Il Nazario Sauro (g.c. Pietro Berti via www.naviearmatori.net) |
Piroscafo passeggeri
di 8150 tsl, 4491 e 5500 tpl tsn, lungo 130,39-136,28 metri, largo 16-16,06 e
pescante 5,22-7,85-8,22, con velocità di 14-15,5 nodi. Appartenente alla
Società Anonima di Navigazione Lloyd Triestino, con sede a Trieste, ed iscritto
con matricola 1211 al Compartimento Marittimo di Trieste.
Originariamente la
nave poteva trasportare 80 passeggeri in prima classe (in cabine singole e
doppie), 48 in seconda classe (in cabine doppie e quadruple) e 1109 in terza
classe (in cameroni-dormitorio, in massima parte destinati agli emigranti),
oltre a 4669 tonnellate di merci nelle stive. I passeggeri di prima classe
avevano a loro disposizione salone da pranzo, sala fumo, sala scrittura, sala
musica e bar, oltre a passeggiate coperte e scoperte; quelli di seconda classe,
sala da pranzo e sala ritrovo. Molto più spartane le condizioni per la terza
classe. Dal 1934 i posti in terza classe furono ridotti a 576. L’equipaggio era
composto da 197 persone.
L’apparato motore, su
due eliche, avrebbe dovuto originariamente essere costituito da due macchine a
vapore a quadruplice espansione alimentate da 6 caldaie a carbone, ma queste
furono poi rimpiazzate da due gruppi di tre turbine ciascuno alimentati da
quattro caldaie a nafta, che sviluppavano una potenza di 7900 CV garantendo una
velocità di crociera di 13 nodi ed una massima di 15,2 (o 15,5).
Impiegato nei primi
anni della sua vita sulle rotte migratorie dall’Italia al Sud America, venne
successivamente trasferito, in seguito al cambio di armatore, sulla linea
Italia-Africa Orientale, dove rimase fino alla sua perdita, trasportando sia truppe
che coloni.
Breve e parziale cronologia.
3 luglio 1919
Impostato nei
cantieri Gio. Ansaldo & C. di Sestri Ponente, Genova (numero di costruzione
770).
Inizialmente
impostato come nave da carico, durante la costruzione viene trasformato in nave
passeggeri per conto della società Transatlantica Italiana.
Una lunga
serie di immagini del Nazario Sauro
in costruzione (dal sito della Fondazione Ansaldo):
L’ossatura dello scafo nel marzo del 1920 |
Le caldaie |
Una sezione
di ossatura viene sollevata da una gru
Lo scafo in costruzione nel marzo 1920 |
Una gru solleva un pezzo di murata |
Lo scafo nel maggio 1920 |
Ancora nel maggio 1920 |
Poco
prima del varo
14 maggio 1921
Varato nei cantieri
Gio. Ansaldo & C. di Sestri Ponente. Madrina è Anita Sauro, figlia
dell’irredentista istriano cui la nave è intitolata.
Un articolo di
giornale dell’epoca riferisce: «Il 14
maggio fu varato felicemente nei cantieri Gio. Ansaldo Co. di Sestri Ponente il
piroscafo Nazario Sauro della Transatlantica Italiana. La moglie [sic] di Nazario Sauro, madrina del piroscafo,
prima di lanciare la bottiglia di spumante, gettò un bacio al nome scolpito
sulla prua del piroscafo. Erano presenti i commendatori Pio Perrone,
Passalacqua e Frescura della Transatlantica Italiana, il comm. Solari, il cav.
Luigi Rinesi, direttore generale del Cantiere Ansaldo. Le operazioni di varo
furono dirette dall'ing. Achille Piazzai, direttore-capo del cantiere. Le
caratteristiche di questa nave che reca grande onore all'industria italiana
sono: Lunghezza fuori tutto, metri 135,65; lunghezza fra le perpendicolari,
metri 130,39; larghezza massima fuori ossatura, metri 16; immersione in pieno
carico, metri 7,85; stazza lorda circa, tonn. 6500; potenza dell'apparato
motore, C. A. 5400; velocità alle prove con 1/3 carico, nodi 15,5; velocità
alla immersione di m. 7,85, nodi 14; portata lorda (alla imm. di m. 7,85),
tonn. 5300. Potrà imbarcare 68 passeggieri di 1.a classe e 1114 emigranti;
l'equipaggio è composto di 197 persone. E' fornito di tutte le comodità
moderne, ventilazione, riscaldamento, impianto elettrico, abbondanti mezzi di
salvataggio. L'apparato motore, capace di sviluppare 5400 cav. asse e di
imprimere alla nave la velocità di 15,5 nodi è costituito da due gruppi di
turbine a doppi ingranaggi agenti sopra due eliche. Questa è la prima nave
costruita interamente in Italia, perchè anche le ancore, le catene e altri
utensili che prima si solevano acquistare all'estero, sono stati fabbricati
dalla stessa ditta Gio. Ansaldo e Co., o da altre ditte italiane. La
Transatlantica Italiana svolge così con crescente successo il suo programma
navale».
Il varo è completato, il Nazario Sauro è in acqua.
Due foto a maggior risoluzione (Coll. Aldo Cavallini, via www.naviearmatori.net)
Un’altra
serie di immagini, ritraente il varo del Nazario
Sauro (dal sito della Fondazione Ansaldo):
La nave
pronta al varo
Gli
invitati sono radunati sul palco, ci si prepara al lancio della bottiglia
La bottiglia colpisce lo scafo |
Il Nazario Sauro scende in mare.
Il varo è completato, il Nazario Sauro è in acqua.
Due foto a maggior risoluzione (Coll. Aldo Cavallini, via www.naviearmatori.net)
31 gennaio 1923
Completato per la
Transatlantica Italiana Società Anonima di Navigazione, con sede a Genova.
Stazza lorda originaria 8238 o 8340 tsl.
Il Nazario Sauro è la seconda unità di un
gruppo di sei piroscafi a due eliche – inizialmente impostati come navi merci,
ma poi modificati in costruzione per trasportare un buon numero di passeggeri –
ordinati nel 1919 ai cantieri Ansaldo dalla Transatlantica Italiana per la sua
linea celere postale quindicinale tra l’Italia ed il Rio de la Plata. Ha due
gemelli, Ammiraglio Bettolo e Cesare Battisti, mentre le altre tre
unità del gruppo – Leonardo Da Vinci,
Francesco Crispi e Giuseppe Mazzini – hanno caratteristiche
simili, ma dimensioni leggermente inferiori. Collettivamente queste sei navi
sono note anche come "tipo Sauro",
anche se di fatto non sono gemelle in senso proprio. A causa dei problemi
finanziari della Transatlantica Italiana (che per pagare le nuove navi ha
dovuto incrementare il capitale sociale a 100 milioni di lire), soltanto la
costruzione dei primi quattro piroscafi (Sauro,
Battisti, Bettolo e Da Vinci) potrà
essere portata a termine; Mazzini e Crispi, rimasti incompleti, verranno
acquistati da un’altra compagnia di navigazione (la CITRA) che li farà
completare per sé.
Sopra, un
cartellone pubblicitario del 1920 che reclamizza i nuovi piroscafi della classe "Sauro"
o "Battisti" della Transatlantica Italiana (g.c. Piergiorgio Farisato
via www.naviearmatori.net); sotto,
una cartolina ritraente il Nazario Sauro
con la livrea della compagnia (g.c. Mauro Millefiorini via www.naviearmatori.net)
Febbraio 1924
Al comando del
capitano Canepa, il Nazario Sauro
compie il suo viaggio inaugurale da Genova al Mar de la Plata (Argentina). A questo
punto, la Transatlantica Italiana si trova già in forte passivo, soprattutto a
causa della crisi del gruppo Ansaldo, dal quale è controllata (non a caso tutte
le navi della società sono fatte costruire proprio nei cantieri Ansaldo);
probabilmente è proprio da ricercarsi in questi problemi finanziari la ragione
del tempo insolitamente lungo – quasi tre anni – trascorso tra il varo ed il
viaggio inaugurale del Nazario Sauro.
(Secondo alcune fonti, il Sauro
sarebbe stato consegnato dal cantiere costruttore alla compagnia armatrice il
1° febbraio 1924, anziché il 31 gennaio 1923).
Nonostante il Sauro ed i gemelli vengano pubblicizzati
come “grandiosi e nuovissimi piroscafi”
con “Trattamento e Servizio di Lusso Tipo
Grand Hotel”, essi appartengono in realtà al passato: ricalcano nelle linee
e nelle sistemazioni interne i piroscafi passeggeri d’anteguerra, e risultano
scarsamente competitivi nei confronti dei ben più grandi, veloci, lussuosi e
capienti transatlantici della Navigazione Generale Italiana e del Lloyd
Sabaudo, principali concorrenti della Transatlantica Italiana sulle rotte per
le Americhe.
Una serie
di immagini degli interni del Nazario
Sauro:
L’atrio di prima classe (da www.naviearmatori.net, utente Commis) |
I bagni di terza classe |
Cabine di terza classe |
La sala da pranzo di seconda classe economica (g.c. Rosario Sessa via www.naviearmatori.net) |
La sala ristorante di prima classe (da www.naviearmatori.net, utente tetide) |
Il salone ristorante di seconda classe (da www.naviearmatori.net, utente tetide) |
Il salone ristorante della classe turistica negli anni Trenta (da www.naviearmatori.net, utente tetide) |
(Secondo un articolo
di Francesco Pittaluga, invece, la Transatlantica Italiana "nasce con lo scopo di trasportare emigranti ma poi
si lancia in un ambizioso programma di
nuove costruzioni rivolte ad un pubblico più selezionato.
Durante i primi due decenni del Novecento immetterà in
servizio a tale scopo tutta una
serie di navi gemelle o
pseudo-tali di stazza compresa fra le 8 e le 9.000 tonnellate
all’avanguardia fra le unità italiane dell’epoca: Giuseppe
Verdi, Dante Alighieri, Cesare Battisti, Nazario Sauro, Leonardo
Da Vinci, Ammiraglio Bettolo. Belle e slanciate,
caratterizzate da due fumaioli rossi con una grande stella
bianca al centro, saranno il preludio ad un piano ancor più
ambizioso che avrebbe previsto l’immissione in linea di due grandi transatlantici a quattro ciminiere, mai realizzati per il fallimento della stessa Transatlantica a causa forse
di questa visione troppo grandiosa").
Sempre nel 1924, la
compagnia di navigazione jugoslava Venzna viene interessata per il noleggio del
Nazario Sauro, da impiegare sulla
linea dalla Jugoslavia al Sud America, ma alla fine non si giunge ad un
accordo, e dunque il progetto rimane lettera morta.
