Il Milano (da www.forum.milanotrasporti.org) |
Piroscafo mezzo
salone ad elica, in servizio su Lago Maggiore. Lungo 43,30 metri e largo 5,80, con
pescaggio 1,26 m e velocità 25,44 km/h. Dislocava 144 tonnellate e poteva
trasportare 500 passeggeri, oltre ai 7 uomini di equipaggio.
Aveva due gemelli, Torino e Genova.
Breve e parziale cronologia.
12 agosto 1912
Completato dalla Ditta
Bacigalupo di Genova Sampierdarena, entra in servizio per la Società Anonima
Innocente Mangilli – Impresa di Navigazione sul Lago Maggiore. Collaudato al
comando del capitano Cipriano Besana, è il primo dei tre piroscafi della sua
serie ad essere ultimato.
Il Milano ad Intra (da www.forum.milanotrasporti.org) |
Luglio 1917
In seguito al
fallimento della ditta Mangilli passa, insieme al resto della flotta, in regime
di requisizione e gestione provvisoria alle Ferrovie dello Stato, sino al 1923.
La nave a Locarno (da www.forum.milanotrasporti.org) |
1923
Passa, con il resto
della flotta, in gestione temporanea al Ministero dei Lavori Pubblici.
(da www.lavenomombelloedintorni.it) |
1924
Come il resto della
flotta, passa alla Società Subalpina Imprese Ferroviarie, che ha rilevato il
servizio di navigazione sul Verbano. Ne viene valutata la possibilità di
trasformazione (insieme a Torino e Genova) in motonave ad elica, che non
viene però attuata.
L’affondamento
Anche dopo lo scoppio
della seconda guerra mondiale, il Milano
e gli altri battelli del Verbano proseguirono regolarmente il loro servizio di
collegamento tra le opposte sponde del lago. Per più di quattro anni, mentre il
destino dell’Italia in guerra si compiva, i battelli del Lago Maggiore
continuarono nel loro monotono viavai tra le opposte sponde del lago;
compatibilmente, s’intende, con la situazione di un Paese in guerra, con i suoi
problemi e le sue ristrettezze.
Ma la guerra
guerreggiata sembrava restare lontana dal Verbano; anche dopo l’armistizio
dell’8 settembre 1943, quando calò sull’Italia la grigia cappa dell’occupazione
tedesca, il Milano ed i suoi
“colleghi” continuarono infaticabilmente a collegare i paesi e le cittadine che
si specchiavano nelle acque del lago.
Ma il servizio dei
battelli del Lago Maggiore doveva conoscere il suo periodo più nero proprio un
anno dopo l’arrivo dei tedeschi.
L’autunno del 1944
vide infatti l’ingresso, su tutto il Nord Italia, di un nuovo flagello portato dalla
guerra: innumerevoli aerei Alleati – bombardieri leggeri e cacciabombardieri –
che volavano in “caccia libera”. Fino a quel momento erano state sottoposte a
pesanti bombardamenti quasi esclusivamente le città di medie e grandi
dimensioni, che ospitassero obiettivi d’importanza strategica (industrie
impegnate nello sforzo bellico, aeroporti, snodi ferroviari): se queste
incursioni causavano allarmi e notti insonni anche nei abitati minori che
sorvolavano per raggiungere i loro obiettivi, non avevano però (quasi) mai
provocato danni di rilievo.
Ora cambiava tutto: mentre
le città continuavano ad essere l’obiettivo dei bombardieri medi e strategici, l’offensiva
aerea angloamericana puntava adesso a paralizzare in ogni modo i collegamenti e
gli spostamenti delle truppe tedesche (e repubblichine) nell’Italia occupata, iniziando
a colpire indiscriminatamente ogni mezzo di trasporto che potesse essere
utilizzato dalla Wehrmacht. Sulla Pianura Padana sfrecciavano i
cacciabombardieri che gli abitanti presero presto a chiamare "Pippo",
sempre in volo, isolati o in coppia, a portare lo scompiglio e, spesso, la
morte: la loro preda non aveva un nome o una natura ben definita. I loro
bersagli erano "targets of opportunity", obiettivi occasionali: loro
scopo primario, come detto, era rintracciare e distruggere qualsiasi mezzo che
i tedeschi potessero usare per i loro spostamenti. Ricadevano in questa
categoria autocarri, automobili, corriere, convogli ferroviari, ed imbarcazioni
di ogni tipo, compresi i battelli lacuali.
