stiamo rovesciando sulla dritta e necessitiamo di immediata assistenza”. Il Giorgio Ohlsen è la prima nave a rispondere all’S.O.S, già alle 10.02, comunicando di trovarsi a sole 35 miglia dalla nave in difficoltà (ma si scoprirà poi che la posizione indicata dal Vestris nell’S.O.S., 37°45’ N e 71°81’ O, è errata di 37 miglia). Il piroscafo italiano comunica inoltre i suoi rilevamenti in risposta ad un messaggio trasmesso all’aria da una stazione radio di terra col fine di accertare quali navi si trovino vicino alla posizione del Vestris.
Sul Vestris, intanto, la situazione peggiora rapidamente: alle 10.30 i fuochisti si ribellano e salgono in coperta, lasciando gli ufficiali a spalare carbone nelle uniche due caldaie rimaste accese; viene ripetuto l’S.O.S., seguito dal messaggio “Necessitiamo urgente aiuto”. I tentativi di calare le lance 4 e 6 sono infruttuosi; il Vestris comunica al piroscafo passeggeri Voltaire, col quale è in contatto radio dal giorno precedente, “Vi preghiamo di accorrere immediatamente in nostro aiuto a tutta forza”. Poi, alle 10.40, trasmette al piroscafo giapponese Ohio Maru, distante 135 miglia, “Venite subito, alla massima velocità possibile” (la nave nipponica comunica di essere diretta verso il Vestris); dieci minuti dopo anche il transatlantico britannico Cedric, distante 180 miglia, offre il suo aiuto, ma il Vestris risponde paradossalmente “Non necessitiamo della vostra assistenza”. Ormai lo sbandamento ha raggiunto i 32 gradi, l’acqua lambisce il ponte di coperta, ed alle undici il Vestris trasmette a tutte le navi nelle vicinanze: “Per favore, venite in nostro soccorso”. Poco dopo, la nave britannica comunica la sua posizione al Giorgio Ohlsen (per altra fonte, avrebbe chiesto a quest’ultimo i suoi rilevamenti). Alle 11.11 il Vestris comunica alla stazione di radio di Tuckerton “Potremmo dover calare le scialuppe da un momento all’altro”; alle 11.30 il cedimento di una paratia aggrava rapidamente la situazione, mentre il Giorgio Ohlsen trasmette i suoi rilevamenti al Vestris. Alle 11.35 è il Vestris a comunicare i suoi ultimi rilevamenti al Cedric.
Alle 12.30, mentre diverse navi (tra cui i piroscafi Santa Barbara ed American Shipper, il cacciatorpediniere USS Davis e persino la corazzata USS Wyoming) stanno accorrendo in suo soccorso, il Vestris comunica “Presto dovremo abbandonare la nave”; alle 13.17, “Non possiamo aspettare ancora molto. Abbandoneremo la nave”, ed alle 13.22, “Stiamo imbarcandoci sulle scialuppe. Addio”. Alle 14.30, il Vestris s’inabissa nel punto 37°38’ N e 70°23° O, a duecento miglia da Hampton Roads e 240 miglia a sudest di Sandy Hook; delle 325 persone imbarcate, 111 perderanno la vita, in maggioranza passeggeri. Proprio il fatto che oltre metà dei passeggeri, tra cui tutti i bambini presenti a bordo, abbia perso la vita, a fronte della sopravvivenza di tre quarti dell’equipaggio, scatenerà pesanti critiche nei confronti della condotta dell’equipaggio del Vestris.
In tutto, sono dieci le navi coinvolte nelle ricerche: la corazzata USS Wyoming, il cacciatorpediniere USS Davis ed i mercantili Giorgio Ohlsen, Ohio Maru, American Shipper, Acushnet, Collamer, Myriam, Berlin e Santa Barbara. Secondo i giornali statunitensi dell’epoca, non risulta che il Giorgio Ohlsen abbia recuperato naufraghi del Vestris; secondo Arthur J. Costrigan, sovrintendente al traffico della Radiomarine corporation, la nave italiana sarebbe andata in cerca dei naufraghi, ma senza riuscire a trovarli, mentre secondo il capitano E. P. Jessup, consulente tecnico della commissioned d’inchiesta istituita sul disastro, il Giorgio Ohlsen non sarebbe riuscito a superare i cinque nodi di velocità nella tempesta, il che gli avrebbe impedito di giungere sul luogo del naufragio in meno di sei ore.
1932
È comandante del Giorgio Ohlsen il capitano L. Lanzetti.
In questo periodo il Giorgio Ohlsen è impiegato nel servizio commerciale regolare Italia-Canada del Lloyd Mediterraneo (linea Genova-Livorno-Napoli-Catania-Messina-Palermo-Montreal da aprile a novembre, Genova-Livorno-Napoli-Catania-Messina-Palermo-St. John’s da dicembre a marzo), imbarcando grano canadese a Montreal e trasportandolo in Italia.
1934
Il nominativo di chiamata viene cambiato in IBOO.
1936
Acquistato dalle Industrie Navali Società Anonima (INSA) di Genova (armatore Giovanni Gavarone), insieme all’intera flotta del Lloyd Mediterraneo (undici navi).
Agosto 1936
Poco dopo lo scoppio della guerra civile spagnola, il Giorgio Ohlsen evacua un gruppo di 42 profughi dalla città spagnola di Gijon, in mano ai repubblicani. Al loro arrivo a Saint-Jean-de-Luz, in Francia, la sera del 15 agosto, i profughi raccontano ai giornalisti che i nazionalisti hanno pesantemente bombardato Gijon, causando numerose vittime, e che per rappresaglia i repubblicani hanno fucilato centinaia di sospetti simpatizzanti della causa nazionalista, precedentemente arrestati.
28 ottobre 1936