Cartolina ufficiale della Transatlantica Italiana (g.c. Pietro Berti, via www.naviearmatori.net) |
1924-1927
Il Sauro viene impiegato sulla linea
Italia-America del Sud della Transatlantica Italiana (con partenza da Genova e
scalo, tra l’altro, a Napoli, Mar de la Plata, Buenos Aires e Santos),
trasportando soprattutto emigranti italiani diretti in Argentina, Brasile ed
altri Paesi del Sud America.
Tra i suoi
passeggeri, durante un viaggio nel 1926, è il disegnatore e illustratore
Achille Luciano Mauzan, diretto in Argentina per cercarvi opportunità di nuovo
sviluppo professionale.
Tra i primi
comandanti del Nazario Sauro vi è il
capitano di lungo corso Gerolamo Stagnaro.
Un’altra cartolina con i colori della Transatlantica Italiana (g.c. Giuseppe Boato via www.naviearmatori.net) |
Fine 1927
Posto in disarmo nel
porto di Genova, al pari del resto della flotta della Transatlantica Italiana,
a causa dei problemi finanziari della società, che ormai è al collasso. Rimarrà
così per sette anni.
Il Nazario Sauro nei primi anni Trenta (da www.histarmar.com) |
1934
Con la Transatlantica
Italiana ormai in fase di liquidazione, il Sauro,
al pari del Da Vinci, viene venduto
alla Tirrenia Flotte Riunite Florio-CITRA, avente sede a Napoli (secondo una
fonte, già da qualche tempo la Tirrenia aveva noleggiato i tre piroscafi). La
Tirrenia aveva già acquistato il Battisti
nel 1932, e attraverso la CITRA (fusasi con la società Florio nel 1932 a dar
vita alla Tirrenia) possedeva già Crispi
e Mazzini: in tal modo, cinque delle
sei navi del "tipo Sauro"
si ritrovano a navigare per la stessa compagnia (unica eccezione è l’Ammiraglio Bettolo, venduto nel 1932
dalla Transatlantica Italiana ad una compagnia egiziana).
La Tirrenia modifica
le sistemazioni interne del Nazario Sauro,
dimezzando i posti in terza classe (da 1109 a 576) e ribattezzandola “classe turistica”:
in luogo degli emigranti diretti in Sud America a cercare fortuna, vi
viaggeranno ora coloni che la fortuna la cercheranno in Africa Orientale.
Terminati i lavori di trasformazione, il Nazario
Sauro viene posto in servizio sulla linea Italia-Eritrea (Massaua)-Somalia
italiana, sulla quale navigherà fino alla fine della sua vita.
Il Nazario Sauro (sulla destra) ormeggiato a Genova (g.c. Pietro Berti via www.naviearmatori.net) |
22 febbraio 1935
In mattinata il Nazario Sauro, requisito per conto del
governo, salpa da Genova ("tra scene
imponenti sui moli", riportano alcuni giornali statunitensi dell’epoca)
con 1300 operai e meccanici a bordo – selezionati tra i disoccupati nell’Italia
settentrionale – e poi fa scalo a Napoli (il mattino del 24 febbraio), dove
imbarca altri 400 tecnici ed operai, che poi trasporta in Eritrea. Sono in
corso i preparativi per la guerra d’Etiopia: i tecnici ed operai trasportati in
Africa Orientale dal Nazario Sauro
dovranno costruire strade, caserme, alloggiamenti ed altre infrastrutture per
l’esercito italiano che si appresta a invadere l’Etiopia.
2 giugno 1935
Salpa da Napoli
trasportando 1050 tra ufficiali e soldati dell’Esercito e 43 camicie nere
dirette in Africa Orientale in preparazione dell’invasione dell’Etiopia.
Il Nazario Sauro nei primi anni Venti (Fondazione Ansaldo) |
4 agosto 1935
Il Nazario Sauro parte da Napoli con a
bordo 60 ufficiali e 1100 operai specializzati, che trasporta in Africa
Orientale.
L’8 agosto, a
mezzanotte, il piroscafo attraversa il Canale di Suez e si tiene, per chi
attraversa la prima volta il Canale, la scherzosa cerimonia del “battesimo
orientale”, festeggiato… a bevute.
26 agosto 1935
Salpa da Napoli
trasportando truppe dirette in Africa Orientale, tra cui l’Ufficio Posta
Militare n. 15, al servizio del II Corpo d’Armata.
4 settembre 1935
Arriva a Massaua e vi
sbarca le truppe.
17 settembre 1935
Parte da Genova con
truppe dirette in Eritrea.
Un’altra foto della nave davanti a Genova durante le prove in mare (Fondazione Ansaldo) |
1935-1936
Trasporta truppe e
rifornimenti in Africa Orientale durante la Guerra d’Etiopia.
1° gennaio 1937
Trasferito al Lloyd
Triestino Società Anonima di Navigazione, avente sede a Trieste, insieme ai
similari Crispi, Da Vinci e Mazzini (il Cesare Battisti è andato perduto nel
1936 per un’esplosione in sala macchine verificatasi nel porto di Massaua,
forse causata da sabotaggio). Continua a prestare servizio sulla linea
Italia-Africa Orientale Italiana (A.O.I.), ora assegnata al Lloyd Triestino in
luogo della Tirrenia.
Già nel 1936,
comunque, le condizioni a bordo del non più giovane Nazario Sauro erano tali da far scrivere in una lettera a casa
della passeggera Maria Pia Pezzoli, sbarcata a Massaua il 3 agosto 1936 (si era
recata in A.O.I. al seguito del marito, funzionario presso il Ministero
dell’Africa Italiana): «…Le poco
attraenti condizioni del piroscafo Nazario Sauro non facevano infatti se non
desiderare di mettere piede a terra, anche se quella terra era incarnata da
Massaua, da tutti definita come un inferno!».
La nave nel 1937 (da www.pietrocristini.com) |
24 aprile 1937
Durante una sosta del
Nazario Sauro nel porto di Massaua,
il comandante del piroscafo, capitano Vittorio Rossi (32 anni, da
Salsomaggiore), si rende conto che uno scaricatore indigeno è svenuto nella
stiva, e si precipita sul posto per soccorrerlo. Nel generoso tentativo, rimane
a sua volta investito da esalazioni venefiche; entrambi muoiono per asfissia.
Il comandante Rossi, sepolto nel cimitero di Massaua, verrà decorato alla
memoria.
31 marzo 1938
31 marzo 1938
Il Nazario Sauro parte da Napoli con a
bordo 600 uomini del II Battaglione "Giuseppe Giulietti" della
Polizia dell’Africa Italiana (PAI), diretti in Africa Orientale.
Molti degli agenti si
stupiscono, durante il viaggio, di poter mangiare in prima classe, consumando
ben tre pasti al giorno e mangiando un gelato alla fine di ogni pasto: per
molti di essi sono state pochissime le occasioni, in tutta la loro vita, in cui
abbiano potuto mangiare un gelato o consumare tre pasti in uno stesso giorno.
A fine anni Trenta (da www.naviearmatori.net, utente tetide) |
9 aprile 1938
Arriva a Massaua, dove
sbarca gli agenti della PAI.
Aprile 1939
Trasporta truppe a
Massaua, dove arriva il 29.
(g.c. Rosario Sessa via www.naviearmatori.net) |
Epilogo alle Dahlak
All’ingresso
dell’Italia nella seconda guerra mondiale, il 10 giugno 1940, il Nazario Sauro si trovava a Massaua: qui
rimase bloccato per i successivi dieci mesi, mentre la campagna dell’Africa
Orientale si compiva.
Erano più di trenta
le navi mercantili dell’Asse che lo scoppio della guerra aveva bloccato a
Massaua: oltre al Nazario Sauro,
c’erano il “quasi gemello” Giuseppe
Mazzini; altri due piroscafi passeggeri, l’Urania ed il Colombo; i
piroscafi da carico Piave, Vesuvio, Moncalieri, XXIII Marzo, Adua, Brenta, Romolo Gessi, Tripolitania; le motonavi Arabia, Capitano Bottego, RAMB I,
RAMB II, RAMB IV, India e Himalaya; le navi cisterna Prometeo, Antonia C., Riva Ligure e
Clelia Campanella; il piroscafetto Impero; i piroscafi tedeschi Coburg, Oder, Bertram Rickmers, Liebenfels, Wartenfels, Frauenfels, Lichtenfels, Gera, Oliva e Crefeld. (Delle quattro residue navi del
"tipo Sauro" – dopo la perdita
del Battisti e la vendita del Bettolo all’Egitto –, ben tre furono
sorprese dalla guerra in Africa Orientale Italiana: il Leonardo Da Vinci, infatti, si trovava a Chisimaio, in Somalia.
Soltanto il Crispi era in
Mediterraneo).
Per i mesi a venire, tutte
queste navi non poterono fare altro che dondolarsi pigramente all’ormeggio,
aspettando l’evolversi degli eventi a terra. La maggior parte dei marittimi
italiani e tedeschi vennero sbarcati e chiamati alle armi nella Marina,
nell’Esercito o nell’Aeronautica che combattevano in Africa Orientale,
lasciando soltanto equipaggi ridotti a bordo delle navi. Il Nazario Sauro fu posto in disarmo, e non
venne requisito dalla Regia Marina.
Circondate da terre
in mano nemica ed impossibilitate a ricevere aiuto dall’Italia, le forze
italiane in Africa Orientale, dopo le prime vittorie dell’estate 1940
(conquista della Somalia britannica, presa di alcune fortezze e città di
confine del Sudan e del Kenya), dovettero passare sulla difensiva ed attendere
la controffensiva britannica, che infatti prese il via nel gennaio 1941 con un
duplice attacco, da sud in Somalia e da nord in Eritrea.
Verso la fine di quel
mese, la battaglia di Agordat, nell’Eritrea settentrionale, si risolse
sfavorevolmente per le truppe italiane, che dopo giorni di aspri combattimenti
dovettero ripiegare verso Cheren. Fu a questo punto che si iniziò a tenere
seriamente in conto l’eventualità che Massaua potesse essere attaccata nel
prossimo futuro.