Difficilmente i
piloti avevano modo di distinguere un mezzo in uso da parte delle forze
tedesche (che potevano requisire ed impiegare anche mezzi civili) da uno
impegnato nel trasporto di innocui civili: la possibilità di provocare vittime
tra questi ultimi era accettata dai comandi Alleati, un inevitabile danno
collaterale. In qualche caso, poi, si è forse autorizzati a pensare – a
posteriori – che qualche pilota possa aver avuto un atteggiamento
deliberatamente criminale.
In ogni caso, le
pianure dell’Italia settentrionale non tardarono ad essere insanguinate da
attacchi che spesso si tradussero in stragi di civili: a volte anche decine, sfollati
e pendolari falciati mentre si spostavano in treno o in autobus. Oppure in
battello.
Su ognuno dei quattro
grandi laghi prealpini si dovettero lamentare battelli affondati e vittime tra
i passeggeri e gli equipaggi: ad inaugurare la triste serie fu proprio il
Verbano, il 25 settembre 1944.
Quel giorno, infatti,
il Genova, gemello del Milano, fu attaccato e mitragliato da
alcuni cacciabombardieri durante la navigazione da Pallanza a Baveno. Incendiato
dai colpi, il piroscafo affondò poco al largo di Baveno, con la morte di 34
persone.
Poche ore dopo fu la
volta del Torino: venne sorpreso
anch’esso dai cacciabombardieri e mitragliato mentre era ormeggiato a Luino.
Questa volta non ci furono vittime, ma la nave fu affondata.
In seguito
all’affondamento dei due piroscafi, la direzione del servizio di navigazione decise
si sospendere, durante le ore del giorno, i collegamenti con i battelli su
tutto il lago.
Di conseguenza,
quando il mattino successivo un gruppo di civili diretti ad Intra (tra cui,
secondo una fonte, molti sfollati provenienti da Milano) si presentarono all’imbarcadero di Laveno Mombello per
salire sul Milano, il comandante del
piroscafo, capitano Antonio Colombo, disse loro che le partenze erano sospese.
Non solo i civili,
però, premevano per raggiungere l’altra sponda del lago: c’era anche un reparto
del II Battaglione "M" Venezia Giulia della Divisione "Etna"
della Guardia Nazionale Repubblicana. Gran parte di questi uomini, quasi tutti
allievi ufficiali, stavano rientrando dalla scuola allievi ufficiali G.N.R. di
Varese, dove avevano sostenuto gli esami per la promozione a sergente; alcuni altri
stavano rientrando dalla licenza. Erano diretti a Gravellona Toce: il 10
settembre, infatti, il paese piemontese era stato il luogo di un attacco da
parte delle formazioni partigiane garibaldine di Cino Moscatelli, proprio nel
giorno in cui la cacciata di tedeschi e repubblichini dalla Val d’Ossola aveva
sancito la nascita della Repubblica partigiana dell’Ossola. A Gravellona i
partigiani erano stati respinti, a causa anche dell’arrivo della colonna
nazifascista in ritirata da Domodossola; si era però ritenuto necessario
rinforzarne il presidio, anche in preparazione dell’offensiva tedesca e repubblichina
per riconquistare la Val d’Ossola.
Il comandante del Battaglione
"Venezia Giulia", maggiore Giovanni Ledo, respingendo le obiezioni
del comandante Colombo e del personale della Navigazione, dopo lunghe
discussioni impose di far salire a bordo i suoi uomini e partire; furono fatti
salire a bordo (secondo una versione, dietro insistenza del "comandante
della Piazza Militare di Laveno") anche i civili, che premevano anch’essi
per raggiungere l’altra sponda del lago, essendo alcuni di loro bloccati fin
dal giorno precedente.
