Piroscafo da carico da 5785 tsl e 3661 tsn, lungo 121,9 metri, largo 16,1 e pescante 10, con velocità di 11,5 nodi. Appartenente alla Società Anonima Cooperativa di Navigazione Garibaldi, con sede a Genova, ed iscritto con matricola 1463 al Compartimento Marittimo di Genova.
Breve e parziale cronologia.
13 settembre 1920
Varato nei cantieri
Northumberland Shipbduilding Company Ltd. di Newcastle-upon-Tyne (o Howdon),
Regno Unito (numero di costruzione 255), come Adamello.
Dicembre 1920
Completato per il Lloyd Adriatico Società di Navigazione, con sede a Venezia.
1929
Trasferito alla
Società Anonima Cooperativa di Navigazione "Garibaldi", con sede a
Genova.
Un’altra foto dell’Adamello (da www.marinamercanteuruguaya.blogspot.com)
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Montevideo
Anche l’Adamello fu nel numero dei tanti
mercantili italiani che la dichiarazione di guerra, il 10 giugno 1940, trovò in
acque straniere e lontane dal Mediterraneo: in questo caso, dell’Uruguay.
L’Adamello, partito pochi giorni prima da
Buenos Aires, in Argentina, l’8 giugno aveva ricevuto ordine dal governo italiano
di dirigere verso Montevideo, assieme al piroscafo Fausto, anch’esso proveniente da Buenos Aires. Qui i due piroscafi
si rifugiarono il 10 giugno, all’atto della dichiarazione di guerra, e qui
furono internati quale mercantili di Paese belligerante in porto neutrale.
A Montevideo, l’Adamello rimase immobile per quindici
mesi; periodo non del tutto privo di eventi. Il 17 gennaio 1941, infatti,
scoppiarono a Montevideo incidenti tra alcuni marittimi dell’Adamello e del Fausto, che volevano che la "prima" del film "Il
grande dittatore" di Charlie Chaplin venisse rimandata (perché il film
faceva satira contro Hitler e Mussolini, caricaturati nei personaggi di Hynkel
e Napoloni), e cittadini antifascisti di Montevideo. I tafferugli, cui
parteciparono anche italiani appartenenti ad organizzazioni fasciste
nell’Uruguay, degenerarono in una vera e propria guerriglia urbana nell’Avenida
18 de Julio; il tutto si concluse con nove arrestati, tra cui due ufficiali
dell’Adamello.
Il 9 settembre 1941,
pur essendo l’Uruguay neutrale, le autorità uruguaiane confiscarono il naviglio
italiano presente nei loro porti, vale a dire l’Adamello ed il Fausto,
espropriandolo agli armatori (ancora nel 1951, in un’interrogazione
parlamentare, la Cooperativa Garibaldi avrebbe lamentato l’utilizzo dell’Adamello da parte del Governo
uruguaiano, per il quale la compagnia non aveva mai ricevuto alcun compenso).
Subirono analoga sorte anche due piroscafi danesi.
La confisca di Adamello e Fausto provocò un serio incidente diplomatico tra Italia ed
Uruguay, risolto dalla diplomazia uruguaiana.
La confisca dei
piroscafi, effettuata per decreto governativo, era stata decisa dalle autorità
dell’Uruguay per ovviare alla carenza di naviglio causata dalla guerra: la
Marina Mercantile uruguaiana consisteva in un unico vecchio piroscafo, e le
navi delle altre nazioni erano ora utilizzate per trasportare rifornimenti e
materiali per l’industria bellica Alleata e/o attaccate dai sommergibili
dell’Asse. Questa carenza di naviglio impediva gli scambi ed indeboliva
l’economia uruguaiana, per via della difficoltà nell’approvvigionamento di
materiali per l’industria: i quattro piroscafi confiscati, pertanto, sarebbero
stati utilizzati per i commerci con altri Paesi americani, specialmente gli
Stati Uniti.
