Il Maggiore Baracca a La Spezia nel luglio 1940, poco dopo l’entrata in servizio (Coll. Giorgio Parodi, via www.naviearmatori.net) |
Sommergibile oceanico
della classe Marconi (1191 tonnellate di dislocamento in superficie, 1489 in
immersione).
Durante il conflitto
svolse 6 missioni di guerra, tutte in Atlantico, percorrendo 23.296 miglia in
superficie e 1566 in immersione, trascorrendo 158 giorni in mare ed affondando
due navi mercantili per complessive 8553 tsl.
Breve e parziale cronologia.
1° marzo 1939
Impostazione nei
cantieri Odero Terni Orlando del Muggiano (La Spezia).
21 aprile 1940
Varo nei cantieri
Odero Terni Orlando del Muggiano. Madrina è la moglie del generale
dell’Aeronautica Silvio Scaroni, già asso dell’aviazione italiana nella prima
guerra mondiale (decorato di Medaglia d’Oro al Valor Militare, era stato per
numero di vittorie – 26 – il secondo asso italiano in quel conflitto, preceduto
soltanto da Francesco Baracca); presenzia al varo anche la contessa Paolina de
Biancoli, madre di Francesco Baracca.
Sopra, il
Baracca pronto al varo (da “Sommergibili
italiani tra le due guerre mondiali” di Alessandro Turrini, MariStat/UDAP, 1990,
via g.c. Sergio Mariotti e www.betasom.it),
e sotto, il varo (da www.marinai.it)
10 giugno 1940
L’Italia entra nella
seconda guerra mondiale. Viene nominato comandante in seconda del Baracca, che si trova ancora in
allestimento a La Spezia, il tenente di vascello Giuliano Prini.
10 luglio 1940
Entrata in servizio.
Appena ultimato, al
termine di un breve periodo di preparazione e di intenso addestramento (svolto
a La Spezia), si decide di inviarlo in Atlantico, alle dipendenze della
neocostituita base italiana di Betasom, avente sede nella città francese di
Bordeaux.
Il Baracca in allestimento a Monfalcone (da “Sommergibili italiani” di Alessandro Turrini ed Ottorino Ottone Miozzi, USMM, Roma 1999, via www.betasom.it) |
25 agosto 1940
Assume il comando del
Baracca il capitano di corvetta
Enrico Bertarelli, che lo terrà per un anno.
31 agosto 1940
Al comando del
capitano di corvetta Enrico Bertarelli, il Baracca
parte da La Spezia diretto in Atlantico. Fa parte di un “gruppo” di nove
sommergibili (gli altri sono Comandante
Faà di Bruno, Reginaldo Giuliani,
Emo, Capitano Tarantini, Luigi
Torelli, Guglielmo Marconi, Giuseppe Finzi e Alpino Bagnolini) che dovranno attraversare lo stretto di
Gibilterra per raggiungere Bordeaux, approfittando del novilunio previsto per
il 2 settembre. Sulla scorta delle esperienze fatte dal precedente gruppo di
sommergibili che hanno attraversato lo Stretto, il Baracca e gli altri sommergibili del suo gruppo ricevono ordine di
non eseguire osservazione periscopica durante l’attraversamento in immersione
dello stretto (in precedenza, infatti, gli ordini erano di attraversare lo
stretto a quota media portandosi di tanto in tanto a quota periscopica per
controllare la posizione), ma invece di controllare la navigazione usando lo
scandaglio ultrasonoro; ciò sia per evitare che i sommergibili, portandosi a quota
periscopica, vengano avvistati dalle navi e dagli aerei britannici che
pattugliano lo stretto, sia per evitare le improvvise “cadute” di profondità
subite da diversi sommergibili nell’attraversamento dello stretto, cadute che
si sono rivelate essere causate da perturbazioni ai timoni durante il passaggio
da una quota ad un’altra.
La dislocazione dei
sommergibili del “gruppo” del Baracca
è stata decisa in base ad uno studio della Kriegsmarine relativo alle rotte
seguite dal naviglio mercantile britannico in Atlantico dopo l’ingresso in
guerra dell’Italia (che sono molto cambiate dopo il giugno 1940, avendo i
convogli britannici abbandonato il Mediterraneo per seguire una nuova rotta che
circumnaviga tutta l’Africa), inviato a Roma nella terza decade di agosto. Il Baracca, insieme a Faà di Bruno, Tarantini, Giuliani, Torelli ed Emo, viene
inviato ad ovest della penisola iberica per insidiare il traffico tra Freetown
(Sierra Leone) e l’Inghilterra, che secondo le informazioni disponibili segue
una rotta che ricalca approssimativamente il meridiano 20° O, imboccata anche
da navi e convogli provenienti da Gibilterra e da Lisbona. I sei sommergibili
vengono dislocati in settori contigui tra Gibilterra, Madera e le Azzorre, e
viene loro tassativamente proibito di attaccare il traffico isolato al di fuori
delle zone loro assegnate, dalle quali potranno uscire soltanto in caso di
segnalazione di convogli in movimento nei pressi. Prima di passare in
Atlantico, il Baracca e gli altri
cinque sommergibili del suo gruppo dovranno trattenersi in agguato per qualche
giorno nel Mediterraneo occidentale, formando uno sbarramento per contrastare i
movimenti della Royal Navy in atto in quei giorni in quelle acque.
7 settembre 1940
Attraversa lo stretto
di Gibilterra in immersione, come da ordini ricevuti, durante la notte, senza
rilevare attività antisom britannica. Poi fa rotta verso ovest, verso la sua
zona d’agguato, al largo di Madera.
12-30 settembre 1940
In agguato a
nordovest di Madera, non incontra navi nemiche. Il 30 settembre inizia la
navigazione verso nord, per raggiungere Bordeaux.
1° ottobre 1940
Nel pomeriggio, durante
la navigazione verso Bordeaux, il Baracca
avvista il piroscafo greco Aghios
Nikolaos (capitano Georgios Skinitis), di 3687 tsl, in posizione 40°00’ N e
16°55’ O (o 40°09’ N e 17°02’ O; al largo della costa iberica). La Grecia è
ancora neutrale (l’Italia dichiarerà guerra a questo Paese quattro settimane
più tardi) e la nave porta vistosi contrassegni di neutralità, grandi bandiere
elleniche dipinte sulle murate (una fonte afferma che l’Aghios Nikolaos sarebbe stato fermato perchè “senza bandiera”, ma
questo è smentito dalle foto scattate dal Baracca
stesso prima di affondarlo); pertanto, il comandante Bertarelli le intima di
fermarsi, dopo di che procede a controllarne i registri di navigazione, per
appurarne il carico e la destinazione. Accertato che l’Aghios Nikolaos, proveniente da Santa Fe, è diretto nel Regno Unito
– più precisamente a Belfast, in Irlanda del Nord; deve fare anche scalo
intermedio a Lisbona – con un carico di legname quebracho e concentrati di zinco
(caricato a Santa Fe) che potrebbe essere impiegato nella produzione bellica
britannica, il comandante Bertarelli dà all’equipaggio mezz’ora per abbandonare
la nave ed allontanarsi sulle lance (12 uomini, compreso il comandante
Skinitis, salgono su una scialuppa; 14 uomini prendono posto in un’altra), poi
la affonda a cannonate alle 16.15, 300 miglia ad ovest di Lisbona (o 423 miglia
ad ovest-nord-ovest di tale città), a sudovest di Vigo e 300 o 400 miglia ad
ovest di Porto.
Tutti i 26 membri
dell’equipaggio dell’Aghios Nikolaos,
19 greci e sette stranieri, verranno tratti in salvo: la lancia del comandante
Skinitis verrà soccorsa dal peschereccio portoghese Anna, che sbarcherà i naufraghi a Fieueira Da Foz, in Portogallo; l’altra
imbarcazione, con 14 superstiti (le due scialuppe si sono perse di vista poco
dopo l’affondamento), verrà soccorsa da un peschereccio spagnolo, che ne
sbarcherà gli occupanti a Leixoes, sempre in Portogallo. I due gruppi di
naufraghi verranno riuniti a Lisbona e poi rimpatriati via mare in Grecia.
Sopra, l’Aghios Nikolaos fermo per l’ispezione,
in una foto scattata dal Baracca;
sotto, la nave ellenica in fiamme ed in procinto di affondare dopo essere stata
cannoneggiata (foto tratte da un saggio di Francesco Mattesini pubblicato su www.academia.edu)
5 ottobre 1940
In mattinata, giunto
alla foce della Gironda, il Baracca
si unisce ad un altro sommergibile italiano diretto a Bordeaux, il Reginaldo Giuliani, per l’ultimo
tratto della navigazione. L’incontro tra i due sommergibili avviene verso le
cinque di mattina; il Baracca
raggiunge il Giuliani provenendo da
poppa e, dopo lo scambio di segnali di riconoscimento, gli si accoda,
proseguendo in linea di fila verso la boa foranea dell’imbocco della Gironda.
Verso le sette, i due
sommergibili vengono raggiunti dai dragamine tedeschi M 9 e M 13,
incaricati di scortarli fino a Bordeaux, che si dispongono sui loro lati.
Più o meno
contemporaneamente, alle 6.58, Baracca
e Giuliani vengono avvistati dal
sommergibile britannico Tigris
(capitano di corvetta Howard Francis Bone), in agguato al largo della Gironda.
Il comandante britannico crede anzi di vedere ben tre sommergibili italiani, a
distanze comprese tra 5500 e 7300 metri, e decide di attaccare il secondo ed il
terzo, cioè il Giuliani ed
il Baracca (che in realtà
sono gli unici presenti: il terzo è un’illusione ottica). Alle 7.08 il Tigris avvista anche l’M 9 e l’M 13, che appaiono diretti proprio verso di esso ad elevata velocità;
Bone lascia che il gruppo dei sommergibili e dragamine si avvicini, decidendo
intanto – alle 7.10 – di concentrare l’attacco solo sul terzo sommergibile,
il Giuliani, ed alle 7.16 lancia
quattro siluri contro di esso da 2290 metri di distanza, in posizione 45°39’ N
e 01°34’ O. Il Giuliani,
tempestivamente avvisato dell’attacco dai dragamine di scorta, avvista tre dei
siluri e li evita tutti con pronta manovra (le armi gli passano circa trecento
metri a poppavia).
I due dragamine
tedeschi danno la caccia al Tigris per
circa mezz’ora, lanciando undici bombe di profondità tra le 7.25 e le 8.02, ma
nessuna esplode vicina, ed il battello britannico si allontana indenne.
Sommergibili e dragamine si scambiano numerosi messaggi, poi Baracca e Giuliani, sempre in linea di fila, passano al traverso del faro che
segna l’imbocco della Gironda, per poi dare fondo al largo di Royan. Alle 17.30
i due sommergibili ripartono per Pauillac, dove arrivano verso le otto di sera,
dando fondo in mezzo al fiume; manovrando per raggiungere il suo posto di
fondo, il Baracca urta il Giuliani con la prua, ma nessuno dei due
sommergibili riporta danni. Vengono prese precauzioni contro eventuali attacchi
aerei e passa così la notte.
6 ottobre 1940
Il Baracca raggiunge Bordeaux di prima
mattina, accolto festosamente dal personale di Betasom.
L’allora guardiamarina
di complemento Amedeo Cacace, da Sorrento, all’epoca ventunenne – nominato
guardiamarina appena tre giorni prima dell’entrata in guerra ed assegnato al Baracca proprio il 10 giugno, imbarcando
due giorni dopo sul sommergibile ancora in allestimento a La Spezia – avrebbe
descritto in questi termini, molti anni dopo, la prima missione e
l’affondamento dell’Aghios Nikolaos: "Ricordo
i momenti, emozionanti, del passaggio in immersione dello stretto di
Gibilterra… All’epoca la sorveglianza a/s britannica non era pressante e
continua come sarebbe stata nei mesi successivi e, partiti dalla Spezia il 31
agosto, forzammo Gibilterra il 7 di settembre… Raggiungemmo subito la zona d’agguato
cui eravamo stati destinati, a Nord-Ovest di Madera, ma non incontrammo alcun
traffico. Il 1° ottobre, mentre già stavamo facendo rotta verso Bordeaux, venne
avvistato un mercantile nemico di medio tonnellaggio. Fermatolo ed appreso che
si stava dirigendo verso Belfast con un carico destinato all’Inghilterra, demmo
tempo all’equipaggio di mettersi in salvo sulle scialuppe, dopodichè affondammo
la nave a cannonate. Si trattava del mercantile greco Agios Nikolaos, che venne
affondato in posizione 40° N – 16°55’ W…".
Per l’affondamento
dell’Aghios Nikolaos, il comandante
Bertarelli riceverà la Croce di Guerra al Valor Militare, con motivazione: «Comandante di un sommergibile oceanico,
affondava, nel corso di una crociera abilmente condotta, un piroscafo nemico».
Analoga decorazione sarà conferita al direttore di macchina, capitano del Genio
Navale Rinaldo Rondinini («Capo Servizio
G. N. di un Sommergibile, durante una lunga missione di guerra si prodigava
incessantemente nei vari servizi di bordo e, nella particolare occasione della
eliminazione di una grave avaria, che infirmava l'efficienza bellica
dell'unità, dimostrava entusiasmo, senso di responsabilità e perizia
professionale»), al comandante in seconda Giuliano Prini («Ufficiale in Seconda di un sommergibile,
durante una lunga missione di guerra coadiuvava in modo continuo ed efficace il
Comandante e dirigeva con molta perizia il tiro nell’azione che ha portato
all’affondamento col cannone di un grosso piroscafo nemico»), all’ufficiale
di rotta Iginio Viti («Ufficiale di rotta
di un sommergibile, coadiuvava con serenità, perizia e capacità il Comandante
durante una lunga missione di guerra ed in particolare durante l’azione di
affondamento col cannone di un grosso piroscafo nemico»), al capo
elettricista di prima classe Agostino Pacione ed al secondo capo elettricista
Clemente Rivetti («Imbarcato su un
sommergibile durante una lunga missione di guerra, lavorando incessantemente in
avverse condizioni di mare si prodigava per la pronta eliminazione di una grave
avaria infirmante la efficienza bellica dell’unità»).
24 ottobre 1940
Dopo una sosta di
poco più di due settimane – essendo di nuova costruzione, il sommergibile
necessita ancora di poca manutenzione –, il Baracca
(capitano di corvetta Enrico Bertarelli) lascia Bordeaux per la sua seconda
missione atlantica, da svolgere ad ovest della Scozia (tra i meridiani 15° O e
20° O) in cooperazione con i sommergibili Giuseppe
Finzi, Alpino Bagnolini e Guglielmo Marconi (gruppo
"Bagnolini") ed in coordinazione con il B.d.U.
Lasciata la Francia,
il Baracca assume rotta verso nord; le
avverse condizioni del mare rendono difficile la navigazione.
Un sommergibile classe Marconi (forse il Baracca) durante l’allestimento al Muggiano (Coll. Giorgio Parodi, via www.naviearmatori.net) |
27 ottobre 1940
Incontra
l’incrociatore ausiliario tedesco Widder,
impiegato come “nave corsara” contro il naviglio mercantile britannico, che sta
rientrando alla base dopo aver subito una serie di gravi avarie di macchina che
hanno precluso l’ulteriore prosecuzione della sua missione (nella quale ha
affondato o catturato, durante i quasi sei mesi trascorsi in mare, dieci navi
mercantili per complessive 58.644 tsl). Quando incontra il Baracca, il Widder ha da
poco virato verso est per avvicinarsi alla costa francese; il sommergibile
italiano informa il comando del Gruppo Navale Ovest della Kriegsmarine
dell’arrivo del Widder, al quale tale
comando promette copertura aerea, che però non arriverà. Il Widder raggiungerà comunque Brest il 31
ottobre.
31 ottobre 1940
Al tramonto, durante
la navigazione verso la sua area d’agguato, avvista un piroscafo di stazza
stimata in circa 1500 tsl, che viaggia da solo; dopo aver atteso la completa
oscurità, il Baracca gli lancia un
siluro (per altra fonte due) senza riuscire a colpirlo, dopo di che il
piroscafo cerca di speronarlo. Il sommergibile riesce ad evitare la collisione,
ma la preda sfugge. (Per altra fonte, il Baracca
lancia un siluro contro il piroscafo mentre questo sta già cercando di
speronarlo; sia il lancio che lo speronamento vanno a vuoto, e le due unità
proseguono su rotte opposte). Il maltempo impedisce al Baracca di raggiungere una velocità superiore agli otto nodi.
1° novembre 1940
Giunto nel settore
assegnato, alle 18.14 il Baracca avvista
un convoglio di quattro o cinque navi mercantili prive di scorta (altra fonte
parla di 45 mercantili, ma si tratta di un refuso), con rotta imprecisata, in
posizione 56°45’ N e 17°55’ O (a ponente di Rockall). Il sommergibile lancia il
segnale di scoperta, che viene ritrasmesso dal Comando agli altri sommergibili
in mare; manca però un dato cruciale, la direttrice di marcia delle navi avvistate.
Intanto, dopo il tramonto, il Baracca
tenta a più riprese di assumere una posizione adatta al lancio dei siluri, ma
senza riuscirci.
2 novembre 1940
Alle 5.40 il Baracca comunica di stare uscendo dalla
sua zona per dirigersi verso est-sud-est, inseguendo il convoglio. Solo in
seguito a questa comunicazione, Betasom riesce a determinare almeno in modo
approssimato la rotta delle navi nemiche, che comunica agli altri sommergibili
in mare. Tuttavia, il Baracca finisce
col perdere il contatto a causa della maggiore velocità del convoglio (per
altra fonte, del maltempo), senza più riuscire a ritrovarlo; così non può né
tentare di rinnovare i suoi attacchi, né mandare a Betasom informazioni più
aggiornate su rotta e velocità del convoglio.