Fu così che, alle 9.05
del mattino del 26 settembre 1944, il Milano
mollò gli ormeggi da Laveno, sperando di raggiungere Intra senza essere
attaccato. Il Lago Maggiore era liscio come l’olio, il cielo terso, “d’un
azzurro lievemente striato sopra le morbide curve dei monti”, come ricordò
decenni dopo la superstite Alice Spitti: una bella giornata di sole d’inizio
autunno.
In tutto, sulla nave
si trovavano 45 militari del battaglione "M" Venezia Giulia (3
ufficiali e 42 militi), l’equipaggio ed un numero di passeggeri civili su cui
le varie versioni danno notizie contrastanti: una quindicina, una trentina, una
quarantina (secondo il sopravvissuto Bruto Pozzetto), o "parecchie decine".
Quasi tutti si sistemarono in coperta.
Purtroppo, quanto
temuto dal comandante Colombo e dai dirigenti della S.S.I.F. si avverò poco più
tardi: non appena il Milano fu uscito
dal Golfo di Laveno (per altra fonte, a metà strada tra Laveno e Intra), apparvero
all’orizzonte tre caccia Alleati, probabilmente dei Republic P-47 "Thunderbolt"
dell’USAAF (altra fonte parla di tre Supermarine Spitfire britannici, o ancora
di sei caccia "angloamericani"). I militi sul Milano, non appena videro gli aerei, cercarono di mettersi al
coperto per non farsi vedere, ma gli aerei passarono all’attacco.
La provenienza di
questi aerei non è del tutto certa: secondo una versione, sarebbero stati
velivoli dell’USAAF normalmente stanziati a Siena ma decollati in questa
occasione dalla pista provvisoria allestita a Masera, nella Repubblica
dell’Ossola, ed avrebbero attaccato il Milano
proprio con l’intento di difendere questa Repubblica, ritenendo (non a torto)
che trasportasse truppe repubblichine che avrebbero potuto essere impiegate
contro di essa. Secondo varie fonti, anche gli attacchi al Torino ed al Genova,
sospettati di trasportare armi e truppe repubblichine, sarebbero da inquadrarsi
nell’ambito dell’appoggio angloamericano alla resistenza della Repubblica
dell’Ossola, piuttosto che nella generale panoramica dei “target of
opportunity”. Questi attacchi, che insieme a qualche lancio di armi furono
l’unico concreto aiuto militare Alleato ai partigiani di quella Repubblica,
avrebbero in effetti contribuito a rendere più caute le truppe repubblichine
nella loro controffensiva, nei giorni seguenti, per il timore di finire sotto
attacco da parte degli aerei angloamericani. Ma alla fine non cambiarono molto
(la Repubblica dell’Ossola cadde il 23 ottobre 1944), mentre provocarono la
morte di molti civili.
I tre
cacciabombardieri effettuarono tre passaggi ciascuno, mitragliando e
spezzonando la nave ogni volta: in tutto, nove passaggi di mitragliamento.
In pochi minuti lo
scafo e le sovrastrutture del Milano
furono crivellate da innumerevoli colpi, anche sotto la linea di galleggiamento,
e le caldaie centrate e messe fuori uso, provocando forti perdite di vapore e
scatenando un violento incendio; tra i passeggeri, sia all’aperto e che
sottocoperta, fu una strage.
Il capitano Colombo
fu il primo a morire, colpito alla testa mentre era al timone; rimasero uccisi con
lui anche altri due membri dell’equipaggio, il marinaio Giovanni Tarazza ed il
fuochista Giuseppe Colombara (quest’ultimo venne ritrovato sottocoperta,
deceduto per le ustioni). Il macchinista, invece, rimase ferito, ma riuscì a
mantenere in funzione le macchine, sia pure al minimo dei giri.
