La Donizetti in tempo di pace (Coll. Aldo Cavallini, via www.naviearmatori.net) |
Motonave mista di
2428,04 (o 2424) tsl, 1420,15 tsn e 2985 tpl, lunga 85,34-89,6 metri, larga 12,19-12,3
e pescante 6,4, con velocità di 12-13,4 nodi. Appartenente alla Società Anonima
di Navigazione Tirrenia, avente sede a Napoli, ed iscritta con matricola 57 al
Compartimento Marittimo di Fiume.
Apparteneva ad una
serie di sei motonavi gemelle, aventi tutte nomi di musicisti e compositori,
chiamata appunto “classe Musicisti”: le altre erano Rossini, Puccini, Paganini, Verdi e Catalani. Classe
particolarmente sventurata: non solo vennero tutte affondate in guerra (anche
se la Verdi poté in seguito essere
recuperata e ricostruita), ma ben tre di esse (Donizetti, Puccini, Paganini) affondarono con gravi perdite
umane. Poteva trasportare 58 passeggeri in cabina, oltre a merci nelle quattro
stive.
Durante il conflitto
con gli Alleati (giugno 1940-settembre 1943) la Donizetti navigò sempre nelle acque dell’Adriatico, Ionio ed Egeo,
trasportando truppe e rifornimenti in Albania, Grecia e nelle isole dell’Egeo.
Sovente menzionata
come “Gaetano Donizetti”, in realtà
il suo nome era solo Donizetti.
Breve e parziale cronologia.
15 ottobre 1927
Impostata nel
Cantiere Navale Triestino di Monfalcone (numero di costruzione 195).
17 ottobre 1928
Varata presso il Cantiere
Navale Triestino di Monfalcone
4 dicembre 1928
Completata per la
«Adria» Società di Navigazione a Vapore (o Adria Società Anonima di Navigazione
Marittima, o Compagnia Adria Società Anonima di Navigazione), con sede a Fiume.
Insieme alle gemelle Paganini, Puccini, Rossini, Catalani e Verdi, nonché ai ben più anziani piroscafi Tiziano e Tiepolo, la Donizetti viene messa in servizio
postale sulla linea internazionale sovvenzionata
Fiume-Genova-Marsiglia-Valencia (Periplo Italico-Spagna).
Le sei motonavi
costituiscono il nerbo della flotta Adria; nel 1931 un manifesto pubblicitario
della società, indirizzato ad una clientela internazionale, reclamizza: «Ideal Pleasure-trips in the Mediterranean –
Regular Weekly Service New First Class Motor Vessels – Ports of
call: Fiume Trieste Venezia – Fiume Ancona Bari, Catania, Malta, Messina,
Palermo, Napoli, Livorno, Genova, Imperia, Marseille, Barcelona, Valencia – Aboard: Puccini, Donizetti, Catalani, Rossini, Verdi and Paganini».
Gli scali serviti dalle sei motonavi, secondo un altro manifesto dello stesso
anno, sono: Fiume, Ancona, Bari, Catania, Malta, Messina, Palermo, Napoli,
Livorno, Genova, Imperia (opzionale), Marsiglia, Barcellona, Valencia;
viaggio di ritorno: Valencia, Marsiglia, Imperia, Genova, Livorno, Napoli,
Palermo, Messina, Malta, Catania, Bari, Ancona, Fiume (risulterebbe da una
fonte che le navi, tornando da Malta a Messina, facessero anche scalo
settimanale – di mercoledì – a Riposto, dove sbarcavano turisti che visitavano
la zona e si spingevano fino a Taormina).
Pubblicità
della società di navigazione Adria: sopra (da www.gcaptain.com),
si reclamizzano “nuove motonavi di prima classe”, sotto (da www.timetableimages.com), la compagnia
è simboleggiata dal disegno stilizzato di una nave classe “Musicisti”.
Altri due
manifesti della società Adria ritraenti le motonavi classe “Musicisti” (Coll.
David Levine, da www.travelbrochuregraphics.com)
1° gennaio 1937
Trasferita alla
Tirrenia Società Anonima di Navigazione (nata nel 1932 come «Tirrenia Flotte
Riunite Florio-CITRA» dalla fusione delle compagnie di navigazione Florio e CITRA),
che in seguito al “riordino” delle linee sovvenzionate ha assorbito la Adria
Società di Navigazione e la Compagnia Sarda di Navigazione.
La Tirrenia mette la Donizetti e le sue gemelle in servizio
sulla linea commerciale 32, con scalo in 16 porti nel Mediterraneo per un totale
di 4.000 miglia di navigazione.
Giugno 1940
In seguito
all’entrata in guerra dell’Italia, le motonavi della classe “Musicisti” vengono
noleggiate per trasportare truppe in Albania.
16 ottobre 1940
Requisita a Fiume
dalla Regia Marina, senza essere iscritta nel ruolo del naviglio ausiliario
dello Stato.
6 novembre 1940
La Donizetti, vuota, parte da Valona
alle tre di notte insieme ai trasporti truppe Piemonte, Italia e Quirinale, scortati dalle
torpediniere Giacomo Medici e Curtatone; il convoglio arriva a Bari
alle 19.30.
16 novembre 1940
La Donizetti lascia Bari alle 00.30,
unitamente al piroscafo Piemonte, con
la scorta delle torpediniere Francesco
Stocco e Generale Marcello
Prestinari e dell’incrociatore ausiliario Capitano A. Cecchi. Donizetti
e Piemonte trasportano 2554 militari,
151 quadrupedi e 306 tonnellate di materiali. Il convoglio giunge a Valona alle
16.
20 novembre 1940
La Donizetti, le motonavi Città di Savona e Città di Marsala ed il piroscafo Galilea lasciano scariche Valona alle
11, scortate dalle torpediniere Antares ed Andromeda. Il convoglio arriva a
Brindisi alle 19.
27 novembre 1940
La Donizetti ed i piroscafi Italia e Quirinale salpano da Bari alle quattro del mattino alla volta di
Durazzo, dove arrivano alle 13.50, scortati dall’incrociatore ausiliario Arborea e dalla torpediniera Calatafimi. Il convoglio trasporta in
tutto 2886 soldati, 105 quadrupedi e 278 tonnellate di materiali.
29 novembre 1940
Donizetti, Italia e Quirinale lasciano Durazzo vuoti alle
5.20, scortati dalla Calatafimi, ed
arrivano a Bari alle 17.15.
3 dicembre 1940
Alle 23 la Donizetti salpa da Bari insieme ad Italia e Quirinale, con la scorta delle torpediniere Stocco e Curtatone. Il
convoglio trasporta 2902 militari, 86 quadrupedi e 427 tonnellate di rifornimenti.
4 dicembre 1940
Il convoglio giunge a
Durazzo alle 9.30.
5 dicembre 1940
Alle 20.20 Donizetti, Italia e Quirinale ripartono
da Durazzo per tornare in Italia, trasportando feriti. Li scorta la
torpediniera Andromeda.
6 dicembre 1940
Il convoglio arriva a
Bari alle 8.30.
10 dicembre 1940
Donizetti, Italia e Quirinale partono da Bari per
Durazzo alle 00.30, trasportando 3088 militari, 19 veicoli e 688 tonnellate di
materiali. Scortato dall’incrociatore ausiliario Barletta, il convoglio raggiunge Durazzo alle 13.
13 dicembre 1940
Donizetti, Italia e Quirinale lasciano scarichi Durazzo
alle 10, scortati dalla torpediniera Altair.
14 dicembre 1940
Il convoglio giunge a
Bari alle due di notte.
19 dicembre 1940
Donizetti, Italia, Quirinale e Città di Savona, aventi a bordo in tutto 3514 soldati e 85
tonnellate di materiali, lasciano Bari all’1.50, con la scorta della
torpediniera Stocco e
dell’incrociatore ausiliario Barletta.
Il convoglio arriva a Durazzo alle 17.
21 dicembre 1940
Donizetti, Città di Savona, Italia e Quirinale lasciano Durazzo alle tre di notte ed arrivano a
Bari alle 17.40, scortate dalla torpediniera Andromeda.
24 dicembre 1940
Salpa da Bari alle
00.30 unitamente al piroscafo Quirinale ed
alle motonavi Marin Sanudo
e Città di Savona, con la scorta
della torpediniera Castelfidardo e
dell’incrociatore ausiliario Capitano
A. Cecchi. Il convoglio, che trasporta il primo scaglione della 11a Divisione
Fanteria "Brennero" (2663 tra ufficiali e soldati, 186 automezzi e
558,5 tonnellate di materiali), giunge a Durazzo alle 15.15.
28 dicembre 1940
Alle 21 Donizetti, Quirinale ed il piroscafo Aventino
partono da Bari alla volta di Durazzo, trasportando 2538 tra ufficiali e
soldati, 84 quadrupedi e 626 tonnellate di materiali. Li scortano
l’incrociatore ausiliario Barletta e
la torpediniera Solferino, ma
quest’ultima deve tornare in porto a causa delle avverse condizioni del mare.
29 dicembre 1940
Il convoglio
raggiunge Durazzo alle 10.30.
30 dicembre 1940
Alle 17.45 Donizetti, Aventino e Quirinale
ripartono vuoti da Durazzo con la scorta della torpediniera Angelo Bassini.
31 dicembre 1940
Il convoglio
raggiunge Bari alle 7.40.
La Donizetti in tempo di pace, nel 1931 circa (g.c. Pietro Berti, via www.naviearmatori.net) |
1° gennaio 1941
La Donizetti e la motonave Città di Bastia salpano da Bari per
Durazzo alle 22, scortate dalla torpediniera Pallade e dall’incrociatore ausiliario Brioni. Le due motonavi hanno a bordo 1584 militari e 206
tonnellate di materiali.
2 gennaio 1941
Il convoglio arriva a
Durazzo alle 10.20.
4 gennaio 1941
Donizetti e Città di Bastia
lasciano vuote Durazzo alle 17.30, scortate ancora dalla Pallade.
5 gennaio 1941
Le tre navi arrivano
a Bari alle 9.
6 gennaio 1941
Parte da Bari alle 23
insieme ai piroscafi Carnia e Casaregis, quest’ultimo proveniente da
Ancona, e con la scorta del posamine Azio e
dell’incrociatore ausiliario Brioni.
Il convoglio trasporta 693 uomini, 101 veicoli e 1733 tonnellate di
rifornimenti.
7 gennaio 1941
Il convoglio giunge a
Durazzo alle 13.20.
8 gennaio 1941
La Donizetti ed il piroscafo Sant'Agata, ambedue scarichi, lasciano
Durazzo alle 8.30 scortati dalla torpediniera Calatafimi, con la quale giungono a Bari alle 21.
12 gennaio 1941
La Donizetti, la gemella Verdi e la motonave Birmania, aventi a bordo in tutto 1579 militari, 148 veicoli e 392
tonnellate di materiali, partono da Bari alle 00.00 dirette a Durazzo, dove
arrivano alle 12.45, scortate dall’incrociatore ausiliario Barletta e dalla torpediniera Generale
Marcello Prestinari.
13 gennaio 1941
Donizetti e Verdi lasciano
scariche Durazzo a mezzogiorno, scortate dalla torpediniera Generale Antonio Cantore.
14 gennaio 1941
Donizetti, Verdi e Cantore arrivano a Bari alle due di
notte.
16 gennaio 1941
Donizetti e Verdi partono da
Bari alle 3.15 scortate dal Barletta
e dalla torpediniera Partenope,
trasportando 1539 soldati e 250 tonnellate di materiali. Arrivano a Durazzo
alle 18.
18 gennaio 1941
Donizetti, Verdi ed il piroscafo
Goffredo Mameli ripartono scariche da
Durazzo alle 16.45 scortate dalla torpediniera Partenope.
19 gennaio 1941
Il convoglietto
arriva a Bari alle 9.
21 gennaio 1941
Donizetti, Verdi, la motonave Città di Trapani ed il piroscafo Sagitta, scortati dal Barletta, lasciano Bari alle 00.00 e
raggiungono Durazzo alle 13.30, trasportando 2229 soldati, 65 automezzi e 633
tonnellate di materiali.
23 gennaio 1941
Donizetti, Verdi e Città di Tripoli ripartono vuote da
Durazzo alle 17.45, scortate dalla Partenope.
24 gennaio 1941
Il convoglio arriva a
Bari alle 6.
26 gennaio 1941
Parte da Bari alle 21
in convoglio con la Verdi ed i
piroscafi Argentina e Città di Tripoli. Le navi, scortate dalla
torpediniera Castelfidardo e
dall’incrociatore ausiliario Città
di Genova, trasportano il primo scaglione della 59a Divisione
Fanteria "Cagliari", con 2634 uomini e 1162 tonnellate di materiali.
27 gennaio 1941
Il convoglio arriva a
Durazzo alle 9.15.
28 gennaio 1941
La Donizetti riparte vuota da Durazzo alle
8.30, scortata dal Barletta, ed
arriva a Bari alle 18.
30 gennaio 1941
Parte da Bari a
mezzanotte in convoglio con i piroscafi Città di Tripoli, Titania e Caterina, scortati dalla
torpediniera Giacomo Medici e
dall’incrociatore ausiliario Barletta.
Il carico del convoglio assomma a 688 quadrupedi e 128 tonnellate di foraggio e
materiali, oltre a 1506 militari.
31 gennaio 1941
Il convoglio arriva a
Durazzo alle 14.
Sbarcate le truppe,
la Donizetti riparte già 18.30,
insieme al piroscafo Casaregis, con
la scorta della torpediniera Giacomo
Medici.
1° febbraio 1941
Il convoglio giunge a
Bari alle 8.
3 febbraio 1941
La Donizetti, la gemella Rossini, la Città di Savona ed il Città
di Tripoli partono da Bari alle 23 trasportando il primo scaglione della 36a
Divisione Fanteria "Forlì" (3200 uomini e 529 tonnellate di
materiali), con la scorta dell’incrociatore ausiliario Brioni e dalla torpediniera Solferino.
4 febbraio 1941
Il convoglio arriva a
Durazzo a mezzogiorno.
6 febbraio 1941
La Donizetti e le gemelle Rossini e Puccini lasciano scariche Durazzo alle 16.30, scortate dalla Solferino.
7 febbraio 1941
Il convoglio arriva a
Bari alle 4.30.
10 febbraio 1941
Donizetti, Rossini, Città di Savona e Città di Tripoli partono da Bari
alle quattro del mattino e giungono a Durazzo alle 17.10, scortate dalla
torpediniera Andromeda e
dall’incrociatore ausiliario Brioni,
trasportando 3258 militari della 36a Divisione Fanteria
"Forlì" e 322 tonnellate di materiali.
11 febbraio 1941
La Donizetti, scortata dal Barletta, riparte scarica da Durazzo
alle 16.10.
12 febbraio 1941
Donizetti e Barletta arrivano a
Bari alle due di notte.
15 febbraio 1941
Alle 5.15 la Donizetti, la gemella Rossini, la motonave Narenta ed il piroscafo Italia lasciano Bari con la scorta
dell’incrociatore ausiliario Barletta
e della torpediniera Calatafimi, per
trasportare a Durazzo il primo scaglione della 38a Divisione
Fanteria "Puglie" (2857 uomini e 968 tonnellate di foraggio ed altri
materiali). Il convoglio arriva in porto alle 17.
17 febbraio 1941
Alle 4.30 Donizetti, Rossini e Narenta,
scariche, lasciano Durazzo per tornare a Bari, con la scorta della Calatafimi. Le navi raggiungono il porto
pugliese alle 11.30.
21 febbraio 1941
La Donizetti, la gemella Verdi e le motonavi Città di Alessandria e Città di Savona partono da Bari alla volta di Durazzo alle 22.30,
con a bordo 2875 uomini e 1200 tonnellate di rifornimenti, sotto la scorta del Capitano Cecchi e della Calatafimi. Le avverse condizioni meteomarine
costringono il convoglio a rientrare a Bari.
22 febbraio 1941
Il convoglio riparte
da Bari alle 20.45.
23 febbraio 1941
Le navi giungono
finalmente a Durazzo alle 8.30.
26 febbraio 1941
La Donizetti lascia scarica Durazzo alle
7.45 e raggiunge Bari alle 15.50, scortata dall’incrociatore ausiliario Francesco Morosini.
4 marzo 1941
La Donizetti, le motonavi Città di Bastia e Maria ed il piroscafo Casaregis partono da Bari alle 00.45,
trasportando 1462 militari, 286 automezzi e 546 tonnellate di materiali. Li
scortano la torpediniera Curtatone e
l’incrociatore ausiliario Capitano
Cecchi; il convoglio arriva a Durazzo alle 15.15.
5 marzo 1941
La Donizetti lascia Durazzo alle 22, con a
bordo 140 feriti, insieme al Casaregis,
scarico. Li scorta la Curtatone.
6 marzo 1941
Il convoglio arriva a
Bari a mezzogiorno.
8 marzo 1941
Donizetti e Città di
Bastia salpano da Bari alle 4, trasportando 1590 militari e 282
tonnellate di materiali. La scorta è costituita da Curtatone e Capitano
Cecchi; il convoglio giunge a Durazzo alle 17.40.
9 marzo 1941
Donizetti e Narenta, scariche,
lasciano Durazzo alle 16.30 con la scorta dell’incrociatore ausiliario Brioni.
10 marzo 1941
Donizetti, Narenta e Brioni arrivano a Bari alle 5.
11 marzo 1941
Donizetti, Città di Alessandria, Città di Savona ed il piroscafo Laura C. partono da Bari alle 3
trasportando in tutto 1525 militari, 107 automezzi e 447 tonnellate di
materiali. Il convoglio, scortato dal Brioni
e dal cacciatorpediniere Carlo Mirabello, giunge a Durazzo alle 14.50.
12 marzo 1941
La Donizetti riparte da Durazzo alle 8.20,
vuota, insieme a Città di
Alessandria (vuota) e Città
di Savona (con 249 feriti) e con la scorta del Mirabello, per ritornare a Bari, dove le navi giungono alle 21.30.
La Donizetti nel marzo 1941 (Coll. Mario Maggi, da www.slideplayer.it) |
15 marzo 1941
Donizetti, Città di Alessandria e Città di Savona ed il piroscafo Luciano lasciano Bari all’1.45
trasportando in tutto 2234 militari, 3190 tonnellate di benzina e 410
tonnellate di materiali, con la scorta di Mirabello e Brioni. Il convoglio giunge a Durazzo
alle 15.
17 marzo 1941
La Donizetti, avente a bordo 236 feriti
leggeri, lascia Durazzo alle 7 del mattino, insieme al piroscafo Laura C. ed alla motonave Barbarigo (entrambi scarichi) e con
la scorta della torpediniera Castelfidardo,
giungendo a Bari alle 22.45.
19 marzo 1941
Donizetti, Città di Tripoli, Città di Bastia e Narenta lasciano Bari alle 23 con a bordo il primo scaglione della 41a
Divisione Fanteria "Firenze" (1986 uomini e 612 tonnellate tra
materiali al seguito della truppa ed altri rifornimenti), scortate dalla Castelfidardo e dal Brioni.
20 marzo 1941
Il convoglio arriva a
Durazzo alle 15.15.
21 marzo 1941
Alle 14.30 la Donizetti riparte scarica da Durazzo con
la scorta dell’incrociatore ausiliario Capitano
Cecchi.
22 marzo 1941
Donizetti e Capitano Cecchi arrivano
a Bari all’1.10.
23 marzo 1941
La Donizetti, la gemella Puccini, la motonave Barbarigo ed il piroscafo Città di Tripoli lasciano Bari alle 20,
insieme all’incrociatore ausiliario Brindisi,
con a bordo complessivamente 2390 militari, 158 autoveicoli e 1270 tonnellate
di rifornimenti.
24 marzo 1941
Il convoglio arriva a
Durazzo alle 8.35.
26 marzo 1941
La Donizetti lascia scarica Durazzo alle
7.30 per rientrare a Bari, scortata dal Brioni,
arrivandovi alle 18.
27 marzo 1941
Donizetti, Città di Tripoli, Città di Savona ed un’altra motonave, la
Città di Trapani, salpano da Bari per
Durazzo alle 17, trasportando 2717 uomini e 380 tonnellate di rifornimenti. La
scorta è costituita dal Brindisi e
dalla torpediniera Giacomo Medici.
28 marzo 1941
Il convoglio arriva a
Durazzo alle 9.
29 marzo 1941
Il Donizetti, il piroscafo Sant’Agata e le motonavi Città di Trapani e Città di Savona, tutte scariche,
lasciano Durazzo alle 7.15, con la scorta della Curtatone. Il convoglio arriva a Bari alle 20.30.
2 aprile 1941
A mezzanotte la Donizetti, insieme alle motonavi Città di Savona, Città di Alessandria e Città di Tripoli, lascia Bari con la
scorta della Solferino e
dell’incrociatore ausiliario Barletta.
Il convoglio, che trasporta 2744 militari e 392 tonnellate di materiali, arriva
a Durazzo alle 13.30.
4 aprile 1941
La Donizetti ed i piroscafi Perla e Bolsena, tutti scarichi, lasciano Durazzo all’una scortati dalla
torpediniera Medici, arrivando a Bari
alle 16.40.
7 aprile 1941
Alle 00.00 Donizetti, Città di Alessandria e Città
di Tripoli lasciano Bari trasportando 2305 militari e 263 tonnellate
di materiali, con la scorta del Capitano
Cecchi e della torpediniera Prestinari.
Il convoglio raggiunge Durazzo alle 16.30.
8 aprile 1941
La Donizetti, avente a bordo 100 detenuti,
lascia Durazzo alle 9, insieme alla motonave Maria (scarica) ed al piroscafo Città di Tripoli (avente a bordo 150 militari rimpatrianti).
Il convoglio, scortato dalla torpediniera Curtatone,
arriva a Bari alle 22.30.
11 aprile 1941
Donizetti, Città di Alessandria
e Città di Savona, aventi a
bordo 2090 militari e 487 tonnellate di materiali, salpano da Bari alle 4 e
raggiungono Durazzo alle 16.45, scortate dal Brindisi e dalla
torpediniera Monzambano.
13 aprile 1941
La Donizetti (vuota) ed il piroscafo Quirinale (avente a bordo 65 militari
rimpatrianti) lasciano Durazzo alle 5.30 e raggiungono Bari dopo quattordici
ore di navigazione, scortati dal Barletta.
15 aprile 1941
Alle 22.30 Donizetti, Città di Alessandria, Città
di Trapani e Città di Bastia partono
da Durazzo trasportando 2887 militari e 785 tonnellate di materiali, con la
scorta della torpediniera Castelfidardo
e dell’incrociatore ausiliario Barletta.
16 aprile 1941
Il convoglio giunge a
Durazzo alle 17.30.
18 aprile 1941
Alle cinque, Donizetti e Città di Bastia lasciano scariche Durazzo insieme al piroscafo Lauretta, scortate dalla torpediniera Prestinari. Il convoglio raggiunge
Brindisi, dove la Prestinari viene
sostituita dal Capitano Cecchi, dopo
di che prosegue per Bari, arrivandovi alle 23.
26 aprile 1941
Donizetti, Aventino e Narenta salpano da Bari alle 21
trasportando 1136 soldati e 1365 tonnellate di rifornimenti, con la scorta di Brindisi e Medici.
27 aprile 1941
Il convoglio arriva a
Durazzo alle 9.
29 aprile 1941
Alle 5 Donizetti, Aventino e Narenta
lasciano scarichi Durazzo, insieme al piroscafo postale Campidoglio, scortati dalla Medici e dal cacciatorpediniere Carlo Mirabello. Il Campidoglio
si separa successivamente per raggiungere Brindisi, mentre Donizetti, Aventino e Narenta arrivano a Bari alle 19.15.
1° maggio 1941
Donizetti e Città di Tripoli,
unitamente al piroscafo Laura C.,
partono da Bari alle 21 trasportando 733 militari e 2100 tonnellate di
rifornimenti, sotto la scorta della Medici
e del Brindisi.
2 maggio 1941
Il convoglio arriva a
Durazzo alle 11.30.
3 maggio 1941
Lascia Durazzo
insieme al Città di Tripoli e
scortata dalla Solferino, alle
23. I due mercantili hanno a bordo 400 militari italiani che rimpatriano, 700
prigionieri serbi ed un carico di materiali.
4 maggio 1941
Il convoglio arriva a
Bari alle 11.30.
5 maggio 1941
Alle 20 Donizetti, Città di Tripoli, Maria
e Città di Marsala salpano da Bari
con a bordo 400 militari ed un carico di materiali, scortati dalla Solferino.
6 maggio 1941
Il convoglio arriva a
Durazzo alle 9.15.
7 maggio 1941
Donizetti, Città di Tripoli, Città di Marsala ed il piroscafo Monrosa, aventi a bordo 1910 militari
rimpatrianti e dei materiali, ripartono da Durazzo alle tre di notte scortati
dalla Solferino e
dall’incrociatore ausiliario Zara,
arrivando a Bari alle 17.
9 maggio 1941
Donizetti e Città di Tripoli,
carichi di truppe e materiali, lasciano Bari alle 22.40 scortati dal Brindisi.
10 maggio 1941
Il convoglietto
arriva a Durazzo a mezzogiorno.
12 maggio 1941
Donizetti e Città di Tripoli
lasciano Durazzo alle quattro del mattino carichi di prigionieri, scortati
ancora dal Brindisi, raggiungendo
Brindisi alle 11.25.
15 maggio 1941
Donizetti, Quirinale e Città di Marsala salpano da Bari alle 22
alla volta di Durazzo, scortati dal Barletta,
trasportando materiali vari.
16 maggio 1941
Il convoglio
raggiunge Durazzo alle 11.45.
17 maggio 1941
Donizetti, Quirinale e Città di Marsala lasciano Durazzo a
mezzogiorno e raggiungono Brindisi alle 23.10, scortati dal Barletta e dalla torpediniera Nicola Fabrizi, trasportando 867
militari nonché materiali vari.
24 maggio 1941
Donizetti, Quirinale, Città di Marsala e Città di Bastia partono da Bari alle 19 scortati dalla Fabrizi, trasportando 780 soldati e
materiali vari.
25 maggio 1941
Il convoglio arriva a
Durazzo alle 6.
27 maggio 1941
La Donizetti, con a bordo 613 prigionieri,
lascia Durazzo alle 00.00 e raggiunge Brindisi alle 8.40, scortata dalla Barletta.
4 giugno 1941
Donizetti, Rossini, Città di Alessandria ed il piroscafo Italia trasportano truppe e rifornimenti
da Bari a Valona, via Brindisi, con la scorta della torpediniera Solferino.
9 giugno 1941
Donizetti e Puccini, scortate
dal Barletta, trasportano truppe e
materiali da Bari a Porto Edda.
11 giugno 1941
Donizetti e Puccini, insieme al
piroscafo Silvano, ritornano da Porto
Edda a Brindisi con la scorta di Barletta
e Fabrizi.
14 giugno 1941
Donizetti e Puccini, scortate
dal Barletta, trasportano truppe e
materiali da Brindisi a Durazzo.
18 giugno 1941
Donizetti, Puccini ed il
piroscafo Milano trasportano truppe e
materiali da Bari a Valona, scortati dal Brindisi.
21 giugno 1941
Donizetti, Puccini e Milano rientrano da Valona a Brindisi,
scortati dal Brindisi e dalla Prestinari, trasportando truppe
rimpatrianti della 58a Divisione Fanteria "Legnano".
23 giugno 1941
Donizetti, Puccini e Milano trasportano personale e materiale
militare da Brindisi a Durazzo, scortati dalla Prestinari.
19 luglio 1941
La Donizetti, navigando da sola, trasporta
materiali vari da Bari a Durazzo.
4 agosto 1941
Donizetti e Quirinale trasportano
2000 soldati rimpatrianti da Durazzo a Bari, con la scorta della torpediniera Stocco e dell’incrociatore ausiliario Brindisi.
Estate/Autunno 1941
La Donizetti viene assegnata dal Ministero
delle Comunicazioni, in accordo con Maricotraf (il Comando Difesa Traffico), al
servizio di collegamento settimanale tra Brindisi e le Isole Ionie, e
precisamente linea Brindisi-Valona-Porto Edda-Corfù-Santa
Maura-Prevesa-Itaca-Cefalonia-Zante-Patrasso-Corinto e ritorno. La linea, in
precedenza quindicinale e servita dalla sola motonave Città di Spezia, diviene settimanale proprio in seguito
all’affiancamento della Donizetti
alla Città di Spezia, deciso su
richiesta dello Stato Maggiore dell’Esercito, dato che il collegamento
quindicinale è insufficiente delle forze armate in Grecia ed Albania,
soprattutto relativamente alla posta ed ai militari isolati. Le due navi
svolgono il servizio senza mai essere scortate, evitando di sostare di notte a
Zante, Santa Maura e Porto Edda, ancoraggi ritenuti troppo esposti agli
attacchi nemici.
18 settembre 1941
La Donizetti e la cisterna militare Urano compiono un viaggio da Patrasso a
Brindisi, scortate dalla torpediniera Generale
Antonio Cantore.
1° ottobre 1941
Alle 13.43 il
sommergibile britannico Proteus (capitano
di corvetta Philip Stewart Francis) avvista un mercantile stimato in circa 3000
tsl a 5-6 miglia di distanza, ed alle 14.04, dopo essersi avvicinato, lancia
contro di esso tre siluri, da una distanza di 2560 metri, in posizione 38°03’ N
e 20°21’ E (a sudovest di Cefalonia). I siluri mancano il bersaglio, e la nave
attaccata si allontana a tutta forza; due dei siluri esplodono contro la riva
dopo undici minuti dal lancio, ed alle 14.15 il Proteus scende a 24 metri e si ritira verso sudovest.
La nave attaccata è
con ogni probabilità la Donizetti,
che riferirà di essere stata mancata da dei siluri nella stessa zona indicata
dal Proteus. Dalle 15 alle 18 il Proteus viene sottoposto a caccia da
parte di due unità minori provenienti da Argostoli, che lanciano però soltanto
quattro bombe di profondità, nessuna delle quali gli esplode vicino (intanto il
sommergibile è sceso a 45 metri di profondità).
16 ottobre 1941
La Donizetti, insieme alla nave cisterna Devoli, trasporta truppe rimpatrianti da
Valona a Brindisi, scortata dalla Medici.
30 ottobre 1941
La Donizetti compie un viaggio da sola da
Brindisi a Valona.
19 dicembre 1941
Donizetti, Rosandra e Quirinale trasportano truppe e
rifornimenti da Bari a Durazzo, scortate da Stocco e Brindisi.
5 febbraio 1942
Donizetti, Aventino e Città di Catania trasportano truppe
rimpatrianti da Durazzo a Bari, scortati dalla Stocco e dall’incrociatore ausiliario Città di Napoli.
11 febbraio 1942
La Donizetti e la nave cisterna
tedesca Ossag salpano da
Brindisi cariche di truppe e materiali e si uniscono ad un convoglio in
navigazione da Bari a Patrasso, formato dalla motonave Viminale e dal piroscafo Galilea,
con la scorta della torpediniera Calatafimi
e dell’incrociatore ausiliario Arborea.
Il convoglio raggiunge Patrasso dopo aver fatto scalo a Corfù.
6 marzo 1942
La Donizetti ed il piroscafo Città di Catania trasportano truppe e
materiali da Bari a Durazzo, scortati da Zara e Solferino.
9 marzo 1942
Donizetti e Città di Catania tornano
da Durazzo a Bari, con truppe che rimpatriano, scortati da Zara e Solferino.
13 marzo 1942
Donizetti, Città di Catania ed
i piroscafi Rosandra e Quirinale partono da Bari e
raggiungono Durazzo, scortati dallo Zara e
dal cacciatorpediniere Augusto
Riboty, trasportando truppe e materiali.
16 marzo 1942
La Donizetti trasporta da Durazzo a Bari
truppe rimpatrianti, insieme a Rosandra, Quirinale e Città di Catania, con la scorta degli
incrociatori ausiliari Arborea
e Zara e del
cacciatorpediniere Augusto Riboty.
7 maggio 1942
Donizetti e Quirinale
trasportano truppe e rifornimenti da Bari a Zante, dove imbarcano truppe
rimpatrianti che poi riportano a Bari. Li scortano le torpediniere Medici e Stocco e l’incrociatore ausiliario Lorenzo Marcello.
La Donizetti fotografata da bordo del Quirinale durante il viaggio del 7 maggio 1942, durante la navigazione in Mar Ionio (fonte Valerio Mariotti-Facebook) |
Giugno 1942
Assegnata alla Forza
Navale Speciale per trasportare parte del corpo di sbarco destinato alla
pianificata, ma mai attuata, invasione di Malta (Operazione "C. 3").
Nei piani dello
sbarco, elaborati nel maggio 1942, la Donizetti
è destinata ad essere uno dei dieci trasporti truppe da impiegare nell’operazione,
insieme a Francesco Crispi, Milano, Rosandra, Italia, Viminale, Quirinale, Aventino, Calino e Città di Tunisi (ciascuno di essi può trasportare tra gli 800 e i
1400 soldati); essi trasporteranno le truppe che dovranno poi essere sbarcate
sulle coste di Malta da una composita flottiglia composta da 65 motozattere da
sbarco tipo MZ (costruite sui piani delle MFP tedesche progettate per
l’invasione del Regno Unito: possono trasportare e sbarcare fino a tre carri
armati e 100 uomini equipaggiati ciascuna), 100 “motolance” (in realtà veri e
propri mezzi da sbarco: possono sbarcare 30 uomini ciascuno) tipo ML (solo 9
delle quali, però, effettivamente costruite), 24 vaporetti requisiti della
laguna di Venezia (ognuno dei quali può trasportare e sbarcare 75 uomini), due
piccole motonavi anch’esse della laguna di Venezia (Altino ed Aquileia,
capacità 400 uomini cadauna), tre posamine (Durazzo,
Buccari, Pelagosa, che possono ciascuno trasportare 500 uomini), quattro
motocisterne-navi da sbarco (Sesia, Scrivia, Tirso, Garigliano,
ciascuna delle quali può trasportare e sbarcare due batterie da 75 mm e
veicoli), due traghetti ferroviari dello stretto di Messina (Aspromonte e Messina, in grado di trasportare ciascuno 4-8 carri armati e mille
tonnellate di materiali), tre piroscafetti costieri (Principessa Mafalda, Capitano
Sauro, Tabarca, ciascuno dei
quali può portare 400 uomini) e 50 motovelieri requisiti (24 trabaccoli, 14
golette, due brigantini goletta, 6 navicelli, due cutter e due motovelieri di
altro tipo: capacità media 300 uomini). Parte di queste unità (le MZ, le ML, le
motocisterne-navi da sbarco) sono unità costruite appositamente come unità da
sbarco, altre (specie i vaporetti ed i motovelieri) sono mezzi piuttosto di
fortuna, ottenuti convertendo alla meglio una quantità di imbarcazioni assai
eterogenee.
Le truppe da sbarco
assommano in tutto a 65.000 uomini, dei quali 32.000 appartengono al XXX Corpo
d’Armata (prima ondata: Divisioni Fanteria "Friuli",
"Livorno" e "Superga" e X Raggruppamento Corazzato), 26.000
al XVI Corpo d’Armata (seconda ondata: Divisioni Fanteria "Napoli" e
"Assietta") e 7000 al Comando Truppe Speciali (2000 fanti di Marina
del Reggimento "San Marco", 4000 camicie nere del Gruppo Battaglioni
Camicie Nere da Sbarco, 500 elementi delle forze speciali italiane e 500
tedeschi). In aggiunta a questi 65.000 uomini, che verranno sbarcati dal mare,
altri 29.000 uomini (italiani della Divisione Paracadutisti "Folgore"
e della Divisione Aviotrasportabile "La Spezia", e tedeschi della 7. FliegerDivision)
dovranno giungere sull’isola mediante aviosbarchi.
Lo sbarco verrà
appoggiato dalle unità della Forza Navale Speciale al comando degli ammiragli
Vittorio Tur (comandante in capo della stessa F.N.S.) e Luigi Biancheri: i
vecchi incrociatori leggeri Bari e Taranto, 15 cacciatorpediniere delle
Squadriglie III, IV, VII, VIII e XVI, una ventina di torpediniere e 20-30 tra
motosiluranti, MAS e VAS.
L’invasione di Malta
sarà tuttavia rimandata e poi accantonata in vista della spettacolare – all’apparenza
– avanzata delle forze italo-tedesche in Egitto, seguita alla battaglia di Ain
el Gazala, che illude gli alti comandi dell’Asse che presto Alessandria e il
Cairo saranno prese, rendendo superflua la conquista di Malta. L’operazione
"C. 3" verrà così cancellata il 27 luglio 1942; la Forza Navale
Speciale verrà formalmente sciolta il 5 gennaio 1943.
A fine giugno 1942,
la Donizetti si reca a Cattaro, e poi
a Valona, Corfù e Durazzo.
25 luglio 1942
La Donizetti trasporta truppe e materiali
da Bari a Corfù, viaggiando insieme ad un convoglio (piroscafi Aventino e Milano, incrociatore ausiliario Zara,
cacciatorpediniere Lampo,
torpediniera Antonio Mosto) in
navigazione da Bari a Patrasso.
27 luglio 1942
La Donizetti ritorna da Corfù a Bari, da
sola e senza scorta.
2 agosto 1942
Donizetti e Quirinale compiono
un viaggio da Bari a Durazzo, scortati dalla Medici, dall’incrociatore ausiliario Zara e dal cacciatorpediniere Sebenico.
7 agosto 1942
La Donizetti salpa da Bari alle 14.15
trasportando truppe (genieri e bersaglieri del 10° Reggimento, imbarcati il
giorno precedente) e materiali diretti a Patrasso, con la scorta della Stocco e dell’incrociatore
ausiliario Zara.
8 agosto 1942
Arriva a Patrasso
verso le otto di sera, poi prosegue per il Pireo, passando per il canale di
Corinto.
16 agosto 1942
Dopo aver sostato al
Pireo per una decina di giorni, la Donizetti
lascia quel porto e raggiunge Suda, con la scorta della Calatafimi. Qui sbarca le truppe, che verranno poi trasportate
in Africa per via aerea; poi imbarca fusti vuoti di benzina, da portare a
Napoli.
19-20 agosto 1942
Torna al Pireo e si
ormeggia nella baia di San Giorgio. Qui passerà i successivi tre mesi,
stazionando all’ormeggio; i fusti vuoti vengono trasbordati su un’altra nave.
Una descrizione
dell’equipaggio della Donizetti
tratteggiata nel suo diario (anzi, “brogliaccio”) dall’allievo ufficiale Widmer
Lanzoni, da Forlì, imbarcato su questa motonave dal 20 giugno 1942 al 18 aprile
1943 con funzioni di terzo ufficiale (si ringrazia il figlio Maurizio Lanzoni):
«L’equipaggio è in gran parte pugliese,
gli ufficiali di Fiume e Trieste, escluso il marconista che sta a Fasano. Il
comandante militare (la Donizetti è armata di un cannone poppiero e di una
mitragliera da 20 mm. sulla plancia ed ha, oltre all’equipaggio civile, anche
un equipaggio militare) è nella vita civile un pilota nel porto di Genova; il
Commissario militare ten. Matteo Ghio è di Lavagna. Egli segue e cura il
materiale militare che trasportiamo. Sono tutti più anziani di me [Lanzoni
aveva 20 anni], i più giovani sono oltre
la trentina. Subito abbiamo legato». L’equipaggio della Donizetti è composto da 36 marittimi
civili e dodici militari (segnalatori, cannonieri e mitraglieri, più il
comandante militare Questa ed il commissario).
La vita al Pireo
scorre lentamente: si passa il tempo come si può, tra tuffi in mare, le
franchigie a terra ad Atene (d’obbligo la visita al Partenone) e gli “incontri”
con ragazze del posto, che spesso si recano allo scopo direttamente a bordo
della nave (il che trova una certa opposizione da parte del comandante, il
quale però, alla fine, non disdegna a sua volta uno di questi… incontri); si
ascoltano la radio e i bollettini di guerra (evitando però di commentarli: c’è
diffidenza nel rivelare le proprie opinioni, si teme possano esserci delle
spie), i marinai si lamentano per la lunga assenza dalle loro case e per
l’inadeguatezza del vitto. Anche la situazione della posta lascia a desiderare:
mentre chi si fa inviare le lettere attraverso il Comando Marina del Pireo le
riceve con regolarità, chi riceve la posta attraverso il Ministero della Marina
subisce ritardi di diverse settimane. La Donizetti
ha anche qualche problema di infestazione: formiche e topi («Siamo pieni di topi, non quelli piccoli che
possono anche essere simpatici. Siamo pieni di topacci d’acqua, quelli che
popolano le fogne, grossi quasi come gatti. La nave ha bisogno di fare la
derattizzazione ed anche la disinfestazione. Invece siamo qui a fare da
albergatori a topi e marinai», lamenta Widmer Lanzoni).
Con i greci, i
commerci si fanno mediante pagamenti in pane anziché in denaro: la popolazione
greca è alla fame. Il cambio tra lira italiana e dracma al mercato nero è alle
stelle, due chili e mezzo di pane vengono venduti per 12.000 dracme: l’equipaggio
della Donizetti non riesce neanche a
ritirare la paga, così per avere un po’ di denaro deve ridursi a vendere ai
greci un po’ di cibo in eccesso. La situazione migliorerà un poco soltanto agli
inizi del 1943, con l’arrivo di alcune navi svedesi cariche di aiuti, inviate
su iniziativa della Croce Rossa. Della triste condizione della popolazione
greca parla a più riprese Widmer Lanzoni nel suo diario: «Ricordo in agosto [1942] un
bambino che frugava fra la spazzatura, nei pressi del porto. Raccoglieva semi
di melone per mangiarli. Ricordo anche un vecchio avvicinatosi ad una cucina
tedesca con una gavetta in mano per chiedere qualche avanzo, allontanato a
calci nel sedere. Da questo punto di vista i greci hanno più simpatie per noi:
hanno avuto aiuti a tutti i livelli, e forse sentono che anche noi in fondo
siamo schiavi dei tedeschi, anche se un poco meno di loro. E da noi hanno avuto
qualcosa. Ci hanno raccontato che nell’inverno 1941-42, cioè un anno fa, alla
mattina per le vie di Atene passavano con i carretti a raccogliere i morti per
fame e per freddo. Forse è stata solo esagerazione. Ma un fatto è certo: con
una brenosa, il panino dei marinai di circa 200/250 grammi, si poteva andare a
letto con una ragazza. E forse non tutte erano prostitute abituali. (…) Mentre stasera stavo rientrando (…) mi si è avvicinata una ragazzina, anzi una
bambina. (…) mi ha chiesto: “Dove
vai, bel marinaio? Vuoi venire a chiavare?” Sono rimasto colpito dalla frase
brutale pronunciata in buon italiano. La bambina avrà avuto 10 o 11 anni al
massimo, il visetto pulito e l’aria non equivoca accentuarono l’impressione che
la volgarità pronunciata mi aveva fatto. Sono rimasto interdetto. (…) Prendendo tempo pensando che la piccola
fosse la ruffiana della sorella più grande o della mamma: “Con chi?” “Con me”
ha risposto prontamente, ed alla mia aria di sorpresa ha aggiunto: “Sono
capace, sai!” (…) pensare ad una
bambina, senza il minimo accenno di petto, senza ancora un pelo, che per un
pezzo di pane si prostituisce, pensare che questa è una conseguenza della
guerra, sì, bisogna dire che l’umanità ha fatto una grandissima offesa a questa
povera bambina. Siamo tutti matti. Ci scanniamo per delle idee, ci saltiamo
addosso per avere più terre, più commerci, per avere più oro da spendere nelle
armi, e costringiamo la gente ad aver fame. Il bambino che rovistava nella
spazzatura, questa bambina già segnata dalla prostituzione per fame quando
ancora non sa neppure cosa voglia dire cominciare ad essere donna, il vecchio
preso a calci perché elemosinava gli avanzi di una mensa, tutte le ragazze che
abbiamo avuto perché davamo a loro un pezzo di pane, il mutilato greco sul
marciapiedi di Atene (quanti ce ne sono!) che chiede la carità per
sopravvivere, ecco la guerra. Questa è la guerra! Questa è la più grande accusa
che l’uomo possa fare all’uomo. E non è ancora finita!».
La forzata immobilità
provoca non poca insofferenza tra l’equipaggio, come attesta nel suo diario
Widmer Lanzoni: «Da 43 giorni siamo
lontani da Bari e dall’Italia. Da 30 giorni siamo qui fermi. Forse si sono
scordati di noi. Dovrebbe essere una situazione molto accettabile: niente
rischi, riposo quasi assoluto, la paga corre, ci si diverte. Ma allora perché
l’equipaggio, gli uomini, tutti gli uomini sono sempre più nervosi?». E più
avanti: «Almeno si facesse qualche
viaggio! Sono partito da casa per non stare fermo ed ora mi trovo qui in
condizioni peggiori. Dal 20 agosto non ci muoviamo. L’equipaggio è nervoso.
Ogni piccola cosa, ogni contrarietà diventa una questione di stato. Il vitto
non è sempre di buona qualità, anzi quasi mai. Anche la quantità lascia a
desiderare. Ormai non abbiamo più soldi e non ne possiamo avere. Molti, specie
i giovani, sono impestati. Forse quei piccoli furti che ogni tanto si
verificano sono dovuti alla impossibilità pratica di riscuotere qui la paga.
Questa è la vita sulla Donizetti, oggi. Siamo sprovvisti di indumenti pesanti
per l’inverno. Nonostante tutto questo io non mi lamento. Vorrei solo navigare.
Mi sono preparato per questo, ho studiato, questa vita mi piace; ho bisogno di
fare dell’esperienza professionale. Inoltre il dolce far niente può, a lungo
andare, far male quanto i lavori forzati (…) A bordo sono venuti ad alloggiare cinque ufficiali della Finanza. Altro
che nave appoggio! Stiamo diventando un albergo. Bella carriera!» e molto
più avanti, il 5 novembre: «A bordo il
bordello aumenta. Bordo – bordello. L’accostamento è significativo. Si propone
di cambiare la denominazione in “Donizetti, Manicomio Requisito”».
Ad Atene occupata si
verificano, talvolta, scioperi e disordini, per cui il porto è vigilato da
sentinelle armate, ed in qualche occasione viene proibito agli equipaggi di
scendere a terra a causa dei tumulti in corso. Widmer Lanzoni scrive, in
proposito, nel suo diario: «Se i greci
avessero delle armi, la nostra permanenza sarebbe messa in discussione. Ma non
hanno armi. Anche perché chi è trovato in possesso di un’arma è fucilato sul
posto. Però io penso che le armi ci siano. Sono ben nascoste. Le tireranno
fuori al momento opportuno. Non si può rendere schiavo un popolo, spogliandolo
di tutto, dalle risorse materiali ai valori morali. Tutti chinano la testa e
sopportano, patiscono umiliazioni. Ma c’è sempre qualcuno che non si arrende.
Chi combatte per la propria libertà merita il rispetto di tutti e non può
essere trattato come un bandito. Io non posso odiare questi greci che tentano
di ribellarsi. Anche se in un qualche disordine od attentato potessi
accidentalmente rimetterci la pelle, non potrei odiare chi mi uccide: è un
fratello che combatte per la sua libertà. E se combatte per la sua libertà egli
combatte anche per la mia libertà. Ho l’impressione che i greci facciano una
distinzione fra italiani e tedeschi. Chissà! Da un punto di vista esterno,
magari superficiale, sembra che in Grecia esistano solo due categorie di gente:
chi muore letteralmente di fame e cerca anche fra i rifiuti e la spazzatura, e
chi col contrabbando, il mercato nero e la speculazione guadagna pozzi di soldi
e si diverte e se la spassa come se la guerra non ci fosse. (…) È logico e normale che un uomo si ribelli
al dominio degli stranieri. È una regola che vale per tutto il mondo e quindi
anche in Grecia. Chi ha imparato ad amare la propria patria studiando il
Risorgimento, non può non pensare che ognuno ha il diritto di amare la propria
patria e di volerla una, libera, indipendente e, magari… repubblicana».
29 settembre 1942
Con manovra iniziata
alle 10.05 e terminata alle 11.30, la Donizetti
viene fatta spostare dalla rada al porto del Pireo, nei pressi del Comando
Marina, per essere impiegata come nave caserma e nave appoggio per le navi da
guerra che vanno e vengono dal Pireo.
Ottobre-Novembre 1942
La Donizetti viene temporaneamente
utilizzata al Pireo come nave caserma. La sistemazione a bordo dei militari che
vi sono alloggiati – reclute e marinai di passaggio in “forza relativa”, cioè
sbarcati da un’unità ed in attesa di assegnazione ad una nuova nave o ad un
nuovo Comando di terra – è decisamente spartana, come annota il sottonocchiere
Alessandro Caldara del cacciatorpediniere Freccia,
“ospite” a bordo per qualche giorno, nel suo libro di memorie "Quelli di
sottocastello": “dobbiamo dormire nella stiva, sulla lamiera fredda e
umida, senza niente sopra e nulla sotto; roba da pazzi!”. Dopo l’arrivo di un
contingente di 700 marinai destinati all’Egeo, che rendono le stive ancor più
sovraffollate, Caldara ed alcuni compagni giungeranno a tentare di farsi
arrestare da una ronda militare, per passare la notte in cella anziché sulla Donizetti (non avendo avuto successo,
Caldara e compagni si arrangeranno alla fine a dormire all’interno di una
scialuppa di salvataggio, con dei salvagente come cuscini).
4 ottobre 1942
La Donizetti rifornisce di acqua ed
elettricità la torpediniera Sirio,
venutasi ad ormeggiare al suo fianco.
6-7 ottobre 1942
Vengono alloggiate
per una notte sulla Donizetti (in
cabina), in attesa dell’imbarco sulla motonave Pola, 50 giovani maestre italiane dirette nel Dodecaneso. (Durante
la notte trascorsa sulla nave, non mancano… “incontri” tra le piacenti
maestrine e qualche giovane e focoso ufficiale, compreso il commissario
militare Ghio, come annota nel suo diario Widmer Lanzoni, impossibilitato ad…
operare perché malato).
9 ottobre 1942
La Donizetti rifornisce di corrente la torpediniera
Solferino, attraccatasi accanto ad
essa, e l’indomani fa lo stesso con la torpediniera Castore; vengono imbarcati ufficiali dell’Esercito, della Marina e
della Guardia di Finanza che vanno o vengono dalle isole dell’Egeo per licenze
e trasferimenti. Gli ufficiali vengono alloggiati nelle cabine destinate in
tempo di pace ai passeggeri.
Nei giorni seguenti,
la Donizetti rifornisce di acqua
rimorchiatori, cacciatorpediniere e torpediniere; la motonave è a sua volta
rifornita da due bettoline. A bordo alloggiano sempre ufficiali dell’Esercito,
della Regia Marina, della Marina Mercantile e della Guardia di Finanza, in
attesa di raggiungere le rispettive destinazioni. Scrive Widmer Lanzoni: «Navi che partono, navi che arrivano. Solo
noi stiamo fermi qui. Ma qualche nave comincia a mancare all’appello. Forse fra
non molto dovremo rimpiazzare qualche vuoto e cominciare finalmente a navigare».
22 ottobre 1942
Quando tutti gli
ufficiali-ospiti se ne sono andati e si spera che finalmente una partenza stia
per rompere l’immobilità di una sosta forzata che ormai dura da due mesi,
arrivano a bordo una settantina di marinai della Regia Marina: continua la vita
da nave caserma («nave appoggio, nave
alloggio…»). Lo stesso giorno, alle 14.30, il posamine tedesco Bulgaria, durante la manovra d’attracco,
sperona la Donizetti sul lato di
dritta, provocando una falla di 52 centimetri per 13 poco al disopra della
linea di galleggiamento.
27 ottobre 1942
Giunge la notizia che
la nave stia finalmente per partire, dovendo trasportare 700 militari nel
Dodecaneso; ma dopo neanche un’ora giunge un contrordine. La Donizetti continua ad essere una nave
caserma: arrivano a bordo 400 marinai che vengono alloggiati nelle stive, in
attesa di imbarcarsi su altre navi che li porteranno nelle isole dell’Egeo.
5 novembre 1942
In mattinata la
maggior parte dei marinai alloggiati a bordo sbarca.
14-16 novembre 1942
Il 14 novembre vengono
sbarcati tutti i marinai ancora alloggiati a bordo, ma il mattino seguente ne
arrivano altri 200, in gran parte provenienti da Tobruk (che sta venendo
evacuata in preparazione del suo imminente abbandono: dopo la vittoria di El
Alamein, le truppe britanniche stanno avanzando rapidamente in Cirenaica),
seguiti da altri ancora il 16 novembre.
17 novembre 1942
Quasi tutti i marinai
alloggiati sulla Donizetti vengono
sbarcati; lo stesso giorno, iniziando a scarseggiare la nafta, viene deciso di
spegnere i generatori di elettricità della Donizetti,
da quel momento in avanti, a mezzanotte, invece di tenerli continuamente in
funzione come si era fatto in passato.
19 novembre 1942
Parte della nafta
delle riserve di bordo viene ceduta al Comando Marina del Pireo, come da questo
richiesta.