Già da tempo,
tuttavia, il contrammiraglio Mario Bonetti, comandante superiore navale in
A.O.I. (Marisupao, che proprio a Massaua aveva il suo quartier generale), stava
studiando le misure da adottare per rinforzare le difese di Massaua nel caso di
un’offensiva nemica, nonché la sorte che avrebbero dovuto seguire le navi ivi
presenti quando la base fosse caduta. I suoi proposito a riguardo, Bonetti li
espresse per la prima volta in una lettera a Supermarina del 14 gennaio 1941;
dopo aver fatto presente che le difese di Massaua erano adatte a contrastare
azioni aeronavali nemiche, ma non certo un attacco di terra in grande stile,
l’ammiraglio esponeva i provvedimenti intraprese per sopperire il più possibile
a tale carenza e poi le sue proposte relative al destino del naviglio
mercantile e militare. In merito alle navi mercantili, il comandante di
Marisupao prospettava l’autoaffondamento in massa, per impedire la cattura
delle navi ed al contempo ostruire il porto di Massaua in modo da renderlo
inutilizzabile ai britannici: «Tutte le
altre unità, i piroscafi, i bacini galleggianti, vengono affondati, dopo essere
stati opportunamente danneggiati, in modo da ostruire sicuramente il porto di
Massaua ed il seno di Dakilia». Il progetto iniziale venne poi pesantemente
modificato per quel che riguardava le navi militari, ma non cambiò per quelle
mercantili, per le quali d’altra parte non esisteva altra realizzabile
prospettiva all’infuori dell’autoaffondamento: il 24 gennaio, in una nuova
lettera a Supermarina, Bonetti ribadiva che «ritengo necessario predisporre per la distruzione o inutilizzazione dei
numerosi piroscafi nazionali e germanici rifugiati in Mar Rosso. Sono in corso
di preparazione cariche esplosive, da distribuire in caso di necessità. Prego
volermi comunicare se devo seguire altre direttive, specialmente per quanto
riguarda i piroscafi germanici». Il 1° febbraio un’altra lettera di
Marisupao a Supermarina concludeva in chiusura «Rimango in ogni modo in attesa di disposizioni sui seguenti punti
(…) c) Misure da prendere per la
distruzione dei piroscafi e l’inutilizzazione dei porti di Massaua e di
Dachilia» ed il 6 febbraio Supermarina confermava che «…Inutilizzazione et affondamento piroscafi deve pure essere assicurato».
Era stato invero
deciso dall’ammiraglio Bonetti – e poi confermato da Supermarina con teledispaccio
dell’8 febbraio – che le navi in condizione di affrontare una lunga traversata
oceanica, e con autonomia bastante a raggiungere un porto amico o neutrale,
cercassero di raggiungere l’Estremo Oriente o l’America Latina violando il
blocco britannico: ma tra i 34 mercantili immobilizzati da mesi a Massaua,
soltanto pochi eletti rispondevano a questa descrizione. Come Bonetti scrisse a
Supermarina il 31 gennaio, ribadendolo più estesamente in una lettera del 1°
febbraio, «Per quanto riguarda l’uscita
in Oceano Indiano dei piroscafi nazionali e germanici (…) Questi piroscafi sono da molti mesi fermi ed
hanno la carena in condizioni molto mediocri tanto da poter ritenere che la
loro velocità sia in media ridotta del 50 %. L’uscita da Perim è molto problematica
data la continua sorveglianza esercitata da unità navali e da stazioni di
vedetta e di ascoltazione sull’isola. Anche ammettendo che riuscissero a
superare il passo senza opposizione non passerebbero inavvertiti e
difficilmente sfuggirebbero alla sorveglianza aerea ed alla successiva caccia
delle unità inglesi. Si presenta inoltre molto difficile ricostruirne gli
equipaggi, essendo stata la maggior parte del personale, compreso quello
tedesco, richiamato nelle varie armi. Difficoltà anche maggiore presenta il
rifornimento di viveri e combustibili per completare l’autonomia necessaria per
raggiungere i porti neutrali, anche i più prossimi».
Uniche navi
mercantili ritenute in grado di affrontare la traversata con qualche
probabilità di successo erano le italiane RAMB
I, RAMB II (entrambe requisite
dalla Regia Marina e trasformate in incrociatori ausiliari; la RAMB IV invece era divenuta una nave
ospedale), Himalaya, India e Piave e le tedesche Coburg,
Oder, Wartenfels e Bertram Rickmers.
Tutte le altre, compreso il Nazario Sauro,
avrebbero terminato la propria esistenza nelle calde acque del Mar Rosso.
Due
immagini del Nazario Sauro poco dopo
il completamento, durante le prove in mare davanti a Genova (Fondazione Ansaldo)
Nella summenzionata
lettera a Supermarina del 14 gennaio, l’ammiraglio Bonetti notava che le difese
di Massaua sul fronte a terra risultavano più deboli di quelle sul fronte a
mare; e prevedeva che qualora il fronte a terra fosse ceduto per primo,
l’estrema difesa della Marina si sarebbe svolta nell’arcipelago delle Dahlak,
un dedalo di oltre 120 tra isole ed isolette che si estende nel mare antistante
Massaua. A questo scopo, «tempestivamente
saranno spostati negli ancoraggi interni di Dahlach Chebir piroscafi con
combustibili, acqua, viveri e tutti i materiali, armi e mezzi ritenuti
necessari per continuare la resistenza ed i natanti necessari per continuare i
rifornimenti alle altre isole». Il 1° febbraio 1941 Marisupao dava infatti
notizia a Supermarina che «È in corso il
rifornimento di acqua, viveri ecc. sui piroscafi che dovranno costituire una
base di rifornimento nell’ancoraggio interno di Dahlach Chebir». Il 27
febbraio, in una lettera inviata sia a Supermarina che al Comando Superiore
delle Forze Armate in Africa Orientale, Bonetti scriveva: «Nell’eventualità che la base navale di Massaua possa divenire
inutilizzabile per le unità, è stata disposta la costituzione di una base
sussidiaria alle isole Dahlach, trasportando colà munizioni, combustibili,
viveri, siluri ecc. (…) I piroscafi
dislocati al Gubbet, quando la posizione divenisse insostenibile, saranno
affondati sul posto. Eguale sorte seguiranno le unità ausiliarie,
rimorchiatori, cisterne ecc.».
Delle isole Dahlak,
la più grande era Dahlak Kebir (nota anche come Grande Dahlak, distante 24
miglia da Massaua; avente un’estensione di 760 kmq, è l’isola più vasta di
tutto il Mar Rosso, ed ha una popolazione che oggi assomma a 2500 persone,
rendendola anche la più popolosa isola dell’arcipelago), nella quale a fine
gennaio l’ammiraglio Bonetti, per sventare possibili sbarchi britannici che
avrebbero così rischiato di scardinare il sistema difensivo del Canale Sud di
Massaua, aveva fatto inviare una compagnia mitraglieri con un totale di 300
uomini (l’isola era inoltre munita di una batteria antinave con quattro cannoni
da 120/45 mm). Altre isole che ospitavano installazioni militari erano Harmil,
sede di una batteria da 120/45 mm (quattro pezzi) ma situata in posizione
alquanto isolata rispetto al resto dell’arcipelago; Difnein, dove sorgeva una
stazione di vedetta; Dur Gaam, dotata di due batterie con un totale di quattro
cannoni da 120/45 mm; Nocra, capoluogo dell’arcipelago e sede del più grande
campo di concentramento dell’A.O.I. (vi erano imprigionati soldati, prelati,
notabili e funzionari del dissolto impero etiope ed altri prigionieri politici
etiopi); Cavet, sede di un’altra stazione di vedetta (poi ritirata); Sheik-el-Abu,
ove si trovavano un’altra stazione di vedetta e due complessi antiaerei da
76/50 mm; Pagliai, anch’essa sede di stazione di vedetta (poi ritirata perché
ritenuta poco utile e troppo esposta a possibili attacchi britannici); Dehel,
armata con una batteria da 120/45 mm (quattro pezzi) ed una da 152/53 mm (tre
pezzi); Shumma, dotata di quattro pezzi da 120/45 mm; Sheik-Said (Isola Verde),
armata con quattro cannoni contraerei da 76/40 mm; Assarca Kebir, armata con
due pezzi antiaerei da 76/30 mm; Dilemmi, unita alla terraferma durante la
bassa marea e difesa da tre pezzi da 120/45 mm e nidi di mitragliatrici.
A Nocra, capoluogo
dell’arcipelago, sorgeva una stazione radio; le batterie situate nelle varie
isole erano comandate da ufficiali di Marina e collegate tra di loro con
radiosegnalatori.
Intanto, la
situazione in Africa Orientale andava rapidamente precipitando: al sud, nel
febbraio 1941 era caduta la Somalia italiana, mentre in marzo le forze del
Commonwealth avevano riconquistato la Somalia britannica, avanzando intanto
nell’Etiopia meridionale puntando su Addis Abeba (che fu poi presa il 6
aprile); dilagava intanto anche l’insurrezione dei guerriglieri etiopi
(“Arbegnoch”). Al nord, dopo la sconfitta di Agordat le forze italiane si
attestarono a difesa sulle montagne di Cheren: qui si combatté, dal 2 febbraio
al 27 marzo, la battaglia decisiva per le sorti dell’Eritrea, la più lunga e
sanguinosa battaglia dell’intera campagna africana, costata quasi 40.000 tra
morti e feriti da ambo le parti. Dopo essere state respinte dalle truppe
italiane ed eritree per quasi due mesi, alla fine di marzo le forze
anglo-indiane riuscirono infine a sfondare le linee italiane; quattro giorni
dopo fu presa Asmara. La strada per Massaua era aperta.
A Massaua,
l’ammiraglio Bonetti aveva dato attuazione ai suoi piani relativi al
trasferimento o distruzione del naviglio.
Tra la fine di febbraio
e la fine di marzo 1941 le poche navi che avevano scafi e macchine in buone
condizioni, velocità non troppo bassa ed autonomia sufficiente lasciarono
Massaua per tentare di raggiungere porti amici o benevolmente neutrali in
Francia (per i sommergibili) ed in Giappone (per le navi di superficie). Arrivarono
in Giappone la RAMB II e la nave
coloniale Eritrea, partite intorno al
20 febbraio; la motonave Himalaya,
salpata il 1° marzo, raggiunse il Brasile, da dove poi proseguì per la Francia;
i quattro sommergibili di base a Massaua (Perla, Guglielmotti, Archimede e Ferraris)
riuscirono tutti a trasferirsi a Bordeaux. Finì male, invece, la traversata
delle restanti unità che avevano tentato di forzare il blocco britannico: la RAMB I fu affondata in Oceano Indiano
dall’incrociatore neozelandese Leander,
dopo un breve combattimento, il 27 febbraio (una settimana dopo la sua
partenza); il Coburg, partito il 17
febbraio, si autoaffondò nell’Oceano Indiano il 4 marzo dopo essere stato
intercettato dall’incrociatore pesante HMAS Australia;
ancor meno strada fecero l’Oder ed il
Bertram Rickmers, entrambi
intercettati da navi britanniche e autoaffondati prima ancora di poter uscire
dal Mar Rosso (l’uno il 24 marzo, l’altro il 30). Il Wartenfels, partito il 26 febbraio, riuscì soltanto a raggiungere
Diego Suarez, nel Madagascar controllato dalla Francia di Vichy. India e Piave, partiti rispettivamente il 24 e il 30 marzo, furono
costretti a rifugiarsi ad Assab (Eritrea) a causa rispettivamente del maltempo
e di un’avaria di macchina; in seguito alla notizia dell’intercettazione di Oder e Bertram Rickmers, ricevettero l’ordine di restare ad Assab ed
autoaffondarvisi.