Una passeggera, la ventunenne
Alice Spitti, era salita sul Milano
assieme alla madre. Stava conversando con un’altra passeggera, una donna di
Busto Arsizio, che le aveva chiesto se ci fosse pericolo di bombardamenti a
Ghiffa, dove aveva lasciato il figlio piccolo; la ragazza l’aveva rassicurata,
e le due stavano ancora parlando, quando videro i tre caccia spuntare dalla
direzione di Cannobio. Gli aerei si avvicinarono al Milano ed aprirono il fuco: istintivamente, Alice Spitti si gettò
sul ponte. Un uomo si gettò sopra di lei, salvandole la vita: fu infatti ucciso
sul colpo dai proiettili, facendole scudo col suo corpo. Quando la giovane si
alzò, il Milano era in fiamme; si
sentivano continui scoppi, forse provenienti dalla caldaia, e la nave girava su
sé stessa, senza controllo, deviando dalla sua rotta. Dappertutto sangue e
fumo. Alice Spitti e la madre, entrambe ferite da schegge, furono aiutate ad
uscire sul ponte all’aperto, ma qui la scena era ancora peggiore: corpi sparsi
sul ponte, morti o feriti ovunque; il comandante Colombo riverso sul timone con
la testa spaccata, il battello alla deriva.
Tra i militi del "Venezia
Giulia" imbarcati sul Milano
c’erano due giovani fratelli triestini, Sergio e Silvio Cosulich: Sergio,
ventiduenne, rimase ucciso nell’attacco, mentre Silvio, di un anno più giovane,
rimase gravemente ferito. Durante il primo passaggio fu colpito alle gambe,
durante il secondo alla testa, durante il terzo (o il quarto) alla spalla;
avrebbe passato quattro mesi in ospedale, prima ad Intra e poi a Varese.
Tra le tante vittime
vi fu anche il maggiore Renato Ferrini, comandante del I Battaglione del 5°
Reggimento della Divisione Fanteria di Marina "San Marco" della
Repubblica Sociale Italiana: poco più di due anni prima, da capitano di
corvetta della Regia Marina, aveva eseguito col suo sommergibile Axum una delle più brillanti azioni
della guerra del Mediterraneo, affondando un incrociatore (il Cairo) e danneggiandone gravemente un
altro (il Nigeria) ed una petroliera
(l’Ohio) durante la battaglia di
Mezzo Agosto. Aveva ricevuto una Medaglia d’Argento al Valor Militare per quel
successo; dopo l’armistizio aveva deciso di aderire alla RSI, non più in Marina
(la Marina della RSI era pressoché inesistente) bensì nella fanteria di Marina.
Da ufficiale di Marina, forse Ferrini si era aspettato di morire su una nave,
ma mai avrebbe pensato che sarebbe avvenuto da passeggero su un piccolo
battello nelle acque di un lago, senza modo di difendersi.
Chi provò a reagire,
senza nessuna speranza di successo, fu il milite Aldo Bucci del "Venezia
Giulia": imbracciò il mitra (era l’unico a bordo ad averne uno: gli altri
militi avevano solo il moschetto) ed aprì il fuoco contro gli aerei attaccanti.
Venne falciato dal tiro delle mitragliatrici, che lo colpirono al ventre:
proprio quel giorno compiva vent’anni.
Morto il comandante
Colombo, ad assumere il comando fu il maggiore Ledo, che era rimasto ferito; il
sergente allievo ufficiale Bruto Pozzetto, da Grado, anche lui del "Venezia
Giulia", andò nella timoniera, i cui occupanti erano tutti morti, e prese
il timone, facendo faticosamente rotta per l’Isolino San Giovanni e per Pallanza.
Alice Spitti ricordò il militare, del quale non conosceva il nome, che chiese
dove fosse Intra e poi, saltando le fiamme, raggiunse la timoniera e rimise in
rotta il battello che stava deviando senza più nessuno al timone.
Con le macchine che
ormai giravano al minimo, avvolto dalle fiamme, l’agonizzante Milano ci mise più di un’ora a
raggiungere la riva (normalmente il tragitto da Laveno ad Intra richiedeva
mezz’ora): molti passeggeri preferirono tuffarsi nelle acque del lago per
cercare scampo, raggiungendo a nuoto la riva. Altri, invece, si erano rifugiati
sottocoperta, dove speravano di essere più riparati da eventuali nuovi
attacchi.
