La Marghera (g.c. Mauro Millefiorini) |
Piroscafo cisterna di
4530,53 tsl e 2732 tsn, lunga 107,40 metri, larga 15,30 e pescante 9,08.
Di proprietà della
Società Italiana Petroliere di Oriente, avente sede a Roma, ed iscritto con
matricola 192 al Compartimento Marittimo di Roma; nominativo di chiamata IBRU.
Breve e parziale cronologia.
20 settembre 1899
Varata come
britannica Bloomfield (numero di
costruzione 125) nel cantiere di Willington Quay (North Tyneside, Newcastle)
della Tyne Iron Shipbuilding Company Ltd.
21 ottobre 1899
Completata come Bloomfield per la compagnia Hunting
& Son di Newcastle, e consegnata dopo le prove in mare. Stazza lorda e
netta risultano originariamente di 4531 tsl e 2733 tsn (secondo altra fonte,
invece, 4455 tsl e 2869 tsn), portata lorda 6000 tpl; la velocità massima è di
11,5 nodi (ma alle prove in mare ha raggiunto i 12,1 nodi).
La Hunting & Son,
nota anche come Northern Petroleum Tank Steamship Company, è stata fondata
pochi anni prima dagli armatori britannici Charles Hunting (padre) e Charles
Samuel Hunting (figlio) di Newcastle, intenzionati ad entrare nel mercato del
trasporto di idrocarburi con navi cisterna; la Bloomfield, insieme alle gemelle Aureole ed Oilfield
(anch’esse costruite dalla Tyne Iron), è stata costruita sul modello della
Duffield, prima petroliera della Hunting & Son (ed in assoluto una delle
prime navi cisterna costruite nel Regno Unito), costruita dai cantieri della
Tyne Iron nel 1893-1894. Tutte le petroliere della compagnia, con l’eccezione dell’Aureole, saranno battezzate con nomi
caratterizzati dal suffisso “-field”.
29 gennaio 1904
Mentre la Bloomfield è in navigazione verso
Philadelphia, al comando del capitano Lowe, il marinaio William Manning si
toglie la vita tuffandosi in mare durante una tremenda burrasca.
Luglio 1914
Trasferita alla neocostituita
Hunting Steamship Company Ltd., sempre con sede a Newcastle, restando in
gestione alla Hunting & Son.
ca. 1916-1917
Durante la prima
guerra mondiale, la Bloomfield viene
requisita dall’Ammiragliato britannico ed impiegata per conto della Royal Navy.
7 gennaio 1917
Durante un viaggio da
Port Arthur a Kirkwall, la Bloomfield
viene fermata ed ispezionata al largo della Scozia dall’incrociatore ausiliario
britannico Avenger, che la lascia
proseguire dopo aver verificato che a bordo tutto è regolare.
1925
Trasferita alla Field
Tank Steamship Company Ltd. di Newcastle, restando sempre in gestione alla
Hunting & Son (la Field S. S. Company è un’altra delle loro controllate).
12 dicembre 1928
Acquistata dalla
Società Anonima Imprese Navali & Affini, con sede a Venezia, e ribattezzata
Marghera. Porto di registrazione
Venezia, nominativo di chiamata NXHL.
1932
La compagnia
proprietaria cambia ragione sociale in Compagnia Industrie Marittime Affini
Roma (C.I.M.A.R.), sempre con sede a Venezia. La stazza netta viene ritoccata
da 2733 tsn a 2732 tsn.
1934
Cambia il nominativo
di chiamata: IBRU, invece di NXHL.
1935
Trasferita alla
Società Italiana Petroliere d’Oriente, con sede a Venezia; in gestione a G.
Castaldi.
1937
La Società Italiana
Petroliere d’Oriente cambia sede, trasferita da Venezia a Rodi.
1938
Passa in gestione al
capitano G. Folcini/Agenzia Marittima Italiana, restando di proprietà della
Società Italiana Petroliere d’Oriente.
La Marghera con il precedente nome di Bloomfield (Coll. Clive Ketley, via www.tynebuiltships.co.uk) |
Chisimaio
Quando l’Italia entrò
nella seconda guerra mondiale, il 10 giugno 1940, la Marghera si trovava in navigazione nell’Oceano Indiano.