Questa fu dunque la
sorte dei bastimenti che tentarono di fuggire dall’Africa Orientale Italiana
prima che fosse troppo tardi. Per le altre navi, impossibilitate a lasciare
l’Eritrea, non rimase che impedire che cadessero intatte in mano nemica. I sei
cacciatorpediniere ancora efficienti – uno dei quali, per uno scherzo del caso,
si chiamava anch’esso Nazario Sauro –
partirono per una missione senza ritorno contro Porto Sudan, mentre per il
naviglio mercantile ed ausiliario venne attuato l’autoaffondamento in massa.
Come menzionato più
sopra, l’ammiraglio Bonetti aveva contemplato, nella probabilissima eventualità
che Massaua cadesse per effetto di un attacco da terra, la possibilità di
prolungare la resistenza per qualche tempo nelle Isole Dahlak, dove sarebbe
stata creata una sorta di base navale temporanea che avrebbe dovuto resistere
il più a lungo possibile dopo la caduta di Massaua. A questo scopo vennero trasferite
da Massaua alle Dahlak alcune navi mercantili nonché unità minori e ausiliarie,
cariche di rifornimenti che sarebbero dovuti servire a prolungare la resistenza
nelle isole: tra queste navi era anche il Nazario
Sauro, che si trasferì presso l’isola di Nocra (Nokra). Oltre ad esso,
andarono alle Dahlak il Giuseppe Mazzini,
l’Urania, la motonave Capitano Bottego, il piroscafo Tripolitania, la nave cisterna Prometeo, i rimorchiatori militari Ausonia (d’altura), Malamocco, Porto Venere e
Panaria (di uso locale); alcune fonti
indicano tra le unità trasferite alle Dahlak anche i rimorchiatori militari Formia e San Paolo. Tutte le navi si andarono ad ancorare nel Gubbet Mus
Nefit, il grande “mare interno” dell’isola di Dahlak Kebir: un vasto golfo/laguna
di forma circolare, quasi interamente racchiuso dalle propaggini stesse
dell’isola di Dahlak Kebir, con una profondità variabile tra i pochi metri ed un
massimo di 184 (più profondo del mare aperto che circonda le isole) e l’unico
sbocco sul mare aperto, verso nordest, parzialmente chiuso dall’isola di Nocra.
Quest’ultima, enormemente più piccola di Dahlak Kebir (con un’aerea di appena
6,5 kmq), appare una continuazione naturale delle due penisole di Dahlak Kebir
che la cingono a nord ed a sud, lasciando soltanto due canali tra tali penisole
e Nocra che consentivano alle navi di accedere a quella baia riparata, dove
potevano considerarsi al sicuro da attacchi navali e subacquei.
La storia ufficiale
dell’Ufficio Storico della Marina Militare, in appendice al volume "Le
operazioni in Africa Orientale", menziona che circa un terzo dei
mercantili sorpresi a Massaua dallo scoppio della guerra vennero dislocati nel
Gubbet Mus Nefit al fine di diradare almeno in parte gli ancoraggi (in modo da
minimizzare i danni in caso di attacco aereo: obiettivo che sembra essere stato
raggiunto, se si considera che gli aerei britannici, in una ventina di
incursioni condotte contro il porto di Massaua, riuscirono soltanto a
danneggiare i piroscafi Impero e Moncalieri). Non è chiaro se con ciò si
intenda che il trasferimento del Nazario
Sauro e delle altre navi al Gubbet sia avvenuto nel 1940, poco dopo la
dichiarazione di guerra, invece che nel marzo-aprile 1941, nell’imminenza della
caduta di Massaua.
L’epilogo di Massaua
italiana si consumò nei primi giorni dell’aprile 1941.
Il 5 aprile la 7a Brigata
Indiana si congiunse con la Briggs Force, proveniente da Port Sudan, fuori
Massaua. I britannici inviarono per due volte all’ammiraglio Bonetti
un’intimazione di resa, che venne respinta entrambe le volte; l’8 aprile un
primo attacco contro la piazzaforte da parte della 7a Brigata
Indiana venne respinto, ma un contemporaneo attacco della 10a Brigata
Indiana, supportato da carri armati del 4th Royal Tank
Regiment, riuscì a sfondare le difese italiane sul lato occidentale del
perimetro. Attacchi da parte di reparti della Francia Libera sopraffecero le
posizioni italiane sul lato sudoccidentale, mentre gli aerei britannici – che
avevano ormai il dominio incontrastato dei cieli – bombardavano le postazioni
d’artiglieria italiane.
Nel pomeriggio dell’8
aprile, Massaua si arrese. Tutti i mercantili rimasti nel porto si erano
autoaffondati: i primi il 2 aprile, gli ultimi l’8, proprio mentre le truppe
anglo-franco-indiane irrompevano in città.
Proprio il 2 aprile,
intanto, aerei della Royal Air Force avevano lanciato un’incursione contro le
navi italiane ormeggiate nel Gubbet Mus Nefit: il Giuseppe Mazzini, colpito in pieno, era affondato, e secondo
qualche fonte venne incendiata e affondata anche la cisterna Prometeo. Bombe davvero sprecate, quelle:
per parafrasare Francesco Ferruccio, gli aerei britannici affondarono – senza
saperlo, d’altra parte – navi già condannate, destinate a raggiungere coi
propri mezzi, di lì a pochi giorni, il fondo del mare.
L’autoaffondamento di
massa delle navi rifugiate alle Dahlak iniziò infatti due giorni più tardi: ad
aprire la serie fu l’Urania, che si
autoaffondò in acque relativamente basse, tanto da restare in gran parte
emergente. Il 6 aprile toccò proprio al Nazario
Sauro: l’equipaggio del piroscafo scelse acque più profonde per
l’autoaffondamento, e la vecchia nave passeggeri s’inabissò lentamente in quaranta
metri d’acqua, vicino ad una piccola insenatura sulla costa sudorientale del
Gubbet Mus Nefit (il volume USMM "Navi mercantili perdute" afferma
che il Sauro si autoaffondò presso
l’isola di Nocra, ma in realtà questa è piuttosto distante dal luogo
dell’autoaffondamento), lasciando affiorare soltanto la sommità degli alberi.
Volle la sorte che il
Mar Rosso divenisse in pochi giorni la tomba di ben due navi intitolate
all’irredentista istriano: appena tre giorni prima che il Nazario Sauro si autoaffondasse nel Gubbet, il cacciatorpediniere Nazario Sauro della Regia Marina era
stato affondato da bombardieri britannici mentre, insieme agli altri cacciatorpediniere
superstiti di Massaua, tentava un ultimo attacco contro la base britannica di
Port Sudan.
Lo stesso giorno del Nazario Sauro si autoaffondarono anche
il Tripolitania e la Capitano Bottego (quest’ultima era
ormeggiata a circa un miglio dal Nazario Sauro
quando si autoaffondò); l’8 aprile si autoaffondò la Prometeo – ammesso che non fosse già stata affondata dai
bombardieri britannici sei giorni prima –, mentre gli equipaggi dei
rimorchiatori attesero più a lungo: Ausonia,
Malamocco, Porto Venere e Panaria si
autoaffondarono tutti tra il 14 e il 15 aprile, poco prima che le truppe
britanniche sbarcassero a Nocra. Tra le navi autoaffondate al Gubbet, il Nazario Sauro era la più grande.
Come aveva previsto
l’ammiraglio Bonetti, Massaua cadde prima delle Dahlak, che rimasero così,
insieme alla piccola base navale di Assab (situata molto più a sud, avrebbe
resistito fino a giugno) l’ultimo baluardo italiano nel Mar Rosso. Ritenendo
che un prolungamento del controllo italiano delle Dahlak avrebbe impedito alle
navi britanniche di muoversi liberamente nei canali tra le isole e la costa
eritrea, nonché di dragare i campi minati presenti in quelle acque, Bonetti
aveva ordinato di attuare le disposizioni, già emanate, per il prolungamento
della resistenza nell’arcipelago. Il mattino dell’8 aprile, poche ore prima che
Massaua cadesse, aveva lasciato quel porto dietro suo ordine un convoglio di
rimorchiatori e bettoline cariche di rifornimenti, diretti a Nocra; comandava
il convoglio il vicecomandante del Comando Marina di Massaua, capitano di
corvetta Renato Pierantoni, designato comandante delle forze incaricate di
difendere le Dahlak.
L’organizzazione
difensiva dei vari passaggi, canali e sbarramenti era piuttosto efficace, ma
risentiva di un gravissimo punto debole, che vanificava completamente la
resistenza delle isole dopo la caduta di Massaua: nel Canale Nord tra
l’arcipelago e la costa, la difesa era resa possibile solo dal tiro incrociato
delle batterie delle isole Dehel e Dur Gaam e di quello delle batterie sulla
costa eritrea. Se queste ultime cadevano in mano nemica, com’era appunto
avvenuto con la presa di Massaua, i cannoni di Dehel e Dur Gaam da soli non
erano in grado di tenere il canale sotto il loro tiro per tutta la sua
ampiezza: il naviglio britannico impegnato nel traffico tra Massaua e Porto
Sudan attraverso il Canale Nord non doveva fare altro che tenersi lontano dalle
isole e vicino alla costa. Veniva così meno qualsivoglia potenziale offensivo
delle Dahlak contro i movimenti britannici. Le batterie italiane situate nelle
varie isole potevano soltanto starsene a guardare.
Fu appunto questo che
avvenne.
Nei giorni
immediatamente successivi la caduta di Massaua, i posti di vedetta delle isole
di Difnein e Sheik-el-Abu segnalarono attività di dragamine sottocosta lungo il
Canale Nord: i britannici stavano infatti dragando la rotta costiera nella
parte del canale che si trovava al di fuori della portata delle artiglierie di
Dehel e Dur Gaam, in modo da farvi passare le loro navi senza pericolo. Qualche
giorno dopo, le stazioni di vedetta avvistarono anche dei mercantili che, nella
medesima zona in cui si erano visti i dragamine, imbarcavano e sbarcavano
truppe e materiali. Il tenente di vascello Signorini, comandante del presidio
di Dehel, scrisse nel suo rapporto che i dragamine furono visibili da
quell’isola in alcune occasioni; lontanissimi (a più di 20 km), appena visibili
all’orizzonte verso ovest-sud-ovest, risultavano difficilmente telemetrabili ed
in ogni caso erano non solo fuori tiro, ma persino fuori portata visiva dei
cannoni da 102/45 di Dehel. Trascorso qualche giorno, il presidio di Dehel ebbe
modo di assistere allo svilupparsi di un traffico piuttosto nutrito di navi
britanniche da e per Massaua: convoglietti di 2-4 mercantili che navigavano
molto distanti gli uni dagli altri, scortati da un paio di piccole navi da
guerra, probabilmente dragamine di squadra o cannoniere, che il tenente di
vascello Signorini giudicò somiglianti agli sloops della classe Bridgewater.