Nei giorni seguenti
si verificano altri avvistamenti e tentativi di attacco, non coronati da
successo.
8 novembre 1940
Il Baracca, insieme ai sommergibili
italiani Giuseppe Finzi e Guglielmo Marconi ed ai tedeschi U 29, U 47, U 93, U 100, U 103, U 104, U 123, U 137 ed U 138, forma uno
sbarramento di sommergibili a ponente del Canale del Nord. I sommergibili
italiani assumono posizioni di agguato più ad ovest rispetto ai “colleghi”
tedeschi (dei quali U 137 e U 138 operano lungo le coste
dell’Irlanda del Nord, mentre U 93, U 100 e U 103 operano a nordovest del Canale del Nord contro i convogli in
arrivo ed in partenza, ed U 29 e U 47 sono dislocati più ad ovest con
funzione di battelli meteorologici), ma vicine ad essi, come concordato tra
l’ammiraglio Parona e l’ammiraglio Dönitz (Parona ha proposto a Dönitz questa
disposizione per formare una profonda linea d’agguato nelle acque antistanti il
Canale del Nord).
9 novembre 1940
Avvista una veloce nave
cisterna armata e tenta di attaccarla in immersione, ma questa elude l’attacco
e si dà alla fuga mentre il Baracca
non riesce ad inseguirla, a causa della sua minore velocità e del mare in
burrasca, che la riduce ulteriormente (questo è un problema comune a molti
sommergibili italiani: in condizioni di tempo fortemente avverso, la loro già
non elevatissima velocità in superficie si riduce a tal punto da permettere di
inseguire soltanto piroscafi vecchi e lenti).
Il Maggiore Baracca in navigazione in Atlantico nel 1940 (Fondazione Museo Storico in Trento) |
16 novembre 1940
Ricevuto un segnale
di scoperta relativo ad un convoglio in navigazione verso ovest (lo ha lanciato
l’U 137, che in mattinata ha
avvistato un convoglio in uscita dal Canale del Nord con rotta verso ovest,
restando in contatto con esso fino alle 16), il Baracca esce dalla sua zona e forza i motori alla massima velocità
per cercare di raggiungere il convoglio segnalato. Lo stesso fanno anche Finzi e Marconi; mentre però questi due finiscono col rinunciare a causa
del pessimo stato del mare, tale da rendere difficile anche la navigazione, il Baracca persevera e raggiunge la zona
segnalata dall’U 137, dove cerca il
convoglio fino al mattino del 18 novembre, senza però riuscire a trovare nulla.
18 novembre 1940
Giunto ai limiti
dell’autonomia, inizia la navigazione di rientro a Bordeaux. Nel tardo
pomeriggio dello stesso giorno, alle 17.40 (o 17.04, o 17), il Baracca avvista il fumo di un piroscafo
all’orizzonte, e si pone subito al suo inseguimento: si tratta del piroscafo
britannico Lilian Moller (al comando
del capitano William Simon Stewart Fowler, australiano), di 4866 tsl, unità
dispersa del convoglio SLS. 53 (Freetown-Regno Unito).
L’inseguimento si
protrae a lungo, a causa delle ripetute ed abili manovre evasive del piroscafo;
ma alla fine il Baracca raggiunge la
distanza utile di lancio e lancia due siluri da distanza ravvicinata contro il Lilian Moller, che viene colpito ed
affonda immediatamente in posizione 52°57’ N e 18°05’ O (oppure 57°00’ N e
17°00’ O, o 52°57’ N e 18°03’ O), 250 miglia a nordovest dell’Irlanda.
Non ci sono
sopravvissuti tra l’equipaggio del Lilian
Moller, composto da 7 ufficiali britannici e 42 marittimi cinesi. Il piroscafo,
di proprietà della Moller & Co. (una compagnia britannica con sede a
Shanghai, dedita principalmente al traffico in acque cinesi), era stato
requisito dal governo britannico nell’agosto precedente ed armato nel
successivo settembre con un cannone contraereo da 101 mm (non erano stati
imbarcati militari, ma erano stati addestrati al suo utilizzo tutti i
componenti dell’equipaggio civile). Il Lilian
Moller era alla sua prima navigazione di guerra in Atlantico: era partito
da Calcutta con un carico destinato al Regno Unito (6000 tonnellate di cereali),
e dopo aver attraversato l’Oceano Indiano e doppiato il Capo di Buona Speranza si
era unito a Capetown ad un convoglio diretto in Gran Bretagna. La sua
destinazione finale doveva essere Londra; l’ultimo scalo prima
dell’affondamento era stato a Freetown, in Sierra Leone, a fine ottobre, da
dove era partito il 27 ottobre aggregandosi al convoglio SLS. 53, dal quale era
poi rimasto separato; avrebbe dovuto raggiungere Oban prima di proseguire per
Londra. Il Lilian Moller è l’unica
delle 24 navi mercantili di questo convoglio ad essere affondata; le altre
raggiungeranno tutte Liverpool il 18 novembre. (Una biografia del capitano
Fowler, presente in alcuni siti australiani, aggiunge questo dettaglio: ‘Ironicamente, la nave di Fowler venne
affondata dagli italiani, che spesso nelle lettere a casa egli aveva
spregiativamente etichettato come “dagos”’).
Amedeo Cacace ricorda
così l’affondamento del Lilian Moller:
“Mi trovavo di servizio sulla falsatorre e, con il binocolo, avvistai il
fumo di un piroscafo all’orizzonte. Passai subito tutte le informazioni al
Comandante, che si trovava dabbasso in camera di manovra, e il Baracca si mise
ben presto all’inseguimento del mercantile nemico. La cosa risultò parecchio
difficile, perché eravamo ormai all’imbrunire e – in quelle latitudini –
l’oscurità cala presto ed è subito molto fitta… non persi quindi mai di vista
il fumo del piroscafo continuando a segnalarne la posizione… Alla fine
raggiungemmo la distanza utile per il lancio e, con due siluri, colpimmo il Lilian
Moller che affondò in posizione 52°57’N – 18°05’W. Purtroppo non vi furono
sopravvissuti…”.
24 novembre 1940
Arriva a Bordeaux.
Durante questa missione si è riscontrata nel Baracca una velocità sensibilmente inferiore rispetto a quella di
progetto ed a quella registrata alle prove in mare, tanto che il sommergibile
non è riuscito neanche a raggiungere la velocità dei mercantili incontrati ed
attaccati; inoltre, la violenza del mare gli ha provocato parecchi danni, sia
allo scafo che alle strumentazioni di bordo. Specialmente le forme della
torretta ed i trombini d’aerazione dei motori si rivelano particolarmente
inadatti alla navigazione con mare avverso. Con il mare in burrasca, il cannone
risulta del tutto inutilizzabile, ed anche i siluri vengono deviati dalle onde
dalla loro rotta.
Nonostante questi
problemi (del resto non imputabili all’equipaggio), il giudizio dell’ammiraglio
Angelo Parona, comandante di Betasom, sull’operato del comandante Bertarelli è
favorevole; anche Supermarina concorderà con questo parere, ed il 30 dicembre,
dopo aver esaminato il rapporto di missione, comunicherà a Betasom e Maricosom
la seguente valutazione: «…Anche le
missioni del MARCONI e del BARACCA sono state eseguite con intelligenza e
tenacia. Si dà corso alle proposte di ricompense al valor militare, avanzate
per alcuni membri dell'equipaggio del BARACCA ed è in esame la possibilità di
accogliere la proposta avanzata da codesto Comando con foglio 1639 del 2
dicembre».
Per questa missione,
il comandante Bertarelli verrà decorato con la Medaglia di Bronzo al Valor
Militare, con motivazione: «Comandante di
un sommergibile oceanico, svolgeva una lunga missione di guerra invernale nel
Nord Atlantico con deciso spirito aggressivo, abilità e sprezzo del pericolo.
In un’azione condotta con particolare tenacia, dopo lungo inseguimento,
affondava un piroscafo armato nemico». L’ufficiale alle armi, sottotenente
di vascello Pierdonato Poli, riceverà la Croce di Guerra al Valor Militare (con
motivazione «Ufficiale alle armi di un
sommergibile oceanico nel corso di una lunga missione di guerra invernale nel
Nord Atlantico, curava e manteneva le armi di bordo in perfetta efficienza
permettendo al Comandante di fare sicuro affidamento su di esse; in particolare
durante l'affondamento col siluro di un grosso piroscafo armato nemico
dimostrava alto spirito di sacrificio, entusiasmo e sereno sprezzo del pericolo»),
così come il direttore di macchina Rondinini («Capo Servizio G. N di sommergibile in missione di guerra in Atlantico,
coadiuvava con elevata perizia e sereno ardimento il Comandante nell'azione di
attacco e affondamento di un grosso piroscafo nemico»), il comandante in
seconda Prini («Ufficiale in 2a di
sommergibile in missione di guerra in Atlantico, coadiuvava con slancio e
ardimento il Comandante nell'azione di attacco e affondamento di un grosso
piroscafo nemico»), l’aspirante guardiamarina Amedeo Cacace («Sottordine alla rotta di un sommergibile oceanico,
nei corso di due o lunghe missioni di guerra nell'Oceano Atlantico, dimostrava
profondo entusiasmo e continuo attaccamento al servizio; in particolare,
durante l'affondamento col siluro di un grosso piroscafo armato nemico, era di
ausilio al Comandante dimostrando alto senso del dovere e sereno sprezzo del
pericolo»), il sottonocchiere Giovanni Carcano («Timoniere orizzontale e di manovra a bordo di un sommergibile oceanico,
nel corso di una lunga missione invernale di guerra nel Nord Atiantico dimostrava
continuo profondo entusiasmo ed attaccamento al servizio; in particolare,
durante l'affondamento col siluro di un grosso piroscafo armato nemico
dimostrava alto senso del dovere e sereno sprezzo del pericolo»), il
montatore di garanzia Armando Babbini («Imbarcato
su un sommergibile oceanico, dimostrava entusiasmo ed alto senso del dovere;
manteneva in efficienza, con il suo continuo interessamento, un importantissimo
servizio di bordo, contribuendo così in modo notevole ai successi del
sommergibile in due lunghe missioni di guerra in Oceano Atlantico. Nella
particolare occasione di inseguimento ed affondamento di un grosso piroscafo
armato nemico si prodigava con spirito di sacrificio e sereno sprezzo del
pericolo»).
18 (o 19) gennaio 1941
Dopo un periodo di
manutenzione, il Baracca (capitano di
corvetta Enrico Bertarelli) lascia Bordeaux per la terza missione atlantica, da
effettuare ad ovest dell’Irlanda. Forma insieme ad altri tre sommergibili (Otaria, Dandolo e Morosini) un
gruppo denominato proprio "Baracca", i cui sommergibili devono porsi
in agguato in settori adiacenti al largo della Scozia e restarvi in agguato
fino al raggiungimento dei limiti d’autonomia.
Durante la missione
viene a più riprese sottoposto a lunghe cacce antisommergibili, senza mai
subire danni gravi ma senza riuscire ad affondare nessuna nave. Di nuovo, la
missione è ostacolata dal mare tempestoso e dalla nebbia.
24 gennaio 1941
Il Baracca ed i sommergibili italiani Dandolo e Morosini vengono inviati a formare uno sbarramento ad ponente del
Canale del Nord e della costa irlandese, posizionandosi più ad ovest rispetto
ai sommergibili tedeschi U 48, U 52, U 96, U 101, U 103 e U 107. Questa disposizione è determinata dalla maggiore autonomia
dei sommergibili italiani, che per questo vengono mandati a pattugliare settori
più ad ovest mentre gli U-Boote e le navi di superficie tedesche si tengono più
vicini alle Isole Britanniche.
26 gennaio 1941
Raggiunge il settore
assegnato per la missione; poco dopo il suo arrivo avvista due cacciatorpediniere
di scorta, un altro sommergibile ed un piroscafo, che non riesce ad inseguire.
29 gennaio 1941
Incontra in oceano
uno degli altri battelli del suo gruppo, il Morosini
(assegnato al suo stesso settore), in navigazione di trasferimento verso una
nuova area d’agguato situata più ad ovest.
ca. 28-30 gennaio 1941
Si pone alla ricerca
di una portaerei segnalata da Betasom nei pressi del suo settore d’agguato, ma
non riesce a trovarla.
3-4 febbraio 1941
Il Baracca, insieme al Morosini ed ai sommergibili tedeschi U 52, U 96, U 103 e U 123, si pone alla ricerca del convoglio OB. 280, segnalato dall’U 107, che nella notte tra il 3 ed il 4
febbraio ha affondato una delle navi che lo componevano, l’"ocean boarding
vessel" Crispin. Baracca e Morosini, subito avvisati da Betasom della presenza del convoglio
in prossimità dei loro settori d’agguato, escono dalle rispettive zone per
cercare il convoglio, ma non riescono a trovarlo, come del resto l’U 96, l’U 103 e l’U 123 (l’U 52 riesce invece ad affondare un
piroscafo di quel convoglio, il norvegese Ringhorn,
rimasto indietro rispetto al grosso).
4 febbraio 1941
Viene avvistato da un
cacciasommergibili (per altra fonte, un cacciatorpediniere), ma grazie alla
nebbia a banchi presente nella zona, il Baracca
riesce ad immergersi e far perdere le proprie tracce, sfuggendo all’attacco
dell’unità nemica che lo bombarda infruttuosamente con dieci bombe di
profondità, le quali esplodono lontane senza causare alcun danno.
Nei giorni seguenti
il maltempo continua, impedendo di avvistare bersagli.
12 febbraio 1941
Inizia la navigazione
di ritorno alla base.
18 (o 19) febbraio 1941
Arriva a Bordeaux. Dopo
questa missione, entra in cantiere e passa qualche tempo ai lavori per riparare
l’usura dei macchinari ed i danni causati dal maltempo nel corso delle ultime
due missioni.
Supermarina,
esaminato il rapporto di questa missione, comunicherà a riguardo a Betasom,
l’11 maggio: «Nulla da segnalare. Si
prendono in considerazione le proposte di ricompensa al valore avanzate da codesto
Comando».
7 (o 10) aprile 1941
Sempre al comando del
capitano di corvetta Bertarelli, il Baracca
prende il mare per la quarta missione atlantica, da svolgersi stavolta molto
più a sud delle precedenti, al largo di Capo San Vincenzo, in Portogallo, a
ponente di Lisbona e dello stretto di Gibilterra. Il settore assegnato è a nord
del parallelo 36°00’ N.
A partire da
febbraio, infatti, il comando di Betasom, in seguito ad accordi con il B.d.U.
tedesco, ha deciso di tornare ad inviare i propri sommergibili ad ovest della
penisola iberica, come aveva fatto nelle primissime missioni dell’estate del
1940, per insidiare il traffico da e per Gibilterra. Il Baracca è il quarto sommergibile italiano a “tornare” in
quest’area, insieme al Dandolo, e
dopo l’invio in febbraio di Glauco e Marconi. Baracca e Dandolo hanno
il compito di porsi in agguato ad ovest dello stretto di Gibilterra per
attaccare i convogli in partenza da quel porto, segnalati da agenti tedeschi
“osservatori” che operano sulle coste meridionali della Spagna.
Queste missioni si
riveleranno tuttavia infruttuose, tanto per la quasi totale assenza di traffico
mercantile nei settori d’agguato assegnati, quanto per le poco favorevoli
posizioni iniziali occupate dai sommergibili, che impediranno loro di attaccare
il naviglio militare britannico che invece è assai copioso nella zona.
Due immagini dei lavori di modifica effettuati a Bordeaux sul Baracca per meglio adattarlo alle esigenze operative dell’Atlantico: riduzione della falsatorre ed abbassamento delle camicie dei periscopi (g.c. STORIA militare)
13 aprile 1941
Durante la
navigazione di trasferimento verso il suo settore d’agguato, al largo di
Lisbona, il Baracca viene attaccato
da aerei e poi bombardato anche da navi di superficie: passa così, per
l’equipaggio, la Pasqua del 1941. In serata il sommergibile riemerge e si
riscontra una perdita di nafta, causata dal bombardamento; viene poi avvistato
un veliero, il S. Jacinto,
proveniente da Figueira da Foz (Portogallo) con un carico di sale. Il Baracca gli si accosta, ed il
sottotenente di vascello Iginio Viti intima il fermo al megafono; appurato che
la nave è di nazionalità neutrale, viene lasciata andare.
15 aprile 1941
Arriva nel settore
assegnato per la missione.
16-19 aprile 1941
Insieme al Dandolo ed all’Enrico Tazzoli, il Baracca cerca infruttuosamente un
convoglio nemico (probabilmente l’OG 59, partito da Liverpool il 15 aprile e
giunto a Gibilterra il 28) al largo di Lisbona.
22 aprile 1941
Il Dandolo deve interrompere la missione e
tornare alla base per avaria; il Baracca
prosegue nella missione, ma non riesce ad intercettare il convoglio (per altra
fonte, riesce ad avvistarlo ma non a portarsi in posizione idonea a lanciare i
siluri).
25-28 aprile 1941
Ricerca di un
convoglio, senza risultato.
30 aprile 1941
Inizia la navigazione
di rientro.
4 maggio 1941
Arriva a Bordeaux
senza aver colto successi.
Questa volta
l’ammiraglio Parona esprime un giudizio negativo sull’operato del comandante
Bertarelli; anche Supermarina, con comunicazione a Betasom e Maricosom del 6
luglio, concorda che «Le critiche mosse
al Comandante Bertarelli per il modo in cui egli ha svolto la sua missione trovano
giustificazione nell'apprezzamento delle circostanze di fatto, largamente esposte
e commentate da codesto Comando. Tenuto conto delle doti di aggressività e di
slancio dimostrate dal Comandante Bertarelli nelle precedenti missioni, non si
ravvisa l'opportunità di prendere provvedimenti nei suoi riguardi: si prega per
altro di voler dettagliamente riferire sullo svolgimento della prossima
missione del BARACCA».