In occasione delle celebrazioni dell’anniversario della marcia su Roma, si tiene sul Giorgio Ohlsen, ormeggiato nel porto polacco di Gdynia, una cerimonia cui partecipano il locale console italiano, Antonio Stella, il comandante del porto, capitano Kański, il segretario del comitato Polonia-Italia, Madejski, e gli ufficiali dei piroscafi italiani Zeffiro e Valsavoia, presenti anch’essi nel porto. Il capitano Kański porge al console Stella i suoi migliori auguri per il governo italiano.
7 dicembre 1939
Durante un viaggio dall’Italia a Newcastle, il Giorgio Ohlsen (capitano di lungo corso Giovanni Di Bella) trae in salvo una trentina di naufraghi della motonave olandese Tajandoen, affondata dal sommergibile tedesco U 47 (al comando del celebre capitano di corvetta Günther Prien, famoso per l’affondamento della corazzata Royal Oak nella rada di Scapa Flow) nel Canale della Manica (in posizione 49°07’ N e 05°07’ E, 35 miglia a nord di Ouessant) alle 5.24 di quella mattina. Proveniente da Amsterdam dopo aver fatto scalo anche ad Anversa, la neutrale Tajandoen (capitano Johan Bernard Roeterink) era diretta a Batavia con un equipaggio di 54 uomini, 14 passeggeri ed un carico di merci varie (tra cui ferro, cemento, vetro ed acciaio); scambiata dall’U 47 per una nave cisterna e silurata senza preavviso, è affondata in pochi minuti dopo una forte esplosione che l’ha spezzata in due, con la morte di sei membri dell’equipaggio. I 62 superstiti (il comandante, altri 47 membri dell’equipaggio ed i quattordici passeggeri) hanno fatto appena in tempo a mettere a mare le lance, evitando a fatica il carburante in fiamme che galleggia sulla superficie del mare.
Ad avvistare per primo all’orizzonte l’incendio del Tajaonden, alle 6.30 del 7 dicembre, è il comandante Di Bella, che convoca subito in plancia il radiotelegrafista, Amilcare Balsini, ordinandogli di iniziare immediatamente l’ascolto radio per captare eventuali richieste di aiuto provenienti dalla zona in cui sono visibili le fiamme. Balsini racconterà poi ai giornalisti de “La Stampa”, al suo ritorno in Italia: “Eseguii prontamente l’ordine iniziando senz’altro l’ascolto su 600 metri. La zona era libera, ma nessun segnale mi perveniva. Ne dedussi conseguentemente che la nave sinistrata non si trovava più in condizione di lanciare alcun segnale, così come non aveva potuto evidentemente lanciare neppure il segnale preliminare a quello di S.O.S., oppure tali segnali erano stati così deboli ed irregolari che non avevano potuto neanche provocare lo scatto del nostro ricevitore automatico di soccorso, che come sempre, si trovava inserito per raccogliere qualunque S.O.S. anche in assenza momentanea del marconista in stazione. Iniziammo allora il lancio ininterrotto del segnale di urgenza che alle 6.35, cioè cinque minuti dopo l’avvistamento dell’incendio, venne raccolto da Land’s End-Radio e da Ouessant-Radio e successivamente, alle 6.53, dal piroscafo belga Louis Sheid col quale iniziammo uno scambio continuo di comunicazioni per informazioni reciproche al fine di agevolare le ricerche e l’assistenza dei naufraghi. Tali ricerche, iniziatesi e svoltesi in base alle nostre segnalazioni, si protrassero per ben cinque ore, durante le quali le nostre trasmissioni si alternavano di volta in volta con quelle di Land’s End-Radio, di Ouessant-Radio e del piroscafo olandese Naal Dwic che si recò anch’esso sul luogo del sinistro”.
Dopo aver ricevuto le prime cure a bordo del Giorgio Ohlsen, i naufraghi vengono trasbordati sul piroscafo belga Louis Scheid (che ha assistito all’attacco e che ha recuperato i restanti naufraghi) che dovrà riportarli nei Paesi Bassi; ma strada facendo, l’8 dicembre, il Louis Scheid finirà invece con l’incagliarsi presso Warren Point, sulla costa del Devon, durante una burrasca, venendo distrutto dalla furia del mare. Un battello di soccorso inviato da Salcombe riuscirà tuttavia a salvare tutti i componenti di entrambi gli equipaggi.
Quanto al Giorgio Ohlsen, proseguirà nel suo viaggio, raggiungendo Newcastle e facendo poi ritorno in Italia, a Portoferraio, dove giungerà il 21 dicembre.
2 febbraio 1940
All’arrivo a Genova del Giorgio Ohlsen al termine di quello che si rivelerà essere il suo penultimo viaggio, il locale console olandese, dottor Schiranel, invita nel consolato del suo Paese l’equipaggio della nave italiana, in onore del quale è stata organizzata una cerimonia di ringraziamento per il ruolo svolto nel salvataggio dei naufraghi del Tajandoen. Presenziano alla cerimonia anche rappresentanti della compagnia di navigazione Stoomvaart Maatschappij "Nederland", proprietaria del Tajandoen; il console Schiranel esprime all’equipaggio del Giorgio Ohlsen la gratitudine dei marittimi olandesi per l’opera di soccorso condotta dal piroscafo italiano, dopo di che consegna al comandante Di Bella una pergamena commemorativa, nonché un orologio d’oro ed altri doni destinati ai marinai del Giorgio Ohlsen.
 