Gli artiglieri di Dehel, di nuovo, potevano soltanto assistere impotenti al
passaggio delle navi nemiche: quelle che passavano più “vicine” non
transitavano mai a meno di 21-22 km dalla batteria «Eritrea», la più avanzata
tra quelle presenti nell’isola, ben al di fuori della portata dei suoi cannoni.
Signorini intuì che le navi britanniche seguivano una rotta costiera dragata al
di fuori della gittata dei cannoni delle isole, e che «difficilmente il nemico avrebbe intrapreso rischiose operazioni navali
per la cattura o la neutralizzazione delle batterie delle isole, la cui
presenza non disturbava il suo traffico, ma avrebbe piuttosto atteso di
prenderle per fame». Ad ogni modo, il giovane ufficiale si proponeva di
resistere sull’isola il più a lungo possibile, fino all’esaurimento delle sue
riserve di provviste e di quelle che fossero state mandate da Nocra.
I britannici erano
così consapevoli dell’inutilità di un attacco diretto contro le Dahlak che non
fecero neppure il minimo tentativo di invadere l’arcipelago: si limitarono a inviare
di tanto in tanto qualche aereo a compiere ricognizioni, lanciare bombe o
mitragliare le posizioni italiane, e ad aspettare che le isole cadessero per
fame, senza colpo ferire. Ora che i britannici controllavano la costa, era
soltanto questione di tempo: prima o poi cibo e acqua sarebbero finiti.
Di questo si rendeva
conto anche il capitano di corvetta Pierantoni, che non tardò a trarne le
logiche conclusioni. Il 14 aprile ordinò di sgomberare alcune delle isole
minori, trasferendone il personale a Nocra e nelle altre isole maggiori; due
giorni dopo, impartì a tutte le isole l’ordine di rendere inutilizzabili le
batterie e di cessare ogni atteggiamento offensivo. Il 19 aprile ordinò di
smobilitare il personale indigeno, che venne trasferito con dei sambuchi a
Nocra o direttamente sulla costa eritrea. Scrive in proposito la storia
ufficiale dell’USMM: «Gli ascari furono
nella quasi totalità fedeli e disciplinati fino all’ultimo momento; parecchi si
separarono dai nostri con manifesta costernazione ed esprimendo l’augurio di
rivedere presto la bandiera italiana in Eritrea. Ciascuno fu munito di
dichiarazione del servizio prestato e della data fino alla quale aveva ricevuto
la paga dall’amministrazione italiana».
Il 13 aprile,
Supermarina aveva inviato a Marina Assab un messaggio da ritrasmettere alle
Dahlak: «Allorché viveri cominceranno a
difettare distruggere impianti e munizioni e mettetevi in comunicazione con
Massaua per consegnarvi. In caso impossibilità trasmettere avvertite». A
causa della difficoltà di stabilire il collegamento tra Assab e le Dahlak,
tuttavia, il messaggio raggiunse il destinatario solo dopo che il comandante
Pierantoni aveva fatto sabotare le batterie.
Disimpegnate queste
“incombenze”, Pierantoni decise di tagliar corto e mandare lui stesso a Massaua
un ufficiale per negoziare coi britannici la resa delle Dahlak. I britannici
accettarono, e risposero inviando due dragamine: uno a Nocra, per imbarcare il
personale ivi concentrato e portarlo a Massaua (erano probabilmente tra questo personale
anche gli equipaggi delle navi autoaffondate nel Gubbet Mus Nefit), e l’altro
con la consegna di fare il giro delle isole e raccogliere i vari presidi
italiani sperduti qua e là, portando anch’essi a Massaua (a bordo del dragamine
venne imbarcata un’apposita commissione britannica). L’ufficiale britannico che
prese contatto con i vari comandanti italiani confermò che da parte britannica
non c’era nessuna intenzione di invadere le isole, che prima o poi sarebbero
cadute per fame; ed avvisò che i presidi che avessero rifiutato di consegnarsi
sarebbero stati abbandonati a sé stessi e che, una volta finiti i viveri,
avrebbero dovuto arrangiarsi a raggiungere Massaua con i propri mezzi. (Un’altra
fonte fa un racconto un po’ più colorito: girando per le isole, il dragamine
informò flemmaticamente i diversi presidi italiani, a mezzo megafono, che
potevano tranquillamente scegliere tra consegnarsi prigionieri o restare liberi
nelle isole: se non che nel secondo caso sarebbero stati ovviamente lasciati
senza cibo né acqua, in quelle aride isole dove l’acqua era sempre giunta
soltanto a mezzo di navi cisterna inviate da Massaua).
I britannici
gestirono la faccenda della resa delle Dahlak con tutta calma: i due dragamine
girarono le isole senza fretta, tanto che gli ultimi presidi vennero prelevati
soltanto nella seconda metà del maggio 1941, a un mese e mezzo dalla caduta di
Massaua.
Approfittò di questa
lentezza il nuovo comandante superiore della Marina in Africa Orientale,
capitano di vascello Guglielmo Bolla, comandante di Marina Assab. Caduta
Massaua e catturato l’ammiraglio Bonetti, il 14 aprile Supermarina aveva
investito Bolla, che comandava l’ultima base navale rimasta in A.O.I., del
comando di tutte le forze della Marina rimaste nella colonia in via di
disgregazione. Il giorno seguente, in risposta al messaggio di Supermarina da
ritrasmettere alle Dahlak del 13 aprile, Marina Assab aveva comunicato: «Non è possibile comunicare con isole
Dahlach. Sto organizzando due sambuchi con elementi fidati per inviare viveri e
restare loro disposizione». Il 16 Supermarina aveva risposto approvando
tale iniziativa, ed aggiungendo: «Esaminate
possibilità effettuare sgombero personale su Assab o su costa saudita previa
sanzione Vicerè e distruzione batterie. Qualora sgombero citato non sia
possibile comunicate personale opere Dahlach attenersi disposizioni impartite (…)
consegnandosi Massaua allorché viveri
difetteranno e previa distruzione impianti». Il 19 aprile, Assab era
finalmente riuscita a mettersi in contatto radio con le Dahlak, ed aveva
comunicato: «Mi risulta presenza
sottotenente di vascello Valbruzzi su isola Dur Gaam, capitano di corvetta
Pierantoni su isola Cubari e tenente di vascello battistella su Harmil, tutti
con nuclei personale. Impartite vostre disposizioni tentare ripiegare su Assab
o costa saudita o Massaua. Invio sambuchi con viveri per tentare prima
soluzione. Isole avvisate attendono».
Avuta notizia della
decisione di Pierantoni di negoziare la resa delle Dahlak, il comandante Bola
prese l’iniziativa di tentare di recuperare almeno una frazione del personale presente
nelle isole: organizzò due spedizioni di tre sambuchi ciascuna, armati da
personale di sicuro affidamento, che mandò nell’arcipelago con l’incarico di
cercare di raggiungere qualcuna delle isole prima dei britannici, di prelevare
quanti più uomini possibile e di portarli ad Assab. I primi tre sambuchi
riuscirono a portare a termine la loro missione, mentre del secondo gruppo
soltanto uno fece ritorno ad Assab; gli altri due furono sorpresi e catturati
dal dragamine britannico che girava per le isole per prelevare i presidi
italiani. In questo modo vennero sottratti alla cattura e portati ad Assab
quattro ufficiali ed una sessantina di altri uomini.
Il personale di
alcune altre isole – tra cui Shumma e Dilemmi – respinse l’invito dei dragamine
britannici a consegnarsi e raggiunse invece la terraferma con mezzi propri, ma
qui arrivato venne a sua volta fatto prigioniero.
L’equipaggio del Nazario Sauro, con ogni probabilità,
venne prelevato da Nocra nella seconda metà dell’aprile 1941, insieme al resto
del personale civile e militare italiano concentratosi in quell’isola, da uno
dei due dragamine britannici inviati da Massaua, e sbarcato in quel porto.
Iniziava per quei
marittimi una prigionia che sarebbe durata quattro o cinque anni: almeno sette
uomini dell’equipaggio del Nazario Sauro
non ne avrebbero fatto più ritorno.
Di essi, primo a
morire fu il cameriere Ercole Galli, di Napoli: morì in prigionia il 3 agosto
1941. Probabilmente il suo decesso avvenne in un campo d’internamento stabilito
sul territorio eritreo: fu questa, infatti, la prima tappa della lunga
prigionia dei marittimi dei mercantili autoaffondatisi in Eritrea e di numerosi
altri civili italiani – quegli stessi coloni che proprio il Nazario Sauro, come altre navi, aveva
trasportato in Africa Orientale nel corso degli anni Trenta – sospettati di
poter compiere atti di spionaggio o sabotaggio ai danni delle forze occupanti
britanniche, o di appoggiare la resistenza da parte delle bande di militari
italiani isolati che rifiutavano di arrendersi (come in alcuni casi
effettivamente avvenne). I marittimi italiani rimasero in questi campi
d’internamento per oltre un anno e mezzo, finché, il 15 novembre 1942, molti di
essi furono imbarcati a Massaua sul piroscafo britannico Nova Scotia, per essere trasferiti in
Sudafrica, ove erano situati campi di prigionia più grandi ed organizzati (tra
cui quello di Zonderwater, che già “ospitava” 60.000 italiani).
Il 16 novembre 1942
il Nova Scotia lasciò
Massaua diretto a Durban e Port Elizabeth (Sudafrica) con a bordo 769 o 780 tra
internati civili (che costituivano la grande maggioranza, marittimi compresi) e
prigionieri di guerra italiani, 130 guardie sudafricane, 114 uomini di
equipaggio civile, undici artiglieri della Royal Navy addetti alle armi di
bordo e quindici passeggeri (nove militari e sei civili).