Segue un breve
periodo in cantiere ed un turno di riposo per l’equipaggio.
18 giugno 1941
Ancora al comando del
capitano di corvetta Bertarelli, il Baracca
parte per la sua quinta missione atlantica, diretto a ponente dello stretto di
Gibilterra, nelle acque delle Azzorre (per altra fonte deve attaccare il
traffico convogliato nella zona compresa tra Gibilterra, Madera e le Canarie),
facendo parte di un gruppo insieme ai sommergibili Morosini, Leonardo Da Vinci
(che parte da Bordeaux insieme al Baracca),
Alpino Bagnolini, Alessandro Malaspina, Comandante Cappellini, Luigi Torelli, Michele Bianchi e Barbarigo.
Questo gruppo inseguirà ben quattro convogli, senza riuscire a prendere contatto,
e poi altri tre, ma questi ultimi quando ormai il Baracca sarà giunto ai limiti dell’autonomia e costretto al rientro
alla base.
Nei primi giorni di
missione, il Baracca segue rotta
verso ovest per diversi giorni, spinto da un solo motore diesel, dopo di che
viene fatto deviare dalla rotta prestabilita per cercare dei naufraghi.
Successivamente riceve ordine di dirigersi verso sud e, giunto in zona, inizia
il pendolamento.
27 giugno 1941
Avvista un
cacciatorpediniere, ma di nuovo le sfavorevoli condizioni meteomarine
impediscono di portarsi in posizione idonea ad attaccare.
5 luglio 1941
Insieme ai
sommergibili Leonardo Da Vinci, Alessandro Malaspina e Morosini, il Baracca si mette alla ricerca di un piccolo convoglio segnalato dal
Luigi Torelli ad ovest di Gibilterra,
ma non riesce a trovarlo.
7 luglio 1941
Insieme a Da Vinci e Morosini ed al sommergibile tedesco U 103, il Baracca viene
inviato a cercare un altro convoglio, diretto verso nord (o verso ovest; forse
l’«HG 66»), segnalato dal Torelli, ma
di nuovo non riesce a trovarlo, al pari degli altri sommergibili.
8 luglio 1941
Ricerca un altro
convoglio, che non riesce ad intercettare.
Rientra poi alla base
senza aver ottenuto successi: durante la missione ha anche avvistato una
portaerei scortata da due cacciatorpediniere, ma non è riuscito ad attaccare a
causa del maltempo.
20 agosto 1941
Dopo cinque missioni
atlantiche, il capitano di corvetta Bertarelli lascia il comando del Baracca, venendo destinato
all’addestramento delle “nuove leve” presso la Scuola Sommergibili di Pola, e
viene sostituito come comandante del Baracca
dal tenente di vascello Giorgio Viani.
Affondamento e prigionia
Il 31 agosto 1941 il Maggiore Baracca, al comando del tenente
di vascello Giorgio Viani, salpò da Bordeaux per la sua sesta missione
atlantica, da svolgersi in una zona ad ovest dello stretto di Gibilterra, circa
200 miglia a nordest delle Azzorre. ("Navi militari perdute"
dell’USMM afferma che il Baracca
partì da Bordeaux il 6 settembre, ma questo sembra poco probabile).
Il Baracca doveva partecipare, insieme ad
altri quattro o cinque sommergibili (Leonardo
Da Vinci, Alessandro Malaspina, Comandante Cappellini, Luigi Torelli e Morosini, anch’essi inviati nelle acque delle Azzorre), all’attacco
ad un convoglio britannico in partenza da Gibilterra (secondo www.wlb-stuttgart.de, tra il 4 ed il 6
settembre Baracca, insieme ai
sommergibili Calvi, Da Vinci e Cappellini, cercò senza successo il convoglio HG. 72, partito da Gibilterra
il 2 settembre e diretto nel Regno Unito). Dopo la partenza da Bordeaux, il
sommergibile assunse rotta verso ovest per allontanarsi dalla costa francese, e
poi verso sud.
Diverse fonti
affermano che il 5 settembre 1941 il Baracca
avrebbe affondato a cannonate la motocisterna panamense Trinidad, di 434 tsl. In realtà questa piccola nave fu vittima di
un sommergibile tedesco, l’U 95; non
esistono dubbi sulla paternità di questo affondamento, dal momento che l’U 95, prima di affondare la Trinidad a cannonate, la fermò, convocò
a bordo il suo comandante e ne verificò i registri di carico (essendo una nave
neutrale) per accertare che stesse trasportando un carico bellico destinato
agli Alleati. L’erronea attribuzione dell’affondamento della Trinidad al Baracca sembra trarre origine dal libro "U-Boot-Erfolge der
Achsenmächte 1939–1945" (“I successi dei sommergibili dell’Asse,
1939-1945”) dello storico tedesco Jürgen Rohwer (il quale lo redasse con
l’aiuto di numerosi collaboratori, non sempre scrupolosi, e prima che i
documenti relativi agli U-Boote, come il rapporto dell’U 95, diventassero accessibili al pubblico), pubblicato nel 1968,
che erroneamente registra la Trinidad
come affondata dal Baracca; essendo
stata questa per lunghissimo tempo un’opera di riferimento nel settore, molti
altri autori, basandosi su di essa, hanno riportato e diffuso l’errore (poi
corretto in un’edizione successiva) negli anni successivi.
Quanto al Baracca, secondo una fonte proprio il 5
settembre 1941 venne attaccato da un cacciatorpediniere, che lo costrinse
all’immersione rapida. Il 7 settembre raggiunse la sua zona d’agguato, che
iniziò subito a pattugliare (secondo una fonte, non confermata e di incerta
attendibilità, si sarebbe messo alla ricerca di un convoglio segnalato dalla
base); quello stesso giorno, a mezzogiorno, il tenente di vascello Pier Donato
Poli – ufficiale alle armi del Baracca
– avvistò un altro sommergibile di prora, al limite dell’orizzonte. Era l’Enrico Tazzoli, che rientrava alla base dopo quasi due mesi di missione;
il Baracca si avvicinò, fu effettuato
il riconoscimento, scambiati segnali a mezzo bandierine, i due equipaggi si
salutarono a gran voce con il megafono. Dal Tazzoli
venne anche scattata una foto al Baracca.
L’allora sergente
segnalatore Antonio Maronari, del Tazzoli,
descrisse così l’incontro nel suo libro “Un sommergibile non è rientrato alla
base”: «“Sembra un sommergibile…” mormora
«Carletto» [Carlo Fecia di Cossato, il comandante del Tazzoli] che è salito sulla
plancia e sta guardando attentamente. “Sì, è un sommergibile”. Ci avviciniamo:
giunti ad una certa distanza, vediamo quattro stelle bianche innalzarsi sopra
la piccola unità. È il nostro segnale di riconoscimento e rispondiamo subito,
avvicinandoci ancora di più al compagno. È il Baracca… “Cessa il posto di
combattimento!” grida il signor Gazzana. Tutto il bordo si anima; tutti
vogliono salire in coperta a vedere il battello amico, questo piccolo lembo di
Patria, sperduto nell’immensità dell’oceano, che ci viene incontro. Abbiamo le
lacrime agli occhi e siamo soffocati da un’emozione che non si può descrivere e
che ben pochi, estranei alla nostra vita, potrebbero comprendere. Sono 53
giorni che percorriamo l’oceano in lungo e in largo, sfidando allegramente
mille pericoli e sopportando sacrifici d’ogni sorta senza pensarci neppure ed
ecco che oggi quel piccolo scafo grigio, facendo un segnale, quattro stelle
bianche e lucenti, riesce a farci piangere. Vorrei essere un grande scrittore e
poter descrivere il tremito dei nostri cuori e delle nostre voci, nel momento
in cui agitiamo freneticamente le braccia in segno di saluto e ci scambiamo, da
un battello all’altro, parole semplici, saluti brevi, che racchiudono in sé
poemi di fraterno affetto. “Tazzoli, evviva, in bocca al lupo!” “Buon viaggio Baracca!”
“Auguri… auguri… evviva l’Italia!” Che Dio vi assista, uomini del mare! Di lì a
pochi minuti il sommergibile Baracca non è più che un puntolino lontano. Pare
sospeso a mezz’aria tra il cielo fosco e la linea cerulea all’orizzonte mentre naviga
serenamente incontro al suo destino. (…) Nella commozione, insolitamente profonda, c’era forse il triste
presentimento che non l’avremmo riveduto mai più…».
L’ultima foto del Maggiore Baracca, scattata dal Tazzoli durante l’incontro in Atlantico il 7 settembre 1941 (tratto da un articolo sulla rivista “OGGI”) |
Durante la notte
successiva, verso le quattro, il Baracca
avvistò una nave da guerra nemica e s’immerse con la rapida. La notte trascorse
senza eventi di rilievo; ma poche ore più tardi, il mattino dell’8 settembre
1941, il Baracca venne avvistato dal
cacciatorpediniere britannico Croome.
Il Croome (capitano di corvetta John
Douglas Hayes) era un cacciatorpediniere di scorta della classe Hunt tipo II,
praticamente nuovo di zecca: era entrato in servizio il 29 giugno 1941 ed era
giunto in Atlantico in agosto, al termine dell’addestramento, venendo assegnato
al 12th Escort Group di Londonderry. Aveva lasciato il convoglio HG
72 (formato da 17 mercantili, partiti da Gibilterra il 2 settembre e diretti a
Liverpool, dove arrivarono poi il 17) alle due della precedente notte per
unirsi alla scorta di un altro convoglio, l’OG 73 (formato da 23 mercantili,
partito da Liverpool il 29 agosto e diretto a Gibilterra, dove arrivò il 13
settembre), dietro ordine del Comandante in Capo degli Approcci Occidentali
(Western Approaches, la zona di mare situata subito ad ovest delle Isole
Britanniche, attraversata dai convogli provenienti dal Nordamerica ed in arrivo
nel Regno Unito). La riunione con il convoglio OG 73 era prevista per le otto
di quel mattino; il Croome aveva
inizialmente assunto rotta e velocità tali da trovarsi entro le 7.15 in un
punto situato 20 miglia più avanti rispetto al previsto punto di riunione con
il convoglio, ed alle 7.20, giunto in quella posizione, aveva assunto rotta
335° per andare incontro al convoglio ed al contempo perlustrare le acque
davanti ad esso. Le condizioni meteomarine in quel momento vedevano una bava di
vento da nord, a due nodi, con una visibilità di quattro miglia e mezzo.
Fu proprio questo
rastrello a condurre all’avvistamento del Baracca:
alle 7.50, infatti, mentre sorgevano le prime luci dell’alba, la vedetta di
dritta del Croome, marinaio William
Brown, avvistò un oggetto al traverso a dritta, che venne presto identificato
come un sommergibile emerso, con rotta verso sud, a cira 7700 metri di
distanza. Era il Baracca.
(Una fonte afferma
che il Baracca stava cercando di
avvicinarsi al convoglio HG 72 quando fu avvistato dal Croome, ma ciò sembra poco verosimile, dato che il Croome aveva lasciato quel convoglio
parecchie ore prima ed il Baracca fu
affondato poco prima della sua prevista riunione col convoglio OG. 73. “Uomini
sul fondo” di Giorgio Giorgerini afferma che il Croome localizzò il Baracca
al radar, da una distanza di poco inferiore a 4570 metri, ma dal rapporto del
comandante Hayes traspare che l’avvistamento avvenne otticamente, e da distanza
superiore).
Il Croome accostò in direzione del
sommergibile ed accelerò a 20 nodi; nel frattempo il Baracca, essendosi a sua volta accorto della presenza dell’unità
britannica, si immerse rapidamente. Secondo gli appunti di Ettore Gabetta,
guardiamarina sul Baracca, il sommergibile
avvistò il Croome alle 6.30
(evidentemente c’era un’ora di fuso orario tra l’unità italiana e quella
britannica) in posizione 40°15’ N (o 40°16’ N) e 20°25’ O, immergendosi subito
con la rapida.
Il cacciatorpediniere
proseguì verso il punto in cui aveva visto scomparire il battello avversario;
quando fu giunto a 1830 metri da quel punto, ridusse la velocità a 15 nodi e
diede inizio alla ricerca antisommergibili. Il Croome si spinse fino alla distanza massima che, in base ai suoi
calcoli, il sommergibile in allontanamento poteva aver raggiunto; poi invertì
la rotta, con un’accostata di 180°. Due minuti più tardi, il Baracca venne localizzato a proravia
dritta del Croome, ad una distanza di
mille metri.
Il cacciatorpediniere
britannico eseguì un primo attacco con bombe di profondità, regolate per
esplodere a 30, 45 e 60 metri (configurazione “C”), ma senza risultati
apprezzabili; il Baracca si trovava
infatti in quel momento già a 90 metri (e stava continuando a scendere
lentamente a profondità superiore), e le esplosioni delle bombe di profondità
si limitarono ia scuoterlo violentemente ed a causare danni molto lievi, tra
cui l’inutilizzazione dell’indicatore di profondità. Il Croome tornò allora alla carica ed effettuò un un secondo attacco,
stavolta regolando le bombe di profondità per una profondità maggiore (configurazione
“E”, 76, 107 e 152 metri): questa volta le esplosioni investirono in pieno il Baracca, con risultati devastanti. Tutte
le luci si spensero, i motori si fermarono, i timoni vennero messi fuori uso,
si generarono vie d’acqua sia a prua che a poppa, perdite in deposito e locale
ausiliari ed infiltrazioni d’acqua anche nel locale batterie. Dinanzi alla
prospettiva di un imminente, rapido affondamento che non avrebbe lasciato
scampo all’equipaggio, il comandante Viani ordinò di dare aria a tutte le casse
e di emergere, per tentare un’ultima resistenza in superficie, il cui esito era
scontato. (Secondo una fonte non verificabile, avrebbe partecipato all’azione
anche un bombardiere Vickers Wellington del 221st Squadron della
RAF; però il comandante del Croome
non ne fa menzione nel suo rapporto).
Il Baracca venne in superficie a poppavia
del Croome: subito il
cacciatorpediniere aprì il fuoco con tutte le armi che poté puntare su di esso,
ed al contempo mise le macchine avanti tutta e manovrò per speronarlo.
I cannonieri del Baracca, usciti in coperta, corsero al
pezzo ed iniziarono a rispondere al fuoco, sotto la direzione del sottotenente
di vascello Poli: i primi colpi, però, mancarono di parecchio il bersaglio, ed
il tiro delle mitragliere Lewis situate sulle alette di plancia del Croome li falciò prima che potessero
aggiustare il tiro. Tra i cannonieri rimasti uccisi in questo frangente erano i
marinai Giuseppe Coletta e Benedetto Del Re.
Ridotta al silenzio
ogni reazione, ed essendo imminente lo speronamento, gli uomini del Baracca iniziarono a gettarsi in mare;
già nel momento in cui il sommergibile aveva aperto il fuoco il comandante
Viani aveva ordinato al direttore di macchina, capitano del Genio Navale
Rinaldo Rondinini, di provvedere all’autoaffondamento. Rondinini eseguì
l’ordine, poi salì per ultimo in coperta insieme al comandante in seconda,
tenente di vascello Piero Gherardelli.
Pochi attimi dopo, il
Croome speronò il Baracca subito a poppavia della
torretta, provocandone l’immediato affondamento di poppa; pochi secondi dopo
che il sommergibile era scomparso sotto la superficie, venne sentita una forte
esplosione subacquea, smorzata dall’acqua.
Il Maggiore Baracca si era inabissato in
posizione 40°15’ N e 20°55’ O (o 40°30’ N e 21°15’ O, o 40°31’ N e 21°15’ O), a
ponente di Gibilterra, 275 miglia a nordest delle Azzorre (secondo una fonte,
più precisamente, 282 miglia a est-nord-est dell’isola di Sao Miguel, più o
meno a metà strada tra il Portogallo e le Azzorre) e circa 600 miglia ad ovest
di Porto; in quel punto, l’Atlantico è profondo quasi quattromila metri. Fonti
italiane registrano l’ora dell’affondamento come le 9.30.
I naufraghi, molti
dei quali feriti dal tiro delle mitragliere, rischiarono anche di essere
risucchiati dalle eliche del Croome.
Fu lo stesso cacciatorpediniere affondatore, mettendo a mare le proprie lance,
a recuperare i sopravvissuti: 32, su un equipaggio di 60 uomini. (Qualche fonte
britannica parla di 34 sopravvissuti – 6 ufficiali e 28 tra sottufficiali e
marinai –, ma sembra probabile un errore, a meno che due dei naufraghi non
siano deceduti dopo il salvataggio).
Tra i superstiti erano
il comandante Viani e cinque ufficiali (il comandante in seconda Gherardelli, i
sottotenenti di vascello Iginio Viti e Pier Donato Poli, il guardiamarina
Ettore Gabetta ed il sottotenente del Genio Navale Antonio Ferrentino). Ventotto
uomini del Baracca, tra cui il
direttore di macchina Rondinini ed altri due ufficiali, erano morti nel breve
combattimento.