20 novembre 1942
Sbarcano gli ultimi
marinai alloggiati, mentre rimangono a bordo gli ufficiali sistemati nelle
cabine.
30 novembre 1942
Vengono alloggiati a
bordo altri marinai, arrivati con una tradotta da Venezia. Agli uomini della Donizetti i nuovi arrivati raccontano
del deragliamento e dell’incendio, durante il viaggio, di due vagoni del loro
treno: forse un incidente, forse un sabotaggio dei partigiani greci.
1° dicembre 1942
Alle undici di sera
giungono a bordo per alloggio un’altra ottantina di marinai, arrivati su una
tradotta veloce.
Nei giorni seguenti,
la situazione al Pireo diviene più tesa: viene vietato di portare a bordo
civili greci (le ragazze che si accompagnano con l’equipaggio, il garzone dei
giornali), e viene rafforzata la vigilanza armata sul piazzale del Comando
Marina.
3 dicembre 1942
Mentre si susseguono
notizie di affondamenti di navi sulla rotta dell’Africa Settentrionale (alcune
corrette, altre infondate), alle otto del mattino arrivano sulla Donizetti altri 150 marinai da
alloggiare a bordo.
5 dicembre 1942
Vengono alloggiati
sulla Donizetti altri marinai
arrivati ad Atene su una tradotta. Raccontano di un ponte fatto saltare da
partigiani greci.
6 dicembre 1942
Giunge l’ordine di
tenersi pronti a muovere in due ore, ma dopo aver atteso tutto il pomeriggio
l’ordine di sbarcare i marinai alloggiati e di rifornirsi per partire, che però
non arriva.
7 dicembre 1942
Alle 7 arriva
finalmente l’ordine di sbarcare tutti i marinai, eccetto quelli diretti a Lero;
alle 8.15 vengono imbarcati altri marinai, ma non per alloggio, bensì per
trasportarli a Lero. Vengono eseguite ispezioni ai fanali di via, ai telefoni
di manovra, ai telegrafi di macchina nonché del pescaggio a prua e a poppa; tra
le 11.05 e le 11.50 la Donizetti si
sposta al Molo Carboni, dove durante il pomeriggio imbarca dapprima 200
tonnellate di materiale militare e poi, tra le 16.50 e le 20.30, truppe da
trasportare a Lero (i 150 marinai alloggiati che sono diretti a Lero vengono
fatti spostare nel corridoio stiva numero 4). In tutto vengono imbarcati 700
militari; molti sono della classe 1923, chiamati alle armi da soli tre mesi.
8 dicembre 1942
Alle 4.25 la Donizetti inizia le manovre per la
partenza, ed alle 4.50 è fuori dalle ostruzioni del Pireo e, sbarcato il
pilota, inizia la navigazione verso Rodi, in convoglio con il piroscafo
italiano Argentina, il piroscafo
tedesco (ex greco) Ardena e la scorta
del cacciatorpediniere Euro e delle
torpediniere Castore e Libra (per una fonte, anche della Calatafimi). L’Ardena, incaricato di raccogliere naufraghi in caso di
affondamenti, procede in coda al convoglio, che dall’alba riceve anche una
scorta aerea di tre velivoli della Luftwaffe. Le navi procedono a poco più di 9
nodi (per lo stupore di Widmer Lanzoni, che non credeva possibile di
raggiungere tale velocità dopo quattro mesi di sosta in cui lo scafo della Donizetti si era coperto di
incrostazioni), con cielo coperto e mare un po’ mosso, tempo non molto freddo.
Verso mezzogiorno le nubi iniziano progressivamente a diradarsi, lasciando il
posto al sole.
9 dicembre 1942
Il convoglio arriva a
Rodi alle 8.30; la Donizetti si
ormeggia nel porto mercantile, dove sbarca truppe e materiali per poi ripartire
alle 16.45. Nonostante sia dicembre, fa caldo come se fosse agosto. Alle 16.55
la motonave, ultima unità del convoglio a lasciare Rodi, è in franchia delle ostruzioni;
la formazione, sempre composta da Donizetti,
Argentina ed Ardena scortate da Euro, Libra e Calatafimi, fa rotta per il Pireo. Alle 18.30 c’è un allarme aereo.
10 dicembre 1942
Inizia a tirare un
forte vento di tramontana, che provoca un notevole scarrocciamento, mentre lo
stato del mare va peggiorando, fino a diventare mosso; alle 8.50 giunge
l’ordine di cambiare rotta (forse determinato da un allarme sommergibili), che
porta la Donizetti ad avere il vento
al traverso, rollando fortemente. Alle 11 un velivolo della scorta aerea lancia
una bomba di profondità; poi le navi tornano sulla rotta di prima, ma hanno
sempre il vento al traverso.
Alle 18.05, giunti in
prossimità del Pireo, un’unità della scorta segnala libertà di manovra, ed alle
19.22 la Donizetti supera le
ostruzioni del Pireo, preceduta dall’Ardena.
Non avendo ancora imbarcato il pilota, la motonave rischia quasi di andare a
sbattere contro gli sbarramenti, ed alle 19.30 deve mettere i motori indietro
tutta per evitarlo; alle 19.41 arriva il pilota, ed alle 19.58 la Donizetti dà fondo nella rada di San
Giorgio.
11 dicembre 1942
La Donizetti si sposta dalla rada di San
Giorgio al porto, dove va ad ormeggiarsi al posto che aveva occupato per mesi
fino a pochi giorni prima.
12 dicembre 1942
Vengono imbarcati
un’ottantina di marinai per alloggio, ma solo per una notte.
13 dicembre 1942
Sbarcati in mattinata
i marinai, tra le 8.30 e le 9.50 la Donizetti
manovra per andarsi ad ormeggiare al Molo Carboni, dove alle 14 inizia a
caricare materiale militare ed alle 16.30 ad imbarcare truppe, da portare a
Rodi. In tutto vengono imbarcati 643 militari e 78,7 tonnellate di merci.
14 dicembre 1942
All’1.30 inizia la
manovra per uscire dal porto; poco dopo le due la Donizetti è in franchia delle ostruzioni, ma poco dopo un’unità
della scorta le segnala di tornare indietro e dar fondo nella baia di Salamina,
essendo la partenza stata sospesa. Alle 2.45 la motonave dà fondo nella baia di
San Giorgio. Alle 4, come segnalato dal semaforo tedesco, la Donizetti si ormeggia di nuovo al Molo
Carboni. Alle 17 torna a dare fondo nella rada di San Giorgio, in attesa di
ordini.
15 dicembre 1942
Donizetti, Argentina, Ardena ed il piroscafo Hermada lasciano il Pireo alle due di
notte dirette a Rodi, con la scorta di Euro,
Castore e Libra.
17 dicembre 1942
Il convoglio arriva a
Rodi dopo un viaggio tranquillo, con tempo favorevole e nessun attacco nemico.
A Rodi fa sempre caldo, nonostante il periodo dell’anno.
Sbarcate rapidamente
truppe e merci, Donizetti, Argentina ed Ardena ripartono il giorno stesso da Rodi per tornare al Pireo con
la scorta del cacciatorpediniere Turbine
e delle torpediniere Castore e Libra.
Alle 19 le vedette
della Donizetti sentono colpi di
cannone a poppavia, in lontananza, mentre alle 22 vengono avvistati razzi
illuminanti in direzione di Coo.
18 dicembre 1942
Alle 13, al largo di
Makronisi, l’Argentina rischia di
speronare la Donizetti a causa di una
manovra errata.
La Donizetti arriva al Pireo alle 16 e si
ormeggia nella baia di Salamina.
19 dicembre 1942
In mattinata la Donizetti entra nel porto e si ormeggia
al Molo Carboni, dove imbarca 47,1 tonnellate di merci da portare a Rodi.
Durante il pomeriggio imbarca truppe (625 uomini).
20 dicembre 1942
Durante la notte Donizetti, Argentina ed Ardena partono
dal Pireo dirette a Rodi con la scorta di Turbine,
Castore e Libra.
21 dicembre 1942
Durante la notte,
mentre il convoglio si trova a sud di Lero, vengono avvistati dei razzi in
direzione di Lero e di Calino.
I tre mercantili arrivano
a Rodi in mattinata, sbarcano truppe e materiali e ripartono alle 15 per tornare
al Pireo, con la stessa scorta dell’andata. La Donizetti è scarica (per altra fonte, trasporta 646 uomini e 75
tonnellate di merci).
Al momento della
partenza viene notata l’accensione di un grande fuoco sul versante occidentale
del monte Ack Dag, sulla costa della Turchia: tale fenomeno, già verificatosi
altre volte, fa pensare che qualcuno osservi la partenza delle navi da Rodi ed
accenda dei fuochi per segnalarlo.
22 dicembre 1942
La navigazione
procede senza problemi, con mare mosso da tramontana e da maestro. In mattinata
l’Ardena, che procede in coda al
convoglio, avvista il periscopio di un sommergibile e dà l’allarme; subito il Turbine ed il velivolo della scorta
aerea attaccano il sommergibile, mentre la Donizetti
e gli altri mercantili si allontanano a tutta forza dal punto segnalato.
La Donizetti arriva al Pireo alle 16,30 e
viene mandata ad ancorarsi nella rada di San Giorgio.
24 dicembre 1942
In mattinata la Donizetti entra nel porto e va ad
ormeggiarsi di punta presso il Comando Marina.
25 dicembre 1942
Dopo che gli
ufficiali ed il comandante hanno consumato nel salone il pranzo di Natale, la Donizetti viene fatta spostare al molo
Carboni.
Alle 23 c’è un
allarme aereo: si vedono vampe ed esplosioni nell’interno dell’Attica.
26 dicembre 1942
Alle 9.15 la Donizetti inizia ad imbarcare 614
militari e 56 tonnellate di merci da trasportare a Creta. Alle 11 la nave va a
rifornirsi di nafta; alle 14.40 lascia il molo ed alle 15, in franchia delle
ostruzioni, inizia la navigazione verso Iraklion, in convoglio con l’Ardena ed il piroscafo Re Alessandro e la scorta di Turbine e Libra (secondo il diario di Widmer Lanzoni, fa parte della scorta
anche la Calatafimi).
27 dicembre 1942
Le navi incontrano
mare molto agitato, ma alle 8.40 sono in vista di Iraklion ed alle 9 entrano in
porto. Nell’ultimo tratto di navigazione del convoglio, il velivolo tedesco
della scorta aerea è precipitato in mare per cause ignote.
La Donizetti dà fondo alle 9.05 e viene
avvicinata da un rimorchiatore sul quale dovrebbe trasbordare le truppe per
portarle a terra, ma il trasbordo non è possibile. Alle 13 la motonave manovra
per andare in banchina, ed un’ora dopo inizia a sbarcare prima le truppe e poi
i materiali (prima il materiale al seguito delle truppe, e poi quello destinato
all’amministrazione militare italiana).
Scrive di Creta
Widmer Lanzoni: “Mi ha colpito un
grandioso leone di S. Marco sulle mura interne del porto. È una testimonianza
del dominio veneziano. Questo leone l’ho guardato come si guarda un parente. Mi
ha fatto sentire quasi a casa. Creta è presidiata da italiani e tedeschi. Ci
sono solo donne e vecchi. Gli uomini vecchi sono alti, asciutti. Schiena
diritta e neri occhi fieri che, quando ti guardano (spesso non ti vedono
guardando oltre) non si abbassano e sembrano ammonirti: stai attento che qui
non sei a casa tua ma nostra e prima o poi faremo i conti! Questa gente ha
sterminato con i forcali una divisione di paracadutisti tedeschi quando l’Asse
occupò Creta”.
La Donizetti finisce di scaricare le merci
il mattino del 28, ma la partenza, prevista per il pomeriggio, viene
posticipata di ventiquattr’ore.
29 dicembre 1942
Donizetti (con a bordo 97 militari), Re
Alessandro, Ardena, Città di Savona ed il piroscafetto
tedesco Burgas lasciano Iraklion per
rientrare al Pireo, con la scorta di Libra
e Turbine (e, secondo Widmer Lanzoni,
anche della Calatafimi). Le navi
procedono a otto nodi.
30 dicembre 1942
Alle 9.45 Turbine e Calatafimi rilevano un sommergibile sulla sinistra del convoglio e
lo attaccano immediatamente con bombe di profondità, mentre i mercantili si
allontanano. Il tempo è buono, salvo che per un forte piovasco poco prima di
mezzogiorno.
La Donizetti con colorazione mimetica (da “Tragedia e mistero in Egeo” di Vinicio Bagni, su www.empoliestoria.it) |
1° gennaio 1943
La Donizetti trascorre la festività di
Capodanno all’ormeggio nel porto del Pireo. L’arrivo del nuovo anno viene
salutato dalle sirene delle navi, dalle campane delle chiese ortodosse, e
persino col tiro di molte mitragliere, che sparano verso il cielo proiettili
traccianti che lasciano scie luminose bianche e rosse. Sulla Donizetti, gli ufficiali brindano con la
grappa acquistata durante il viaggio a Creta (nell’isola se ne trovava molta e
a buon mercato, così l’equipaggio ha approfittato per farne scorta), dopo una
partita a poker nella saletta. Scrive Widmer Lanzoni: “Certo tutti tacitamente ci facciamo l’augurio che quest’anno veda la
fine della guerra così che tutti noi possiamo fare la nostra attività, il
nostro mestiere senza i pericoli della guerra. Navigare in tutto il mondo,
passare le mitiche colonne d’Ercole. Ci sono già abbastanza pericoli in mare,
non c’è bisogno di aumentarli con la guerra”.
Nel pomeriggio, la
torpediniera Solferino attracca al
fianco della Donizetti e si collega
ai suoi generatori per rifornirsi di energia elettrica.
4 gennaio 1943
Il capitano di lungo
corso Pavacci, comandante civile della Donizetti,
sbarca; il comando passa al capitano di lungo corso Berlot, fino a quel momento
primo ufficiale. A sua volta, il secondo ufficiale Paradiso diventa primo
ufficiale, e come nuovo secondo ufficiale viene trasferito sulla Donizetti il secondo ufficiale della
motonave Città di Savona, Crestana.
In serata, in seguito
alla notizia, recata da un ufficiale tedesco, di un sabotaggio ai danni di una
nave nel porto, attuato per mezzo di cariche esplosive applicate sullo scafo
(si saprà poi trattarsi del piroscafo Hermada,
danneggiato dall’esplosione di una mina adesiva collocata da un partigiano
greco, e portato a poggiarsi su un bassofondale), l’equipaggio della Donizetti si affretta ad ispezionare il
bagnasciuga della nave, senza rinvenire cariche esplosive. A trovarne è invece
l’equipaggio di un’altra motonave ormeggiata in porto, la Città di Alessandria; le pericolose mine vengono rimosse prima di
poter far danno, e vengono scoperti e catturati anche i due barcaioli greci che
le hanno piazzate.
5 gennaio 1943
Verso le 18.30 due
piccoli battelli greci si avvicinano alla Donizetti
ormeggiata in porto, con intenzioni poco chiare: quando il marinaio di guardia
a prua li vede e si avvicina per chiedere chi siano e vedere cosa stiano
facendo, le due barche si danno precipitosamente alla fuga. Segue una nuova
affannosa ispezione a tutto lo scafo, che non rivela nulla di strano. Poco dopo
il Comando Marina, in seguito all’affondamento dell’Hermada, ordina a tutte le navi in porto di sparare a vista, senza
preavviso, su qualsiasi barca o battello che si avvicini alle navi o che
circoli per il porto o per la baia.
7 gennaio 1943
Allarme aereo alle
quattro del mattino, che però non viene seguito da un effettivo attacco.
8 gennaio 1943
Alle otto del mattino
vengono imbarcati 400 marinai per alloggio.
10 gennaio 1943
Il vento forte di
libeccio, che provoca un leggero rollio persino alla nave ormeggiata in porto,
induce a rinforzare gli ormeggi.
11 gennaio 1943
Alle otto del mattino
la Donizetti entra in bacino di
carenaggio per operazioni di pulizia dello scafo.
14 gennaio 1943
Terminati i lavori di
pulitura, la Donizetti lascia il
bacino a mezzogiorno.
19 gennaio 1943
In nottata, allarme
aereo; il porto non viene toccato, si sentono esplosioni lontane, verso
l’entroterra. Alle 7.30 la Donizetti
mette in moto e si sposta al Molo Carboni; nel pomeriggio imbarca merci varie,
muli e veicoli da trasportare a Creta.
20 gennaio 1943
La Donizetti si rifornisce di nafta, ma
l’imbarco delle truppe, previsto per il mattino, viene rimandato all’indomani.
21 gennaio 1943
In mattinata la Donizetti imbarca 509 militari da
trasportare ad Iraklion, poi dà fondo nella baia di Salamina. Qualche ora dopo,
parte sotto scorta, diretta al Pireo.
Alle 15.30 viene dato
l’allarme sommergibili; la Donizetti
si allontana a tutta forza dal pericolo, mentre le unità della scorta lo
attaccano con bombe di profondità.
22 gennaio 1943
La Donizetti arriva ad Iraklion tra le cinque
e le sei del mattino, ma essendo troppo buio per ormeggiarsi in banchina, si
mette alla fonda, dopo di che può attraccare poco dopo le 6. Salpando le
ancore, quella di dritta va perduta (verrà recuperata il 23 gennaio).
23 gennaio 1943
Alle due di notte si
verifica un allarme aereo: aerei britannici attaccano l’aeroporto di Iraklion.
Imbarcati 514 militari, la Donizetti
lascia Iraklion nel pomeriggio per rientrare al Pireo. Mare piuttosto forte.
24 gennaio 1943
Dopo una navigazione
tranquilla, la Donizetti dà fondo
alle undici del mattino nella baia di San Giorgio. Fa piuttosto caldo,
nonostante sia gennaio. Dalle 20.45 alle 21.30 e dalle 22.45 alle 23.45 si
susseguono due allarmi aerei, ma non vi è traccia di velivoli nemici.
25 gennaio 1943
Altro allarme aereo,
dalle 21 alle 22.30, suonato dopo l’improvvisa apertura del fuoco da parte
delle batterie contraeree.
26 gennaio 1943
In mattinata la Donizetti entra in porto e si rifornisce
di nafta, poi va ad ormeggiarsi davanti al Comando Marina alle 17.
27 gennaio 1943
In contrasto con il
caldo di qualche giorno prima, una nevicata imbianca il porto del Pireo e le
navi ivi ormeggiate.
30 gennaio 1943
Durante la manovra di
disormeggio della nave ospedale tedesca Konstanz,
che si trova ormeggiata accanto alla Donizetti,
le ancore della nave tedesca si impigliano nelle catene di quella italiana,
necessitando poi di oltre mezz’ora di lavoro per liberarle.
31 gennaio 1943
Tra le 8.30 e le 8.55
la Donizetti manovra per attraccare
al Molo Carboni; alle 10 il piroscafo Hermada,
recuperato dopo il suo quasi affondamento con cariche esplosive di tre
settimane prima, si affianca alla Donizetti,
sulla quale inizia a trasbordare il suo carico (farina, grano e granturco in
sacchi, casse di materiale militare, traverse di legno, tre pezzi d’artiglieria).
Le operazioni di trasbordo si protraggono senza sosta per tutta la giornata del
31 gennaio e del 1° febbraio, concludendosi soltanto il mattino del 2 febbraio,
dopo 53 ore. Gli scaricatori di porto greci, affamati, cercano di rubare grano
prendendolo dai sacchi rotti ed infilandoselo nelle tasche interne dei
pantaloni; ma alla fine di ogni turno sono perquisiti dai carabinieri, che
sorvegliano il trasbordo.
2 febbraio 1943
Alle 20.45 la Donizetti inizia ad imbarcare anche dei
soldati, mentre si sta ancora caricando materiale nel corridoio della stiva n.
4: questa volta sono state riempite tutte e quattro le stive e si sistema del
carico anche nei corridoi di stiva, dove solitamente vengono sistemate le
truppe.
3 febbraio 1943
Verso le quattro del
mattino viene ultimato il caricamento delle merci. In tutto, sono stati
imbarcati 517 militari e 842,075 tonnellate di merci. Viene imbarcato il
comandante militare del Re Alessandro,
in sostituzione del comandante militare titolare, che si trova in licenza.
In mattinata la Donizetti imbarca 9 militari tedeschi
(un sottufficiale ed otto marinai) e due mitragliere, da installare una
sull’aletta sinistra della plancia (su quella di dritta si trova già una
mitragliera italiana da 20 mm armata da personale della Regia Marina) ed una a
poppa, accanto al cannone già esistente (anch’esso armato da cannonieri della
Regia Marina). Tuttavia, soltanto quest’ultima viene montata prima della
partenza; l’altra viene sbarcata, insieme a quattro dei militari tedeschi, non
essendoci il tempo di installarla prima di partire.
Alle 13.25 inizia la
manovra di disormeggio, ed alle 14 Donizetti,
Ardena (sempre posizionata in coda al
convglio come nave salvataggio naufraghi) ed Argentina salpano dal Pireo per trasportare truppe e materiali nel
Dodecaneso. Li scortano i cacciatorpediniere Euro e Turbine e le
torpediniere Solferino e Calatafimi. Tempo buono, con mare poco
mosso.
4 febbraio 1943
Il convoglio arriva a
Lero alle 7; la Donizetti va ad
ormeggiarsi a una boa nella rada di Portolago e sbarca nel pomeriggio cinque
militari, tra cui un ufficiale, un cannone e circa 30 tonnellate di materiali. Alle
20 il convoglio lascia Lero, diretto a Rodi. Mare mosso, cielo sereno.
5 febbraio 1943
Alle 6.50 un MAS
proveniente da Rodi raggiunge il convoglio, che si trova in un passaggio
obbligato e dunque particolarmente pericoloso. Le unità della scorta lanciano
bombe di profondità a scopo intimidatorio.
Il convoglio giunge a
Rodi alle 7. Alle 8.10 la Donizetti
ha già sbarcato tutte le truppe che aveva a bordo, ed inizia a scaricare anche
le merci. Fa caldo.
6 febbraio 1943
Donizetti, Ardena ed Argentina lasciano Rodi alle 17, per
tornare al Pireo, con la medesima scorta dell’andata. La Donizetti ha imbarcato militari che si recano in licenza, mentre
sull’Argentina salgono civili
italiani che sfollano da Rodi («sono i
segni di una guerra che ormai è persa», come scrive Widmer Lanzoni).
In serata, verso le
21.30, vengono visti fasci di luce e scie di proiettili traccianti verso Lero.
7 febbraio 1943
Il convoglio giunge a
Lero alle 5, ripartendone alle 16. Durante la sosta, la Donizetti imbarca altri militari in licenza.
Nella notte, cielo
coperto, densa foschia, notte particolarmente buia; però vi è un’elevata
fosforescenza, che rende le scie delle navi particolarmente visibili.
8 febbraio 1943
Scortato anche da
dieci aerei (cinque da caccia e cinque antisommergibili) e raggiunto
nell’ultimo tratto da una vedetta antisommergibili, il convoglio raggiunge il
Pireo alle 8.30. Alle 9.30 la Donizetti,
ormeggiatasi al Molo Carboni, inizia a sbarcare le truppe in licenza che ha
imbarcato a Rodi e Lero. Tra le 14 e le 15.30 la nave si sposta al pontile
nafta di Perama per rifornirsi di nafta.
9 febbraio 1943
Nella prima mattina
la Donizetti si sposta nello stretto
di Salamina, dove dà fondo. Il tempo è cattivo, il mare mosso: la lancia della Donizetti, usata per gli spostamenti
dell’equipaggio tra la nave e la terraferma, è finita sugli scogli, così che
alcuni marinai rimangono a terra (verranno portati a bordo da un rimorchiatore
alle 15.15). Alle 14.45, dato che il vento sta aumentando, la Donizetti cala anche l’ancora di
sinistra. Siccome la direzione del vento cambia di continuo, le catene delle
ancore finiscono con l’attorcigliarsi.
10 febbraio 1943
All’alba, dopo due
tentativi falliti il giorno precedente, si riesce a recuperare la lancia, non
molto danneggiata. Il tempo migliora nettamente, fino ad una quasi completa
calma di mare.
Nel primo pomeriggio
la Donizetti va ad ormeggiarsi davanti
al Comando Marina.
La mitragliera
tedesca installata una settimana prima viene smontata e sbarcata, insieme ai
suoi cinque serventi.
11 febbraio 1943
Imbarcano per
alloggio una decina di sottufficiali ed alcuni marinai. Nel pomeriggio si
verifica un’avaria al gruppo elettrogeno numero 2, che viene però rapidamente
riparato.
12 febbraio 1943
Durante la notte il
marinaio di guardia sulla prua della Donizetti
spara contro una lancia che stava cercando di avvicinarsi silenziosamente alla
prua della motonave approfittando del buio: forse sabotatori intenzionati a
piazzare cariche esplosive. («Più vanno
male per noi le vicende della guerra, più sembra risvegliarsi l’attività dei
ribelli greci. È una legge di natura», scrive Widmer Lanzoni). Nel
pomeriggio la nave si sposta in rada.
15 febbraio 1943
Nel pomeriggio il
cacciatorpediniere Turbine,
ormeggiato vicino alla Donizetti,
perde la sua ancora sinistra, impigliatasi in quella di dritta della Donizetti, durante la manovra di
disormeggio.
20 febbraio 1943
In mattinata la Donizetti va ad ormeggiarsi al Molo
Carboni ed imbarca 350 soldati; nel pomeriggio carica 30 motociclette militari,
poi si sposta in rada a Salamina (San Giorgio), dove si mette alla fonda.
21 febbraio 1943
In mattinata, mentre
il comandante e tutti gli ufficiali, tranne due (il direttore di macchina e
l’allievo ufficiale Widmer Lanzoni), sono a terra per la messa, si alza un
forte vento di tramontana che intorno alle dieci di mattina, girando, fa girare
la Donizetti sull’ancora e rischia di
farle urtare con la poppa la poppa del piroscafo Pugliola, ormeggiato nelle vicinanze. Lanzoni chiede al direttore
di macchina di dare forza al verricello prodiero e fa virare la catena
dell’ancora fino a due nodi; ciò dovrebbe stabilizzare la situazione, ma
l’ancora inizia a perdere la presa sul fondale, e la Donizetti rischia seriamente di andare ad urtare il Pugliola. Appena in tempo, per fortuna,
il personale di macchina riesce ad azionare i motori ed evitare la collisione,
mettendo avanti adagio. L’ancora viene salpata e la Donizetti dà nuovamene fondo in posizione più avanzata, con cinque
nodi di catena; tuttavia il vento rinfresca e minaccia nuovamente di mandare la
motonave a sbattere, questa volta, contro il piroscafo Abbazia. Di nuovo, pertanto, viene salpata l’ancora, e la Donizetti va ad ormeggiarsi in posizione
ancora più avanzata, stavolta con sei nodi di catena. Poco dopo la lancia con a
bordo comandante, primo e secondo ufficiale arriva a bordo, e la Donizetti cambia ancora una volta
ancoraggio, spostandosi un centinaio di metri più avanti. Il comandante elogia
la manovra di Lanzoni, ma al contempo gli toglie il comando di guardia in
quanto, mancando di patentino, non può avere responsabilità legali.
Nel primo pomeriggio
la Donizetti (con a bordo 401
militari e 30 motociclette per un peso complessivo di 5,8 tonnellate), l’Argentina (anch’esso carico di
truppe) e l’Ardena (vuoto; come
al solito procede in coda al convoglio ed ha il compito di recuperare naufraghi
se qualche nave dovesse essere silurata) salpano dal Pireo alle 14 per un nuovo
viaggio a Rodi, scortati da Calatafimi
(tenente di vascello Giuseppe Brignole), Turbine (caposcorta) e Solferino. C’è la luna piena.
Il convoglio incontra
tempo pessimo, con forte vento e mare agitato da nord-nord-est in continuo
peggioramento, fino a forza 8, che mette in difficoltà soprattutto le siluranti
della scorta e l’Ardena: “Il Calatafimi dà l’impressione di infilarsi
sotto tutte le volte che le onde lo ricoprono”, scrive Lanzoni, per il
quale questo è il mare peggiore che abbia mai incontrato; ma quando viene
interpellata dal Turbine, la
torpediniera insiste di poter tenere il mare e adempiere ai propri compiti di
scorta. Sulla Donizetti, che rolla fortemente
perché vuota di carico, e sull’Argentina
si registrano invece parecchi casi di mal di mare tra la truppa imbarcata. Il
convoglio continua a dieci nodi, ma il tempo continua a peggiorare: scrive
ancora Lanzoni: «Mare forza 8. Fra le
isole dell’Egeo vuol dire essere scossi da onte e controonde; continuamente,
senza un attimo di respiro. Siamo senza carico e si balla di più. (…) Stiamo sempre dentro la timoniera, uscendo
solo per le operazioni strettamente indispensabili, perché la plancia è
continuamente spazzata dagli spruzzi delle onde che si abbattono sulla prua
(…) Non ho mai incontrato mare così
grosso. (…) Un’ondata gigantesca si è
abbattuta sulla prua investendo il ponte di comando. Sembrava di essere dentro
un tunnel d’acqua. Ne siamo usciti. Il beccheggio è forte (…)».
22 febbraio 1943
All’1.30 della notte,
prima di raggiungere il mare aperto al largo delle Cicladi, il caposcorta
decide di invertire la rotta per rientrare al Pireo: il mare è troppo brutto
per proseguire, le unità della scorta – specie Calatafimi e Solferino –
non sono in grado di garantire il servizio di scorta in queste condizioni. La Calatafimi, la nave più piccola del
convoglio, riceve ordine di rifugiarsi a Sira, mentre il resto del convoglio
prosegue per il Pireo; alle 4.15, tuttavia, in seguito a nuovi ordini (neanche Turbine e Solferino riescono più a tenere il mare), tutto il convoglio
inverte nuovamente la rotta e dirige anch’esso su Sira, dove entra alle 6.30.
La Donizetti, quarta nave del
convoglio ad entrare nel piccolo porto (dopo le tre siluranti), ci mette due
ore e mezzo per entrare ormeggiarsi di punta al molo della locale Capitaneria,
tra forti raffiche di vento freddo e con l’assistenza di un rimorchiatore poco
efficiente. La segue poi l’Ardena, e
per ultima l’Argentina, nave più
grossa del convoglio, che dà fonda in mezzo al porto, non essendovi più posto
in banchina.
Il convoglio sosta a
Sira per quattro giorni a causa del persistente mare agitato.
26 febbraio 1943
Alle 20.30 il
convoglio lascia finalmente Sira. Il mare è ora poco mosso, la navigazione
procede senza problemi.
27 febbraio 1943
Alle 6.30 la Donizetti e le altre navi, raggiunte da
un MAS che si aggrega per un tratto alla scorta, arrivano a Portolago,
nell’isola di Lero; la Donizetti si
ormeggia ad una boa fino alle 20.30, quando il convoglio riparte per Rodi,
seguendo la costa turca. La Donizetti,
che a Lero ha sbarcato parte dei militari (marinai assegnati al presidio
dell’isola) ed imbarcato alcuni passeggeri civili, ha ora a bordo 309 militari
e 18 civili, oltre a dieci tonnellate di merci.
28 febbraio 1943
Alle sei del mattino Donizetti, Argentina ed Ardena arrivano
a Rodi, dove scaricano le truppe per poi ripartire alle 16 per il Pireo, via
Lero, con la stessa scorta dell’andata. A Rodi fa caldo. La navigazione da Lero
a Rodi, salvo che per il maltempo, è stata tranquilla: nessun allarme, e nelle
ore diurne il convoglio è sempre stato sorvolato da caccia e ricognitori della
Regia Aeronautica che assicuravano la scorta aerea.
Al momento di
ripartire da Rodi, l’ancora della Calatafimi
risulta impigliata in quella della Donizetti:
la torpediniera tenta di liberarla continuando a virare, ma finisce col
“tirare” la Donizetti spostandola dal
molo. La motonave fila la catena della sua ancora per facilitare la manovra
della Calatafimi e per evitare la rottura
degli ormeggi, ma un cavo d’acciaio a poppa si spezza. La Calatafimi, non riuscendo a liberare la sua ancora, va dapprima
indietro e poi avanti a tutta forza, strappando l’ancora della Donizetti ed un pezzo di catena.
Una volta partite, le
navi fanno rotta per Rodi ad undici nodi.
1° marzo 1943
Il convoglio arriva a
Lero, entrando nella baia di Portolago. Qui la Donizetti, che ha già sostituito l’ancora perduta il giorno prima
con quella di rispetto, riceve indietro la sua vecchia ancora: la Calatafimi l’ha portata fino a Lero,
impigliata nella sua, ed in mattinata l’ha liberata e rispedita al legittimo
proprietario per mezzo di una bettolina.
In serata le navi
ripartono per il Pireo.
2 marzo 1943
In mattinata il
convoglio entra nel porto del Pireo (San Nicolò).
4 marzo 1943
In mattinata la Donizetti si porta al Molo Carboni per
caricare.
5 marzo 1943
Ad Atene e al Pireo,
in seguito alla mobilitazione civile della popolazione locale disposta dalle
autorità militari tedesche, infurano scioperi, scontri e sparatorie. Ai
militari è fatto divieto di scendere a terra.
Di tanto in tanto
nevischia.
6 marzo 1943
Nel pomeriggio la Donizetti si rifornisce di nafta.
7 marzo 1943
Alle 16 la Donizetti (con a bordo 700 militari, 16
muli e 202 tonnellate di merci), il piroscafo italiano Re Alessandro e la motonave tedesca
(ex francese) Sinfra sapano dal
Pireo diretti ad Iraklion, scortati da Turbine
e Calatafimi (e, secondo Widmer
Lanzoni, anche dal cacciatorpediniere tedesco Hermes e dall’Ardena).
La Donizetti è unità capoconvoglio, e in
quanto tale conduce la navigazione.
Il mare è agitato,
poi va calmandosi dopo mezzanotte.
8 marzo 1943
Il convoglio arriva
ad Iraklion alle nove. La Donizetti
dà fondo in mezzo al porto, mentre il Re
Alessandro va per primo a scaricare le truppe in banchina; alle 11.20 è il
turno della Donizetti ad andare in
banchina, sbarcando prima le truppe e poi il carico. Il convoglio riparte alle
18: la Donizetti, non avendo fatto in
tempo a scaricare tutto il carico nel tempo previsto, si riporta un po’ delle
merci al Pireo. Il convoglio è formato da Donizetti,
Sinfra e Re Alessandro e dalla nave appoggio sommergibili Antonio Pacinotti, scortate da Turbine, Hermes, Calatafimi, Ardena e dal posamine ausiliario tedesco
Drache. Il mare è quasi calmo, il
cielo parzialmente coperto, la notte buia.
9 marzo 1943
Durante la notte il
tempo peggiora: mare grosso al mascone di dritta, con conseguente riduzione
della velocità. Gli spruzzi delle onde arrivano fino in plancia. Verso le 6 l’Hermes segnala alla Donizetti di cambiare rotta; il onvoglio tenta di passare a ridosso
delle Cicladi. Nelle successive due ore, il convoglio riesce ad avanzare
soltanto di 14 miglia, ma poi il tempo va migliorando; nel pomeriggio si arriva
al Pireo, tutte le navi entrano in porto tranne la Donizetti, che viene mandata a mettersi alla fonda nella baia di
Salamina.
10 marzo 1943
In mattinata la Donizetti va ad ormeggiarsi nel porto del
Pireo (San Nicolò). A bordo ha ancora parte del carico per Iraklion del viaggio
precedente.
12 marzo 1943
In mattinata, tra le
11.15 e le 12.45, la Donizetti viene
fatta spostare nella parte tedesca del porto del Pireo.
13 marzo 1943
In serata la Donizetti imbarca 275 militari italiani.
15 marzo 1943
Alle 7 la Donizetti imbarca 125 militari tedeschi,
ed alle 8.15 parte per Iraklion in convoglio con l’Ardena e le motonavi Città di
Alessandria e Città di Savona,
con la scorta della torpediniera Solferino
(secondo Widmer Lanzoni, anche della Castelfidardo),
del cacciatorpediniere tedesco ZG 3 Hermes e del posamine tedesco Drache. La partenza dev’essere tuttavia rinviata
a causa di un’avaria ai motori della Città
di Alessandria; solo alle 10 il convoglio può dirsi formato.
Alle 10.55, quando le
navi si trovano al traverso di Capo Turlo, ricevono ordine di tornare al Pireo
a causa di un allarme sommergibili. La Donizetti
viene mandata nella baia di Salamina, dove dà fondo; nel primo pomeriggio i
militari tedeschi vengono sbarcati su delle chiatte.
16 marzo 1943
Alle 7.30 la Donizetti viene fatta spostare nella
parte tedesca del porto del Pireo, dove sbarca anche i militari italiani,
restando poi in attesa di ordini.
19 marzo 1943
Alle 5.10 iniziano ad
imbarcare sulla Donizetti truppe
tedesche, da trasportare ad Iraklion; ma dopo venti minuti la partenza viene
posticipata di ventiquattr’ore, per via del persistente maltempo, ed i militari
tedeschi vengono fatti sbarcare di nuovo.
20 marzo 1943
Nel primo pomeriggio
la Donizetti viene fatta spostare in
rada in attesa della partenza, ma il tempo non accenna a migliorare. Di nuovo
la partenza viene programmata e poi rimandata.
24 marzo 1943
In mattinata la Donizetti viene fatta spostare al molo
tedesco del porto del Pireo.
25 marzo 1943
In mattinata la Donizetti viene fatta spostare al Molo
Carboni, dove imbarca 398 militari italiani.
Alle 16.40 Donizetti (con a bordo 398 militari e
210 tonnellate di merci), Città di Savona,
Città di Alessandria, Ardena ed il piroscafo tedesco Santa Fe partono dal Pireo per Iraklion,
con la scorta dell’Euro e della Solferino (e, secondo Widmer Lanzoni,
anche dall’Hermes e dalla Castelfidardo).
26 marzo 1943
In mattinata il
convoglio giunge ad Iraklion, dove sbarca il suo carico; la Donizetti sbarca i militari italiani e
poi imbarca altri militari tedeschi da trasportare a Rodi, giungendo così ad
averne a bordo 280.
Alle 18.30 tutto il
convoglio, tranne il Santa Fe, lascia
Iraklion e prosegue per Rodi.
27 marzo 1943
Durante la notte,
intorno alle tre, le vedette della Donizetti
avvistano scie di proiettili traccianti verso Creta.
Alle 13 il convoglio
raggiunge Rodi, dove la Donizetti
sbarca i militari tedeschi ed il carico, operazione ultimata alle 16. Alle
18.30 il convoglio riparte senza l’Euro,
il quale, avendo problemi alle macchine, lo raggiungerà in un secondo tempo.
Alle 23.30 un’unità
tedesca della scorta lancia l’allarme sommergibili, ed i cacciatorpediniere
accorrono e lanciano bombe di profondità sul punto indicato, mentre i
mercantili si allontanano a tutta forza.
28 marzo 1943
Cessato l’allarme, il
convoglio si ricompone e prosegue. Il mare è calmo, il cielo sereno. A
mezzogiorno nuovo allarme antisom; l’Hermes
ed un’altra unità tedesca attaccano subito il sommergibile, mentre il resto del
convoglio prosegue a tutta forza per la sua rotta.
Nel primo pomeriggio
il convoglio raggiunge Iraklion, e la Donizetti
si ormeggia in banchina alle 14.30; ma appena ha terminato tale manovra, le
viene comunicato che, siccome nelle due notti precedenti il porto è stato
bombardato da aerei, dovrà ripartire quello stesso pomeriggio senza sbarcare il
resto del carico di materiale militare destinato a Creta. Si tratta ancora del
materiale rimasto a bordo dal viaggio a Iraklion dell’8 marzo: ormai sono tre
settimane che la Donizetti se lo
porta assurdamente avanti e indietro tra il Pireo ed Iraklion.
Prima di ripartire,
la Donizetti imbarca 200 militari
tedeschi che vanno in licenza.
Alle 18.30 Donizetti, Città di Savona, Città di
Alessandria ed Ardena lasciano
Iraklion per rientrare al Pireo, scortati da Euro, Solferino e (per un
tratto) Hermes. Ci vogliono quasi due
ore per formare il convoglio.
29 marzo 1943
Dopo un viaggio
tranquillo, il convoglio arriva al Pireo; la Donizetti viene fatta sostare alla fonda nella rada di Salamina e
poi va ad ormeggiarsi in banchina alle sei di sera.
30 marzo 1943
In mattinata la Donizetti trasborda il carico per
Iraklion, che ormai ha a bordo da tre settimane, sulla Città di Alessandria.
31 marzo 1943
A mezzogiorno la Donizetti si sposta al Molo Carboni,
dove nel pomeriggio inizia a caricare carbone e materiale militare da
trasportare a Rodi.
2 aprile 1943
Completato il carico,
nel primo pomeriggio la Donizetti si
sposta a San Nicolò, dove si ormeggia di punta. Successivamente si sposta alla
banchina Zea (molo tedesco).
4 aprile 1943
In mattinata la Donizetti imbarca truppe italiane. Gli
ufficiali sono alloggiati nelle cabine, la truppa su pagliericci nei corridoi
di stiva.
Nel pomeriggio la
partenza viene sospesa e la nave fatta spostare in rada.
6 aprile 1943
In mattinata la nave
viene fatta tornare alla banchina Zea, dove sbarca le truppe che aveva
imbarcato due giorni prima.
7 aprile 1943
Alle 14 Donizetti e Re Alessandro lasciano finalmente Pireo alla volta di Lero,
scortati da Euro, Turbine, Solferino, Castelfidardo
ed Ardena. La Donizetti ha a bordo 705 militari e 505 tonnellate di merci.
Verso le 17.45 la Castelfidardo lancia l’allarme
antisommergibili; Donizetti e Re Alessandro accelerano subito e
accostano a dritta, per poi tornare sulla rotta dopo un quarto d’ora. Verso le
20 Euro e Castelfidardo, distaccate per dare la caccia al sommergibile, si
riuniscono al convoglio, che torna a procedere a velocità normale.
8 aprile 1943
Alle 6.30 l’Euro avvista un aereo; dapprima si pensa
che si tratti di un velivolo della scorta aerea (che raggiunge il convoglio
ogni giorno all’alba), ma l’aereo non effettua i prescritti segali di
riconoscimento, pertanto l’Euro apre
il fuoco contro di esso, mettendolo in fuga. Poco più tardi sopraggiunge la
vera scorta aerea, mentre vento e mare rinfrescano.
Arrivata a Portolago
in mattinata, la Donizetti imbarca
donne e bambini che vengono evacuati da Lero (in massima parte mogli e figli di
militari italiani stanziati nell’isola), e sottufficiali che si recano in
Italia in licenza. Al momento di salpare, tuttavia, la partenza viene rimandata
per via del maltempo, e militari e civili vengono sbarcati. Anche il giorno
seguente la partenza è rinviata per maltempo.
10 aprile 1943
Essendo il tempo in
lento miglioramento, la Donizetti
reimbarca i civili ("…anzi, le
civili, in maggioranza. (…) I mariti
hanno accompagnato le loro donne a bordo. Sono scesi ora. I “mi raccomando…” si
sono sentiti per molto, finché il rimorchiatore non si è allontanato dalla
portata delle voci", scrive Widmer Lanzoni) e poi lascia Lero alla
volta di Rodi, scortata da Euro, Turbine e Solferino. A bordo ha 287 militari, 95 civili e 505 tonnellate di
merci. Il mal di mare dilaga tra le passeggere, accampate un po’ dappertutto in
giro per la nave.
11 aprile 1943
Alle cinque del
mattino la Donizetti arriva davanti
al porto di Rodi; alle 5.20 supera le ostruzioni, e venti minuti più tardi si
ormeggia in banchina. Dopo aver sbarcato i passeggeri (tra cui i civili
evacuati da Lero, che rientreranno in Italia per via aerea da Rodi, con scalo
intermedio ad Atene), vengono scaricate anche le merci.
Alle 18.50 la Donizetti inizia le manove per uscire
dal porto, ma la catena dell’ancora del Turbine
rimane impigliata in quella dell’Euro,
e le manovre compiute da quest’ultimo per liberarla finiscono col far rimanere
la sua ancora impigliata in quella della Donizetti
e nelle catene delle ancore del Turbine.
L’Euro esce dal porto abbandonando la
sua ancora, mentre il Turbine non
vuole smanigliare la sua, così viene perso molto tempo per liberarla, mentre il
vento fresco di tramontana fa sbattere più volte la Donizetti contro la poppa del Turbine,
danneggiando il lanciabombe per bombe di profondità. Solo alle 21.40 la Donizetti riesce a liberarsi dell’ancora
dell’Euro ed a uscire dalle
ostruzioni. A bordo ha 352 militari.
12 aprile 1943
Nel corso della notte
il convoglio incontra mare cattivo di prua od al mascone, che costringe a
ridurre la velocità, ma tutte le navi arrivano regolarmente a Lero in
mattinata. La Donizetti entra nella
rada di Portolago e vi rimane per alcune ore, poi riparte alle 15 diretta al
Pireo, con a bordo 325 militari.
13 aprile 1943
In mattinata la Donizetti arriva al Pireo, dove sbarca
le truppe al molo Zea, dopo di che si sposta nella baia di Salamina.
15 aprile 1943
Alle 6.15 la Donizetti va ad ormeggiarsi al Molo
Carboni ed inizia a caricare materiale da trasportare a Rodi. Completerà il
carico il 18 aprile.
22 aprile 1943
Donizetti, Città di Savona, Re Alessandro ed Ardena viaggiano dal Pireo a Rodi,
scortati dai cacciatorpediniere Euro
e Quintino Sella e dalla torpediniera
Castelfidardo.
24 aprile 1943
Donizetti, Città di Savona, Re Alessandro ed Ardena rientrano da Rodi al Pireo
scortati da Euro, Sella e Castelfidardo. I decrittatori britannici di “ULTRA” intercettano
comunicazioni relative a questo viaggio («troop
convoy with Donizetti, Re Alessandro and Citta Di Savona probably sailing for
Dodecanese on May 8»), ma non si concretizza alcuna offesa.
9 maggio 1943
Donizetti, Re Alessandro e la
piccola nave cisterna Helli viaggiano
dal Pireo a Lero con la scorta di Barletta,
Castelfidardo e Solferino.
10 maggio 1943
Il convoglio lascia
Lero alle 6.13 diretto a Rodi, dove arriva alle 19.43.
11 maggio 1943
Alle otto Donizetti, Re Alessandro ed Elli lasciano
Rodi per tornare al Pireo, scortati da Barletta,
Turbine, Castelfidardo e Solferino.
12 maggio 1943
Il convoglio arriva a
Lero alle 9.03.
13 maggio 1943
Il convoglio arriva
al Pireo alle 19.15.
14 maggio 1943
La Donizetti lascia il Pireo alle 13.11.
23 maggio 1943
La Donizetti parte (dal Pireo?) alle 14.10.
24 maggio 1943
Arriva a Lero alle 7
e riparte per Rodi alle 19.45.
25 maggio 1943
Arriva a Rodi alle
6.35 e riparte in giornata per tornare al Pireo, con la scorta dell’Euro e di due cacciasommergibili
tedeschi.
26 maggio 1943
Arriva a Lero alle
7.01, poi prosegue.
27 maggio 1943
Giunge al Pireo alle
12.35.
7 giugno 1943
Donizetti ed Helli partono dal
Pireo alle 11.25 per raggiungere Rodi, con la scorta di Euro, Solferino e due
cacciasommergibili tedeschi
8 giugno 1943
Il convoglio arriva a
Lero alle 7.05, ripartendo per Rodi alle 19.45.
9 giugno 1943
Donizetti ed Helli arrivano a
Rodi alle 8.30, e dopo qualche ora ripartono per il Pireo scortati dall’Euro e da due cacciasommergibili
tedeschi.
10 giugno 1943
Il convoglio giunge a
Lero alle 6.32, ripartendo alle 18.57.
11 giugno 1943
Le navi arrivano al
Pireo alle 12.45.
19 giugno 1943
Donizetti, Ardena e Re Alessandro partono dal Pireo alle
12.20 per Lero e Rodi con la scorta di Euro,
Turbine e della torpediniera Monzambano.
20 giugno 1943
Il convoglio arriva a
Lero alle 6.33.
21 giugno 1943
Donizetti, Ardena e Re Alessandro giungono a Rodi alle 6.33,
poi ripartono alle 15.05 per tornare al Pireo con la stessa scorta dell’andata.
22 giugno 1943
Il convoglio giunge
al Pireo alle 19.20.
26 giugno 1943
Donizetti, Re Alessandro ed Ardena salpano dal Pireo alle 11.25
diretti a Rodi, via Lero, con la scorta di Euro,
Castelfidardo e Calatafimi.
27 giugno 1943
Il convoglio arriva a
Lero alle 5.57 e riparte alle 18.22.
28 giugno 1943
Donizetti, Re Alessandro ed Ardena arrivano a Rodi alle 6.50, poi
ripartono alle 19.05 diretti al Pireo, con la medesima scorta dell’andata.
29 giugno 1943
Le navi giungono a
Lero, vi sostano per qualche ora e poi ripartono alle 19.30 per il Pireo.
30 giugno 1943
Il convoglio giunge
al Pireo alle 13.17.
2 luglio 1943
Donizetti, Re Alessandro ed Ardena partono dal Pireo alle 10.20
dirette ad Iraklion, scortate da Castelfidardo
e Calatafimi.
3 luglio 1943
Il convoglio arriva
ad Iraklion alle 5, per poi ripartire qualche ora dopo.
4 luglio 1943
Il convoglio arriva
al Pireo alle 14.45.
30 luglio 1943
La Donizetti ed il piroscafo Palermo
(che ha a bordo 2070 tonnellate di munizioni, artiglieria, materiali di altro
tipo e merci civili) partono dal Pireo diretti a Rodi, scortati dal
cacciatorpediniere Francesco Crispi e
dalla torpediniera Calatafimi.
31 luglio 1943
Il convoglio arriva a
Lero alle 5.12, ripartendone per Rodi alle 19.23.
1° agosto 1943
Il convoglio giunge a
Rodi alle 4.30, ripartendone alle 19.50 e raggiungendo Lero.
2 agosto 1943
La Donizetti viaggia da Iraklion a Lero, e
poi da Lero al Pireo, con la scorta di Crispi
e Calatafimi. (Da altra fonte la Donizetti risulterebbe partita da Lero
alle 18.18 del 2 agosto, raggiungendo il Pireo alle 9.33 del 3).
5 agosto 1943
Donizetti ed Ardena compiono partono
dal Pireo alle 16.15 dirette a Rodi, scortate da Crispi, Solferino e Calatafimi.
6 agosto 1943
Il convoglio giunge a
Lero alle 7.
7 agosto 1943
Donizetti ed Ardena arrivano a
Rodi alle 4.40, poi ripartono alle 20.01 per tornare al Pireo, con la stessa
scorta dell’andata.
8 agosto 1943
Il convoglio arriva
Lero alle cinque, e riparte per il Pireo alle 17.20.
9 agosto 1943
Il convoglio giunge
al Pireo alle 8.35.
10 agosto 1943
Donizetti, Helli e Re Alessandro partono alle 17 dal Pireo
alla volta di Rodi, con la scorta di Euro,
Turbine, Crispi e Monzambano.
11 agosto 1943
Il convoglio arriva a
Lero alle 11.47, ripartendone per Rodi alle 18.43.
12 agosto 1943
Donizetti, Helli e Re Alessandro arrivano a Rodi alle 7.30
e ripartono alle 20 dirette al Pireo, con la stessa scorta dell’andata.
13 agosto 1943
Il convoglio arriva a
Lero alle 6.31, ripartendo per il Pireo il giorno stesso.
14 agosto 1943
Il convoglio giunge
al Pireo alle 12.30.
4 settembre 1943
La Donizetti salpa dal Pireo all’1.10, scortata
dalla torpediniera Solferino, e
raggiunge Suda dopo aver fatto scalo a Milo e Scarpanto.
8 settembre 1943
Alla proclamazione
dell’armistizio tra l’Italia e gli Alleati, la Donizetti si trova ad Iraklion (nota in italiano anche come
Candia), nell’isola di Creta.
A differenza della
maggior parte delle isole greche, occupate in prevalenza da truppe italiane,
Creta è sotto regime di occupazione tedesco, e le truppe italiane sono in netta
minoranza rispetto a quelle tedesche; i locali Comandi Marina italiani
(Maricolleg) ed il loro personale sono integrati nella locale struttura di
comando della Kriegsmarine e subordinati operativamente al locale Comando
tedesco (Seekommandant), mentre sono formalmente subordinati al Comando
italiano dell’Egeo Settentrionale con sede ad Atene (Marisudest) soltanto sotto
il piano amministrativo e disciplinare. Data tale particolare situazione, le
forze tedesche presenti a Creta hanno buon gioco nell’impadronirsi del naviglio
italiano, disarmando ed imprigionando il personale, prima che da parte italiana
ci si possa rendere conto di quanto stia accadendo. Questo soprattutto ad
Iraklion, dove l’unica presenza militare italiana è rappresentata da un
distaccamento servizi della Regia Marina al comando di un tenente di vascello:
in questa località, addirittura, il locale comando tedesco apprende la notizia
dell’armistizio prima ancora di quello italiano, e riesce pertanto a cogliere
gli italiani completamente di sorpresa.