La sua situazione
rispecchiava quella di altre duecento e più navi mercantili italiane, sorprese
dalla dichiarazione di guerra nei mari di tutto il mondo: con gli accessi del
Mediterraneo saldamente in mano britannica, il rientro in Italia era fuori
discussione. La Royal Navy controllava gli oceani, ed era soltanto questione di
tempo prima che la Marghera venisse
intercettata da qualche nave od aereo di sua maestà; era dunque imperativo
raggiungere il più vicino porto amico.
Per la vecchia
pirocisterna, quest’ultimo era rappresentato da Chisimaio, nella colonia
italiana della Somalia: e fu dunque verso questo porto che la Marghera fece rotta.
Chisimaio, in somalo
Kismaayo e Kismayu nella lingua dei Bagiuni, la minoranza che abita tale
regione, è la città principale dell’Oltregiuba, la regione più sudoccidentale
della Somalia, confinante con il Kenya. Nel 1940, questa città rappresentava il
terzo centro della Somalia italiana per importanza economica e sociale: insieme
a quello di Mogadiscio, il suo era il porto principale della colonia, oltre che
la sede dell’unica, per quanto modesta, base navale italiana in Somalia. Qui
aveva sede il Comando della Marina in Somalia, retto dal capitano di vascello
Ugo Fucci.
Non sorprende quindi
che sia stato proprio Chisimaio il porto in cui confluirono tutte le navi
mercantili italiane che l’ingresso dell’Italia nel secondo conflitto mondiale,
il 10 giugno 1940, sorprese in Somalia o nei mari vicini.
All’atto della
dichiarazione di guerra, si trovavano a Chisimaio cinque navi mercantili
italiane e tre tedesche (i piroscafi Uckermark, Askari e Tannenfels, oltre al rimorchiatore Kionga), queste ultime bloccate in Somalia fin dal 1939 (si erano
rifugiate in quel porto amico per scampare alla cattura da parte della Royal
Navy, subito dopo l’inizio del conflitto); ad esse si aggiunsero in seguito
altre quattro navi da carico e due petroliere, sorprese dallo scoppio della guerra
in alto mare e che avevano trovato in Chisimaio il rifugio più vicino.
Una delle due
petroliere che si rifugiarono a Chisimaio dopo la dichiarazione di guerra era
appunto la Marghera. L’altra era la Pensilvania, mentre i restanti
mercantili italiani erano i piroscafi misti Adria e Somalia,
i piroscafi da carico Carso, Integritas, Manon, Savoia ed Erminia Mazzella, la motonave da
carico Duca degli Abruzzi ed
il piroscafo passeggeri Leonardo Da
Vinci.
Tutte e quattordici
le navi avevano a bordo considerevoli carichi di merci di valore; essendo
evidente che non avrebbero potuto trasportarli da nessuna parte (la Marina
britannica controllava gli oceani, e la terra amica più vicina distava migliaia
di miglia), il Comando Marina di Chisimaio diede ordine di sbarcare ed
immagazzinare a terra le merci di maggior interesse militare e quelle più
deperibili.
Essendo i bastimenti
costretti ad un periodo indefinibile di forzata immobilità nel porto somalo,
anche la presenza a bordo del grosso degli equipaggi risultava superflua; di
conseguenza, venne deciso di mantenere a bordo solo i marittimi indispensabili
per la custodia, mentre il resto del personale venne sbarcato ed adibito ad
incarichi a terra, di natura sia civile che militare.
Pur nella loro
immobilità, i mercantili poterono svolgere un ruolo utile almeno nel
decentramento delle riserve di nafta disponibili a Chisimaio. I serbatoi
principali della base, tre per complessive 15.000 tonnellate di capienza, si
trovavano tutti sull’isola dei Serpenti (la maggiore dell’arcipelago delle
Isole Giuba o Bajuni, oggi unita alla terraferma), antistante il porto; nel
timore che un unico attacco aereo ben centrato potesse distruggere tutte le
riserve di carburante, si decise di travasare parte di quella nafta nei serbatoi
dei mercantili all’ormeggio, in modo da disperderla e ridurre i danni che una
singola incursione aerea avrebbe potuto causare.