Alle 7.07 del 28
novembre 1942 il Nova Scotia,
mentre navigava isolato a sudest di Lourenço Marques, fu colpito da tre siluri
lanciati dal sommergibile tedesco U
177 (tenente di vascello Robert Gysae) ed affondò in fiamme nel giro
di dieci minuti, lasciando il tempo di mettere a mare soltanto quattro zattere
sovraccariche, e nessuna lancia. Dopo l’affondamento l’U 177 si avvicinò per interrogare i naufraghi ma, sentite
delle voci in italiano, recuperò due uomini che si rivelarono essere due
marittimi italiani: Gysae lasciò allora la zona e chiese ordini al comando
(poche settimane prima un altro sommergibile venutosi a trovare in una situazione
simile – l’U 156, affondatore del
piroscafo Laconia carico di
prigionieri italiani –, era stato attaccato da aerei mentre soccorreva i
naufraghi, il che aveva spinto il comandante della flotta subacquea tedesca,
Karl Dönitz, a vietare ai suoi sommergibilisti ogni altro tentativo di soccorso
a superstiti di navi da loro affondate), ma gli fu ordinato, proprio per
evitare il ripetersi di un caso Laconia,
di proseguire nella missione. Il comando della flotta subacquea tedesca avvertì
le autorità portoghesi (Lourenço Marques, la terra più vicina, era una colonia
portoghese), che inviò l’avviso Alfonso
De Albuquerque da Lourenço Marques. La nave portoghese, giunta sul posto il
30 novembre, riuscì però a salvare solo 181 o 194 superstiti, tra cui 117 o 130
internati italiani: molti di quelli che non erano affondati con la nave erano
scomparsi in mare, annegati dopo aver esaurito le forze o mangiati dagli
squali. I naufraghi furono sbarcati in Mozambico, dove alcuni di essi si
stabilirono e rimasero, mentre altri riuscirono a tornare in Italia.
Il mare gettò sulle
spiagge di Zinkwazi (Natal, Sudafrica) le salme di oltre 120 vittime, che
furono sepolte in tre fosse comuni presso Hillary, vicino a Durban.
Tra i 650 internati e
prigionieri italiani che perirono nell’affondamento del Nova Scotia, oltre ottanta erano marittimi appartenenti agli
equipaggi delle navi autoaffondate a Massaua e alle Dahlak nell’aprile 1941.
Tra di essi erano almeno tre marittimi del Nazario
Sauro: Francesco Macrì, fuochista, da Pizzo Calabro; Francesco Meligrana, cameriere,
da Parghelia; Giuseppe Gargiulo, da Torre del Greco, fuochista, che era stato
richiamato e militarizzato. È possibile che in realtà le vittime tra
l’equipaggio del Nazario Sauro siano
state anche di più, considerato che per la maggior parte dei marittimi
internati scomparsi sul Nova Scotia,
negli elenchi delle vittime, non è indicata la nave su cui erano imbarcati
prima dell’internamento.
Altre morti si
verificarono anche dopo la tragedia del Nova
Scotia. Il fuochista Sebastiano Ilargo morì in prigionia il 3 febbraio
1943; il cameriere Vincenzo Rambone (33 anni, da Napoli), che dopo il giugno
1940, come buona parte dell’equipaggio del Sauro,
era stato richiamato nella Regia Marina come marinaio servizi vari ed assegnato
alla base navale di Massaua, morì in prigionia a Bovey Tracey (Devon,
Inghilterra) il 24 maggio 1944. È oggi sepolto nel cimitero militare di
Brookwood, nel Surrey, dove riposano trecento italiani di tutte le armi morti
in prigionia in terra britannica.
Il capitano di lungo
corso Mario Degoli morì quando la guerra era già finita da un anno, il 5
settembre 1946, prima di poter tornare in Italia.
La tomba di Vincenzo Rambone nel cimitero di Brookwood (da www.findagrave.com) |
Il Nazario Sauro rimase sul fondale del
Gubbet Mus Nefit. Dopo la presa di Massaua, i britannici si misero subito all’opera
per recuperare le navi ivi autoaffondate, al duplice scopo di liberare il porto
per rimetterlo in efficienza, e se possibile di riparare e riutilizzare
qualcuna di quelle navi. Allo scopo venne chiesto l’aiuto, dopo l’entrata in
guerra degli Stati Uniti (7 dicembre 1941), di un esperto di recuperi
statunitense, il capitano di vascello Edward Ellsberg: giunto a Massaua nell’aprile
1942, fu appunto questo ufficiale a dirigere il recupero della maggior parte
dei relitti che ingombravano il porto eritreo. Mentre a Massaua ferveva questa
attività di recupero, Ellsberg fu invitato dal tenente di vascello Fairbairn,
pilota britannico del porto di Massaua, ad esaminare anche i relitti delle navi
autoaffondatesi alle Dahlak; essendo molto preso dai recuperi a Massaua, per
risparmiare tempo Ellsberg decise di compiere il suo esame mediante
osservazione aerea, accettando un invito del maggiore Featherstonehaugh della
RAF, ufficiale di collegamento tra il suo comando e l’O.E.T.A.. A bordo di un velivolo
della RAF, Ellsberg e Featherstonehaugh compirono dunque un volo di
ricognizione su Dahlak Kebir, verificando il numero, la posizione, la
profondità e lo stato delle navi autoaffondate in quel porto: dall’aereo,
Ellsberg poté vedere attraverso le chiare acque del Gubbet i relitti di tutte e
sei le navi mercantili che giacevano sui fondali di quella baia. Due di esse, Urania e Tripolitania, erano del tutto o in parte emergenti, essendosi
autoaffondate in acque relativamente basse; le altre quattro – Sauro, Mazzini, Prometeo e Bottego – giacevano invece in acque più
profonde ed erano completamente sommerse, salvo che per la sommità degli alberi
(almeno per tre di esse, mentre non è chiaro se della quarta affiorasse
qualcosa). Il recupero delle navi autoaffondate alle Dahlak rivestiva per gli
Alleati minore priorità, dal momento che i loro relitti, a differenza di quelli
di Massaua, non rappresentavano un intralcio ad alcunché, nonché perché la
maggior profondità a cui la maggior parte di essi giacevano rendevano un recupero
impossibile, o quanto meno fortemente antieconomico, con i mezzi dell’epoca. Faceva
eccezione il Tripolitania: questa
nave, affondata senza uso di esplosivi (Ellsberg scrisse nelle sue memorie che
tutte le navi autoaffondate alle Dahlak erano state affondate semplicemente
aprendo le prese a mare, senza uso di esplosivi; ma ciò sembrerebbe essere
contraddetto quanto meno dallo stato del relitto dell’Urania, che presenta nello scafo squarci causati da esplosioni
interne) sulla verticale di un pendio sottomarino oltre il quale il fondale
scendeva bruscamente, affondando si era andata a posare sulla piattaforma
soprastante il pendio, in acque basse, anziché – come probabilmente sarebbe stata
intenzione dell’equipaggio – nelle acque ben più profonde “ai piedi” del
pendio, dove sarebbe risultata irrecuperabile come il Sauro e le altre navi. Giacendo su bassifondali, in assetto di
navigazione e senza squarci nello scafo, il Tripolitania
poté essere agevolmente essere tamponato, prosciugato e riportato a galla in
appena una settimana, tra fine ottobre ed inizio novembre 1942, per poi essere
successivamente riparato e rimesso in servizio (navigò ancora fino agli anni
Sessanta). Non vennero invece toccati l’Urania
– forse perché, rovesciandosi su un fianco, si era danneggiato eccessivamente,
al punto da rendere il recupero difficile ed antieconomico – né tanto meno Sauro, Mazzini, Bottego e Prometeo.
Nel 1948, quando
ormai la guerra era finita da anni, ci furono strascichi di natura giudiziaria,
tra armatori italiani ed autorità britanniche, relativi alla proprietà dei
relitti di Sauro, Mazzini, Urania e Prometeo; fu
contestato che i bastimenti autoaffondatisi alle Dahlak non potessero
considerarsi come navi catturate dai britannici insieme al porto di Massaua,
non trovandosi in quel porto ma nell’isola di Dahlak Kebir. Il giudice
britannico Frank Boyd Merriman respinse tale obiezione, affermando che anche le
navi che si erano autoaffondate in una baia chiusa all’interno di un’isola che
era stata occupata dalle forze britanniche (Dahlak Kebir) andassero equiparate
a quelle che si trovavano in un porto conquistato dalle truppe britanniche;
vennero pertanto formalmente emanati decreti di confisca nei confronti di Sauro, Mazzini, Urania e Prometeo.
Ignari delle finezze del
diritto di guerra, il Nazario Sauro e
le altre navi continuarono a riposare sui fondali della Grande Dahlak.
In tempi migliori (da www.sauro100.it) |
Alcune limitate
operazioni di recupero sui cinque relitti del Gubbet vennero compiute nel
dopoguerra dalla società di recuperi Rippon, e poi dalle ditte italiane Besio e
De Paoli negli anni Cinquanta e Sessanta. Questi lavori riguardarono soltanto
l’asportazione dalle navi dei metalli pregiati come bronzo e rame: vennero
dunque rimosse le eliche – anche sul Nazario
Sauro – e poche altre componenti, lasciando i relitti sostanzialmente
intatti.
Alcune fonti, tra cui
il volume USMM "Navi mercantili perdute", "The World’s Merchant
Fleets 1939" di Roger Jordan ed il Repertorio
di Marina Mercantile dell’AIDMEN, sostengono che il Nazario Sauro sarebbe stato recuperato dai britannici e demolito
nel 1948 o 1951 (il Repertorio di Marina
Mercantile afferma che sarebbe stato "recuperato dagli inglesi come preda bellica nel 1948 e demolito nel
1949"), affermazione ripetuta anche per altre navi autoaffondatesi alle
Dahlak (Prometeo, Giuseppe Mazzini, Capitano Bottego, Urania),
ma si tratta di notizie del tutto errate: tutte le navi giacciono ancor oggi
sui fondali del Gubbet Mus Nefit, là dove si autoaffondarono nel lontano 1941,
con l’unica eccezione del Tripolitania
che – essendo stato affondato in acque troppo basse – era stato recuperato già
nel 1942 dallo specialista statunitense in recuperi Edward Ellsberg. (Secondo
un articolo di Franco Capone pubblicato nel 2005 sulla rivista “Focus”, queste
notizie sarebbero frutto di un equivoco relativo all’entità dei recuperi: la
notizia del recupero delle parti di rame e bronzo dai relitti delle navi
affondate nel Gubbet sarebbe stato equivocato da qualche fonte come il recupero
delle navi stesse).
Il primo a visitare
il Nazario Sauro con intenti diversi
da quelli dei recuperati fu il celebre uomo di mare, documentarista e scrittore
Folco Quilici, che esplorò i fondali delle Dahlak nel 1952-1953 a bordo della
motonave Formica (nell’ambito della
"Spedizione Subacquea Nazionale nel Mar Rosso" ), insieme al
regista Bruno Vailati, al giornalista Gianni Roghi, al medico Alberto Grazioli
ed ai subacquei Masino Manunza (cineoperatore), Silverio Zecca, Giorgio Ravelli
(fotografo), Raimondo Bucher, Enza Bucher, Francesco Baschieri (biologo),
Priscilla Hastings (pittrice) e Luigi Stuart Tovini (biologo): ne sarebbero
usciti il documentario "Sesto continente" (primo documentario
subacqueo a colori realizzato in Italia) ed il libro "Avventura nel Sesto
Continente" (1954).