La Donizetti viene così catturata dai
tedeschi ad Iraklion. Secondo una fonte, dopo la cattura sarebbe stata
assegnata al Marinegruppenkommando Süd. L’equipaggio italiano viene del tutto o
comunque in gran in parte sbarcato e deportato in Polonia (ad esempio, è questa
la sorte del direttore di macchina della Donizetti,
Angelo Nenci da Fiume), e la nave viene riarmata con personale tedesco.
La Donizetti al Pireo nel 1943 (da “Navi mercantili perdute” di Rolando Notarangelo e Gian Paolo Pagano, USMM, Roma 1997) |
Marina Rodi
Per parlare
dell’ultimo viaggio della Donizetti
occorre prima descrivere gli eventi che ebbero luogo nell’isola di Rodi nel
settembre 1943.
Rodi, isola maggiore e
più popolosa del Dodecaneso – arcipelago del Mar Egeo composto da dodici isole
maggiori, più altre minori, situato vicino alle coste turche ma abitato da
popolazioni greche, possedimento italiano dalla sua conquista avvenuta durante
la guerra italo-turca nel 1912 –, era sede sia del governatore di quel
possedimento, l’ammiraglio di squadra Inigo Campioni (che era governatore,
oltre che del Dodecaneso, anche delle Cicladi e delle Sporadi settentrionali,
occupate nell’aprile 1941 dopo la resa della Grecia), che del Comando Superiore
delle Forze Armate dell’Egeo (Egeomil, retto dallo stesso Campioni), e del
Comando della Zona Militare delle Isole Italiane dell’Egeo (Mariegeo), retto
dal contrammiraglio Carlo Daviso di Charvensod. L’ammiraglio Campioni aveva il
suo quartier generale nel Palazzo del Gran Maestro dei Cavalieri di Rodi; suo
capo di Stato Maggiore era il generale di brigata Roberto Sequi, mentre il 1°
settembre era arrivato a Rodi il generale di corpo d’armata Arnaldo Forgiero,
con l’incarico di assumere il comando delle forze dell’Esercito ivi presenti e
di costituire il Comando Militare di Rodi. Nominato comandante militare
dell’isola, Forgiero aveva stabilito il suo quartier generale sul versante
occidentale del Monte Profeta; suo capo di Stato Maggiore era il colonnello
Carlo Vacchelli. L’ammiraglio Campioni era subordinato gerarchicamente al
generale d’armata Ezio Rosi, comandante del Gruppo d’Armate Est, con sede a
Tirana (Albania). Comandante dell’artiglieria a Rodi era il generale di brigata
Giuseppe Consoli, capo dei servizi il colonnello Arrigo Angiolini, capo ufficio
operazioni dell’Esercito il tenente colonnello Ruggero Fanizza (che era anche
sottocapo di Stato Maggiore dell’ammiraglio Campioni) e capo ufficio operazioni
della Marina il capitano di fregata di complemento Giuseppe Orlando (che era
anche capo di gabinetto per gli affari civili).
L’ammiraglio Campioni (al centro) insieme al suo collega tedesco Schuster, attorniati da ufficiali italiani e tedeschi, presso il tempio di Lindos a Rodi (foto Byron Tesapsides) |
Era stanziata in
quest’isola la maggior parte delle truppe italiane presenti nell’arcipelago: il
grosso della 50a Divisione Fanteria "Regina" nonché personale
della Marina e dell’Aeronautica, per un totale di quasi 40.000 uomini; Rodi era
sede delle due maggiori basi aeree del Dodecaneso, Maritza e Gadurra.
Gli italiani, però,
non erano soli a Rodi: dal gennaio 1943 avevano cominciato ad affluire
nell’isola anche truppe tedesche. Come altrove, la ragione ufficiale
dell’arrivo di queste truppe era quella di rinforzare il sistema difensivo
italiano in vista di un possibile attacco Alleato; quella nascosta era di
tenere sotto controllo il traballante alleato per intervenire fulmineamente nel
caso di una sua defezione, che i comandi tedeschi, non a torto, ritenevano
probabile. Da parte tedesca si era cercato più volte di porre Egeomil senza
controllo tedesco, ma senza successo; però era stato raggiunto con la Regia
Aeronautica un accordo che prevedeva che due batterie contraeree tedesche da 88
mm sarebbero state installate a Rodi per rinforzare le difese contraeree delle
locali basi aeree italiane. In teoria, il personale tedesco avrebbe dovuto
soltanto addestrare quello italiano nell’uso di tali batterie, per poi
andarsene; ma la sua partenza fu rinviata dai comandi tedeschi con la scusa del
pianificato invio di ulteriori batterie. Alla fine del gennaio 1943 un gruppo
di ufficiali tedeschi, esperti di fortificazioni (il tenente colonnello Hof,
specialista di artiglieria costiera, il maggiore Volk ed il colonnello
Messerschmidt dei pionieri, il tenente colonnello Bonke dell’O.K.W. ed il
colonnello di artiglieria Von Busse), avevano visitato l’isola; il colonnello Von
Busse aveva esaminato a fondo lo schieramento delle artiglierie italiane,
criticandolo, ed il tenente colonnello Hof ed il colonnello Messerschmidt
avevano richiesto di inviare a Rodi artiglierie controcarro, ferro e cemento.
Era giunto altro personale tedesco per rinforzare gli uffici del tenente
colonnello Hof; quando quando il Comando italiano aveva chiesto quando sarebbe
terminata l’attività della commissione tedesca, la risentita risposta era stata
che questa doveva continuare a restare a Rodi, dove infatti si era trattenuta
fino ad aprile.
In quel mese era
giunto a Rodi un battaglione di granatieri corazzati tedeschi (Panzergrenadieren), seguito in maggio da
altri due, preceduti da un colonnello tedesco. Alla fine di giugno era arrivato
a Rodi, senza preavviso, il generale tedesco Ulrich Kleemann, che qui aveva
creato come riserva centrale la divisione d’assalto (Sturm-Division; nata nel
marzo 1943 come Sturm-Brigade, brigata d’assalto, e trasformata in divisione
due mesi più tardi) "Rhodos", la quale aveva iniziato ad addestrarsi
non lontano dalle difese italiane, a circa 10-12 chilometri dalla città di
Rodi. Esercitazioni sia diurne che notturne, dirette probabilmente proprio
contro le linee difensive italiane.
La forza numerica
della Sturm-Division "Rhodos", formata con elementi della 22.
Infanterie-Division (22a Divisione Fanteria), della
Festungs-Division Kreta (Divisione da fortezza Creta) e della 999. Leitche
Afrika Division (999a Divisione Leggera "Afrika") non
inviati in Tunisia, si aggirava sui 7500-8000 uomini (altre fonti fanno
oscillare questo numero tra 6000 e 9500); molti meno degli italiani, ma molto
meglio armati. Formavano la divisione quattro battaglioni di Panzergrenadieren armati con un
centinaio di cannoni, pezzi anticarro e 60-70 mortai; un reparto esplorante di
1500 uomini, dotati di motocarrozzette armate e quasi 60 autoblindo; un
battaglione di carri armati dotato di circa 25 carri Panzer IV; quattro
batterie di semoventi, due delle quali dotate di semoventi Wespe da 105 mm e le
altre due di semoventi Hummel da 150 mm; cinque batterie contraeree da 88 mm
posizionate vicino alle basi aeree; e per finire un reparto di circa 300 greci
in uniforme tedesca, reparto quest’ultimo la cui destinazione d’uso non
appariva chiara e la cui presenza aveva destato serie proteste da parte
italiana. In tutto, le forze tedesche a Rodi contavano circa 150 mezzi
corazzati, tra cui carri leggeri Panzer II, carri medi Panzer IV, cannoni
d’assalto Stug III e quindici cannoni semoventi da 150 mm. Il quartier generale
tedesco era a Campochiaro (oggi Eleousa) e le truppe tedesche si disponevano di
una rete di comunicazioni interamente separata da quella italiana, mantenendosi
inoltre in collegamento radio sia con l’Oberkommando Wehrmacht (il comando in
capo delle forze armate tedesche) che con l’Oberbefehlshaber Sudöst (il comando
in capo delle forze tedesche nello scacchiere sudorientale).
Nel maggio 1943
avevano visitato Rodi l’ammiraglio Kurt Fricke, comandante del
Marinegruppenkommandos Süd, e diversi generali e marescialli tedeschi, compreso
il feldmaresciallo Albert Kesselring, comandante delle forze tedesche nel
Mediterraneo; dopo la caduta di Mussolini (25 luglio 1943) aveva visitato
l’isola il feldmaresciallo Maximilian von Weichs, comandante del gruppo
d’armate "F" di stanza nei Balcani nonché Oberbefehlshaber Sudöst; fu probabilmente in questa occasione che
Kleeman ricevette le istruzioni sul da farsi in caso di armistizio tra l’Italia
e gli Alelleati. In seguito a consigli e pressioni tedesche, lo schieramento
delle truppe italiane, stanziate originariamente per due terzi nell’interno
dell’isola e per un terzo sulle coste, era stato cambiato in due terzi sulla
costa ed un terzo nell’interno.
Per quanto riguarda
le forze italiane, a Rodi il nucleo più numeroso era rappresentato dalla
Divisione "Regina" (generale di divisione Michele Scaroina, con
quartier generale a Campochiaro), che contava tre reggimenti di fanteria (9°,
10° e 309°) ed un reggimento d’artiglieria (il 50°), armato con tre gruppi di artiglieria
mobile da 75/27 e 105/28 mm, più il 35°, 36° e 55° Raggruppamento Artiglieria
da Posizione ed il 56° Raggruppamento Artiglieria Contraerea. Quest’ultimo era
armato con pezzi da 75/27 (sette batterie), da 75 C. K. (una batteria) e da
90/53 mm (due batterie) oltre a 20 sezioni di mitragliere contraeree da 20 mm,
mentre i raggruppamenti da posizione disponevano di un totale di 46 batterie e
9 sezioni autonome, armate con mortai da 210/8 mm (tre batterie), obici da
105/28 (otto batterie e quattro sezioni) e 149/12 mm (dieci batterie) e cannoni
da 75/27 mm (19 batterie e 5 sezioni costiere antisbarco e 6 batterie in
postazioni fisse per appoggio alla fanteria nei settori costieri). Perlopiù i
cannoni erano di tipo obsoleto, non autotrasportabili, poco efficienti e con
poco personale.
La Divisione
"Regina", tuttavia, non era interamente concentrata a Rodi: sin dal
1939 il suo compito era di presidiare tutto il Dodecaneso, e di conseguenza
parte dei suoi reparti si presentavano dispersi in altre isole. L’intero 10°
Reggimento Fanteria (colonnello Felice Leggio) era di stanza a Coo, mentre un
battaglione del 9° Fanteria presidiava Scarpanto; a Rodi c’erano il 50°
Reggimento Artiglieria (schierato sul Monte Fileremo e su altre posizioni), il
309° Reggimento Fanteria ed i restanti tre battaglioni del 9° Reggimento
Fanteria. C’era poi il CCCXII Battaglione Misto Carri L (munito dei famigerati
"carri leggeri" L3), ma questo non aveva un singolo carro efficiente.
In aggiunta a questi
reparti, erano presenti a Rodi anche undici compagnie costiere ed il 331°
Reggimento Fanteria (colonnello Enzo Manna), normalmente facente parte della 11a
Divisione Fanteria "Brennero" (stanziata, in quel periodo, in
Albania) ma trasferito, dall’anno precedente, a Rodi, alle dipendenze della
Divisione "Regina". (Secondo una fonte, era a Rodi soltanto il I
Battaglione del 331° Fanteria ed il II Gruppo del 24° Reggimento Artiglieria,
anch’esso facente parte della "Brennero", mentre si trovavano
nell’isola anche il I Battaglione del 31° Reggimento Fanteria – appartenente
alla 51a Divisione Fanteria "Siena", di stanza a Creta – e
due batterie anch’esse distaccate dalla Divisione "Siena").
In tutto, il Regio
Esercito contava a Rodi su circa 34.000 uomini (13.000 dei quali appartenenti
alla Divisione "Regina" ed a reparti ad essa subordinati), dotati di
alcune decine di veicoli piuttosto antiquati (provenienti da due autoreparti,
suddivisi in varie sezioni sparpagliate per l’isola), il che ne limitava
fortemente le capacità di movimento. Più o meno tutti i reparti risultavano
sotto organico. Le truppe dell’Esercito erano suddivise in cinque settori di
difesa, parte costieri e parte nell’entroterra: il Settore Piazza di Rodi
(all’estremità settentrionale dell’isola, comprendeva la città di Rodi ed il
quartier generale di Campioni), il Settore Calitea (a nordest), il Settore
Calato (ad est), il Settore Vati (molto ampio, andava dal promotorio di Lindos
a sudest alla baia di Alimnia ad ovest) ed il Settore San Giorgio (a
nordovest). Era poi in corso di costituzione una zona centrale, a Psito. Tutte
le comunicazioni nell’isola (limitatamente alle forze italiane) erano sotto il
controllo dell’Esercito, eccetto quelle tra le batterie costiere e dei punti
dia avvistamento, che erano invece sotto il controllo della Marina. Le
posizioni di difesa costiera si sviluppavano per un totale di 220 km; le
riserve in ciascun settore erano molto ridotte se non del tutto inesistenti. Il
sistema di difesa era diviso in compartimenti mediante "bretelle"
difensive, ma non era ancora pienamente efficiente perché i lavori campali di
fortificazione necessari a concretizzare tale apparato erano ancora incompleti,
per scarsità di mezzi.
La Regia Marina, a
Rodi, aveva il Comando della zona Militare Marittima dell'Egeo (Mariegeo),
retto dall’ammiraglio Daviso coadiuvato come capo di Stato Maggiore dal
capitano di vascello Mario Grassi, ed il Comando Marina di Rodi (Marina Rodi),
al comando del capitano di fregata Adriano Arcangioli. Da quest’ultimo
dipendevano un reparto di formazione da utilizzare in caso di sbarco nemico
(per l’occupazione a difesa di un caposaldo della cinta difensiva a sud di Rodi
città), otto batterie costiere e numerose batterie contraeree (altra fonte
parla di sette batterie costiere ed otto batterie contraeree). Le batterie
costiere erano denominate Majorana (Monte Smith, con tre cannoni da 152/40 mm
ed uno da 120/50 mm), Melchiori (a nord delle terme di Calitea, con tre pezzi
da 152/40 ed uno da 102/35), Bianco (a Cremastò, con tre pezzi da 120/45 ed uno
da 76/17), Dandolo (ad ovest del promontorio di Lindo, con tre pezzi da 152/40,
uno da 102/35 ed uno da 76/17), Morosini
(ad est del promontorio di Lindos, con tre pezzi da 152/40 ed uno da 102/35),
Mocenigo (costa orientale dell’estremità meridionale dell’isola, con tre pezzi
da 120/45 ed uno da 76/17), Bragadino (costa occidentale dell’estremità
meridionale dell’isola, con quattro pezzi da 120/45 ed uno da 76/17) ed Alimnia
(sull’omonima isoletta frontistante Rodi, con un pezo da 76/40 e due da 76/50).
Nessuna di esse era munita di radio; il personale delle batterie apparteneva
alla Marina, ma era comandato da ufficiali d’artiglieria dell’Esercito, a loro
volta subordinati al Comando Marina. La batteria Melchiorri era comandata dal
capitano d’artiglieria Natale Moscarò; la Bianco, dal tenente d’artiglieria
Romualdo Lia; la Dandolo, dal capitano d’artiglieria Carlo Figlioli; la
Mocenigo, dal tenente d’artiglieria Gennaro Leone; la Bragadino, dal tenente
d’artiglieria Antonio Clerici. Uniche batterie ad essere comandate da ufficiali
di Marina erano la Morosini (tenente
di vascello Giovanni Battista Cazzullo Gennaro) e la Majorana (tenente di
vascello Carlo Ragni). Vicino al villaggio di Castello era in costruzione
un’altra batteria, denominata appunto Castello, al comando del tenente
d’artiglieria Mario Keller; questa avrebbe dovuto essere armata con quattro
cannoni da 102 mm. Infine, erano armati da personale della Marina alcuni
cannoni antisbarco da 76/17 mm e parecchie mitragliere contraeree ed antisbarco
posizionate in vari punti dell’isola.
La Marina gestiva
inoltre le tre stazioni radiotelegrafiche dell’isola, sia trasmittenti che
riceventi: quella di Rodino, quella di Paleocastro e quella di Monte Profeta
Elia. C’era anche una stazione per intercettazioni estere, camuffata da casa
colonica, a San Giovanni di Rodi. La Marina gestiva la rete di comunicazioni
che collegava le batterie e le stazioni di vedetta, mentre il resto delle
comunicazioni interne dell’isola competeva all’Esercito. Ad ogni modo, tutte le
comunicazioni erano rappresentate da linee telefoniche e telegrafiche, in parte
su pali e in parte su linee volanti, completamente allo scoperto e dunque
facilmente interrompibili.
Dato che la
principale base navale del Dodecaneso era Lero, i mezzi navali disponibili a
Rodi erano molto esigui: parte della III Flottiglia MAS (capitano di fregata
Luigi Borghi, con sede a Lero dove risiedeva il grosso delle unità), che a Rodi
aveva solo le motosiluranti MS 12, 15 e 23
(appartenenti alla I Squadriglia Motosiluranti del capitano di corvetta
Vittorio Daviso di Charvensod, figlio dell’ammiraglio comandante Mariegeo) ed il
MAS 540 (appartenente alla III
Squadriglia MAS del tenente di vascello Gabriele Lombardo, che era anche
comandante del MAS 540); il XIV Gruppo
Antisommergibili, con i cacciasommergibili ausiliari (ex motopescherecci) AS 124 S. Antonio e AS 125 Garibaldino; parte della XXXIX Flottiglia Dragaggio (tenente
di vascello Carlo Citter, con sede a Lero) che a Rodi aveva i dragamine
ausiliari Gaeta (già rimorchiatore
militare) e Postiglioni (già vedetta
della Guardia di Finanza) della I Squadriglia Dragaggio d’altura (tenente di
vascello Armando Pillon, con sede a Lero) e gli ancor più piccoli dragamine
ausiliari della V Squadriglia Dragaggio ravvicinato (i motovelieri requisiti Ardito, Berenice, Navigatore e Vassilichi, al comando del tenente di
vascello Giuseppe La Monica, più altri due dragamine ausiliari ad essa
aggregati, il Leda ed il dragamine
magnetico Impero); la cannoniera Sebastiano Caboto (che al momento
dell’armistizio era immobilizzata da problemi di macchina) ed il piroscafo
frigorifero Pomezia (usato come
deposito galleggiante). C’erano, infine, il pontone officina GQ 12 e varie unità minori per uso
locale adibite al pilotaggio ed alla vigilanza alle ostruzioni.
La Capitaneria di
Porto di Rodi era comandanta dal maggiore di porto Francesco Capodanno, mentre
la Zona Fari, da poco creata, era comandata dl tenente CREM Agostino Foce.
In tutto, il
personale della Regia Marina a Rodi contava tra i 2000 ed i 2200 uomini,
compresi gli equipaggi delle unità navali.
La Regia Aeronautica disponeva
a Rodi di notevoli installazioni e servizi, ma aveva una forza effettiva
piuttosto contenuta, circa 60-65 aerei e 3000 uomini, al comando del generale
di brigata aerea Alberto Briganti. Delle due basi aeree, quella di Gadurra (al
comando del colonnello Achille Lorito), vicino a Calato, era priva di aerei,
dato che gli aerosiluranti che vi avevano base erano stati trasferiti in Italia
da qualche mese; a Maritza (al comando del tenente colonnello Marcello
Fossetta), invece, si trovavano dodici bombardieri del 30° Stormo da
Bombardamento (per altra fonte, 20 bombardieri, dei quali però solo metà erano
efficienti), 40 caccia tra FIAT CR. 42, FIAT G. 50 e Macchi Mc 202 (questi
ultimi, i più moderni, erano solo sei), ed una squadriglia da trasporto con
quattro Savoia Marchetti S.M. 81 ed un Savoia Marchetti S.M. 75. Dei 40 caccia,
tuttavia, dieci non erano in condizioni di efficienza, e per i restanti 30
erano disponibili soltanto 20 piloti. Comandante del 30° Stormo da
Bombardamento era il colonnello Luigi Gori Savellini, comandante del gruppo da
caccia il capitano Trevisan, appena arrivato – il mattino dell’8 settembre –
per rimpiazzare il maggioe Delio Guizzon.
Esisteva anche una
terza base aerea, a Paleocastro/Cattavia, ma era stata abbandonata a inizio
1943 e resa inutilizzabile minando e facendo saltare tratti di pista e
collocando qua e là ostacoli antiparacadutisti. C’erano, infine, alcuni
idrovolanti: la 147a Squadriglia Ricognizione Marittima con gli
ormai vetusti CANT Z. 501 (dieci, di cui sette efficienti), che però si
trovavano a Lero, nonché tre più moderni CANT Z. 506 (non appartenenti alla 147a
Squadriglia) uno dei quali dislocato a Rodi-Mandracchio per gli spostamenti del
governatore e gli altri due impiegati come idrovolanti da soccorso. La difesa
contraerea delle basi era assicurata da mitragliere da 20 mm armate
dall’Esercito (per altra fonte, dalla stessa Aeronautica).
Completavano lo
schieramento italiano 250 camicie nere della 201a Legione M.V.S.N.
"Conte Verde" (al comando del console, cioè colonnello, Enzo
Celebrano), con comando nell’azienda agricola Platania (a sud di Campochiaro, a
20 km da Rodi), e 50 camicie nere della Milizia Portuaria. Le camicie nere,
com’era prevedibile, passarono quasi tutte con i tedeschi, ed in seguito
aderirono alla Repubblica Sociale Italiana (il console Celebrano sarebbe divenuto
colonnello delle SS italiane).
All’epoca
dell’armistizio, molti dei previsti lavori di fortificazione interna da
compiere a Rodi erano ancora lungi dal completamento, per mancanza di
materiali.
L’annuncio
dell’armistizio, l’8 settembre 1943, colse tutti di sorpresa, i comandanti come
i soldati; era stato previsto dal Comando Supremo l’invio per via aerea ad
Egeomil di un memorandum con istruzioni sul da farsi, ma il maltempo aveva
costretto a rimandare l’invio, ed il 9 settembre il messaggero si trovava
ancora a Pescara. Alle 19.40 dell’8 settembre, l’ammiraglio Campioni chiese al
generale Forgiero di contattare il generale Kleemann per invitarlo a non muovere
le sue truppe ed a non dare ordini che avrebbero potuto provocare reazioni
italiane; Kleemann rispose con apparente calma, dichiarandosi pronto a
collaborare.
Alle 20.30, poco dopo
la ricezione della notizia dell’armistizio, Campioni tenne un incontro nel
Palazzo del Gran Maestro; ma in mancanza di ordini precisi su come comportarsi,
non venne presa alcuna decisione, limitandosi ad ordinare alle truppe di stare
all’erta. Alle 2.15 del 9 settembre giunse dal Comando Supremo la comunicazione
che dalle 23 della sera precedente quest’ultimo assumeva il diretto controllo
dell’Egeo (così svincolandolo dal Comando del Gruppo d’Armate Est) ed
aggiungeva: «Comando Superiore FF. AA. In
Egeo est libero di assumere verso germanici atteggiamento che riterrà più
conforme at situazione. Qualora però fossero prevedibili atti di forza da parte
germanica, procedere disarmo immediato unità tedesche nell’arcipelago. (…) Tutte le truppe dovranno reagire immediatamente
et energicamente et senza speciali ordini at ogni violenza armata germanica et
della popolazione in modo da evitare di essere disarmati e soprafatti. Non deve
però essere presa iniziativa d’atti ostili contro i germanici».
Il tenente colonnello
Marcello Fossetta, al comando della base aerea di Maritza, riferì al comando
che le truppe tedesche di guardia all’aeroporto si trovavano riunite senz’armi
per guardare uno spettacolo cinematografico, pertanto sarebbe stato facile
lanciare un attacco a sorpresa; ma gli venne ordinato di non agire, fidando – a
torto – nelle promesse di Kleemann. Campioni si limitò a far diffondere il proclama
Badoglio nel resto del Dodecanes, sottolineando l’ultima frase, che prescriveva
di reagire «ad eventuali attacchi da qualsiasi
altra provenienza». L’ammiraglio Daviso, per parte sua, ordinò a tutte le
navi che si trovassero in mare di raggiungere Lero, salvo che per il MAS e le
motosiluranti, che invece dovevano restare a Rodi; a tutte le navi che si
trovavano a Rodi (salvo la Caboto,
immobilizzata da problemi di macchina) ordinò di tenersi pronte a partire con
breve preavviso. Le batterie costiere vennero messe in stato di allerta
(vietando però di sparare verso il mare), intensificando il servizio di
scoperta verso il fronte a terra, la guardia al Comando Marina di Rodi venne
rafforzata, la compagnia da sbarco della Marina venne preparata all’azione, e
vennero avvertiti della situazione i Comandi Marina di Lero, Sira e Stampalia.
Venne attivato il collegamento radio di emergenza tra le diverse sezioni
radiotelegrafiche sparse nell’isola ed il comando di Egeomil; se fosse venuto
meno il collegamento, ciascuna batteria si sarebbe dovuta porre alle dipendenze
del più vicino comando dell’Esercito. Ordine di Daviso era di opporsi con le
armi a qualsiasi aggressione da parte tedesca (disposizione che si rivelò poi
perfettamente coerente con quelle emanate da Supermarina il 9 settembre). Il
capitano di fregata Arcangioli si recò di persona a visitare le batterie più
vicine a Rodi, che autorizzò ad aprire il fuoco qualora fosse apparso evidente
il pericolo di essere circondati dai tedeschi, quand’anche questi ultimi non
avessero aperto il fuoco per primi.
A mezzanotte il
generale Kleemann, che appariva adesso assai agitato, si recò al Comando del
generale Forgiero, sul Monte Profeta, richiedendo il permesso di muovere
liberamente le sue truppe, contrariamente a quanto precedentemente concordato
(ossia, che i reparti sia italiani che tedeschi sarebbero dovuti restare sulle
proprie posizioni senza spostarsi), motivando la richiesta con la necessità di
essere pronto a contrastare rapidamente un possibile sbarco britannico: se
l’Italia aveva firmato l’armistizio con gli Alleati, la Germania era ancora in
guerra, dunque Kleemann doveva modificare la dislocazione delle sue truppe per prepararsi
alla difesa. Per lo stesso motivo, chiese anche il controllo degli aeroporti.
Forgiero oppose a queste richieste un netto rifiuto, dandone poi notizia
all’ammiraglio Campioni, che rimase piuttosto perplesso; questi voleva evitare
a tutti i costi che fossero i suoi uomini a causare per primi un incidente.
Campioni chiese a Forgiero di recarsi da lui insieme a Kleeman, ma quest’ultimo
affermò di non poter venire "per ragioni di servizio". In realtà il
generale tedesco, non appena aveva terminato l’incontro con Forgiero (a
mezzanotte e mezza), aveva disposto il concentramento dei suoi reparti
nell’interno dell’isola, in modo da occupare posizioni vantaggiose (tra cui i
principali incroci stradali), ed aveva ordinato ai suoi sottoposto di
prepararsi ad attaccare gli aeroporti, indirizzando verso di essi due gruppi di
combattimento costituiti ad Alearma e Psinto.
All’una di notte il
comandante del Settore San Giorgio, colonnello Capigatti, telefonò al generale
Forgiero annunciando che la base aerea di Maritza era stata circondata da un
reparto corazzato tedesco, e chiedendo istruzioni su come comportarsi:
disponeva di parecchie batterie con cui avrebbe potuto avere il fuoco sulla
colonna tedesca. Forgiero rispose che Campioni riteneva opportuno “lasciar
fare” i tedeschi, dal momento che questi non avevano commesso azioni violente,
continuando però a tenere la situazione sotto controllo. La base di Maritza era
difesa da 1600 uomini, ma i reparti tedeschi poterono entrarvi e disarmare il
personale di guardia senza alcuna difficoltà: le responsabilità di questo
incredibile colpo di mano è da alcuni attribuita al comandante stesso della
base di Maritza, tenente colonnello Fossetta, ed al comandante del 30° Stormo
da Bombardamento Terrestre, colonnello Gori Savellini, i più alti in grado a
Maritza ed entrambi di ardente fede fascista (Gori Savellini aderì poi alla
R.S.I. e divenne segretario del Partito Fascista Repubblicano in Egeo), che non
si opposero in alcun modo all’azione tedesca: non ordinarono il posto di
combattimento, non diedero nessun ordine per la difesa, non ordinarono né il
decollo né il sabotaggio degli aerei per sottrarli alla cattura. In quel
momento il generale Kleemann stava lasciando il suo quartier generale per
recarsi a Rodi città, dov’era stato convocato dall’ammiraglio Campioni per
discutere la situazione: quando il generale Forgiero gli disse che reparti
tedeschi erano entrati nella base di Maritza esigendo che il personale italiano
cedesse le armi e lasciasse il campo, il generale tedesco rientrò nel suo
quartier generale e ne uscì poco dopo affermando che era stata una sbagliata
iniziativa del comandante di quel reparto, del quale aveva ordinato l’immediato
ritiro dalla base aerea.
Alle 3.30, mentre era
in corso un colloquio tra Campioni, Forgiero e Kleemann, un altro gruppo
corazzato tedesco penetrò nell’aeroporto di Gadurrà; ne seguì una discussione
tra il comandante italiano e quello tedesco. Kleemann si scusò e disse anche
stavolta che un suo ordine era stato interpretato erroneamente; davanti ad un
ufficiale italiano interprete (così da sapere cosa stesse effettivamente
dicendo), il generale tedesco telefonò il comandante del gruppo che era entrato
a Gadurrà e gli ordinò di uscire dall’aeroporto. L’ordine fu prontamente
eseguito, ma il reparto tedesco si piazzò lungo la strada che correva attorno
all’aeroporto, che così rimaneva di fatto sotto controllo tedesco.
Durante la notte,
Campioni e Kleemann ebbero una lunga e accesa discussione sulla disposizione
delle truppe tedesche nell’isola; il primo desiderava essere preventivamente
informato di qualsiasi movimento delle truppe tedesche, il secondo ribatté che,
trovandosi a dover fronteggiare un possibile sbarco britannico senza più poter
contare sugli italiani, poteva avere necessità di spostare rapidamente i suoi
reparti senza perdere tempo a chiedere autorizzazioni. Kleemann voleva anche
controllare gli aeroporti, per non essere colto di sorpresa da un possibile
aviosbarco.
Sull’esito di queste
discussioni esistono versioni differenti. Secondo una di esse, venne concordato
che la Divisione "Rhodos" si sarebbe posizionata tra Campochiaro e
Psito, mentre le truppe tedesche presenti nelle basi aeree sarebbero rimaste al
di fuori del loro perimetro, ed ogni movimento di truppe tedesche avrebbe
necessitato di autorizzazione da parte italiana. Secondo un’altra, venne invece
stabilito che le truppe tedesche sarebbero potute rimanere all’interno degli
aeroporti, ma che non avrebbero tentato di disarmare il personale italiano,
purché nessuna imbarcazione od aereo lasciasse Rodi (nessuna disposizione in
tal senso giunse tuttavia all’ammiraglio Daviso, che non partecipò a quella
riunione in quanto stava visitando le batterie attorno a Rodi, ribadendo gli
ordini precedentemente emanati). Sta di fatto che alle 7.10 Kleemann, tornando
al suo quartier generale a Fondoclì, comunicò ai suoi superiori del Gruppo
Armate "E": «Aeroporti Maritza e Gadurrà saldamente in nostre
mani».
Nel mentre, un aereo
britannico lanciò su Rodi migliaia di volantini firmati dal generale Henry
Maitland Wilson, comandante delle forze britanniche nel Medio Oriente, che dopo
aver ribadito le disposizioni generali dell’armistizio (cessare ogni ostilità
verso le popolazioni dei Paesi occupati, mantenere la disciplina, non lasciarsi
disarmare dai tedeschi) ordinava agli italiani di prendere il controllo delle
posizioni tedesche («le truppe italiane
nel Dodecanneso assumeranno colla forza il controllo di tutti i punti ora in
possesso dei tedeschi») e di trasferire navi ed aerei nelle basi
britanniche (gli aerei a Cipro, le navi ad Alessandria d’Egitto), indicando
financo i dettagli stabiliti per il riconoscimento. Campioni non ottemperò a
tali disposizioni, anche perché nutriva dubbi sulla reale origine dei
volantini. In mattinata il generale Forgiero chiamò a riunione tutti i
comandanti di settore al suo quartier generale sul Monte Profeta; l’intenzione
era di concordare un piano d’azione coordinato contro le forze tedesche, ma non
si giunse a nulla, ottenendo per di più di allontanare i comandanti di settore
dai loro reparti in un momento di estrema criticità.
Alle 9 del 9
settembre un tenente colonnello tedesco armato di mitra si recò nel porto di
Rodi, che era stato frattanto chiuso dagli italiani (gli accessi erano stati
sbarrati con cavalli di frisia subito dopo la ricezione della notizia
dell’armistizio), e richiese di poterlo occupare, richiesta che fu negata dal
comandante del porto, capitano Francesco Bagnus. Si trovava ormeggiato nel
porto il piccolo piroscafo tedesco Taganrog
(con equipaggio civile greco ed equipaggio militare di 21 soldati tedeschi),
carico di munizioni per armi portatili; il comandante di quest’ultimo chiese
l’autorizzazione di scaricare e lasciare Rodi, ma l’ammiraglio Daviso la negò,
ed inviò invece delle guardie per vigilare sul piroscafo. Alle 9.30, tuttavia, giunse
l’ordine di aprire gli accessi del porto ed i tedeschi scaricarono le casse
contenenti le munizioni, operazione che terminò all’una del pomeriggio.
La situazione
degenerò infine a mezzogiorno del 9 settembre, quando le truppe tedesche
ruppero gli indugi ed iniziarono ad attaccare quelle italiane, che risposero al
fuoco. Tra le undici e mezzogiorno erano via via pervenute, attraverso la rete
di comunicazioni dell’artiglieria, notizie di "atti violenti ed
intimidatori" da parte delle truppe tedesche nei confronti di batterie,
postazioni e posti di comando italiani; venne ordinato di reagire, anche
sparando se necessario, il che fu fatto con buoni risultati. Poco dopo le
13.30, un colpo di mano contro il quartier generale della Divisione
"Regina", a Campochiaro, portò alla cattura del generale Scaroina con
tutto il suo stato maggiore; questi riuscì tuttavia ad informare il Comando
Militare di Rodi di quanto stava avvenendo (il generale Forgiero lo comunicò a
sua volta a Campioni). Negli scontri attorno a Campochiaro erano rimasti uccisi
16 militari italiani, una quarantina furono feriti; altri combattimenti erano
in corso a Calavarda.
Le truppe tedesche provvidero
inoltre a smantellare la rete di comunicazione, eliminando i centri di
controllo e comando, in modo da isolare i reparti gli uni dagli altri e
scompaginare e disarticolare la difesa italiana. A partire dal pomeriggio del
9, infatti, i comandi italiani a Rodi rimasero privi di notizie certe e
complete su cosa stesse accadendo nel resto dell’isola.
Campioni ordinò alle
truppe di ripiegare progressivamente dalla costa verso il centro dell’isola,
dove dovevano concentrarsi; il generale Forgiero ebbe l’ordine di trasferirsi
dal Monte Profeta a Rodi città per evitare che tutto il suo comando venisse
catturato (per altra versione, lo fece di sua iniziativa), ma alcuni veicoli
della sua scorta vennero intercettati dalle truppe tedesche presso il villaggio
di Soroni e furono coinvolti negli scontri accesisi in zona, venendo in parte
catturati, mentre Forgiero raggiunse la città solo verso le tre del pomeriggio,
mezz’ora dopo che le truppe corazzate tedesche avevano nuovamente occupato la
base di Maritza. Nel mentre il generale Scaroina, usando una linea che i
tedeschi non conoscevano (dal posto di comando tattico in caverna), riuscì a
contattare l’ammiraglio Campioni ed a fargli avere qualche altra informazione
su come era stato catturato; mentre la telefonata era in corso arrivarono dei
pionieri tedeschi, che distrussero l’apparecchio e tagliarono la linea.
L’ammiraglio Daviso
propose di inviare il cacciatorpediniere Euro,
che si trovava a Lero, a bombardare l’aeroporto di Maritza con le sue
artiglierie, ma la proposta fu respinta; il generale Briganti riuscì però ad
ottenere da Campioni il permesso di usare l’artiglieria (in precedenza già
richiesto per impedire ai tedeschi di occupare l’aeoporto, e negato da
Campioni), che aprì il fuoco sulla base distruggendo sia i carri tedeschi che
l’avevano occupata, sia gli aerei italiani che si trovavano ancora lì. Tutte le
batterie tedesche che risposero al fuoco furono ridotte al silenzio.
Quando il rumore del
cannoneggiamento venne sentito nel porto, alle 14.30, insieme alla notizia
dell’occupazione della base di Maritza da parte di truppe tedesche, il capitano
Bagnus ordinò di catturare il Taganrog:
questi era armato con un cannone e diverse mitragliere, ma le mitragliere
italiane poste a difesa del porto vennero immediatamente puntate sul personale
tedesco, che poté essere così catturato e disarmato prima che questo potesse
raggiungere le proprie armi. L’equipaggio greco del Taganrog venne lasciato libero, mentre il personale tedesco fu
fatto prigioniero e condotto in città sotto scorta armata. Interrogati, i
militari tedeschi rivelarono l’ubicazione di due cariche per l’autoaffondamento
che avevano piazzato nelle stive (la cui esistenza era stata rivelata dal
comandante greco), che poterono essere così rimosse. Per ordine dell’ammiraglio
Daviso (recatosi al porto per un sopralluogo), il Taganrog venne armato nuovamente dall’equipaggio greco e con scorta
militare italiana, al comando del sottotenente di vascello Tullio Luchini;
l’indomani fu fatto partire da Rodi diretto a Simi, battendo ora bandiera
italiana per evitare che potesse restare vittima di possibili bombardamenti
aerei contro Rodi.
Nelle stesse ore,
altri combattimenti si erano accesi al Passo Zampica, una strettoia che le
truppe tedesche avevano imboccato per tentare di raggiungere Rodi città. Il
passo era difeso da un posto di blocco italiano presidiato da una compagnia del
331° Reggimento Fanteria, dal II Gruppo del 24° Reggimento Artiglieria (con
obici da 105/28 mm e mitragliere da 20 mm) e da mezzi corazzati, e comandato
dal capitano Mariano Venturini; alle 10.30 di quel 9 settembre, una colonna
tedesca si era fermata a circa un chilometro dal posto di blocco ed aveva
mandato avanti tre autoblindo con l’incarico di persuadere gli italiani a farli
passare. Venturini negò il passaggio e diede ai tedeschi due minuti per
andarsene, dopo di che avrebbe aperto il fuoco; sulle prime la colonna tedesca
sembrò accettare e si ritirò, ma nel pomeriggio tornò alla carica, con un
attacco di fanteria supportato da mezzi corazzati. Il tiro dell’artiglieria
italiana stroncò l’attacco, distruggendo tre autoblindo (con 7 morti tra gli
equipaggi tedeschi), ed il contrattacco della fanteria permise di catturare un
ufficiale, tre sottufficiali e 30 soldati tedeschi. I 34 prigionieri furono
mandati al comando di battaglione, ma da Rodi giunse un ordine assurdo:
liberare i prigionieri e restituire loro le armi. Il capitano Venturini
disubbidì ad un ordine tanto insensato, e rimandò sì i prigionieri dai loro
compagni, ma disarmati e seguiti da altrettanti soldati italiani con le armi
puntate su di loro; in tal modo indusse alla resa altri due ufficiali e circa
60 soldati, che furono poi inviati al comando di reggimento.
Sempre il mattino del
9, un’altra colonna tedesca giunse all’ingresso della base aerea di Gadurra e
ne catturò il comandante, colonnello Lorito; questi si rifiutò tuttavia di
ordinare ai suoi uomini di arrendersi, e la reazione delle artiglierie italiane
inflisse serie perdite alla colonna tedesca, costringendola a ritirarsi.
Altrove, reparti tedeschi occuparono il caposaldo Concezione, che venne
riconquistato da truppe italiane dopo duri scontri corpo a corpo. Nel Settore
di Vati, il 309° Reggimento Fanteria (colonnello Luigi Bertesso) respinse un
attacco lanciato durante il pomeriggio da una colonna tedesca e catturò un
centinaio di prigionieri, subendo la perdita di un ufficiale, un sottufficiale
e dieci soldati uccisi in combattimento. Nella zona di Cattavia, situata
all’estremità meridionale dell’isola, si trovava una batteria da 88 mm con
armamento misto italo-tedesco: i militari tedeschi tentarono di sopraffare
quelli italiani, uccidendo l’artigliere Giulio Carnevale, ma vennero costretti
a ritirarsi dalla batteria, che rimase in mano italiana.
Lo storico Luciano Alberghini
Maltoni ha rilevato che «Dalla lettura
dei diari storici della Divisione Rhodos emerse che tedeschi pensavano di
occupare facilmente Rodi città e furono sorpresi per la valida reazione
dei reparti italiani dislocati sulle posizioni chiave infliggendo
loro perdite rilevanti e catturando numerosi prigionieri. E' documentato
che i numerosi prigionieri tedeschi catturati e accompagnati nelle varie
Caserme in stato di detenzione furono sistematicamente liberati e
riarmati per ordine del Comando Superiore Italiano tra la costernazione
e l'indignazione dei militari che li avevano catturati».
Ma non dappertutto la
reazione italiana, in quella situazione di incertezza, era stata altrettanto
decisa. Il marinaio toscano Vinicio Bagni, della batteria "Dandolo",
descrisse in seguito l’assurdità di quei momenti in un libro di memorie: «…Il Comandante si rifiutò di dare l’ordine [di
fare fuoco su una colonna tedesca in avvicinamento], il Tenente fece osservare che, se si faceva avanzare ancora la
colonna, i tedeschi si venivano a trovare nella posizione più favorevole alla
suddetta curva. Ancora una volta il Comandante disse di no. Il Tenente
insistette ancora, mostrando che eravamo nella migliore posizione per far fuoco
e con pochi colpi fare fuori la colonna tedesca. Altrimenti avremmo messo in
pericolo la stessa integrità della batteria e del suo personale. Il Comandante
dichiarò che fino a quando i tedeschi non avessero preso iniziative ostili nei
nostri confronti noi non potevamo attaccarli. Il Tenente andò in bestia e,
tirando fuori dalla saccoccia che aveva a tracolla una bomba a mano, si rivolse
al Comandante dicendogli che le intenzioni dei tedeschi erano chiarissime: non
solo avevano occupato la base aerea, non solo sentivamo sparare in tutta
l’isola, ma la presenza della colonna tedesca che avanzava, sia pur lentamente,
era la dimostrazione che avevano intenzioni ostili nei nostri confronti.
L’eliminazione della nostra batteria era il loro obiettivo. Il Comandante,
dimostrando calma e sangue freddo, rispose al Tenente che la responsabilità di
Comando era sua e ne assumeva tutte le conseguenze. Gli ordini li avrebbe dati
solo lui, ma avrebbe tenuto nella giusta considerazione i suoi suggerimenti. Il
Tenente si calmò, rimise la bomba nella saccoccia e fece qualche passo avanti e
indietro. Nel frattempo la colonna tedesca si portò lentamente nella posizione
a lei più favorevole e si fermò. È bene ricordare che fin dalla prima mattina
le nostre linee di comunicazione erano state interrotte, certamente i tedeschi
le avevano tagliate essendo tutte su palo. Quindi la batteria era isolata, non
avevamo ricevuto ordini né potevamo informare i Comandi».
Oltre ad occupare gli
aeroporti, le forze tedesche miravano a tagliare i collegamenti tra i diversi
reparti italiani sparsi in giro nell’isola, cosa che riuscirono a fare,
generando parecchia confusione e disorientamento. La batteria
"Bianco" inflisse varie perdite ai mezzi tedeschi nella base aerea di
Maritza e ad alcune colonne tedesche, ma venne a sua volta duramente colpita
dalle batterie tedesche, subendo gravi danni che portarono al suo abbandono
quando fu assaltata anche da reparti tedeschi di fanteria con lancio di bombe e
fuoco di mitragliatrici, senza che fosse possibile inviare rinforzi. Due degli
uomini addetti alla batteria erano rimasti uccisi da colpi di bombarda, altri
due feriti; i rimanenti, ritirandosi, fecero saltare i depositi di munizioni ed
i cannoni rimasti efficienti. La batteria "Dandolo", rimasta tagliata
fuori dalle comunicazioni fin dall’alba del 9, venne accerchiata da mezzi
corazzati tedeschi durante il pomeriggio: non aveva aperto il fuoco per
impedire l’accerchiamento a causa dell’ordine di non sparare per primi. Intorno
alle 16 raggiunse la batteria un’autovettura con alcuni ufficiali tedeschi, che
intimarono la resa; la richiesta venne respinta e, quando i tedeschi
affermarono che le altre batterie e diversi reparti italiani si erano già
arresi, un capo cannoniere venne inviato a verificare, su un mezzo tedesco. Il
sottufficiale non tornò, mentre le truppe tedesche rafforzarono
l’accerchiamento attorno alla batteria; al tramonto, dopo un altro infruttuoso
incontro tra gli ufficiali italiani e quelli tedeschi, venne ordinato il posto
di combattimento e fatto saltare in aria il ponte sul fossato anticarro
antistante la batteria. Seguì uno scontro a fuoco, che si concluse con la resa
della "Dandolo"; il suo personale fu fatto prigioniero e trasferito
nella località di Càlato (gli artiglieri riuscirono però a liberarsi nel
pomeriggio del 10, in seguito ad uno scontro nella zona di Massori, risultato
sfavorevole per i tedeschi). La batteria "Melchiorri", invece,
continuò per parecchio tempo a sparare contro le truppe tedesche, con notevole
efficacia; avrebbe continuato a resistere fino al mattino dell’11 settembre,
quando avrebbe ricevuto ordine di sospendere il fuoco.
Già entro la sera del
9, comunque, l’ammiraglio Daviso aveva perso il collegamento con tutte le
batterie della Marina. Il generale Kleemann, che continuava a sostenere che sua
intenzione era soltanto di contrastare un eventuale attacco britannico, chiese
un incontro con Campioni; il suo scopo era quello di guadagnare tempo, per
permettere alle sue truppe di passare in vantaggio.
La sera del 9 il
Comando italiano non aveva un quadro chiaro della situazione, per via del
collasso dei collegamenti; il generale Sequi paragonò la situazione a quella
che ci sarebbe stata se una divisione corazzata fosse sbarcata, avesse superato
senza contrasto le difese periferiche e si fosse stabilita all’interno
dell’isola, da dove poteva attaccare alle spalle tutti i settori tenuti dai
reparti italiani. Per rafforzare le difese di Rodi città, Campioni ordinò che
nel corso della notte le truppe del settore di Calitea, cioè il 331° Reggimento
Fanteria e quattro batterie del 50° Reggimento Artiglieria, si trasferissero a
Rodi, dove vennero schierate a difesa della "bretella" di quel
settore.
Nella notte tra il 9
ed il 10 settembre i maggiori britannici Julian Dolbey e George Jellicoe
(quest’ultimo era il figlio dell’ammiraglio John Jellicoe, comandante della
flotta britannica allo Jutland nel 1916), insieme ad un sergente munito di
radio portatile, Keterston, vennero paracadutati su Rodi per stabilire contatti
con il locale Comando italiano. Il loro invio era stato deciso l’8 settembre
dal generale Henry Maitland Wilson, comandante delle forze britanniche nel
Medio Oriente, per cercare di contattare Campioni e concordare con esso le
modalità dell’intervento britannico; il lancio sarebbe anzi dovuto avvenire già
nella notte tra l’8 ed il 9 settembre, ma aveva dovuto essere rimandato di
ventiquattr’ore a causa del maltempo.
Trovati da pattuglie
italiane (che inizialmente avevano fatto fuoco contro di loro con armi
antiaeree durante la discesa e poi con mortai una volta a terra, ritenendo
trattarsi di paracadutisti tedeschi: il maggiore Dolbey, che parlava italiano,
chiarì l’equivoco) e condotti al Palazzo del Gran Maestro (non senza
difficoltà: il colonnello comandante il settore in cui erano atterrati era di
simpatie fasciste e non intenzionato a permettere loro di contattare Campioni,
ma riuscirono a raggiungere ugualmente il quartier generale grazie ad alcuni
suoi subalterni), incontrarono l’ammiraglio Campioni e spiegarono di essere
stati inviati dal generale Wilson; Dolbey funse da interprete. In origine
Jellicoe aveva con sé una missiva del generale Wilson destinata all’ammiraglio
Campioni, ma dopo l’atterraggio, temendo di essere catturato, l’aveva masticata
(aveva cercato senza successo d’ingoiarla) fino a renderla illeggibile.
I delegati britannici
ribadirono le disposizioni – già annunciate il giorno prima con il lancio di
volantini – per l’immediato trasferimento di navi ed aerei in basi sotto
controllo Alleato; chiesero per quanto tempo Rodi avrebbe potuto resistere, e
spiegarono che ci sarebbe voluta almeno una settimana prima dell’arrivo di
rinforzi britannici , chiedendo intanto agli italiani di tenere almeno il porto
e le basi aeree. Sulla cruciale questione dei tempi prospettati da Dolbey e
Jellicoe per l’arrivo di aiuti in britannici, in realtà, le fonti divergono: alcune
affermano che i due ufficiali riferirono che sarebbero potuti arrivare reparti
minori non prima di una settimana, ed una mezza brigata non prima di quindici
giorni; altre invece riferiscono che secondo quanto annunciato da Dolbey e
Jellicoe i primi limitati rinforzi sarebbero potuti arrivare verso il 15
settembre – dunque entro cinque giorni, non quindici –, mentre dopo una
quindicina di giorni sarebbe giunta una brigata ed anche una divisione
corazzata. Campioni suggerì di effettuare attacchi aerei sulle truppe tedesche
e sbarchi nella parte meridionale dell’isola (nella zona di Cattavia) per
distogliere l’attenzione dei tedeschi dalla città di Rodi, distraendo parte
delle loro forze verso sud, impedendo loro anche di servirsi della base aerea
di Cattavia per l’invio di rinforzi per via aerea; l’ammiraglio italiano
aggiunse che sarebbe stato meglio invece evitare lo sbarco di truppe nel porto
di Rodi, nauticamente poco sicuro e troppo esposto ad attacchi tedeschi, data
la sua vicinanza alla "bretella" difensiva del settore.
Jellicoe e Dolbey riconobbero
la validità delle proposte di Campioni, ma spiegarono che non c’erano mezzi
sufficienti per poterle attuare. In merito alla questione del trasferimento ad
Alessandria dei mezzi navali, venne deciso che sarebbero stati momentaneamente
trattenuti nel Dodecaneso per esigenze operative, chiedendo intanto al Governo
italiano maggiori istruzioni sul da farsi. Il maggiore britannico avvisò Campioni
di non fidarsi dei tedeschi; poi, appartatosi con Jellicoe e convenuto con
questi che l’ammiraglio italiano ed il suo stato maggiore apparivano troppo
titubanti, contattò per radio i suoi superiori chiedendo l’invio immediato di
almeno 200 paracadutisti, per “mettere Campioni dinanzi al fatto compiuto” e
per sostenere il morale della guarnigione italiana. Ma non ci fu risposta; i
due ufficiali britannici decisero allora che uno di loro sarebbe dovuto andare
a Cipro di persona per riferire sulla situazione.
Alle otto del 10
settembre, intanto, venne trasmesso al generale Wilson, attraverso la radio
italiana e con cifrario fornito da Dolbey e Jellicoe (cifrario basato su
un’edizione di un popolare romanzo britannico), un lungo telegramma nel quale
si chiedevano con urgenza rinforzi e si richiedeva un pesante bombardamento
della RAF nella parte meridionale dell’isola, per indurre i comandi tedeschi ad
aspettarsi uno sbarco da quella parte. I due ufficiali britannici avevano anche
riferito a Campioni che era in arrivo nell’isola di Castelrosso una missione
militare britannica, capeggiata dal colonnello Douglas Turnbull accompagnato da
tre parigrado; notizia che fu confermata da una trasmissione da Castelrosso in
cui un capoposto aveva clandestinamente riferito che i britannici, giunti in
quell’isola, avevano ordinato di cessare ogni contatto radio con Rodi. Alle 6,
alle 7.50 ed alle 12.06 del 10 settembre, pertanto, dapprima Egeomil e poi
Mariegeo tentarono di contattare Castelrosso chiedendo se Turnbull fosse arrivato;
quando ci fu risposta affermativa, iniziò uno scambio di messaggi tra Campioni
e Turnbull, protrattosi per tutto il 10 settembre e le prime ore dell’11, con
cui si cercò di coordinare il trasferimento a Rodi del colonnello britannico –
direttamente da Castelrosso o, come avrebbe voluto lui, attraverso Simi –, cui
furono messe a disposizione allo scopo anche motosiluranti ed idrovolanti.