I mesi che seguirono
furono piuttosto monotoni. Tre giorni dopo l’entrata in guerra, il 13 giugno
1940, Chisimaio subì il suo primo bombardamento aereo: alcuni bombardieri
Bristol Blenheim attaccarono la base volando a bassa quota, ma l’immediata
reazione delle batterie contraeree li costrinse ad allontanarsi e sganciare le
bombe lontano da obiettivi d’interesse militare. Questa incursione fu seguita
da moltissime altre, con notevole frequenza, negli otto mesi che intercorsero
tra l’inizio della guerra e la caduta della Somalia; ma le difese contraeree
della base reagirono sempre efficacemente, e gli aerei attaccanti furono sempre
costretti a tenersi a distanza, senza mai riuscire a causare danni (difatti,
nessuna delle 14 navi ormeggiate a Chisimaio in quel periodo fu mai colpita da
aerei).
Alle incursioni aeree
si aggiunsero anche frequenti “comparse” di incrociatori: con una certa
regolarità, un incrociatore britannico si presentava nelle acque antistanti
Chisimaio, ma la minaccia non si traduceva quasi mai in un vero e proprio
attacco. L’incrociatore si limitava a defilare lungo la costa, tenendosi appena
fuori dal limite della gittata delle batterie costiere italiane, senza aprire
il fuoco. Probabile scopo di queste “apparizioni” era di scoraggiare gli
spostamenti di naviglio tra Chisimaio e gli altri porti della Somalia, ma in
realtà il traffico – pressoché indispensabile per i collegamenti tra i porti,
dato il cattivo stato delle strade e la carenza di automezzi e copertoni – tra
Chisimaio, Mogadiscio e gli altri porti minori (Burgao, Dante e Brava) venne
sempre effettuato senza problemi, perlopiù con naviglio minore, regolando le
partenze in modo che avvenissero nei periodi di tempo che trascorrevano tra
un’“incursione” e l’altra (la cui cadenza, come detto, poteva essere stimata
con una certa regolarità). Sovente, su richiesta del Comando Marina,
l’Aeronautica inviò qualcuno dei pochi aerei disponibili in Somalia ad
attaccare gli incrociatori, ritenendo in più di un’occasione di averli colpiti
(dopo i primi attacchi aerei, gli incrociatori iniziarono a presentarsi dinanzi
a Chisimaio soltanto verso il tramonto, così da poter approfittare dell’arrivo
del buio per potersi allontanare senza essere attaccati).
Ben pochi eventi
interruppero la monotonia della vita di Chisimaio. Nel novembre 1940 giunse nel
porto somalo il piroscafo giapponese Jamamari
Maru (il Giappone era all’epoca ancora neutrale, sebbene legato ad
Italia e Germania dal Patto Tripartito), carico di 8000 tonnellate di benzina
per aerei, copertoni, camere d’aria, zucchero e riso; la nave nipponica si
trattenne a Chisimaio per otto giorni, mettendo a terra il suo carico, per poi
ripartire. I materiali così ricevuti vennero trasferiti a Mogadiscio via mare,
con il Somalia, la Duca degli Abruzzi e mezzi minori.
Pochi giorni dopo, il
1° dicembre 1940, giunse a Chisimaio il piroscafo jugoslavo Durmitor: carico di sale, era stato
catturato dalla nave corsara tedesca Atlantis e
mandato a Mogadiscio con un equipaggio di preda tedesco e numerosi prigionieri
appartenenti agli equipaggi di altre navi affondate dall’Atlantis. Giunse a Chisimaio dopo un travagliato viaggio di una settimana,
durante il quale aveva esaurito tutto il carbone ricevuto a Mogadiscio; equipaggio
e prigionieri vennero sbarcati, e la nave fu accantonata in attesa che si
decidesse cosa farne (la Jugoslavia era, all’epoca, ancora neutrale).
Il 10 dicembre la ricognizione
aerea su Chisimaio fu più intensa del solito, ed al tramonto un incrociatore
pesante si presentò nelle acque antistanti il porto e, a differenza del solito,
ridusse rapidamente le distanze rispetto alla costa ed iniziò a sparare contro
le navi ancorate. La batteria dell’Isola dei Pescicani (Mtanga Ya Papa o
Bishikaani nella lingua locale: la seconda per dimensioni delle Isole Giuba,
situata all’estremità opposta della baia di Chisimaio rispetto all’Isola dei
Serpenti) reagì subito, inquadrando l’incrociatore alla terza salva; a quel
punto, la nave nemica cessò il fuoco e se ne andò, senza aver causato danni.