L’affondamento
 
Il Giorgio Ohlsen fu una delle otto navi mercantili italiane che andarono perdute per fatto bellico durante il periodo della cosiddetta “non belligeranza” italiana nella seconda guerra mondiale (1° settembre 1939-10 giugno 1940), il periodo in cui l’Italia rimase neutrale dopo lo scoppio del conflitto in Europa.
In quei nove mesi e mezzo le navi mercantili italiane, al pari di quelle degli altri Paesi neutrali, continuarono a solcare i mari per mantenere vivi i commerci tra i Paesi non ancora entrati in guerra, esportando prodotti italiani ed importando materie prime di cui l’industria italiana aveva disperatamente bisogno. Il Giorgio Ohlsen, in particolare, venne noleggiato dalle Ferrovie dello Stato per trasportare in Italia carbone, imbarcato nei porti del Regno Unito.
Lo status di navi neutrali non salvaguardava completamente i bastimenti italiani dai pericoli della guerra: in aggiunta alla seccatura dei controlli cui erano sovente sottoposti dalle navi da guerra britanniche e francesi (al fine di accertare che non fossero impegnati nel contrabbando di materiale bellico in favore della Germania), rimaneva infatti sempre il rischio di essere attaccati per errore da qualche aereo o sommergibile, che non avesse riconosciuto la bandiera o visto i contrassegni di neutralità, com’era capitato al Tajandoen. Ma soprattutto c’era un’arma terribile, che non faceva distinzione tra amici, nemici o neutrali: la mina.
Nel febbraio 1940 il Giorgio Ohlsen, al comando del capitano Giovanni Di Bella, salpò da Genova in zavorra diretto a Newcastle-upon-Tyne, in Inghilterra, dove avrebbe dovuto caricare un carico di carbone per le Ferrovie dello Stato. La navigazione dall’Italia al Regno Unito trascorse senza intoppi, ma nella notte sul 14 febbraio, quando ormai non mancavano che poche ore di navigazione per raggiungere il Tyne, il viaggio del Giorgio Ohlsen fu interrotto per sempre dall’urto contro una mina tedesca.
L’ordigno esplose sotto la poppa del piroscafo italiano, con effetti catastrofici: rapidamente appoppatosi per il subitaneo allagamento delle stive poppiere, in pochi minuti il Giorgio Ohlsen affondò nel punto 53°17’ N e 01°10’ E (o 53°18’ N e 01°08’ E), poche miglia ad est della nave faro di Knoll, al largo di Cromer, di Shipwash e di Orford Ness (costa orientale dell’Inghilterra).
Metà dell’equipaggio fece appena in tempo a calare in mare una scialuppa ed a prendervi posto; l’altra metà, che data l’ora stava dormendo nelle rispettive cabine, non ebbe scampo. Data la modesta profondità del mare in quel punto (una ventina di metri), l’estremità della prua della nave affondata rimase affiorante dalla superficie per qualche tempo.
 
Dei 33 uomini presenti a bordo (32 di equipaggio più il pilota britannico), in 16 persero la vita, tra cui il comandante Di Bella; i 17 superstiti, tra cui il pilota, vennero tratti in salvo dai piroscafi britannici Lolworth e Chatwood, appartenenti ad un convoglio in navigazione nelle vicinanze, cui avevano segnalato la loro presenza con dei razzi di segnalazione. Soltanto un naufrago poté essere recuperato dal Chatwood, mediante una biscaglina calata lungo la murata, prima che le onde costringessero la scialuppa ad allontanarsi per non sfracellarsi contro il suo scafo; gli altri, tra cui il primo ufficiale Francesco Valdettaro – rimasto a bordo del relitto semiaffondato nel tentativo di trovare qualche altro sopravvissuto –, furono recuperati dal Lolworth. Quindici uomini affondarono con la nave o scomparvero in mare nel tentativo di raggiungere la scialuppa, mentre uno, l’ingrassatore Davide Podestà, morì per assideramento a bordo del Lolworth, poco dopo il salvataggio.
(Per altra fonte, invece, le vittime sarebbero state 17 ed i superstiti 16).
 
Da giornali dell’epoca è possibile ricostruire i particolari della tragedia.
L’edizione de “La Stampa” del 16 febbraio 1940 dava la notizia dell’affondamento del Giorgio Ohlsen, avvenuto per urto contro mina al largo della costa orientale dell’Inghilterra, ed annunciava che sedici uomini, oltre al pilota inglese, risultavano fino a quel momento tratti in salvo, su un equipaggio di trentadue; «il fatto che sedici di esse [persone dell’equipaggio] non siano ancora state raccolte non significa necessariamente che esse siano da considerarsi perdute». Veniva poi precisato che in serata si era saputo che una scialuppa del Giorgio Ohlsen, recante il nome della nave, quello del porto di registrazione (Genova) ed il numero 4, dopo essere stata avvistata e segnalata alla deriva era stata raggiunta a due miglia dalla costa da un’imbarcazione di salvataggio costiera, appositamente inviata sul posto, che l’aveva rimorchiata in porto. La scialuppa era vuota, eccezion fatta per alcuni capi di abbigliamento e delle provviste; non era chiaro se fosse stata calata durante l’affondamento o se si fosse liberata da sola dagli argani quando la nave si era inabissata. Un rimorchiatore aveva incrociato per tre ore nella zona in cui era stata trovata la scialuppa, ma senza avvistare alcun altro superstite; l’articolo asseriva che «questo (…) non vuol ancora dire senz’altro che essa [la scialuppa] sia stata armata e che il suo equipaggio sia da considerarsi perito. Una indicazione maggiore, che potrebbe risolvere il mistero di questa scialuppa vuota, sarebbe dato da un segno: si tratterebbe cioè di sapere se quando la scialuppa è stata trovata essa aveva o no il timone. Infatti il timone viene messo in posizione soltanto quando le scialuppe vengono lanciate in mare, anzi dopo che hanno toccato l’acqua. Se la scialuppa numero 4 fosse stata ritrovata senza timone ciò escluderebbe che in essa avessero preso posto degli uomini». (L’archivio della Royal National Lifeboat Institution, l’ente incaricato della gestione delle imbarcazioni di soccorso nelle acque del Regno Unito, afferma che il battello di salvataggio di Cromer venne inviato a controllare una scialuppa del Giorgio Ohlsen segnalata alla deriva tre miglia ad est di Cromer, ma che gli occupanti erano già stati tratti in salvo; per questa uscita in mare l’equipaggio del battello di soccorso era stato ricompensato con 21 sterline, 19 scellini e 6 penny. È dunque evidente che la scialuppa vuota di cui si parlava nell’articolo della “Stampa” era la scialuppa usata dai sopravvissuti, abbandonata alla deriva dopo il recupero dei suoi occupanti).
Un altro articolo dello stesso giornale e della stessa data riferiva che il Giorgio Ohlsen era stato noleggiato dalle Ferrovie dello Stato ed adibito al trasporto di carbone da Newcastle a Genova o Savona (attività che lo vedeva assiduamente impegnato da mesi: era partito dall’Italia una decina di giorni prima), e che secondo le prime sommarie notizie pervenute all’armatore il mattino di quello stesso giorno la maggior parte dell’equipaggio era stata tratta in salvo da navi che erano passate poco dopo sulla rotta seguita dal Giorgio Ohlsen e che avevano avvistato le scialuppe con i naufraghi, dirigendo a tutta forza verso di esse; mancavano notizie soltanto di una decina di uomini, “allontanatisi su una scialuppa”. L’articolo precisava in chiusura che «Naturalmente il Giorgio Ohlsen era assicurato contro ogni rischio».
 