Claudio Tessitore, di
professione bigliettaio, prestava normalmente servizio sul Milano: per puro caso, in quel giorno fatale, era stato assegnato
ad un altro piroscafo, il Piemonte. Assisté
da distanza all’attacco degli aerei ai danni del Milano, e si diresse verso il battello ferito con una piccola
barca, per prestare aiuto: riuscì così a trarre in salvo alcuni militari
feriti, oltre a recuperare alcuni cadaveri.
Alla fine, il Milano riuscì ad attraccare nella
darsena di Villa Eremitaggio (Pallanza), tra San Remigio e Castagnola (altra
fonte parla del muraglione di Villa Scagliola): a questo punto i militi
superstiti lanciarono delle cime e, con l’aiuto di alcuni giardinieri e civili (tra
cui gli operai di una vicina birreria) precipitatisi nel parco della villa,
legarono il battello ai tronchi delle palme del giardino di Villa Eremitaggio,
per impedire che andasse alla deriva mentre si procedeva ai soccorsi.
Pompieri, civili e
militi della X Flottiglia MAS di stanza a Pallanza, con l’ausilio di scalette
di legno e passerelle, aiutarono a sbarcare morti (alcuni dei quali
carbonizzati), feriti e superstiti illesi. Alice Spitti fu legata con delle
corde per poi essere issata e portata a riva; Sergio Cosulich, gravemente
ferito, fu sollevato per una mano sola, essendo l’altra ferita.
I feriti, civili e
militari, furono trasportati nell’ospedale di Intra, dove molti di essi
morirono nelle ore e nei giorni seguenti; successivamente, i militi della
G.N.R. sarebbero stati trasferiti all’Ospedale Militare di Varese.
Nel pomeriggio del 26
settembre, le fiamme che continuavano a divampare a bordo divorarono anche i
cavi che trattenevano il Milano agli
alberi della riva, ed il relitto del piroscafo (che, secondo una versione, era
stato anche colpito a poppa da una bomba durante il quarto passaggio degli
aerei) ruppe gli ormeggi e andò alla deriva, fino ad affondare, tra le 16 e le
17, al largo di Punta Castagnola (Verbania).
Due
immagini del Milano in fiamme ed in
procinto di affondare dopo il mitragliamento (sopra: da www.vfpiemonte.it; sotto: da www.lavenomombelloedintorni.it)
Secondo la stima più
accreditata, le vittime del mitragliamento del Milano furono 26: 12 civili e 14 militari della Repubblica Sociale
Italiana. Altra versione parla della morte di 10 militi del Battaglione "M"
e di un imprecisato numero di civili; secondo il ricercatore Pier Amedeo
Baldrati, che scrisse un articolo a riguardo per l’Istituto Storico R.S.I., le
vittime del Milano furono 22, ed i
feriti 31. Altrove si parla anche di una cinquantina di vittime od addirittura
di una settantina, ma si tratta di dati piuttosto vaghi, di dubbia provenienza,
e probabilmente esagerati, specie se si considera il numero di persone
imbarcate sul Milano.