Alla fine del
dicembre 1940 divenne evidente che i britannici stavano preparandosi a lanciare
un’offensiva dal Kenya contro la Somalia. Chisimaio, prevedibilmente, sarebbe
stata uno dei primi obiettivi.
Le difese sul fronte
a terra di Chisimaio erano estremamente carenti: il retroterra della base era
un’enorme distesa di folta boscaglia, con una conformazione geografica che mal
si prestava alla difesa, e l’unica difesa presente allo scoppio del conflitto
era un reticolato di alcuni chilometri, realizzato nel 1935 ed ormai
deterioratosi (in più di un punto, gli indigeni avevano persino aperto dei
varchi per permettere il passaggio del bestiame). Uniche truppe dell’Esercito
destinate a presidiare queste modeste difese erano due batterie campali in
postazione fissa ed un battaglione di ascari; alcune delle batterie della
Marina avevano campo di tiro verso il retroterra, ma la maggior parte poteva tirare
solo verso il mare, a contrasto di eventuali sbarchi nemici, perché compito
della Marina era la sola difesa del fronte a mare, mentre quella del fronte a
terra spettava all’Esercito. Il comandante del Comando Marina di Massaua aveva
cercato di rimediare in parte a queste deficienze, ma non aveva potuto fare
molto, se non ordinare la realizzazione di ulteriori reticolati, di trincee e
di postazioni di mitragliatrici con il poco materiale disponibile.
Con il profilarsi
dell’imminente invasione britannica, il Comando dello Scacchiere Giuba (retto
dal generale Carlo De Simone) fece iniziare lavori per rafforzare le difese di
Chisimaio: si cominciò a scavare un fossato anticarro che doveva circondare
completamente la piazzaforte, oltre che a realizzare difese passive ed
anticarro. Il Comando Marina, per parte sua, destinò alcune compagnie di
marinai alla difesa di alcuni settori del fronte a terra, fece riposizionare
alcune mitragliere contraeree pesanti per impiegarle anche come armi anticarro,
e realizzò improvvisati mezzi anticarro facendo montare su affusti collocati su
autocarri le canne da 25 mm delle batterie per i tiri ridotti da esercizio.
Nell’ipotesi, fin
troppo realistica, che Chisimaio sarebbe potuta cadere, ci si preparò anche a
distruggere tutto ciò che sarebbe potuto tornare utile al nemico: tutte le navi
mercantili, in particolare, vennero dotate di cariche esplosive specificamente
preparate in modo da affondarle a colpo sicuro e rendere impossibile il
recupero.
I bastimenti che
erano in condizioni migliori, tali da poter affrontare una lunga navigazione,
vennero invece preparati a salpare il prima possibile. Venne reimbarcata la
parte di equipaggi necessaria alla navigazione, e si procedette, nei limiti del
possibile, ad una parziale pulizia delle carene; le navi scelte per questo
tentativo di fuga vennero inoltre rifornire di provviste, acqua e carburante.
Il Tannenfels era già
partito il 31 gennaio diretto in Francia, dove giunse violando il blocco
britannico.
Le merci sbarcate in
precedenza dalle navi, per non farle cadere in mano nemica, vennero trasferite
ad Addis Abeba, via terra, ed a Mogadiscio, via mare; lo stesso si fece con
parte della nafta contenuta nei serbatoi della base navale.
Comandante della
Piazza Militare Marittima di Chisimaio era il capitano di vascello Ugo Fucci,
comandante della Marina in Somalia; essendovi però disaccordo in merito ai
limiti territoriali della giurisdizione e responsabilità del comandante della
piazza, il comandante dello Scacchiere, in accordo con lo stesso comandante
Fucci, trasferì l’incarico di comandante della piazza ad un colonnello
dell’Esercito. Poco dopo Fucci ebbe ordine di andare a Massaua, pertanto
cedette il comando al capitano di fregata Silvio Montanarella, che già reggeva
il Comando Marina di Chisimaio; dato però che questi era in missione a Dante
per ordine dello stesso Fucci, il comando passò provvisoriamente al comandante
in seconda, capitano di corvetta Giuseppe Campacci Baligioni.
L’invasione
britannica della Somalia ebbe inizio il 21 gennaio 1941, quando le truppe del
Commonwealth, al comando del generale Alan Cunningham, oltrepassarono il
confine tra Kenya e Somalia.