Articolo su “La Stampa” del 16 febbraio 1940 (Archivio La Stampa)


Il giorno seguente, 17 febbraio, “La Stampa” aggiungeva nuovi particolari sull’accaduto, pur conditi dai toni della retorica fascista («Espressioni di virile tristezza si leggevano oggi sul volto dei sedici superstiti… Un ufficiale del Giorgio Ohlsen ha dichiarato a chi lo confortava dopo il miracoloso salvataggio: “Gli italiani quando si mettono in mare sanno di rischiare la vita; ma chi ha pronunziato il suo giuramento di marinaio non torna indietro. Noi sappiamo che oggi i mari sono pieni di mine; noi sappiamo che questo stato di cose è pericoloso, ma non abbiamo paura. Mussolini è un forte condottiero e ci vuole forti”»). I naufraghi, scriveva il giornalista, erano giunti il mattino del 16 in una città della Scozia, dov’erano stati fraternamente accolti ed assistiti dalla locale comunità italiana; la sera stessa avevano poi preso un treno per Londra. Dei 33 uomini presenti a bordo del Giorgio Ohlsen (32 di equipaggio più il pilota inglese), sedici (compreso il pilota) erano stati recuperati dal piroscafo britannico Lolworth; uno di essi, il fuochista Davide Podestà, era tuttavia deceduto poco dopo il salvataggio. Un ulteriore naufrago era stato salvato da un altro piroscafo, che lo aveva poi sbarcato in un porto diverso da quello raggiunto dal Lolworth; si era ricongiunto col resto dei superstiti in un secondo momento. I restanti sedici uomini, compreso il comandante Di Bella, risultavano dispersi.
Secondo il racconto dei sopravvissuti, il Giorgio Ohlsen aveva urtato la mina poco dopo la mezzanotte tra il 13 ed il 14 febbraio; tutti si erano subito precipitati in coperta, ma era risultato immediatamente evidente che gran parte dell’equipaggio mancava all’appello, uccisa dall’esplosione della mina o travolta nel sonno dall’irrompere dell’acqua. La nave stava affondando rapidamente, la metà anteriore era già sommersa; nell’oscurità più completa, gli uomini del Giorgio Ohlsen avevano improvvisato una torcia a vento e l’avevano messa in una scialuppa, che avevano calato in mare. Poi si erano tuffati in mare, uno dopo l’altro, nuotando nel mare mosso e gelido fino a raggiungere la scialuppa, la cui posizione era segnalata dal fuoco. Due fuochisti, sorpresi dall’esplosione della mina al loro posto di lavoro, davanti alla fornace della caldaia – dove il caldo era così intenso (40 °C) da costringerli a lavorare seminudi anche in pieno inverno –, non avevano avuto il tempo di raggiungere i loro alloggi per indossare vestiti più pesanti, così che si erano dovuti gettare nell’acqua gelida così com’erano, con indosso quasi niente; come se non bastasse, uno dei due – Davide Podestà – era scivolato sul ponte fortemente inclinato, ferendosi. Era comunque riuscito a tuffarsi in mare ed a raggiungere la scialuppa, riempitasi d’acqua per metà; ma non tutti erano stati altrettanto fortunati, alcuni di coloro che si erano gettati in mare non avevano mai raggiunto la fragile imbarcazione, soccombendo al freddo ed alla furia delle onde.
Se sulle prime era parso che il Giorgio Ohlsen dovesse inabissarsi da un momento all’altro, la velocità del suo affondamento era poi di molto diminuita; per un’ora e mezza la nave aveva continuato ad affondare lentamente, finché rimase affiorante soltanto la poppa estrema, sulla quale ostinatamente resisteva il primo ufficiale Francesco Valdettaro, con l’acqua al petto, nella disperata speranza che qualcuno dei mancanti all’appello potesse essere ritrovato.
Appunto dopo un’ora e mezza era giunto sul posto il Lolworth, che aveva avvistato la scialuppa intenta a perlustrare le acque attorno alla nave semisommersa in cerca di altri naufraghi; il piroscafo britannico aveva preso a bordo gli occupanti della lancia, e poi costretto anche il primo ufficiale Valdettaro ad abbandonare quel che restava del Giorgio Ohlsen e salire a bordo. Nonostante le cure subito prestate dall’equipaggio del Lolworth, il fuochista Davide Podestà, ferito e semiassiderato dopo un’ora e mezza trascorsa seminudo nella scialuppa piena d’acqua gelata, era spirato poco dopo il salvataggio. Un ufficiale del Lolworth aveva dichiarato alla stampa: “Avremmo potuto non scorgerli perché era buio assoluto e il mare era assai mosso. Fortunatamente udimmo delle grida. Alcuni marinai erano ancora a bordo della nave che stava affondando. Quelli che erano nel canotto di salvataggio avevano già sofferto enormemente pel freddo. Abbiamo raccolto complessivamente diciassette uomini. Il diciottesimo naufrago è stato raccolto da un’altra nave che lo ha sbarcato in un altro porto”.
Venivano fatti i nomi dei sopravvissuti, il cui arrivo a Londra era previsto per il mattino del 17: il primo ufficiale Francesco Valdettaro, da Genova; il secondo capo macchinista Nicola De Guidi; il primo macchinista Francesco Venturino; il secondo macchinista Pantaleo Fasso; il fuochista Nicolò Ferrigno; i marinai Filippo Bertolotto, Giovanni Di Sandolo, Emilio Gasparini, Lelio Bulleri, Saverio Fasso, Tibaldo Mori, Raffaele Mazzei, Gaspare Gandini, Cesario Grazioli, Roberto Ferruzzi ed Arrigo Zucchi.
 