Diversi Paesi
dell’America settentrionale, centrale e meridionale avevano già intrapreso mesi
prima analoga mossa, seguendo l’esempio degli Stati Uniti, che per primi lo
avevano fatto nel marzo 1941. Difatti, già nel mese di aprile il servizio
informativo dell’Ammiragliato britannico aveva segnalato l’intenzione, da parte
delle autorità uruguaiane, di requisire Adamello
e Fausto; e sempre in quel mese la
polizia uruguaiana era salita sui due piroscafi italiani, così come su quelli
danesi, quale "misura precauzionale".
Dopo la confisca, gli
Stati Uniti pretesero, tramite l’ambasciatore Dawson e l’addetto navale Frank
Loftin, che i piroscafi ex italiani venissero affidati alla società
statunitense Moore McCormack; ma nei negoziati, condotti dall’ammiraglio Rodriguez
Luis e dal dottor Guani, prevalsero infine le autorità dell’Uruguay, che
mantenne il controllo dei due bastimenti.
Gli equipaggi
italiani dei due piroscafi vennero sbarcati ed internati a Montevideo.
Assegnato alla flotta
dell’Administración Nacional de Puertos (dipendente dal Governo uruguaiano), l’Adamello ricevette il nuovo nome di Montevideo (che fu anche il suo porto di
registrazione; gli fu assegnato il nominativo di chiamata CXAJ), e riprese a
navigare con bandiera ed equipaggio uruguaiano. Il suo comandante, capitano di
fregata José Rodríguez Varela, apparteneva alla Marina Militare uruguaiana,
così come la maggior parte dell’equipaggio, mentre la nave non era armata.
Sopra: la notizia, su un
giornale uruguaiano, della confisca delle navi italiane e danesi; sotto, il
piroscafo con il nuovo nome di Montevideo
(da www.marinamercanteuruguaya.blogspot.com).
Ironia della sorte
volle che l’Adamello, nave che era
stata italiana per tutta la sua vita fino alla cattura, senza mai cambiare
bandiera (piuttosto raro per una nave da carico dell’epoca), una volta divenuto
l’uruguaiano Montevideo trovò la sua
fine nel giro di pochi mesi, e proprio per mano di un’unità italiana: il
sommergibile Enrico Tazzoli,
comandato da uno degli assi di Betasom, Carlo Fecia di Cossato.
Il 9 febbraio 1942,
infatti, il Montevideo lasciò
l’Uruguay diretto a New York con un equipaggio di 49 uomini; era il primo
viaggio del piroscafo sotto bandiera uruguaiana, e sarebbe stato anche
l’ultimo. In base alle vigenti norme internazionali sulla neutralità, sulle
murate erano state dipinte grandi bandiere dell’Uruguay, per indicare la
nazionalità della nave ad eventuali sommergibili di Paesi belligeranti, e di
notte la nave navigava a luci accese. Il carico, trasportato per conto della
Marina Militare uruguaiana (che aveva noleggiato la nave), consisteva in 5998
tonnellate di vino, cereali, carne in scatola (2114 tonnellate), lana e pelle
conciata (1170 tonnellate), uova, cuoio e fertilizzanti. Erano tutti prodotti
dell’industria uruguaiana; nel viaggio di ritorno, il piroscafo avrebbe dovuto
trasportare in Uruguay un carico di materie prime destinate all’industria del
Paese sudamericano (1000 tonnellate di carta da giornale e 2000 tonnellate di
ferro da costruzione).
Procedendo a 12 nodi,
sua velocità massima, il Montevideo
superò Porto Allegre, Bahia, Rio de Janeiro e Pernambuco, poi diresse per Saint
Thomas nelle Isole Vergini americane, dove giunse il 5 marzo e si rifornì di
carbone.