Le disposizioni del
Comando Superiore delle Forze Armate in Africa Orientale prevedevano che,
essendo pressoché impossibile difendere il confine con il Kenya, le truppe
italiane sarebbero dovute arretrare fino al fiume Giuba, che poteva costituire
un pur limitato baluardo naturale; qui sarebbe stata stabilita una linea di
difesa da difendere ad oltranza. Chisimaio, che si trovava a sud del Giuba, e
dunque tagliata fuori da questa linea, avrebbe dovuto tuttavia essere difesa ad
oltranza con le truppe presenti in loco (che consistevano, oltre che nel
personale della Marina – 600 italiani e 400 ascari –, in un terzo dei battaglioni
e metà delle batterie della 102a Divisione Somala), mentre
altre truppe avrebbero dovuto contrattaccare sul fianco sinistro dello
schieramento nemico.
Il comandante dello
Scacchiere, però, si trovò a fare i conti con una situazione ben poco promettente:
il Giuba, quasi completamente asciutto eccetto che negli ultimi 15-20 km del
suo corso, era divenuto guadabile quasi dappertutto, dunque la sua efficacia
come baluardo difensivo era di molto calata; la pressione nemica era
particolarmente forte verso il Basso e Medio Giuba. In una situazione tanto
precaria, sembrava inutile e rischioso sprecare tante forze per difendere
Chisimaio, isolata dalla linea di resistenza; il generale De Simone, di
conseguenza, decise di rinunciare alla difesa di Chisimaio per destinare anche
quelle truppe al rafforzamento della linea difensiva sul Basso Giuba, tra Gelib
e Giumbo. L’ordine venne dato l’8 febbraio 1941, e nella notte successiva
iniziò lo spostamento delle truppe di Chisimaio verso il Giuba.
Il 10 febbraio arrivò
in aereo a Mogadiscio il vicerè dell’Africa Orientale Italiana, Amedeo di Savoia-Aosta,
che si recò sul Giuba per saggiare la consistenza delle difese, e poi a
Chisimaio ove ispezionò gli apprestamenti difensivi. Trascorse una notte a
Chisimaio, e giunse alla conclusione che la decisione del generale De Simone
era corretta; tutte le truppe dovevano ripiegare fino al Giuba e difendere
quella linea ad oltranza, mentre Chisimaio doveva essere sgombrata il prima
possibile, trasferendo altrove tutto ciò che si poteva trasportare e
distruggendo ogni altra cosa. Il duca d’Aosta, ad ogni modo, era poco convinto
anche delle possibilità di un’effettiva resistenza sul Giuba, quasi del tutto
prosciugato. Una volta spezzata quella esile linea, tutto sarebbe stato perduto:
dal fiume fino alle prime alture dell’Harar si estendevano 700 chilometri di
pianura piatta e desertica, non solo del tutto indifendibile, ma anche troppo
inospitale per permettere alle truppe in ritirata di sopravvivervi.
Il mattino dell’11
febbraio 1941 vennero dati gli ordini per l’immediato sgombero della
piazzaforte e del porto di Chisimaio. Le partenze delle navi mercantili,
d’altro canto, erano già iniziate: Somalia (con
a bordo 1140 tonnellate di merci), Adria, Savoia ed Erminia Mazzella erano già salpati la sera del 10 febbraio, il
primo diretto a Mogadiscio, gli altri a Diego Suarez, nel Madagascar francese,
controllato dalla Francia di Vichy e dunque rifugio relativamente sicuro, oltre
che unico porto amico o neutrale raggiungibile senza dover attraversare un
intero oceano. Delle navi mercantili si occupava in particolare il tenente
colonnello di porto Francesco Serra Manichedda, trasferitosi appositamente da
Mogadiscio a Chisimaio.
Il mattino stesso
dell’11 proprio Serra Manichedda, insieme al comandante Campacci Baligioni,
parlarono con il duca d’Aosta dando voce al rincrescimento, loro e della
Marina, per dover abbandonare la base; ma il duca, ormai disilluso sulle
possibilità di resistenza dopo quanto aveva potuto personalmente osservare sul
Giuba il giorno precedente, ribadì gli ordini dati. Prima di lasciare
Chisimaio, il duca d’Aosta approvò gli ordini già impartiti per la partenza
delle navi mercantili, ed invitò ad accelerare la partenza dei bastimenti che
ancora restavano.