All’una di quel
pomeriggio il maggiore Dolbey, che era rimasto ferito ad una gamba nell’atterraggio,
venne imbarcato sulla motosilurante italiana MS 15 diretta a Simi (da dove poi sarebbe proseguito per Cipro con
un idrovolante della Croce Rossa), con una lettera di Campioni per il generale
Wilson, nel quale si chiedeva il suo aiuto. Lo accompagnava il capitano Loredano
Giannotti del Servizio Informazioni Militari.
(Il generale Wilson,
in quei giorni, si stava probabilmente mangiando le mani: fin dall’inizio della
guerra i comandi britannici avevano elaborato in successione almeno tre piani
diversi per conquistare Rodi, in modo da aprire una via di comunicazione
diretta con la Turchia – che però non sembrava intenzionata a lasciare la sua
nazionalità – ed agevolare un possibile intervento angloamericano contro la
Romania, specie i pozzi petroliferi di Ploiești; quattro volte le
truppe erano state radunate e preparate per l’operazione, che era poi stata
ogni volta rinviata. L’ultimo piano preparato, "Accolade",
nell’estate 1943, prevedeva l’impiego dell’8a Divisione Indiana, che
proprio il 1° settembre, dopo esercitazioni condotte tra il 24 ed il 26 agosto,
era stata imbarcata sui mezzi da sbarco per dare il via all’operazione: la
quale però era stata annullata all’ultimo
momento, trasferendo truppe e mezzi da sbarco in India. Wilson non era
al corrente delle trattative in corso che di lì a due giorni avrebbero portato
alla firma dell’armistizio tra l’Italia e gli Alleati, e quando lo seppe, il 3
settembre, era ormai troppo tardi: le truppe erano state già trasferite, ed il
comando interalleato del Mediterraneo, tenuto dal generale Eisenhower, seguiva
il principio statunitense di concentrare tutte le forze contro l’obiettivo
principale – l’Italia – senza disperdere uomini e mezzi in operazioni
secondarie nei Balcani e nell’Egeo, come invece avrebbero voluto i britannici. Già
in agosto Eisenhower, interpellato per chiedere l’invio di altri mezzi e truppe
necessarie per agire contro il Dodecaneso, aveva detto al comando in capo del
Medio Oriente di limitarsi ad incursioni di piccola scala, appoggio alla
guerriglia partigiana e penetrazione in zone abbandonate dal nemico, in cui non
vi fosse contrasto. Ardentemente favorevole ad operazioni nel Dodecaneso era
invece il primo ministro britannico, Winston Churchill, che il 9 settembre
telegrafò a Wilson: “Questo è il momento di giocare forte. Improvvisate ed
osate”. In quella data Wilson aveva nella sua disponibilità immediata una
brigata di fanteria, la 234a, ed uno Squadron di caccia Supermarine
Spitfire. Mancava però di mezzi da sbarco: ragion per cui la forza da inviare a
Rodi venne ridotta da una brigata ad un battaglione, da trasferire con
imbarcazioni a motore e con la condizione imprescindibile del sicuro e
incontrastato possesso del porto di Rodi, indispensabile per sbarcare quegli
uomini. Mancando questa certezza, anche questo già ridimensionato progetto
venne abbandonato. Non comprendendo che la sorte del Dodecaneso dipendeva dal
controllo di Rodi, Wilson non accolse la richiesta di Dolbey di inviare subito
200 paracadutisti).
All’alba del 10
settembre, intanto, una colonna motocorazzata tedesca aveva iniziato ad
avanzare da Psito-Mauropetra verso Maritza, sebbene la sua avanzata fosse
rallentata dal tiro delle artiglierie italiane proveniente dai Monti Paradiso e
Fileremo, dove resistevano reparti dell’Esercito (su ciascuna delle due alture
si trovava una batteria di obici da 149/12 mm), e da tutte le altre artiglierie
italiane che si trovassero a tiro. A loro volta la colonna era appoggiata da
batterie tedesche che sparavano contro i due monti in mano italiana. I combattimenti
si protrassero per tutto il mattino; l’azione tedesca durante la giornata fu
poi definita "in qualche particolare
ancora cauta e guardinga, ma nel suo complesso decisa e violenta".
Durante il mattino si
presentò al comando di Egeomil un parlamentare tedesco che si disse inviato dal
colonnello Hess, comandante il reggimento corazzato tedesco; quest’ultimo
chiedeva di poter parlare con un colonnello italiano, che comandava un
reggimento, del quale era amico personale. L’incontro, finalizzato ad "evitare
inutile spargimento di sangue", era fissato per le nove del mattino a
Rodino. Campioni rispose che se si stava spargendo del sangue era perché i
tedeschi erano venuti meno ai patti stabiliti; ma diede comunque il permesso di
tenere l’incontro, ponendo però la condizione che si svolgesse alla presenza
del generale italiano che comandava il settore di Rodi, Raffaello Calzini. Alla
fine l’incontro non ci fu.
Alle nove del mattino
un aereo tedesco, bersagliato dalla contraerea, sorvolò Rodi città ed il settore
circostante lanciando volantini che promettevano il rimpatrio per chi si
arrendeva ("vi garantiamo il pronto
rientro in Italia", aggiungendo che le truppe italiane in Grecia
avevano ceduto le armi ed ora stavano tornando a casa). Al contempo, qualcuno affisse
invece manifesti di provenienza britannica, in italiano e in greco, coi quali
si esortava la popolazione locale a collaborare con gli italiani che
combattevano i tedeschi, ed a dare aiuto a quelli che fossero ricercati.
Verso le dieci arrivò
da Coo il cacciatorpediniere Euro,
che aveva imbarcato 200 soldati di rinforzo da sbarcare a Rodi; siccome nel
frattempo la guarnigione della città era già stata rafforzata da reparti
affluiti dall’interno, l’Euro
ricevette l’ordine di rientrare a Coo senza sbarcare le truppe.
Durante il pomeriggio
la città di Rodi ed il settore circostanti furono nuovamente sorvolati da
velivoli della Luftwaffe. Esisteva, all’interno del sistema di difesa costiera
italiano, una postazione che rappresentava una sorta di limbo: una batteria
tedesca contraerea ed antisbarco da 88 mm situata a Cova, vicino a Rodino. Già
il pomeriggio del 9, od il mattino del 10, il comandante del settore di Rodi
aveva ingiunto al comandante di quella batteria di abbandonare la posizione e
deporre le armi; ma questi aveva risposto di non aver ricevuto ordini in tal
senso, e rifiutò recisamente, assicurando al contempo che non avrebbe rivolto
le sue armi contro gli italiani, non avendo ricevuto neanche disposizioni del
genere. Per circa un giorno, così, mentre nel resto dell’isola si combatteva
tra italiani e tedeschi, questa batteria tedesca rimase indisturbata in mezzo
alle linee italiane; finché non avesse intrapreso azioni ostili, si era
preferito non attaccarla, essendo anche dotata di un notevole armamento per la
difesa ravvicinata. Durante i sorvoli di aerei tedeschi il 10 settembre, al
mattino come al pomeriggio, la batteria espose dei teli di segnalazione per
farsi riconoscere come tedesca, e non essere attaccata dagli aerei amici.
Durante il mattino la
batteria Majorana, su ordine del Comando Marina, sparò sui mezzi corazzati
tedeschi che avevano occupato l’aeroporto di Maritza; il fuoco fu poi sospeso
in attesa che gli osservatori di artiglieria riferissero sui risultati. Verso
l’una la batteria venne attaccata da bombardieri in picchiata Junkers Ju 87
“Stuka”, senza subire danni; un secondo attacco aereo si verificò alle 14.30,
quando due umini rimasero uccisi ed un terzo ferito, anche se i cannoni non
ebbero danni. Nel pomeriggio la batteria ricevette ordine di tirare contro le
artiglierie tedesche appostate sul Monte Cumoli, cosa che fece per circa
mezz’ora; poi il comandante della Majorana, tenente di vascello Ragni, si
accorse che la batteria tedesca da 88 di Cova aveva due cannoni puntati sulla
sua batteria ed altri due puntati sulla batteria Melchiorri. Ragni chiese il
permesso di aprire il fuoco sulla batteria di Cova, ma Campioni respinse la
richiesta, mentre il Comando Marina ordinò di tornare a sparare su Maritza.
Ragni eseguì, e riprese il fuoco per una quarantina di minuti; gli osservatori
comunicarono che il tiro risultava centrato sui carri armati tedeschi, quattro
dei quali erano stati colpiti in pieno. Il Comando Marina, dinanzi alle
insistenze di Ragni che con i suoi uomini smaniava per poter aprire il fuoco
sulla batteria da 88 che lo teneva sotto tiro, gli disse che non avrebbe potuto
farlo se prima non fossero stati i tedeschi a sparare; però sarebbe bastato che
questi ultimi tirassero anche con armi leggere per giustificare la reazione.
Intorno alle quattro del pomeriggio gli uomini della batteria Majorana videro
infine una vampa partire dalla batteria di Cova, ed aprirono subito il fuoco
contro di essa; si unì immediatamente al tiro anche la batteria Melchiorri,
seguita a ruota da alcuni mortai dell’Esercito. Il fuoco concentrato delle due
batterie e dei mortai ebbe effetti devastanti sulla batteria tedesca: in poco
tempo tutti i suoi cannoni vennero messi fuori uso, i depositi munizioni
esplosero, parecchi uomini rimasero uccisi o feriti; dopo questo martellamento
la batteria di Cova si arrese. A sua volta, la batteria Majorana aveva avuto
sei artiglieri uccisi e due feriti gravemente a causa di un colpo da 88 che era
esploso internamente allo scudo del cannone n. 1 da 152 mm.
Si erano rifugiati
presso la batteria di Cova la maggior parte dei militari tedeschi che si
trovavano a Rodi città al momento dell’armistizio; il nucleo antiparacadutisti
dell’Aeronautica del tenente Luigi Straulino, inviato a circondare la batteria,
fece ben 600 prigionieri, compresi un tenente colonnello, che appariva esausto
e agitato, ed altri 60 ufficiali. Parteciparono a quest’azione anche alcuni
militi già della M.V.S.N. ed alcuni plotoni del 331° Fanteria, che fecero 160
prigionieri. I prigionieri catturati dal reparto del tenente Straulino vennero
portati al Comando Aeronautica, ma il Comando della Piazza ordinò loro di
liberarli e rimandarli ai loro reparti, perché a Rodi non vi era un campo di
prigionia in cui rinchiuderli (!). Successivamente, l’episodio si ripeté quando
il tenente Straulino condusse con successo un colpo di mano contro l’Hotel
delle Terme, catturando gli ufficiali tedeschi presenti: li portò al Comando
Superiore, da dove gli venne ordinato di riportarli all’Hotel.
Il personale della
batteria Dandolo, catturato il giorno prima e liberatosi, tornò alla batteria
ma la trovò fuori uso; si recò allora nel vicino villaggio di Lindo, dove
trascorse la notte.
Sempre nel
pomeriggio, fu trasmesso dal castello del governatore, mediante l’apparato
radiotelegrafico paracadutato insieme a Dolbey e Jellicoe (andato perso durante
l’atterraggio e poi recuperato da militari italiani per ordine di Campioni)
dotato di un’antenna di fortuna alzata nel cortile del castello, un nuovo
telegramma a Wilson in cui si riferiva dell’aggravarsi della situazione e si
chiedeva di nuovo con urgenza un attacco aereo sulle truppe tedesche.
Ancora in quel
concitato pomeriggio, un parlamentare tedesco – un ufficiale del Comando
divisionale della "Rhodos" – si presentò presso il comando di
Egeomil, accompagnato dal capo di Stato Maggiore della Divisione
"Regina", tenente colonnello Vittorio De Paolis. Questi raccontò
com’era stato catturato lo Stato Maggiore della "Regina" e tracciò un
quadro profondamente pessimista della situazione militare all’interno
dell’isola. L’ufficiale tedesco, da parte sua, disse che il generale Kleemann
voleva parlare con l’ammiraglio Campioni, e che per questo era pronto a venire
in città il mattino seguente; Campioni rispose che lo avrebbe potuto ricevere
alle nove del mattino dell’11, a patto che le truppe tedesche non commettessero
altri atti di ostilità.
Così non avvenne: nelle
prime ore della sera, reparti corazzati tedeschi, a dispetto del tiro
d’interdizione sulle strade di accesso, conquistarono il Monte Paradiso ed il
Monte Fileremo, cui seguì la caduta di altre posizioni. La perdita delle due
alture, di capitale importanza nella difesa di Rodi, era in larga parte
conseguenza di un discutibile ordine impartito da Egeomil alle 13.45 del 9
settembre, quando era stato disposto che i reparti di fanteria e di mitraglieri
dei settori di San Giorgio e di Calitea (in tutto circa 680 uomini) venissero
tutti trasferiti nel settore di Rodi, per rafforzare quella bretella difensiva.
Il risultato fu quello di scompaginare il sistema difensivo di quei due
settori, che fino a quel momento avevano rintuzzato efficacemente gli attacchi
tedeschi, lasciandoli pressoché sguarniti e privando le batterie dei monti
Paradiso e Fileremo di ogni protezione dagli attacchi tedeschi. Il colonnello
Capigatti, comandante del settore di San Giorgio, non era riuscito a credere a
quell’ordine quando l’aveva ricevuto: aveva chiesto conferma per telefono al
generale Forgiero, non riuscendo a credere ad un ordine tanto dissennato, ma la
conferma c’era stata. Su quello che seguì scrisse in seguito nel suo rapporto
lo stesso colonnello Capigatti: «Non
voglio credere ad un tale ordine perché non lo ritengo attuabile per la
presenza sul Campo di Aviazione di numerosi carri armati germanici e perché il
ripiegamento avrebbe prodotto un vuoto pauroso nella parte più importante del
Settore, con il conseguente isolamento delle numerose artiglierie ivi
schierate. Chiamo al telefono il Gen. Forgero che so rientrato a Rodi, il quale
alle mie argomentazioni, conferma l’ordine dato dal Comando Superiore. Non sono
in grado di riferire sulle conseguenze immediate di un tale ordine. Mi constò,
però, che i movimenti siano stati effettuati solo in parte, che i reparti siano
stati pressati e intersecati dai carri armati tedeschi, originandone
combattimenti episodici costatici gravi perdite in uomini e materiali col magro
risultato di riunire nella piazza di Rodi una parte esigua e per giunta
organica, dei già poderoso schieramento (…) il fuoco intenso durato quasi tre ore, danneggia seriamente due carri
armati, un’autovettura e due autocarri producendo altresì alcune perdite umane
ai tedeschi. Dal canto loro, i carri tedeschi, irrompono nel caposaldo di
Soronì e, dopo breve resistenza, ne hanno ragione. Più forte e dura invece la
resistenza del vicino caposaldo di Monte Truglia per l’ammirevole comportamento
del s. ten. Oreste Siclari, che sebbene per due volte mortalmente ferito
continua a dirigere il fuoco del suo pezzo anticarro. Successivamente i
tedeschi riescono a schierare alle spalle del caposaldo di Monte Malla una
batteria ed alcune armi automatiche che con fuoco intenso obbligano
all’abbandono del caposaldo. Prima di sera anche il caposaldo del Tolo che non
era dotato di armi anticarro è facilmente eliminato. A Salaco il comandante del
Battaglione di riserva, invia la 98 Compagnia a rastrellare il paese ed a
rioccupare un magazzino. Ne segue un vivace combattimento con esito a noi
favorevole. Sono le ore 22 e apprendo che (…) anche il Presidio di Psito ed il Settore di Calithea (…) stanno ripiegando su Rodi. La situazione nel
Settore si fa così sempre più grave (…) Psito
è in mano ai tedeschi e con ciò ogni via (di uscita) è preclusa».
Private della
protezione della fanteria, trasferita nel settore di Rodi, le artiglierie dei
monti Paradiso e Fileremo furono facili prede dei successivi attacchi tedeschi,
particolarmente decisi a neutralizzarle perché esse impedivano ai loro carri
armati di dilagare liberamente sulla pianura tra le località di Trianda e
Villanova. Anche stavolta si ricorse, da parte tedesca, ad uno stratagemma: nel
pomeriggio del 10 settembre i tedeschi inviarono verso la zona della base di
Maritza numerose ambulanze che, a loro dire, avrebbero dovuto raccogliere i
feriti degli scontri sostenuti in quella zona; in realtà, le ambulanze erano
cariche di guastatori d’assalto, che nelle prime ore della notte, col favore
del buio, andarono all’assalto del Paradiso e del Fileremo. Le batterie
italiane vennero annientate a colpi di bombe a mano e lanciafiamme. Tra i morti
vi furono entrambi i comandanti delle batterie, il capitano Giuseppe De
Pasquale a Monte Fileremo ed il capitano Mazzotti a Monte Paradiso; un altro
ufficiale, due caporali, 14 artiglieri ed un aviere.
Intanto, sempre nella
sera del 10 settembre, le batterie di Calitea e la batteria contraerea da 75 mm
di Taschisi (vicino a Rodi) furono circondate; le difese contraeree di Rodi
furono così ridotte alla sola batteria di Santo Stefano, armata con pezzi da 75
mm, ed a due batterie di mitragliere da 20 mm. Il controllo dei monti Paradiso
e Fileremo avrebbe permesso ai tedeschi di posizionarvi delle artiglierie per
appoggiare l’attacco sulla linea Mixi-Capo Vado, la "bretella"
difensiva di Rodi; artiglierie postate sul Monte Fileremo, poi, sarebbero state
in grado di colpire direttamente la stessa città di Rodi, compresi il porto, la
centrale elettrica, la stazione radio e gli ospedali. Per scongiurare questo
pericolo venne intensificato il tiro d’interdizione sulla strada carrozzabile
che portava al Monte Fileremo. Da parte italiana andarono perdute molte armi
pesanti, mentre le restanti artiglierie mostravano segni di rapido logoramento.
Alle 19.45 il maggiore Jellicoe, insieme al sergente Keterston, al colonnello
Ruggero Fanizza (sottocapo di Stato Maggiore dell’ammiraglio Campioni) ed al
maggiore Delio Guizzon della Regia Aeronautica, lasciò Rodi diretto a
Castelrosso sulla motosilurante MS 12.
A Castelrosso, non potendo Turnbull venire a Rodi, si sarebbe dovuta discutere
più a fondo la situazione e l’invio di rinforzi a Rodi: Fanizza e Guizzon
avrebbero dovuto fornire ai britannici tutte le informazioni necessarie a
facilitarne lo sbarco (Guizzon, in particolare, essendo profondo conoscitore
dell’aeroporto di Coo, doveva convincere i britannici a stanziarvi un reparto
di caccia per la difesa di Rodi), e recavano una lettera dell’ammiraglio
Campioni per il generale Wilson, nella quale si riassumeva la situazione e si
richiedeva ancora una volta l’intervento delle forze aeree (in buona sostanza,
le stesse cose già trasmesse via radio da Jellicoe il 10 settembre). Era stata
anche preparata dettagliata documentazione relativa alla Marina. Wilson – che
stava approntando un battaglione da inviare il prima possibile a Rodi mediante
imbarcazioni veloci della Royal Air Force – avrebbe ricevuto la lettera il
pomeriggio dell’11, a cose fatte.
Durante la notte,
l’ammiraglio Campioni venne informato della resa delle forze italiane a Creta e
nella Grecia continentale, il che indeboliva ulteriormente la sua posizione,
dato che ora le forze tedesche avevano amplissima libertà d’azione nell’Egeo;
ricevette anche informazioni che facevano dubitare della volontà di uno degli
alti ufficiali dell’Esercito alle sue dipendenze di resistere ai tedeschi. Intanto,
la batteria Majorana seguitava a sparare contro il Monte Cumoli, per circa tre
ore, ma senza poter verificare gli effetti del suo tiro.
Alle sette del
mattino dell’11 settembre, attacchi aerei tedeschi – gli aerei della Luftwaffe
provenivano da Creta ed attaccarono in gruppi di tre – colpirono la periferia
di Rodi città, danneggiarono le batterie Majorana (che subì la distruzione
delle condutture dell’acqua, il danneggiamento di un deposito munizioni e la
morte di un marinaio e di un artigliere dell’osservatorio) e Santo Stefano e
misero fuori uso la stazione radio della Marina di Rodino, accentuando
l’isolamento dell’ammiraglio Campioni dai reparti alle sue dipendenze. In
risposta ad una domanda del Comando Supremo, durante il mattino venne trasmesso
da Rodi un telegramma sulla situazione: vi si diceva che salvo sporadici
combattimenti in alcune parti dell’isola, tutto il territorio a sud della linea
Mixi-Capo Vado (cioè praticamente tutta l’isola, dato che quella linea
corrispondeva alla "bretella" difensiva della penisola su cui sorgeva
la città di Rodi, all’estremità settentrionale dell’isola) era in mano tedesca;
che tutte le forze disponibili erano state radunate a nord di quella linea e
che in caso di attacco difficilmente la Piazza di Rodi avrebbe potuto resistere
a lungo, non avendo mezzi corazzati e meccanizzati da contrapporre a quelli
tedeschi, né velivoli per contrastare gli attacchi aerei.
Il mattino dell’11
gli uomini della "Dandolo" tornarono ancora una volta alla batteria,
insieme ad alcuni militi della Guardia di Finanza, e rimisero in efficienza
alcune mitragliatrici; riuscirono anche a ripristinare i collegamenti
telefonici con la batteria "Morosini", dalla quale ebbero ordine di
minare e far saltare la strada di Lindo. Ciò fu fatto utilizzando qualche
cassetta di dinamite.
Giunse a Rodi da
Castelrosso, su un motoscafo della RAF, un nuovo inviato britannico, il
colonnello L. F. R. Kenyon (accompagnato dal colonnello Harry Wheeler della
Royal Air Force), che incontrò subito Campioni; l’ammiraglio italiano descrisse
la gravità della situazione e rinnovò le richieste di azioni diversive nella
parte meridionale dell’isola e dell’invio di caccia per contrastare l’azione
della Luftwaffe. Il generale Briganti richiese insistentemente che la RAF
bombardasse gli aeroporti di Maritza e Gadurrà e che un reparto di suoi caccia
venisse dislocato a Coo per ostacolare gli attacchi degli Stukas. Kenyon chiese
a Campioni se ritenesse che fosse imminente un attacco tedesco contro la città
di Rodi, e per quanto la guarnigione italiana avrebbe potuto resistere in caso
di attacco di forze corazzate; l’ammiraglio italiano rispose che non era
possibile saperlo con precisione ma che, dato che le truppe tedesche erano
ancora impegnate in combattimenti nell’interno, probabilmente un attacco in
forze non era imminente, come faceva presumere anche la richiesta di un
incontro da parte di Kleemann. Kenyon rispose "Riconosco che la vostra situazione è molto critica" e che
avrebbe riferito le richieste di Campioni, dopo di che raccomandò di guadagnare
tempo con ogni mezzo e di non perdere il controllo della situazione; fu poi accompagnato
al porto ed imbarcato su un’unità in partenza per Castelrosso. Il trasferimento
dell’ufficiale britannico dal motoscafo al castello e viceversa dovette essere
compiuto nel più rigido segreto, perché stava per arrivare in città il generale
Kleemann: il motoscafo britannico venne fermato fuori dal porto, Kenyon venne
trasbordato sul MAS 540 che lo trasbordò
ancora sulla cannoniera Caboto, poi
il colonnello britannico fu condotto clandestinamente fino al castello dove
aveva sede Campioni con l’automobile dell’ammiraglio Daviso. Per non rivelare
la sua presenza, a Kenyon venne fatto indossare un impermeabile italiano,
fornito da uno degli ufficiali del Comando. Analogo contorto itinerario seguì
nel lasciare l’isola; mentre aspettava, a bordo della Caboto, che fosse pronta la motosilurante MS 15 (che lo avrebbe riportato a Castelrosso), raccomandò al
capitano di corvetta Corradini – comandante della cannoniera – di far partire
le navi se la città fosse caduta. Si recò sulla Caboto anche il capitano di fregata Orlando, che ribadì a nome di
Campioni l’importanza di riferire il prima possibile le decisioni dei comandi
britannici; al momento di accomiatarsi Kenyon gli diede un biglietto scritto a
matita, con i suoi auguri per Campioni e l’incoraggiamento di continuare a
combattere.
Poco più tardi, verso
le otto, il tenente colonnello De Paolis, scortato da un ufficiale tedesco
della Divisione "Rhodos", si presentò al quartier generale italiano
recando un biglietto del generale Scaroina, che chiedeva di porre fine ai
combattimenti nella parte meridionale dell’isola ordinando, «per evitare ulteriore inutile spargimento di
sangue», la cessazione della resistenza dei capisaldi che ancora
resistevano da quella parte, e che ormai stavano per esaurire l’acqua e le
munizioni. De Paolis aggiunse che se Campioni non avesse accettato, i tedeschi
avrebbero fucilato per rappresaglia 3000 prigionieri italiani ammassati a
Campochiaro (secondo un articolo dello storico Luciano Alberghino Maltoni,
"Non esiste alcun riscontro storico
che tale notizia fosse vera né che i tedeschi avessero
catturato quelle truppe"). L’ufficiale aggiunse a voce che si
proponeva di ripristinare i collegamenti tra i Comandi italiano e tedesco e di
effettuare scambi di prigionieri. L’ammiraglio Campioni accettò di ristabilire
i collegamenti e di liberare i prigionieri tedeschi, ma rifiutò di autorizzare
la cessazione delle ostilità da parte dei capisaldi a sud, aspettando un
incontro con Kleemann.
I due “ambasciatori”
se ne andarono e Campioni, insieme al generale Sequi, fece il punto della
situazione; dopo di che concluse che avrebbero potuto “metterlo al muro”, ma
che non avrebbe cambiato i suoi ordini.
Alle 10.30 (o 11),
durante un allarme aereo, altri due ufficiali tedeschi della Divisione
"Rhodos" si presentarono al castello, insieme al tenente colonnello
De Paolis; l’incontro con Campioni avvenne in un cortile adiacente al rifugio
antiaerei. L’ammiraglio italiano chiese perché Kleemann non fosse venuto come
pattuito; uno dei due ufficiali tedeschi spiegò che erano arrivati nuovi e
imperativi ordini dai comandi superiori, e che la situazione era cambiata in
quanto le truppe italiane in Italia e Grecia non avevano contrastato i
tedeschi, ed anzi avevano con essi stretto degli "accordi
vantaggiosi"; "la situazione creatasi a Rodi era ormai chiara per
quanto assurda, e la persistenza del contegno antigermanico del Governatore
faceva ricadere interamente sopra di lui la responsabilità della vita dei
militari e dei civili di Rodi". Campioni rispose che per lui non era
cambiato nulla e che avrebbe continuato ad attenersi agli ordini superiori che
aveva ricevuto. Il tedesco ribatté che non c’era tempo da perdere e lesse un
foglio contenente le condizioni di resa imposte dal comando supremo tedesco
(Oberkommando der Wehrmacht, OKW): queste prevedevano la cessazione delle
ostilità in tutta l’isola, il rilascio dei prigionieri tedeschi e la resa senza
condizioni delle truppe italiane; il governatore sarebbe rimasto in carica e
non vi sarebbero state, da parte tedesca, intromissioni nelle questioni di sua
competenza. Campioni sottolineò subito che non si poteva parlare di «resa senza
condizioni», al che l’ufficiale tedesco precisò trattarsi solo di
un’indicazione di massima; quest’ultimo aggiunse che le condizioni di dettaglio
sarebbero state decise insieme a Kleemann, e – dopo aver guardato l’orologio –
che Campioni aveva mezz’ora per decidere, dopo di che alle 11.30 la città di
Rodi sarebbe stata sottoposta ad un bombardamento indiscriminato, e sarebbe
iniziata un’offensiva aerea su tutta l’isola con l’impiego di Stukas già pronti
negli aeroporti di Creta.
Campioni radunò
subito i comandanti dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica di Rodi e
tenne consiglio; non poterono partecipare alla riunione il generale Calzini
(comandante del settore di Rodi), impegnato dai compiti del suo comando, e
l’ammiraglio Daviso, che si trovava alla batteria Majorana e che arrivò al
castello quando ormai tutto era stato deciso. Campioni spiegò ai presenti le
richieste e le minacce tedesche, disse quello che sapeva su quanto era avvenuto
in Grecia ed a Creta, fece presente di non aver ricevuto disposizioni dopo
quelle iniziali emanate dal Comando Supremo, e rilevò la difforme situazione
del Dodecaneso, dove la situazione appariva grave a Rodi mentre nelle altre
isole tutto era calmo; lesse il biglietto del generale Scaroina e notò che
ormai la città di Rodi era esposta sia al tiro diretto delle artiglierie
tedesche che agli attacchi aerei i quali, stando alle minacce, sarebbero
iniziati a breve. Anche l’acquedotto era sotto controllo tedesco. Menzionò
infine i contatti avuti con i rappresentanti britannici, dai quali traspariva
che non sarebbero giunti rinforzi prima di alcuni giorni. Campioni invitò i
presenti ad esporre la loro opinione.
Dal momento che non
sarebbero giunti rinforzi britannici a breve, la situazione militare venne
considerata critica; reparti dell’Esercito continuavano a resistere e la città
era ancora saldamente in mano italiana, ma i generali convennero che in caso di
attacco di forze corazzate tedesche, che avrebbe senz’altro goduto di supporto
aereo, non si sarebbe potuto opporre altro che una difesa statica che non
sarebbe potuta durare a lungo, mentre non vi erano mezzi per tentare un
contrattacco. Per quanto riguardava l’artiglieria, nel settore di Rodi
l’Esercito aveva soltanto tre batterie da 105 mm e quattro da 75, tutte con una
sola unità di fuoco per cannone; alla batteria era rimasta soltanto la batteria
Majorana, con 250 colpi per cannone. L’Aeronautica aveva tre caccia a Coo e tre
idrovolanti dei quali due erano disarmati, essendo idrovolanti di soccorso, ed
il terzo era quello a disposizione del governatore. La contraerea era ridotta
alla batteria da 75 di Santo Stefano ed alle due batterie di mitragliere da 20
mm disposte lungo le mura. La rete di avvistamento era stata ristretta fino ad
avere un raggio di pochi chilometri.
Campioni considerò
anche che in caso di bombardamento la città sarebbe stata duramente colpita,
provocando una strage tra i civili; considerato questo, la scarsità di
artiglierie e munizioni e l’impossibilità di ricevere a breve aiuto
dall’esterno, decise di negoziare la resa, limitatamente all’isola di Rodi. Nel
resto dell’Egeo sarebbero invece rimasti validi gli ordini emanati nella notte
dell’8-9 settembre. Qualcuno suggerì a Campioni di lasciare Rodi, ma
l’ammiraglio decise di seguire la sorte della sua isola e dei suoi uomini.
Alle 11.30, scadenza
dell’ultimatum, Campioni contattò l’ufficiale tedesco e gli riferì che era
pronto a trattare la cessazione dei combattimenti, purché anche i tedeschi
cessassero le ostilità; le condizioni di dettaglio sarebbero state decise in
una riunione da tenersi più tardi lo stesso giorno. Mentre era in corso questo
colloquio, apparve sul cielo di Rodi una formazione di Stukas che attaccò e
colpì di nuovo la stazione radio; Campioni protestò, e l’ufficiale tedesco
rispose che era un attacco già pianificato, indipendentemente dalle trattative,
e che unico obiettivo era appunto la stazione radio.
Venne organizzato per
il pomeriggio un incontro con il generale Kleemann, da tenersi presso Afando;
il generale tedesco inviò all’ammiraglio Campioni il seguente proclama, da
diramare a tutti i reparti: «Il giorno 11
settembre alle ore 11.35 ho accettato le condizioni di resa proposte dal
comandante delle truppe germaniche. Ordino perciò che tutte le truppe italiane
dell’Esercito, dell’Aviazione e della Marina dell’Egeo, dislocate a Rodi e a
Scarpanto, depongano le armi senza condizioni [queste due parole furono da
Campioni cancellate con doppia riga] e
che cessi qualsiasi resistenza contro le forze armate germaniche, Campioni».
A dare gli ordini necessari per la cessazione dei combattimenti nel settore di
Rodi provvide lo stesso Campioni, che al contempo mandò un biglietto al
generale Scaroina (al quale fu recapitato alle 12.30) che autorizzava
quest’ultimo ad ordinare la cessazione delle ostilità da parte dei reparti con
cui l’ammiraglio non poteva mettersi in contatto.
Aveva influito su
questa decisione anche il collasso della rete di comunicazioni, che impediva
all’ammiraglio di controllare le sue truppe e di comprendere il quadro generale
della situazione: in altre parti dell’isola, infatti, la situazione sul campo
non pareva così disperata.
Nel mentre, verso
l’una del pomeriggio, avevano cominciato a diffondersi false notizie
sull’ingresso in città di carri armati tedeschi, in seguito alle quali alcune
imbarcazioni iniziarono a lasciare il porto di loro iniziativa, e vennero
seguite da altre, che ritenevano di stare eseguendo ordini che non potevano più
essere ricevuti. In effetti l’ammiraglio Daviso, quando fu raggiunto dalla
(falsa, ma non poteva ancora saperlo) notizia dell’entrata in città di truppe
tedesche, inviò al porto il suo aiutante di bandiera per ordinare a tutte le
unità navali di partire alla volta di Lero, che restava sotto controllo
italiano (altre fonti attribuiscono la decisione della partenza del naviglio
all’ammiraglio Campioni, od al capitano di corvetta Corradini), onde evitare
che cadessero in mano tedesca. L’esodo in massa delle unità navali contrastava
con le condizioni di resa che si stavano trattando, e fu probabilmente per
questo che durante il pomeriggio entrarono davvero in città reparti motorizzati
che puntarono decisamente verso il porto, ma che vennero presto ritirati dopo
le vibrate proteste da parte italiana.
Il comando del
settore difensivo che comprendeva il caposaldo di Torre San Nicolò ed il porto
di Rodi era retto dal capitano di corvetta Corradino Corradini, che era anche
comandante della cannoniera Sebastiano
Caboto, immobilizzata nel porto da
un’avaria: questo ufficiale aveva fatto il possibile per organizzare la difesa
del porto con i mezzi disponibili, comprese le armi sbarcate dalla sua nave
ormai inservibile. Su ordine di Corradini, il presidio del forte di San Nicolò
aveva iniziato a chiudere l’ingresso del caposaldo erigendo un muro; siccome
Corradini doveva ancora sbrigare varie faccende al porto, e doveva rientrare
nel forte per ultimo, era stata lasciata una biscaglina che penzolava dalle
mura, affinché vi si potesse arrampicare. Corradini fece rifornire tutte le
unità presenti nel porto, e le approntò alla partenza; queste partirono poi via
via, per ordine di Corradini, Daviso o Campioni – evidentemente si
intrecciarono in quelle ore ordini diversi e di varia provenienza – nonché per
iniziativa personale dei loro comandanti, che in mancanza di ordini e con la
sola certezza che i tedeschi stessero per arrivare, decisero di sottrarre le
loro unità alla cattura. Nel porto regnava ormai una crescente confusione:
folti gruppi di militari dell’Esercito e dell’Aeronautica, in fuga dai
tedeschi, si precipitavano sui moli cercando un’imbarcazione per lasciare
l’isola, incitando le navi presenti a partire; alcune di queste partirono tanto
precipitosamente da non perdere neanche tempo a salpare le ancore, limitandosi
a filarle per occhio ed abbandonarle sul fondale. La fretta della partenza
contagiò progressivamente tutte le imbarcazioni presenti, che partirono una
dopo l’altra, alcune per loro inziativa, altre per imitazione; quando giunse
l’aiutante di bandiera dell’ammiraglio Daviso con l’ordine di partire, la maggior
parte se ne erano già andate di propria iniziativa, così che solo ad alcune si
poté comunicare la disposizione di fare rotta per Lero.
Presero così il mare
alla spicciolata il MAS 538, il MAS 540, il MAS 559, la MS 23, il
piroscafo requisito Pola, i dragamine
ausiliari Ardito, Gaeta, Leda, Berenice, Postiglioni e Navigatore, i cacciasommergibili ausiliari S. Antonio e Garibaldino,
i rimorchiatori Aguglia ed Impero, il motoscafo personale
dell’ammiraglio Daviso, due motoscafi-ambulanza
R.A.M.A. dell’Aeronautica (tra cui il R.A.M.A.
1022, sul quale oltre ai cinque uomini d’equipaggio presero posto altri quattro
ufficiali e nove avieri) e svariati altri battelli, motovelieri, pescherecci,
motoscafi e imbarcazioni civili, cariche all’inverosimile di ufficiali,
soldati, avieri, marinai, civili. Inizialmente, la maggior parte delle
imbarcazioni puntò verso le coste della Turchia, ma il tenente di vascello
Gabriele Lombardo del MAS 540,
ufficiale più alto in grado tra quelli a bordo delle imbarcazioni fuggiasche, riuscì
a radunarle ed a ristabilire un po’ di ordine, quindi ordinò loro di dirigere
verso ovest. La maggior parte di esse raggiunse Lero o Castelrosso, un paio
ripararono in Turchia.
Rimasero nel porto di
Rodi soltanto la Caboto, il pontone
officina GQ 12, alcuni motovelieri o
pescherecci immobilizzati od in disarmo ed il piroscafo Pomezia, adibito a nave frigorifera statica. Il capitano di
corvetta Corradini tentò invero di far salpare anche quest’ultima nave,
armandola con i suoi uomini della Caboto;
ma quando Campioni lo venne a sapere, gli ordinò di interrompere la manovra di
uscita dal porto – che era già in corso – sia per rispetto delle condizioni di
resa convenute coi tedeschi, sia perché il suo carico di carne congelata era
necessario per sfamare le migliaia di militari italiani che restavano
nell’isola. Corradini – che già aveva respinto, sulle prime, l’ordine di resa,
convincendosi poi ad eseguirlo solo quando era giunto a confermarlo un
ufficiale del Comando che conosceva di persona – si mostrò molto recalcitrante
a riportare il Pomezia all’ormeggio,
e si decise a farlo soltanto dopo ripetute insistenze dell’ammiraglio Daviso,
recatosi personalmente sul posto. Anche la Caboto,
immobilizzata com’era, venne catturata.
La sorte dei tre
idrovolanti CANT Z. 506 che si trovavano a Rodi testimonia ampiamente il caos e
la disperazione che caratterizzò quel “si salvi chi può”. Due di essi erano
ormeggiati al porto commerciale; i loro equipaggi salirono su due motoscafi
dell’Aeronautica con l’intenzione iniziale di salire a bordo e decollare per
raggiungere Lero, ma si lasciarono influenzare dagli altri fuggiaschi
imbarcatisi sui due motoscafi – avieri non facenti parte degli equipaggi,
militari di altre armi e civili in fuga da Rodi – e decisero infine di
rinunciare a questo progetto e di puntare direttamente, coi due motoscafi,
verso le coste della Turchia. Così fecero, mentre gli idrovolanti, abbandonati
a sé stessi, vennero catturati dai tedeschi. Il terzo CANT Z. 506 era
ormeggiato all’idroscalo del Mandracchio: il suo equipaggio, anch’esso intenzionato
a decollare, ebbe serie difficoltà già solo per raggiungere il velivolo, dato
che i motoscafi dell’Aeronautica erano già partiti tutti. I piloti requisirono
d’autorità una barca per raggiungere l’idrovolante, ma questa affondò perché
sovraccarica; gli avieri riuscirono comunque a salire sull’idrovolante ed a
partire dopo essere usciti dal porto da soli, cosa che non avevano mai fatto
prima (di norma gli idrovolanti venivano rimorchiati fuori dal porto prima di
decollare). Un disperato, deciso a fuggire da Rodi a tutti i costi, si aggrappò
ad uno scarpone dell’idrovolante, ostacolando la manovra di decollo: mollò la
presa solo dopo essere stato violentemente minacciato dall’equipaggio
dell’apparecchio. Infine l’idrovolante riuscì a decollare; bersagliato dal tiro
di alcune camicie nere, intenzionate ad impedirne la fuga (corse voce che
fossero stati sparati dei colpi anche contro le imbarcazioni in partenza),
l’aereo riuscì ad uscirne indenne ed a raggiungere Alessandria d’Egitto, dove
ammarò quella sera.
Intanto, alle 15.30
di quella nera giornata Campioni, Daviso e Forgiero incontrarono Kleemann in una
casa colonica abbandonata vicino al villaggio di Afando. Il generale tedesco
iniziò dichiarando che le truppe italiane si erano battute valorosamente ed
onorevolmente; poi aggiunse che le forze tedesche a Rodi avevano diritto a
difendersi da attacchi britannici senza doversi curare di attacchi anche da
parte degli italiani, i quali si trovavano in regime d’armistizio, e biasimò la
resistenza voluta da Campioni, che aveva provocato delle morti inutili. Venne
concordato che Campioni avrebbe mantenuto il ruolo di governatore, nelle sue
funzioni civili; i reparti italiani non sarebbero stati sciolti, ma “soltanto”
disarmati, salvo gli ufficiali, che avrebbero potuto tenere le armi personali e
circolare liberamente per Rodi con le "naturali limitazioni del tempo di
guerra". Le truppe italiane sarebbero state ritirate dalle postazioni
munite di armi fisse, e concentrate in luoghi designati in modo tale da
semplificare la situazione logistica. Si sarebbe fatto l’inventario dei
magazzini – già quasi tutti sotto il controllo tedesco – per organizzare il
razionamento. Il comando tedesco sarebbe rimasto fuori dalla città. L’ammiraglio
Campioni accettò in linea di massima queste condizioni, chiedendo che fossero
messe a verbale; ricevette assicurazione che il verbale, una volta messo per
iscritto, gli sarebbe stato sottoposto, ma così non fu.
Essendo già tardo
pomeriggio, si stabilì che il termine per la consegna delle armi sarebbe stato
fissato al mattino del 12 settembre, anziché la sera dell’11 come inizialmente
deciso. Su richiesta italiana, Kleemann si impegnò ad ordinare che nessun
reparto tedesco entrasse nella città di Rodi, "fin quando la situazione glielo consentisse e salvo l’uso del porto
quando gli occorresse". Per accordi più specifici avrebbe mandato a
Rodi un suo ufficiale di collegamento. L’ammiraglio Daviso affermò in seguito
che Kleemann appariva piuttosto propenso a fare concessioni, mentre molto più
rigido si mostrava per contro il suo capo di Stato Maggiore (che, secondo
l’opinione di Daviso, fu il reale responsabile della successiva progressiva
violazione delle condizioni pattuite, agendo forse ad insaputa dello stesso
Kleemann).
Rientrando a Rodi
intorno alle cinque del pomeriggio, l’ammiraglio Campioni spiegò ai suoi
sottoposti che non s’illudeva che i tedeschi avrebbero rispettato le condizioni
di resa: con esse egli sperava semplicemente di poter guadagnare qualche altro
girono nell’attesa di un possibile intervento britannico. La condizione che i
reparti mantenessero l’inquadramento e che gli ufficiali potessero circolare
liberamente e tenere le armi personali erano state poste da Campioni con l’intento
di poter tornare a combattere se gli Alleati fossero davvero sbarcati
nell’isola. Ma nulla di tutto questo accadde.
Prima della resa,
vennero distrutti da parte italiana i cifrari (tranne uno, conservato presso la
stazione radio di San Giovanni che rimase occultamente in funzione) ed i
documenti segreti; vennero interrotte tutte le comunicazioni radio, ma fu mantenuta
clandestinamente in funzione la stazione radio di San Giovanni, facilmente
occultabile avendo sede in una casa di contadini (i tedeschi non erano a
conoscenza della sua esistenza). Prima di cessare le comunicazioni venne
riferito l’accaduto a Brindisi, dov’erano fuggiti da Roma il governo e la
famiglia reale; messaggi che annunciavano la resa furono inviati al Governo, al
Comando Supremo ed a Supermarina, anche se non è certo che siano stati tutti
ricevuti. Temendo che i tedeschi potessero inviare falsi messaggi a suo nome
per indurre le altre guarnigioni del Dodecaneso alla resa, Campioni contattò
telegraficamente e radiofonicamente tutte le altre isole dell’arcipelago
annunciando che da lui non sarebbero più giunte comunicazioni, né via radio né
per telegrafo.
Sul campo, la notizia
della resa giunse del tutto inaspettata per parecchi reparti italiani, che in
alcuni settori avevano rintuzzato efficacemente gli attacchi tedeschi e persino
catturato centinaia di prigionieri: alcuni credevano che i tedeschi stessero
ormai per esaurire carburante e munizioni, e ci fu chi sulle prime intese che
la notizia della resa riguardasse le truppe tedesche, dato che la situazione
nel suo settore appariva di netto vantaggio rispetto al nemico. Quando fu
spiegata la verità, la reazione dei più fu di rabbia e incredulità: mentre i
prigionieri tedeschi, in precedenza rinchiusi nelle caserme, venivano liberati e
venivano loro persino restituite le armi, parecchi soldati italiani dissero che
i loro comandanti erano impazziti; ci fu chi accusò Campioni di essere
filotedesco. Così descrisse quei momenti un giovane ufficiale, il sottotenente
Corrado Teatini: “"Cessate il fuoco!"
è l’ordine diramato a tutti i reparti dal comando generale italiano. È un
ordine, scritto, autentico, perentorio. "Hurrà! Vittoria! Ce l’abbiamo
fatta!", esultiamo. Che avremmo sopraffatto i tedeschi era ormai chiaro
fin dai primi scontri dell’alba del 9. Ma qualche attimo dopo l’esultanza viene
interrotta da qualcuno che legge il resto del messaggio "Calma ragazzi,
siamo noi che ci arrendiamo!" (…) Rodi
è stata venduta! La rabbia esplode incontenibile. (…) i soldati italiani, gli occhi gonfi di lacrime, sfilano con malcelato
di sprezzo davanti ai loro ufficiali, gettando i fucili sulla catasta dopo
averne spezzato il calcio”.
Analogo sbalordimento
fu percepito nel settore di Calato, dove la battaglia tra italiani e tedeschi
era ancora in corso e sembrava favorire i primi: tra il 9 e l’11 settembre le
batterie italiane situate sulle colline attorno all’aeroporto di Gadurra ed i
reparti di fanteria dislocati nel settore, al comando del tenente colonnello
Annunziato Mari, avevano per due volte respinto un attacco portato da una
colonna tedesca, ed avevano poi contrattaccato infliggendo ad essa pesanti
perdite, e distruggendo anche una batteria tedesca da 88 mm. Da parte italiana
si riteneva che ormai la colonna tedesca fosse allo stremo e che non avrebbe
potuto resistere ancora a lungo, quando era sopraggiungo il maggiore Davià, con
un ordine di resa ciclostilato a firma del generale Scaroina. Il tenente
colonnello Mari, incredulo, dichiarò che non lo avrebbe accettato se non fosse
stato firmato e provvisto dei bolli del Comando di Divisione; inoltre mandò due
suoi subalterni a Rodi per chiedere conferma dell’ordine ad Egeomil. L’ordine
fu confermato. Dopo la resa, i tedeschi cercarono con particolare accanimento
il capitano Luigi Viviani, comandante della 232a Batteria da 90/53
del 56° Raggruppamento Artiglieria: questi si era particolarmente distinto nei
combattimenti dei giorni precedenti, specialmente nella distruzione della
batteria tedesca da 88 mm, ma soprattutto aveva un’altra “colpa” doppiamente
grave agli occhi dei tedeschi. Durante i combattimenti si erano presentati al
suo caposaldo alcuni parlamentari tedeschi, recanti sui loro mezzi una bandiera
bianca, che gli avevano consegnato un falso invito alla resa da parte del
colonnello Ghelli, suo superiore: Viviani, ritenendo a ragione che si trattasse
di un inganno, aveva catturato alcuni dei parlamentari, ed aperto il fuoco
sugli altri che si erano dati alla fuga. Catturato il 17 settembre ed accusato
di aver sparato su parlamentari protetti dalla bandiera bianca, il capitano
Viviani sarebbe stato fucilato ad Atene il 29 settembre 1943. In una lettera
scritta alla moglie dopo la resa aveva espresso lo stesso sconforto che
traspare dai ricordi del sottotenente Teatini: “Ho passato ore in cui, solo, isolato, ho dovuto decidere della sorte
dei miei uomini. Essi però mi hanno seguito tutti quando la decisione è stata
presa. Si sono battuti da leoni (…). Ora
siamo in condizione di prigionieri (…) Voci
incontrollate lasciano foschi presagi; ma io spero nella protezione del
Signore. Sono sereno, ed ho la coscienza di aver fatto il mio dovere, e di aver
difeso l’onore della mia patria. (…) Per
ora (fino a stasera? fino a domani?) siamo qui in attesa della nostra sorte,
assistiti in maniera commovente da questi contadini, che trepidano tanto per la
nostra sorte e che piansero con noi quando un ordine superiore ci impose,
vittoriosi, di cedere le armi. Perché, Jolanda, noi avevamo la vittoria in
pugno (…)”.
Nel settore di Vati,
dopo i combattimenti del 10 e dell’11 settembre, le truppe tedesche si erano
allontanate, lasciando soltanto un nucleo in un caposaldo che, avendo rifiutato
di arrendersi, era stato circondato dalle truppe italiane. "Pur nella coscienza della penuria di forze e
mezzi a loro disposizione il Comando di Settore cercò di articolare un Piano
per inseguire le truppe germaniche in movimento verso Nord-Ovest. In tutti
emergeva la volontà di battersi ma alle ore 11 del giorno 11 mentre fervevano i
preparativi un silenzio di tomba gelò tutti, comandanti e gregari. Era giunto
in quel momento un marconigramma dal Comando di EGEOMIL che ordinava la
sospensione delle ostilità".
Altre località, come il villaggio di Monòlito (Monolithos, nel sud dell'isola), sede di una stazione di vedetta della Marina, non erano state minimanente coinvolte dai combattimenti svoltisi dal 9 all'11 settembre; il personale italiano ivi dislocato, preparatosi alla difesa e deciso a resistere, ricevette l'ordine di consegnare le armi senza aver mai visto un singolo soldato tedesco. Ed a Monòlito, come altrove, i soldati della Wehrmacht continuarono a non farsi vedere per parecchi giorni dopo la resa, mentre il personale italiano aspettava che accadesse qualcosa, in un limbo in cui, come scrisse nel suo diario il capo segnalatore di terza classe Gino Vecchi, comandante della stazione di vedetta di Monòlito, "l'angoscia si mescolava al grottesco".
Altre località, come il villaggio di Monòlito (Monolithos, nel sud dell'isola), sede di una stazione di vedetta della Marina, non erano state minimanente coinvolte dai combattimenti svoltisi dal 9 all'11 settembre; il personale italiano ivi dislocato, preparatosi alla difesa e deciso a resistere, ricevette l'ordine di consegnare le armi senza aver mai visto un singolo soldato tedesco. Ed a Monòlito, come altrove, i soldati della Wehrmacht continuarono a non farsi vedere per parecchi giorni dopo la resa, mentre il personale italiano aspettava che accadesse qualcosa, in un limbo in cui, come scrisse nel suo diario il capo segnalatore di terza classe Gino Vecchi, comandante della stazione di vedetta di Monòlito, "l'angoscia si mescolava al grottesco".
I tedeschi inviarono
in giro per l’isola ufficiali italiani a consegnare ai diversi reparti dei
foglietti ciclostilati, firmati dal generale Scaroina, che ordinavano alle
truppe di cessare le ostilità, consegnare le armi ai tedeschi ed eseguire i
loro ordini per il concentramento dei reparti. Uno di questi sfortunati
ambasciatori venne catturato e malmenato dagli uomini del reparto cui era stato
inviato a recare il messaggio; un altro, mentre viaggiava su un’autovettura con
bandiera bianca per consegnare quattro copie del foglietto, venne fermato da
raffiche di mitragliatrice: buttatosi in una cunetta a cercare riparo, agitando
ad intervalli la bandiera bianca, venne seriamente ferito al braccio (che
dovette poi essere amputato) e venne soccorso da un ufficiale tedesco solo due
ore più tardi. In generale la circolazione delle autovetture con bandiera
bianca che distribuivano gli ordini di resa destò parecchio fastidio tra le
truppe, che talvolta reagirono male.
La notizia della resa
fu presa particolarmente male dai reparti che avevano direttamente partecipato
ai combattimenti e che avevano subito perdite: tra i reparti della Marina,
specialmente gli artiglieri delle batterie Bianco e Majorana, che avevano visto
dieci loro compagni morire in combattimento contro i tedeschi cui ora dovevano
consegnare le armi. Per riportare la calma tra quegli uomini, dovettero
intervenire di persona l’ammiraglio Daviso ed il capitano di fregata
Arcangioli.
Nella parte
settentrionale dell’isola, sporadici combattimenti continuarono per altri tre
giorni (gli ultimi sette caduti della Marina nei combattimenti di Rodi,
infatti, morirono il 14 settembre).