Le vittime:
Roberto Abbandonato, marinaio, da L’Aquila,
disperso
Marino Aresi, marinaio elettricista, da
Brignano Gera d’Adda, disperso
Giuseppe Bellinetto, marinaio elettricista, da
Vicenza, disperso
Plinio Bovi, marinaio cannoniere, da Chioggia,
disperso
Domenico Burchielli, secondo capo nocchiere
(nato in Cecoslovacchia), disperso
Giovanni Carcano, secondo capo nocchiere, da
Milano, disperso
Settimio Castiglioni, sergente elettricista
(nato negli U.S.A.), disperso
Giuseppe Coletta, marinaio cannoniere, da
Milano, disperso
Aniello Damiano, secondo capo motorista, da
Napoli, disperso
Renzo Del Bubba, secondo capo silurista, da
Firenze, disperso
Benedetto Del Re, marinaio, da Mola di Bari,
disperso
Vincenzo Fergola, marinaio silurista, da
Napoli, disperso
Ugo Marra, capitano del Genio Navale, da
Ariano Irpino, disperso
Corrado Menconi, sottocapo silurista, da
Carrara, disperso
Giuseppe Napoli, sottocapo furiere, da
Racalmuto, disperso
Orlando Nimis, marinaio silurista, da Faedis,
disperso
Luigi Alfredo Odiardo, marinaio, da Meana di
Susa, disperso
Francesco Parravicini, marinaio silurista, da
Varedo, disperso
Carlo Pizzetti, aspirante del Genio Navale, da
Novellara, disperso
Bruno Pratesi, marinaio elettricista, da Cogoleto,
disperso
Francesco Putignano, marinaio, da Ostuni,
disperso
Clemente Rivetti, capo elettricista di terza
classe, da Rovato, disperso
Giovanni Rolle, marinaio silurista, da
Candiolo, disperso
Rinaldo Rondinini, capitano del Genio Navale
(direttore di macchina), da Napoli, disperso
Enrico Salvini, secondo capo
radiotelegrafista, da Bibbiena, disperso
Giuseppe Smeraldi, sottocapo
radiotelegrafista, da Zimella, disperso
Mariano Soprani, marinaio cannoniere, da
Cerveteri, disperso
Bruno Vettorato, marinaio motorista, da
Monselice, disperso
Ettore Gabetta,
giunto nudo a bordo del Croome,
scrisse poi sull’atteggiamento dell’equipaggio britannico: “La gente
[cioè i marinai] ci tratta
cordialmente, gli ufficiali sono alteri e distanti”. Qualcuno cercò di rivolgergli
la parola in francese, ma lui non lo parlava.
Nel breve scontro con
il Baracca, il Croome aveva sparato undici colpi di tipo semiperforante (S.A.P., Semi armour-piercing) con i cannoni da
101 mm Mark XVI, oltre a numerosi colpi di mitragliera.
Il cacciatorpediniere
non uscì del tutto indenne dalla collisione; il direttore di macchina riferì al
comandante Hayes che i compartimenti prodieri, fino al magazzino centrale,
erano allagati, pertanto vennero sistemati dei puntelli per sostenere le paratie
lesionate. Anche il sonar era stato messo fuori uso. Considerati i danni ed il
fatto che la paratia prodiera “sana” era di costruzione piuttosto leggera, Hayes
giudicò che la sua nave, in quelle condizioni, non fosse in grado di
contribuire utilmente alla scorta del convoglio, e che piuttosto avrebbe
rischiato grosso in caso di maltempo. Pertanto, il Croome fece rotta verso Gibilterra alla velocità di otto nodi.
Sotto la direzione del direttore di macchina, l’equipaggio del
cacciatorpediniere riuscì a prosciugare il locale cavi, puntellò e turò le
falle nella paratia danneggiata, mentre le pompe riuscivano a mantenre il
livello degli allagamenti sotto controllo. Gradualmente, il Croome incrementò la sua velocità fino a
16 nodi.
I naufraghi del Baracca passarono la prima notte
dormendo sul pagliolato; il 9 settembre vennero portati in coperta, dove Ettore
Gabetta sentì distintamente i rumori delle pompe che lavoravano a pieno regime
per contenere gli allagamenti. Il 10 settembre il Croome passò all’altezza di Punta Tarifa; i prigionieri erano stati
di nuovo condotti sottocoperta, in un locale con gli oblò chiusi. Hayes
procedette all’interrogatorio dei prigionieri; dai naufraghi italiani il
comandante del Croome apprese il nome
del sommergibile affondato, nonché che questi si trovava in missione da una
settimana, alla ricerca di un convoglio, e che normalmente le missioni duravano
un mese. Seppe poi quali danni avevano causato al Baracca i suoi due attacchi con bombe di profondità.
Il Croome raggiunse il Gibilterra il 10
settembre, sbarcandovi i prigionieri; rimase poi in riparazione dal 12
settembre al 4 ottobre, quando poté riprendere la sua attività di scorta ai
convogli.
Per l’affondamento
del Baracca, il comandante Hayes del Croome venne insignito del Distinguished
Service Order; il sottotenente di vascello Anthony Herbert Lane Harvey, addetto
ai controlli antisom del Croome,
ricevette la Distinguished Service Cross, mentre i marinai William Brown (la
vedetta che aveva avvistato per prima il Baracca)
ed Alexander Skea (operatore antisom) furono decorati con la Distinguished
Service Medal.
Ettore Gabetta e gli
altri naufraghi del Baracca vennero
sbarcati a Gibilterra sotto la sorveglianza di un picchetto armato, poi condotti
nelle “detention barracks”, ancora in mutande e senza scarpe (Gabetta scrisse
che fu piuttosto fastidioso camminare a piedi nudi sul pietrisco). Per il primo
pranzo una volta a terra furono fatti mettere in fila, a piedi nudi, ricevendo
poi il pasto – cibo in scatola – in piatti di latta (Gabetta annota nei suoi
appunti quella che sembra una domanda rivolta in spagnolo dal cuciniere: “no le gusta la sopa?”), sorvegliati da
un sergente degli Highlanders. Gabetta venne poi sottoposto ad interrogatorio, sempre
in mutande, da parte di tali capitano di fregata Clark e tenente di vascello
Gallegos, dopo di che fu trasferito nella locale infermeria (altra annotazione
criptica: “pistola sul comodino punta ala
salto nel mare”), lato mediterraneo. Poté inviare una cartolina a casa.
Durante la loro
permanenza a Gibilterra, gli uomini del Baracca
poterono assistere al rientro della corazzata britannica Nelson gravemente danneggiata da un aerosilurante italiano, a fine
settembre; la notte stessa del loro arrivo avevano sentito delle esplosioni in
rada, che seppero essere state causate da un attacco di subacquei italiani: la
notte del 10 settembre, infatti, i siluri a lenta corsa della X Flottiglia MAS
avevano attaccato Gibilterra, affondando o danneggiando gravemente la grossa
motonave Durham e le navi cisterna Denbydale e Fiona Shell.
Il 2 ottobre gli
uomini del Baracca lasciarono
Gibilterra diretti nel Regno Unito; furono portati a Scapa Flow, poi ad
Edinburgo (altri appunti di Gabetta: “capitano
Scozzesi lucido – Indice vittoria – Mussolini bastard”) ed infine a Londra,
dove giunsero il 9 ottobre, venendo mandati in un campo per interrogatori. Qui
incontrarono anche altri prigionieri italiani: il capitano del Genio Navale
Renato Lisa del sommergibile Glauco,
affondato al largo di Gibilterra nel giugno precedente; un tenente di vascello
di Salice Terme; un capitano di artiglieria. (Ancora appunti criptici: “Microfoni isolamento. (…) Tenente di
Vascello interrogatorio Salice Terme poi ributtato fuori sentinella sempre
presente anche 00. Vestiti con bollo rosso. Capitano artiglieria campo golf
passeggiata. Cravatta.”) Ci furono allarmi aerei, bombardamenti notturni
della Luftwaffe; e proprio insieme a degli avieri della Luftwaffe, catturati
dai britannici dopo l’abbattimento dei loro aerei, i naufraghi del Baracca vennero trasferiti in un altro
campo provvisorio, da dove – dopo un iniziale rinvio del trasferimento – furono
poi condotti alla Victoria Station sotto la scorta armata di giganteschi
fucilieri dei Grenadier Guards, al comando di un giovane sottotenente tirato a
lucido.
Per i superstiti del Baracca iniziavano quattro lunghi anni
di prigionia. Un interessante spaccato di questo periodo è dato dalle lettere
del già citato guardiamarina Ettore Gabetta, da Voghera, pubblicate dalla
figlia Giovanna nel libro “Un poeta e due sommergibili”: da esse traspaiono la
monotonia della prigionia, la preoccupazione per i famigliari rimasti in
un’Italia sempre più sconvolta dalla guerra, lo sconcerto provato da un giovane
ufficiale nel seguire i rivolgimenti avvenuti in un Paese che, in quei pochi
anni, sarebbe radicalmente cambiato rispetto all’Italia che Ettore Gabetta
aveva lasciato nel 1941.
La sua prima lettera
alla famiglia da prigioniero, Ettore Gabetta la inviò il 13 ottobre 1941, oltre
un mese dopo l’affondamento del Baracca:
nella lettera Gabetta rassicurava sulle sue condizioni di salute e chiedeva
alla famiglia di inviargli un pacco con «il
mio vecchio pullover di lana bianca, un vecchio trattato di meccanica razionale
che sta nel mio stipetto dei libri, e le vostre fotografie sciolte, cioè non
montate su cartoncino», raccomandando di non metterci niente di valore, che
sarebbe potuto andare perso se il pacco si fosse perduto.
Il 28 ottobre Gabetta
ed i compagni giunsero nel campo di prigionia n. 13 di Swanwick, nel Derbyshire
(Inghilterra). Qui i prigionieri, italiani e tedeschi, erano alloggiati in una
residenza ottocentesca nota come Swanwick Hayes, usata in tempo di pace come
centro conferenze (ancora oggi è in uso come Hayes Conference Centre). Due giorni
dopo, il 30 ottobre, Gabetta scrisse una la prima lettera da Swanwick Hayes, in
cui raccomandava ai genitori di non preoccuparsi per lui, dato che al campo
poteva comprare tutto il necessario per sé; spiegava che i prigionieri potevano
scrivere a casa due lettere a settimana e che l’ente patrocinatore dei
prigionieri italiani era l’ambasciata del Brasile, Paese ancora neutrale che
aveva assunto la tutela dei prigionieri di guerra italiani, pertanto richieste
di informazioni od eventuali comunicazioni urgenti sarebbero dovute passare per
essa. Aggiungeva ancora: «Mi sto facendo
una preziosa esperienza che mi sarà molto utile in seguito: imparo a conoscere
gli Inglesi così come ho imparato a conoscere Francesi e Spagnoli e Tedeschi.
Un giorno potrò raccontare alle mie sorelline molte cose vere». In un’altra
lettera, scritta il 24 novembre, raccomandava alla madre di non spedirgli nulla
a parte fotografie, sia perché non gli occorreva nulla, potendo comprare tutto
ciò che gli serviva direttamente al campo, sia perché «avendo fatto più di un anno di guerra al traffico in oceano, so come
vanno a finire i pacchi». Tre giorni dopo, una lettera al padre Mario
(appena richiamato alle armi, come sottufficiale degli Alpini, a cinquantun
anni di età) si concludeva così: «Sento
la Vittoria sempre più vicina, e ne fa fede il sacrificio dei 28 miei compagni
di guerra che non torneranno. Il mio Comandante è contento di me, e questo mi
basta. Non mandatemi nulla: non vi preoccupate per me. Mandate piuttosto
qualcosa a chi combatte». Il 1° gennaio 1942, in un’altra lettera al padre,
Ettore Gabetta spiegava la sorte toccata a quasi metà dell’equipaggio del Baracca: «il Cap. del genio Rondinini ed il Cap. del Genio Marra, l’Asp. Pizzetti
ed altri 25 tra sottufficiali e comuni sono scomparsi, la maggior parte colpiti
da fuoco di mitragliera». Gli altri erano insieme a lui nel campo di
prigionia: tra di essi, nominati a più riprese in molte lettere a casa, i
sottotenenti di vascello Iginio Viti e Pier Donato Poli ed il sottotenente del
Genio Navale Antonio Ferrentino, i quali rimasero insieme a Gabetta per tutti i
successivi quattro anni di prigionia, venendo trasferiti insieme di campo in
campo. Questi tre ufficiali sono menzionati svariate volte nelle lettere a casa
di Gabetta: per esempio il 1° gennaio 1942: «Pierdonato Poli ha ricevuto posta dai suoi genitori e dai suoi zii di
Milano. So che siete in comunicazione con loro e con la famiglia Viti, e credo
che abbiate sufficienti notizie sul nostro conto»; o il 15 gennaio: «Ti mando il saluto di Ferrentino e di Poli
che avrai conosciuto attraverso i suoi zii di Milano»; od il 14 novembre
1941: «ora sto bene, ho un buon
termosifone che mi riscalda e la compagnia di qualche ottimo amico, come
Ferrentino, che mi aiutano a trascorrere queste lentissime ore di attesa» ed il
successivo 27 novembre: «Sto benissimo, ed è con me Ferrentino che ti
manda il suo saluto: se ti capita di vedere suo fratello in Alessandria digli
che lo saluta e sta benissimo anche lui». Tra
le famiglie di questi ufficiali, sparse in tutta Italia a grande distanza l’una
dall’altra (Gabetta era lombardo, Poli piemontese, Viti fiumano, Ferrentino
campano), sorse una specie di “legame” dato dalla comunanza della loro sorte:
siccome il funzionamento servizio postale tra l’Italia ed il campo di prigionia
era caratterizzato da forti differenze tra un individuo e l’altro (Poli e Viti,
da quanto traspare dalle lettere, ricevevano posta con maggiore frequenza e
minori ritardi rispetto a Gabetta), ciascuno degli ufficiali talvolta affidava
alla corrispondenza dell’altro domande e notizie indirizzate alla propria
famiglia, che i parenti del primo, ricevuta la lettera in Italia, avrebbero
cercato di far ricevere loro. Fu così che le loro famiglie finirono col fare
conoscenza reciproca, almeno per via postale, unite dal denominatore comune di
avere un figlio prigioniero in terre lontane. Il 3 maggio Gabetta scriveva in
una lettera alla madre: «Ti lascio
immaginare la mia gioia nell’apprendere che sei stata finalmente anche tu da papà,
ed anche che hai conosciuto la signora Viti e la sua bambina. Questo ha fatto
molto piacere anche a Viti stesso, che me ne ha parlato a lungo».
Nella corrispondenza
di Gabetta affioravano anche le prime lamentele sui continui ritardi nel
servizio postale tra i prigionieri in Inghilterra e le loro famiglie in Italia,
che sarebbero divenute una costante nelle lettere degli anni a venire («Di posta, neppure l’ombra; ma mi ci vado
abituando e, pur non ricevendo vostre nuove, mi sento fiducioso e tranquillo,
non so perché»). Il 15 gennaio 1942 Ettore Gabetta scriveva: «Qui fa piuttosto freddo, ma lo stipendio che
ho mi ha permesso di premunirmi in tempo e largamente. (…) Ti chiedo scusa di
queste lettere brevi e sconclusionate: ma sono proprio a corto di argomenti.
Cosa d’altra parte abbastanza giustificata in un prigioniero. Il morale è
sempre altissimo». Il 23 gennaio, in una lettera alla madre, rassicurazioni
sulla propria situazione, ed un’esortazione: «Ti prego vivamente di non spedire pacchi: ti ripeto che ho il mio
stipendio, che posso comperare quel che mi serve, che non manco affatto di
indumenti, che sto benissimo di salute e col morale. (…) E se proprio vuoi
mandare qualche pacco, mandalo a qualche combattente della Libia, o a qualche
sommergibilista d’Atlantico, o in Russia a Pierino [amico di Ettore
Gabetta, al fronte in Russia]. Sarà come
se l’avessi mandato a me». Intanto Gabetta approfittava del tempo “morto”
trascorso al campo per imparare l’inglese ed un po’ di tedesco, come riferiva
in una lettera del 16 marzo 1942; forse riferendosi ai travolgenti successi
giapponesi di quel periodo – che avevano visto le truppe del Sol Levante
conquistare in pochi mesi Singapore, la Malesia, le Indie Olandesi ed avanzare
speditamente nelle Filippine, sconfiggendo a più riprese le truppe britanniche,
statunitensi, australiane ed olandesi – concludeva in proposito: «Ma ora penso che sarebbe quasi utile
imparare il giapponese: il mondo diventa sempre più piccolo».
Il 6 maggio 1942,
Ettore Gabetta ed i compagni del Baracca
vennero trasferiti da Swanwick Hayes ad un altro campo di prigionia, il campo
n. 4 di Ferryhill, nella contea di Durham. Anche questo campo “ospitava”
prigionieri sia italiani che tedeschi. In una lettera alla madre del 18 maggio,
Gabetta ironizzava su questo trasferimento: «ho cambiato ora residenza: capirai, a lungo andare ci si stanca degli
stessi luoghi, ed è bene variare». Nella medesima lettera il giovane
ufficiale descriveva il nuovo campo, e l’interminabile attesa dei pacchi da
casa che non arrivavano mai: «Questa che
ora abito è una grande villa, copiosa di reticolati alle finestre ed attorno
alle mura, fra alberi accoglienti i nidi dei corvi, in una grande campagna
collinosa e quieta. La giornata passa anche qui abbastanza veloce: attendo i
soliti libri ordinati da mesi e mesi e che non arrivano mai, per i quali ti si
risponde sempre: “tomorrow, tomorrow”, che significa: domani, domani. E’ un
domani che si aspetta da quasi trenta settimane. Ma pure il domani verrà. Ed
allora dovrò riderne!». Il 28 maggio, in una lettera al padre, Gabetta
lamentava che nel nuovo campo il servizio postale era diventato ancora più
lento; accennando poi al sommergibile Barbarigo,
che aveva rivendicato (falsamente, ma questo ovviamente Gabetta non lo poteva
sapere) l’affondamento di una corazzata americana, scriveva: «Hai sentito che ha fatto il Barbarigo? Non
credo di essere immodesto se dico che anche noi qui rinchiusi, e più ancora
coloro che qui non sono giunti, abbiamo un poco contribuito al raggiungimento di
questi risultati», per poi concludere «Anche
Viti e Poli mi incaricano di salutarti; essi come me stanno benissimo: una
salute a tutta prova e una buona dose di allegria non mancano mai. Il numero
dei miei compagni non è aumentato, dopo il mio arrivo: questo è sintomatico».