Tra i mercantili
ancora in rada, tuttavia, tre non erano in condizione di navigare: due
erano i piroscafi Carso ed Integritas, ed il terzo era proprio la Marghera. La forzata inattività in cui
giacevano dal giugno del 1940 ne aveva fortemente ridotto l’efficienza, e non
era stato possibile rimetterli in condizione di affrontare una difficile e
pericolosa traversata verso il Madagascar. Per evitare che cadessero in mano
nemica, non restava altro da fare che affondarli: Serra Manichedda e Campacci
Baligioni esposero anche questa necessità al duca d’Aosta, che approvò anche
questa triste decisione.
La sera dell’11
febbraio partirono per Mogadiscio la Pensilvania (carica
di nafta), l’Askari (carico di
fusti vuoti) ed il rimorchiatore Kionga;
nella notte successiva partirono anche l’Uckermark,
il Manon (scarico), la Duca degli Abruzzi (carica) ed
il Leonardo Da Vinci (vuoto),
tutti diretti a Diego Suarez.
Furono le ultime navi
ad abbandonare Chisimaio: dopo di che soltanto quattro rimasero all’ancora in
quella sperduta rada somala. Uno era il Durmitor,
il piroscafo jugoslavo giunto sotto controllo tedesco qualche mese prima:
siccome la Jugoslavia era ancora neutrale, si era deciso di lasciarlo a galla
affinché il suo equipaggio potesse riprenderne possesso, se mai fosse tornato a
Chisimaio. Le altre tre erano navi che avevano le ore contate: Carso, Integritas e Marghera.
Per ordine del
comandante della Piazza, colonnello Bernardi, le truppe dell’Esercito stavano
intanto provvedendo a sgomberare la piazzaforte ed a distruggere tutto quello
che non era possibile portare via; Bernardi aveva riferito al Comando Marina
che lui, il suo Comando e tutte le truppe di terra si sarebbero ritirati a
Giumbo, distante una dozzina di chilometri, il mattino seguente.
Non restava ormai che
da adempiere alla mesta incombenza di autoaffondare Carso, Integritas e Marghera: siccome però si temeva che
l’utilizzo delle cariche esplosive, già predisposte su ciascuna nave, avrebbe
potuto allarmare la popolazione indigena, che «avrebbe potuto anche creare intralci al sollecito svolgimento delle
operazioni», si decise all’ultimo momento di cambiare le modalità
dell’autoaffondamento; affinché questo avvenisse in silenzio, i tre bastimenti
sarebbero stati affondati senza esplosioni, semplicemente aprendo tutte le
comunicazioni con il mare e creandone altre con apposite rotture.
Così si fece; le navi
iniziarono ad affondare alle tre di notte del 12 febbraio 1941. Delle tre, la Marghera fu l’unica ad affondare
rapidamente; il Carso e l’Integritas ci misero di più, tanto che
dopo qualche ora, visto che erano ancora a galla, si decise di accelerarne la
fine con alcuni colpi di cannone, sparati dalla batteria dell’Isola dei
Serpenti. Compiuto quest’ultimo lavoro, il personale di quella batteria rese
inutilizzabili i cannoni e poi lasciò l’isola.
Tutti i materiali che
fu possibile asportare, compreso l’equipaggiamento della stazione radio
principale di Chisimaio, vennero caricati su due piccoli rimorchiatori e
quattro grosse motobarche, che rappresentavano tutti i natanti semoventi in
grado di raggiungere Mogadiscio; queste sei imbarcazioni, formando un unico
convoglio al comando del tenente colonnello Serra Manichedda, lasciarono
Chisimaio per la capitale somala nel pomeriggio dello stesso 12 febbraio. Nel
corso di quella giornata il personale di Marina Chisimaio provvide ad evacuare
le isole, affondare tutti i natanti non trasferibili, distruggere o rendere
inservibili le installazioni militari e tutte le armi ed i materiali non
asportabili e far defluire la nafta rimasta nei serbatoi affinché i britannici
non potessero usufruirne; le batterie furono distrutte, baraccamenti e depositi
munizioni furono incendiati e fatti saltare in aria (le esplosioni furono
avvertite anche dalla 1a Brigata Fanteria sudafricana, accampata
presso Eyadera a diversi chilometri di distanza: per la verità, tutto ciò
sembrerebbe vanificare la precedente decisione di affondare Marghera, Carso ed Integritas senza
esplosioni per non fare rumore). Terminata quest’opera di distruzione, il migliaio
di uomini che dipendevano da Marina Chisimaio – 600 italiani e 400 ascari –
salirono su degli autocarri diretti verso Giumbo, da dove poi raggiunsero le
truppe dell’Esercito per l’ultima difesa sul Basso Giuba.