Il numero dei caduti
tra le truppe italiane nel corso dei combattimenti è indicato, a seconda delle
fonti, in 125 (8 ufficiali e 117 tra sottufficiali e soldati), 143 (8 ufficiali
e 135 tra sottufficiali e soldati), 152 o 447, mentre i feriti sarebbero stati
circa 300. Da parte tedesca i morti sarebbero stati 91, più un imprecisato
numero di feriti e di prigionieri (questi ultimi rilasciati l’11 settembre in
seguito alla resa italiana).
Sulla caduta di Rodi,
lo storico Luciano Alberghino Maltoni ha tracciato un’analisi lucida ed
impietosa nei confronti dei comandanti italiani: «Non c'è dubbio che l'obiettivo italiano, correttamente indicato
a Campioni da Dolbey, doveva essere quello di resistere almeno sino al
15 settembre mantenendo libera la piazzaforte di Rodi ed il porto.
Considerando poi che solo tre erano le vie praticabili per i 30 Panzer
(litoranea nord Trianda – intermedia da Asguro – litoranea sud est
Kosckino) il Comando Superiore avrebbe dovuto concentrare tutti i reparti
ed i pezzi d'artiglieria su alcuni punti chiave di controllo di queste
direttrici, far brillare alcuni ponti, le strade stesse, minare il terreno
circostante e piazzare ostacoli fissi. L'ordine assoluto, resistere ad
oltranza. A differenza del Comando Superiore, molti ufficiali
[subalterni] italiani ebbero
immediatamente le idee molto chiare sul da farsi. Comportamento esemplare
in tal senso fu quello del Comandante del Settore di Calato, Col. Luigi Bertelli
che nella notte del 9, aveva già sbarrato il passo ai tedeschi verso l'aeroporto
di Gadurrà, dovette smobilitare le difese poiché una telefonata alle ore
3.30 del maggiore Di Stefano Sottocapo di Stato Maggiore dal Comando di
Monte Profeta ordinava di lasciar fare, dando libero transito al nucleo
corazzato germanico verso l'aeroporto di Gadurrà. Proprio quello che non
fece il col. Enzo Manna, comandante del 331° Reggimento Brennero che
bloccò il Passo Zampica, strettoia obbligata della strada d'accesso
litoranea sud est. Nella mattina del 9 di fronte ad una colonna blindata
tedesca e contravvenendo agli ordini assurdi e contradditori del
Comando Superiore (lasciateli passare) il cap. Venturini comandante
della 1.a compagnia del citato Reggimento diede l'ordine di aprire
il fuoco costringendo i tedeschi ad un rapido dietrofront, sarebbero passati
solo il giorno 11 dopo la resa decretata dal Governatore. (…) Troppo lungo sarebbe descrivere i
combattimenti che si accesero nei vari settori e che videro dei brillanti
successi tattici italiani con la cattura di centinaia di prigionieri
tedeschi (per ordine del Comando Superiore ai prigionieri tedeschi
furono restituite le armi e messi in libertà mentre si combatteva ancora!)
ma un dato di fatto emerge incontrovertibile nessun ordine sensato e
coerente venne dal Comando Superiore. Nessun coordinamento serio dei
reparti e delle batterie fu tentato, eppure gli uomini come quelli delle
batterie Settore S.Giorgio combatterono sino alla morte. Non sembra che
ordini militarmente efficaci e sensati furono impartiti prima che i
tedeschi acquisissero posizioni vantaggiose, in alcuni settori come
quello di S.Giorgio (aeroporto di Maritsa, batterie di Monte Fileremo
e Paradiso) mentre le forze italiane contrastavano efficacemente
gli assalti tedeschi venne l'ordine di ritirarsi attestandosi
su posizioni arretrate verso Rodi città. Che senso poi aveva
chiedere agli inglesi un attacco diversivo nel Sud dell'isola, dove a
causa del terreno pianeggiante avrebbero avuto buon gioco i carri tedeschi?
Certamente nessuno e probabilmente consolidò negli inglesi la scarsa
fiducia che essi nutrivano sul Comando italiano. La rovinosa disfatta italiana,
principalmente dovuta all'insipienza di Egeomil ebbe una serie di fattori
concomitanti (il basso morale ed addestramento delle truppe,
l'armamento inadeguato) ma pare opportuno evidenziare il comportamento
di alcuni ufficiali (vedi l'episodio della cattura di Maritza) apertamente
connivente con le forze germaniche. Tra gli ufficiali superiori vicini al
Governatore, Forgiero tenne un profilo bassissimo forse pensando di non risultare
sgradito ai prossimi vincitori mentre l'unico che ebbe le idee chiare fin
dall' inizio, senza alcun timore di successive rappresaglie, fu il gen.
Briganti, rimanendo purtroppo inascoltato. Esistono testimonianze documentate
che egli rifiutò decisamente d'imbarcarsi sull'ultimo idrovolante che
lasciava Rodi, egli fu poi internato nel Lager 64/Z in Polonia e rifiutò
ogni proposta di collaborazione col regime di Salò. L'incertezza, l'incapacità
e la passività dei più diretti collaboratori militari del Governatore,
condizionarono negativamente l'uomo amplificandone le esitazioni e le
angosce. E' lecito ritenere che le truppe, se correttamente
comandate avrebbero resistito ad oltranza così come avvenne a Cefalonia ed
a Lero. L'ammiraglio Campioni, figura di notevole spessore morale
che sostenne il processo e la condanna a morte del regime di Salò
con dignità ed onore, apparve incerto e poco energico agli occhi
della missione inglese. Seppure con l'attenuante di essere abbandonato
a se stesso e senza ordini chiari dal Comando Supremo, l'analisi psicologica
delle sue azioni rivela che egli non fu sostenuto da una lucida e
consapevole visione degli eventi, dei rapporti di forza e della corretta
valutazione dei rischi e delle opportunità. Campioni rifiutò sdegnosamente
il suggerimento di Briganti di catturare Kleeeman quando quest'ultimo si
recò al Castello. Egli si mosse cercando disperatamente spazi di
negoziazione o rispetto di regole formali da parte di un avversario che
aveva un'unica spietata regola, uccidere o essere ucciso. Nei rapporti con
l'ex alleato tedesco palesò quindi un comportamento che potremmo definire
romantico o cavalleresco a differenza dell'avversario Kleemann che si dimostrò
cinicamente bugiardo ma lucidamente determinato a raggiungere i suoi scopi
con tutti i mezzi».
Conquistata l’isola,
si presentava per i tedeschi un nuovo problema: gestire l’ingente massa di
prigionieri caduti nelle loro mani, quasi 40.000 uomini che dovevano essere
sfamati, alloggiati e sorvegliati, e che in massima parte si mostravano
tutt’altro che propensi a cooperare. Questo era particolarmente vero per la
Marina, che aveva parecchi uomini sparsi in località periferiche, il che ne
aumentava la potenziale pericolosità;
per l’Aeronautica, il cui comandante, generale Briganti, rispose alle
richieste tedesche di collaborazione con un netto rifiuto, mediante una lettera
che lesse davanti ai suoi uomini riuniti, ottenendo da essi una generalizzata
approvazione.
Non era ritenuto
impossibile, peraltro, che i britannici potessero tentare di attaccare Rodi per
impadronirsene: ed in caso di sbarco britannico era possibile che i prigionieri
italiani si ribellassero e dessero manforte agli attaccanti, rivelandosi una
nuova fonte di pericolo. In fin dei conti, rimanevano molto più numerosi dei
loro carcerieri, e le loro armi erano state ammassate in depositi sorvegliati
da poche sentinelle, che non sarebbe stato impossibile eliminare. Da parte
tedesca, pertanto, si decise di evacuare gli italiani verso la Grecia continentale
il prima possibile ed in barba ai rischi che questo comportava; per primi
sarebbero dovuti partire gli uomini della Marina e dell’Aeronautica, sia perché
essendo meno numerosi rispetto alle truppe dell’Esercito ci sarebbe voluto meno
tempo per trasferirli tutti altrove, sia perche più dei loro omologhi
dell’Esercito (dove alcuni alti ufficiali si mostravano invece disposti a
collaborare con i tedeschi) si erano mostrati particolarmente determinati a
rifiutare a qualsiasi forma di collaborazione con i tedeschi. Per lo stesso
motivo, i reparti della Marina e dell’Aeronautica erano stati i primi ad essere
disarmati. Dopo il disarmo, le truppe italiane vennero concentrate negli
edifici dove abitualmente avevano sede.
(I timori tedeschi di un
tentativo britannico di riconquistare Rodi non erano del tutto infondati: il 13
settembre Churchill scrisse al generale Wilson esortandolo a tentare la
riconquista dell’isola, traendo le forze necessarie dalle truppe stanziate in
Medio Oriente ed avvalendosi dell’aiuto italiano, concludendo in toni
romanzeschi: "Questo è il momento di pensare a Clive, a Peterborough e
agli uomini di Rooke alla conquista di Gibilterra". Anche il Comando
Supremo italiano, fin dal 16 settembre, segnalò agli Alleati come possibile e
necessaria la riconquista di Rodi: in una nota del Reparto Operazioni affermò
che «le truppe tedesche a Rodi hanno in
complesso una forza ragguagliabile a 5 btg. in parte motorizzati ed in parte
corazzati; un’aliquota di queste truppe è certamente impegnata per la sorveglianza
delle truppe italiane; la difesa costiera non è efficiente, il campo di
aviazione di Cattavia è riattabile in brevissimo tempo. Pertanto sarebbe
opportuno organizzare uno sbarco nel punto meridionale dell’isola sfruttando le
truppe di Cipro e dell’Oriente; difficilmente in avvenire si ripresenteranno
condizioni così favorevoli alla riconquista dell’isola il cui possesso è di
importanza fondamentale per le future eventuali operazioni in Egeo».
Churchill, che considerava quell’isola come la chiave di volta dell’Egeo e del
Medio Oriente, sollecitò invano il presidente statunitense Roosevelt perché
ordinasse ad Eisenhower di concedergli i rinforzi necessari per tentare
l’impresa: i britannici avevano le truppe necessarie all’operazione – la 10a
Divisione Indiana e parte di una brigata corazzata – ma necessitavano di aerei
da trasporto e da bombardamento, navi e mezzi da sbarco che solo gli
statunitensi, in quel momento, avrebbero potuto concedere. Nei piani britannici,
il tentativo di riprendere Rodi avrebbe dovuto avere inizio il 20 od il 23
ottobre; Churchill scrisse a Wilson di fare pressione sui suoi “colleghi”,
durante la conferenza dei comandanti in capo prevista per il 9 ottobre 1943, allo
scopo di ottenere i mezzi necessari, affermando: "la chiave della
situazione strategica del Mediterraneo, il mese prossimo, è espressa in queste
due parole: Attaccare Rodi". Ma, nonostante le insistenze del primo
ministro britannico, non se ne fece nulla: Roosevelt ed Eisenhower erano
fermamente convinti che fosse necessario concentrare tutti gli sforzi
nell’avanzata in Italia – dove si era appena venuto a sapere che le truppe
tedesche stavano ricevendo rinforzi – nonché nella preparazione dello sbarco in
Normandia, che avrebbe avuto luogo l’anno seguente, e pertanto non concessero
alcunché).
L’11 settembre, il
generale Kleemann inviò all’ammiraglio Campioni ed al generale Scaroina un
breve biglietto nel quale avvertiva che alle truppe tedesche era stato ordinato
di «richiamare i comandi responsabili
della resa firmata dall’Ammiraglio Campioni per tutte le forze armate italiane
dell’isola, far concentrare le truppe da disarmare dai comandanti responsabili
e comunicare che quegli ufficiali che non passino alle loro truppe dipendenti
l’ordine della resa delle armi alle truppe tedesche, saranno considerati
franchi tiratori e saranno fucilati; analogamente si procederà nei confronti di
altri militari che continuano a portare armi, ad eccezione degli ufficiali».
Nel pomeriggio del 12 settembre, il comando della Divisione "Rhodos"
mandò a Rodi un capitano del proprio Stato Maggiore per discutere alcune
questioni "di limitata importanza", che suo dire avrebbero potuto
essere trattate direttamente con il capo di Stato Maggiore di Campioni, senza
scomodare l’ammiraglo stesso. In realtà l’oggetto dell’incontro riguardava
l’ingiunzione che i generali Forgiero e Consoli tornassero nelle rispettive
sedi di comando (rispettivamente a Monte Profeta ed a Psitos) per disporre e
sovrintendere al disarmo e concentrazione delle loro truppe, ma soprattutto la
richiesta di disarmo delle truppe italiane di Scarpanto, "per
garanzia" delle truppe tedesche che si trovavano in quell’isola (a
Scarpanto, infatti, insieme a due battaglioni italiani era presente anche un
battaglione tedesco). Il generale Sequi rispose che quello non era certo un
argomento d’importanza secondaria, e che sarebbe stato necessario interpellate
l’ammiraglio Campioni; l’ufficiale tedesco disse che non c’era fretta. Furono
discusse alcune altre questioni – tra cui la richiesta di alzare sul castello
una bandiera tedesca accanto a quella italiana, richiesta che venne respinta –
dopo di che il tedesco chiese ed ottenne di essere ricevuto da Campioni.
All’ammiraglio ripeté la richiesta di ordinare anche la resa della guarnigione
di Scarpanto; Campioni cercò di opporsi, protestando che gli accordi presi con
Kleemann riguardavano soltanto Rodi, e che le truppe italiane a Scarpanto non
avrebbero intrapreso atti ostili nei confronti di quelle tedesche, se non
provocate. Il capitano tedesco spiegò che gli ordini venivano direttamente
dall’O.K.W., e che se si fosse rifiutato di piegarvisi gli Stukas di Creta
avrebbero bombardato Scarpanto, colpendo sia il presidio italiano che la
popolazione civile. Campioni cercò ancora di tergiversare accampando varie
scuse: che non aveva più una radio per fare comunicazioni (fu risposto che si
sarebbe usata una radio tedesca); che non aveva più autorità per dare ordini
simili perché non era più comandante militare delle forze italiane nell’Egeo; che
i suoi sottoposti a Scarpanto avrebbero potuto ritenere apocrifo un ordine a
suo nome trasmesso per mezzo della radio tedesca. Il capitano tedesco – esattamente
com’era avvenuto il mattino del giorno precedente, quando era stato minacciato
il bombardamento indiscriminato di Rodi – tagliò corto guardando l’orologio e
dicendo che se Campioni non si fosse deciso entro pochi minuti, gli Stukas
sarebbero decollati («…questa minaccia…
valse all’ufficiale tedesco una pungente osservazione del Gen. Sequi, alla quale
osservazione egli replicò che non faceva che eseguire gli ordini ricevuti»).
A questo punto, Campioni cedette; scrisse su un foglio l’ordine di resa per il
tenente colonnello Imbriani, comandante di Scarpanto, e lo affidò ad un
ufficiale che fu inviato in quell’isola con un aereo messo a disposizione dai
tedeschi. Il messaggio concludeva: «È
amaro ma occorre obbedire senza discutere».
Insieme a Scarpanto,
l’ufficiale tedesco aveva portato la richiesta di Kleemann di ordinare anche la
resa di Coo e di Lero; siccome però l’importanza di tale provvedimento non
rivestiva per i tedeschi urgenza eguale a quella di Scarpanto (dove, a
differenza di Coo e Lero, c’erano loro truppe) e non c’era stata minaccia di
bombardare anche queste isole, l’ammiraglio Campioni si era decisamente
rifiutato di ordinarla.
Lo stesso 12
settembre, intanto, le truppe tedesche occupavano gli uffici di Mariegeo ed
iniziavano a disarmare le batterie, raccogliere le armi e trasferire a Rodi
città il personale della Marina: quel giorno vennero infatti trasferiti in
città gli uomini delle batterie Bianco, Castello e Majorana, e secondo qualche
racconto anche il personale della batteria Melchiorri (che invece, secondo
altre testimonianze, proseguì la sua resistenza ben oltre la resa del resto
dell’isola, cedendo soltanto il 16 settembre). Quel pomeriggio Kleemann convocò
l’ammiraglio Daviso ed il generale Consoli a Campochiaro; i due ufficiali vi si
recarono, ma l’incontro non avvenne.
Il 13 settembre il
generale Kleemann richiese a Campioni, per mezzo di un fonogramma ed a nome
dell’Oberbefehlshaber Südost, di
ordinare la resa a tutte le guarnigioni italiane nel Dodecanso ed in tutte le
isole dell’Egeo (Cicladi e Sporadi) sotto controllo italiano; l’ammiraglio
italiano rispose con una lunga lettera in cui respingeva la richiesta,
ribadendo che non aveva più l’autorità per dare un ordine del genere («dal momento della resa (…) ho cessato di essere il Comandante delle FF.
AA. dell’Egeo e sono rimasto unicamente il Governatore del Possedimento, cosa
del resto che avevo precedentemente comunicato ai Comandanti delle isole
dipendenti, informandoli che da quel momento dovevano considerarsi autonomi per
tutte le decisioni di carattere militare (…) Un ordine inviato da me oggi ai Comandanti delle isole sarebbe perciò
illegale non essendo io più il loro comandante e perciò potrei anche non essere
obbedito. Questo possibile atteggiamento dei comandanti delle isole potrebbe
invece essere considerato da voi come loro disobbedienza con relative sanzioni
militari, e questo non è ammissibile»), e facendo presente che aveva
lealmente dato esecuzione agli accordi dell’11 settembre, che riguardavano solo
ed esclusivamente Rodi, la cui resa non era stata incondizionata, bensì
vincolata a precise clausole stabilite dallo stesso Kleemann, nelle quali non
si era parlato minimamente delle altre isole. Campioni aveva fatto un’eccezione
per Scarpanto, per non creare problemi in un’isola dove si trovavano truppe sia
italiane che tedesche, ma non ne avrebbe fatte altre. Kleemann non rispose, e
più tardi nello stesso giorno fece affiggere manifesti con cui annunciava di
aver assunto il potere esecutivo sull’isola, ed insieme ad essi un’ordinanza
con cui s’intimava, tra l’altro, di consegnare entro ventiquattr’ore alle autorità
tedesche tutte le armi, anche da taglio e da caccia (ma facendo eccezione per
le armi di servizio degli ufficiali italiani, come pattuito), di denunciare
tutte le radio private ed anche i piccioni viaggiatori, di non prestare aiuto a
forze ostili alla Germania, di danneggiare installazioni militari italiane o
tedesche od impianti di pubblica utilità, di non ascoltare trasmissioni radio
non tedesche, di uscire di casa dopo le sette di sera (salvo alcune categorie
di persone, specificate nell’ordinanza).
Durante il
pomeriggio, Kleemann mandò a chiamare il capo di Stato Maggiore di Mariegeo,
capitano di vascello Grassi; quest’ultimo, da poco arrivato a Rodi e dunque non
ancora sufficientemente a conoscenza della situazione della Marina nell’isola, mandò
al suo posto il capitano di fregata Luigi Monterisi, capo del servizio
comunicazioni di Mariegeo. A Monterisi, Kleemann disse che al personale della
Marina non sarebbe stato concesso di scegliere tra la collaborazione e la
prigionia, perché i marinai erano tutti «luridi
traditori»; potevano soltanto scegliere se essere trasferiti sul continente
via mare o via aereo. Monterisi disse che riteneva preferibile il trasferimento
via nave, subordinando però tale scelta all’approvazione dei suoi superiori,
che giunse immediatamente. Questa decisione era motivata dalla speranza che nel
trasferimento via mare si potesse presentare qualche occasione di fuga, od
anche che i britannici intervenissero e dirottassero le navi con a bordo i
prigionieri, od ancora che i britannici sbarcassero a Rodi prima che le navi
con i prigionieri potessero partire.
La sera dello stesso
13 settembre il comando tedesco propose di inviare un proprio reparto "a
protezione" del castello, ricevendo un netto rifiuto; alle 18, intanto,
l’ammiraglio Daviso ed il generale Consoli, tornati a Rodi dopo il mancato
colloquio con Kleemann a Campochiaro, erano stati catturati e caricati su un
aereo diretto ad Atene, insieme al generale Forgiero. Finirono nel campo di
prigionia di Schokken, in Polonia, dove i tedeschi andavano concentrando tutti
i generali e ammiragli italiani catturati durante l’operazione
"Achse".
"Partito"
l’ammiraglio Daviso, ad assumere la direzione dei servizi relativi al personale
di Marina Rodi fu il capitano di fregata Arcangioli, che radunò tutti gli
uomini delle diverse batterie affluiti in città nella caserma di Rodi; tra le
imposizioni tedesche c’era anche quella di consegnare tutti i veicoli e di non
asportare nulla dai magazzini, ma Arcangioli distribuì a tutti gli uomini provviste,
indumenti ed anche anticipi sulla paga, per quanto consentito dalle riserve
presenti nella cassa. Sempre con questo vincoli, si premurò anche di liquidare
le pendenze della Marina nei confronti dei fornitori locali.
Il 14 settembre
ebbero inizio i primi attacchi aerei britannici su Rodi, diretti soprattutto
contro le basi aeree ed altri siti d’interesse militare. Intanto, apparivano
sui muri della città ordinanze del generale Kleemann che invitavano gli
italiani a collaborare con le forze armate tedesche: «Mussolini è stato sottratto, mediante un audace colpo di mano (…) alla sfera dell’influenza inglese. Si offre
fin da questo momento ai militari delle FF. AA. italiane la possibilità di
continuare la lotta contro l’Inghilterra mediante incorporazione nelle Forze
Germaniche. All’uopo si possono arruolare tanto militari isolati quanto reparti
italiani interi. I presupposti (…) sono
i seguenti: 1° L’assicurazione solenne (…) di seguire il Governo Nazionale Fascista. Per il momento nessun
giuramento è richiesto. 2° La dichiarazione per iscritto di tutti gli Ufficiali
per la loro persona e per le truppe dipendenti, di passare incondizionatamente
alle dipendenze del Comando Supremo Germanico. 3° I reparti interi italiani
incorporati nelle FF. AA. Germaniche per il momento potranno essere impiegati
solo fino alla forza corrispondente al battaglione. I reparti superiori in
forza (…) saranno di conseguenza
ripartiti. 4° Si desiderano domande di arruolamento soltanto da parte di quei
militari (…) pronti alla lotta senza
quartiere contro l’Inghilterra e che sono disposti a difendere i veri interessi
dell’Italia Fascista con cuore sincero (…)». Veniva offerta la possibilità
di entrare a far parte dei servizi ausiliari come lavoratori («mitarbeiten») od anche unendosi alla
Wehrmacht come volontari combattenti («mitkampfen»).
Intanto, le camicie nere della 201a Legione MVSN erano tenute
consegnate e disarmate. Per il momento gli ufficiali, come stabilito negli
accordi, potevano ancora circolare con relativa libertà e tenere le loro
pistole; erano però sorvegliati dai tedeschi.
Tra il 14 ed il 16
settembre ufficiali tedeschi si recarono per altre due volte a chiedere
all’ammiraglio Campioni di ordinare la resa di tutti gli altri presidi italiani
dell’Egeo, ma questi ribadì quanto già detto, annunciò che già dall’11
settembre aveva fatto sapere che nuovi ordini a sua firma erano da considerarsi
come falsi, e dichiarò che si sarebbe fatto fucilare piuttosto che dare un
ordine contrario alla sua coscienza. Un altro ufficiale tedesco si presentò
successivamente per chiedere la consegna di tutte le carte e documenti militari
in possesso del Comando italiano, ma questi – ed in particolar modo quelli che
riguardavano le altre isole dell’Egeo – erano già stati preventivamente distrutti
proprio per evitare che potessero cadere in mano tedesca.
Entro il 16 settembre
arrivò a Rodi città il personale delle batterie Bragadino, Mocenigo e Dandolo,
eccetto un gruppo di uomini della Dandolo che erano riusciti a scappare;
arrivarono anche gli artiglieri della batteria Morosini, ma senza gli
ufficiali, separati da essi per essere mandati in Grecia per via aerea (il che
rappresentò per loro una vera fortuna, visto che quasi tutti gli ufficiali
delle altre batterie vennero poi imbarcati sulla Donizetti). Le stazioni di vedetta, situate in luoghi isolati e
munite di radio campali con le quali poterono mantenersi in contatto con Rodi,
e poi con Lero, più a lungo degli altri reparti, riuscirono tutte a distruggere
strumentazioni, documenti e cifrari prima dell’arrivo delle truppe tedesche.
Gli uomini della stazione di vedetta di Lindo, dopo la resa di tutti i reparti
dell’Esercito e della Marina che si trovavano nelle loro vicinanze, distrussero
tutti i documenti ed il materiale ed ebbero poi dal loro capoposto
l’autorizzazione a disperdersi nell’interno dell’isola. Il capoposto stesso,
incontrati due avieri, riuscì a fuggire da Rodi a bordo di uno dei due
motoscafi-ambulanza dell’Aeronautica, carichi di personale di questa forza
armata, che dopo aver infruttuosamente tentato di raggiungere Castelrosso (non
c’era abbastanza carburante) si rifugiarono nella neutrale Turchia.
Peggiore sorte toccò
al personale della stazione di vedetta di Prassonisi: il 13 settembre, come
loro ordinato da Marina Lero, gli uomini di questa stazione distrussero tutto
il materiale che avrebbe potuto essere utilizzato dai tedeschi, dopo di che
lasciarono l’isola su due barche a vela, facendo rotta per Coo. Non potendo
portare via le armi, ne rimossero gli otturatori, che portarono con sé in un
sacco da buttare in mare, per renderle inservibili. Le due barche vennero però
scoperte da aerei tedeschi, che le mitragliarono e le bombardarono con cariche
di profondità: una delle imbarcazioni affondò, l’altra si rovesciò e si riempì
d’acqua; il capoposto e sei uomini rimasero uccisi. I superstiti riuscirono
faticosamente a raddrizzare la barca rovesciata, a svuotarla dell’acqua ed a
raggiungere la Turchia dopo tre giorni di travagliata navigazione.
Le promesse tedesche
di mantenere Campioni come governatore e di restare fuori da Rodi città non
durarono che qualche giorno: il 18 settembre si presentò al castello, come
annunciato il giorno precedente, il maggiore tedesco zur Nettenn, che vi
stabilì il suo ufficio quale capo dell’amministrazione militare tedesca; lo
stesso giorno il generale Kleemann chiese con un fonogramma all’ammiraglio
Campioni ed al generale Sequi di non lasciare più il castello, perché a breve
sarebbero stati trasferiti in Grecia. Campioni rispose con una lettera in cui
dichiarava che "il nuovo
provvedimento restrittivo della sua libertà confermava il convincimento, da lui
già maturato in precedenza, sulla inutilità di conservare una carica alla quale
non corrispondeva nessuna funzione". Essendoci già un vicegovernatore civile,
Iginio Ugo Faralli, che aveva una discreta esperienza e conosceva bene l’isola,
Campioni si dimetteva dall’incarico di governatore, chiedendo a questo punto
lui stesso di essere trasferito altrove; aveva preparato questa lettera fin dal
giorno precedente, aspettandosi un epilogo del genere. L’ufficiale che aveva
consegnato il fonogramma di Kleemann, sottotenente Meinyer, comunicò anche che
a breve il castello sarebbe stato presidiato da una guardia tedesca. Quello
stesso pomeriggio, un altro ufficiale tedesco comunicò che il generale Sequi
sarebbe partito in aereo entro sei ore, per ordine dell’O.K.W.; il diretto
interessato protestò, dicendo che non riconosceva alcuna autorità all’O.K.W.
nei suoi confronti, ma siccome erano intanto arrivate truppe tedesche al
castello, Campioni lo convinse a cedere alla violenza. L’aereo con il generale
Sequi lasciò Rodi alle otto di sera.
Durante la notte,
gruppi di SS armate di mitra e bombe a mano si piazzarono nei corridoi degli
uffici e persino negli alloggi privati del castello, piantonando l’ammiraglio
Campioni, il suo capo di cabinetto (capitano di fregata Orlando) ed il suo
aiutante di bandiera (tenente di vascello Afan de Rivera), unici due ufficiali
rimasti con lui. A partire dal mattino del 19, Campioni ebbe incessantemente
alle spalle tre SS armate che lo seguivano dappertutto. Riuscì ad ottenere
soltanto che non entrassero nella stanza in cui si trovava: ormai l’ammiraglio
era di fatto agli arresti, ed intorno alle undici del mattino il sottotenente
Meinyer venne ad annunciare che sarebbe partito quella sera per il continente.
Alle 22 del 19
settembre 1943 l’ultimo governatore italiano dell’Egeo, accompagnato da
Meinyer, Orlando ed Afan de Rivera, fu condotto all’aeroporto di Gadurra, da
dove partì in aereo diretto in Atene. Atterrato nella notte, Campioni fu
separato dai due sottoposti (che vennero internati nel campo di prigionia di
Sotirias) e proseguì per la Germania: internato inizialmente nel campo di
prigionia 64/Z di Schokken (in Polonia, dov’erano imprigionati ben 177 generali
italiani catturati dopo l’8 settembre), nel gennaio 1944 l’ammiraglio Campioni
sarebbe stato consegnato alla Repubblica di Salò per essere processato per
"tradimento". Anche la sua breve e tentennante difesa di Rodi era
stata troppo per i "giudici" repubblichini: in questo – aver seguito
gli ordini del governo legittimo e reagito agli attacchi tedeschi – consisteva,
infatti, il cosiddetto "tradimento" («…avendo ricevuto l’ordine del Comando Supremo di non ostacolare
contatti o sbarchi angloamericani e di opporsi alle violenze da qualunque parte
fossero venute, comunicò tale ordine ai Comandi dipendenti, dimostrando così di
dargli la sua piena adesione e la intenzione di volerlo eseguire…»).
L’esito già scritto di quel processo farsa fu la condanna a morte: il 24 maggio
1944 l’ammiraglio di squadra Inigo Campioni venne fucilato a Parma insieme al
contrammiraglio Luigi Mascherpa, comandante dell’isola di Lero,
"colpevole" del medesimo "reato".
Il giorno prima,
aveva lasciato per sempre Rodi, ma in tutt’altre circostanze, anche il capitano
di corvetta Corradini, ex comandante della Caboto.
Sbarcato dalla sua nave il 12 settembre, Corradini aveva raccolto attorno a sé
parecchi militari delle tre armi che non accettavano la resa e che avrebbero
voluto riprendere le armi contro i tedeschi; aveva anche chiesto all’ammiraglio
Campioni il permesso di tentare un colpo di mano per riconquistare la città di
Rodi, ma l’autorizzazione era stata negata. Saputo poi che stava per arrivare a
Rodi un convoglio che avrebbe imbarcato tutto il personale della Marina,
Corradini aveva deciso di fuggire dall’isola, lasciando la città in bicicletta
e tentando poi la fuga su di un piccolo battello. La fragile imbarcazione,
però, si era allagata, e l’ex comandante della Caboto era stato costretto a tornare indietro a nuoto; aveva
riparato il battellino ed era poi ripartito per l’isola di Simi, rimasta in
mano italiana, la sera del 18. Qui giunse dopo quindici ore di navigazione a
remi.
Sciolto il Comando
Marina italiano, venne creato a Rodi un Comando della Kriegsmarine, agli ordini
del capitano di fregata Stumpff. Le forze di polizia (Carabinieri e Guardia di
Finanza), il Distretto Militare, l’Ufficio lavori del Genio e il magazzino
principale di casermaggio vennero inizialmente mantenuti in funzione, ma furono
poi progressivamente sciolte ed il personale mandato in Germania insieme agli
altri prigionieri. Il colonnello Angiolini, già capo dei servizi di Egeomil,
venne incaricato della gestione dei prigionieri a livello logistico e
disciplinare. I carabinieri, mentre in teoria seguitavano a svolgere il loro
lavoro di polizia territoriale sotto la nuova dominazione tedesca, di fatto si
adoperarono per agevolare la fuga di militari italiani. Il procuratore militare,
colonnello Barra Caracciolo, distrusse tutti i fascicoli di natura segreta,
soprattutto quelli riguardanti lo spionaggio e i reati politico-militari;
avendo rifiutato di aderire alla RSI, i membri del tribunale militare sarebbero
stati deportati in Germania nel gennaio 1944.
Il 19 settembre 1943
il commendator Dante Zarli, Direttore dei telegrafi di Rodi, telegrafò
clandestinamente al contrammiraglio Luigi Mascherpa, che a Lero aveva assunto,
caduta Rodi, il comando di tutte le forze italiane nel Dodecaneso, il seguente
riassunto della situazione: «Nell’interno
il colonnello Bertesso che resisteva ha cessato anche egli di combattere; anche
la Melchiorri si è arresa. Ai tedeschi sono rimasti 30-35 carri armati, in
città vi sono poco più di 100 tedeschi con 10-15 mitragliatrici. Esercito ed
Aviazione sono stati interpellati per sapere chi vuole combattere per i
tedeschi oppure lavorare per loro o essere prigionieri; tutti compatti hanno
risposto negativamente, solo pochi fascisti hanno accettato di combattere con
loro. La Marina non è stata interpellata a riguardo. Tutto ieri i marinai
dell’isola sono stato pronti per essere portati via ma per il non arrivo dei
piroscafi sono ancora qui. I tedeschi non hanno ricevuto alcun rinforzo da
fuori (…) Abbiamo consegnato le armi
ma ve ne sono delle altre bene occultate pronte all’uso. Siamo tutti pronti a
servire il Re ed aspettiamo con ansia buone notizie». Un altro messaggio
del commendator Zarli all’ammiraglio Mascherpa riferiva: «Sinora i tedeschi non hanno ricevuto rinforzi alt Nel porto non è
entrato nessun piroscafo e nessuna nave da guerra alt Un numero di soldati
greci ed austriaci sono stati disarmati dai tedeschi alt (…) La popolazione greca è favorevole a noi».
Nei giorni
immediatamente successivi alla resa, parecchi italiani cercarono di sottrarsi
alla prigionia fuggendo via mare, verso la neutrale Turchia o verso le isole
del Dodecaneso ancora in mano italiana: ma parecchi di questi tentativi
finirono in tragedia, con la morte in mare dei fuggiaschi o la loro scoperta da
parte tedesca. Era difficile eludere la sorveglianza degli uomini di Kleemann,
ed ancor più difficile trovare delle imbarcazioni in condizioni tali da poter
affrontare la traversata verso altre isole o verso la Turchia: pressoché tutte
quelle in grado di farlo erano già partite l’11 settembre. A questo si doveva
aggiungere l’arrivo della stagione autunnale, che rendeva ancor più difficile e
pericolosa la navigazione nell’Egeo su minuscoli gusci di noce, ed il rischio
di essere scoperti ed attaccati da aerei. Quanti uomini scomparvero in mare nel
tentativo di lasciare Rodi, non sarà mai possibile saperlo.
Ciononostante,
qualcuno riuscì, e raggiunse Lero e Coo; l’intero piccolo presidio
dell’isoletta di Alimnia, al comando del sottotenente Settimio Cinicola, rifiutò
l’ordine di resa impartito da un generale italiano e si trasferì a Lero con
armi, provviste e munizioni, unitamente a decine di soldati sbandati giunti ad
Alimnia provenendo da Rodi (in tutto 170 uomini, di cui 120 erano il presidio
originario di Alimnia ed i restanti militari fuggiti da Rodi), a bordo dei
motovelieri Vassilichi e Patricia. Molte fughe furono agevolate
dalla popolazione locale, di nazionalità greca ed estremamente avversa ai
tedeschi; nel villaggio di Villanova il locale arciprete ortodosso, Michele
Lucas, aiutò per conto proprio parecchi soldati italiani a fuggire e poi sminò,
in collaborazione con due genieri italiani che si erano nascosti nella sua
chiesa (i sergenti Langella e Lanzotti), una ridotta fascia di costa che poteva
così essere utilizzata sia per le fughe via mare, sia per l’eventuale
infiltrazione sull’isola di commandos ed agenti Alleati in vista di operazioni
di guerriglia e di sabotaggio, in appoggio allo sbarco britannico nel quale
ancora si sperava. Un’altra spiaggia sulla costa orientale, vicino a Calitea,
venne sminata con lo stesso scopo; il tenente colonnello Miraglia del Servizio
Informazioni Militari (il servizio segreto dell’Esercito) ed il colonnello
Barra Caracciolo dei carabinieri, che dopo la resa erano passati formalmente al
servizio dei tedeschi, fecero sapere ai britannici, per tramite di un ufficiale
fuggito da Rodi (il colonnello Corrucci), che erano pronti a collaborare e
fornire informazioni. Si pensò, infatti, di infiltrare a Rodi agenti italiani e
britannici per attuare sabotaggi e fomentare una rivolta dei prigionieri prima
che i tedeschi si rafforzassero; ma il progetto rimase sulla carta. Così come rimasero allo stadio di intenzione i propositi di rivolta di singoli soldati e marinai che si erano dati alla macchia portando con sé armi e munizioni, ma che non riuscirono a trovare una figura che potesse guidarli. Altri consegnarono armi e munizioni ai partigiani greci, che andavano organizzandosi. La situazione di generale incertezza che sembrava regnare tra gli sbandati, tra effimeri piani di resistenza o di fuga e l'attesa quasi apatica di un futuro incerto, è ben esemplificata dal diario del già citato capo segnalatore Gino Vecchi: "Due soldati del Sottosettore di Apollachia sono
venuti a Monòlito ed hanno parlato con i marinai che nel pomeriggio sono andati
in paese. Avevano uno zaino pieno di bombe a mano. Asseriscono che anche loro
sono sbandati e che hanno molte armi e munizioni; dicono che non trovano
nessuno che si metta loro a capo per insorgere. Molti ufficiali sono partiti
per Creta e per Atene, diretti in Germania, altri si danno alla ricerca di
battelli per fuggire. Ognuno pensa per sé e Dio per tutti. Circa quarantamila soldati
sono ancora sbandati, sparsi un po’ dovunque, come un immenso organismo ferito,
il quale si divincola e si muove con gli altri organi sani in cerca di salvezza
o almeno di non morire. Dall’Olio, facile agli entusiasmi, mi ha proposto: “Perché
non vi ci mettete voi a capo?” Non potevo che rispondergli: “Dall’Olio, io so
fare bene la guerra a scacchi, tu lo sai; posso mettere in scacco un re, ma non
il colonnello Kleeman!” Potrei anche farlo: la morte come partigiano è più
allegra di quella lenta, per la fame e lo sfinimento in un campo di
concentramento. (…) Perché tutti gli ufficiali di Rodi,
inferiori o superiori, quando lo potevano, e tutti lo potevano, perché dopo la
notizia della resa era chiaro che si doveva essere nel futuro o con i tedeschi
o contro i tedeschi, hanno abbandonato il loro posto? Anche dopo arrestati,
poiché sarebbe bastato uscire dalla fila e dire: - “Io voglio collaborare”. I
tedeschi sarebbero stati contenti ed avrebbero teso loro la mano per avere, se
non un amico, almeno un nemico in meno. Pochi sono stati coloro che l’hanno
fatto e tra questi, i più facendo il doppio gioco. Ma gli altri potevano
diventare partigiani con i reparti interi e nessun soldato forse si sarebbe
sottratto; o poteva riorganizzarlo dopo, quando si è capito che cosa voleva
dire capitolazione. Nessuno l’ha fatto o mi risulta che abbia pensato di fare
questo. (...) Potrei passare al servizio dei ribelli
con tutto il personale della Stazione, ma ribelli combattenti ancora non ve ne
sono. Vi sono, è vero, commandos inglesi in divisa sull’Isola e uomini greci in
borghese con funzioni di spie, di sabotatori e anche di organizzatori di
reparti partigiani, ma finora non s’è visto altro. Dall’Olio scese un giorno a
Rodi; durante un mio permesso e s’imbattè in suoi compaesani che prestavano
servizio in Aviazione a Marizza. Due di essi erano autisti ed avevano in
consegna un camion con il rimorchio. L’insofferenza verso i tedeschi del mio
sottocapo gli fece concepire ed organizzare un avventuroso piano di fuga ed
offrì a me la direzione dell’impresa e spiegò ai suoi amici che dalle coste
monolitine si sarebbe potuto fuggire e convinse di ciò i due avieri autisti.
“Venite a Monòlito con il rimorchio; ne faremo una zattera e partiremo per la
Turchia.” Rientrò in vedetta e caldeggiò l’impresa con i marinai; a me espose
tutto il piano. Vidi subito ch’era irrealizzabile, ma qualora vi fosse stata una
probabilità di riuscita non sarei voluto essere proprio io ad impedire a lui ed
agli altri la libertà verso la Turchia. (…) Ci pensarono infatti bene a modo loro, sorretti dal loro entusiasmo,
dai loro calcoli affrettati, dal loro grande desiderio di farla in barba ai
tedeschi e di sottrarsi al logorante pensiero di un incerto avvenire. Nel dare
il mio consenso pensavo al capo della Vedetta di Castello, a Ricotta ch’era
diventato capoposto, il quale un giorno demolì tutta l’attrezzatura della
Stazione, buttò tutto giù per un burrone affinché si fracassasse meglio e, con
un battellino, non so se solo o con il personale raggiunse la vicina isola di
Alimnia sulla quale non vi erano guarnigioni tedesche, e non diede più notizie
di sé. (…) O anch’io avrei atteso
simile occasione o mi sarei occultato in altro modo dopo la partenza di
Dall’Olio e degli altri. I quali per tutta la notte fecero i loro preparativi
per trasferirsi intanto verso i boschi del promontorio. (…) Dall’Olio mi chiese una bandiera italiana.
Gliela lasciai prendere. (…) Ad un
certo punto gli autisti fermarono l’automezzo e staccarono il rimorchio. Misero
a terra i bagagli. Disposero il rimorchio perpendicolarmente al mare e lo
spinsero finché esso iniziò la sua corsa giù per la china verso un punto
qualunque dove si sarebbe fermato da solo, dove nessuno avrebbe più pensato,
perché impossibile, farlo risalire e da dove la comitiva avrebbe iniziato il
lavoro per liberare il cassone dal telaio che sarebbe stato abbandonato. I
marinai e gli avieri con gli arnesi a loro disposizione lo raggiunsero.
Riuscirono a staccare il cassone di cui si sarebbero serviti come zattera. (…)
Il cassone era molto pesante. Per
trasportarlo fino alla riva del mare, c’erano ancora almeno due chilometri di
percorso impervio, sebbene in discesa. Impossibile trascinarlo fino alla spiaggia
con le braccia. Poi come farlo navigare fino a Cnido o nelle adiacenze della
scogliera anatolica ? Per la seconda volta dissentii. Risalii solo. Dopo il
tramonto vidi rientrare anche i marinai. La motrice li lasciò sulla strada di
fronte alla scala della Stazione. I due autisti proseguirono per Rodi. I
monolitini nei giorni successivi tolsero al rimorchio abbandonato le ruote e
tutto quello che poteva loro servire e l’impresa finì".
Il colonnello
commissario Armando Coraucci, direttore del servizio approvvigionamenti del Governo
del Dodecaneso, creò un centro per l’aiuto dei militari che cercavano di
sottrarsi alla cattura, nonché una rete per la raccolta di notizie d’interesse
militare. Posto sotto sorveglianza dai tedeschi, sarebbe poi fuggito anch’egli
a Simi il 26 settembre, con una barca di contrabbandieri.
In tutto, è stato
stimato che circa 1580 militari italiani riuscirono a fuggire da Rodi dopo la
resa, raggiungendo dopo perigliosa navigazione Lero, Coo (seguendo quindi la
sorte di queste guarnigioni, anch’esse sconfitte nei mesi successivi),
Castelrosso o la Turchia, dove furono internati (quelli fuggiti in Turchia
riuscirono successivamente a ritornare in Italia, passando per la Siria e la
Palestina).
Alcuni ufficiali
fornirono ai loro soldati abiti civili, perché tentassero di mescolarsi alla
popolazione locale e così sfuggire alla cattura. Molti uomini, tra cui parecchi
marinai, non risposero agli ordini di raccolta emanati dai tedeschi e trovarono
aiuto e rifugio presso innumerevoli famiglie italiane e greche, sia nella città
di Rodi che, in misura ancor maggiore, nelle campagne; la popolazione greca si
mostrò favorevole agli italiani, e parecchi civili del posto rischiarono la
vita per dare aiuto ai soldati che cercavano di eludere la cattura. Vennero
nascoste anche parecchie armi, nella speranza che, se fossero sbarcati i
britannici, potessero essere recuperate ed utilizzate per un’insurrezione. Da
parte loro, i britannici lanciarono sull’isola volantini contenenti un «AVVISO URGENTE Dal Quartier Generale delle
Forze Armate nel Medio Oriente ALLA GUARNIGIONE ITALIANA DI RODI», in cui
si esortavano gli italiani a non fidarsi dei tedeschi e ad insorgere subito con
tutti i mezzi a disposizione, spiegando che in caso contrario sarebbero finiti
come schiavi nei lager nazisti, a lavorare nell’inverno russo o sotto le bombe
angloamericane. Un minaccioso passaggio del volantino doveva rivelarsi
tristemente profetico: «Navi tedesche
saranno mandate a prendervi. Noi supponiamo che voi sappiate chiaramente cosa
significa questo. Significa due cose, e soltanto due cose: 1° Potrete
raggiungere il continente, ma assai probabilmente non potrete raggiungerlo.
Come necessaria contromisura di guerra la nostra Marina ed Aviazione faranno
tutto il possibile perché voi non arriviate… ed hanno il braccio lungo».
Proprio in seguito al
lancio di questi manifestini, il commendator Zarli inviò un nuovo telegramma al
contrammiraglio Mascherpa a Lero: «In
città hanno riportato cinque carri armati piazzandoli in vari punti. Molti
fuggiaschi presi dai tedeschi sono stati fucilati. Il manifesto di questa notte
invitandoci alla resistenza a qualunque costo ci fa dubitare che non state
provvedendo per portare aiuto o per lo meno la guida. Invece lo sbarco
dall’esterno farebbe insorgere tutti. Invochiamo quindi quanto sopra e
desideriamo con molta ansia vostre decisioni».
Oltre alla già citata
stazione radio di San Giovanni, che continuò clandestinamente ad operare per
merito del capo radiotelegrafista Nicola Di Paolo, venne creata in
un’abitazione privata un’altra stazione radio clandestina, realizzata dal capo
radiotelegrafista Luigi Guerra con componenti sottratti alla consegna ai
tedeschi. Ciò permise di mantenere un collegamento radio col mondo esterno
ancora per qualche tempo. La stazione radio del capo Guerra operò fino a inizio
novembre 1943, quando fu necessario spostarla per impedire che venisse
scoperta; successivamente, quando Guerra venne arrestato e deportato in
Germania, la radio venne distrutta dal tenente Luigi Guglielmi. La stazione di
San Giovanni si mantenne in contatto con Lero dal 12 settembre al 5 ottobre,
quando capo Di Paolo venne arrestato dai tedeschi e spedito in Grecia per via
aerea.
Parecchi soldati e
marinai si diedero alla macchia in giro per l’isola ed elusero la cattura per
settimane; alcuni si ritirarono nell’interno e decisero di proseguire la
resistenza ad oltranza, anche sotto l’occupazione tedesca, come il secondo capo
cannoniere Pietro Carboni, che riuscì ad organizzare una piccola banda di
militari italiani decisi a darsi alla guerriglia nell’interno di Rodi. Carboni
cercò anche di organizzare un gruppo più numeroso, di una sessantina di uomini,
col quale si proponeva nientemeno che di tentare un colpo di mano per catturare
l’intero Stato Maggiore tedesco di Rodi; progetto che però non poté
concretizzare, perché rivelato ai tedeschi da delle spie. I membri del gruppo
vennero braccati e a poco a poco eliminati; alla fine rimase soltanto Carboni,
che con la sua attività si “meritò” dai tedeschi una taglia di ben 50.000 lire
dell’epoca.
La taglia messa dalle autorità tedesche sulla testa di Pietro Carboni (dalla pagina Facebook "DISPERSI 2° GUERRA MONDIALE: Mar Egeo – Isola di Rodi – Piroscafo DONIZETTI") |
Per oltre un anno l’intraprendente sottufficiale condusse la sua
solitaria guerra contro i tedeschi, disattivando mine nel settore
Cattavia-Apollachia, compiendo sabotaggi all’aeroporto di Calato, incendiando
boschi, esortando gli internati ad agire contro i tedeschi, tentando di
scatenare una rivolta nella zona di Malona. Viveva nelle grotte sulle montagne,
spostandosi di continuo per non farsi trovare; una volta la Gestapo riuscì a
prenderlo, ma Carboni evase e riprese la sua attività. Tutti i villaggi
dell’isola vennero tappezzati di sue foto segnaletiche. Ad aiutarlo erano un
maresciallo dei carabinieri ed un civile, sardi come lui; il secondo venne
arrestato e torturato dai tedeschi per strappargli notizie utili alla cattura
di Carboni. Anche un commerciante italiano di Rodi, Costantino Minetto, gli
prestò clandestinamente dei soldi perché potesse comprare ciò con cui vivere.
Sfinito, malato, alla
fine fu scoperto da una pattuglia tedesca, guidata nella grotta in cui viveva da
un civile greco intenzionato ad incassare la taglia: Carboni ingaggiò una lotta
corpo a corpo con il maresciallo comandante della pattuglia, ferendolo
gravemente con una pugnalata, prima di essere a sua volta freddato dal greco
con il suo fucile da caccia. Era il 26 dicembre 1944. Il comando della
Panzegrenadier-Brigade "Rhodos" emise uno speciale ordine del giorno
per celebrarne l’uccisione: «Da parte di
una pattuglia (…) riuscì a pescare il
famoso e ricercato comandante dei banditi Pietro Carboni. (…) si effettuò un duello tra il maresciallo
Breul e il bandito (duello con il pugnale) e durante il quale il maresciallo
venne gravemente ferito. All’agire del greco con un fucile da caccia il Carboni
venne ucciso. Con la cattura ed uccisione del bandito Carboni viene annientato
l’ultimo centro dei banditi di Rodi. (…) Pronuncio alla pattuglia del consigliere [?] Wolff la mia più viva riconoscenza per il successo riportato».
La maggior parte
degli uomini, comunque, venne progressivamente rastrellata dai tedeschi già nel
corso del settembre 1943. Secondo una fonte, il numero di militari italiani
disarmati a Rodi dai tedeschi sarebbe stato di 36.173, tra i quali si contarono
7 morti e 21 feriti per attacchi aerei britannici avvenuti dopo la caduta
dell’isola. Non volendo intaccare le non abbondanti scorte di provviste
presenti a Rodi (questo in realtà non è chiaro: molte fonti affermano che le
riserve alimentari disponibili nell’isola fossero esigue, tuttavia il
colonnello Coraucci, responsabile proprio dei rifornimenti, dopo essere fuggito
da Rodi il 27 settembre informò i servizi britannici che le scorte alimentari
della guarnigione, confiscate dai tedeschi, potevano durare 4 o 5 mesi),
necessarie alla resistenza della guarnigione tedesca, o tenere sull’isola una
pericolosa fonte di potenziali rivolte, si iniziò ben presto a trasferirli in
Grecia. In tal modo si sarebbe inoltre resa disponibile numerosa “manodopera”
da far lavorare nell’industria bellica tedesca, volente o nolente, mentre a
Rodi gli internati erano per i tedeschi soltanto delle bocche da sfamare senza
poter essere in alcun modo sfruttate a vantaggio dello sforzo bellico tedesco.
Per tutti questi motivi, già il 12 settembre il comando della Divisione
"Rhodos" aveva chiesto il trasferimento sul continente dei prigionieri
italiani, o almeno di 10.000 elementi ritenuti "poco sicuri" (secondo
una fonte, questi 10.000 uomini avevano negato l’obbedienza ad Iginio Ugo
Faralli, vice governatore di Rodi, che prese il posto di Campioni dopo le sue
dimissioni ed aderì poi alla RSI).
Il trasferimento
dall’isola al continente doveva avvenire con ogni mezzo disponibile: navi di
ogni età e dimensione, aerei, natanti minori. Al momento della resa, però, di
navi disponibili a Rodi per il loro trasferimento non ce n’era neanche una, e
in tutto l’Egeo la disponibilità di navi da trasporto e da scorta era
abbastanza limitata. Si potevano usare gli aerei, ma questi non potevano
trasportare che piccoli gruppi di prigionieri, il che significava che il
trasferimento non sarebbe potuto avvenire in tempi rapidi. Il trasferimento via
mare era doppiamente problematico: sia per la già menzionata carenza di navi,
sia per il notevole rischio comportato dalla sorveglianza aeronavale
britannica. Si pensò anche di far trasportare i prigionieri su navi ospedale o
su mercantili neutrali, facendoli internare in Paesi neutrali; o di accettare
una offerta del governo turco di rifornire di viveri le isole dell’Egeo, a mezzo
di navi svedesi (tenendo quindi gli internati a Rodi); o di trasferire gli
italiani nella vicina Turchia, dove sarebbero stati internati. In tutti e tre i
casi, però, si sarebbe dovuto rinunciare a sfruttare questa considerevole
aliquota di potenziale manodopera: Hitler e i suoi consiglieri, invece, non
erano disposti a rinunciare a quasi 40.000 uomini che avrebbero potuto essere
impiegati forzatamente nella produzione industriale ed agricola del Reich. Fu
quindi il "Führer" in persona ad intervenire nella questione: Hitler
diede ordine di trasportare gli internati via mare trascurando "tutte le
norme di sicurezza relative alla limitazione numerica degli imbarcati",
sfruttando "lo spazio al massimo, senza curarsi delle eventuali
perdite". Da parte loro, i comandi della Wehrmacht ammettevano che il
trasporto via mare comportasse dei rischi, ma ritenevano anche che i Comandi
subordinati in Grecia ne sopravvalutassero l’entità, e soprattutto escludevano
qualsiasi soluzione che prevedesse di consegnare agli angloamericani 40.000
soldati che in gran parte apparivano intenzionati a combattere contro la
Germania.