Il piroscafo che fu
della Transatlantica Italiana, della Tirrenia e poi del Lloyd Triestino giaceva
e giace ancor oggi in assetto di navigazione su un fondale piatto di una
quarantina di metri, all’interno del Gubbet Mus Nefit. All’epoca del
ritrovamento da parte della spedizione di Quilici, ed ancora negli anni
Settanta, le biancheggianti punte dei due alberi del Sauro affioravano ancora al di sopra della superficie, agevolandone
l’individuazione, mentre oggi non è più così: le sommità degli alberi,
costruite in legno e progressivamente indebolite dal tempo e dal mare, sono
marcite e crollate (alcuni affermano invece che vennero deliberatamente
distrutte per impedire la localizzazione del relitto) e nulla più del Nazario Sauro emerge sopra la superficie
del mare. La parte più alta dell’albero prodiero si trova oggi a tre metri
dalla superficie, quella dell’albero poppiero a cinque o sei metri di
profondità.
In occasione della
spedizione di Quilici venne anche realizzata una mappa dei relitti presenti nelle
acque del Gubbet, nella quale venivano usati come punto di riferimento proprio
gli alberi del Nazario Sauro che
spuntavano fuori dal mare.
Tredici anni dopo,
nel 1965, il relitto del Nazario Sauro
venne visitato da un’altra “celebrità” del mare, il navigatore ed oceanografo
francese Jacques Cousteau, che lo chiamò “il relitto dai capelli bianchi” a
causa della fitta colonia di gorgonie a frusta, di colore biancastro e di
aspetto filiforme, che cresce sul relitto. Cousteau scoprì il relitto
praticamente per caso: entrato nel Gubbet con la sua nave oceanografica Calypso, notò un albero che spuntava dal
mare (l’altro era già crollato) e decise di immergersi per vedere di cosa si
trattasse. Il figlio Philippe Cousteau, immersosi per primo insieme al capo
operatore Michel Déloire, descrisse il relitto del piroscafo in termini
entusiastici: "una nave enorme, la
più bella che abbia mai visto, avviluppata da gorgonie e nugoli di pesci, è
favolosa, una vera città fantasma". Cousteau e compagni non
conoscevano, però, il nome della nave affondata, né tanto meno la sua storia.
Il colpo di Stato in
Etiopia nel 1974 e la lunga guerra d’indipendenza eritrea (1961-1991), durante
la quale Nocra fu sede di una base militare etiope e poi sovietica (oggi
eritrea), portarono alla chiusura del Gubbet agli stranieri, ed il Nazario Sauro cadde nel dimenticatoio
per un altro trentennio, finché negli anni Novanta ebbe inizio una serie di
spedizioni da parte dei subacquei italiani Andrea Ghisotti e Riccardo Melotti
sui relitti delle Dahlak. I due si erano conosciuti negli anni Ottanta;
Melotti, nato ad Asmara e cresciuto in Eritrea, ricordava di aver visto da
bambino la Formica di Folco Quilici
durante le sue soste a Massaua (dove possedeva una villa sul mare), e da adulto
era già stato a Dahlak Kebir, dove aveva visto lui stesso il relitto semiemergente
dell’Urania e l’albero affiorante del
Nazario Sauro. Già da tempo avevano
pianificato di recarsi in quelle acque per immergervisi ed esplorare quei
relitti: conclusasi nel 1991 la lunga guerra d’indipendenza eritrea, i due si
apprestarono a dare attuazione a tali propositi, acquistando un gommone ed
attrezzandolo per lunghe permanenze in acque prive di punti di appoggio – come
appunto le Dahlak – nonché per le immersioni.
I primi tentativi di
localizzare il relitto del piroscafo, nel 1992 e nel 1994, furono bloccati dai
divieti opposti dalle autorità eritree; nel terzo, nel 1995 (ottenuti i
permessi), l’individuazione si rivelò problematica per via della mancanza di
informazioni sulla sua posizione esatta: la spedizione era in possesso di una
relazione redatta nel dopoguerra da due tecnici di una ditta di recuperi
italiani (in cui si indicavano le condizioni di ciascun relitto) e della mappa
dei relitti realizzata decenni prima (con le posizioni di Sauro, Mazzini, Urania, Bottego e Prometeo), ma
il crollo degli alberi del Nazario Sauro,
che costituivano il punto di riferimento di quest’ultima, l’avevano resa del
tutto inutile. Neanche un esperto pescatore del luogo poté essere d’aiuto; fu
necessario ricorrere all’ecoscandaglio e proprio con questo strumento, dopo due
giorni di ricerche infruttuose, Ghisotti e Melotti riuscirono finalmente a
ritrovare il Nazario Sauro e ad
immergervisi per la prima volta da decenni. Dopo aver esplorato il relitto da
cima a fondo per un altro paio di giorni, i due subacquei dovettero tornare a
Massaua e poi in Italia; tentarono poi di tornare a Dahlak Kebir nel 1996, ma
si scontrarono con la mutata legislazione eritrea, che vincolava ora il
rilascio dei permessi per l’immersione sui relitti ad una serie di
interminabili lungaggini burocratiche. I propositi di ritorno per quell’anno
andarono così in fumo e Ghisotti e Melotti dovettero attendere fino al 1997 per
tornare ad immergersi sul Nazario Sauro.
La terza spedizione (o piuttosto la seconda) fu condotta servendosi per
l’appoggio del caicco Nobile,
battente bandiera turca, attrezzato per le immersioni ed usato per charter con
base a Massaua, capitanato da Maurizio Pazzelli; Ghisotti e Melotti poterono
così esplorare e fotografare ulteriormente il “castello incantato” (così
chiamato da Ghisotti per la sua imponenza e spettacolarità), per quella che si
sarebbe rivelata l’ultima volta.
Il piroscafo si
presenta oggi privo delle sue due grandi eliche di bronzo, evidentemente rimosse
da recuperanti per vendere il prezioso metallo (secondo alcune fonti, a
recuperare le eliche fu una ditta di recuperi italiana, appositamente inviata
sul posto nel dopoguerra), mentre conserva ancora al suo interno i resti dei
lussuosi arredi di un tempo: tra le altre cose, posate e stoviglie ancora impilate
negli armadi delle cucine di prima e seconda classe (tra cui coppe, vassoi,
insalatiere, fruttiere, bicchieri, bottiglie, caraffe di cristallo e piatti con
stampigliato su un lato lo stemma del Lloyd Triestino e le lettere "L
T", e sull’altro il marchio di fabbrica "Richard Ginori 1937" e
"1938"), mucchi di pentole di rame ancora impilate, vasi da notte in
porcellana decorati ed una grande macchina da caffè Victoria Arduino degli anni
Trenta, “a sviluppo verticale”, a vapore e sormontata da una grande aquila,
situata nelle cucine di seconda classe. Nell’ampio salone da pranzo di prima
classe, oggi invaso da uno strato di limo (presente del resto in ogni locale
della nave), filtrano attraverso i finestroni “lame” di luce che illuminano i
decadenti interni, con lampade in stile liberty, posacenere da pavimento e
sostegni in ferro dei tavolini (tavoli e sedie, essendo in legno, sono ormai
scomparsi). Nell’attigua sala musica fa mostra di sé un grande pianoforte a
coda, con ancora i pedali e il portaspartiti al loro posto, le corde ormai
arrugginite e la tastiera caduta nel fango. Dentro la nave, scrisse Ghisotti, «è rimasto tutto come nel giorno
dell'affondamento: sapendo di finire in un campo di prigionia, l'equipaggio non
toccò niente». Nelle cabine di
prima classe, campeggiano ancora gli scheletri dei letti a testata, resti di
armadi, catini e grandi ventilatori; nei bagni di prima classe – all’ingresso
di uno dei quali campeggia ancora leggibile la scritta "SIGNORE" – sopravvivono grandi
lavandini (ancora muniti di dispensatori di sapone in ceramica) e specchi,
docce, lussuose vasche da bagno e rubinetti in stile Impero, mentre in quelli
di terza classe sono ancora visibili le file di ben più piccoli e spartani
lavandini riservati ai passeggeri più poveri. Nell’infermeria di bordo,
accessibile tramite una scala a chiocciola, sono ancora visibili le
strumentazioni mediche, mentre nelle cucine di seconda classe alcune pentole
sono ancora appese ai ganci sulle pareti.
Ancora al suo posto è
il timone, la cui parte inferiore è fortemente corrosa. Le stive sono vuote e
scoperchiate, ed al loro interno nuotano vasti banchi di pesci di vetro; i
bighi e picchi di carico, gli argani, i verricelli ed i cavi sono ancora in
ordine, come li lasciò l’equipaggio al momento di abbandonare la nave (i bighi
di carico sono ordinatamente riposti nei loro alloggiamenti), ma appaiono
ricoperti da formazioni incrostazioni madreporiche. L’ancora di sinistra è calata
sul fondale, come probabilmente era al momento dell’autoaffondamento, mentre
quella di dritta è completamente salpata; le catene di entrambe sono ricoperte
di gorgonie a frusta e bivalvi di grandi dimensioni. Il cassero si trova oggi a
25 metri di profondità; non c’è più traccia della plancia, costruita in legno –
per evitare interferenze magnetiche con la bussola – ed ormai da lungo tempo
marcita e distrutta (ma nel 1995 erano ancora visibili il timone, due tubi
portavoce per comunicare con la sala macchine e la bussola, con la rosa dei
venti ancora leggibile: quest’ultima è stata però successivamente asportata da
ignoti), ed anche la parte superiore delle sovrastrutture, con la sala nautica
e gli alloggi superiori, è crollata su sé stessa ed appare ormai
irriconoscibile. Il fumaiolo prodiero è ancora in piedi, sebbene ridotto ad uno
scheletro; quello poppiero è abbattuto sul ponte, ma appare più integro. I
parapetti delle passeggiate sono ricoperti di coralli, gorgonie e
incrostazioni; spiccano, accanto ai fumaioli, diverse grosse maniche a vento. A
prua ed a poppa i due alberi si elevano ancora per decine di metri, ricoperti
di concrezioni ed organismi marini ma ormai privi della sommità che, come
detto, non emerge più al disopra della superficie. Attorno al relitto nuotano
nutriti banchi di pesci, mentre le strutture esterne della nave sono ricoperte
di molluschi, attinie, spugne, gorgonie e madrepore molli, che conferiscono al Nazario Sauro l’aspetto di un “giardino
fiorito”. Grazie alla sua posizione riparata nel Gubbet Mus Nefit, il relitto è
molto ben conservato, e probabilmente lo resterà ancora a lungo.