Come il comandante
che per ultimo abbandona la sua nave, il capitano di corvetta Campacci
Baligioni fu l’ultimo a lasciare Chisimaio: erano le sette di sera del 12
febbraio.
I britannici
iniziarono ad aver contezza dell’evacuazione di Chisimaio la sera del 13
febbraio, quando gli aerei che sorvolavano la piazzaforte notarono l’assenza di
reazione da parte delle difese contraeree, ed il cacciatorpediniere Kandahar sparò tre salve contro la
locale fortezza senza che le batterie costiere italiane accennassero a
rispondere. Il comandante della East Africa Force, generale Alan Cunningham, fu
informato che le truppe italiane si stavano apparentemente ritirando, ed ordinò
al Comando della 12a Divisione Africana (generale Alfred Reade
Godwin-Austen) di mandare la 22nd
East African Brigade (generale di brigata Charles Christopher Fowkes),
acquartierata presso il villaggio di Afmadù, verso la città somala. Il mattino
del 14 febbraio l’incrociatore pesante Shropshire
bombardò Chisimaio e l’Isola dei Pescicani per quasi 40 minuti, senza evocare –
di nuovo – alcuna reazione; poche ore dopo, nel pomeriggio, le autoblinde della
3rd South African Armoured Car Company (tenente E. W. Bibby)
entrarono per prime nel capoluogo dell’Oltregiuba, seguite dal 1° e 5°
Battaglione dei King's African Rifles, accolte festosamente dalla popolazione somala.
Entro le cinque del pomeriggio, l’occupazione di Chisimaio poteva dirsi
completata; “gli indigeni che si erano
nascosti nella boscaglia tornarono indietro, i commercianti arabi riaprirono i
loro negozi e mercanti chiesero a gran voce scellini kenioti”. Prima di
sera, un reparto dei King's African Rifles requisì due piccole imbarcazioni e
procedette con queste all’occupazione dell’Isola dei Serpenti, le cui riserve
di carburante erano state completamente distrutte dagli italiani; il mattino
successivo un plotone raggiunse su un dhow (una piccola imbarcazione a vela
locale) anche l’Isola dei Pescicani, che fu a sua volta occupata. Malcolm Page,
nella sua storia dei King's African Rifles, commenta in tono asciutto: “Nel porto [i soldati] ispezionarono due navi; entrambe erano vuote
di qualsiasi cosa, eccetto ratti e scarafaggi. Chisimaio era una città
polverosa, sporca, ed ogni cosa che avesse un qualche valore era stata sabotata
o saccheggiata”.
Delle tre navi
autoaffondate nel porto, soltanto il Carso
risultò riparabile: i britannici riuscirono infatti a riportarlo a galla e
rimetterlo in servizio, impiegandolo in guerra con il nome di Empire Tana. La Marghera, così come l’Integritas,
non avrebbe mai più navigato; il relitto della vecchia pirocisterna rimase per
molti anni ad arrugginire nelle acque di Chisimaio, ben oltre la fine delle
ostilità.
Un avviso pubblicato
il 21 maggio 1952 – a più di undici anni dall’autoaffondamento ed a sette dalla
fine della guerra – sul "Corriere della Somalia", quotidiano italiano
di Mogadiscio, annunciava che l’Amministrazione Fiduciaria Italiana della
Somalia (A.F.I.S.) avrebbe a breve messo in vendita all’asta il relitto della Marghera, insieme a quelli della Pensilvania (affondata davanti a Mogadiscio)
e di un pontone in ferro: all’epoca dell’annuncio, pertanto, il relitto della Marghera giaceva ancora là dove la
pirocisterna era stata autoaffondata undici anni prima, in otto metri d’acqua,
a nord dell’Isola dei Pescicani. A quanto risulta, la vecchia petroliera
sarebbe stata demolita sul posto negli anni successivi.
Annuncio della vendita all’asta del relitto della Marghera sul “Corriere della Somalia” del 21 maggio 1952 |
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