Il primo gruppetto di
prigionieri di Rodi, 15 ufficiali della Marina (compresi alcuni ufficiali di
artiglieria dell’Esercito in servizio nelle batterie della Marina) e
dell’Aeronautica, venne evacuato il 17 settembre con un aereo, che li trasportò
ad Atene; per il celere trasferimento in Grecia degli ufficiali italiani venne
allestito un ponte aereo con 30 velivoli da trasporto Junkers Ju 52, che
decollavano dall’aeroporto di Gadurrà (essendo Maritza temporaneamente
inutilizzabile dopo il bombardamento d’artiglieria cui era stato sottoposto). Ma
la massa degli italiani avrebbe dovuto essere trasportata sul continente via
mare.
È in questo contesto
che la Donizetti, il mattino del 22
settembre 1943, arrivò a Rodi, scortata dalla torpediniera tedesca TA 10 (già francese La Pomone, catturata a Biserta nel novembre 1942, entrata in
servizio nella Regia Marina come FR 42
e poi ceduta alla Kriegsmarine nel maggio 1943). La motonave batteva ormai
bandiera tedesca (non è chiaro se l’equipaggio fosse interamente tedesco, o se
comprendesse anche qualche componente dell’originario equipaggio civile
italiano), e trasportava un carico di rifornimenti, tra cui artiglierie,
munizioni, e rinforzi per la guarnigione tedesca di Rodi.
Alcune fonti italiane
affermano che la Donizetti sarebbe
giunta a Rodi il 19 settembre, ma dal giornale di bordo della TA 10 risulta chiaramente che in quella
data la motonave si trovava ancora al Pireo: Donizetti e TA 10
lasciarono infatti il Pireo alle sette di sera del 20 settembre, dirette a
Creta. Il comandante della TA 10,
tenente di vascello Jobst Hahndorff, lamentò nel suo rapporto di dover essere
partito senza il suo comandante in seconda (nonché ufficiale addetto ai
siluri), che era rimasto a terra per non essere potuto rientrare a bordo in
tempo prima della partenza; non essendo disponibile nemmeno un altro ufficiale
per rimpiazzarlo, ed avendo Hahndorff mostrato il suo disappunto nel dover
effettuare una missione di scorta senza quell’importante ufficiale, il Comando
della Kriegsmarine dell’Egeo aveva promesso ad Hahndorff di inviarlo a Creta,
se possibile, per via aerea non appena fosse arrivato, in modo che potesse
ricongiungersi all’equipaggio della TA 10.
Il viaggio dal Pireo
a Creta delle due navi si era svolto senza eventi di rilievo; alle cinque del
mattino del 21 settembre le navi, in arrivo a Creta, avevano notato del tiro
contraereo sui cieli dell’isola, ed alle 6.02 erano state raggiunte dalla
scorta aerea. Alle 10.44 di quel mattino, Donizetti
e TA 10 erano entrate nel porto di
Iraklion, dove si erano ormeggiate; la loro sosta ad Iraklion era durata poco
più di un’ora, perché già a mezzogiorno le due navi erano ripartite alla volta
di Rodi.
Durante la traversata
da Candia a Rodi, alle 15.25, il piccolo convoglio era stato raggiunto da un
ricognitore britannico, che volava basso provenendo dalla costa: arrivando da
poppa, l’aereo aveva sorvolato Donizetti
e TA 10 e poi si era allontanato
verso proravia, fino a sparire alla vista. Era stato dato l’allarme aereo, ma
la TA 10 non aveva aperto il fuoco,
per evitare di colpire un velivolo tedesco di scorta aerea che volava nei
pressi. Alle 15.55 la TA 10 aveva ricevuto
un messaggio radio inviato dall’ammiraglio tedesco dell’Egeo, col quale si
informava Hahndorff che il suo convoglio era stato avvistato da un ricognitore
nemico alle 15.30, e – notizia più preoccupante – che la ricognizione tedesca
aveva riferito che due cacciatorpediniere erano stati visti in uscita da Lero
alle 13 del 21 settembre, con rotta sud, alla velocità stimata di 20 nodi.
La navigazione delle
due navi proseguì senza ulteriori incidenti fino alle prime ore del 22
settembre. Alle 3.15 di quella notte si verificò un nuovo allarme aereo: non
ricognitori, questa volta, ma bombardieri, che sganciarono due o tre bombe di
piccolo calibro da media quota, contro il fianco sinistro della Donizetti. L’attacco colse la formazione
di sorpresa: l’aereo non venne né avvistato, né ne venne sentito il rumore,
prima dello sgancio delle bombe. Dopo questo attacco, le navi iniziarono a
zigzagare, con le mitragliere armate e pronte al fuoco. Pochi minuti dopo,
infatti – alle 3.20 – si verificò un nuovo lancio di bombe: questa volta erano
quattro, anch’esse di piccolo calibro, dirette contro il lato di dritta della TA 10. Caddero in mare a circa duecento
metri dalla torpediniera. Un messaggio britannico datato
"2317012/9/1943" si riferisce probabilmente a questo attacco aereo:
"DONIZETTI & DONIZETTI CONVOY IN
JP FIVE ONE THREE NOUGHT WAS LOCATED AND UNSUCCESSFULLY ATTACKED (…) BY ALLIED AIRCRAFT OFF EAST COAST RHODES
& RHODES NOUGHT ONE THREE NOUGHT HOURS TWENTYSECOND".
Dopo aver superato
indenni questo attacco, Donizetti e TA 10 raggiunsero Rodi alle 5.10 del 22
settembre. Al loro arrivo, le ostruzioni del porto erano ancora chiuse,
pertanto le due navi dovettero aspettare oltre un’ora davanti all’imboccatura
del porto (il locale Comando Marina tedesco disse a Hahndorff che l’arrivo del
convoglio era atteso sul lato opposto dell’isola, e che tutta l’attenzione era
stata concentrata da quella parte: per questo le ostruzioni erano state aperte
con tanto ritardo); alle 6.20 le ostruzioni vennero infine aperte, e le due
navi entrarono in porto. Entro le 6.50, si erano ormeggiate; la Donizetti, in particolare, si ormeggiò
alla banchina del porto commerciale.
Essendo la prima nave
non piccolissima ad essere giunta nell’isola dopo la sua conquista da parte
tedesca, la Donizetti venne
rapidamente scelta per trasportare la prima aliquota di prigionieri. Per il
viaggio di ritorno, pertanto, il capitano di fregata Adriano Arcangioli di
Marina Rodi ebbe ordine dal comando tedesco di imbarcarvi personale della
Marina e dell’Aeronautica per il trasferimento in Grecia, da dove poi sarebbero
proseguiti per la Germania ov’erano destinati ai campi di prigionia come "internati
militari italiani". Parecchi uomini, temendo – a ragione – i pericoli del
viaggio e “contando su qualche migliore occasione che poteva fornire la
permanenza a Rodi”, si finsero malati o si diedero alla macchia per evitare di
doversi imbarcare.
L’imbarco degli "internati",
una volta che la Donizetti fu stata
celermente scaricata dei rifornimenti che aveva portato da Creta, iniziò il
mattino del 22 settembre (per altra fonte, a mezzogiorno, mentre il capitano di
fregata Arcangioli affermò nella relazione stesa nel dopoguerra che l’imbarco
avvenne nel pomeriggio). Una piccola parte degli italiani venne sistemata nelle
poche cabine di cui disponeva la motonave, ma il grosso fu mandato nelle stive.
I prigionieri vennero stipati sulla Donizetti
in condizioni di sovraffollamento disastrose: il colonnello Arrigo Angiolini
scrisse in seguito, in una relazione, che solitamente sulla Donizetti, quando era impiegata come
trasporto truppe, venivano imbarcati al massimo 700 uomini; il comando tedesco
decise di imbarcare sulla motonave il triplo, 2100 prigionieri. (Il maggiore di
porto Francesco Capodanno, già comandante del porto di Rodi, affermò nel
novembre 1945 che la capienza massima della Donizetti
fosse di mille uomini; in effetti la gemella Puccini giunse ad avere a bordo un migliaio di uomini, equipaggio
compreso, in un viaggio di trasporto truppe. In base agli appunti dell’allievo
ufficiale Widmer Lanzoni, che fu imbarcato sulla Donizetti dal giugno 1942 all’aprile 1943, solitamente questa nave
trasportava nei suoi viaggi tra i 500 e i 600 uomini; soltanto in un paio di
occasioni giunse a trasportarne 700).
Constatate le penose condizioni
dei primi 1600 uomini che erano saliti a bordo, Angiolini intervenne e riuscì a
convincere il comando tedesco a sospendere l’imbarco, il che salvò la vita ad
altre centinaia di prigionieri italiani.
Secondo una fonte, il
colonnello Angiolini era stato incaricato dai tedeschi di dirigere l’imbarco e
fece sospendere l’operazione di sua iniziativa quando a bordo della nave erano
saliti circa 1600 uomini, perché si era reso conto che non era assolutamente
possibile stipare altri prigionieri nelle stive già traboccanti; ma il comando
tedesco fece riprendere subito l’imbarco, fermandosi soltanto dopo aver fatto
salire a bordo 1835 uomini, quando finalmente comprese che Arcangioli aveva
ragione quando diceva che non era possibile imbarcare 2100 uomini in uno spazio
così ristretto, che un tale sovraffollamento avrebbe messo a rischio la
sicurezza della nave stessa. Furono così “risparmiati” altri 256 uomini che
sarebbero dovuti salire sulla Donizetti
e che invece rimasero a terra. Secondo un’altra versione, fu un ufficiale di
Marina italiano che, notando che il numero dei prigionieri imbarcati sulla Donizetti era troppo elevato, protestò
presso l’ufficiale tedesco responsabile, dichiarando che sarebbe stato disumano
far partire la nave in quelle condizioni; l’ufficiale tedesco fece una chiamata
al telefono, dopo di che l’imbarco venne finalmente arrestato, quando però già
più di 1500 uomini erano a bordo. (Il colonnello Angiolini, Direttore dei
Servizi a Rodi ed in quanto tale responsabile dell’approvvigionamento di
provviste per l’intera guarnigione, sia italiana che tedesca, aveva mantenuto
tale incarico anche dopo l’occupazione tedesca, essendo necessario che qualcuno
si occupasse del vettovagliamento della massa di militari italiani, ora
internati, che si trovavano ancora a
Rodi. Alle sue dipendenze era anche il tenente di vascello Giordano Chierego,
che aveva competenza per la Marina. In una lettera del 23 gennaio 1946
all’Ufficio Assenti della Marina, Angiolini descrisse così la vicenda
dell’imbarco sulla Donizetti dei
prigionieri: «I Marinai Italiani avevano
tutti spirito elevatissimo e per questo stava cuore ai tedeschi di allontanarli
al più presto dall’isola. All’arrivo del piroscafo Donizetti, equipaggiato con
personale tedesco, fu dato l’ordine che i primi a partire dovevano essere i
marinai, e che il numero dei partenti fosse completato con aliquote dell’Aeronautica.
Presente all’imbarco, dato che sapevo che il Donizetti, già trasporto truppe
dal Pireo non poteva trasportarne più di 700, e questo anche in relazione ai
mezzi di salvataggio, intervenni energicamente presso l’ufficiale tedesco
addetto ai servizi facendogli presente essere inumano far partire un piroscafo
in tali condizioni. L’ufficiale tedesco telefonò al suo Comando e da questi fu
sospeso l’imbarco di altro personale. Risultarono così imbarcati 1600 marinai
(la totalità di Rodi) e 200 avieri (…) Non
ritengo che si potranno rintracciare i nomi degli imbarcati dato che i tedeschi
non compilarono liste di imbarco»).
La
relazione del colonnello Arrigo Angiolini (Ufficio Storico della Marina
Militare, via pagina Facebook "DISPERSI
2° GUERRA MONDIALE: Mar Egeo – Isola di Rodi – Piroscafo DONIZETTI")
Anche tra i comandi
tedeschi vi furono delle diatribe a questo riguardo: il generale Kleemann insisteva
affinché venisse imbarcato sulla nave soltanto un numero di prigionieri
compatibile con le dotazioni di salvataggio disponibili a bordo, mentre il
comandante della Marina tedesca nell’Egeo (e responsabile dei trasporti
marittimi del Gruppo d’Armate "E"), viceammiraglio Werner Lange,
intendeva eseguire alla lettera gli ordini di Hitler e sfruttare al massimo lo
spazio disponibile sulla motonave, imbarcando 2100 uomini nel viaggio di
ritorno.
Già il 18 settembre
lo stesso Lange aveva ammesso che i trasporti via mare, soprattutto di
prigionieri, tra Rodi e il continente non fossero più praticabili, a causa
dell’elevatissimo rischio di perdite di naviglio; come soluzione aveva
prospettato di tenere semplicemente i prigionieri italiani sull’isola, riducendo
fortemente le loro razioni, oppure di evacuarli per mezzo di navi ospedale e
navi neutrali. Quest’ultima soluzione, però, sarebbe stata presa in
considerazione soltanto in situazioni di assoluta emergenza: gli Alleati, ben
conoscendo la situazione di difficoltà della Wehrmacht, difficilmente sarebbero
stati disposti a scambiare prigionieri tedeschi con "internati
militari" italiani, e gli alti comandi tedeschi non erano disposti a
rilasciare 40.000 prigionieri italiani senza ottenere niente in cambio. Insieme
alla cieca obbedienza agli ordini del "Führer", l’ammiraglio Lange
mostrava un totale disinteresse nei confronti delle vite degli italiani,
condiviso anche dal suo superiore del Marinegruppenkommandos Süd, ammiraglio
Kurt Fricke: disinteresse che traeva origine dal suo profondo disprezzo e dal
sentimento di vendetta verso gli ex alleati italiani, ritenuti “traditori” dopo
l’8 settembre 1943.
Alla fine vennero
imbarcati 1584 prigionieri, meno dei 2100 che Lange avrebbe voluto, ma ben di
più di quanti ne avrebbero consentiti i mezzi di salvataggio disponibili sulla
motonave, nonostante le lamentele di Kleemann che protestava che ciò fosse
contrario alle leggi internazionali. Il generale Kleemann si sarebbe lungamente
lamentato, a questo proposito, presso il generale Alexander Löhr, comandante in
capo del settore sudest (Oberbefehlshaber
Südost), ma senza che questo producesse alcuna conseguenza.
Non essendoci sulla Donizetti salvagente a sufficienza per
tutti quegli uomini, venne imbarcato un certo numero di salvagente
supplementari.
Secondo lo storico
tedesco Gerhard Schreiber, invece, Kleemann fece imbarcare sulla Donizetti il numero massimo di
prigionieri che giudicò compatibile con le dotazioni di imbarcazioni di
salvataggio e giubbotti salvagente della motonave, e non di più, tanto da
essere per questo attaccato, in seguito, dall’ammiraglio Lange. Secondo tale
versione, vi sarebbero state sulla Donizetti
dotazioni di salvataggio in numero bastante per tutti i prigionieri – almeno
per quanto riguardava i salvagente, mentre si può dubitare che ciò valesse per
le imbarcazioni –, seppure appena sufficienti. Una spiegazione che potrebbe
rendere compatibili le due versioni è che Kleemann abbia fatto imbarcare sulla Donizetti un numero di prigionieri
superiore a quello compatibile con le originarie dotazioni di salvataggio della
nave, ma che poi abbia fatto imbarcare un numero di giubbotti salvagente
supplementari sufficiente per la totalità dei prigionieri. Dagli appunti di
Widmer Lanzoni, allievo ufficiale sulla Donizetti
fin0 all’aprile 1943, emerge che la dotazione di salvagente di questa nave,
destinati alle truppe trasportate, assommava nel 1942-1943 a 986 salvagente:
180 a cintura e 173 a tampone nel corridoio stiva 1; 225, tutti a cintura, nel
corridoio stiva 2; 140 a cintura e 96 a tampone nel corridoio stiva 3; 172 a
cintura nel corridoio stiva 4. In tutto, 717 salvagente a cintura e 269 a
tampone, cui andavano aggiunti i salvagente dell’equipaggio e quelli in
dotazione alle 29 cabine per i passeggeri. Considerato anche il personale
tedesco dell’equipaggio e del corpo di guardia, questo significa che per il
viaggio del 22 settembre 1943 sarebbe stato necessario imbarcare circa
ottocento salvagente aggiuntivi. Ad ogni modo, i salvagente garantivano una
salvezza soltanto momentanea, e non è chiaro (ma sembra poco probabile) se la
nave avesse scialuppe e zattere a sufficienza per tutti.
Secondo Schreiber,
addirittura, la diatriba tra Kleemann e Lange si verificò dopo l’affondamento della Donizetti,
a posteriori, il che rende la posizione assunta sulla questione dall’ammiraglio
tedesco ancor più follemente assurda: pur sapendo che la nave era affondata,
provocando la morte di tutti i prigionieri, Lange criticò Kleemann per avervene
imbarcati “soltanto” 1576 (o 1584), quando secondo lui avrebbe potuto e dovuto,
in ottemperanza ai "chiari ordini
del Führer", caricarvene di più. Il Gruppo d’Armate, disse Lange, nel
trasportare prigionieri italiani doveva sfruttare lo spazio disponibile sulle
navi senza curarsi delle dotazioni di sicurezza; citando gli ordini di Hitler,
l’ammiraglio diffidò Kleemann dal soffermarsi nuovamente, nei futuri trasporti,
su questioni di questo genere. Alle ingiunzioni di Lange, il comandante della
Sturm-Division "Rhodos" rispose ribadendo che lo sfruttamento dello spazio
a bordo delle navi destinate al trasporto di prigionieri italiani doveva essere
subordinato alle loro dotazioni di salvataggio, altrimenti si sarebbero
infrante le leggi internazionali. L’ammiraglio non si degnò neanche di
rispondere a questo messaggio, ma si rivolse invece al generale Löhr, superiore
di Kleemann, chiedendo che questi si assicurasse che il suo sottoposto "seguisse le istruzioni del Führer riguardo i
suoi mezzi di salvataggio".
Qualcuno riuscì ad
evitare l’imbarco: il capitano di artiglieria Natale Monsurrò del Regio
Esercito, designato dai tedeschi capo convoglio, non si presentò all’imbarco e
riuscì a fuggire con un battello di contrabbandieri greci (il 26 settembre,
insieme al colonnello commissario Monsurrò ed al sottotenente d’artiglieria
Baldini), raggiungendo dapprima l’isola di Simi e poi quella di Lero, dove si
unì alla locale guarnigione che ancora resisteva sotto il comando
dell’ammiraglio Mascherpa. Il capitano medico di complemento Corrado De
Carolis, in servizio all’infermeria di Marina Rodi e destinato anch’esso a
partire con la Donizetti, fu invece
salvato da un allarme aereo, che lo fece arrivare al porto in ritardo: giuntovi
verso le otto di sera, vide che la motonave era già scostata dal molo, ormai in
partenza. Rimase così a terra: solo dopo qualche giorno si sarebbe reso conto
di quanto era stato fortunato.
La
relazione del capitano medico Corrado De Carolis (Ufficio Storico della Marina
Militare, via pagina Facebook "DISPERSI
2° GUERRA MONDIALE: Mar Egeo – Isola di Rodi – Piroscafo DONIZETTI")
Qualcun altro ancora
evitò l’imbarco nascondendosi nei boschi di Koskinou.
Neanche gli internati
che s’imbarcarono sulla Donizetti
erano passivamente rassegnati alla prospettiva della prigionia: nella già
citata testimonianza del gennaio 1946, il colonnello Angiolini raccontò che «dalle notizie che circolavano si sapeva che
i marinai avrebbero tentato un colpo di mano non appena al largo per
impadronirsi della nave e dirigersi verso Alessandria». Il tenente di
vascello Giordano Chierego, in una lettera del dicembre 1945, si spinse ancora
oltre: «Certo che la quasi totalità dei
marinai era nascostamente armata di pistole e bombe a mano».
Durante le operazioni
di imbarco si verificò anche un allarme aereo: dalle 12.30 alle 12.50, infatti,
la città ed il porto di Rodi furono in allarme perché sorvolati, a circa 5000 o
6000 metri di quota, da circa 25 bombardieri quadrimotori, che tuttavia non
sganciarono bombe, né aprirono il fuoco con le mitragliatrici.
Sul numero esatto di
soldati che furono imbarcati sulla Donizetti
esistono cifre discordanti.
A quanto risulta, gli
elenchi dei prigionieri imbarcati rimasero in mano tedesca, e non sembra che ad
oggi siano stati ritrovati; secondo altre fonti non sarebbero state completate,
o non sarebbero state redatte per niente, delle liste nominative a causa della
fretta di imbarcare i prigionieri, ma ciò appare piuttosto strano. Presso
l’Archivio Segreto Vaticano (Sezione Archivio Liste, busta 87, fascicolo E.
839/A-B; dal 1939 al 1947 fu in funzione un Ufficio informazioni vaticano per i
prigionieri di guerra) esistono degli «elenchi
trasmessi dalla curia arcivescovile di Rodi il 23 settembre 1946 relativi al
personale dell’aeronautica e marina militare deportato e imbarcato sulla nave Donizetti
affondata il 23 settembre 1943 al largo delle coste di Rodi in seguito al
bombardamento [sic] inglese», con
nota «Fare doppia copia e passare poi ai
precedenti. Fatte copie il 4.3.46 ed inviato originale a monsignor Acciari
tramite monsignor Rossi il 7.3.46».
(Ufficio Storico della Marina Militare, via pagina Facebook "DISPERSI 2° GUERRA MONDIALE: Mar Egeo – Isola di Rodi – Piroscafo DONIZETTI") |
Nel giugno 1945 il
capitano di fregata Arcangioli, rientrato dalla prigionia ed interpellato in
merito agli elenchi del personale imbarcato sulla Donizetti, rispose che esistevano due copie di tali elenchi, da lui
redatte; una di esse era stata consegnata al capitano di corvetta Stumph del
comando tedesco di Rodi, l’altra al tenente di vascello italiano Giordano Chierego,
che era rimasto nell’isola dopo l’arresto di Arcangioli ed il suo trasferimento
sul continente. Arcangioli poteva ricordare, a memoria, i nomi di nove
ufficiali (uno del CREM, il sottotenente Giovannini, ed otto dell’Esercito,
ufficiali d’artiglieria aggregati alla Marina: Clerici, Cruciani, Papa,
Messina, Keller, Lia, Sabbioni, Eleusi) che erano stati fatti salire sulla
motonave. Il tenente di vascello Chierego, interpellato in proposito, rispose
di aver riposto la lista «in una cassa
che a cura del Governo dell’isola fu nascosta in un sotterraneo dove certamente
dovrebbe essere ancora reperibile» (successivamente, in una lettera del
dicembre 1945, precisò: «Prevedendo di
essere stato prelevato e trasportato in Germania, lasciai delle consegne
precise per cui, il giorno successivo alla mia partenza, tutti questi documenti
(…), il tutto raccolto in tre casse,
venne consegnato al Governo della Isola e rinchiuso in un sotterraneo…».
(Ufficio
Storico della Marina Militare, via pagina Facebook "DISPERSI 2° GUERRA MONDIALE: Mar Egeo – Isola di Rodi –
Piroscafo DONIZETTI")
Vennero interessate
anche le autorità Alleate per cercare la lista, ma la Commissione per la tutela
degli interessi degli italiani nel Dodecaneso fece sapere che «per quanto concerne la cassa (…) lasciata dal tenente Chierego e nascosta in
un sotterraneo del Governo, si comunica che il Palazzo del Governo stesso, non
ha sotterranei. Potrebbe trattarsi, probabilmente, di altro stabile. Comunque,
alcuni funzionari del Governo, ancora a Rodi, tra i quali il Segretario
dell’Eccellenza Faralli, asseriscono di non essere stata mai loro nota
l’esistenza di tali documenti. Questa Commissione ha proceduto a sopralluoghi
nei vari locali già occupati, alla data dell’8/9/1943, dai Comandi della R.
Marina dislocati a Rodi. L’esito delle ricerche è stato infruttuoso, dovuto
anche al continuo susseguirsi dei reparti, prima tedeschi e successivamente
inglesi e indiani, che occuparono predetti locali. Sopralluogo nei locali della
Capitaneria di Porto, del Castello – già sede del Comando Superiore delle FF.
AA. dell’Egeo ha dato del pari esito negativo. I documenti potrebbero essere
stati anche trafugati a scopo di lucro, ma, a quest’ora, a distanza di tre anni
dall’affondamento della nave e di un anno dalla fine della guerra sarebbero,
senza alcun dubbio, venuti alla luce. Questa Commissione riterrebbe opportuno
fare interpellare il tenente di vascello Chierego circa la persona a cui
precisamente egli avrebbe consegnato, per la custodia, la cassa dei documenti,
onde continuare le ricerche con maggiori possibilità di successo».
Non era
peraltro chiaro se il palazzo presso cui era stata nascosta la lista fosse il
palazzo del Governo al Mandracchio, o piuttosto il Castello di Rodi: in una
lettera di un funzionario dell’Ufficio Assenti del Ministero della Marina (che
era stato egli stesso catturato a Rodi dopo l’armistizio, rimanendovi fino al
febbraio 1944 quando era stato deportato) ad un membro della commissione, si
propendeva per la prima ipotesi, «perché
il Signor Chierego fu deportato quando il Governo Civile funzionava in pieno
con Faralli, mentre al Castello c’erano già i tedeschi».
Nel novembre 1945
venne individuata un’altra possibile pista: don Giuseppe Della Vedova, già
cappellano di Rodi, riferì al Ministero della Marina che un ruolino dei
militari deceduti a Rodi e di quelli imbarcati sulla Donizetti era stato da lui lasciato a padre Crisologo Fabi,
superiore della Missione Francescana Chiesa Santa Maria della Vittoria a Rodi. Vennero
allora contattati sia il Ministero degli Affari Esteri che la Segreteria di
Stato della Santa Sede, per contattare padre Fabi e chiedergli quel ruolino; il
Ministero degli Affari Esteri si rivolse a sua volta alla Commissione Alleata,
al fine di ottenere quell’elenco dal francescano. Ma non sembra che neanche
queste ricerche abbiano condotto a risultati.
(Ufficio Storico della Marina Militare, via pagina Facebook "DISPERSI 2° GUERRA MONDIALE: Mar Egeo – Isola di Rodi – Piroscafo DONIZETTI")
Secondo una
testimonianza, il frate rodiese Don Cesare Andolfi sarebbe riuscito a venire in
possesso di una copia della lista degli imbarcati. Il subacqueo e ricercatore
greco Kostas Thoctarides ha rintracciato una parzialissima lista, fornita
qualche tempo dopo dalle autorità italiane, con i nomi di 122 uomini
dell’Aeronautica e 28 della Marina, periti sulla Donizetti. La lista dei 122 uomini dell’Aeronautica è una di quelle
conservate presso l’Archivio Segreto Vaticano, fascicolo E. 839, trasmessa nel
febbraio 1946 dall’arcivescovo di Rodi. Qualche notizia sull’origine di queste
liste si può ricavare da un messaggio del gennaio 1946, inviato dall’Ufficio
Ricerche della Sezione Affari Militari della Commissione per la tutela degli
interessi degli italiani nel Dodecaneso ai Ministeri della Guerra e
dell’Assistenza Postbellica, alla Segreteria di Stato della Santa Sede ed
all’Ufficio Prigionieri e Dispersi della Croce Rossa Italiana, insieme agli
elenchi nominativo di uno scaglione di militari dell’Aeronautica (i 122 del
fascicolo E. 839) e di alcuni militari della Marina (i 28) imbarcati sulla Donizetti. In esso si spiegava che
l’elenco dei 122 militari dell’Aeronautica era stato redatto dal comando
tedesco che poi l’aveva consegnato all’Ispettorato dei Reparti italiani
nell’Egeo orientale, e che era stato ritrovato nel carteggio di tale
Ispettorato, frattanto disciolto, dalla Commissione per la tutela degli
interessi degli italiani nel Dodecaneso; l’elenco dei 28 militari della Marina
era invece stato compilato direttamente dall’Ufficio Ricerche della Sezione
Affari Militari della Commissione, sulla scorta di informazioni fornite da ex
militari già appartenenti al Comando Marina di Rodi, che all’epoca si trovavano
ancora nell’isola. A conclusione del documento si affermava anche,
probabilmente esagerando, che «secondo
informazioni a suo tempo attinte dagli ambienti militari e civili di Rodi, col
piroscafo Donizetti sarebbero stati imbarcati circa 2500 militari appartenenti,
in gran maggioranza, a reparti della R. Marina».
In mancanza di
elenchi ufficiali e completi, nel dopoguerra le autorità della Marina, nel
tentativo di ricostruire la sorte del numeroso personale in servizio a Rodi e
del quale ancora non si avevano notizie (opera iniziata già nel 1944, prima
ancora della fine della guerra, e proseguita per oltre due anni dall’Ufficio
Assenti del Ministero della Marina), dovettero accontentarsi di tentare di
compilare liste parziali interrogando reduci di Marina Rodi tornati dalla
prigionia, cui era chiesto di fornire i nominativi di coloro che, secondo il
loro ricordo, si erano imbarcati sulla Donizetti
nel suo ultimo viaggio. Vennero sentiti oltre una quindicina di testimoni,
grazie ai quali fu possibile redigere delle liste di alcune decine di
nominativi.
Alcuni
dei telegrammi inviati nel dopoguerra per avere notizie da reduci di Marina
Rodi (Ufficio Storico della Marina Militare, via pagina Facebook "DISPERSI 2° GUERRA MONDIALE: Mar Egeo
– Isola di Rodi – Piroscafo DONIZETTI")
Il capo
radiotelegrafista di seconda classe Gioacchino Geremia fornì nell’agosto 1945
cinque nomi; il secondo capo furiere Vittorio Lauri, negli stessi giorni,
comunicò un elenco di dieci nomi.
Nel settembre 1945 il
capitano di porto Ugo Ricciuti, oltre a dichiarare di aver chiaramente letto il
nome della Donizetti in un elenco di
navi date per affondate dalla compagnia tedesca Mittelmeer-Reederei (che si
occupava della gestione dei mercantili italiani catturati dopo l’armistizio e
riarmati sotto bandiera tedesca) nel periodo 8 settembre-31 dicembre 1943 e
comunicato nel 1944 alla Capitaneria di Porto di Trieste (dove Ricciuti,
rimpatriato dalla prigionia in Germania dopo la caduta di Rodi, era stato
destinato dalla Repubblica Sociale Italiana) per l’aggiornamento delle
matricole delle navi, diede i nomi di due ufficiali (Alessandro Giovannini e
Adolfo Messina) ed un sottufficiale (Aniello Vetrano) che si erano imbarcati
sulla motonave.
Nello stesso mese il capo radiotelegrafista di terza classe
Concetto Genovese elencò i nomi di nove militari di Marina Rodi che ricordava
essersi imbarcati sulla Donizetti; ed
il marinaio Vincenzo Di Domenico elencò undici nomi, in maggioranza segnalatori
e radiotelegrafisti.
La relazione del capitano di porto Ugo Ricciuti (Ufficio Storico della Marina Militare, via pagina Facebook "DISPERSI 2° GUERRA MONDIALE: Mar Egeo – Isola di Rodi – Piroscafo DONIZETTI") |
Nel dicembre 1945 il
sergente segnalatore Nicola Marcario compilò un elenco di alcune decine di
nominativi di personale di Marina Rodi, indicando quelli che erano stati
deportati in aereo o motoveliero, quelli che erano morti a Rodi per varie
cause, quelli che avevano aderito alla Marina Nazionale Repubblicana (della
RSI) talvolta svolgendo attività lesiva contro i militari non aderenti, quelli
fuggiti in Turchia e quelli che aveva visto partire con la Donizetti; questi ultimi erano 17.
Nel febbraio 1946 il
tenente di vascello Giordano Chierego, interrogato a riguardo, elencò i nomi di
sei ufficiali d’artiglieria dell’Esercito che, secondo il suo ricordo, erano
stati imbarcati sulla Donizetti;
relativamente agli altri ufficiali dell’Esercito aggregati ai reparti della
Marina a Rodi, Chierego non seppe esprimersi con certezza, ma asserì di
ritenere che anch’essi fossero saliti sulla motonave, dato che dopo
l’affondamento della Donizetti non c’erano
state altre partenze, da Rodi, di ufficiali dell’Esercito aggregati alla
Marina, né essi figuravano tra gli ufficiali rimasti a Rodi, i cui nomi
ricordava chiaramente. In una sua precedente relazione (novembre 1945) Chierego
aveva affermato che gli ufficiali imbarcati sulla Donizetti per la deportazione in Germania fossero 20, senza farne i
nomi; nel dicembre 1945 aveva precisato che si trattava in gran parte ufficiali
dell’Esercito, comandanti e sottordini delle batterie costiere, più alcuni
ufficiali inferiori di Mariegeo, specialmente tra quelli addetti all’Ufficio
cifra.
Sempre nel febbraio
1946, il capo radiotelegrafista di seconda classe Amedeo Lacalamita (che era
riuscito a fuggire da Rodi in Turchia nel novembre 1943, mediante un battello
di salvataggio dell’Aeronautica) fornì una lista di nomi di personale della
Marina deportato in Germania, rimasto a Rodi o fuggito; tra di essi anche i
nomi di due sottufficiali (Aldo Risso e Gennaro Zuccaro), un sottocapo (Franco
Sardi) ed un marinaio (Saverio Sassanelli) imbarcati sulla Donizetti. Lacalamita aggiunse anche che la Donizetti era partita da Rodi sotto intenso bombardamento aereo,
che a bordo aveva 2300 prigionieri (1200 della Marina e 1100 dell’Esercito e
dell’Aeronautica), che fu attaccata all’uscita del porto e che "la sua
sorte non fu mai nota", mentre la torpediniera di scorta si era poi andata
ad arenare sulla costa rodiota vicino alla baia di Cattavia. Il secondo capo
furiere Giuseppe Padovano elencò sei uomini che ricordava essere saliti sulla Donizetti, più altri rimasti a Rodi od
incontrati successivamente in Germania durante la prigionia.
Il sergente Francesco
Avigliano, nel luglio 1946, fornì i nomi di dodici uomini (il tenente
d’artiglieria Romualdo Lia, tre sottufficiali, un sottocapo e sette marinai) della
batteria "Bianco", presso la quale aveva prestato servizio all’epoca
dell’armistizio, che ricordava di aver visto salire sulla Donizetti.
Il tenente CREM Luigi
Guglielmi (che nel settembre 1943 era in servizio presso l’Ufficio Telecomunicazioni
di Mariegeo) dichiarò che quasi tutti i marinai e radiotelegrafisti del centro radio
di Monte Profeta si erano imbarcati sulla Donizetti
insieme al loro capoposto, capo radiotelegrafista di terza classe Aldo Risso;
ne nominò dieci (oltre a Risso, Cristallino Gallo, Andrea Attolini – che aveva
personalmente visto salire a bordo –, Guglielmo Galanti, Rosario Pappalardo,
Fernando Ausiello, Pellegrino Marino, Angelo Salvador, Dario Cocchetti e
Francesco Parasporo), ma aggiunse di non conoscere i nomi di tutti. Di quella
stazione radio erano in pochissimi ad essere scampati all’imbarco sulla Donizetti ed alla morte; tra quei
“fortunati” il sergente segnalatore Nicola Marcario ed il secondo capo Piero
Ceresa. Gugliemo fece i nomi anche di due sottotenenti del CREM (Pietro Cioci,
di Mariegeo Comunicazioni, ed Alessandro Giovannini, di Mariser Rodi) ed altri
dieci tra sottufficiali e marinai (Gennaro Zuccaro, Raffaele Rivieccio e Renato
Gilli, in servizio al Semaforo di Santo Stefano; Luigi Papili e Francesco Di
Leo, dell’ufficio Cifra di Mariegeo; Durante Gullo, del Magazzino Semafori;
Cesare Magrini, della trasmittente di Rodino; Domenico Taranto, di Mariegeo; Carlo
Visintainer, cuoco dell’ammiraglio Daviso; il marinaio Arena, ordinanza del
capitano di corvetta Luigi Monterisi) che erano saliti sulla motonave. Il
capitano medico De Carolis affermò che circa 1500 uomini erano saliti sulla Donizetti, cioè quasi tutto il personale
della Marina e parte di quello dell’Aeronautica, ma seppe fare soltanto i nomi
di alcuni ufficiali che conosceva (Bruno Cruciani, Mario Keller, Adolfo
Messina, Romualdo Lia, Giovanni Papa, Luigi Sabbioni, Iusuf Eleusi e Lorenzo
Sguerzo, che in realtà non era salito a bordo a differenza degli altri). Il
maggiore di porto Francesco Capodanno precisò che la maggior parte degli
imbarcati erano sottufficiali e marinai che prestavano servizio a Rodi città e
nei dintorni, nonché nelle batterie costiere, nelle stazioni semaforiche e nei
posti di vedetta di tutta l’isola. Del nucleo di ufficiali che si era imbarcato
insieme ad essi, Capodanno ricordava il nome del comandante in seconda della
cannoniera Caboto, il tenente di
vascello di complemento Fichera.
Furono sentiti in
proposito anche il secondo capo segnalatore Paolo Brugognone ed i sergenti
radiotelegrafisti Domenico Manzi ed Ezio Didon.
Nell’aprile 1946
furono i parenti di due avieri scomparsi, Giorgio Cetica e Riccardo Casal, a
presentarsi presso il presidio aeronautico di La Spezia riferendo di aver
saputo da reduci che i loro congiunti, in servizio all’aeroporto di Rodi, si
erano imbarcati sulla Donizetti il 22
settembre 1943; chiedevano notizie sulla sorte della nave.
Dovendosi per forza
di cose basare sulla sola memoria, talvolta questi elenchi contenevano nomi
storpiati, o di uomini che poi si scopriva essere in realtà ancora in vita, non
essendo mai saliti sulla Donizetti. Anche
le cifre che circolavano sul numero degli imbarcati variavano di continuo,
sulla base delle diverse testimonianze: oltre mille; 1300 (questo fu il numero
accennato dal capitano di fregata Arcangioli nella relazione presentata al
rientro dalla prigionia); oppure 1800 (secondo il tenente di vascello Chierego,
che parlò di 1200 militari della Marina, compresi circa 20 ufficiali e 200
sottufficiali, e 600 avieri); oppure 1900 (1300 della Marina e 600 avieri); 2050
(secondo il tenente CREM Guglielmi, che parlò di circa 1250 uomini della
Marina, 800 avieri, due ufficiali di Marina ed una decina di ufficiali di
artiglieria) o addirittura 2500 (il maggiore di porto Capodanno – che però
all’atto dell’imbarco non prestava più servizio al porto, essendo stato
sostituito dai tedeschi – dichiarò che la nave imbarcò da 2000 a 2500 persone).
Secondo il volume "Attività
dopo l’armistizio – Tomo II – Avvenimenti in Egeo" dell’Ufficio Storico
della Marina Militare, sulla base del confronto delle testimonianze in seguito
raccolte, sulla Donizetti vennero
imbarcati circa 1800 uomini della Marina e dell’Aeronautica, e cioè: 3
ufficiali, 114 sottufficiali e 1110 sottocapi e marinai della Marina; 8
ufficiali dell’Esercito alle dipendenze della Marina (i tenenti d’artiglieria Luigi
Sabbioni, Bruno Cruciani, della batteria "Mocenigo", Romualdo Lia,
della batteria "Bianco", Antonio Clerici ed Adolfo Messina, entrambi
della batteria "Bragadino", e Mario Keller, della batteria
"Castello"; ed i sottotenenti d’artiglieria Giovanni Papa, della
batteria "Bragadino", e Iusuf Eleusi, della batteria
"Melchiorri", quest’ultimo di nazionalità albanese); circa 600
militari dell’Aeronautica. Secondo "Navi mercantili perdute", pure
dell’U.S.M.M., secondo quanto reso noto dalla Wehrmacht la Donizetti aveva a bordo 1584 prigionieri italiani, tra marinai ed
avieri; questo numero è riportato anche dal documentato libro
"I militari italiani internati nei campi di concentramento del
Terzo Reich (1943-1945)" dello storico tedesco Gerhard Schreiber. Il
diario del reparto operazioni della Kriegsmarine, in data 23 settembre 1943,
riferisce che la Donizetti aveva a
bordo 1576 prigionieri; un articolo a firma dello storico Luciano Alberghino
Maltoni parla invece di 1835 prigionieri.
Oltre ai prigionieri,
secondo alcune fonti la Donizetti
avrebbe imbarcato in totale 220 tedeschi, tra equipaggio (del quale non è
chiaro se comprendesse anche marittimi italiani) e militari di scorta ai
prigionieri. Qualche fonte parla di 1796 prigionieri, ma sembra che ciò sia
soltanto il risultato dell’erronea addizione di 1576 prigionieri e 220 tedeschi
di equipaggio e di scorta.
Secondo il sito www.maritimequest.com, la Donizetti sarebbe stata sprovvista di
contrassegni che ne indicassero la natura di nave impiegata nel trasporto di
prigionieri; non si è trovata nessun’altra fonte che confermasse o smentisse
tale affermazione.
Una serie
di elenchi parziali di prigionieri imbarcati sulla Donizetti, recuperati o compilati nel dopoguerra sulla base delle
deposizioni di reduci di Rodi (documenti rintracciati presso l’Ufficio Storico
della Marina Militare da Alessandro Del Buono e Mary Andreozzi, e pubblicati
sulla pagina Facebook "DISPERSI 2°
GUERRA MONDIALE: Mar Egeo – Isola di Rodi – Piroscafo DONIZETTI"):
La traversata verso
la Grecia era piena di incognite: gli Alleati, dopo i primi giorni di torpore
seguiti all’armistizio, erano passati all’azione in Egeo; dopo aver inviato
loro distaccamenti a rinforzare le guarnigioni italiane di Coo, Lero, Simi,
Samo, Stampalia, Calino e Castelrosso, i britannici iniziarono un’intensa
attività navale volta sia a rifornire tali distaccamenti, sia ad ostacolare i
collegamenti tedeschi via mare tra il Pireo ed il Dodecaneso. Le forze a
disposizione per questa attività consistevano in otto cacciatorpediniere (sei
di squadra dell’8th Destroyer Flotilla e due di scorta del tipo
“Hunt”), una flottiglia di sommergibili ed una ventina di unità minori. I
cacciatorpediniere britannici, in particolare, compivano crociere
esclusivamente notturne (dal momento che di giorno il rischio rappresentato
dalla Luftwaffe era troppo grande) per intercettare il naviglio tedeschi, sulla
base di segnalazioni pervenute dagli informatori o da avvistamenti riferiti dai
posti di vedetta italiani e britannici nel Dodecaneso. Di giorno, i
cacciatorpediniere venivano ritirati a Portolago (Lero) oppure verso sudest,
verso Cipro ed Alessandria d’Egitto. Zone particolarmente battute in queste
puntate offensive erano i canali di Caso e di Scarpanto; le navi britanniche li
risalivano verso nordovest, spingendosi quanto più lontano possibile
compatibilmente con la necessità di essere fuori dal raggio della Luftwaffe
prima dell’alba. Se venivano trovate ed affondate delle navi, difficilmente ci
si fermava a recuperare i naufraghi: l’imperativo era di allontanarsi il più
rapidamente possibile, prima che ci potesse essere una reazione da parte
avversaria e soprattutto prima di farsi sorprendere dall’aviazione tedesca
ancora in Egeo.
Esistevano a Rodi,
come accennato più sopra, due stazioni radio clandestine operate da militari
italiani datisi alla macchia; una di esse comunicò a Lero la notizia della
partenza della Donizetti, sperando
che unità italiane o Alleate potessero intercettarla, eliminare la scorta e
dirottare la motonave in un porto sotto controllo italiano o angloamericano
(magari l’isola di Lero, che ancora resisteva saldamente in mani italiane),
così liberando i prigionieri. Così scrisse nel dicembre 1945 il tenente del
CREM Luigi Guglielmi, che nel settembre 1943 era responsabile dell’Ufficio
Telecomunicazioni di Mariegeo: «…l’attacco
al convoglio [della Donizetti]
[fu], quasi certamente, provocato da me
con un messaggio radio lanciato agli inglesi, alcune ore prima della partenza
del convoglio, con un apparecchio trasmittente clandestino. Naturalmente il mio
scopo era quello di predisporre la cattura del piroscafo ed evitare la
deportazione in Germania dei prigionieri italiani. Ai primi di settembre di
quest’anno [1945], quando sono
rientrato in Patria, reduce dalla dura prigionia tedesca, (…) ho avuto la dolorosa sorpresa di sapere che
tutti i militari imbarcati sul Donizetti non avevano mai dato notizia di sé dal
giorno della loro partenza da Rodi…».
La
relazione del tenente del CREM Luigi Guglielmi (Ufficio Storico della Marina
Militare, via pagina Facebook
"DISPERSI 2° GUERRA MONDIALE: Mar Egeo – Isola di Rodi – Piroscafo DONIZETTI")
Non è chiaro se
questa comunicazione, in realtà, abbia mai raggiunto i comandi britannici e, in
caso affermativo, se sia stata presa in considerazione; né se il successivo
attacco ai danni della Donizetti sia
scaturito da un incontro fortuito oppure da un’intercettazione organizzata
sulla base di quelle informazioni. Un libro britannico afferma che “secondo una
fonte una stazione radio clandestina italiana a Rodi informò i britannici che
la nave trasportava prigionieri, ma l’attacco procedé ugualmente”; il libro "The
German Fleet at War" di Vincent O’Hara, nel parlare dello scontro del 23
settembre, afferma che i cacciatorpediniere britannici che attaccarono la Donizetti agirono «senza [l’ausilio di]
specifica intelligence», e cioè che la sua intercettazione fu casuale, frutto
di un normale rastrello notturno alla ricerca di naviglio tedesco nelle acque
di Rodi.
Fatto sta che la Donizetti, col suo carico umano, partì
da Rodi alle sette di sera del 22 settembre 1943 – più precisamente, alle
19.39, secondo il giornale di bordo della TA
10 –, una volta calato il buio, scortata ancora dalla TA 10. Le due navi diressero verso sudovest (secondo il colonnello
Angiolini, verso sudest, costeggiando l’isola, mentre la rotta solitamente
seguita era quella per nordovest); seguendo la costa orientale di Rodi,
passarono davanti a Lindos dirigendo verso Capo Prassonisi, estrema propaggine
meridionale dell’isola. Destinazione, il Pireo.
Il comandante della TA 10, tenente di vascello Hahndorff,
era preoccupato dalla possibilità di nuovi e più pesanti attacchi aerei durante
la navigazione verso il Pireo, visto quanto era accaduto nel viaggio di andata
e l’allarme aereo di mezzogiorno; aveva pertanto chiesto al Comando della
Kriegsmarine di Rodi di rinviare la partenza, ma la richiesta era stata
respinta. Il locale Comando Marina tedesco aveva invece proposto a Hahndorff di
seguire un’altra rotta, ritenuta meno pericolosa; ma tale era anche più lungo,
e le due navi non avevano abbastanza carburante per seguirlo, né ebbero la
possibilità di rifornirsi di carburante a Rodi.
Alle 19.02 del 22 settembre,
poco prima della partenza, si era verificato a Rodi un nuovo allarme aereo: ad
aprire il fuoco erano state le batterie contraeree situate alla periferia
meridionale della città, ma non era stato visto alcun aereo in volo sul porto,
tanto che l’imbarco dei prigionieri sulla Donizetti
non era neanche stato interrotto. L’allarme era cessato alle 19.45, qualche
minuto dopo che Donizetti e TA 10 avevano lasciato il porto.
Prima di raggiungere
il Pireo, le due navi dovevano fare scalo intermedio ad Iraklion; venne
pertanto fatta rotta verso Creta. Il mare era abbastanza calmo, con vento forza
1-2 da nordovest; la notte era molto buia, con visibilità media.
Alle 20.05 Donizetti e TA 10 iniziarono la navigazione verso Iraklion in linea di fila, distanziate
tra di loro di 400 metri, con la torpediniera in testa alla formazione,
ecogoniometro in funzione per guardarsi da eventuali attacchi di sommergibili
(settore di ricerca da 90° a 270°). Entrambe le navi erano oscurate;
procedevano a 11,5 nodi senza zigzagare, sia perché avevano poco carburante
(per questo motivo, la TA 10
procedeva con una sola caldaia in funzione, tenendo l’altra in pressione e
pronta all’uso in caso di necessità: con così poco carburante, non era
possibile procedere con entrambe le caldaie), sia perché la schiuma della scia
sarebbe stata facilmente visibile dall’aria. Sulla TA 10 parte dell’equipaggio era ai posti di combattimento, parte
riposava accanto ai cannoni; aspettandosi altri attacchi aerei durante la
notte, Hahndorff aveva mantenuto le armi contraeree armate, cariche e puntate
verso la probabile direzione di provenienza di aerei nemici, cioè quella
opposta a quella della luna. Al sorgere della luna (00.32) i turni di vedetta
vennero rafforzati.
Lo stato del mare
andò peggiorando: nonostante la parziale protezione offerta dalla vicina isola,
il mare passò gradualmente da forza 3 a forza 4-5, con vento forza 5-6 da
nordovest.
Poche ore dopo, nella
notte sul 23, il piccolo convoglio, mentre si trovava ancora al largo
dell’estremità sudoccidentale di Rodi, venne attaccato dal cacciatorpediniere
britannico Eclipse (capitano di fregata
Edward Mack).
Secondo diverse fonti
avrebbe partecipato allo scontro anche un secondo cacciatorpediniere
britannico, il Fury (oppure il Faulknor); secondo il libro "Struggle
for the Middle Sea" di Vincent O’Hara, invece, ad attaccare Donizetti e TA 10 fu soltanto l’Eclipse,
mentre il Fury ed il Faulknor (capoflottiglia dell’8th
Destroyer Flotilla) pattugliavano il Canale di Caso alla ricerca di naviglio
tedesco. I tre cacciatorpediniere avevano trasportato 1200 soldati britannici a
Coo la sera precedente, ed ora, mentre rientravano alla base navigando verso
sud, si erano divisi per cercare ed attaccare traffico nemico: l’Eclipse passando nel canale di Scarpanto,
Faulknor e Fury in quello di Caso.
Il libro "War in
the Aegean" di Peter C. Smith dà una versione ancora differente: Eclipse, Faulknor, Fury ed un
quarto cacciatorpediniere, il greco Vasilissa
Olga, avevano trasportato a Lero 1200 soldati, rifornimenti ed otto cannoni
Bofors la sera del 22 settembre; dopo il tramonto, erano ripartiti diretti per
rientrare ad Alessandria d’Egitto, dividendosi però per compiere due rastrelli verso
sud contro il traffico tedesco durante la navigazione di rientro. Faulknor e Vasilissa Olga avevano rastrellato le acque ad ovest di Stampalia
(tra quell’isola ed Amorgos) ed il Canale di Caso, senza incontrare nulla; Fury ed Eclipse avevano invece operato più a sud, pattugliando le due
estremità dello stretto di Scarpanto (il braccio di mare che divide Scarpanto
da Rodi), il Fury quella
settentrionale e l’Eclipse quella
meridionale. Questa versione sembra trovare conferma nel diario di guerra
dell’Ammiragliato britannico (22 settembre 1943: «FAULKNOR (D.8), FURY, ECLIPSE and QUEEN OLGA arrived at Leros this
morning without incident (see 21st September) and sailed after dark tonight for
Alexandra, FAULKNOR and QUEEN OLGA sweeping west of Stampalia and through Kaso
Strait; and FURY and ECLIPSE patrolling the north and south ends of Scarpanto
Strait»).
Dieci miglia a sud (o
sudovest) di Rodi, l’Eclipse avvistò
la TA 10 e la Donizetti (altra fonte parla di contatto avvenuto inizialmente al
radar); quella notte la luna era ai tre quarti, ma non era ancora sorta – mancavano
sei minuti – quando all’1.11 il cacciatorpediniere britannico avvistò i due
bastimenti nemici al largo di Capo Prassonisi ed aprì il fuoco, cogliendoli di
sorpresa.