Dopo neanche due mesi
passati a Ferryhill, Gabetta e compagni vennero trasferiti ancora: questa volta
in Scozia, nel campo n. 12 di Edimburgo, situato negli edifici della
Donaldson’s School, un’istituzione educativa rivolta all’istruzione di allievi
sordi o con problemi comunicativi (il periodo della guerra rappresenta infatti
l’unico lasso di tempo in cui la Donaldson’s School venne adibita ad un uso
diverso a quello solito, nei suoi centocinquanta e più anni di storia). Questo
nuovo trasferimento venne annunciato alla famiglia Gabetta da una lettera del
26 giugno: «Come vedi dalla variazione di
indirizzo, ho cambiato nuovamente campo. Nulla di strano e di eccezionale: sono
ancora più a Nord, ma sempre assieme a tutti i miei compagni. Ho ricevuto
giorni fa un tuo pacco contenente effetti di vestiario e dolciumi, vi ho
trovato gli aghi ed il filo, ti ringrazio. (…) Qui sono sistemato come di consueto: è un palazzone tetro come si usano
qui, non abbiamo a disposizione la radio e pochissimi giornali. Ma questo non
conta nulla: la guerra cammina, e tutto funziona secondo il previsto». In
una cartolina del 25 luglio 1942, Gabetta rassicurava ancora una volta sulle
sue condizioni, ma si lamentava di sfuggita circa la situazione del vestiario:
«sono vestito come un pagliaccio».
Situazione che venne risolta solo tre mesi più tardi, come attesta una lettera
del 21 ottobre 1942: «…dopo circa un anno di richieste, mi è stata
finalmente consegnata una divisa. Non ho bisogno che tu mi invii i galloni od
altro: sono riuscito qui a sistemare il tutto abbastanza bene, avendo messo
insieme anche un trofeo ed un gallone per il berretto. Poiché tu devi sapere
che ornai sono diventato una ottima massaia. Ho fatto progressi grandiosi nel
lavare la biancheria: conosco gran parte dei segreti dell’ago e della forbice,
so farmi il letto come non credo che altri riuscirebbe a sistemarlo, mi
costruisco abiti ed arrivo anche a stirarli con una specie di macchina
infernale che mi sono allestito coi mezzi di bordo. Tutto funziona, come vedi.
La salute è come sempre ottima e nonostante il parere contrario degli avversari
il morale è carburatissimo (…) Come di consueto Poli mi dà spesso notizie, così
come Viti e Ferrentino, che non hanno mai cessato di essere per me degli ottimi
compagni. Non c’è che da aspettare, mamma. Il tempo non sarà certo breve: ma
ogni sacrificio avrà come premio la gioia più grande».
Intanto Gabetta aveva
fatto conoscenza con altri ufficiali italiani prigionieri: Antonio Metallo, da
Salerno, sottotenente di vascello osservatore sugli aerei, catturato nel luglio
1941 dopo l’abbattimento in mare del suo ricognitore; “Melosci”, menzionato in
alcune lettere, probabilmente il tenente del Genio Navale Giovanni Melosci, da
Acquaviva delle Fonti, direttore di macchina del sommergibile Cobalto affondato durante la battaglia
di Mezzo Agosto del 1942.
Durante il periodo di
prigionia, alcuni uomini del Baracca
parteciparono ad un tentativo di fuga da parte di un gruppetto di prigionieri,
che scavarono un tunnel per evadere dal campo; ma i fuggiaschi furono presto ricatturati,
e ne venne deciso il trasferimento oltreoceano, negli Stati Uniti.
Anche Ettore Gabetta
ed i suoi compagni vennero trasferiti in America: a fine novembre vennero
imbarcati a Greenock su una nave diretta ad Halifax, in Canada, dove giunsero
il 9 dicembre. Da qui, in tre giorni, raggiunsero la loro destinazione: il
campo di prigionia 4-H di Crossville, nel Tennessee (Stati Uniti). Questo campo
era stato realizzato a partire dal giugno 1942 per ospitare prigionieri
italiani e tedeschi trasferiti in America dal Regno Unito: le autorità
britanniche, stanti le difficili condizioni del Regno Unito in quel periodo,
avevano difficoltà a mantenere il gran numero di prigionieri sparsi nei campi
delle Isole Britanniche, ed avevano così deciso di trasferirne una parte ai
loro ben più opulenti alleati d’oltreoceano. A Crossville furono “ospitati”
circa 1500 prigionieri, in gran parte ufficiali; curiosamente, presso la gente
del posto il campo di prigionia divenne noto come “Jap Camp” (campo
giapponese), benché non un solo prigioniero nipponico vi sia mai passato
durante l’intero conflitto. Il campo era situato a qualche miglio dal paesino
di Crossville ed era delimitato da due recinti di filo spinato alti 3,6 metri,
con torrette di guardia lungo il perimetro esterno; all’interno del campo si
trovavano l’ufficio del comandante dei prigionieri, un ospedale, le baracche
che ospitavano i prigionieri e la loro mensa. All’esterno erano invece il corpo
di guardia, l’ufficio del comandante del campo, gli alloggi del personale
statunitense, uffici amministrativi, una palestra con annesso auditorio ed una
caserma dei pompieri. L’interno del campo era a sua volta suddiviso in quattro
zone, riservate rispettivamente agli ufficiali italiani, agli ufficiali
tedeschi, ai sottufficiali e soldati italiani ed ai sottufficiali e soldati
tedeschi. Italo-tedeschi e statunitensi vivevano in sostanza in due mondi a
parte: erano i prigionieri stessi ad autogestire il campo, mentre il personale
statunitense vi entrava soltanto per compiere ispezioni e per altre formalità,
o se si verificavano problemi gravi, ed almeno in teoria era vietato alle
guardie di conversare con i prigionieri. Il campo era in originariamente privo
di verde, ma i prigionieri stessi piantarono qua e là fiori, piante e cespugli
per abbellirlo. Le baracche erano abbastanza comode; ciascuna Baracca era suddivisa in stanze da letto
di tre metri per tre, ciascuna delle quali ospitava due prigionieri, ed ogni
due stanze da letto c’era un’area comune provvista di armadi, stufa, tavolo e
sedie. C’era anche del legname con cui i prigionieri potevano costruire da sé,
se lo desideravano, ulteriore mobilio.
La giornata dei
prigionieri iniziava poco prima delle otto del mattino, quando c’era la
sveglia; la colazione era seguita dall’appello, dopo di che i prigionieri che
avevano accettato di lavorare venivano avviati al lavoro, mentre quelli che
avevano rifiutato potevano passare il loro tempo come meglio credevano fino
all’ora di pranzo. Alle cinque del pomeriggio si faceva un altro appello, “il
principale evento della giornata”, in cui i prigionieri erano contati anche più
di una volta; poi si riprendevano le normali attività, fino alle dieci di sera,
quando venivano chiusi i cancelli dei diversi settori del campo. Nondimeno,
all’interno di ciascun settore non vigeva un coprifuoco. Tutti i sottufficiali
e soldati prigionieri ricevano dieci centesimi al giorno per provvedere alle
loro necessità; coloro che accettavano di lavorare ne ricevevano ottanta. Molto
maggiore era la “paga” fornita agli ufficiali, che variava da 20 a 40 dollari
in base al grado. Per chi accettava di lavorare, i lavori all’interno del campo
consistevano in attività di costruzione e manutenzione, nonché servizi per gli
altri prigionieri (barbieri, cuochi, addetti alle pulizie); molti prigionieri
venivano invece distaccati per lavorare al di fuori del campo, presso privati,
specialmente in lavori agricoli nelle fattorie della zona.
I primi prigionieri
italo-tedeschi arrivarono a Camp Crossville nel novembre 1942: quello di Ettore
Gabetta fu uno dei primissimi gruppi, se non il primo. La prima lettera di
Gabetta alla famiglia dopo l’arrivo negli Stati Uniti risale al 17 dicembre
1942: «Di salute sto benissimo, mamma,
come sempre; e tanto più ora che mi trovo in un clima assai più analogo a
quello della mia bella Italia, e così diverso quindi da quello tristissimo del
malaugurato paese nel quale fui costretto a vivere un anno intero». Il 28
dicembre, in una lettera al padre, Gabetta spiegava di poter inviare due
lettere alla settimana, precisando: «Non credere
ch’io lasci questi larghi margini che vedi a lato per pigrizia nello scrivere:
è soltanto perché tali sono le prescrizioni del regolamento americano». Come
già nella lettera precedente, esprimeva il suo apprezzamento per il clima del
Tennessee rispetto a quello del Regno Unito: « Qui abbiamo un clima molto migliore di quello inglese, per quanto
finora sia stato assai piovoso; e tutto ciò è molto bene per noi». Tre
giorni dopo, mentre il 1942 volgeva al termine, Gabetta scriveva: «A pensarci bene, non so neppur’io spiegarmi
come mai mi trovi qui in terra di Colombo pur essendo stato catturato dagli
inglesi, in un combattimento con gli inglesi, prima ancora che gli Stati Uniti
entrassero in guerra. Si vede che così si usa in terra cosiddetta di libertà».
Il 7 gennaio 1943, in una lettera al padre, informava: «ancora una volta il mio indirizzo ha subito una variazione, stavolta
assai leggera però: invece delle lettere P.o.W. si devono scrivere le altre
I.S.N. che significano Internment Serial Number». Cinque giorni dopo, in
una lettera alla madre, Gabetta ribadiva la notizia di questo cambiamento,
aggiungendo: «…non si tratta che di una variazione di tipo
burocratico e scartoffiaio. La mia vita è sempre uguale, col solito contorno
rinforzato di reticolati e sentinelle. Attendo sempre di ricevere un poco di
posta, per quanto la speranza che ciò si avveri sia assai tenue; e vorrei che
almeno tu potessi ricevere la mia. In questi ultimi mesi ho perduto
completamente ogni collegamento con la Patria. Un tempo almeno sentivo con una
certa frequenza la radio italiana, il nostro bollettino: ora vivo in un mondo
dove la guerra sembra troppo lontana, dove si tengono le luci accese ma dove mi
pare di essere più al buio di prima (…) Sono in baracca con Ferrentino; e tutti
gli altri sono sempre con me».
Il 25 gennaio era ribadita l’obiezione fatta neanche un mese prima: «Non ho mai capito come mai io sia capitato
in America, visto che il giorno in cui ho sparato i miei ultimi colpi di
cannone la America stessa era ancora ben lontana dal dichiararci guerra».
Il 1° febbraio 1943 i
prigionieri italiani di Camp Crossville ricevettero la visita del vescovo
cattolico di Nashville, che così Ettore Gabetta descriveva in una lettera a
casa del giorno seguente: «…una bella
figura di uomo dai capelli bianchi, dall’aspetto sereno. Ci ha rivolto la
parola in Americano, e grosso modo ho potuto capire il significato di quel che
disse; anche perché parlava con una certa velocità. Ci ha raccomandato di
essere pazienti, di aspettare con fiducia il ritorno alle nostre case, di
adempiere ai nostri doveri. Ci ha detto di aver avuto l’impressione di essere
davanti a degli uomini duri, e che il Santo Padre sarà contento di noi. Ci ha
benedetti. Mi ha fatto piacere vedere questo vecchio sereno, e sentirne il tono
calmo della voce, anche se parlava in una lingua diversa; e mi ha fatto piacere
perché in sedici mesi di prigionia è la prima volta che una autorità ecclesiastica
si interessa direttamente di noi e dei nostri uomini».
Pochi giorni dopo,
giunse al campo un gruppo di generali italiani catturati in Africa e trasferiti
negli Stati Uniti dall’India, dov’erano stati inizialmente imprigionati. Era
tra di essi uno dei più famosi generali del Regio Esercito ad essere caduti in
mano nemica: Annibale Bergonzoli, “barba elettrica” (così chiamato appunto per
via della sua caratteristica barba brizzolata), veterano di tutte le guerre
italiane dal 1911 al 1940, catturato dai britannici in Libia nel febbraio 1941
dopo la battaglia di Beda Fomm. Un parente del generale viveva proprio a
Voghera, dov’era primario presso il locale ospedale psichiatrico; la famiglia
Gabetta abitava proprio nella villetta accanto, e nella lettera a casa dell’8
febbraio 1943 Ettore scriveva di portare al dottor Bergonzoli il saluto di
“barba elettrica”. Ettore Gabetta fece presto amicizia con il generale
Bergonzoli, del quale nella lettera dell’8 febbraio scriveva «è un uomo meraviglioso» ed in un’altra
scritta quattro giorni dopo «Abbiamo
parlato a lungo del nostro paese, di Salice, della famiglia Diana, di tante
cose. (…) egli è sempre quel
meraviglioso soldato, tale e quale abbiamo imparato a conoscerlo». Il 12
marzo, Gabetta raccontava: «quasi ogni
giorno ascolto le parole dell’Eccellenza Bergonzoli, che viene nella nostra Baracca,
e racconta cose addirittura preziose perché vengono dalla sua stessa
esperienza, che è l’esperienza di un uomo d’eccezione»; e quattro giorni
dopo: «Parlo spessissimo con S.E.
Bergonzoli ed imparo moltissime cose, di utilità estrema sotto tutti i punti di
vista; forse ti racconterò un giorno». Ancora il 25 maggio 1943: «Spessissimo ascolto gli insegnamenti del
Generale Bergonzoli: tu puoi pensare quanto mi siano utili».
Continuavano, ed anzi
peggioravano, i problemi relativi alla posta: le prime lettere dal suo arrivo
in America, Gabetta le ricevette soltanto l’11 febbraio 1943, due mesi dopo il
suo arrivo a Camp Crossville, e quattro mesi dopo il loro invio dall’Italia
(risalivano a fine ottobre 1942; erano passate per Lisbona e per
l’Inghilterra). A marzo arrivarono le lettere di novembre; rispondendo ad una
di esse (spedita dalla madre), il 2 marzo 1943 Gabetta scriveva: «Qui non ho affatto bisogno di pelliccia e
vestiario invernale, perché il clima è più o meno lo stesso del nostro: non ti
preoccupare quindi per tutti i pacchi che non mi sono arrivati: soltanto io ti
prego di non spedirmene più, all’infuori di quei libri di tedesco che papà già
mi scrisse di aver procurato. Anche tutto ciò che tu mi scrivi indica che a
casa tutto va bene, bombardamenti a parte: sono però sicuro che i detti idioti
bombardamenti lasceranno imperturbabile il popolo nostro tutto». Qualche
giorno dopo, arrivò anche una lettera dal padre risalente al 10 dicembre, col
quale questi annunciava di aver spedito, come richiesto, alcuni libri di
tedesco che Gabetta intendeva utilizzare per studiare quella lingua («…ora attendo di vedere se il pacco è andato
ai pesci o se giungerà fino al Tennessee»). La situazione “postale”
sembrava però differire da individuo a individuo: alcuni compagni di prigionia
di Gabetta ricevettero, sempre nel mese di marzo, anche della corrispondenza da
casa risalente “soltanto” a gennaio, arrivata direttamente dall’Italia. Solo il
13 luglio 1943 sarebbe giunta una comunicazione ufficiale della Croce Rossa a
spiegare il perché di tanto ritardo. Una lettera del 2 febbraio giunse a
Gabetta il 20 luglio, dopo due mesi e mezzo trascorsi senza che arrivasse una sola
missiva; il 19 agosto, “per rendere il
servizio postale più agevole”, la corrispondenza dei prigionieri venne
modificata da due lettere a settimana ad una lettera ed una cartolina a
settimana.
Dopo Annibale
Bergonzoli, a metà marzo 1943 giunse a Camp Crossville un’altra “celebrità”
italiana: il maggiore dell’Aeronautica Carlo Emanuele Buscaglia, uno dei più
famosi piloti di aerosiluranti italiani, abbattuto con il suo aereo sopra
Bougie (Algeria) il 12 novembre precedente, durante un attacco contro il
naviglio angloamericano in quella rada. In Italia Buscaglia era stato creduto
morto in quell’azione (come notato dallo stesso Gabetta), tanto da essere stato
decorato alla memoria; in realtà, benché gravemente ustionato dalla benzina in
fiamme del suo S.M. 79, era stato recuperato dal mare da un’unità britannica,
unico superstite dell’equipaggio del suo aereo. Dopo le cure per le sue gravi
ferite, era stato mandato in prigionia negli Stati Uniti. Anche di lui Gabetta
scriveva a casa: «è un uomo straordinario».
Il 5 aprile 1943
Gabetta ricevette finalmente i libri di tedesco mandatigli dall’Italia sei mesi
prima, che ormai riteneva essere finiti in fondo all’oceano, mentre continuava
a non ricevere lettere più recenti di quelle inviate a metà dicembre. In una
lettera alla madre spedita in quella data scriveva: «…i
mesi dello scorso inverno credo che siano stati per voi i più difficili della
guerra. Sono però anche certo che abbiate superato con fiducia tutte le
difficoltà come ne supererete in avvenire qualunque altra che dovesse sorgere
sul cammino dell’Italia. La mia salute è sempre ottima: qui abbiamo un clima
variabile con notevoli sbalzi di temperatura, come lo sono tutti i climi
continentali; comunque sempre assai migliore di quello umido dell’Inghilterra.