Articolo del 17 febbraio 1940 (Archivio La Stampa)


L’edizione serale de “La Stampa” del 17 febbraio conteneva un servizio speciale, inviato da Londra proprio quella sera (grazie ai particolari pervenuti dalla stampa britannica), nel quale oltre a precisare che il porto dov’erano stati sbarcati i naufraghi del Giorgio Ohlsen era quello di Edimburgo, e che «sono diffusi negli elogi verso l’equipaggio coloro che più precisamente trattano di cose marittime», si descriveva l’eroica fine del comandante Di Bella, affondato con la sua nave: «La figura di questo marinaio è unanimemente esaltata – e senza dubbio in materia qui si hanno degli ottimi giudici – in quanto egli, malgrado si trovasse in condizione di poter agevolmente salvarsi, volle preoccuparsi fino all’ultimo della sorte di una dozzina di marinai che erano rimasti sul relitto squarciato dall’esplosione e che non avevano potuto trovare posto nella prima scialuppa calata in acqua. Fu appunto nell’ordinare a costoro quelle manovre che umanamente erano pensabili per la loro salvezza, che il Di Bella si ostinò a restare sul ponte di comando, anche quando la nave,  colpita a poppa e ormai postasi in posizione tale da non poter più raddrizzarsi, cominciò ad inabissarsi velocemente».
Il primo ufficiale Valdettaro raccontò alla stampa che al momento del disastro si trovava di guardia sul ponte di comando, insieme al comandante Di Bella ed al pilota inglese: quest’ultimo, incaricato di guidare la nave lungo le rotte di sicurezza che attraversavano i campi minati, si trovava tra Valdettaro e Di Bella. Dati i rischi posti dalla navigazione in un teatro di guerra quale era diventato il Mare del Nord, si navigava con la massima circospezione; mancavano soltanto cinque o sei ore all’arrivo in porto, quando all’improvviso si era verificata una violentissima esplosione a poppa. Il pilota era stato preso dal panico («non credo tanto per il pericolo che correva – disse Valdettaro – quanto perché alla sua mente si dovette affacciare la terribile responsabilità collegata con il fatto che eravamo finiti contro un ordigno esplosivo che egli appunto avrebbe dovuto farci evitare»); il comandante Di Bella si era precipitato sul telegrafo di macchina, portandolo sul “Ferma”, dopo di che aveva ordinato a Valdettaro di scendere in coperta per dirigere l’abbandono della nave. Uscendo dalla sala nautica, Valdettaro si era imbattuto nel radiotelegrafista Amilcare Balsini, diretto in plancia per chiedere ordini al comandante; non sapeva però se fosse stato possibile trasmettere una richiesta di soccorso, perché pochi secondi dopo era saltata la corrente (Balsini non era tra i superstiti).
Con la poppa dilaniata dall’esplosione della mina, il Giorgio Ohlsen aveva subito assunto un forte sbandamento; si sentiva il gorgogliare dell’acqua che si riversava copiosamente attraverso lo squarcio nelle stive vuote. Giunto in coperta, Valdettaro aveva scoperto che soltanto una delle scialuppe era utilizzabile; ed anche questa era semiallagata dall’acqua che le onde vi avevano riversato, pertanto era stato necessario prosciugarla. Una volta calata la lancia, gli occupanti si erano contati e ne era emerso che erano in sedici, metà esatta dell’equipaggio; avevano deciso di restare nei pressi del relitto in lento affondamento della loro nave, ed erano così riusciti ad issare a bordo altri due uomini, tra cui lo sfortunato fuochista Davide Podestà, mortalmente ferito.
I naufraghi erano tutti fradici ed intirizziti dal vento gelido, al punto da faticare anche ad impugnare i remi; più di tutti soffrivano i due fuochisti che, fuggiti dal locale caldaie, si erano gettati in mare seminudi. Dopo circa un’ora in balia del mare, gli occupanti della scialuppa avevano avvistato poco lontano dapprima una nave da guerra britannica e poi un intero convoglio; in dotazione alla lancia c’era anche una cassetta contenente diversi razzi da segnalazione ed una pistola Very per lanciarli, così che i naufraghi avevano potuto segnalare la loro presenza alle navi del convoglio. Primo ad avvistarli era stato il piroscafo Chudwood, che tuttavia, a causa del mare grosso, era riuscito a recuperare soltanto uno degli occupanti della scialuppa; la fragile imbarcazione, portandosi sottobordo al piroscafo britannico, non era riuscita a mettersi sottovento, ed aveva corso a più riprese il rischio di essere sbattuta contro lo scafo o contro l’elica della nave soccorritrice. Più felice era stato invece l’esito del tentativo di salvataggio intrapreso più tardi dal Lolworth, che era riuscito a recuperare i restanti occupanti della scialuppa. Davide Podestà era morto subito dopo il salvataggio; un altro fuochista, Arrigo Zucchi, si era invece ripreso grazie alle cure subito prestategli.
Il Lolworth si trovava ancora vicino al relitto semisommerso dell’Ohlsen, ed una volta a bordo Valdettaro poté scrutare quel che restava della sua nave con un cannocchiale: ne emergeva soltanto l’estrema prua (ciò è in contraddizione con l’articolo del giorno precedente, in cui si affermava al contrario che la nave fosse affondata di prua, lasciando affiorare solo l’estrema poppa), il che lo induceva a ritenere che la nave avesse toccato il fondale, non molto profondo in quella zona. Valdettaro non era certo se vi fosse o meno qualcuno ancora a bordo, ma affermò di ritenere che lo stato del mare avesse reso impossibile ogni ulteriore soccorso. Il primo ufficiale del Giorgio Ohlsen concludeva così l’intervista: «Tutti gli uomini dell’equipaggio sono fortemente impressionati dalla perdita dei loro compagni e del loro capitano, verso il quale sentono profondo rispetto per la condotta sua, veramente degna delle tradizioni marinare italiane. Le autorità marittime di Edimburgo e tutti i nostri connazionali, con a capo il console ed il fascio locale, ci sono stati larghi delle più affettuose cure, per le quali è con animo rassicurato che attendiamo il nostro rimpatrio». Alcune imbarcazioni leggere della difesa costiera britannica erano state inviate a controllare il relitto per verificare se vi fossero altri superstiti, ma non ne avevano trovato nessuno.
 