Tra le vittime di cui
si conosce il nome vi sono i tre membri dell’equipaggio (il comandante Antonio
Colombo, il marinaio timoniere Giovanni Tarazza ed il fuochista Antonio
Colombara) e sedici militari della RSI: oltre al già citato maggiore Renato
Ferrini della Divisione "San Marco" (aveva 32 anni ed era di La
Spezia) ed al marò della X MAS Augusto Rino Proserpio (19 anni, da Verbania, in
servizio alla Scuola Mezzi d’Assalto "Todaro") che si trovava in
licenza, morirono quattordici uomini del battaglione "M", ovvero il
tenente Carlo Colucci, 30 anni, da Molfetta; il sergente Giuseppe Sestilli, 20
anni, da Melfi; il milite Riccardo Cecconi, 25 anni, da Fiume; e gli allievi
ufficiali Glauco Babbi, 39 anni, da Fiume; Aldo Bucci, 20 anni, da Roma; Elio
Cosentino, 17 anni, da Napoli; Sergio Cosulich, 22 anni, da Trieste; Antonio
Gargiulo, 19 anni, da Castellammare di Stabia; Ettore Ottaviani, 23 anni, da
San Mauro in Pascoli; Bruno Pavariani, 18 anni compiuti da pochi giorni, da
Cesena; Romolo Vogli, 21 anni, da Budrio; Pasquale Grosso, 18 anni, da Morra de
Sanctis; Emilio Sepich, 18 anni, da Fiume; Romeo Montonesi, 19 anni. Colucci,
Vogli, Babbi, Bucci e Cosulich morirono a bordo del Milano (i primi due poterono essere identificati, al pari di
Ferrini, mentre gli ultimi tre furono trovati carbonizzati), mentre Pavani,
Cecconi e Cosentino morirono poche ore dopo nell’ospedale di Intra. Sestilli,
Grosso, Sepich e Montonesi morirono nei giorni seguenti, anch’essi nell’ospedale
di Intra, per le ferite riportate: Sestilli morì il 28 settembre, Grosso e
Sepich il 29 settembre, Montonesi l’11 ottobre 1944.
Ad essi si dovrebbero
aggiungere almeno dieci passeggeri civili morti nell’attacco, i cui nomi non
sono noti all’autore. Forse le vittime civili furono di più; secondo una fonte,
dal registro mortuario del cimitero di Intra risulterebbero tredici civili
seppelliti nel cimitero in seguito all’attacco del 26 settembre, ma altre
vittime furono seppellite in altri cimiteri della zona.
Altri 29 militi del
Battaglione "M" Venezia Giulia (tra cui il maggiore Ledo, il
sottotenente Filippo Capelli ed i militi Aurelio Aquini, Italo Bruschi,
Giovanni Chiarezza, Silvio Cosulich, Dario D’Aria, Benito Donà, Franco
Falzhoger, Giovanni Filippi, Silvano Gerin, Giuseppe Gueli, Ireneo Ianora,
Agostino Lo Piccolo, Aldo Pace, Tullio Pascolat, Renato Perisi, Tullio Sandri e
Aldo Varicchi) furono ricoverati presso l’Ospedale Maggiore di Varese. Mancano
informazioni sui feriti tra i civili.
Le vittime
identificate furono sepolte individualmente nel cimitero di Intra o, per gli
abitanti della zona, nei cimiteri dei paesi vicini; le salme carbonizzate e
irriconoscibili furono sepolte in un’unica tomba per "ignoti", sempre
nel cimitero di Intra. Non tutte le vittime, probabilmente, furono trovate; un
paio, forse di più, affondarono con il Milano
(secondo alcuni, molti civili che si erano rifugiati sottocoperta sarebbero
affondati con la nave).
Per un anno dopo la
tragedia, secondo il ricordo di alcuni abitanti del luogo, una bambina continuò
a recarsi ogni giorno sulla riva del lago, chiamando il padre affondato con il Milano. Alice Spitti, sopravvissuta alla
strage, fu visitata per anni da parenti di dispersi che le chiedevano se avesse
visto, quel mattino, un loro parente di cui non avevano più avuto notizie.
Terminato il
conflitto, le prime due nuove motonavi costruite dalla Navigazione Lago
Maggiore ricevettero i nomi di Milano
e Genova, a ricordo dei due battelli
perduti.
Il 7 maggio 1959 la
tragedia del Milano e del Genova venne commemorata con il
lancio di una corona di fiori proprio dal Torino, alla presenza del capo di Stato Maggiore della Marina,
ammiraglio Pecori Giraldi, di altri nove ammiragli e di una rappresentanza
della Marina, oltre che di sindaci, autorità e popolazione rivierasca, compresi
anche alcuni superstiti di quei tragici eventi.