Anche il vitto, in confronto a quello d’Inghilterra, è più abbondante e vario». Il tempo, al campo, Gabetta lo passava
studiando e lavorando: il 18 maggio scriveva a casa che «In questo periodo mi sto occupando un poco della vita del campo a
vantaggio dei miei compagni, che sono cresciuti molto. Lavoro, mi stanco, e
questo è per me un gran risultato, che mi permette di dormire la notte come da
tempo non facevo»; il 25 maggio, che «Passo
la mia giornata cercando di lavorare e di studiare il più possibile». Il 22
giugno scriveva di una partita di calcio disputata due giorni prima tra due
squadre di prigionieri, l’una di marinai italiani (tra cui anche uomini del Baracca) e l’altra di soldati tedeschi.
Il pubblico era rimasto diviso da un reticolato, italiani da una parte, tedeschi
dall’altra.
Al contempo, Gabetta seguiva
l’andamento della guerra per l’Italia: sempre nella lettera del 25 maggio,
scriveva anche che «La Fede qui è
diventata sempre più sicura: eppure le cose in questo periodo non ci sono
favorevoli; eppure l’America sta scagliando la sua produzione contro l’Italia.
Ma noi qui siamo certi che l’Italia starà ferma e immobile al suo posto. Più
che mai sono sicuro che per la Patria, resistere significa vincere». Come
non pochi prigionieri, la sua lunga assenza dall’Italia gli impediva di
comprendere lo stato in cui versava il Paese dopo tre anni di guerra, mesi di
bombardamenti sempre più intensi e le decisive sconfitte in Nordafrica (la resa
finale in Tunisia risaliva a neanche due settimane prima) e Russia: per l’Italia
del maggio 1943, la vittoria non era neanche più una lontana speranza, e molti
si auguravano soltanto che la guerra finisse il prima possibile, comunque
andasse. Per un giovane ufficiale educato, come tanti, agli ideali
patriottico-nazionalisti del regime fascista, ciò appariva impensabile: Gabetta
e i suoi compagni non avevano assistito alla “metamorfosi” verificatasi in
Italia in quei pochi anni di loro lontananza. Sintomatico che a quell’epoca,
ormai, si credesse nella vittoria più tra i combattenti prigionieri e lontani
dall’Italia da troppo tempo per comprendere cosa vi stesse accadendo, che non
tra chi in Italia si trovava e poteva assisterne al lento sfacelo. Il 29
giugno, partiva da Gabetta una durissima invettiva contro gli americani: «Ho imparato ad odiare tutti, e me lo hanno
insegnato i nostri nemici. Pensa che all’inizio della guerra credevo ancora
alla parola “avversario”! e’ stato un mio gravissimo errore. Ora so che cosa
significa odio; e spero che tutti gli Italiani lo abbiano imparato; e spero che
chi non lo ha ancora imparato abbia la sua razione di piombo». Forse tanta
collera derivava dall’atteggiamento sprezzante sovente tenuto dagli
anglosassoni nei confronti degli italiani, derisi e denigrati dalla propaganda
bellica angloamericana – che non perdeva occasione di presentarli come codardi
e incapaci – ed all’epoca ancora vittima di forti pregiudizi a sfondo razziale
negli stessi Stati Uniti. Il 9 luglio, alla vigilia dello sbarco in Sicilia,
Gabetta scriveva ancora a casa: «e
soltanto il mio pensiero accarezza la certezza che l’Italia resisterà
all’attacco potente che le forze dell’America e dell’Inghilterra le stanno
facendo. Non importa che noi viviamo per anni mutilati della nostra libertà,
completamente separati dal mondo, e questo solo per aver fatto il nostro
dovere: non importa, ma importa solo che l’Italia vinca». Quattro giorni
dopo, a sbarco avvenuto: «Stiamo
attraversando i momenti più difficili della nostra storia e la mia preghiera
continua, e la mia Fede, non sono rivolte che ad una invocazione: che il popolo
d’Italia resista, perché l’Italia possa essere salva e gloriosa». La
notizia della caduta del regime fascista, il 25 luglio, fu accolta con lo
sconcerto di chi non capiva come si potesse “pensare a cambi di governo ed a fesserie innumerevoli” mentre
l’Italia veniva invasa: come attesta un’altra durissima lettera a casa,
risalente al 3 agosto 1943: «Sono
completamente sconcertato per quello che sta succedendo in Italia. Mi sembra
una cosa enorme che si debba pensare a cambi di governo ed a fesserie
innumerevoli proprio nel momento in cui il nemico è in casa: un nemico che ci
odia fino ai vertici più alti che l’odio possa raggiungere, che ci disprezza
come si disprezza l’essere più abbietto. Perché non si capisce, in Italia, che
non c’è altro da fare che combattere, perché sulla nostra terra non si deve
tollerare nessuno? Forse tu mi conosci abbastanza, papà: ebbene, io ti assicuro
che la mia rabbia raggiunge talvolta il delirio». In chiusura della
lettera, Gabetta arrivava persino a dire che avrebbe desiderato morire insieme
agli uomini affondati con il Baracca,
piuttosto che «assistere così ad uno
spettacolo desolante e profondamente doloroso». Il 13 agosto il giovane ufficiale si dichiarava ancora “letteralmente sbalordito” dal “cambiamento avvenuto in Italia”, ed il
21 agosto, caduta definitivamente la Sicilia, scriveva: «Durante
questi giorni sono molto triste: non vedo l’Italia reagire; il nemico non mi fa
paura; ma mi fanno paura gli Italiani. Ci aiutino i nostri morti, e diano ai
vivi la forza di combattere ancora».
Pochi giorni dopo,
tra il 26 ed il 27 agosto, Ettore Gabetta subì ancora una volta un
trasferimento in un nuovo campo di prigionia: stavolta venne mandato nel campo
di Monticello, in Arkansas. Il campo di Monticello è noto tra l’altro per aver
ospitato tutti i prigionieri italiani di grado più elevato tra quelli finiti
negli Stati Uniti: tra gli altri, insieme a Gabetta ed ai suoi soliti compagni
del Baracca, vennero trasferiti da
Crossville a Monticello il generale Bergonzoli ed il maggiore Buscaglia.
Nell’agosto 1943 tutti i prigionieri italiani di Camp Crossville lasciarono il
campo: si era infatti deciso di trasformare Crossville in un campo per soli
prigionieri tedeschi, e di conseguenza era stato disposto il trasferimento di
tutti gli italiani. Il campo di Monticello giunse ad “ospitare” fino ad un
massimo di 3800 prigionieri italiani, e 1500 militari statunitensi. Il
trattamento dei prigionieri a Monticello è stato descritto come “rigido, ma
corretto” da alcuni reduci; il problema principale era piuttosto il clima
caldo-umido della zona. Il vitto era abbondante (non pochi prigionieri, qui
come in altri campi statunitensi, tornarono in Italia ingrassati, a differenza
di tanti loro commilitoni imprigionati da tedeschi, russi, francesi od anche in
diversi campi britannici, che erano deperiti al tempo del loro rimpatrio), i
prigionieri avevano realizzato una cappella con statua della Madonna per le
funzioni religiose, le “comodità” erano più o meno le stesse che a Crossville.
Anche qui, chi accettava di lavorare era solitamente assegnato a squadre di
lavoro che operavano fuori dal campo, soprattutto a tagliare la legna nei
boschi della zona.
Non si viveva male, a
Camp Monticello; ma Ettore Gabetta, quando vi giunse, aveva altro per la testa
che la comodità o meno della sua nuova sistemazione. Pochi giorni dopo giunse
l’8 settembre 1943: l’armistizio tra l’Italia e gli Alleati, l’occupazione
tedesca di quasi tutto il Paese, trasformato in campo di battaglia per eserciti
stranieri contrapposti. Nella sua prima lettera scritta da Monticello, il 28
settembre 1943 (un mese dopo il suo arrivo in questo campo), Gabetta scriveva a
casa un’altra lettera carica di amarezza e preoccupazione: «conclusione logica di tutte le disgrazie
accadute, sarà che la nostra posta non potrà più esservi recapitata e dovrete
rimanere senza notizie, così come ne rimango io già da tempo. (…) La mancanza
di notizie dirette, la lontananza della Patria, la situazione creatasi ed in
continua evoluzione, la disparità e la continua incongruenza delle fonti di
informazioni di quaggiù, hanno creato in me uno stato di profonda inquietudine
che ogni giorno aumenta. Non so cosa pensare della mamma e delle sorelle: non
so cosa pensare di te. Avete da mangiare? E’ la vostra vita tutelata da una
autorità? Quali pericoli correte? Questi sono gli interrogativi che sempre mi
trovo per la mente. E’ questo il premio per chi ha fatto il proprio dovere».
Tutto il periodo post-armistiziale è definito da Gabetta, nella versione “di
bella” dei suoi appunti di guerra, con due parole: “Gran Bailamme”.
Il 12 ottobre 1943 in
una lettera alla madre egli scriveva ancora: «è molto difficile per me riuscire ad immaginare quale sia la vostra
vita in questi giorni: mi voglio augurare però che sia rimasta il più possibile
vicina alla normalità »; il 3 novembre informava «Sono sempre chiuso coi miei vecchi compagni e nulla è cambiato della
nostra vita di prigionieri». Il 28 aprile 1944: «Cara mamma, tutto continua a svolgersi in modo monotono ed uguale nella
mia vita di prigioniero. La mia salute è sempre ottima e nulla è cambiato, se
non l’affollarsi dei pensieri nel cervello stanco e ormai da troppo tempo
rimasto senza il conforto delle vostre care lettere, di cui le più recenti risalgono
all’Agosto dello scorso anno. Solo Poli da qualche settimana riceve posta dai
suoi genitori, i quali stanno bene in salute ma non hanno notizie danessuno di
voi e sono quindi preoccupati. (…) Tu comprendi che non mi è possibile
mantenere un tono spigliato, se non allegro, in queste mie lettere: troppe cose
ho vedute, troppa gente, ed i capelli, come mi dicono i compagni, mi stanno
diventando grigi. Ma mi auguro un giorno di potermi ancora sedere con te e papà
e le sorelline attorno a quella piccola tavola che non dimentico mai, e lì
veder di fare rimarginare le ferite che abbiamo nel cuore». Il 19 maggio: «I miei vecchi compagni sono sempre con me; e
di essi Poli riceve adesso posta con una certa regolarità: i suoi stanno bene
di salute, ma non sanno nulla di tutti voi. Qui siamo ormai in piena estate e
non facciamo altro che pigliare il sole ed attendere che il destino ci permetta
di riabbracciarvi. Sai, il sole non ha difficoltà a superare i reticolati e non
soffre razionamenti». Il 15 giugno 1944: «la posta non arriva, le notizie sulla vostra vita risalgono ormai allo
scorso agosto, la mia vita si svolge ormai da tre anni uguale e monotona e ben
guardata dal filo spinato e dalle mitragliatrici. Poli e Ferrentino stanno
ricevendo qualche lettera recente: lettere monotone ed uguali, come queste che
io scrivo a te. Nell’immenso dolore che domina i nostri cuori non c’è posto per
le parole, in questi interminabili giorni in cui tutto il nostro paese viene
sistematicamente distrutto con tutti i metodi che la scienza sa mettere a
disposizione dell’uomo quando si tratta di fare del male». Il tempo
trascorreva nell’assoluta mancanza di notizie da casa: dal luglio 1943 in poi,
Gabetta non aveva più ricevuto una singola lettera dall’Italia, come scriveva in
una lettera alla madre il 28 luglio 1944 (Poli e Ferrentino, invece, ricevevano
lettere abbastanza recenti dalle loro famiglie).
A Camp Monticello
come in ogni altro campo contenente prigionieri italiani, dopo l’8 settembre,
questi ultimi erano stati posti di fronte ad una scelta: dichiararsi fedeli a
Vittorio Emanuele III o a Benito Mussolini, al Regno del Sud co-belligerante
con gli Alleati od alla Repubblica Sociale Italiana alleata con la Germania;
cooperare con gli Alleati o dichiararsi “non cooperanti”; venire meno al
giuramento prestato al re o venir meno all’alleanza con la Germania. Negli
Stati Uniti, coloro che scelsero il re, gli Alleati e la cooperazione – la
maggioranza – poterono scegliere di lavorare nelle “Italian Service Units”,
fruendo di maggiori libertà (pur essendo ancora prigionieri di guerra) e
migliore trattamento (a Monticello, come in molte altre località, i
“cooperanti” delle I.S.U. potevano girare abbastanza liberamente nel vicino
abitato, intrattenendo anche rapporti amichevoli con la popolazione locale); ai
“non cooperanti” venne riservato un trattamento spesso punitivo, con
inasprimento delle condizioni di prigionia.
Ettore Gabetta, come
altri giovani ufficiali, era stato riluttante dinanzi alla prospettiva di
accettare di “cooperare” con gli ex nemici statunitensi; fu proprio il generale
Bergonzoli a convincere lui ed i compagni a dichiararsi “cooperanti”: “Voi siete giovani, dovete pensare al vostro
futuro”. Da parte sua, invece, il vecchio generale rifiutò ogni forma di
collaborazione; venne trattato come un pazzo dai suoi carcerieri (o forse
impazzì per davvero, non è chiaro) e da Camp Monticello venne trasferito in un
ospedale in Oklahoma, dove avrebbe tentato il suicidio. Dopo il tentato
suicidio, fu internato nel reparto psichiatrico dell’ospedale di Long Island,
dove rimase fino al marzo 1946, quando venne rimpatriato. Il maggiore Buscaglia
fu invece tra quanti scelsero di cooperare, e ritornò in Italia per arruolarsi
nell’Aeronautica cobelligerante con gli Alleati: trovò la morte il 24 agosto
1944 in circostanze controverse, in un incidente aereo.
Quanto ad Ettore
Gabetta, lasciò Camp Monticello il 25 agosto 1944 per l’ennesimo trasferimento
di campo: da Monticello fu portato a Little Rock (Arkansas), poi a Dallas
(Texas), attraversò le pianure del Texas, passò per El Paso (Texas) e Yuma
(Arizona) ed il 28 agosto raggiunse la sua destinazione, il campo di prigionia
di Imperial Dam (vicino a Yuma), in Arizona. Qui rimase qualche mese, fino al
novembre 1944; poi venne nuovamente trasferito, passando per El Centro
(California), Seeley (California), Ajo (Arizona), il Lago Salton (California,
18 novembre 1944), Indio (California), Riverside (California), Los Angeles
(dove in un appunto menzionava il Figueroa Hotel), Pasadena (California), San
Bernardino (California). Il Natale del 1944 è riassunto da un breve appunto: «Natale 1944 Serg. Farmer nel bagagliaio
wiskey».
E così giunse la fine
della guerra, almeno in Europa. Il 23 maggio 1945, quando il conflitto che
aveva devastato il Vecchio Continente era terminato da qualche settimana,
Gabetta venne improvvisamente imprigionato di nuovo per un breve periodo; anche
questo episodio venne da lui riassunto in una annotazione – “improvviso imprigionamento soliti metodi.
Maserati è venuto a salutare eludendo la sorveglianza – chissà con quali
ostacoli, ed ha pianto”.
Il 29 maggio 1945
Gabetta scrisse alla madre una nuova lettera con cui lamentava la mancanza di
notizie su quanto stesse accadendo in Italia, ed il disinteresse delle autorità
nei confronti dei prigionieri: «ho
ricevuto vostre notizie del gennaio corrente anno, e ne sono stato contento. In
questi giorni però è assai difficile farsi una idea di quale possa essere la
vostra vita, perché i giornali non parlano dell’Italia che molto di rado, e
comunque senza dareparticolari della vita in special modo del Nord. (…) La mia
vita qui continua uguale come sempre: comunque ci stiamo lentissimamente
avvicinando al giorno del ritorno; o per lo meno lo spero, perché a quanto pare
nessuno si sta affatto, non dico preoccupando, ma neppure interessando del
fatto che ci siano dei fessi, prigionieri da quattro anni o più, in una nazione
a cui non hanno mai fatto la guerra (la mia cattura risale al Settembre ’41).
Per cui ti dico, mamma, non essere troppo ottimista a questo riguardo. (…) Poli
Ferrentino Viti Melosci sono sempre in ottima salute: anch’io lo sono, e spero
soltanto che anche voi possiate tirare avanti senza troppo eccessivi sacrifici».
Il giorno seguente,
Gabetta venne caricato con altri prigionieri su un carrozzone per detenuti e,
passando per Abilene (Texas), venne riportato a Monticello, dove giunse il 2
giugno 1945. Alla fine di quel mese, il 30 giugno, una nuova lettera a casa
rifletteva ancora una volta la preoccupazione per la situazione della famiglia
e l’insofferenza per la propria: «Le
ultime lettere ricevute da Mariuccia sono dei primi di gennaio, e tu certo
comprendi con quanto desiderio io stia ora aspettando di sapere cosa è successo
nel mese di maggio, dopo di che potrei considerami un poco più tranquillo.
Nulla di nuovo nella mia vita; il solito reticolato, ed un silenzio opprimente
da parte dei comandi su quel che riguarda il rimpatrio. Questo non aiuta certo
a rialzare il morale, anzi. Ma pure, ora che siamo alla fine, qualcosa dovrebbe
succedere. Che se ne vorranno fare di questa gente che da anni, e sono ormai
quattro per me, non fa altro che aspettare che gli venga detto finalmente
qualcosa? Ma certo chi in casa propria vive tranquillamente la sua vita normale
non può preoccuparsi di simili piccolezze. Bah, lasciamo stare, e restiamo il
più possibile tranquilli, mamma. Un giorno dovrà pur venire quando potrò
scambiare con voi le mie impressioni su tutta questa pietosa umanità che sta
dando all’universo un così avvilente spettacolo».