Notizia del 18 febbraio 1940 (Archivio La Stampa)


Il 18 febbraio un altro articolo della “Stampa” scriveva che il Giorgio Ohlsen era affondato in soli tre minuti, tanto che soltanto chi si trovava di guardia al momento del disastro aveva avuto possibilità di salvarsi: chi stava riposando in cuccetta non aveva avuto scampo, era affondato con la nave. Il primo ufficiale Valdettaro aveva riferito di aver improvvisamente avvertito una scossa e sentito un’esplosione, per poi vedere un’enorme colonna d’acqua sollevarsi nel cielo e ricadere sulla tolda; ne aveva rapidamente dedotto che la nave avesse urtato una mina con la chiglia, verso poppa. Ritenendo in un primo momento – complice l’oscurità – che il danno potesse non essere fatale, Valdettaro era corso immediatamente verso poppa, ma si era subito ritrovato con i piedi immersi nell’acqua, che gli era rapidamente salita alle ginocchia e poi ai fianchi.
Era allora corso dal comandante Di Bella, tentando di aprire la porta della sua cabina; da dentro, Di Bella aveva chiesto “Valdettaro, che succede? Vengo subito”. Ma la porta non si era aperta, e Valdettaro era stato travolto dall’acqua che stava rapidamente invadendo tutta la nave, trascinandolo verso prua. La maggior parte della nave era già sommersa; Valdettaro aveva spinto tutti i marinai che era riuscito a trovare sull’unica scialuppa rimasta, mezza riempita dall’acqua sollevata dall’esplosione, ed aveva ordinato loro di accendere dei razzi di segnalazione. Si era poi guardato ancora attorno, sperando di trovare qualche altro superstite; ma ormai il Giorgio Ohlsen toccava il fondo, e le ondate lunghe avevano allontanato la scialuppa dalla murata della nave agonizzante, lasciando Valdettaro da solo sul relitto semisommerso. Il fuochista siciliano Rosario Ravigo, sporgendosi dalla scialuppa, era riuscito ad afferrare un appiglio su ciò che ancora affiorava del Giorgio Ohlsen, riavvicinando l’imbarcazione e riuscendo così a prendere a bordo anche Valdettaro. Poi altri occupanti della lancia avevano acceso dei razzi, e la piccola imbarcazione aveva preso a girare intorno ai rottami del piroscafo, riuscendo a trovare ed issare a bordo alcuni altri naufraghi; tra di essi Davide Podestà, ferito, “forse colpito direttamente dalle conseguenze della esplosione e scivolato giù dalla nave… quasi nudo, così come si sta nelle macchine”. Mentre la scialuppa proseguiva nella sua ricerca di ulteriori superstiti, il primo ufficiale Valdettaro aveva iniziato ad effettuare delle segnalazioni con la lampadina tascabile, chiedendo aiuto in codice Morse; i segnali erano stati avvistati dalle navi di un convoglio britannico in navigazione nei pressi, ed il piroscafo Chatwood aveva rallentato e si era avvicinato alla scialuppa, calando una scaletta di corda lungo la murata. La lancia si era accostata al Chatwood, ma soltanto il fuochista Ravigo era riuscito ad arrampicarsi a bordo della nave britannica usando la scaletta, perché subito dopo un colpo di mare aveva rischiato di far sfracellare la scialuppa contro la murata del Chatwood, inducendo l’ufficiale ad ordinare di allontanarsi. Il Chatwood se n’era andato con a bordo il solo Ravigo, mentre gli altri erano stati recuperati successivamente dal Lolworth, sul quale era deceduto Podestà.
Le comunità italiane di Edimburgo e di Leith avevano accolto fraternamente i naufraghi del Giorgio Ohlsen, fornendo loro ogni assistenza; i superstiti erano tutti in buona salute, si erano completamente ripresi e “oggi [17 febbraio] hanno fatto colazione alla Casa del Littorio londinese, circondati da tutto l’affetto che la colonia italiana di qui ha potuto loro dimostrare. Nel pomeriggio hanno visitato una sala, dove si svolgeva la cerimonia della Befana fascista e successivamente alla presenza del Console generale e del Segretario del Fascio, sono stati ricevuti dall’Ambasciatore Bastianini, il quale si è informato delle loro condizioni ed ha chiesto particolari sul disastro della nave, elogiandoli tutti per il loro comportamento e condolendosi profondamente per la scomparsa di tanti loro compagni”. La salma di Davide Podestà, sbrigate le formalità legali, era stata tumulata nel cimitero cattolico di Leith, in attesa della probabile traslazione in Italia.
L’articolo concludeva affermando che i superstiti escludevano che la nave potesse aver urtato una mina alla deriva, perché le mine alla deriva colpivano le navi solitamente alla linea di galleggiamento, producendo nella maggior parte dei casi danni non immediatamente catastrofici; la violenza dell’esplosione che aveva investito il Giorgio Ohlsen e la rapidità dell’allagamento da essa causato, tale da provocare il quasi completo affondamento del piroscafo – subito riempitosi d’acqua a poppa ed impennatosi quasi verticalmente – in pochi minuti, erano invece stati di natura tale da far ritenere che la mina fosse esplosa sotto la chiglia del piroscafo, e che dunque si trattasse di un ordigno ormeggiato. “Dato che la zona, di fronte a Leith, è particolarmente battuta da convogli inglesi, la mina non solo era stata messa, ma messa intelligentemente – dicono i marinai italiani. "Il povero Giorgio Ohlsen ha fatto da dragamine al convoglio inglese che è passato poco dopo nello stesso punto" ha osservato un marinaio”.
 
L’elenco dei dispersi pubblicato sulla “Stampa” del 21 febbraio 1940 (Archivio La Stampa)

L’ultimo articolo della “Stampa” sull’affondamento del Giorgio Ohlsen, pubblicato il 21 febbraio 1940, riguardava una vicenda personale di Davide Podestà, il fuochista genovese morto per le ferite e per assideramento dopo il salvataggio (veniva anche affermato che Podestà fosse morto per assideramento “appena trasportato all’ospedale”, un’incongruenza rispetto agli articoli dei giorni precedenti, in cui si affermava che fosse morto subito dopo il salvataggio, a bordo del Lolworth). Nato a Sampierdarena nel 1901, Podestà aveva sposato nel 1932 la concittadina Erminia Porti; la coppia non aveva però avuto figli, cosicché nel dicembre 1939, subito prima di quello che sarebbe stato il penultimo viaggio del Giorgio Ohlsen, aveva deciso di adottare un bambino di tre anni dall’Istituto Gaslini, nel quale erano allevati i figli di madri morte di parto. L’articolo concludeva: “Ora il piccino ha perduto anche il papà adottivo, ma la sposa del Podestà ha dichiarato che intende tenersi il bambino adottato e che lo amerà anche più, sacrificandosi per allevarlo ed educarlo, lavorando essa sola per onorare la memoria del suo perduto marito”.
 