La posizione del
relitto è, secondo quando riferito da Andrea Ghisotti, 15°39'52" N e
39°59'19" E, mentre un sito egiziano indica una posizione leggermente
differente, 15°39'46" N e 40°00'29" E (più ad est di quella indicata
da Ghisotti).
Nel 1998 il relitto
del Nazario Sauro è stato
ulteriormente esplorato e filmato da una troupe italiana (Gianni Padlina,
Caterina Ruggeri, Dania Avallone, Guido Viganò) che ha realizzato un
documentario sui relitti delle Dahlak commissionato dal Governo eritreo in
vista dell’EXPO del 1998; pochi anni dopo, tuttavia, lo stesso Governo eritreo ha
vietato le immersioni sul relitto del Sauro,
e dal 2006 ulteriori restrizioni hanno reso molto difficile accedere al Gubbet
Mus Nefit.
Oggi il silenzio è
tornato a regnare sui relitti del Nazario
Sauro e delle altre navi che si “suicidarono” nelle acque delle Dahlak nel
lontano aprile del 1941.
Da un articolo di una
rivista del 1924:
"Parte oggi dal porto di Genova il nuovo,
celere, lussuoso postale onde si arricchisce la flotta, già cospicua, della
infaticabile Transatlantica Italiana. è il viaggio inaugurale, e si inizia tra
augurii fervidi di chi lo vede allontanarsi e di chi lo attende sulla sponda
opposta della remota America latina, con ansia e con orgoglio, prova novella
della forza d’un paese operoso e sicuro di sé. Un’altra volta, come già per il Cesare
Battisti, seguendo il filo logico di una idea finemente patriottica, la Società
ha consacrato questo suo nuovo piroscafo al nome di uno dei più grandi martiri
dell’ultima epopea. Nazario Sauro, semplice, incolto, lavoratore, è l’eroe
popolare più adatto ad essere avvicinato all’anima del nostro popolo. Marinaio
e combattente, egli ha ormai nella storia il nome più degno per ricondurre alla
patria la memoria degli emigrati lontani. E ben si addice a questa maestosa
mole d’acciaio un tanto nome, come quello che meglio può portare all’estero le
più nobili manifestazioni delle virtù nostre: idealità fervente, e lavoro:
audacia di propositi, e costanza: indomita fede nell’avvenire. L’eroe istriano
tutte impersonava in sé queste virtù della stirpe. La sua vita intera (…), la tempra di bronzo, la fermezza nella
lotta, lo stoicismo nella morte, come meglio potevano essere ricordati se non
nelle due brevi parole di un nome, che ha valore di simbolo luminoso, sulla
prora di una grande nave italiana? Oggi il Nazario Sauro, dal nome augurale e
fatidico, porta sui mari la voce e la bandiera dell’Italia rinnovata. Negli
ultimi mesi della sua permanenza nel porto il nuovo piroscafo, mentre si
accingeva a dar la prova, brillantemente raggiunta, delle sue eminenti qualità
nautiche, il Nazario Sauro fu oggetto della vigile attenzione e della curiosità
di quanti si interessano alle cose del mare. E venne anche onorato di nobili
visite, delle quali van ricordate quella di Sua Altezza Reale il Principe
Umberto di Savoia il quale si compiacque di esprimere la sua ammirazione ai
dirigenti della Compagnia, e quella più recente di Sua Eccellenza il general
Badoglio, di passaggio a Genova per raggiungere la sua nuova destinazione di
Ambasciatore del Re d’Italia a Rio Janeiro. Si deve notare a maggior gloria
della nostra italianità che questa è tra le prime navi interamente costruite in
Italia. Infatti ancore e catene, molinelli e verricelli, imbarcazioni e gru
speciali, impianti per la ventilazione artificiale, tutte insomma le cose che
prima della guerra erano necessariamente fornite dall’estero, furono per questo
piroscafo fabbricate in Italia, come anche per il suo gemello, Cesare Battisti,
che lo precedette di qualche mese nell’affrontare i rischi del mare. Ecco
dunque, in tempo brevissimo, due grandi successi dell’iniziativa ardita di
questa giovane e forte Società, che, frattanto, ne sta affrettando un terzo,
con gli stessi propositi. Infatti prenderà il mare fra poco l’Ammiraglio
Bettolo (…). Il Nazario Sauro stazza
8340 tonnellate; ha due macchine e due eliche. Risponde alle più moderne
esigenze della comodità e del lusso. Il piroscafo è iscritto alla classe A – I
Stella del Registro Navale Italiano e B. S. Stella della British Corporation. È
inoltre costruito in conformità a quanto è prescritto dalla Convenzione
Internazionale di Londra, ed ha le dotazioni prescritte dai Regolamenti della
Marina Mercantile Italiana e dalle leggi in vigore negli Stati Uniti del Nord
America. Sul ponte di comando, oltre la stazione di governo e la sala nautica,
si trovano l’alloggio del comandante e del R. Commissario. Sul ponte «A» (ponte
delle imbarcazioni), esteso per circa metri 58 al mezzo, si trovano, oltre le
imbarcazioni servite da gru e verricelli elettrici di nuovo tipo, un gruppo di
alloggi per gli ufficiali di coperta, la radiotelegrafia e la cucina di prima
classe. Sul ponte «B» (ponte tenda), continuo da poppa a prora, si trovano, in
un interponte della altezza di m. 5: 1. la sala di conversazione, 2. la
galleria, 3. lo scalone di accesso agli alloggi, 4. la sala da pranzo di prima
classe con 64 posti, 5. tre appartamenti di lusso. Sono inoltre collocati su
questo ponte gli alloggi per gli ufficiali macchinisti, la dinamo di emergenza,
i verricelli di carico ed il molinello. Sul ponte «C» (ponte di coperta) è
sistemato quasi tutto l’equipaggio in alloggi conformi ai regolamenti in
vigore, la mensa fuochisti, l’impastatrice ed il forno, le cucine separate per
l’equipaggio e per gli emigranti, l’ambulatorio, l’ingresso agli ospedali
sottostanti e i depositi per i vari servizi di coperta. Sul ponte «D» (ponte
principale) sono sistemati da poppa a prora: il locale per la macchina del
timone, alloggi per cuochi, camerieri e garzoni, ospedali per malattie
infettive, dormitori per emigranti, alloggi fuochisti, N. 14 camerini di prima
classe, ospedali comuni, alloggi per marinai e mozzi e depositi. Sul ponte «E»
(terzo ponte) sono sistemati da poppa a prora: il locale posta, la prigione,
l’alloggio per garzoni e piccoli, la cambusa, dormitorio per emigranti e
depositi. Sul ponte «F» (quarto ponte) è sistemato il gruppo delle celle frigorifere
ed alcuni corridoi per il carico. Il ponte è interrotto in corrispondenza
dell’apparato motore. Lo scafo è costruito di acciaio Martin Siemens; tutti i
ponti, compresi quelli delle soprastrutture A e B di acciaio; il dritto di
poppa e la randa di prora sono di acciaio fuso; il dritto di prora è di acciaio
fucinato. Le paratie stagne principali sono in numero di undici. Il piroscafo è
munito di due alberi di acciaio fuso all’incappellaggio superiore con spigone
di pitch-pine; forniti di tutti i guarnimenti occorrenti ed armati; l’albero
prodiero di sei picchi di carico, per il servizio dei quattro boccaporti
prodieri, e l’albero poppiero di tre picchi di carico per il servizio dei tre
boccaporti poppieri. I verricelli (…) a
doppia velocità, possono sollevare 5 tonnellate. La macchina per il timone è di
tipo verticale e funziona alla pressione di 7 atmosfere; la manovra è fatta
mediante telemotori dalla stazione di governo e dalla passerella di ormeggio a
poppa. È pure provveduta una manovra a mano completamente separata. Il
piroscafo è munito di altre imbarcazioni di salvataggio ampiamente sufficienti
per tutte le persone a bordo le quali sono in numero di 1395 così suddivise: N.
80 passeggeri di prima classe, N. 1118 emigranti, N. 197 ufficiali ed equipaggio.
Una parte delle imbarcazioni è del tipo comune, aperto, ed una parte del tipo
speciale a bordi pieghevoli. Il piroscafo è pure munito di una imbarcazione a
motore con impianto radiotelegrafico. Le gru per le imbarcazioni sono del tipo
speciale Ansaldo e tali da permettere tutta quella sicurezza e rapidità di
manovra che si può ottenere con qualsiasi altro tipo moderno di gru delle quali
sono muniti tutti i grandi Transatlantici. L’impianto per la ventilazione ed il
riscaldamento comprende n. 14 apparecchi termogeni speciali e una macchina
ventilante per la cambusa. Gli apparecchi sono tali da permettere un abbondante
rinnovamento d’aria specialmente per gli ospedali, i dormitori degli emigranti
e gli alloggi dei fuochisti. L’impianto frigorifero è del tipo ad anidride
carbonica con circolazione di liquido incongelabile (…). Il compressore è orizzontale ed attivato da
macchina a vapore con cilindri ad alta e bassa pressione. Le celle frigorifere
hanno la capacità complessiva di circa 150 mc. I rivestimenti isolanti sono di
sughero compresso rivestiti (…), di
adeguata grossezza in modo da assicurare le temperature necessarie nei vari
locali. La sorgente elettrica è data da quattro gruppi elettrogeni a vapore,
della potenza ciascuno di 34 Kw, del tipo a turbodinamo con accoppiamento
diretto, funzionante a 9 atmosfere. Oltreché alla illuminazione elettrica
interna ed esterna è provveduto mediante speciale circuito forza ad alimentare
i motori per i diversi servizi, come: i verricelli per servizio del carbone e
delle imbarcazioni, i ventilatori degli apparecchi termogeni, gli elevatori per
le vivande. La capacità delle stive per carico è di m. c. 5854. Il volume netto
del doppio fondo, m. 1150, e quello dei gavoni m. 115. Sono ampiamente
assicurate le migliori condizioni di stabilità e le migliori qualità nautiche e
di assetto sia a nave scarica sia in tutte le possibili condizioni di carico
inerenti al servizio. L’apparato motore, capace di sviluppare 3900 cav. asse e
di imprimere alla nave la velocità di nodi 15,5, è costituito da due gruppi di
turbine a doppi ingranaggi agenti sopra due eliche, a 120 giri. Il vapore è
prodotto da sei caldaie principali tipo cilindrico monofronti a tre forni. Una
settima caldaia, eguale alle precedenti, è destinata a produrre vapore per i
servizi ausiliari".
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