A inizio agosto
arrivarono finalmente notizie dall’Italia risalenti a maggio, con una lettera
della sorella, ma erano cattive notizie: uno zio di Ettore, Luigi Gabetta, che
riforniva di viveri i partigiani ed aiutava i prigionieri Alleati fuggiti, era
stato ucciso nel gennaio 1944 dai militi della Guardia Nazionale Repubblicana.
L’8 agosto Ettore Gabetta scriveva: «…sto pensando spesso alla notizia
giuntami col messaggio di Mariuccia del 28 maggio riguardo zio Luigi, e mi
domando quali altri momenti difficili abbiate dovuto superare. Attendo quindi
ulteriori notizie e mi auguro che le mie lettere vi giungano ora con maggiore
frequenza. Sono sempre nel campo di prigionia e sto bene, di salute, così come
Poli e gli altri. Non so immaginare con esattezza quali siano le vostre
difficoltà odierne, ma certo devono essere notevoli. Non ci sarà proprio
nessuno che si occuperà di chi come me ha quattro anni e più di prigione?».
Il 15 agosto 1945
anche il Giappone si arrese alle forze Alleate; cinque giorni dopo, a Camp
Monticello, il capitano statunitense Schinitzky annunciò finalmente che “quasi
tutti” i prigionieri avrebbero lasciato il campo il 6 settembre 1945, per
essere rimpatriati. Ritornarono per questo al campo i prigionieri che erano
stati assegnati al lavoro al suo esterno nelle “Italian Service Units”; ma il
29 agosto giunse la notizia che la partenza era rimandata. “Dopo aver versato tutto, cocente delusione
(disperazione)”.
A inizio settembre,
con una lettera del padre (risalente al 13 maggio e pervenuta attraverso
un’altra lettera scritta da una conoscente di famiglia, la signora Schiapelli:
lettere dirette dal padre, Gabetta non ne riceveva fin dall’agosto 1943)
giunsero altre cattive notizie dall’Italia. Anche l’avvocato Schiapelli,
conoscente di famiglia, era morto. In risposta a questa lettera, scriveva il 3
settembre Ettore Gabetta: «E’ doloroso
quanto tu scrivi; ma non è certo qui che io voglio parlartene. Preferisco attendere
il momento in cui, dopo avervi riabbracciato, avremo molte cose da raccontarci
e molte idee da mettere in chiaro. Per noi di rimpatrio non si parla per
niente; comunque ti prego di rimanere tranquillo insieme alla mamma e di
attendermi con fiducia. (…) Sono stato
sorpreso dalla morte dell’avvocato Schiapelli, e mi domando quanta altra gente
sia scomparsa in questi ultimi anni. D’altra parte, visto che in questi ultimi
anni la Lombardia ha avuto invasioni tedesche e repubblicane e mongole e di
chissà quali altri bei campioni della moderna civiltà, non ci si poteva aspettare
altro che lutti e rovine». L’indomani, in una lettera alla sorella: «Il desiderio di abbracciare te e la mamma,
di ascoltare la piccola Silvia, di discorrere con papà sta diventando una
ossessione. Che si decidano finalmente a rimandarci alle nostre case!».
L’8 settembre 1945 la
maggior parte dei prigionieri italiani a Camp Monticello poterono finalmente
partire per l’Italia, compresi diversi uomini del Baracca (tra di essi anche Pierdonato Poli), ma non altri, tra cui
Gabetta. Il 17 settembre questi scriveva una sconsolata lettera al padre: «La notizia che mi hai dato sulla morte dello
zio Luigi mi torna con insistenza allamente, e vorrei poter parlare con te di
molte cose. Non so cosa pensare sull’eventualità di un rimpatrio veloce: non si
hanno notizie qui, nessuno si preoccupa di noi prigionieri da quattro e più
anni, e questo ci avvilisce. La vita nostra è la solita: reticolato, monotonia.
Vorrei che tutti voi foste in ottima salute, e vorrei poter avere una idea
delle vostre difficoltà. Non mi faccio illusioni: penso che debbano essere
enormi. Ora che la guerra è totalmente finita avrei sperato in un sollecito
rimpatrio, ma nessuno ne accenna per nulla. Mandami, quando puoi, qualche
notizia sulla vostra vita e sugli affari: la censura sulle notizie dall’Europa
non ci permette di avere la minima idea di quel che succede, e talvolta fa
pensare di essere diventati degli estranei anche in casa nostra». Poli ed
altri compagni rimpatriandi avevano promesso di scrivere quanto prima, una
volta tornati a casa, alla famiglia di Gabetta, per fargli avere sue notizie.
Il 20 settembre 1945
Gabetta venne trasferito ancora una volta in un altro campo di prigionia:
quello di Ruston, in Louisiana, uno dei più grandi degli Stati Uniti. L’appunto
sul trasferimento è accompagnato da un’altra criptica annotazione: «Sapone e racchetta da tennis. Tormento dei
rumors».
Il 24 settembre
Gabetta scriveva a casa: «ancora una
volta ho cambiato di campo, e ti prego di prendere nota del mio indirizzo per
tenerne conto nella posta che mi scriverai. Forse prima che ti sia giunta
questa mia lettera sarà venuto da te qualche mio compagno di quelli rimpatriati
ai primi del mese, e da loro avrai saputo qualcosa della mia vita in campi di
prigionia. Del nostro rimpatrio ancora nulla sappiamo di ufficiale. Sappiamo
soltanto che si dovrebbe ormai trattare di pochi mesi. (…) Mi preme ora di avere vostre notizie
recenti. Le ultime lettere di papà sono del maggio, e quindi abbastanza
vecchie, visto che qui alcuni pochi hanno ricevuto da circa un mese. Io sto
bene di salute nonostante il quinto anno di prigionia, e la mia unica
preoccupazione è il pensiero di voi tutti che vi accingete a superare il più
duro inverno davanti al quale mai l’intera Europa si sia venuta a trovare.
(…) mi auguro solo di poter al più presto
tornare di nuovo accanto a voi per aiutarvi finalmente a rifare ciò che sarà
possibile di tutto ciò che fu distrutto». Il 5 ottobre: «…Io non so nulla del nostro rimpatrio e
vorrei che tu rimanessi tranquilla nonostante l’indifferenza che circonda la
nostra sorte. Posta non me ne arriva: le vostre ultime notizie risalgono a
Giugno, e se pensiamo che la guerra è finita da tanto tempo, non c’è che da
congratularsi dei progressi che si sono fatti». Rimpatriò anche un altro
compagno di prigionia, Giacomello; l’11 ottobre Gabetta ricevette finalmente
qualche lettera un po’ più recente, del 25 agosto, con notizie almeno in parte
rassicuranti. La speranza era di non passare il quinto Natale di fila in
prigionia. Il 16 ottobre, scrisse alla sorella minore: «Cara Mariuccia, in una lettera del luglio scorso la mamma mi scrisse
che tu avevi preferito rimanere a casa la scorsa estate anziché andare al mare;
e che avevi fatto questo pensando al fratello lontano e prigioniero. Non so
come ringraziarti di questo atto che mi è giunto più gradito di qualunque altra
cosa. La spaventosa serie di delusioni morali che ho sofferto in questi cinque
anni ha lasciato in me una sete violenta di bontà e di comprensione, e quindi
ho apprezzato il tuo sacrificio in tutto il suo altissimo valore e te ne sono
profondamente grato. Il mondo è precipitato ad un materialismo vergognoso: ha
un bisogno estremo di donne e di uomini che sappiano compiere un sacrificio e
pur sorridere e porgerlo sulla mano aperta, come un dono». Il 19 ottobre
1945, Ettore Gabetta compì trentun anni: ne aveva ventisei quando era partito
per la guerra. Quello stesso giornò inviò a casa una cartolina da cui
traspariva ancora una volta l’esasperazione di chi si sentiva dimenticato dalle
autorità: «Io non so quando mi invieranno
di nuovo alla mia casa: qui siamo completamente abbandonati. Ma vorrei tanto
passare il Natale a casa!».
Il giorno successivo,
finalmente, arrivò la notizia tanto attesa: il viaggio di rimpatrio sarebbe
iniziato il 27 ottobre. Da Ruston Gabetta fu portato a Richmond, in Virginia, poi
a Newark ed a Chesapeake; fu imbarcato su una nave in partenza per l’Italia, ma
la sfortuna volle sferrare ancora un ultimo colpo prima di lasciarlo tornare a
casa: la nave che lo trasportava entrò in collisione con un piroscafo Liberty,
e dovette tornare in porto. Gabetta fu rimandato in campo base di smistamento
(altra annotazione criptica: “Johnny
comes marching”); “dopo testimonianza”,
venne imbarcato di nuovo, stavolta su una nave tipo Victory, che dopo undici
giorni, attraversato l’Atlantico – quello stesso oceano che aveva inghiottito
tanti suoi compagni del Baracca e
degli altri sommergibili di Betasom, e tanti marinai delle navi loro vittime,
ormai non più campo di battaglia dopo sei anni –, giunse a Gibilterra. Entrata
nel Mediterraneo, la nave giunse infine in vista delle coste italiane: Capri,
poi Napoli, porto di destinazione.
Da qui Ettore Gabetta
proseguì verso terra verso nord, verso Voghera, verso casa: vi giunse il 25
novembre 1945, dopo cinque anni di assenza, in una serata fredda e nebbiosa.
Non aveva neanche avuto modo di informare la famiglia del suo arrivo, ma la
gestrice del bar della stazione ferroviaria di Voghera, che lo conosceva, lo
riconobbe quando scese dal treno e telefonò a casa per dare la notizia: la
madre Adele accese tutte le luci in segno di festa, le sorelle gli corsero
incontro lungo la strada, accompagnandolo a casa.
Ettore Gabetta,
iscrivendosi nel 1933 al corso di ingegneria all’Università di Pavia (e poi al
Politecnico di Milano per il triennio), aveva aderito ad un programma
dell’Accademia Navale di Livorno che proponeva corsi estivi per gli studenti di
ingegneria, i quali avrebbero potuto così ottenere il grado di guardiamarina
insieme al conseguimento della laurea, in modo da ridurre il periodo di
servizio militare obbligatorio rispetto a quello normalmente stabilito dalla
legge: poi la guerra ci si era messa di mezzo, ed il suo servizio militare era
finito col durare ben più del previsto.
Negli anni della sua
vecchiaia, Ettore Gabetta avrebbe preso l’abitudine di festeggiare l’8
settembre con una torta o dei pasticcini, considerando quel giorno, in cui era
stato tratto in salvo dopo l’affondamento del Baracca, come una “seconda nascita”.
Un altro, molto più
breve, aneddoto relativo ad un superstite del Baracca riguarda il marinaio ponzese Giuseppe Papis. Il 24 febbraio
1995 il Comitato di San Giuseppe di Santa Maria di Ponza ricevette un breve
telegramma: “A Te o glorioso
Patriarca S. Giuseppe che ad una mia invocazione dalla profondità di 130
metri mi apparisti in visione sulla prora del sommergibile e sorridente mi
dicesti ”Non temere, n’ave’ paura”. Mi salvasti dalle acque
atlantiche quel fatidico mattino del giorno 8/9/1941 per l’affondamento del
sommergibile “Baracca”. Invio questa mia piccola offerta in segno di perenne
riconoscimento per i festeggiamenti che si terranno in tuo onore. Benedico
sempre quel pezzetto di terra dove nacqui. Giuseppe Papis”.
La motivazione della
Medaglia d’Argento al Valor Militare conferita alla memoria del capitano del
Genio Navale Rinaldo Rondinini, nato a Napoli il 30 settembre 1910:
“Capo servizio G. N.
di Sommergibile, che nel corso di missione di guerra dopo violenta caccia
subacquea ed accanito combattimento in superficie veniva speronato ed affondato
da C. T. avversario, dava con serena fermezza la propria esperienza ed ogni
energia per mantenere in efficenza l'unità gravemente paralizzata, dando prova
di eccezionali qualità professionali ed eroico valore. Ricevutone l'ordine,
assicurava l'esecuzione per l'affondamento del battello, salendo per ultimo in
coperta insieme all'Ufficiale in seconda. Scompariva in mare dando alla Patria
nuova imperitura gloria.”
La motivazione della
Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita alla memoria dell’aspirante
guardiamarina Carlo Pizzetti, nato a Novellara (Reggio Emilia) il 7 dicembre
1919:
“Ufficiale imbarcato
su sommergibile, che nel corso di missione di guerra dopo violenta caccia
subacquea ed accanito combattimento in superfice veniva speronato ed affondato
da cacciatorpediniere avversario, disimpegnava i propri incarichi con freddo
determinato coraggio per il mantenimento dell'efficienza del battello, dando
prova di sereno spirito di sacrificio ed elevato spirito del dovere. Scompariva
in mare nell'affondamento del battello.
Oceano Atlantico, 8 settembre 1941.”
Oceano Atlantico, 8 settembre 1941.”
La motivazione della
Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita alla memoria del cannoniere
armarolo Giuseppe Coletta, nato a Milano il 1° gennaio 1920:
“Destinato al cannone
di sommergibile, che nel corso di missione di guerra dopo violenta caccia
subacquea ed accanito combattimento in superficie veniva speronato ed affondato
da cacciatorpediniere avversario, disimpegnava il proprio incarico sostenendo
coraggiosamente l'impari duello, noncurante del nutrito cannoneggiamento e
mitragliamento. Colpito a morte, scompariva in mare vittima del suo
attaccamento al dovere.
(Oceano Atlantico, 8
settembre 1941)”
La motivazione della
Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita alla memoria del marinaio
Benedetto Del Re, nato a Mola di Bari l’11 settembre 1919:
“Servente del cannone
di sommergibile, che nel corso di missione di guerra dopo violenta caccia
subacquea ed accanito combattimento in superficie veniva speronato ed affondato
da cacciatorpediniere avversario, disimpegnava il proprio incarico sostenendo
coraggiosamente l'impari duello, noncurante del nutrito cannoneggiamento e
mitragliamento. Colpito a morte, scompariva in mare vittima del suo
attaccamento al dovere.
(Oceano Atlantico, 8
settembre 1941)”
La motivazione della
Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita alla memoria del capitano del
Genio Navale Ugo Marra, nato ad Ariano Irpino (Avellino) il 6 settembre 1913:
“Ufficiale imbarcato
su sommergibile, che nel corso di missione di guerra dopo violenta caccia
subacquea ed accanito combattimento in superficie veniva speronato ed affondato
da cacciatorpediniere avversario, disimpegnava i propri incarichi con freddo
determinato coraggio per il mantenimento dell'efficienza del battello, dando
prova di sereno spirito di sacrifico ed elevato sentimento del dovere.
Oceano Atlantico, 8
settembre 1941.”
La motivazione della
Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita al tenente di vascello Giorgio
Viani, nato a Venezia il 2 settembre 1909:
“Comandante di
sommergibile, che nel corso di missione di guerra veniva attaccato e colpito
irreparabilmente da cacciatorpediniere avversario, con spirito aggressivo
emergeva affrontando col cannone l'impari lotta. Vista la propria unità
impossibilitata ad immergersi, con serenità di spirito, sotto il ravvicinato
tiro delle artiglierie, ne ordinava l'abbandono e l'autoaffodamento. Nella
circostanza dava prova di calma e sereno coraggio.
(Oceano Atlantico, 8
settembre 1941)”
La motivazione della
Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita al sottotenente di vascello Pier
Donato Poli, nato a Barengo (Novara) il 1° gennaio 1917:
“Ufficiale alle armi
di sommergibile, che nel corso di missione di guerra, dopo violenta caccia
subacquea ed accanito combattimento in superficie, veniva speronato ed
affondato da cacciatorpediniere avversario, dirigeva il tiro sotto l'incessante
martellamento del fuoco avversario che colpiva a morte numerosi marinai
dell'armamento. Durante l'aspro e glorioso combattimento dava prova di elevate
virtù di combattente e di marinaio.
(Oceano Atlantico, 8
settembre 1941)”
La motivazione della
Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita al tenente di vascello Piero
Gherardelli, nato a Sesto Fiorentino (Firenze) il 4 febbraio 1912:
“Ufficiale in 2a di
sommergibile, che nel corso di missione di guerra, dopo violenta caccia
subacquea ed accanito combattimento in superficie, veniva speronato ed
affondato da cacciatorpediniere avversario, dava ogni propria energia per
assicurare l'esecuzione delle manovre ed il mantenimento dell'efficienza del
battello. Ricevutone l'ordine, provvedeva a mettere in salvo l'equipaggio e
disponeva le manovre per l'autoaffondamento, salendo per ultimo in coperta
insieme con il direttore di macchina. Nel corso dell'aspro glorioso combattimento
dava prova di freddo coraggio, spirito di sacrificio ed elevato sentimento del
dovere.
(Oceano Atlantico, 8
settembre 1941)”
Rapporto del
comandante del Croome
sull’affondamento del Maggiore Baracca
(da www.regiamarina.net, documento
originale conservato alla cartella ADM 1/11472 del Public Record Office – oggi
National Archives – di Londra):
“CONFIDENTIAL
Captain (D).,
13th Flotilla,
Sir,
I have the honour to submit the following
report of proceedings.
H.M.S. Croome left Convoy H.G. 72 [1] at 0200/8 in position 40° 00’ N 22°
52’ W to join Convoy O.G. 75 [n.b.
probabile errata trascrizione di OG 73, visto che l’OG 75 non partì che il 26
settembre, settimane dopo l’affondamento del Baracca, mentre l’OG 73 partì il 29 agosto e giunse a Gibilterra il
13 settembre] [2] at 0800/8 in accordance with C. in
C. Western Approaches signal 1546A/6.
Course and speed were adjusted to reach a
point 20 miles ahead of the convoy 0800 position, at 0715. At 0720 [3] course was altered to 335° to meet
the convoy and sweep an area ahead of it. At 0750 just as it was getting light,
the starboard lookout reported an object on the starboard beam.