La “Domenica del Corriere” del 25 febbraio 1940 dedicò all’affondamento del Giorgio Ohlsen una tavola disegnata da Achille Beltrame, incentrata sulla morte del comandante Di Bella. La didascalia recitava: "La nave mercantile italiana Giorgio Ohlsen urta una mina del Mare del Nord e affonda. Il capitano Giovanni Di Bella organizza e dirige il salvataggio dei suoi uomini, operazione difficile perché la sciagura ha sorpreso la nave mentre i più dormivano. Quando tutto il possibile è stato fatto per la salvezza degli altri, il capitano non scende nella scialuppa che si allontana, ma si irrigidisce sul ponte di comando e si inabissa con la nave".
In merito alla sorte del comandante Di Bella, è d’uopo rilevare come la versione sulla sua fine sia cambiata a più riprese nei diversi articoli della “Stampa” che descrivevano l’accaduto: dapprima, il 17 febbraio, si annunciava che era tra i dispersi, ma senza aggiungere nessun particolare; poche ore più tardi, nell’edizione serale del 17, veniva riportata la testimonianza del primo ufficiale Valdettaro, secondo cui al momento del disastro Di Bella si sarebbe trovato sul ponte di comando insieme allo stesso Valdettaro, cui dopo l’esplosione della mina aveva ordinato di scendere in coperta per sovrintendere all’abbandono della nave, dopo di che non era più stato visto da nessuno. L’indomani, 18 febbraio, un nuovo articolo riportava di nuovo il racconto di Valdettaro, che tuttavia cambiava completamente rispetto a quello di poche ore prima: Di Bella si sarebbe trovato nella sua cabina al momento del disastro, e non sarebbe riuscito ad uscirne prima che la parte di nave in cui si trovava venisse invasa dall’acqua.
 

Disegno di Achille Beltrame raffigurante la fine del comandante Di Bella sulla “Domenica del Corriere”


La perdita del Giorgio Ohlsen era ovviamente descritta in termini molto più sintetici dalla stampa anglosassone, inondata ogni giorno dalle notizie di affondamenti di navi mercantili britanniche e neutrali nelle acque delle Isole Britanniche. Qui la tragedia toccata al piroscafo italiano non era che una goccia in un oceano di storie simili: “Il mercantile italiano Giorgio Ohlsen, di 5694 tonnellate, ha urtato una mina ed è affondato al largo della costa orientale della Gran Bretagna mercoledì, è stato stabilito oggi. I rottami del piroscafo sono stati portati a riva dalle onde sulla costa orientale. Sedici membri dell’equipaggio sono stati sbarcati in un porto scozzese la scorsa notte. La nave portava un equipaggio di 32 [uomini] e si teme che molti siano periti. I sopravvissuti hanno detto di aver perso tutti i loro effetti personali. Il primo segno del disastro è giunto quando una delle scialuppe del Giorgio Ohlsen è stata portata a riva dal mare” (“Boston Globe” e “Anniston Star” del 16 febbraio 1940); “Rottami del piroscafo italiano Giorgio Ohlsen, di 5694 tonnellate, sono giunti a riva sulla costa orientale durante la notte ed è stato riferito che 17 [uomini] dell’equipaggio sono stati soccorsi. Non è stato riferito cosa sia successo. Il primo segno di un disastro è giunto quando una delle sue scialuppe è giunta a riva. La scialuppa conteneva cibo e vestiti e mostrava segni di recente occupazione. Un battello di salvataggio è partito da riva ed ha condotto ricerche per tre ore senza trovare alcuna sua ulteriore traccia. Successivamente, i rottami hanno iniziato a giungere a riva” (“Middlesboro Daily News” del 16 febbraio 1940); “Il mercantile italiano Giorgio Ohlsen, 5694 tonnellate, è affondato al largo della costa orientale britannica ieri dopo aver urtato una mina, ha riferito stanotte l’agenzia stampa Reuters. La nave trasportava 32 ufficiali e marinai. Diciassette uomini sono stati tratti in salvo, ed una piccola scialuppa vuota è stata recuperata stanotte” (“Detroit Free Press” del 16 febbraio 1940), “La sorte del piroscafo italiano Giorgio Ohlsen è stata rivelata quando 17 membri del suo equipaggio sono sbarcati in un porto scozzese. Hanno detto che [la nave] ha urtato una mina ed è affondata al largo della costa orientale della Gran Bretagna nella sera di mercoledì. Sedici membri del suo equipaggio sono dispersi. Uno è morto poco dopo essere giunto a riva” (“Daily News” del 17 febbraio 1940).
Di tono simile era anche il resto della stampa internazionale; il giornale cileno “La Nación”, ad esempio, scriveva il 17 febbraio 1940 “È stato rivelato che il piroscafo da carico italiano Giorgio Ohlsen di 5694 tonnellate è stato affondato mercoledì da una mina davanti alla costa orientale della Gran Bretagna, essendo stati sbarcati la scorsa notte 18 degli uomini del suo equipaggio – in un porto scozzese. Si è appreso che sono stati salvati in 18, però uno è morto prima di arrivare in porto ed un altro è ferito. La colonia italiana ha festeggiato i sopravvissuti con un pranzo, dopo il quale i superstiti sono partiti per Londra. Il Giorgio Ohlsen aveva un equipaggio di 32 uomini. Tutti i sopravvissuti hanno perso tutti i loro effetti personali”.
“El bien público”, giornale uruguayano, scriveva il 16 febbraio: “Si conferma che il piroscafo italiano Giorgio Ohlsen di 5649 tonnellate, immatricolato nel porto di Genova, ha urtato una mina ed è affondato davanti alle coste orientali della Gran  Bretagna. Si ignora al momento la sorte dell’equipaggio composto da trentadue uomini. Il Giorgio Ohlsen era partito dal porto di Downs ed era diretto a Newcastle lungo la rotta settentrionale fuori dai territori britannici. Il bastimento menzionato doveva caricare carbone per conto delle ferrovie italiane. È la terza nave italiana che si perde a causa delle mine nella guerra”.
Il turco “Cumhuriyet” riferiva il 16 febbraio che “Ieri, un mercantile italiano di nome Giorgio Ohlsen, di 5649 tonnellate, è affondato su una mina sulla costa orientale dell’Inghilterra. La sorte dell’equipaggio, formato da 32 persone, non è nota”; quasi uguale era la notizia su un altro giornale turco, il “Son Dakika”. Nei Paesi Bassi, il “Limburger Koerier” scriveva il 16 febbraio che “Ieri il mercantile italiano Giorgio Ohlsen di 5649 tonnellate ha urtato una mina al largo della costa orientale dell’Inghilterra. Al momento dell’esplosione 32 uomini si trovavano a bordo. Una piccola imbarcazione recante il nome Giorgio Ohlsen è stata recuperata la scorsa notte a due miglia dalla costa orientale. Un’imbarcazione di soccorso è uscita in mare e le ricerche continuano. Il relitto del piroscafo Giorgio Ohlsen è stato trovato al largo della costa orientale vicino alla città da cui è salpata l’imbarcazione di soccorso. Diciassette membri dell’equipaggio sono stati soccorsi”, mentre il “Rotterdamsch Niewusblad”, oltre a contenere un trafiletto praticamente identico, scendeva maggiormente nei dettagli: “La scialuppa del Giorgio Ohlsen, che è stata trovata vuota, mostra segni di essere stata occupata per un periodo molto breve. C’erano rimasugli di cibo, alcuni vestiti, tra cui una scarpa, nessun giubbotto di salvataggio. Questa piccola scialuppa è stata avvistata alla deriva a quindici miglia dalla costa orientale. All’uscita dell’imbarcazione di soccorso di Norfolk centinaia di persone si sono radunate sugli scogli e sul lungomare. Gli uomini hanno cercato la nave per tre ore, ma non ne hanno trovato traccia, né hanno trovato gli uomini che presumibilmente si trovavano nella scialuppa vuota, che recava il nome Giorgio Ohlsen, Genova ed il numero 4 dipinto sullo scafo. La scialuppa aveva una capienza di circa 20 persone”. Interessante la posizione del “Leidsch Dagblad”: nel riferire che la compagnia armatrice aveva comunicato che la nave, al momento del disastro, era condotta da un pilota britannico con il compito di farle attraversare indenne i campi minati difensivi britannici, questo giornale affermava essere pertanto certo che il Giorgio Ohlsen fosse incappato in una mina britannica.
Il giornale spagnolo “ABC Madrid” ripeteva più o meno testualmente le notizie sopra riportate, aggiungendo che il Giorgio Ohlsen era la terza nave italiana ad essere affondata dall’inizio della guerra (in realtà, la quarta: nei mesi precedenti erano affondati i piroscafi Grazia, Comitas e Traviata, tutti su campi minati nelle acque della Gran Bretagna).
 