Il 9 ottobre 1984, a
quarant’anni dall’affondamento, si tenne una nuova commemorazione: di nuovo
il Torino, antico gemello e
compagno di sventura di Milano e Genova, imbarcò rappresentanze delle
autorità civili e religiose e del personale NLM, i parenti dei membri
dell’equipaggio deceduti sui due battelli ed altre persone, e depose due corone
di fiori sui luoghi dell’affondamento dei due piroscafi. In entrambi i casi
venne impartita una benedizione, e fu celebrata una messa di suffragio a bordo
della nave. Nella stessa occasione fu realizzata ad Arona, nella sede della
Navigazione Lago Maggiore, una targa in memoria dei cinque uomini della
Navigazione periti sul Milano e sul Genova.
Attualmente
l’affondamento del Milano viene
commemorato annualmente esclusivamente da esponenti di gruppi di estrema destra
ed associazioni reducistiche della RSI, con il lancio di una corona d’alloro
nelle acque del lago, nel punto dove la nave fu affondata. Bruto Pozzetto, il
legionario che si era messo al timone del Milano
per portare a riva la nave danneggiata, presenziò a queste commemorazioni per
molti decenni, così come il commilitone Silvio Cosulich. Nel 1991, per
iniziativa di tali associazioni, una lapide in memoria delle vittime del Milano è stata apposta sulla tomba del
cimitero di Intra che aveva accolto i resti delle vittime non identificate.
Le prime ricerche del
relitto del Milano, per lungo tempo
dimenticato, sono state condotte nel 1999 e nel 2003, ad opera dei Vigili del
Fuoco della provincia del Verbano-Cusio-Ossola. A questi primi tentativi,
rimasti senza risultato, sono seguite nuove ricerche verso la fine del 2007: il
7 novembre di quell’anno, durante un’esercitazione del nucleo sommozzatori della
Direzione Regionale VV.FF. Lombardia (in cooperazione con il Comando di
Verbania), il relitto del battello è stato individuato a profondità compresa
tra i 235 e i 238 metri, a circa 205 metri dalla costa di Verbania, al largo di
Villa Ermitage. Ad individuare e filmare il relitto per la prima volta è stato
il mezzo ROV (Remotely Operated Vehicle) "Prometeo" dei Vigili del
Fuoco, che ha anche recuperato un oggetto inizialmente irriconoscibile: è stato
il vecchio bigliettaio del Milano,
Claudio Tessitore, ad identificarlo come il gancio usato dal fuochista per
pulire la caldaia. Giuseppe Colombara, il fuochista morto sul Milano, era un suo vecchio amico.
Il 10 maggio 2008 tre
subacquei, gli italiani Alessandro Scuotto e Mario Marconi e l’olandese Pim Van
Der Horst, hanno compiuto la più profonda immersione su relitto mai effettuata
scendendo sul relitto del Milano.
Un piccolo mistero
aleggia proprio sul ritrovamento del relitto: già nel 1990, infatti, un privato
localizzò e filmò sul fondo del lago, mediante un ROV autocostruito, il relitto
di uno scafo che giaceva alla profondità di 90 metri. Il relitto, sul quale
erano presenti dei resti umani (due teschi), fu all’epoca identificato come il Milano: ma non poteva trattarsi di
questa nave, il cui relitto è poi stato localizzato nel 2007 (ed identificato
senza possibilità d’equivoco, essendo il nome ancora leggibile) in acque ben
più profonde. Di quale nave poteva allora essere il relitto individuato nel
1990? Si potrebbe forse ipotizzare che si trattasse del gemello Genova, anche se non tutto combacia.
Il Milano giace spezzato in due tronconi,
distanti una ventina di metri l’uno dall’altro: uno dei due tronconi giace su
fondale piatto a profondità compresa tra i 230 e i 238 metri, mentre l’altro è
adagiato su un fondale leggermente digradante a profondità di 215-220 metri.
Una cartolina colonizzata con il Milano in arrivo a Luino negli anni Trenta (da www.forum.milanotrasporti.org, utente DanieleTO) |
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