Da parte tedesca,
l’allarme sulla TA 10 venne dato alle
00.28 del 23 settembre (evidentemente con una differenza di fuso orario
rispetto a quello indicato dalle fonti britanniche), quando il comandante
Hahndorff avvistò a poppavia dritta, nella lieve foschia che aleggiava sulla
costa rodiota, sei-otto vampe di cannone su rilevamento 160°. In quel momento,
il piccolo convoglio si trovava in posizione 35°45’ N e 27°54’ E, con rotta
226°. Contemporaneamente, una vedetta della TA
10 annunciò di aver visto delle cannonate sulla costa; ma Hahndorff ritenne
trattarsi di un apprezzamento errato, avendo lui stimato che le vampe viste
distassero appena 700-800 metri, mentre la costa si trovava ad una trentina di
miglia. Poco dopo, cinque proiettili illuminanti si accesero a proravia del
convoglio, che venne completamente illuminato; a quei proiettili seguì il tiro
battente dell’Eclipse, che risultò
centrato già dalla seconda salva. La TA
10 comunicò via radio di trovarsi sotto attacco da parte di navi di
superficie nemiche; poco dopo, i primi colpi giunti a bordo misero fuori uso i
generatori di elettricità, troncando ogni comunicazione radio. La Donizetti, intanto, aveva iniziato a
zigzagare, presumibilmente per disturbare il tiro dell’attaccante. Non poteva
fare molto altro.
Ritenendo di essere
sotto attacco da parte di due torpediniere, Hahndorff diede inizialmente la
poppa all’attaccante e compì ripetute accostate per disturbare il tiro
avversario, poi invertì la rotta ed andò al contrattacco, rispondendo al fuoco
col proprio armamento e cercando d’interporsi tra il nemico e la nave che stava
scortando. Dapprima la TA 10 sparò
tre proiettili illuminanti, che mostrarono le sagome di quelli che Hahndorff
ritenne essere due cacciatorpediniere nemici; ma l’osservazione risultò
alquanto difficoltosa. Hahndorff tentò di comunicare alla Donizetti l’ordine di fuggire, mentre con la TA 10 tentava di trattenere gli attaccanti, ma la motonave ex
italiana era sprovvista di radio ad onde ultracorte; rendendosi conto che la Donizetti stava navigando con rotta sud,
il comandante della TA 10 decise di
dirigere verso ovest, nel tentativo di farsi inseguire ed attirare gli attaccanti
lontano dalla motonave. Il piano funzionò solo a metà, perché il primo dei
cacciatorpediniere seguì la TA 10, ma
il secondo si diresse verso la Donizetti,
ponendosi al suo inseguimento (non è molto chiaro, per la verità, se
effettivamente fossero presenti due cacciatorpediniere, o se si trattò di un
apprezzamento erroneo da parte di Hahndorff: si è menzionata più sopra la
discordanza delle diverse fonti sulla presenza o meno di un secondo
cacciatorpediniere britannico al fianco dell’Eclipse).
Tralasciando l’unità
di scorta, l’Eclipse aprì il fuoco
sulla Donizetti per prima, e la colpì
ripetutamente, incendiandola.
Alle 00.45 la TA 10, essendole rimasti solo 18
proiettili illuminanti, si disimpegnò e si diresse verso la parte più buia
dell’orizzonte, in modo che la nave nemica, dirigendosi verso di essa, si
profilasse contro la luna, risultando più visibile. Alle 00.52, essendo
riuscita a far perdere le proprie tracce, la torpediniera tedesca ritornò sulla
rotta originaria, ed alle 00.58 avvistò di prora la Donizetti: la motonave ex italiana era in preda a violenti incendi,
ma avanzava ancora a bassissima velocità. Subito dopo, Hahndorff avvistò un
cacciatorpediniere a proravia dritta – era sempre l’Eclipse – diretto verso la Donizetti,
contro la quale faceva fuoco. La TA 10
si preparò a lanciare i suoi siluri contro il cacciatorpediniere (un lancio che
avrebbe dovuto essere eseguito in modo approssimato, mancando l’ufficiale
addetto ai siluri), ma subito dopo venne avvistata un’ombra sulla sinistra;
Hahndorff fece allora aprire il fuoco con i cannoni su entrambe le unità. A
questo punto l’Eclipse smise di
sparare sulla Donizetti e spostò il
suo tiro sulla TA 10, che venne a sua
volta devastata dal tiro britannico prima di poter imbastire un’efficace
reazione (secondo O’Hara, la reazione della TA
10 fu così debole che l’Eclipse
neanche se ne accorse: nel suo rapporto, Mack menzionò solo di aver fatto fuoco
contro una nave mercantile, senza neanche accennare alla scorta; secondo Smith,
l’Eclipse venne bersagliato senza
successo dalle batterie costiere). Le salve dell’Eclipse misero fuori uso entrambe le macchine della TA 10, scatenando un incendio nella sala
macchine; la torpediniera rimase inizialmente alla deriva al largo di Capo
Prasso, e fu infine costretta a portarsi all’incaglio presso Prassonisi
(estremità meridionale dell’isola) per non affondare, con cinque morti e
quattro feriti a bordo. Due giorni la torpediniera dopo sarebbe stata
definitivamente distrutta sul posto da attacchi aerei britannici, e fatta
saltare dai tedeschi stessi dopo averne asportato l’armamento ed ogni altro
materiale riutilizzabile. (Secondo O’Hara, la TA 10 non giunse a Prassonisi con i propri mezzi, bensì a rimorchio
di altre unità giunte in suo soccorso; qui il suo equipaggio, giudicando i
danni alle macchine irreparabili, decise di autoaffondarla).
Lo scontro era durato
pochissimo; quando fu concluso, l’Eclipse,
tenendo fede al suo nome, si dileguò immediatamente, senza fermarsi a recuperare
naufraghi. Riunitosi con Faulknor, Fury e Vasilissa Olga, sarebbe arrivato ad Alessandria alle 14.30 di
quello stesso giorno (le quattro unità avevano a bordo 128 prigionieri
tedeschi, naufraghi di un altro convoglio distrutto da cacciatorpediniere
britannici qualche giorno prima ed approdati a Stampalia, dov’erano stati
catturati dal locale presidio italiano).
Alcune fonti
affermano che avrebbe fatto parte del convoglio, insieme a Donizetti e TA 10, anche
un secondo mercantile, il piroscafo tedesco Dithmarschen
(anch’esso, secondo alcune di tali fonti, carico di prigionieri), che sarebbe
stato affondato insieme alla Donizetti.
Si tratta di un errore: il Dithmarschen
venne sì affondato in Egeo il 23 settembre 1943 (con 6 vittime tra i 51 uomini
dell’equipaggio), come la Donizetti,
ma ad un’altra ora (le 3.10) ed in tutt’altro luogo (tra Milo ed Iraklion).
Faceva parte di un altro convoglio (piroscafi Sonja e Pier Luigi,
cacciasommergibili UJ 2101 e UJ 2102), e venne affondato da un
attacco aereo, in un episodio del tutto distinto dall’affondamento della Donizetti.
Secondo alcune fonti,
la Donizetti si sarebbe capovolta per
poi affondare in pochi minuti (o addirittura “pochi secondi”) a sud della costa
orientale di Rodi (o a sudovest dell’isola); tuttavia, il diario della
divisione operativa del Comando della Kriegsmarine registra alla data del 23
settembre che "la Donizetti
stava bruciando quando fu vista per l’ultima volta, e dev’essere considerata
perduta", il che sembrerebbe indicare che nessuno assisté al suo
affondamento, del quale dunque si ignora l’esatto orario e “modalità”.
Ciò è confermato dal
giornale di bordo della TA 10, nel
quale il comandante Hahndorff annotò che quando – verso l’1.08 – la sua
torpediniera aprì il fuoco sul cacciatorpediniere britannico, scatenando su di
sé la devastante reazione che la ridusse rapidamente ad un relitto, la
motonave, già preda di violenti incendi, approfittò di questo diversivo per
tentare di fuggire, accostando in fuori ed allontanandosi verso est ad una
velocità che Hahndorff giudicò compresa tra cinque e sette nodi. Più tardi,
verso l’1.25, da bordo della TA 10 –
ormai già fuori combattimento – venne avvistato brevemente a poppavia dritta quello
che Hahndorff ritenne essere il secondo cacciatorpediniere britannico; prima
che la TA 10 potesse aprire il fuoco
contro di esso, il cacciatorpediniere scomparve nel fumo generato dal suo
stesso fuoco, dirigendosi ad alta velocità verso la Donizetti, ancora incendiata e visibile a circa 4500 metri di
distanza. Poco dopo, gli uomini della TA
10 videro verso poppa diverse vampe di cannonate, ma non riuscirono a
distinguere con esattezza cosa stesse accadendo. Poi più nulla: soltanto dei
bagliori d’incendio notati verso sudest, dopo parecchio tempo. Hahndorff ritenne
che la Donizetti fosse andata
perduta; non l’andò a cercare, ormai la TA
10 era ridotta così a mal partito che il massimo che il suo equipaggio potesse
fare era cercare di tenere a galla la nave e raggiungere la costa rodiota.
Anche il o i cacciatorpediniere nemici si erano dileguati nell’oscurità, senza
impartire il colpo di grazia alla TA 10
(l’ultima volta che ne aveva avvistato uno, all’1.25, Hahndorff era talmente
convinto che sarebbe stato affondato da dare ordine di distruggere i documenti
segreti). Nel diario del Comando delle forze navali tedesche dell’Egeo venne
annotato: "…all’1.25 un
cacciatorpediniere nemico bombarda la Donizetti da ridotta distanza, entrambe
le navi si allontanano rapidamente (…) Non
si sa niente sulla sorte della Donizetti".
Dopo essere stata
incendiata dall’Eclipse, la Donizetti scomparve senza lasciare, a
quanto risulta, neanche un superstite, né italiano né tedesco, nonostante la
temperatura presumibilmente non fredda dell’acqua (si era ancora a settembre),
la distanza apparentemente non grandissima dalla costa, e l’affondamento che
non sembrerebbe essere stato subitaneo (sulla base di quanto annotato sul
diario del comando navale tedesco e del fatto che non si capisce come una nave
sarebbe potuta affondare in pochi secondi dopo essere stata colpita unicamente
da tiro d’artiglieria, non avendo a bordo munizioni od altri carichi che
potessero esplodere: come attestato anche dal colonnello Angiolini, il quale
scrisse che «la nave non aveva munizioni
a bordo quindi non può essere saltata, aveva lancie di salvataggio e furono
imbarcati altri salvagenti individuali per completare la dotazione»). Anche
lo storico tedesco Gerhard Schreiber, autore di un dettagliato volume sui
prigionieri italiani catturati dalla Germania dopo l’8 settembre ("I militari italiani internati nei campi di
concentramento del Terzo Reich (1943-1945): traditi, disprezzati, dimenticati"),
esprime stupore sulla totale scomparsa dei prigionieri e dell’equipaggio della Donizetti: «…dato che il piroscafo [sic] aveva
imbarcazioni ed altri mezzi di salvataggio in numero sufficiente, ed inoltre
considerato che i prigionieri a bordo erano in maggior parte membri della
Marina italiana di Rodi. Certamente conoscevano il corretto comportamento da
seguire in caso di emergenza. Non si sa quale dramma ebbe luogo sulla Donizetti.
L’unica certezza è che due cacciatorpediniere britannici intercettarono il
trasporto dei prigionieri alle 00.28 del 23 settembre ed aprirono il fuoco su
di esso (…) I cacciatorpediniere
(…) si divisero i bersagli. Uno sparò
sulla nave mercantile, mentre l’altro affrontava la TA 10 (…) Dall’1.25 [i cacciatorpediniere] spararono sulla nave già incendiata, che
tuttavia stava ancora avanzando, da distanza ravvicinata. Il gruppo si
allontanò rapidamente dalla posizione della TA 10, il cui comandante non poté
così sapere di più sulla sorte del trasporto dei prigionieri. Da parte tedesca
non venne avviata un’operazione di soccorso, né ricerche».
Una possibile
spiegazione sulla totale mancanza di superstiti proviene dalla deposizione resa
nell’agosto 1945 dal capitano medico Corrado De Carolis: dopo aver parlato
dell’affondamento, questi spiegava che «durante
la notte il vento molto forte da maestrale aveva alzato una violenta mareggiata
che nella posizione presunta della motonave portava verso il largo, ragione per
cui i naufraghi difficilmente avrebbero potuto raggiungere la costa dell’isola
di Rodi».
Quello della Donizetti rimane un affondamento
alquanto misterioso, e probabilmente una delle più grandi perdite di vite umane
in mare senza sopravvissuti della seconda guerra mondiale.
La tragedia del 23
settembre determinò la temporanea sospensione del traffico convogliato tedesco nell’Egeo
meridionale.
Da parte britannica,
l’accaduto venne registrato da una serie di asciutte annotazioni sul diario di
guerra dell’Ammiragliato (Admiralty War Diary) in data 23 settembre 1943: «ECLIPSE (see 22 Sept), sank a westbound
enemy merchant ship at 0111 today, off the south-west point of Rhodes (C.in C.
M.E. states that the ship was carrying Italian prisoners of war). ECLIPSE was
engaged by shore batteries but had no casualties. One damaged enemy escort
vessel escaped inshore, but was subsequently located by aircraft aground near
Cape Prassonisi, Rhodes. ECLIPSE and destroyers returned to Alexandria at 1430
with 130 German prisoners captured in Stampalia»; «ECLIPSE M/V sunk. Operating under orders of Capt. (D) 8th D.F. ECLIPSE
sank westbound enemy merchant ship at about 0200/23 off south-west point of
Rhodes. She was engaged by shore batteries. One enemy escort escaped inshore.
No British casualties. Ship returning Alexandria. (C.in C. Levant, 230935C to
Admty., (R) C. in C. Med., C. in C. Med. (A).)»; «Situation Report No. 60. FAULKNOR ( D.8 ), FURY, ECLIPSE, QUEEN OLGA
left Leros after dark 22nd for Alexandria. FAULKNOR and QUEEN OLGA sweeping
west of Stampalia and through Kaso Strait, FURY and ECLIPSE patrolling North
and South ends of Scarpanto Strait. At 0111/23rd ECLIPSE sighted and sank
westbound enemy M/V off south-west points of Rhodes under fire of shore
batteries no British casualties. One enemy escort damaged escaped inshore.
Destroyers arrived Alexandria 1430 with 128 German prisoners captured in
Stampalia. 6 M.L.s now operating at Leros». La "Weekly Résumé" n.
213 del British War Cabinet, che copriva la settimana dal 23 al 30 settembre
1943, liquidò la tragedia in toni altrettanto sintetici («On the night of the 22nd/23rd H.M. destroyer Eclipse sank a westbound
ship off Rhodes and damaged an escort ship which was driven ashore and
subseqently sunk by aircraft»), al pari del diario del Comando delle forze
navali britanniche del Levante («H.M.S. ECLIPSE
patrolling south of Scarpanto Straits sank an M.V. close inshore under Cape
Prasonisi at 0130 and damaged an escorting destroyer which beached
itself. The 8th D/F returned to Alexandria with 128 German P.O.W.s from
Stampalia»).
Lo
scontro del 23 settembre e l’affondamento della Donizetti nel diario di guerra (KTB) del Comando navale tedesco
dell’Egeo (g.c. Thorsten Reich/Historisches Marinearchiv)
L’indomani, 24
settembre, il capitano di fregata Arcangioli compì un giro in automobile per
Rodi con la scusa di verificare se vi fossero ancora marinai dispersi in giro
per l’isola; in realtà, suo scopo era di cercare notizie sugli uomini imbarcati
sulla Donizetti. L’ufficiale
ispezionò la costa da Lindos a Prassonisi; giunto in quest’ultima località,
Arcangioli vi trovò il relitto della TA
10 “incagliata” ad un centinaio di metri dalla riva (secondo i diari del
comando della Kriegsmarine, la TA 10
era “all’ancora” nella baia di Prasso, a trecento metri dalla riva); più che
incagliata, la torpediniera era semiaffondata, dato che soltanto plancia e
fumaiolo uscivano dall’acqua. Della Donizetti
e degli uomini su essa imbarcati non v’era traccia; Arcangioli trovò i
naufraghi della TA 10 accampati nella
ex batteria Mocenigo, ma nessuno di essi seppe o volle dire alcunché in merito
alla sorte della motonave.
Durante il suo giro
il capitano di fregata Arcangioli s’imbatté in parecchi marinai che vivevano
alla macchia nelle campagne; come aveva già fatto subito dopo la resa, suggerì
loro di continuare così il più a lungo possibile, per evitare la deportazione
in Germania. Arcangioli fu poi arrestato il 3 ottobre dai tedeschi mentre
pianificava con altri ufficiali un tentativo di fuga, mandato ad Atene per via
aerea ed internato in un campo di prigionia.
La totale mancanza di
superstiti della Donizetti è attestata
da tutte le fonti ufficiali, italiane e tedesche, ma permane a questo riguardo
qualche mistero. Risale al gennaio 1946 un rapporto firmato dal colonnello
commissario Italo Felici, nel quale si trova una deposizione del marinaio Luciano
Cristofari (catturato dagli Alleati in Tunisia il 10 maggio 1943 e rimpatriato
dalla prigionia il 17 luglio 1945), il quale affermava di aver incontrato nell’ottobre
1943, nel campo di smistamento francese di Sidi Bel Abis (Algeria), due marinai
italiani – dei quali non rammentava il nome: ricordava solo che uno dei due
parlava con accento veneziano, e l’altro con accento barese – che gli avevano
raccontato di essere sopravvissuti della Donizetti,
partiti da Rodi con quella nave e raccolti dopo il suo affondamento, nella
terza decade di settembre 1943, da un cacciatorpediniere britannico, insieme ad
un’altra trentina di naufraghi. Tale informazione non è mai stata confermata
ufficialmente da parte britannica (e può apparire strano che dei prigionieri
italiani salvati dai britannici venissero mandati in un campo di prigionia, per
di più in Algeria, quando cacciatorpediniere britannici operanti in Egeo
avrebbero portati i naufraghi recuperati a Cipro, od in Egitto). Non sembra che
si sia mai potuto risalire all’identità dei due marinai incontrati da
Cristofari, il cui racconto, se il suo ricordo era corretto, risulterebbe
d’altro canto corrispondente – partenza da Rodi, affondamento nella terza
decade del settembre 1943, cacciatorpediniere britannici – a quanto si sa sull’affondamento
della Donizetti, particolari che
nell’ottobre 1943 non avrebbero dovuto poter essere a conoscenza di uomini che
non vi fossero stati personalmente coinvolti, tanto più tra gli internati in un
campo di prigionia nel Nordafrica francese.
(Ufficio Storico della Marina Militare, via pagina Facebook "DISPERSI 2° GUERRA MONDIALE: Mar Egeo – Isola di Rodi – Piroscafo DONIZETTI")
Un altro racconto,
certamente almeno in parte erroneo (dal momento che non esiste dubbio sul fatto
che la Donizetti fu affondata),
pervenne nel gennaio 1946 dal tenente di vascello Giordano Chierego, che a
Trieste aveva avuto ricevuto una lettera di Angelo Nenci, ex direttore di
macchina della Donizetti, il quale vi
narrava la seguente storia: «[Nenci] sbarcò
al Pireo nel 1943 e venne deportato in Polonia. Il Donizetti partì lo stesso
giorno dal Pireo e raggiunse Rodi da dove ripartì il 23 con i menzionati
prigionieri. Il signor Nenci credette anche lui in un primo tempo che il
piroscafo fosse affondato, ma in seguito in Polonia e precisamente nel campo di
Siedlice, il 12 gennaio 1944 incontrò due avieri allora giunti in prigionia e
provenienti da Lero. Costoro gli raccontarono che erano stati deportati da Rodi
col Donizetti, che detto piroscafo venne dirottato dagli Alleati ad
Alessandria, che loro due (con altri) vennero riportati dagli inglesi a Lero e
che a Lero erano stati fatti nuovamente prigionieri dai tedeschi e deportati in
Polonia. (…) Inoltre un altro
marittimo, il primo nocchiere VITI Guido già imbarcato sulla “Lazzaro
Mocenigo”, che dopo l’armistizio si trovava a Caifa [Haifa], quale base sommergibili, assicura di aver
visto il Donizetti in servizio a Caifa [quest’ultimo racconto è più
semplicemente spiegabile con un errore di Viti, che probabilmente vide solo una
nave che assomigliava alla Donizetti]».
Chierego avrebbe voluto recarsi a Trieste per parlare di persona con Viti e
Nenci e persino con i due avieri cui accennava quest’ultimo (che secondo
Chierego erano rientrati dalla prigionia e vivevano nella zona A o B del
“Territorio Libero di Trieste”), ma non è noto se poi sia effettivamente
riuscito a farlo: la difficile situazione del confine orientale dell’epoca, che
vedeva Fiume occupata ed annessa dalla Jugoslavia, avrebbe reso un simile
incontro molto difficile.
(Ufficio Storico della Marina Militare, via pagina Facebook "DISPERSI 2° GUERRA MONDIALE: Mar Egeo – Isola di Rodi – Piroscafo DONIZETTI")
Il mistero su questi
due racconti rimane: ed anzi ad essi se ne è aggiunto un altro.
È di poco tempo fa
(maggio 2018) la pubblicazione di un libro di Sergio Calcagnile, “Nonno Egeo”,
nel quale si narra la storia, parzialmente romanzata, di Michele Caradonna,
maresciallo maggiore della Divisione "Regina" di stanza a Rodi,
venticinquenne nel 1943. Secondo i racconti che Caradonna fece, in tarda età,
al giovane nipote (appunto l’autore del libro), cui lasciò un manoscritto nel
quale raccontava la conclusione della propria vicenda bellica, Caradonna
sarebbe stato imbarcato come prigioniero proprio sulla Donizetti, sopravvivendo al suo affondamento. Diversi particolari
del racconto relativo all’affondamento, però, sembrano poco compatibili con il
poco che si sa sulla fine della Donizetti:
non fu questa, purtroppo, l’unica nave inabissatasi in Egeo con prigionieri
italiani, e si potrebbe pensare che forse Caradonna si trovasse a bordo di
un’altra nave, anch’essa affondata. Anche questa è una vicenda che meriterebbe
ulteriore approfondimento.
Della Donizetti non si era trovato non solo
neanche un sopravvissuto, ma neanche un corpo od un rottame, ed i superstiti
della TA 10 erano stati molto
reticenti sull’accaduto: per parecchio tempo, siccome da parte italiana non si
aveva alcuna notizia sulla motonave, che sembrava semplicemente essere
scomparsa corpo e beni dopo lo scontro del 23 settembre, circolarono a riguardo
le voci più disparate. Durante le indagini compiute in merito alla scomparsa
della motonave, riferisce l’USMM, «più volte qualcuno aveva riferito che esso
[il Donizetti] era stato dirottato ed
era approdato a Cipro». Altri ancora, forse credendoci, forse soltanto per la
fievole speranza che gli imbarcati potessero essere ancora vivi, parlavano di
dirottamento in Egitto, o persino in Mar Nero. Il capitano medico De Carolis,
nella sua deposizione dell’agosto 1945, affermò per parte sua che già il giorno
successivo alla partenza circolasse voce a Rodi che la nave fosse stata
affondata a cannonate dagli Alleati presso la costa sudorientale dell’isola; e
che però girasse anche un’altra voce, secondo cui la Donizetti si era allontanata verso sud con incendio a bordo.
Anche il tenente del
CREM Guglielmi, già dell’Ufficio Comunicazioni di Rodi (e deportato in Germania
nel gennaio 1944), raccontò nel dicembre 1945 una storia simile (precisando che
doveva affidarsi interamente alla sua memoria, visto che diario ed appunti gli
erano stati requisiti dai tedeschi durante la prigionia): «lo scontro [tra il convoglio Donizetti-TA 10 ed i cacciatorpediniere
britannici] fu visto anche dalla costa da
elementi locali dell’isola i quali dettero la seguente versione sulla
battaglia: “la torpediniera tedesca fu subito colpita e riuscì a portarsi con i
propri mezzi sulla secca di Grassonisi [sic], distante una decina di miglia dalla zona dove avvenne lo scontro.
(Estremità meridionale della isola di Rodi). Il Donizetti fu visto allontanarsi
verso il largo con incendio a bordo”. L’equipaggio della torpediniera si salvò
quasi al completo mentre del piroscafo e del suo pietoso carico non si seppe
mai nulla né fu recuperata qualche salma o qualche oggetto per confermare l’ipotesi
dell’affondamento. Non è da scartare, però, l’ipotesi che la corrente della
zona abbia portato al largo, anziché alla riva, eventuali relitti del piroscafo.
Comunque per mancanza di prove del naufragio, negli ambienti locali circolò la
voce che il Donizetti fosse stato dirottato a Cipro dagli inglesi».
(Saputo, però, che nessuno dei prigionieri imbarcati sulla Donzietti aveva mai
dato notizia di sé dal settembre 1943, Guglielmi si dichiarò certo che la
motonave fosse stata affondata e che «solamente
circostanze eccezionali e le condizioni particolari del mare in quella zona
impedirono il recupero dei relitti»).
Simili voci sono
riferite anche dal capitano di fregata Arcangioli nella relazione redatta al
rientro dalla prigionia: «Il giorno dopo
si sparge la voce che nella notte sembra all’altezza del Capo Prassonisi, navi
inglesi abbiano attaccato il convoglio e affondato il CT tedesco. Voci
contrastanti sulla sorte del Donizetti. La cosa mi addolora. (…) Giunto a Prassonisi trovo a circa 100 metri
dalla costa il CT tedesco affondato che sporge dall’acqua. Nessuna traccia del
naufragio del Donizetti. (…) [chiedo?]
notizie del Donizetti e tutti rispondono concordemente che il Donizetti era
stato visto allontanarsi verso il sud con lieve incendio a bordo».
Purtroppo gli “OMISSIS” dello stralcio della relazione impediscono di capire chi siano i “tutti” che concordemente rispondono che la motonave era stata vista allontanarsi con “lieve” incendio a bordo: i superstiti della TA 10? Però secondo il già citato volume dell’USMM Arcangioli non avrebbe ottenuto da essi notizie sulla sorte di quella nave.
Stralcio della relazione del capitano di fregata Arcangioli (Ufficio Storico della Marina Militare, via pagina Facebook "DISPERSI 2° GUERRA MONDIALE: Mar Egeo – Isola di Rodi – Piroscafo DONIZETTI") |
Purtroppo gli “OMISSIS” dello stralcio della relazione impediscono di capire chi siano i “tutti” che concordemente rispondono che la motonave era stata vista allontanarsi con “lieve” incendio a bordo: i superstiti della TA 10? Però secondo il già citato volume dell’USMM Arcangioli non avrebbe ottenuto da essi notizie sulla sorte di quella nave.
Su questo tono fu
anche la testimonianza del colonnello Angiolini («il piroscafo Donizetti fu visto allontanarsi verso Est con incendio a
bordo (…) Non sono mai stati raccolti
naufraghi né relitti sulla costa di Rodi»), il quale anzi si spinse ad
affermare che «si suppose che i marinai
avessero attuato il loro piano di impossessarsi della nave e di dirigersi ad
Alessandria». Così pure il tenente di vascello Chierego, nel dicembre 1945:
«Corsero le seguenti voci: a) che era
stato dirottato a Cipro dagli inglesi. b) Che era stato silurato dalla stessa
torpediniera tedesca di scorta prima di essere sopraffatta. c) Che i marinai
Italiani, approfittando della confusione, avevano sopraffatto l’esiguo
personale di guardia ed avevano diretto il p/fo ad Alessandria. (…) Interrogai più volte il Cap. di Corvetta
tedesco Stumpff comandante del porto di Rodi sulla sorte del p/fo, ma mai volle
dirmi nulla. Arguii da ciò che la fine del piroscafo rappresentasse una
menomazione per la Marina Tedesca e cioè che il p/fo fosse fuggito. Interrogai
infinite volte anche gli abitanti dell’isola senza alcun risultato. A nulla
approdarono anche le informazioni che cercai di raccogliere in Germania fra i
prigionieri prima e dopo la mia liberazione. Non ho mai finora creduto che il
piroscafo fosse affondato in quell’occasione perché, essendo il combattimento
notturno avvenuto a pochissima distanza dalla costa, qualche relitto o qualche
cadavere sarebbe stato certamente con tempo gettato sulla spiaggia. Non mi
risulta che nulla di questo sia avvenuto. Il colonnello di SM Angiolini (…)
mi disse un giorno in gran segreto a Rodi
che aveva saputo che il p/fo era salvo, ma non volle mai dirmi la fonte della
sua informazione».
Ed il maggiore di porto Capodanno, nel novembre 1945: «il mattino successivo alla partenza del Donizetti,
si diffuse a Rodi la voce che il piroscafo e la sua scorta (…) erano stati attaccati, a poche ore dalla
partenza, da siluranti inglesi, che il Donizetti era riuscito a sfuggire
all’attacco e all’inseguimento (alcuni dicevano che fosse stato catturato dagli
inglesi ed avviato alle loro basi), e che la nave di scorta, colpita, era
andata a naufragare (…)».
La
relazione del tenente di vascello Giordano Chierego (Ufficio Storico della
Marina Militare, via pagina Facebook
"DISPERSI 2° GUERRA MONDIALE: Mar Egeo – Isola di Rodi – Piroscafo DONIZETTI"):
Relazione del maggiore di porto Francesco Capodanno (Ufficio
Storico della Marina Militare, via pagina Facebook "DISPERSI 2° GUERRA MONDIALE: Mar Egeo – Isola di Rodi –
Piroscafo DONIZETTI")
Anche il capo segnalatore Gino Vecchi, che con i suoi uomini ancora aspettava che accadesse qualcosa nel villaggio di Monòlito, scriveva nel suo diario, alla data del 25 settembre 1943: "Si dice che il piroscafo partito ieri l’altro, a
bordo del quale c’erano, tra i marinai, persone di mia conoscenza, cioè Capo
Zuccaro, Rivieccio, Valerio, Viotti ed altri amici, sia stato catturato dagli
inglesi ed il CT di scorta affondato. Non pare quindi vero che anche il
piroscafo sia stato affondato come si credeva in un primo tempo. Il fatto che i
tedeschi abbiano cercato d’allontanare a Rodi, per primi, i marinai è
significativo. Davano loro ombra e temevano qualche rivolta".
Widmer Lanzoni, l’allievo ufficiale sbarcato nell’aprile 1943 dopo dieci mesi trascorsi sulla Donizetti, ebbe modo di raccogliere nel 1945 da un militare conterraneo appena rientrato dalla prigionia in Germania, tale Vignuzzi (che aveva conosciuto nel marzo 1943 proprio sulla Donizetti, quando questi vi aveva viaggiato con il suo reparto per raggiungere Creta), un’altra delle mille voci fantasiose che giravano su quanto fosse accaduto a quella nave: "…era stata affondata dai tedeschi mentre con circa 5000 soldati tentava di raggiungere Cipro". Quando seppe, tempo dopo, cosa realmente era accaduto, Lanzoni, che la Donizetti aveva avuto modo di conoscerla bene, azzardò questa ipotesi sul suo affondamento: "Aveva poco pescaggio [il pescaggio minimo da lui registrato nel brogliaccio durante i vari viaggi intrapresi era stato di 3,40 metri a prua e 4,40 a poppa; quello massimo, di 4,90 a prua e 4,80 a poppa] ed era abbastanza alta di bordo, con 1800 “passeggeri” più l’equipaggio, poteva avere un carico di appena qualche centinaio di tonnellate. Probabilmente in gran parte, trattandosi di uomini e non di merci, sistemate abbastanza in alto sì da avere un baricentro molto alto, il che può spiegare il rapido capovolgimento che non ha permesso a nessuno di salvarsi".
Widmer Lanzoni, l’allievo ufficiale sbarcato nell’aprile 1943 dopo dieci mesi trascorsi sulla Donizetti, ebbe modo di raccogliere nel 1945 da un militare conterraneo appena rientrato dalla prigionia in Germania, tale Vignuzzi (che aveva conosciuto nel marzo 1943 proprio sulla Donizetti, quando questi vi aveva viaggiato con il suo reparto per raggiungere Creta), un’altra delle mille voci fantasiose che giravano su quanto fosse accaduto a quella nave: "…era stata affondata dai tedeschi mentre con circa 5000 soldati tentava di raggiungere Cipro". Quando seppe, tempo dopo, cosa realmente era accaduto, Lanzoni, che la Donizetti aveva avuto modo di conoscerla bene, azzardò questa ipotesi sul suo affondamento: "Aveva poco pescaggio [il pescaggio minimo da lui registrato nel brogliaccio durante i vari viaggi intrapresi era stato di 3,40 metri a prua e 4,40 a poppa; quello massimo, di 4,90 a prua e 4,80 a poppa] ed era abbastanza alta di bordo, con 1800 “passeggeri” più l’equipaggio, poteva avere un carico di appena qualche centinaio di tonnellate. Probabilmente in gran parte, trattandosi di uomini e non di merci, sistemate abbastanza in alto sì da avere un baricentro molto alto, il che può spiegare il rapido capovolgimento che non ha permesso a nessuno di salvarsi".
Pietro Raffaelli, che
nel 1943 era delegato del governo italiano nell’isola di Simi, scrisse nel
dopoguerra nel libro “Ore di guerra a Simi” che a fine settembre 1943, in
occasione di un pranzo offerto dal tenente colonnello britannico Turnbull (capo
della commissione d’armistizio in Egeo, in quel periodo in visita d’ispezione a
Simi), al momento del brindisi alla fine del pranzo «il colonnello (…) ci
comunicò che il piroscafo Donizetti,
in partenza da Rodi con a bordo circa 5000 militari italiani prigionieri dei
tedeschi, era stato dirottato e la torpediniera di scorta affondata». (Non era
vero, ovviamente, ma una simile dichiarazione da parte di Turnbull sembrerebbe
significare che da parte britannica si sapeva – forse grazie alla già citata
segnalazione della radio clandestina di Rodi – che la Donizetti era carica di prigionieri italiani, e che forse
l’originario piano britannico fosse proprio quello di dirottarla a Cipro, una
volta neutralizzata la scorta, e liberare i prigionieri. Rimane il dubbio se
tutto ciò sia stato comunicato all’Eclipse
per tempo). Raffaelli annotava poi che purtroppo la notizia era risultata
errata, dal momento che in realtà la nave era stata affondata con la morte di
tutti i prigionieri; ed aggiungeva: «sembra che la torpediniera tedesca, prima
di affondare, abbia tirato sul Donizetti».
A questo proposito conclude il già citato volume dell’U.S.M.M.: «…dobbiamo
ammettere che l’ipotesi dell’affondamento per azione tedesca appare abbastanza
attendibile. Essa potrebbe spiegarsi con un’azione navale che il Ct Eclipse, per motivi che ignoriamo,
avesse interrotto prima della sua conclusione: la torpediniera tedesca di
scorta, rimasta sola, prima di salvarsi dall’affondamento con l’incaglio,
potrebbe aver sparato contro il piroscafo facendolo affondare fuori di vista
degli inglesi. Conciliare questa versione con i documenti inglesi non è facile,
ma accade talvolta, nello scrivere la storia, di dover lasciare qualche punto
interrogativo». Che la TA 10 abbia
intenzionalmente fatto fuoco sulla Donizetti,
però, sembra piuttosto improbabile: è comprovato da testimonianze di superstiti
che in circostanze simili (affondamento di navi cariche di prigionieri
italiani: in particolare, la motonave Sinfra
il 19 ottobre 1943 ed il piroscafo Petrella
l’8 febbraio 1944) le guardie tedesche a bordo delle navi in affondamento
aprirono il fuoco sui prigionieri italiani che tentavano di mettersi in salvo,
uccidendone un gran numero; ma altra cosa sarebbe stata l’apertura del fuoco,
da parte di un’altra nave (la TA 10),
contro un bastimento – la Donizetti –
che aveva a bordo, insieme ai prigionieri italiani, anche militari tedeschi di
scorta e di equipaggio. Anche il personale tedesco imbarcato sulla Donizetti perì al completo, seguendo la
sorte dei prigionieri italiani; e sembra decisamente improbabile che gli uomini
della TA 10 possano aver fatto fuoco
sulla nave che aveva ancora a bordo loro connazionali (per non parlare del
fatto che, se la Donizetti fosse
stata danneggiata ma “salvabile”, probabilmente da parte tedesca – anche senza
curarsi della vita dei prigionieri, che evidentemente non era in cima alle loro
priorità – si sarebbe tentato di portarla all’incaglio sulla vicina costa per
recuperarla, e non di distruggere una nave che poteva ancora servire). Mentre
non è forse implausibile che, nella confusione del combattimento notturno, dei
colpi sparati dalla TA 10 contro i
cacciatorpediniere britannici possano aver colpito invece la Donizetti.
Quando nel novembre
1945 la Commissione per la tutela degli interessi italiani in Egeo domandò
notizie in merito alla Donizetti al
Defence Security Office britannico del Dodecaneso, la laconica risposta fu
"Ref your enquiry concerning the
above steamer, please note that it was sunk in a naval action south west of
Rhodes on 23th sept 1943".
Nel gennaio 1946, un
telegramma del Ministero della Marina inviato in risposta ad una richiesta di
notizie da parte dell’Ente Comunale di Assistenza Centro Raccolta Rimpatriati
di Vicenza spiegava: «fino ad oggi,
nessun superstite di tali unità [Donizetti
ed altre imbarcazioni minori partite da Rodi con prigionieri], almeno del personale della Regia Marina, è
emerso, né si hanno per altra fonte, dichiarazioni o testimonianza della sorte
di quelle unità». Un altro documento del febbraio 1946 confermava che non
era noto alcun superstite della Donizetti,
e denotava anche una certa confusione relativamente alla data della sua
partenza, che era erroneamente indicata (come pure in altri documenti del
periodo) nel 19 settembre 1943, anziché nel 23.
Un telegramma del 24 maggio
1946 dell’Ufficio Requisizioni del Ministero della Marina, indirizzato a
Maripers ed al Gabinetto della Marina, attestava la grande confusione che a un
anno dalla fine della guerra ancora circondava la sorte della Donizetti: in tale documento, dopo aver
precisato che «l’unità requisita in
argomento all’atto dell’armistizio venne catturata dai tedeschi al Pireo, la
società armatrice fu, in data 29 luglio 1945, invitata a procedere
all’abbandono della nave a favore della R. Marina in relazione all’art. 1 del
R.D. 22 dicembre 1941 n° 1601», si affermava che «la Società TIRRENIA in esito a detto invito ha inviato a questo
Maristat la lettera n° 630/T.C./91 (…) dalla
quale risulterebbe che l’unità venne catturata dagli inglesi il 23/9/1943 nei
pressi di Rodi ed avviata ad Alessandria d’Egitto». Si proseguiva poi
elencando tutte le diverse versioni esistenti sulla perdita della motonave: «Dagli stralci di relazioni fatte da
Ufficiali e militari del CREM risultano invece le seguenti notizie in merito
alla sorte dell’Unità in argomento, notizie che peraltro sono discordi fra di
loro: 1a NOTIZIA: dopo l’armistizio sotto dominio tedesco, giunta a
Rodi con torpediniera di scorta e ripartita lo stesso giorno con 1500
prigionieri fra marinai ed avieri; la Torpediniera è stata semidistrutta da
aerei e arenata nei pressi di Iannadi. 2a NOTIZIA: partita il
27/9/1943 da Rodi con 2500 prigionieri italiani, di cui 1500 marinai;
risulterebbe catturata da navi di superficie. 3a NOTIZIA: catturata
dagli inglesi ed attualmente a Cipro. 4a NOTIZIA: un p.fo tipo DONIZETTI
finì sugli scogli nella rada di Portolago in località S. Spirito a seguito di
fortunale. Alla fine del febbraio 1944 giaceva sugli scogli ove si ritiene si
trovi ancora. I tedeschi hanno fatto inutilmente il possibile per effettuarne
il ricupero con mezzi locali insufficienti». Infine, si spiegava che «in seguito a richiesta dell’Ufficio
Operazioni di questo Maristat la Commissione Italiana Navale presso il Comando
in Capo del Mediterraneo in Algeri in data 9 maggio 1944 informò che la M/n Donizetti
venne affondata verso la metà di dicembre 1943 durante un attacco ad un
convoglio tedesco». Dopo una tale sfilza di notizie contraddittorie, il
telegramma concludeva: «Si prega pertanto
codesto G.U. di voler interessare le autorità Alleate al fine di conoscere la
sorte subita dall’unità in parola».
(Ufficio
Storico della Marina Militare, via pagina Facebook "DISPERSI 2° GUERRA MONDIALE: Mar Egeo – Isola di Rodi –
Piroscafo DONIZETTI")
Le voci infondate sul
dirottamento della Donizetti erano
dure a morire: l’ex comandante del rimorchiatore requisito Aguglia, ascoltato nell’ottobre 1946, raccontò che qualche
settimana dopo la caduta di Rodi era giunto ad Haifa, dove l’Aguglia si era rifugiato dopo la fuga
dall’isola, il capitano di corvetta Corradini della cannoniera Caboto (rimasta immobilizzata a Rodi e
catturata dai tedeschi), il quale aveva raccontato agli italiani presenti ad
Haifa che «la m/n Donizetti, facente
funzioni di trasporto prigionieri, in uno dei suoi viaggi veniva fatta
dirottare, da cacciatorpediniere inglesi, per il porto di Smirne e che essa con
tutto il suo carico di uomini si trovava al sicuro in quel porto».
Testimonianza del comandante dell’Aguglia (Ufficio Storico della Marina Militare, via pagina Facebook "DISPERSI 2° GUERRA MONDIALE: Mar Egeo – Isola di Rodi – Piroscafo DONIZETTI") |
La Commissione per la
tutela degli interessi degli italiani nel Dodecaneso tentò fin dal maggio 1945,
senza successo, di rintracciare un ruolo del personale imbarcato sulla
motonave. In un telegramma all’Ufficio Assenti del Ministero della Marina,
datato 27 giugno 1946, la Commissione relazionava: «…i componenti della R. Marina che si distinsero particolarmente per
l’azione svolta nei combattimento dall’8 all’11 settembre 1943, vennero quasi
tutti, ad eccezione di una piccola aliquota, imbarcati in data 22 settembre
1943, sulla nave Donizetti, che doveva trasportarli, quali prigionieri di
guerra, in Continente. (…) Risulterebbe
(…) che nessuno dei 2.500 e più
deportati, di cui 122 avieri ed oltre 2.400 marinai, riuscì a salvarsi. Tale asserzione
si fonda sul fatto che né quest’isola né le navi inglesi raccolsero naufraghi.
Il cacciatorpediniere germanico che scortava la nave (…) venne ad arenarsi a Capo Prassonisi; i
militari germanici, ivi imbarcati, superstiti, confermarono che la nave Donizetti
affondò immediatamente e che, secondo la loro opinione, nessuno si sarebbe
salvato». Un funzionario dell’Ufficio Assenti, in una lettera in cui
chiedeva l’aiuto dell’ingegner Antonio Macchi, membro della Commissione,
confessava: «…mi rivolgo a Lei per (…) chiarire
il mistero che ancora persiste circa la fine del Donizetti e del personale che
fu imbarcato per la deportazione. (…) All’Ufficio
Assenti (…) giungono solo frammenti
di notizie ed una discordante con l’altra. Mi sto lambiccando il cervello per
ricostruire i ruoli del personale imbarcato ma purtroppo è compito difficile
(…) All’uopo abbiamo interessato gli
Alleati a fornire notizie sul Donizetti poiché alcuni lo ritengono dirottato in
Egitto ed a Cipro, altri in Mar Nero. La verità solo Iddio la conosce. (…) Come vede, il mio Ufficio brancola nel buio
per quanto riguarda l’Egeo e moltissime famiglie scrivono per conoscere la
sorte toccata ai loro cari».
(Ufficio
Storico della Marina Militare, via pagina Facebook "DISPERSI 2° GUERRA MONDIALE: Mar Egeo – Isola di Rodi –
Piroscafo DONIZETTI")
Nell’ottobre 1946,
per contro, l’Ufficio Informazioni dell’Ufficio Regionale per la Lombardia del
Ministero Assistenza Post-Bellica rispondeva alla signora Margherita Colliva,
da Genova, che domandava notizie sul sergente segnalatore Annibale Remotti, che
secondo informazioni della Commissione per la tutela degli interessi italiani
nel Dodecaneso questi risultava essere stato imbarcato il 22 settembre 1943
sulla Donizetti, che era stata
affondata il giorno seguente per azione aeronavale britannica; e che tale
ufficio non era in possesso dell’elenco "dei pochi superstiti" della Donizetti. Questo sembra però essere
l’unico riferimento all’esistenza di sopravvissuti in uno dei moltissimi
documenti redatti nel dopoguerra sull’affondamento della Donizetti, e date le circostanze ed il tono della risposta sembra più
verosimile che sia stato un errore di chi la scrisse. Anche la Croce Rossa
Italiana, in una comunicazione del gennaio 1946, affermava che «…nessuno pare si sia salvato».
Il 6 marzo 1948 il
Ministero della Difesa – Aeronautica, Direzione Generale Personale Militare e
Scuole, in seguito a numerose richieste da parte di parenti di avieri dispersi
sulla Donizetti, chiedeva all’Ufficio
Assenti e Reduci del Ministero della Difesa – Marina «di voler far pervenire, qualora ne fosse in possesso, un elenco degli
scampati all’affondamento della nave di cui sopra [Donizetti]», ma la risposta fu «…dagli
elementi in possesso di questo Segretariato Generale Ufficio Assenti e Reduci
risulta che (…) malgrado le accurate
indagini non risulta vi sia stato alcun superstite fra il personale imbarcato
sul Piroscafo [sic] Donizetti».
(Ufficio Storico della Marina Militare, via pagina Facebook "DISPERSI 2° GUERRA MONDIALE: Mar Egeo – Isola di Rodi – Piroscafo DONIZETTI") |
Secondo recenti
notizie, il relitto della Donizetti
sarebbe stato localizzato dal subacqueo greco Kostas Thoctarides. In base a rilevazioni
mediante il sonar a scansione laterale da questi effettuate, la motonave giacerebbe
spezzata in due a 105 metri di profondità, al largo della costa occidentale di
Rodi. Ulteriori spedizioni sul relitto sono previste nel prossimo futuro.
Quella della Donizetti fu la prima grande tragedia
che ebbe per protagonisti i prigionieri italiani catturati dai tedeschi in
Egeo: altre ne seguirono, ancora peggiori, nei mesi a venire.
Il 20 settembre 1943,
tre giorni prima del disastro della Donizetti,
il piroscafo greco Ellinico Horio era
stato bombardato a Scarpanto da aerei britannici, con parecchie vittime tra i
550 prigionieri italiani a bordo; il 25 settembre i prigionieri superstiti e
l’equipaggio greco riuscirono ad impadronirsi della nave e fecero rotta verso
Cipro o la Palestina, ma l’Ellinico Horio venne rintracciato e affondato
dalla Luftwaffe, apparentemente senza sopravvissuti.
Il 28 settembre 1943
saltò su una mina una “vecchia conoscenza” della Donizetti: l’Ardena, il
piroscafo passeggeri tedesco (ex greco) che in tante occasioni, durante i
viaggi tra il Pireo ed il Dodecaneso, aveva accompagnato i convogli di cui
faceva parte la Donizetti con
funzioni di nave salvataggio naufraghi. Adesso trasportava anch’esso
prigionieri italiani: 840 uomini della Divisione "Acqui", reduci dal
tristemente famoso eccidio di Cefalonia, scortati da 120 militari tedeschi. Il
piccolo e vecchio Ardena s’inabissò
rapidamente, portando con sé 720 italiani e 59 tedeschi.
Il 10 ottobre 1943 fu
invece una modernissima motonave ex italiana, la Mario Roselli, ad essere bombardata e mitragliata da velivoli
britannici mentre imbarcava prigionieri italiani nella rada di Corfù: colpita
mortalmente, la nave colò a picco il giorno seguente. Su 5500 prigionieri
italiani presenti a bordo della Roselli,
1302 persero la vita.
Tre giorni dopo il
piroscafetto tedesco Marguerite, ex
spagnolo Maria Amalia, saltò
anch’esso su una mina durante la navigazione da Argostoli a Patrasso con
prigionieri di Cefalonia, proprio com’era accaduto all’Ardena due settimane prima. Questa volta morirono 544 prigionieri
italiani, su 900 che si trovavano a bordo, e cinque dei 25 soldati tedeschi che
li scortavano.
Passò soltanto una
settimana prima che si verificasse un’altra ecatombe: il 20 ottobre 1943 la
motonave ex francese Sinfra, in
navigazione da Iraklion al Pireo con 2389 prigionieri italiani, 71 partigiani
greci e 204 soldati tedeschi, venne affondata da aerei angloamericani al largo
della costa cretese. Morirono più di duemila uomini, tra cui almeno 1850
prigionieri italiani, forse anche 1998 (le fonti divergono in merito). Sinistra
coincidenza: anche la Sinfra, come l’Ardena, aveva più volte viaggiato
insieme alla Donizetti, prima
dell’armistizio.
Il 19 novembre 1943
fu il caicco greco Aghios Antonios Kal 89
ad essere affondato col cannone e col siluro dal sommergibile polacco Sokol, nella baia di Sitia (Creta). Su
208 prigionieri italiani che aveva a bordo, imbarcati a Scarpanto, 110 rimasero
uccisi.
L’8 febbraio 1944 il
sommergibile britannico Sportsman
silurò e affondò al largo di Creta il piroscafo tedesco Petrella, ex italiano Capo
Pino, ex francese Aveyron: di
3173 prigionieri italiani che aveva imbarcato a Suda per portarli al Pireo,
almeno 2646 persero la vita.
Il 12 febbraio 1944
il vecchio piroscafo ex norvegese Oria,
con oltre quattromila prigionieri della guarnigione di Rodi (in massima parte
dell’Esercito) stipati a bordo, naufragò in una tempesta al largo di Capo
Sounion: i superstiti tra i prigionieri furono appena 37 (oltre a 6 militari
tedeschi, su 90 imbarcati, e sei-otto marittimi greci e norvegesi
dell’equipaggio), mentre morirono in 4079, la più grande tragedia del mare mai
avvenuta nel Mediterraneo (le fonti divergono sul numero delle vittime e dei
superstiti: tra i prigionieri italiani, secondo altre fonti, ci sarebbero stati
4062 morti e 11 superstiti, o 4025 morti e 21 superstiti, o 4184 morti e 49
superstiti, o 4087 morti e 28 superstiti). Mentre la quasi totalità di queste
vittime erano prigionieri dell’Esercito, morirono sull’Oria anche sedici uomini di Marina Rodi.
Il 4 marzo 1944
aerosiluranti Alleati affondarono il piroscafetto greco Sifnos al largo di Creta, provocando la morte di 59 dei 90
prigionieri italiani che erano a bordo.
L’ultima tragedia si
verificò il 9 giugno 1944, quando il sommergibile britannico Vivid affondò coi suoi siluri il
piroscafo greco Tanais, in
navigazione da Iraklion alla Grecia continentle: affondarono con la nave quasi
tutti i prigionieri che essa trasportava, ossia soldati italiani, partigiani
greci e civili cretesi di religione ebraica, questi ultimi deportati verso il
campo di sterminio di Treblinka. Le vittime italiane sono indicate da fonti
diverse come 227, 112, 300, o 800. Soltanto quattordici tra italiani, greci ed
ebrei cretesi sopravvissero, mentre dei tedeschi e dei greci dell’equipaggio e
del corpo di guardia morirono in 38 su 76.
I rapporti del Gruppo
d’Armate "E" (generale Alexander Löhr) liquidavano senza molto
riguardo quella immane perdita di vite, lamentando piuttosto che "la
perdita di quel tonnellaggio mercantile in effetti non trovava
giustificazione". Identiche erano state le parole dell’ammiraglio Lange
all’indomani della tragedia della Donizetti:
nel diario del Comando navale tedesco dell’Egeo, lo stesso 23 settembre 1943
Lange scriveva che se anche "nessuna considerazione dev’essere rivolta ai
prigionieri italiani (…) la perdita di tonnellaggio mercantile di per sé non è
giustificabile".
La sorte non fu
benigna neanche con l’Eclipse,
inconsapevole (o no?) responsabile della tragedia della Donizetti: il cacciatorpediniere britannico sopravvisse alla sua
vittima esattamente di un mese ed un giorno. Il 24 ottobre 1943, mentre
trasportava rinforzi britannici destinati a Lero, l’Eclipse urtò una mina ad est di Calino ed affondò in cinque minuti,
portando con sé 119 membri dell’equipaggio e 134 soldati britannici. Il
comandante Mack fu tra i sopravvissuti.
Su 39.100 uomini che
componevano la guarnigione di Rodi, alla fine della guerra 6520 vennero
dichiarati «dispersi», 20 per via aerea e tutti gli altri in mare: un uomo ogni
sei. I caduti nei combattimenti dal 9 all’11 settembre erano stati solo una
minima parte di coloro che non fecero mai ritorno da Rodi: come detto, il loro
numero oscillerebbe tra 125 e 447. Dopo la resa, altri 90 uomini erano stati
fucilati, 40 di essi senza un processo (tra di essi vi fu anche il capo
musicista di Marina Pantaleo Sansò, prodigatosi per aiutare i militari
compatrioti nell’isola; venne fucilato dai tedeschi per attività svolta contro
di essi). 40 erano deceduti per malattia, 36 per deperimento organico causato
da denutrizione, 93 per bombardamenti ed incidenti, 63 per cause ignote.