La notizia dell’affondamento del Giorgio Ohlsen sul “Son Dakika” del 16 febbraio 1940 (da www.nek.istanbul.edu.tr)...

…sul “Limburger Koerier” dello stesso giorno (da www.resolver.kb.nl)...
…sul “Leidsch Dagblad” del 17 febbraio 1940 (da www.leiden.courant.nu)…

…sull’“Otago Daily Times” dello stesso giorno…

…su “El bien público” del 16 febbraio 1940…

…e sull’“Argus” del 17 febbraio 1940 (da www.trove.nla.gov.au)

Le mine su cui era affondato il Giorgio Ohlsen erano state posate al largo di Cromer e Shipwash dai cacciatorpediniere tedeschi Friedrich Eckoldt, Max Schultz e Richard Beitzen della 1. Zerstörerflottille (capitano di fregata Fritz Antek Berger), nella notte tra il 9 ed il 10 febbraio 1940. Furono in tutto undici le navi che andarono perdute su questo campo minato in poco più di un mese: prima del Giorgio Ohlsen, il 13 febbraio, vi era affondata la nave cisterna britannica British Triumph; dopo, fu la volta dei piroscafi britannici Baron Ailsa (17 febbraio), Clan Morrison e Jevington Court (entrambi il 24 febbraio), del piropeschereccio britannico Halifax e del piroscafo olandese Amor (entrambi l’11 marzo), del piroscafo britannico Melrose (15 marzo), del piroscafo francese Capitaine Augustin e del piroscafo olandese Sint Annaland (entrambi il 17 marzo). L’ultima vittima fu un’altra nave italiana: il piroscafo Tina Primo, affondato il 18 marzo 1940.
 
Le vittime:
 
Lido Atalanti, mozzo, 17 anni, da Marciana Marina
Amilcare Balsini, radiotelegrafista, 36 anni, da Fauglia
Alessandro Bargellini, marinaio, 34 anni, da Marciana Marina
Giulio Bernardello, fuochista, 30 anni, da Sestri Levante
Giovanni Battista Carro, fuochista, 42 anni, da Pugliola
Nicolò Coletti, cuoco, 46 anni, da Genova
Luigi Cozzolino, giovanotto, 26 anni, da Torre del Greco
Giovanni Di Bella, comandante, 55 anni, da Catania
Castello Di Maio, fuochista, da Castellammare di Stabia
Antonio Fenelli, fuochista, 45 anni, da Vernazza
Pasquale Gaetani, fuochista, 38 anni, da Gallipoli
Pietro Giambruni, fuochista, 44 anni, da Bonassola
Giovanni Lucon, secondo ufficiale, 41 anni, da Parenzo
Davide Podestà, ingrassatore, 39 anni, da Genova
Vincenzo Vitiello, carbonaio, 33 anni, da Torre del Greco
Francesco Zicchinolfi, caporale, 56 anni, da Torre del Greco
 
I naufraghi del Giorgio Ohlsen, partiti da Londra la sera del 17 febbraio 1940, giunsero a Genova il 19. Di lì a meno di quattro mesi l’Italia sarebbe entrata a sua volta in guerra, una guerra che avrebbe falcidiato la Marina Mercantile ed i suoi equipaggi: quanti dei superstiti del Giorgio Ohlsen ne avrebbero visto la fine?
 
Il relitto del Giorgio Ohlsen giace oggi nel punto 53°18'13 N e 01°09'04 E, ad una profondità compresa tra i 18 ed i 22 metri, con la prua orientata per 135°. La nave è quasi completamente distrutta (forse da lavori di demolizione effettuati nel dopoguerra), ed al suo posto si estende una vasta distesa di rottami.
 
 

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