Durante la breve
sosta a Saint Thomas (la nave ripartì lo stesso 5 marzo), l’equipaggio apprese
del crescendo di attacchi di sommergibili dell’Asse nel Mar dei Caraibi: pochi
giorni prima, un convoglio di sei navi era stato dimezzato da attacchi
subacquei; un sommergibile nemico (era l’italiano Finzi) aveva cannoneggiato l’Isla de Mona. Queste notizie spinsero
il comandante Varela ad adottare precauzioni tipiche della navigazione in tempo
di guerra: vietato fumare al di fuori degli alloggi dell’equipaggio e,
soprattutto, oscuramento totale della nave. In questo modo, però, egli condannò
il suo bastimento: ora il Montevideo
avrebbe navigato di notte a luci spente, proprio come una nave di un Paese
belligerante, impedendo ai sommergibili dell’Asse di vederne le bandiere
verniciate sulle murate e, dunque, di riconoscerlo come una nave neutrale. Per
giunta, Varela ordinò che la nave navigasse a zig zag – anche questo era un
provvedimento adottato in guerra dalle navi di Paesi belligeranti. Vennero rafforzati
i turni di vedetta.
L’avvistamento del Montevideo da parte del Tazzoli avvenne l’8 marzo 1942. Secondo
fonti italiane, l’avvistamento avvenne il mattino dell’8 marzo, da una distanza
di ben 17 km; la nave aveva rotta nord. All’equipaggio del Tazzoli parve, forse per la grande distanza, che la nave non
recasse distintivi di neutralità, pertanto il comandante Fecia di Cossato
decise di attaccarla; la inseguì per due ore, poi s’immerse per attaccare col
siluro, ma durante l’immersione il piroscafo andò scadendo sull’angolo di mira,
e l’attacco non riuscì. A questo punto, Fecia di Cossato decise di lasciare che
il Montevideo si allontanasse, poi
riemerse con l’intento di attaccare dopo il tramonto, stando in superficie.
Durante tutto il pomeriggio, il Tazzoli
si tenne al limite della visibilità del piroscafo, ricominciando ad avvicinarsi
solo una volta che fu calata l’oscurità. Ciò impedì agli uomini del Tazzoli di accorgersi che il loro
bersaglio era uruguaiano e neutrale, dato che prima si erano tenuti troppo
lontani per vederne le insegne, e poi era calato il buio, che impedì loro di
vederle anche quando si avvicinarono. L’atteggiamento della nave, che zigzagava
oscurata, non fece che rafforzare l’impressione che si trattasse di un
bastimento degli Alleati.
L’equipaggio del Montevideo aveva avvistato un oggetto scuro
in lontananza, subito scomparso sott’acqua – scambiato da alcuni per una tromba
marina, e ritenuto da altri un sommergibile che si nascondeva tra trombe marine
– già il mattino dell’8 marzo; il comandante Varela aveva ordinato di forzare
l’andatura per cercare di distanziarlo. Alle 16 i marinai uruguaiani videro di
nuovo l’oggetto affiorare in superficie, molto più vicino di prima, e questa
volta concordarono nell’identificarlo come un sommergibile. Col calar della
sera, comunque, l’equipaggio del Montevideo
ritenne che il pericolo fosse passato; la nave procedeva a 8,5 nodi su rotta
vera 321°, con vento forza 4 (30 nodi) da nordest, mare agitato e buona
visibilità.
Alle 19.20 il Tazzoli iniziò l’attacco, lanciando un
primo siluro. In quel momento Tazzoli
e Montevideo si trovavano a 330
miglia da Puerto Rico.
Il siluro mancò il
bersaglio, ma il Tazzoli ne lanciò
prontamente un altro (dai tubi di prua), che alle 19.25 o 19.30 – dopo una
corsa di 45 secondi – colpì il Montevideo
sul lato di dritta, abbattendo l’albero maestro (rimase così ucciso un
marittimo uruguaiano che era di vedetta in coffa) e provocando uno momentaneo sbandamento
di 35°-40° (poi la nave tornò gradatamente in assetto); un’onda spazzò il
ponte, distruggendo i picchi di carico e provocando due morti e due feriti.