This was identified as a submarine on the surface, range about 8500 yards,
course South. Course was altered towards and speed increased to 20
knots. The submarine dived almost immediately. When 2000
yards short of the position in which the submarine dived, speed was reduced to
15 knots and a search commenced. After reaching the calculated
"furthest on" position of the submarine, course was altered to 180°
and two minutes later the submarine was detected on the starboard bow.[,] range
1100 yards. A deliberate attack was carried out[4] without apparent success. A second
attack [5], using a much deeper setting on the
charges, was carried out, and the submarine surfaced astern. Fire was
immediately opened with all guns [6] that would bear, full speed was
ordered and course altered to ram. The submarine returned our fire with
her gun, but the shots went very wide, and the gun was quickly silenced by Lewis
gun fire from the wings of the bridge. As we approached, the
submarine's crew started to abandon ship, and we rammed her just abaft the
conning tower. She sank by the stern almost immediate and a few seconds
later a big muffled explosion was heard. Survivors were then picked
up.
The Engineer Officer reported that the forward
compartments, as far as the central store, were flooded, so shores were fitted
as necessary. The Asdic had been put out of action and since the forward
sound bulkhead was of light construction, I decided that no useful purpose
would be served by joining the convoy, to justify the risk of further damage to
the ship, in the event of encountering bad weather. Course was therefore
laid for Gibraltar speed 8 knots. The Engineer Officer succeeded in
pumping down the water in the cable locker compartment, plugging the leaks in
the bulkhead, and fitting shores, so that the pumps had the water under
control. Speed was then gradually increased to 16 knots.
From the prisoners it was learned that
the submarine was the Italian submarine 'Baracca'. They had been on patrol
for a week and were looking for a convoy. The normal duration of patrol
is one month. The first attack only shook the submarine and caused very
minor damage, including putting the depth gauge out of action. They were
then at 90 metres, and still diving slowly. The second attack put out all the
lights, stopped the engines, put the steering gear out of action and water
started to flood in forward and aft. They blew all tanks and
surfaced.
With reference to W.A.G.O. 05015, I should
like to bring to your notice, the names of the following Officers and men to
whose skill and alertness, the success of this operation is chiefly due
Sub Lieutenant Anthony Herbert Lane Harvey --
A/S Control
Alexander Skea, A.B.,H.S.D. P/JSK 17327 --—- A/S Operator
William Brown, Ord.Sea.,D/JX 254955 —— Lookout on [duty] who sighted the [submarine]
Alexander Skea, A.B.,H.S.D. P/JSK 17327 --—- A/S Operator
William Brown, Ord.Sea.,D/JX 254955 —— Lookout on [duty] who sighted the [submarine]
I have the honour to be,
Sir,
Your obedient Servant,
Sd.) JOHN D. HAVES,
Lieutenant Commander.
E la sua traduzione
in italiano:
“CONFIDENZIALE
Comandante (D),
13a Flottiglia,
Signore,
Ho l'onore di presentarle il seguente resoconto degli eventi.
H.M.S. Croome lasciò il convoglio H.G. 72 [1] alle 0200 del giorno 8 [settembre] in posizione 40° 00' N 22° 52’ W per raggiungere il convoglio O.G. [2] 73 alle 0800 del giorno 8 come da ordini ricevuti con il messaggio 1546°/6 del comandante in Capo degli approcci occidentali.
Rotta e velocità furono cambiate per raggiungere alle 0715 un punto a circa 20 miglia a prora di quello in cui il convoglio sarebbe stato alle 0800. Alle 0720 [3] la rotta fu cambiata in direzione 335° per incontrare il convoglio e condurre un dragaggio nella zona davanti a questi. Alle 0750, quando cominciò a far luce, la vedetta di dritta segnalò un oggetto al traverso di dritta. Questi fu identificato quale un sommergibile in superficie alla distanza di circa 8500 iarde [7772 metri] rotta sud. Il sommergibile si immerse quasi immediatamente. Quando raggiungemmo la posizione a circa 2000 iarde [1829 metri] da quella in cui il sommergibile si era immerso, la velocità fu ridotta 15 nodi e la caccia cominciò.
Dopo aver raggiunto la posizione di distanza massima possibile del sommergibile, la rotta fu cambiata per 180° gradi e due minuti più tardi il sommergibile fu scoperto a dritta della prua ad una distanza di 1100 iarde [1000 metri] [4]. Un attacco fu condotto senza apparenti risultati. Un secondo attacco [5] fu condotto usando una regolazione più profonda sugli acciarini delle bombe di profondità ed il sommergibile affiorò a poppa. Tutti i cannoni [6] in raggio aprirono immediatamente il fuoco, velocità e rotta furono cambiate per speronare. Il sommergibile rispose immediatamente al fuoco, ma i colpi caddero lontani ed il cannone fu velocemente silenziato dalle mitragliatrici Lewis [installate] sulle alette della nave.
Mentre ci avvicinavamo, l'equipaggio del sommergibile cominciò ad abbandonare il battello che fu speronato poco a poppa della falsa torre. Il battello affondò di poppa quasi immediatamente e pochi secondi dopo si udì una esplosione soffocata. Dopo, i sopravvissuti furono tratti in salvo.
L'ufficiale di macchine [mi] informò che i compartimenti prodieri, fino al deposito centrale, erano allagati e che puntelli erano stati utilizzati come necessario. L'Asdic [sonar] era fuori uso e dato che le paratie prodiere erano di costruzione leggera, decisi che non ci sarebbe stato nessun vantaggio nel raggiungere il convoglio e rischiare altri danni nel caso di cattivo tempo. La rotta fu così cambiata per raggiungere Gibilterra alla velocità di 8 nodi. L'ufficiale macchine era riuscito a pompare l'acqua fuori nel cassone dei cavi, otturando le falle nella paratia e installando puntelli, in tal modo che le pompe riuscirono a mantenere l’acqua sotto controllo. Velocità fu gradualmente aumentata fino a 16 nodi.
Dai prigionieri si apprese che il sommergibile era l'italiano 'Baracca'. Era in perlustrazione da una settimana ed era in cerca di un convoglio. La durata normale di una missione è di un mese. Il primo attacco scosse il sommergibile causando danni minori, incluso il malfunzionamento dell'indicatore di profondità. Erano a 90 metri ed ancora e si stavano ancora immergendo lentamente. Il secondo attacco fece spegnere tutte le luci, fermò i motori, e mise il timone in avaria, mentre l'acqua cominciò ad infiltrarsi nei compartimenti di prua e poppa. Mandarono aria a tutte le casse ed emersero.
In riferimento al W.A.G.O. 05015, vorrei portare alla sua attenzione il nome dei seguenti ufficiali e marinai la cui prontezza e maestria hanno contribuito al successo di questa operazione.
Sottotenente di Vascello Antony Herbert Lane Harvey - Comandi antisommergibili
Alexander Skea, Marinaio scelto. P/JSK 17327 - Operatore antisommergibili
William Brown, Marinaio semplice. D/JX 254955 - La vedetta che scorse il sommergibile.
Ho l'onore di essere il suo obbediente servitore
John D. Hayes
[1] Partito da Liverpool il 18 agosto 1941 raggiunse Gibilterra il 1 settembre. 14 piroscafi.
[2] Partito da Liverpool il 29 agosto 1941 raggiunse Gibilterra il 19 settembre. 21 piroscafi.
[3] Condizioni: vento 2 nodi da nord. Visibilità 4 ½ miglia [marine]. Fondali 2162 fathoms.
[4] Cariche di profondità in posizione 'C' - 100, 150 and 200 piedi.
[5] Cariche di profondità in posizione 'E' - 250, 350 e 500 piedi.
[6] Cannone da 4' Mark XVI sparò 11 proietti tipo S.A.P.”
Comandante (D),
13a Flottiglia,
Signore,
Ho l'onore di presentarle il seguente resoconto degli eventi.
H.M.S. Croome lasciò il convoglio H.G. 72 [1] alle 0200 del giorno 8 [settembre] in posizione 40° 00' N 22° 52’ W per raggiungere il convoglio O.G. [2] 73 alle 0800 del giorno 8 come da ordini ricevuti con il messaggio 1546°/6 del comandante in Capo degli approcci occidentali.
Rotta e velocità furono cambiate per raggiungere alle 0715 un punto a circa 20 miglia a prora di quello in cui il convoglio sarebbe stato alle 0800. Alle 0720 [3] la rotta fu cambiata in direzione 335° per incontrare il convoglio e condurre un dragaggio nella zona davanti a questi. Alle 0750, quando cominciò a far luce, la vedetta di dritta segnalò un oggetto al traverso di dritta. Questi fu identificato quale un sommergibile in superficie alla distanza di circa 8500 iarde [7772 metri] rotta sud. Il sommergibile si immerse quasi immediatamente. Quando raggiungemmo la posizione a circa 2000 iarde [1829 metri] da quella in cui il sommergibile si era immerso, la velocità fu ridotta 15 nodi e la caccia cominciò.
Dopo aver raggiunto la posizione di distanza massima possibile del sommergibile, la rotta fu cambiata per 180° gradi e due minuti più tardi il sommergibile fu scoperto a dritta della prua ad una distanza di 1100 iarde [1000 metri] [4]. Un attacco fu condotto senza apparenti risultati. Un secondo attacco [5] fu condotto usando una regolazione più profonda sugli acciarini delle bombe di profondità ed il sommergibile affiorò a poppa. Tutti i cannoni [6] in raggio aprirono immediatamente il fuoco, velocità e rotta furono cambiate per speronare. Il sommergibile rispose immediatamente al fuoco, ma i colpi caddero lontani ed il cannone fu velocemente silenziato dalle mitragliatrici Lewis [installate] sulle alette della nave.
Mentre ci avvicinavamo, l'equipaggio del sommergibile cominciò ad abbandonare il battello che fu speronato poco a poppa della falsa torre. Il battello affondò di poppa quasi immediatamente e pochi secondi dopo si udì una esplosione soffocata. Dopo, i sopravvissuti furono tratti in salvo.
L'ufficiale di macchine [mi] informò che i compartimenti prodieri, fino al deposito centrale, erano allagati e che puntelli erano stati utilizzati come necessario. L'Asdic [sonar] era fuori uso e dato che le paratie prodiere erano di costruzione leggera, decisi che non ci sarebbe stato nessun vantaggio nel raggiungere il convoglio e rischiare altri danni nel caso di cattivo tempo. La rotta fu così cambiata per raggiungere Gibilterra alla velocità di 8 nodi. L'ufficiale macchine era riuscito a pompare l'acqua fuori nel cassone dei cavi, otturando le falle nella paratia e installando puntelli, in tal modo che le pompe riuscirono a mantenere l’acqua sotto controllo. Velocità fu gradualmente aumentata fino a 16 nodi.
Dai prigionieri si apprese che il sommergibile era l'italiano 'Baracca'. Era in perlustrazione da una settimana ed era in cerca di un convoglio. La durata normale di una missione è di un mese. Il primo attacco scosse il sommergibile causando danni minori, incluso il malfunzionamento dell'indicatore di profondità. Erano a 90 metri ed ancora e si stavano ancora immergendo lentamente. Il secondo attacco fece spegnere tutte le luci, fermò i motori, e mise il timone in avaria, mentre l'acqua cominciò ad infiltrarsi nei compartimenti di prua e poppa. Mandarono aria a tutte le casse ed emersero.
In riferimento al W.A.G.O. 05015, vorrei portare alla sua attenzione il nome dei seguenti ufficiali e marinai la cui prontezza e maestria hanno contribuito al successo di questa operazione.
Sottotenente di Vascello Antony Herbert Lane Harvey - Comandi antisommergibili
Alexander Skea, Marinaio scelto. P/JSK 17327 - Operatore antisommergibili
William Brown, Marinaio semplice. D/JX 254955 - La vedetta che scorse il sommergibile.
Ho l'onore di essere il suo obbediente servitore
John D. Hayes
[1] Partito da Liverpool il 18 agosto 1941 raggiunse Gibilterra il 1 settembre. 14 piroscafi.
[2] Partito da Liverpool il 29 agosto 1941 raggiunse Gibilterra il 19 settembre. 21 piroscafi.
[3] Condizioni: vento 2 nodi da nord. Visibilità 4 ½ miglia [marine]. Fondali 2162 fathoms.
[4] Cariche di profondità in posizione 'C' - 100, 150 and 200 piedi.
[5] Cariche di profondità in posizione 'E' - 250, 350 e 500 piedi.
[6] Cannone da 4' Mark XVI sparò 11 proietti tipo S.A.P.”
Qualche altro ricordo
dell’allora guardiamarina Amedeo Cacace, imbarcato sul Baracca durante le prime due missioni atlantiche (da www.betasom.it):
“Ogni volta che
uscivamo o entravamo dall’estuario della Gironde venivamo attaccati da velivoli
britannici, e fummo sempre molto fortunati a non essere colpiti e affondati;
questi momenti erano forse i più drammatici di ogni missione… La vita a bordo
non era delle più facili, al fine di non intasare l’unico WC presente a bordo
l’equipaggio utilizzava la coperta per l’espletamento delle proprie necessità “corporali”
ma – se non altro – nella nostra permanenza all’esterno potevamo avvalerci di
capi di abbigliamento pesanti forniti dagli alleati germanici… Infatti, eravamo
stati destinati in Atlantico avendo in dotazione il normale vestiario previsto
per le consuete missioni in Mediterraneo, e il freddo si era fatto sentire sin
da subito durante la nostra prima navigazione oceanica. Al rientro da questa
missione i tedeschi ci fornirono così di cappotti, impermeabili in tela cerata,
maglioni ecc. che consentivano di proteggerci dal freddo durante il servizio in
falsatorre e in coperta…”
un racconto stupefacente. tra i dispersi del Baracca c'era un mio zio che io non ho mai conosciuto e che non sapevo niente della sua fine.
RispondiEliminaSi Chiamava Francesco Putignano da Ostuni.
Bsera. Risulta che il CC Enrico Bertarelli fosse comandante del Baracca dal 10.7.1940, data di consegna del battello. Sbarcò il 10.8.1941 per problemi di salute per la scuolasom di Pola (XII Grupsom) assumendo il comando del Medusa, su cui morì il 30.1.1942.
RispondiEliminaMi risulta una data diversa...
EliminaNotizie interessanti. Ho sempre sentito parlare del cugino di mio padre Luigi Alfredo ODIARDO o ODIARDI. La sua famiglia si è estinta e conservo con venerazione le sue foto e quelle della sua famiglia ed i due attestati di conferimento della medaglia di bronzo. Ho anche foto sue e di suoi compagni di cui però non conosco i nomi
RispondiEliminaChe racconto fantastico.mio padre, Bernardino Romiti, marinaio silurista, fu tra i superstiti. Nato il 17/1/1922 a Castelbellino nelle Marche.
RispondiEliminaHo sempre profondamente ammirato mio padre, che raccontò poco della guerra ma che visse, da militare, rispettando tutti coloro che persero la vita.
Un grande uomo
Bsera Lorenzo. Se vuole prenda nota di questa storia tratta da Omega 9 di Aldo Pasetti - Bietti Milano 1969, pag. 351.
RispondiElimina""Io ricordo di Bertarelli"" - disse Arnaghi - ""un'avventura quasi fiabesca, che m'ha raccontata lui stesso. Navigava col suo sommergibile Maggiore Baracca nelle acque dell'Islanda... Da cinque ore il sommergibile inseguiva un piroscafo inglese, abbastanza grosso da meritare la spesa di un siluro. Il bastimento scantonava, disegnando su quel piatto mare nordico ghirigori da pattinatore sul ghiaccio, in mezzo a uno sfarfallare di gabbiani. I nostri cercavano il momento giusto perchè il lancio avvenisse a colpo sicuro. - Forse ci siamo - disse Bertarelli guardando nel periscopio. E in quel momento scoprì il nome della nave. - Lilian Moller. Lilian Moller, chi era Lilian Moller? Ah ecco, ricordava , la figlia dell'armatore inglese! Le era stato presentato anni addietro in un circolo internazionale di Sciangai. La ragazza, graziosa e leggermente ubriaca, gli aveva chiesto dello spumante, invitandolo a bere con lei nello stesso calice. Poi l'aveva a tutti i costi trascinato da suo padre, facendoglielo conoscere. - Ho cinque figlie - gli aveva detto l'armatore, forse non senza intenzione - e ciascuna avrà in dote un bastimento col proprio nome. L'ultima nave acquistata avrà il nome di Lilian, Lilian Moller, e verrà destinata al traffico dei mari d'Islanda. A Lilian piace molto il Nord. Prima che egli ripartisse, Lilian gli aveva detto con tenerezza - Io viaggio molto, ci rivedremo forse in mare, bye bye! Si rivedevano in mare davvero, e proprio nei mari del Nord, che a Lilian piacevano tanto. - Fuori uno! Partì il primo siluro, che la nave scansò. Il secondo siluro, invece, quasi la ribaltò sotto un rovescio d'acqua. Ma il bastimento resisteva ancora, e il sommergibile emerse per farla finita a cannonate. La torretta grondante, appena guadagnata la luce, assaggiò una raffica, perchè gli uomini del Lilian Moller, smascherata la batteria di prora, stavano sparando: qualche proiettile fischiò sulle orecchie. Allora Bertarelli chiamò al pezzo gli artiglieri e fece aprire il fuoco a tiro rapido, con esito immediato. Il radiotelegrafista riferì: stanno lanciando l'SOS. Il Lilian Moller affondava. Addio, Dolce Lilian, bye bye.""
Il bastimento inglese risulta avesse il comandante con 50 cinesi di equipaggio e un cannoniere inglese.
Molto interessante, la ringrazio.
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