Il piroscafo
imbarcava acqua rapidamente, ed il comandante Varela ordinò di abbandonare la
nave; le scialuppe di dritta erano state gettate dall’esplosione contro la sovrastruttura,
pertanto venne calata una delle lance di sinistra, con 31 uomini a bordo (tra
cui lo stesso Varela). Altri quattro uomini si misero in salvo su una zattera;
tra di essi il radiotelegrafista, che aveva tentato di trasmettere i segnali
SOS (richiesta di aiuto) e SSS (attacco di sommergibile) ma non ci era
riuscito, a causa dei danni riportati dalle apparecchiature radio. Gli altri 14
membri dell’equipaggio erano morti: nove, di turno in sala macchine, erano
stati uccisi dall’esplosione del siluro; due erano stati gettati contro gli
argani dall’onda generata dallo scoppio del siluro, restando uccisi; un
marinaio era annegato sottocoperta; la quattordicesima vittima era la vedetta
precipitata in coperta con l’albero maestro.
Secondo i naufraghi uruguaiani,
il Tazzoli girò intorno
all’agonizzante Montevideo e puntò un
proiettore sulla poppa, soffermandosi a leggere il nome della nave; poi aprì il
fuoco col cannone. Da fonti italiane risulta che, subito dopo il siluramento,
Fecia di Cossato fece armare il cannone prodiero, che sparò contro il Montevideo dieci colpi da 120 mm (tutti
andati a segno); poi, visto che la nave era ancora a galla, le lanciò un altro
siluro dai tubi di poppa, per finirla. Essendo la distanza di soli 150 metri,
tuttavia, l’acciarino del siluro non fece in tempo ad attivarsi, e l’arma non
esplose.
Nondimeno, i danni
già subiti dal Montevideo erano
fatali, e poco dopo la mezzanotte del 9 marzo il piroscafo affondò nel punto
29°13’ N e 69°35’ O o 29°30’ N e 70°00’ O (a sudovest di Bermuda ed a nordest
di Haiti; 650 miglia ad est della Florida).
Dei naufraghi, la
scialuppa con 31 uomini, dopo aver vanamente cercato in acqua altri superstiti,
iniziò a remare verso le Grandi Antille e Porto Rico, finché, il 13 marzo, i
suoi occupanti furono tratti in sarvo dal piroscafo olandese Telamon, che li sbarcò poi a Jeremie,
sulla costa meridionale di Haiti. I quattro naufraghi sulla zattera,
inizialmente ritenuti dispersi (la scialuppa non si era accorta della loro
presenza), furono salvati dopo sei giorni dalla deriva senza cibo né acqua – si
nutrirono di alghe e qualche pesce fortunosamente catturato, tenendo a bada gli
squali a colpi di remo – dal mercantile statunitense Explorer, che li sbarcò a Trinidad il 16 marzo.
Il Montevideo fu la prima nave perduta in
guerra dall’Uruguay, nazione all’epoca ancora formalmente neutrale (entrò in
guerra contro Germania e Giappone solo il 15 febbraio 1945, anche se aveva
rotto le relazioni diplomatiche con i Paesi dell’Asse, Italia compresa, già il
25 gennaio 1942).
L’affondamento del Montevideo, attribuito sia
dall’equipaggio che dalla stampa uruguaiana ad un U-Boot tedesco, scatenò in
Uruguay violenti sentimenti antitedeschi (tanto che fu necessario mandare
poliziotti a vigilare le proprietà di cittadini tedeschi, per arrestare gli atti
di violenza nei loro confronti) e la reazione delle autorità del Paese
sudamericano, che a titolo di rappresaglia confiscò il mercantile tedesco Tacoma, che si trovava internato in un
porto uruguaiano.
I 14 marittimi morti
sul Montevideo furono le uniche
vittime uruguaiane della seconda guerra mondiale.
Un’altra immagine dell’Adamello (da www.histarmar.com)
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