La larga maggioranza
dei dispersi aveva trovato la morte negli affondamenti della Donizetti e dell’Oria; altri, il cui numero non si saprà mai, scomparvero nel
tentativo di fuggire da Rodi con mezzi di fortuna o morirono di stenti nei
campi di prigionia allestiti dai tedeschi sull'isola a partire dal settembre
1944. Questi erano tre, uno nella parte settentrionale dell’isola, uno nel
centro ed uno nella parte meridionale; vi furono internati circa 1200 militari
italiani che rifiutavano di collaborare, nonché civili greci sospettati di
sabotaggio o di appoggio agli Alleati. Particolarmente famigerato divenne il
campo di prigionia della "Casa dei Pini", dove alla denutrizione ed
al lavoro forzato si univa un regolamento che prevedeva la pena di morte per
"reati" quali: «…recidiva nella
sosta al gabinetto per oltre tre minuti; (…) recidiva nel tentativo di parlare con altro internato durante la
mezz’ora di uscita quotidiana dalla tenda; (…) recidiva reiterata nel bussare ad una tenda anche se per cercare del
cibo; (…) mancata sorveglianza sugli
altri internati rendendone in questo modo possibile l’evasione [per ogni
detenuto evaso sarebbero fucilati tre detenuti]».
Nonostante minacce e
promesse, solo una minima frazione dei prigionieri – a seconda delle fonti, tra
i 1500 e i 5000, di cui soltanto una sessantina appartenenti alla Marina (un
maresciallo e 20 marinai come volontari combattenti, una quarantina di
sottufficiali e marinai come lavoratori) – aderì alla Repubblica Sociale Italiana
od alla Wehrmacht; tra questi pochi, i primi ad aderire furono prevedibilmente le
300 camicie nere della 201a Legione M.V.S.N. (che venne trasformata
in 201a Legione "Conte Verde" della Guardia Nazionale
Repubblicana) e della Milizia Portuaria. Con parte degli aderenti venne creato il
Reggimento Volontari "Rodi" della R.S.I., ma la maggior parte di
coloro che aderirono a Salò vennero trasferiti in Italia, dal momento che il
comando tedesco di Rodi non vedeva di buon occhio la presenza nell’isola di reparti
italiani. A questo si aggiungeva il cronico problema alimentare: dopo la
ritirata tedesca dalla Grecia, nel 1944, Rodi rimase completamente isolata e
tagliata fuori da ogni possibilità di rifornimento; la guarnigione tedesca si
mantenne fino alla fine della guerra a spese della popolazione civile – nella
città di Rodi si giunse a contare una decina di morti di fame al giorno – e dei
prigionieri. Circa 5000 persone, in massima parte civili, vennero evacuate da
Rodi verso la Turchia a partire dal novembre 1944, a seguito di un singolare
accordo tra tedeschi e britannici.
La maggior parte dei
prigionieri venne trasferita tra il 1943 ed il 1944 nei campi di prigionia del
Reich, dove altri ancora – che non rientrano nei 6520 «dispersi» ed il cui
numero non è qui noto – sarebbero deceduti per le dure condizioni in cui erano
tenuti gli «internati militari italiani». Tra i 5000 ed i 6000 italiani rimasero
nell’isola, da aderenti (alla R.S.I.), da internati o da "sbandati",
fino alla fine della guerra.
Il tributo più alto,
a Rodi, fu pagato proprio dal personale della Marina: su circa 2000 uomini che
all’8 settembre 1943 erano alle dipendenze di Marina Rodi, meno di 800 videro
la fine della guerra. Le vittime nei combattimenti dall’8 all’11 settembre
furono relativamente poche, mentre terribili furono le perdite dopo la resa:
1227 tra ufficiali, sottufficiali e marinai perirono nell’affondamento della Donizetti; sedici morirono nel disastro
dell’Oria; altri ancora morirono in
prigionia in Germania.
Per lungo tempo,
nell’immediato dopoguerra, la Direzione del Personale (Maripers) del Ministero
della Marina fu tempestata di richieste dei familiari degli uomini dispersi a
Rodi nel settembre 1943, «nelle quali si
lamenta, oltre alla mancanza di notizie dei congiunti, la sospensione del
trattamento economico per motivi a loro non chiari».
In una lettera del 23
febbraio 1946, diretta al Centro Assistenza Famiglie Dispersi e Prigionieri
della Regia Marina, si spiegava: «fino a
quando non saranno condotti a termine gli accertamenti in corso i predetti
militari dovranno essere considerati "dispersi" o "presunti
dispersi", ai fini amministrativi, dalla data suddetta [8 settembre
1943] e fino a quando non saranno emessi
i verbali di irreperibilità. Sempre beninteso, previa dichiarazione di mancato
rientro da parte dei CC.RR.».
Il mese successivo un’altra lettera del
Ministero della Marina ribadiva quanto sopra, aggiungendo: «Successivamente all’emissione di detti
verbali [di irreperibilità] dovranno
corrispondersi alle famiglie gli assegni di “Presenza alle Bandiere” e
contemporaneamente i congiunti potranno iniziare le pratiche di pensione
(…) i vari Enti preposti alla
liquidazione degli assegni alle famiglie (…) dovranno corrispondere gli assegni stessi dietro presentazione dell’ultimo
scritto (cartolina o lettera, compresa la busta dalla quale risultino i timbri
della posta militare) e di un atto notarile (…) rilasciato dal Comune o dai Carabinieri e dal quale risulti che il
militare non è ancora rientrato in famiglia e che dal settembre 1943 non ha più
dato notizie di sé. (…) questo
Ministero sta ricostruendo i ruoli del personale di Rodi ancora mancante
attraverso la presentazione dello ultimo scritto e dell’atto notarile predetto.
In caso di mancanza dello scritto alle famiglie viene richiesto un atto
pretorile dal quale deve risultare che il militare era appartenente alle Forze
della Marina e che all’8 settembre era destinato a Marina 501 P. M. 550
[indirizzo postale dei militari di stanza a Rodi] (…) si prega di comunicare, di volta in volta, i nomi dei militari
assistiti da codesto Comando in modo da consentire la ricostruzione dei ruoli
dell’Egeo».
A domanda
risposta…
(Ufficio Storico della Marina Militare, via pagina Facebook "DISPERSI 2° GUERRA MONDIALE: Mar Egeo – Isola di Rodi – Piroscafo DONIZETTI") |
Telegramma del Ministero della Marina del marzo 1946 (Ufficio Storico della Marina Militare, via pagina Facebook "DISPERSI 2° GUERRA MONDIALE: Mar Egeo – Isola di Rodi – Piroscafo DONIZETTI") |
Richieste di notizie su dispersi (Ufficio Storico della Marina Militare, via pagina Facebook "DISPERSI 2° GUERRA MONDIALE: Mar Egeo – Isola di Rodi – Piroscafo DONIZETTI")
Il 20 settembre 1947
l’Ufficio Assenti e Reduci del Ministero della Difesa-Marina propose alla
Commissione Interministeriale per la Formazione degli Atti giuridici di
considerare come imbarcati sulla Donizetti
tutti gli uomini della Marina in servizio a Rodi che non avevano più fornito
loro notizie dopo l’armistizio. Contestualmente l’Ufficio dichiarava: «Dagli elementi in possesso di questo Ufficio
(relazioni di reduci dalla prigionia catturati a Rodi (…), comunicazioni della Commissione per la
Tutela degli Interessi degli Italiani nel Dodecanneso e comunicazioni del
"Defence Security Office del Dodecanneso" si è accertato che: a) il
P/fo DONIZETTI della Società "TIRRENIA" requisito ma non iscritto nel
Naviglio Ausiliario dello Stato, dopo l’8 settembre ’43 fu preso da tedeschi
(Mittelmeer Rederei); b) il piroscafo partì da Rodi la sera del 22 settembre
1943 (…) con rotta sud e con a bordo
un carico di numerosissimi militari da deportare (circa 1.800 dei quali
appartenenti alla Marina: 3 Ufficiali, 114 Sottufficiali, 1.110 Sottocapi e
comuni; appartenenti all’Esercito, ma dipendenti dalla Marina: 8 Ufficiali;
appartenenti all’Aeronautica: circa 600 militari; c) il piroscafo DONIZETTI ed
il Caccia furono attaccati dagli inglesi (…) ed il DONIZETTI fu affondato in azione navale; (…) Sul Ct. di scorta non risulta che fossero
stati imbarcati militari da deportare; e) nessun naufrago del P/fo DONIZETTI è
stato salvato. Tale fatto è ormai comprovato poiché nessun superstite ha dato
notizie di sé fino alla data odierna e la comunicazione degli inglesi non
accenna ad alcun naufrago recuperato. La Commissione per la Tutela degli
interessi italiani nel Dodecanneso conferma che dalle notizie in suo possesso e
ricevute dai marinai tedeschi del Ct. di scorta (…), che il DONIZETTI affondò immediatamente e che nessuno si sarebbe
salvato. g) non è stato possibile avere nessun elenco del personale imbarcato
sul Piroscafo DONIZETTI (…) perché il
controllo all’imbarco era effettuato dai tedeschi, né è stato possibile entrare
in possesso del ruolo del personale imbarcato poiché detti ruoli sono
probabilmente scomparsi con la nave che è affondata».
Il 27 settembre 1947
la Commissione stabilì che prima di emettere verbali di scomparizione in mare
relativamente ai militari in servizio a Rodi nel settembre 1943, le autorità
competenti della Marina Militare avrebbero dovuto rilasciare una dichiarazione
in cui si attestava esplicitamente che il militare disperso era imbarcato sulla
Donizetti al momento
dell’affondamento, affermando che «è
importante raggiungere se non la prova materiale, almeno la presunzione fondata
che le persone per cui si richiedeva la dichiarazione di morte fossero
effettivamente imbarcate sul Donizetti».
(Ufficio
Storico della Marina Militare, via pagina Facebook "DISPERSI 2° GUERRA MONDIALE: Mar Egeo – Isola di Rodi –
Piroscafo DONIZETTI")
Con circolare del 23
aprile 1948, i verbali di irreperibilità per i dispersi di Marina Rodi vennero
infine emessi, e furono corrisposti gli assegni a conguaglio. Il Ministero del
Tesoro dispose, per quasi tutti, la "pensione privilegiata di
guerra". Successivamente, con circolare del 19 novembre 1948, venne
stabilito di dichiarare dispersi a partire dall’11 settembre 1943 i militari
destinati a Marina Rodi, senza soffermarsi sulla questione dell’imbarco sulla Donizetti; per effetto di questa
decisione, molti verbali già emessi vennero modificati, retrodatando la data di
dispersione dal 23 settembre 1943 all’11 settembre 1943.
Lungaggini
burocratiche su questa triste storia, legate al rilascio del "nulla osta
di prigionia" necessario per la revisione delle pratiche in atto, si
sarebbero però trascinate fino al 1951.
Personale della Regia Marina disperso a Rodi
nel settembre 1943: tutti, o quasi tutti, scomparvero nell’affondamento della Donizetti:
Fortunato Abbruzzese, marinaio fuochista, da
Rodi Garganico
Cedrino Accordi, marinaio cannoniere, da Gazzo
Veronese
Dino Accorsi, marinaio, da Correggio
Antonio Achilli, marinaio infermiere, da
Castel San Giovanni
Salvatore Adamo, marinaio, da Nardò
Pasquale Addario, marinaio, da Bonifati
Giuseppe Addesso Cimbali, marinaio, da Bronte
Attilio Adenti, marinaio cannoniere, da
Castelletto Ceredano
Alberto Adriani, marinaio cannoniere, da Roma
Sergio Aglietta, marinaio, da Biella
(9/9/1943)
Faustino Agnetti, marinaio cannoniere, da
Berceto
Giorgio Agosta, marinaio cannoniere, da Modica
Santo Agrillo, marinaio cannoniere, da Messina
Alvaro Agrini, marinai S.D.T., da Genova
(9/9/1943)
Edolo Aguzzi, marinaio cannoniere, da
Orbetello (9/9/1943)
Ercole Aiello, marinaio fuochista, da
Barrafranca
Raffaele Aiello, marinaio, da Lercara Freddi
Augusto Alazzetta, marinaio infermiere, da
Roma (9/9/1943)
Armando Alba, marinaio, da Taranto
Gaetano Albano, sottocapo cannoniere, da Santa
Maria Capua Vetere
Dino Albergucci, marinaio cannoniere, da
Reggio Emilia
Antonio Alberti, sottocapo motorista, da Massa
Bruno Alberti, marinaio nocchiere, da Venezia
Ruggero Alboreo, marinaio, da Barletta
Francesco Alemanno, marinaio, da Acquarica del
Capo
Santo Aletti, marinaio cannoniere, da Bergamo
Santo Alizzo, marinaio, da Santa Marina Salina
Aldo Alpe, marinaio, da Monpantero (9/9/1943)
Umberto Altini, marinaio elettricista, da Bari
Primo Amadasi, marinaio cannoniere, da Parma
Gennaro Amato, marinaio cannoniere, da Napoli
(9/9/1943)
Francesco Ambrassa, marinaio, da Savigliano
(9/9/1943)
Mario Ambroggi, marinaio, da Calendasco
Pasquale Ambrosetti, marinaio, da Torre
Annunziata
Gino Ambrosi, marinaio, da Polverii
Mario Ancellotti, marinaio, da Curtatone
Gaetano Ancona, marinaio cannoniere, da Fasano
Ferdinando Andreasi, marinaio, da Piacenza
Francesco Angiolini, sergente nocchiere, da
Forte dei Marmi
Santo Angelini, marinaio, da Trieste
Catello Angellotti, marinaio, da Castellammare
di Stabia
Giuseppe Anteo, marinaio furiere, da Napoli
Antonio Antona, sottocapo furiere, da Licata
Verardo Antonietti, marinaio, da Pergola
Luigi Antonino, marinaio, da Bari
Raffaele Apicella, marinaio, da Castellabate
Luigi Aprea, marinaio, da Napoli
Donato Aprile, marinaio cannoniere, da
Martignano
Umberto Aprile, marinaio, da Brindisi
Giovanni Mario Aquaro, marinaio cannoniere, da
Martina Franca
Stefano Aquilino, sottocapo fuochista, da
Alberobello
Achille Ardighieri, marinaio, da Casalbuttano
Domenico Arena, marinaio, da Noverato
Giuseppe Arena, marinaio, da Augusta
Silvio Arena, marinaio radiotelegrafista, da
Caltagirone
Michele Argenta, marinaio cannoniere, da Asti
Alessandro Arlotti, marinaio elettricista, da
Torino
Antonio Arnese, marinaio, da Lucera
Mario Arnoldi, marinaio cannoniere, da
Capriate San Gervaso
Calogero Arnone, marinaio, da Lercara Friddi
Bruno Arosio, marinaio, da Brescia
Alfonso Arpino, marinaio, da Minori
Ciro Ascione, marinaio, da Torre del Greco
Gaetano Astarita, marinaio, da Sorrento
Andrea Attolini, capo radiotelegrafista di
terza classe, da Carpi (*)
Fernando Ausiello, sergente radiotelegrafista,
da Porretta Terme, disperso in prigionia nel Mediterraneo Centrale il 22/9/1943
(*)
Vincenzo Avallone, marinaio radiotelegrafista,
da Pisciotta
Domenico Aversano, marinaio, da Torre Orsaia
Carlo Azzini, marinaio cannoniere, da Ceresara
Udine Bacci, marinaio, da Lerici
Ignazio Bagorda, marinaio, da Fasano
Luigi Baiano, marinaio, da Bacoli
Luigi Baiardi, marinaio cannoniere, da Genova
Mario Baio, marinaio, da Palermo
Fernando Balbarini, marinaio, da La Spezia
Vincenzo Balbinot, marinaio, da Farra d’Alpago
Giuseppe Baldassarre, marinaio, da Lucera
Giuseppe Baldi, marinaio furiere, da Palermo
Amedeo Baldorilli, marinaio, da Montemarciano
Guido Baleani, marinaio, da Numana
Nello Balestra, sergente nocchiere, da Loreo
Augusto Balestrieri, marinaio, da Derovere
Sante Galliano Ballan, marinaio cannoniere, da
Castelfranco Veneto
Corrado Banacchioni, sottocapo torpediniere,
da Cortona
Raffaele Bandiera, marinaio cannoniere, da
Torre Annunziata
Evaristo Bano, marinaio cannoniere, da
Campodarsego
Carmelo Barabino, marinaio, da Cerevanesi
Fulvio Baratti, marinaio cannoniere, da San
Benedetto Po
Ciro Baratto, marinaio, da Napoli
Raffaele Barbarisi, marinaio infermiere, da
Napoli
Michele Barbato, marinaio, da Pozzuoli
Franco Barbera, marinaio furiere, da Biella
Salvatore Barbera, marinaio elettricista, da
Catania
Francesco Barberis, marinaio cannoniere, da
Villafranca Piemonte
Bruno Barbisan, marinaio, da Bussoleno
Giuseppe Barone, marinaio, da Monte di Procida
Orazio Baronello, marinaio, da Messina
Antonio Bartesaghi, marinaio fuochista, da
Dongo
Leandro Basalini, marinaio, da Ameno
Pietro Battista, sottocapo segnalatore, da
Bari
Marcello Bazec, marinaio cannoniere, da Pirano
Aldo Bazzato, marinaio fuochista, da Venezia
Renato Bedont, marinaio, da Bellano
Lino Belelli, marinaio, da Ancona
Domenico Bellan, marinaio fuochista, da
Rosolina
Bruno Belleri, marinaio cannoniere, da Sarezzo
Leonardo Bello, sergente nocchiere, da
Montebello Ionico
Mario Bello, marinaio, da Venezia
Giocondo Belloni, marinaio, da Corsico
Coraggio Bellucci, marinaio, da Castellone di
Suasa
Gianfranco Gino Belotti, marinaio furiere, da
Bergamo
Giulio Bendini, marinaio, da Dello
Angelo Benigni, marinaio, da Treviolo
Giuseppe Benvenuti, capo cannoniere di seconda
classe, da San Vincenzo (9/9/1943)
Adriano Berca, marinaio cannoniere, da Genova
(9/9/1943)
Luigi Bernardi, marinaio, da Pianezza (*)
Silvano Bernardi, marinaio cannoniere, da
Altivole
Giancarlo Bernuzzi, marinaio fuochista, da
Genova (9/9/1943)
Pietro Berta, sottocapo fuochista, da Savona
Giuseppe Bertani, marinaio, da Garlasco
Roberto Bertani, sottocapo fuochista, da
Correggio
Giovanni Berteotti, marinaio, da Cavedine
Giuseppe Bertolino, marinaio furiere, da
Trapani
Emilio Bettin, marinaio cannoniere, da
Selvazzano Dentro
Carlo Giovanni Bettoni, marinaio, da Tavernola
Bernamasca
Leonardo Bevilacqua, marinaio cannoniere, da
Pietraperzia (*)
Pasquale Bevilacqua, marinaio segnalatore, da
Stroncone
Felice Biagi, marinaio cannoniere, da Porto Mantovano
Mario Biancardi, marinaio cannoniere, da
Albuzzano
Alberto Bianchi, marinaio, da Sala Comacina
Saverio Bianco, marinaio cannoniere, da
Acquappesa
Agostino Bibiano, marinaio, da Ercolano
Giuseppe Bigioli, marinaio fuochista, da
Castegnato
Angelo Binda, marinaio, da Saronno
Guido Biondi, marinaio, da Porto San Giorgio
Amorino Biselli, marinaio cannoniere, da Monte
San Giusto
Giuseppe Bisio, marinaio, da Vignole Borbera
Antonio Bissoli, secondo capo cannoniere, da
Legnago
Francesco Blasi, capo radiotelegrafista di
terza classe, da Città di Castello
Bartolomeo Bo, capo cannoniere di terza
classe, da Barzole
Nicola Bo, marinaio cannoniere, da Rocchetta
Tanaro
Alessandro Bocchini, capo cannoniere di terza
classe, da Benevento (*)
Giuseppe Bolis, marinaio cannoniere, da Terno
d’Isola
Giuseppe Bonanno, marinaio cannoniere, da
Misilmeri
Luigi Bondioli, marinaio, da Volta Mantovana
Francesco Bongiorno, marinaio cannoniere, da
Fasano
Valdo Boni, marinaio, da Imperia
Giovanni Boniotti, marinaio, da Sellero
Francesco Bonolis, marinaio fuochista, da
Castelveccana
Luigi Bonomelli, marinaio cannoniere, da
Gorlago
Ottorino Bordiga, marinaio radiotelegrafista,
da Corzano
Corrado Bordonaro, sottocapo, da Pachino
Ciro Bordura, marinaio fuochista, da Torre del
Greco
Federico Borri, marinaio cannoniere, da
Ventimiglia
Mario Borriello, marinaio, da Ercolano
Traiano Borsetti, marinaio, da Ancona
Biagio Bosco, marinaio, da Torino
Giacomo Bottalico, marinaio fuochista, da Bari
Pantaleone Bottone, marinaio, da Ravello
Gino Brachistino, marinaio cannoniere, da
Genova
Cesare Brambilla, marinaio, da Trezzo
sull’Adda
Erziano Brambilla, marinaio cannoniere, da Milano
Vincenzo Brancaccio, marinaio, da Torre del
Greco
Rocco Antonio Brega, marinaio, da Castel San
Giovanni
Silla Bresciani, marinaio cannoniere, da
Verdello
Carlo Bresolin, marinaio radiotelegrafista, da
Volpago del Montello
Romano Bressan, sottocapo furiere (cannoniera Caboto), da Isola d’Istria (*)
Carlo Bressanin, marinaio fuochista, da
Bolzano Vicentino
Francesco Broccoli, marinaio, da Forio
(9/9/1943)
Pietro Brunetto, marinaio, da Cava de’ Tirreni
Sisto Bruni, marinaio, da Ramiseto
Severino Bruno, marinaio cannoniere, da
Candida
Edmondo Brusa, marinaio radiotelegrafista, da
Torino (9/9/1943)
Valmiro Bruschini, marinaio cannoniere, da
Narni
Giuseppe Buccafusca, marinaio nocchiere, da
Nicotera
Nicola Buccarella, sottocapo furiere, da
Gallipoli (9/9/1943)
Roberto Bufarini, marinaio, da Porto Recanati
Raffaele Bungaro, marinaio cannoniere, da
Brindisi (9/9/1943)
Luigi Burricco, marinaio fuochista, da Gaeta
Filippo Busalacchi, marinaio nocchiere, da
Palermo (*)
Onorato Bussani, sottocapo carpentiere, da
Capodistria
Vitantonio Buzzerio, marinaio, da Polignano a
Mare
Enrico Cacace, marinaio, da Massa Lubrense
Giovanni Cagliani, sottocapo
radiotelegrafista, da Vigevano (9/9/1943) (*)
Giancarlo Caini, marinaio cannoniere, da Gorla
Maggiore
Giuseppe Calabrò, marinaio, da Messina
(9/9/1943)
Nicodemo Callà, marinaio, da Mammola
(9/9/1943)
Lino Calvani, marinaio, da Firenze
Alberto Camalich, marinaio, da Lussinpiccolo
Orlando Camassa, marinaio cannoniere, da
Martina Franca
Zelindo Cambiaghi, marinaio, da Cologno
Monzese (*)
Faustino Campana, sottocapo motorista, da
Erbusco
Salvatore Campanella, sottocapo segnalatore,
da Pozzallo
Salvatore Campese, marinaio, da Barletta (*)
Angelo Canepa, marinaio, da Genova
Nicolò Canepa, marinaio carpentiere, da Savona
Michele Silvio Cannarile, marinaio furiere, da
Palagiano
Basso Cannarsa, sottocapo segnalatore, da
Termoli
Angelo Cannizzaro, marinaio, da Catania
Giuseppe Cantoro, marinaio, da Fasano
Edilio Caozzi, marinaio, da Pontenure
Evandino Capotosti, marinaio, da Narni
Vincenzo Cappelli, marinaio furiere, da Teramo
Francesco Caputo, marinaio cannoniere, da
Nardò
Aurelio Cara, secondo capo elettricista, da
Reggio Calabria (9/9/1943)
Michele Carannante, marinaio, da Bacoli
Giuseppe Cardalisco, marinaio furiere, da
Castelfranco in Mescano
Eugenio Cardella, marinaio, da Viareggio
(9/9/1943)
Biagio Cardillo, marinaio, da Formia
Amelio Cardone, marinaio fuochista, da Vico
Equense
Nicolò Carena, marinaio cannoniere, da Genova (*)
Andrea Cariglia, marinaio, da Vieste
Rodolfo Carlini, marinaio, da Ancona
Luigi Carlotto, marinaio cannoniere, da Diano
Castello (9/9/1943)
Giuseppe Carminati, marinaio, da Genova (9/9/1943)
Salvatore Caroli, marinaio fuochista, da
Ostuni
Salvatore Carollo, marinaio cannoniere, da
Palermo (9/9/1943)
Gaudenzio Carona, sottocapo meccanico, da
Isola del Liri
Domenico Carotenuto, marinaio, da Torre del
Greco
Ermete Carraro, sergente cannoniere, da
Salerno (9/9/1943)
Luigi Carrera, marinaio fuochista, da Boltiere
Nunziato Cartillone, marinaio, da Bronte
Antonio Caruso, sottocapo nocchiere, da Gioia
Tauro
Antonio Casale, marinaio, da Torre Annunziata
Giuseppe Casalis, marinaio cannoniere, da
Carmagnola (9/9/1943)
Mario Casciaro, marinaio segnalatore, da
Ortelle
Angelo Cascione, marinaio fuochista, da
Monopoli
Orazio Caserio, marinaio S.D.T., da Bereguardo
Francesco Caserta, marinaio fuochista, da
Locri
Francesco Caserta, marinaio, da Bronte
Carmelo Casile, marinaio, da Reggio Calabria
Erminio Casiraghi, marinaio, da Missaglia
Arnaldo Cassano, secondo capo furiere, da
Altino
Michele Cassese, marinaio, da Gragnano
Aldino Cassetti, marinaio cannoniere, da Flero
Salvatore Castagna, sottocapo, da Palermo
Otello Castagnini, sottocapo
radiotelegrafista, da Pietrasanta
Andrea Castaldi, marinaio, da Ischia
Angelo Castelnovo, marinaio fuochista, da
Marcheno
Giuseppe Castorina, marinaio, da Venetico
(9/9/1943)
Francesco Castriotta, marinaio, da Manfredonia
Matteo Castriotta, marinaio, da Manfredonia
Francesco Castronuovo, marinaio, da Fragagnano
Cesare Catalani, marinaio cannoniere, da
Castelvetrano
Carmelo Catalano, sergente segnalatore, da
Palermo (9/9/1943) (*)
Salvatore Catalano, capo cannoniere di terza
classe, da Comiso
Fedele Cataldi, marinaio, da Trebisacce
Nicodemo Cataldo, marinaio, da Ercolano
Angelo Cattaneo, marinaio fuochista, da Como
Fidenzio Cattoli, secondo capo elettricista,
da Budrio
Anselmo Cavallari, marinaio cannoniere, da
Senigallia
Giovanni Cavalli, marinaio fuochista, da
Gottolengo
Eros Cavatorti, marinaio fuochista, da
Campegine
Otello Cecchini, sottocapo nocchiere, da
Pesaro
Giuseppe Cefalu, marinaio, da Santa Flavia
Giuseppe Cellura, sergente cannoniere, da
Licata
Pasquale Certo, marinaio, da Messina
(9/9/1943)
Aldo Cervi, secondo capo segnalatore, da
Sassuolo
Natale Cesati, marinaio, da Peschiera del
Garda
Guglielmo Checcucci, marinaio cannoniere, da
Terni (9/9/1943)
Alberto Chianello, marinaio, da Paola
Giovanni Chiappi, marinaio cannoniere, da
Brescia
Gaetano Chiaramonte, marinaio cannoniere, da
Siracusa
Oliviero Chiavarini, marinaio, da Stroncone
Ugo Chiesa, marinaio cannoniere, da Canonica
d’Adda
Stefano Chila, marinaio, da Melito di Porto
Salvo
Vittorio Chinellato, marinaio, da Venezia
Alcide Chiossi, marinaio fuochista, da Reggio
Emilia
Aldo Chitoni, marinaio fuochista, da Castro
Panfilo Ciarciallini, marinaio, da Chieti
Roberto Cibecchini, secondo capo meccanico, da
Firenze (9/9/1943)
Ferruccio Cibei, capo musicante di prima
classe, da Carrara (9/9/1943) (*)
Piero Cicci, sottotenente commissario, da
Macerata (*)
Tommaso Cifarelli, marinaio fuochista, da
Matera
Michele Ciliento, sergente elettricista, da
Trani
Eraldo Cimini, secondo capo cannoniere, da
Fiume
Fulvio Cinacchi, marinaio, da Vecchiano
(9/9/1943)
Vladimiro Ciofi, marinaio infermiere, da Siena
(9/9/1943) (*)
Pietro Ciotti, marinaio, da Terracina
Biagio Cipolla, marinaio, da Bronte
Mauro Cirella, marinaio, da Pomarico
Salvatore Cirillo, capo cannoniere di terza
classe, da Boscotrecase
Giuseppe Ciriolo, marinaio, da Diso
Natale Cistola, marinaio nocchiere, da
Colonnella (9/9/1943)
Giovanni Citarella, marinaio, da Bari
Sebastiano Citarrella, marinaio segnalatore,
da Palermo
Giuseppe Cividini, marinaio cannoniere, da
Martinengo
Giuseppe Civile, marinaio cannoniere, da
Napoli
Dario Cocchetti, sergente radiotelegrafista,
da Pratovecchio (*)
Salvatore Coccoluto, secondo capo cannoniere,
da Gaeta (*)
Danilo Cognini, marinaio, da Sant’Elpidio a
Mare
Giovanni Cola, marinaio segnalatore, da
Cassine
Giovanni Colamaria, marinaio, da Rossano
Ermanno Colasanti, sottocapo
radiotelegrafista, da Terni (9/9/1943)
Dario Collecchia, marinaio, da Fivizzano
Salvatore Colomba, marinaio, da Erice
Valentino Colombi, marinaio, da Mulazzano
Gaetano Colombo, marinaio, da Busto Garolfo
Francesco Colotto, marinaio cannoniere, da
Lerici (8/9/1943)
Luigi Coluccia, marinaio, da Sannicola
Bruno Comi, marinaio, da Milano
Mario Comin, marinaio cannoniere, da Venezia
Carlo Como, capo cannoniere di terza classe,
da Alessandria (9/9/1943) (*)
Giovanni Console, sottocapo nocchiere, da
Taranto
Giuseppe Consoli, marinaio, da Catania
Evio Consolini, marinaio, da Cavezzo
Oreste Conte, marinaio, da Torre del Greco
Giuseppe Conti, marinaio fuochista, da
Casteltermini
Alfio Coppola, marinaio fuochista, da Lentini
(9/9/1943)
Michele Corbia, marinaio cannoniere, da
Alghero
Pasquale Corcelli, marinaio fuochista, da Bari
Antonio Corliano, marinaio fuochista, da
Brindisi
Ercolino Corti, marinaio, da Montano Lucino
Zero Cosci, marinaio, da Pisa (9/9/1943)
Remigio Coslian, sergente carpentiere, da Pola
Giuseppe Cosma, marinaio, da Taurianova
Felice Costa, marinaio, da Genova (9/9/1943)
Giovanni Costantini, marinaio, da Venezia
Leonardo Costantino, marinaio, da Trapani
Michele Costigliola, marinaio, da Bacoli
Santo Cotroneo, marinaio, da Campo Calabro
Santo Cotroneo, marinaio, da Reggio Calabria
Alfredo Covelli, marinaio, da Crotone
Angelo Covini, secondo capo cannoniere, da
Genova (9/9/1943)
Salvatore Cozzo, marinaio cannoniere, da
Palermo
Domenico Crescenzi, marinaio, da Fermo
Giosuè Crescenzo, marinaio nocchiere, da Piano
di Sorrento
Francesco Crescini, marinaio segnalatore, da
Gardone Riviera
Corrado Cretto, marinaio cannoniere, da Noto
(9/9/1943)
Pasquale Crimaldi, marinaio, da Mondragone
Sossio Crispino, marinaio furiere, da
Frattamaggiore
Pietro Cristini, marinaio motorista, da Marone
Leonardo Croce, secondo capo motorista, da
Sesto San Giovanni (9/9/1943)
Vittorio Crovetto, marinaio cannoniere, da
Genova
Giuseppe Crupi, marinaio, da Antillo
Ugo Cucurnia, marinaio fuochista, da Carrara
Roberto Cugini, marinaio cannoniere, da Parma
Girolamo Curciarello, marinaio fuochista, da
Siderno
Santo Currò, marinaio furiere, da Messina
(9/9/1943)
Carlo Cursano, marinaio, da Otranto
Giuseppe Curti, marinaio, da Ossago Lodigiano
Aldo Curzi, marinaio cannoniere, da
Sant’Angelo in Vado (9/9/1943)
Salvatore Cutugno, marinaio nocchiere, da
Barcellona Pozzo di Gotto
Fortunato Cuzzolin, marinaio, da Treviso
Alessandro D’Agostino, marinaio cannoniere, da
Reggio Calabria
Gaspare D’Aleo, marinaio, da Palermo
Tommaso D’Alia, marinaio, da Palermo
Decimo Augusto D’Aloi, marinaio cannoniere, da
Nicotera
Mario D’Ambrosio, marinaio, da Tortoreto
Aurelio D’Amico, marinaio fuochista, da
Palermo
Francesco D’Amico, marinaio, da Palermo
Francesco D’Amico, marinaio, da Castrignano
del Capo
Rolando D’Amico, marinaio cannoniere, da
Pescara
Vincenzo D’Andrea, marinaio, da Terracina
Francesco D’Angelo, marinaio carpentiere, da
Licata (9/9/1943)
Italo D’Angelo, marinaio cannoniere, da Fermo
Ermes Gianni D’Antoni, sergente segnalatore,
da Fagagna
Michele D’Aquino, marinaio, da Palazzo San
Gervasio
Santo D’Arrigo, marinaio, da Messina
(9/9/1943)
Diego D’Auria, sottocapo segnalatore, da
Serradifalco
Vittorio D’Avolio, marinaio, da San Severo
Pasqualino D’Urso, marinaio cannoniere, da
Diamante
Giovanni Dadda, marinaio, da Cotogno
Pier Francesco Dal Mastri, marinaio, da Milano
Ivo Dal Pra, marinaio, da Recoaro Terme
Aldo Dall’Aglio, marinaio, da Parma
Roberto Dalmasso, marinaio elettricista, da
Airasca (9/9/1943) (*)
Roberto Damiano, marinaio, da Napoli
Ennio Dardano, sottocapo segnalatore, da
Montescano (*)
Adelio David, marinaio, da Savona
Tommaso De Caro, marinaio torpediniere, da
Castel San Giorgio
Nicolò De Cesaro, marinaio, da Molfetta
Ugo De Fanis, marinaio, da Termoli
Mario De Ferrari, sergente radiotelegrafista,
da Milano
Giovanni De Filippis, marinaio, da Torre del
Greco
Giuseppe De Florio, marinaio fuochista, da
Gallipoli
Marco De Fraia, marinaio nocchiere, da Pozzuoli
Leonardo De Gennaro, marinaio fuochista, da
Molfetta
Nicola De Giosa, marinaio, da Salve
Francesco De Leo, capo segnalatore di seconda
classe, da Messina
Giovanni De Lorenzo, marinaio, da Malfa
Albano De Luca, marinaio cannoniere, da
Benevento
Leonardo De Luca, marinaio, da Fasano
Luigi De Luca, marinaio, da Torre del Greco
Michele De Luca, marinaio cannoniere, da
Napoli
Pietrangelo De Martino, marinaio, da
Castellammare di Stabia
Oronzo De Mola, marinaio, da Fasano
Vincenzo De Mola, marinaio cannoniere, da
Taranto
Donato De Nuccio, marinaio, da Castrignano del
Capo
Michele De Paola Dattino, capo furiere di
seconda classe, da Nusco (22/9/1943)
Giorgio De Rossi, marinaio, da Venezia
Giovanni De Santi, marinaio, da Bari
Carmine De Simone, sottocapo elettricista, da
Crotone
Bernardino De Vicari, marinaio, da Altavilla
Vicentina
Antonio De Walderstein, sergente segnalatore,
da Pinguente
Aramis Del Buono, capo S.D.T. di seconda
classe, da Pisa
Giovanni Del Duca, secondo capo segnalatore,
da Napoli (9/9/1943)
Aldo Dell’Anna, marinaio furiere, da Revine
Lago
Vito Nicola Dell’Anna, marinaio, da Fragagnano
Antonio Dell’Olio, marinaio, da Bisceglie (*)
Alfredo Dell’Omarino, sergente furiere, da
Arezzo (*)
Ettore Della Millia, marinaio cannoniere, da
Nettuno (9/9/1943)
Raffaele Della Poeta, marinaio cannoniere, da
Atri (*)
Angelo Della Valle, marinaio, da Ottaviano
Paolo Delle Foglie, marinaio, da Bari
Carlo Dellea, marinaio, da Brissago
Valtravaglia
Matteo Delli Muti, sottocapo segnalatore, da
Vieste
Spartaco Demarchi, marinaio, da Isola d’Istria
Pietro Devoto, marinaio S.D.T., da Cagliari
Santo Di Bartolo, marinaio, da Giardini-Naxos
Carmine Di Blasio, marinaio, da Silvi
Giuseppe Di Donato, marinaio aerofonista, da
Roccascalegna
Giuseppe Di Fazio, marinaio, da Ramacca (*)
Francesco Di Franco, sottocapo nocchiere, da
Augusta
Carmine Di Giacomo, marinaio cannoniere, da
Città Sant’Angelo
Ernesto Di Giuseppe, marinaio, da Foggia
Giuseppe Di Gregorio, marinaio, da Santeramo
in Colle
Giuseppe Di Maggio, marinaio, da Palermo
Vito Di Marzio, marinaio, da Roseto degli
Abruzzi
Antonio Di Meo, marinaio furiere, da Bacoli
Michele Di Noto, marinaio, da Isola delle
Femmine
Gennaro Di Palma Esposito, marinaio
infermiere, da Bacoli
Gennaro Di Prisco, capo cannoniere di prima
classe, da Napoli (*) [n.b. questi risulterebbe
ufficialmente disperso a Lero nel novembre 1943, ma da testimonianza di un
reduce sarebbe invece stato a Rodi ed imbarcatosi sulla Donizetti]
Pietro Di Rienzo, marinaio fuochista, da
Spinazzola
Enrico Di Rollo, marinaio, da Napoli
Giulio Di Russo, marinaio, da Formia
Vittorio Di Serafino, marinaio, da Corrosoli
Filippo Dispenza, marinaio furiere, da
Campofelice di Fitalia
Francesco Dolente, marinaio furiere, da
Taranto
Balilla Donatelli, marinaio motorista, da
Pescara
Biagio Donzella, marinaio, da Palermo
Alberto Donzelli, marinaio cannoniere, da
Ancona
Antonio Dottarelli, marinaio fuochista, da
Bolsena
Claudio Giovanni Dotz/Dozzi, marinaio S.D.T.,
da Pola
Mario Dreos, marinaio radiotelegrafista, da
Trieste
Carlo Dubini, marinaio segnalatore, da Como
Antonio Duca, secondo capo meccanico, da
Ancona
Gaetano Durante, sergente cannoniere, da
Palermo
Mariano Englen, marinaio cannoniere, da
Roccella Ionica
Oronzo Epifani, marinaio, da Latiano
Edi Ercolano, marinaio segnalatore, da Meta
Mario Ercole, marinaio, da Napoli
Rosolino Ercoli, marinaio fuochista, da
Sant’Elpidio a Mare
Antonio Esposito, marinaio cannoniere, da
Sorrento
Giuseppe Esposito, marinaio elettricista, da
Castellammare di Stabia
Leopoldo Esposito, marinaio cannoniere, da
Boscoreale
Oreste Esposito, marinaio, da Napoli
Vladimiro Esposti, marinaio, da Milano
Dino Fabbri, marinaio infermiere, da Rimini
Ivo Fabiano, sottocapo radiotelegrafista, da
Pescara
Raimondo Fabiano, marinaio, da Torre del Greco
Antonio Fabrizio, marinaio, da Venosa
Mario Faetti, marinaio segnalatore, da Milano
Rino Faita, marinaio infermiere, da Brescia
(19/9/1943)
Vittorio Falchi, marinaio cannoniere, da
Ittireddu
Gaspare Fallucca, marinaio, da Palermo
Giuseppe Fanigliulo, marinaio cannoniere, da
Fasano
Ilario Matteo Fano, marinaio nocchiere, da
Grado
Ermes Fantoni, marinaio, da Viadana
Luciano Farina, marinaio radiotelegrafista, da
Roma
Carlo Fasani, marinaio, da Bascapè
Giuseppe Fascella, marinaio, da Palermo
Ottavio Fascetti, sergente cannoniere, da
Serra d’Aiello
Luciano Felisatti, marinaio, da Ferrara
(22/9/1943)
Corrado Ferla, marinaio, da Noto
Ivo Ferlin, marinaio cannoniere, da Resana
Bruno Feroci, sergente cannoniere, da
Viareggio
Giobatta Ferrando, sottocapo motorista, da
Genova (9/9/1943)
Sebastiano Ferrando, marinaio cannoniere, da
Mele (9/9/1943)
Angelo Ferrara, marinaio, da Taranto
Domenico Ferrara, marinaio, da Fasano
Giovanni Ferrari, marinaio cannoniere, da
Valmontone
Luigi Ferrari, marinaio, da Cella Dati
Salvatore Ferrari, marinaio, da Taggia
Michele Ferraris, marinaio, da Cosseria
Walter Ferraro, marinaio cannoniere, da La
Spezia (9/9/1943)
Giuseppe Ferriero, marinaio, da Vernole
Carmelo Ferru, marinaio cannoniere, da Sestu
Salvatore Fichera, tenente di vascello
(cannoniera Caboto), da Riposto
(9/9/1943) (*)
Antonio Figone, marinaio, da Varese Ligure
(8/9/1943)
Attilio Filippini, marinaio carpentiere, da
Venezia
Gennaro Fimiani, marinaio, da San Giovanni a
Piro
Alfredo Fiorentini, marinaio
radiotelegrafista, da Savona (9/9/1943)
Vincenzo Fiorentino, marinaio, da Napoli
Gaetano Fiumara, marinaio fuochista, da
Messina
Teodoro Fiusco, marinaio fuochista, da
Brindisi
Belardino Flati, marinaio, da Canino
Giuseppe Florimo, marinaio, da Gioia Tauro
Alfonso Florio, marinaio, da Napoli
Fulvio Foggi, marinaio cannoniere, da Venezia
Dante Fontana, marinaio, da Casto
Goffredo Fonzi, marinaio, da Caporciano
Armando Formenti, marinaio, da Verona
Giovanni Formisano, marinaio, da Torre del
Greco
Pasquale Formularo, marinaio carpentiere, da
Portici
Vitantonio Fornaro, marinaio, da Brindisi
Sergio Fort, marinaio, da Venezia
Carmelo Foti, marinaio, da Falcone
Riccardo Fracassetti, marinaio, da Seriate
Emilio Franchin, sottocapo elettricista, da
Venezia
Vincenzo Franco, marinaio, da Vietri sul Mare
Aldo Franseis Grillo, marinaio cannoniere, da
Mongrando
Stefano Frassine, marinaio
Carlo Fraternali, marinaio, da Verzo
(9/9/1943)
Carmine Fratta, marinaio, da Rossano (*)
Pio Freddi, marinaio, da Tortoreto
Bruno Luigi Fresia, marinaio cannoniere, da
Domodossola
Filadelfio Frezzini, marinaio, da Gallese
Giuseppe Fronte, marinaio, da Augusta
Cosimo Fucito, capo cannoniere di terza
classe, da Venezia
Cherubino Fuolega, marinaio nocchiere, da
Foggia
Mario Guerino Furia, sergente elettricista
(stazione r.t. Rodino), da Fivizzano (*)
Bassano Gaboardi, marinaio cannoniere, da
Pizzighettone
Luigi Gadaleta, marinaio, da Procida
Giuseppe Gaeta, marinaio, da Palermo
(9/9/1943)
Pierino Gaffurini, marinaio, da Brescia
Giovanni Gaggero, marinaio cannoniere, da
Genova (9/9/1943)
Ennio Gaio, sergente elettricista, da Venezia
Guglielmo Galanti, secondo capo
radiotelegrafista, da Roma (*)
Agazio Michelangelo Galati, marinaio
fuochista, da Monasterace
Gino Galli, marinaio cannoniere, da Ghedi
Cristallino Gallo, capo radiotelegrafista di
terza classe, da Molfetta (*)
Stefano Gallo Stampino, marinaio, da Legnano (*)
Vincenzo Gallo, marinaio cannoniere, da
Armento
Luigi Gallone, marinaio, da Avellino
Enrico Galloppo, marinaio motorista, da Napoli
Luigi Gambaretti, marinaio, da Pontevico
Giuliano Gambella, marinaio, da Chiesi
Rinaldo Gandaglia, marinaio, da Quinzano
d’Oglio
Ubaldo Gargioli, secondo capo meccanico (*) [nome non
presente nell’albo dei caduti e dispersi della Marina Militare]
Antonino Gargiulo, marinaio, da Meta
Cataldo Gargiulo, marinaio radiotelegrafista,
da Massa Lubrense
Ferdinando Gargiulo, marinaio furiere, da
Castellammare di Stabia
Saverio Gargiulo, marinaio radiotelegrafista,
da Sant’Agnello
Agostino Garinotti, marinaio cannoniere, da
Rapallo (9/9/1943)
Alfredo Gasparini, marinaio, da Parma
Giovanni Gastaldi, marinaio, da Savigliano (*)
Aldo Gatti, marinaio cannoniere, da
Ospedaletti (9/9/1943)
Mario Gatti, sottocapo cannoniere, da
Monticiano (9/9/1943)
Carlo Gay, marinaio S.D.T., da Rivarone
(9/9/1943)
Vito Gelao, marinaio, da Bari (19/9/1943)
Mario Gelati, secondo capo elettricista, da
Parma
Giusto Gembrini, sottocapo furiere, da Trieste
Silvestro Gemelli, marinaio cannoniere, da
Messina
Guglielmo Genta, marinaio, da Borgo d’Ale
(9/9/1943)
Vincenzo Gentile, marinaio, da Monopoli
Antonio Gettini, marinaio, da Forgiano
Giuseppe Ghersin, marinaio cannoniere, da
Laurana
Cesare Ghidetti, sottocapo radiotelegrafista,
da Cremona (*)
Pellegro Ghigliazza, marinaio cannoniere, da
Cogoleto
Alfredo Ghiglione, marinaio cannoniere, da
Campomorone
Renato Bruno Ghillani, marinaio, da Parma
Bruno Giabardo, secondo capo cannoniere, da
Mirano
Salvatore Giammona, marinaio cannoniere, da
Palermo (9/9/1943)
Alessandro Giancaspro, sergente cannoniere, da
Molfetta
Pasqualo Giancaspro, sottocapo, da Molfetta (*)
Concetto Giannino, secondo capo nocchiere, da
Catania
Virgilio Giannoni, marinaio, da Fucecchio
(9/9/1943)
Romualdo Giaquinto, marinaio, da Napoli
Antonio Gilio Canio, marinaio carpentiere, da
Vaglio Basilicata
Renato Gilli, secondo capo segnalatore, da
Caluso (*)
Giovanni Ginanneschi, sergente nocchiere, da
Portoferraio (9/9/1943)
Pasquale Giolfo, marinaio cannoniere, da
Genova (9/9/1943)
Liberato Giorgione, marinaio, da Ariano Irpino
Alfredo Giovanetti, sottocapo cannoniere, da
Loreto Aprutino (19/9/1943)
Aldo Giovanelli, marinaio cannoniere, da Fano
(9/9/1943)
Isidoro Giovanniello, marinaio, da Modugno
Alessandro Giovannini, sottotenente C.R.E.M.,
da Cingoli (19/9/1943) (*)
Giuseppe Gitto, sottocapo, da Furnari
(19/9/1943)
Vincenzo Gitto, marinaio, da Milazzo
(9/9/1943)
Giovanni Giustiniani, marinaio, da Massa
Lubrense
Cristoforo Gosso, marinaio, da Sommariva del
Bosco (9/9/1943)
Angelo Gottardo, marinaio, da Muggia
Bruno Gozzi, marinaio radiotelegrafista, da
Mantova
Alfredo Gramigni, marinaio, da Borgo San
Lorenzo (9/9/1943)
Guido Granata, marinaio, da Cremona
Gaspare Grandi, marinaio, da Genova
Giancarlo Grandi, marinaio S.D.T., da
Guastalla (9/9/1943)
Giuseppe Greco, marinaio, da Francavilla
Fontana (9/9/1943)
Alfredo Griffone, marinaio, da Torino
(9/9/1943)
Vincenzo Grifo, marinaio segnalatore, da
Palermo (*)
Giuseppe Grotta D’Auria, marinaio, da Enna
Fiorindo Gualandris, marinaio cannoniere, da
Morengo (9/9/1943)
Alfredo Guarnieri, marinaio, da Contarina
Alcide Guastalla, marinaio fuochista, da Curtatone
Quinto Gubinelli, sottocapo cannoniere, da
Ronciglione (9/9/1943)
Giuseppe Guidotti, marinaio, da San Benedetto
del Tronto
Durante Gullo, marinaio, da Pizzo
Giuseppe Gullotto, marinaio cannoniere, da
Randazzo
Agnello Iaccarino, marinaio cannoniere, da
Anacapri
Valerio Iacobacci, marinaio (cannoniera Caboto), da Roma (9/9/1943) (*)
Salvatore Iacono, marinaio, da Ragusa
Giovanni Iannello, marinaio, da Napoli
Angelo Iarc, marinaio cannoniere, da
Montespino
Tommaso Iarlori, marinaio, da San Vito Chetino
Vincenzo Iele, marinaio, da Benevento
Antonio Ientile, marinaio furiere, da Torre
del Greco
Ivo Incerti, marinaio, da Villa Minozzo
Angelo Incorvaia, marinaio, da Licata
(19/9/1943)
Onofrio Introna, marinaio, da Bari
Salvatore Iraci, marinaio, da Palermo
Giovanni Iviani, marinaio cannoniere, da
Pisino
Ignazio La Cara, secondo capo furiere, da
Palermo
Francesco La Corte, marinaio cannoniere, da
Enna
Domenico La Groia, marinaio cannoniere, da
Bisceglie
Filippo La Sala, marinaio (nato in Tunisia)
Giuseppe La Vecchia, sottocapo elettricista,
da Barletta (*)
Salvatore Labita, marinaio, da Corleone
(9/9/1943)
Salvatore Lacamera, marinaio fuochista, da
Noepoli
Francesco Laganà, sergente cannoniere, da
Milazzo (9/9/1943)
Natale Laghezza, marinaio, da Polignano a Mare
Giuseppe Lai, marinaio, da Oristano
Nicola Lamaddalena, sergente segnalatore, da
Bari (*)
Vito Lamanna, marinaio, da Polignano a Mare
Emilio Lambert, marinaio cannoniere, da
Novalesa
Umberto Lamberti, sergente cannoniere, da
Serra San Bruno
Mario Lancellotti, sottocapo cannoniere, da
Portici (*)
Giuseppe Landoni, marinaio cannoniere, da Rho
Oriano Landucci, marinaio cannoniere, da Lucca
Leone Larizza, marinaio, da Bova Marina
Francesco Lasala, marinaio cannoniere, da
Santeramo in Colle (9/9/1943)
Vincenzo Latagliata, marinaio nocchiere, da
Taranto
Filippo Latella, marinaio, da Reggio Calabria
Giuseppe Laterza, marinaio, da Putignano
Emanuele Lattanzi, marinaio, da Carrara
(9/9/1943)
Rosolino Lattarini, marinaio cannoniere, da
Casalbuttano
Clinio Laurenti, marinaio, da Contarina
Bruno Lenzi, marinaio, da Pistoia (9/9/1943)
Antonio Leo, marinaio radiotelegrafista, da
Benevento
Francesco Leo, capo segnalatore di seconda
classe, da Bari (*)
Arcangelo Leone, marinaio, da Margherita di
Savoia
Luigi Liccardi, marinaio cannoniere, da
Giugliano in Campania
Arturo Ligas, marinaio cannoniere, da Tempio
Pausania
Giovanni Liguori, marinaio, da Torre del Greco
Giovanni Limongi, marinaio, da Maratea
Giovanni Limongi Rizzati, sergente infermiere,
da Maratea
Gennaro Lisi, marinaio fuochista, da Miggiano
Walter Lissoni, marinaio segnalatore, da Milano
Angelo Locatelli, marinaio, da Arenzano
(9/9/1943)
Virgilio Locatelli, marinaio, da Sesto ed
Uniti
Angelo Lombardi, marinao cannoniere, da
Manduria (9/9/1943)
Carlo Antonio Lombardi, marinaio cannoniere,
da Arpaise
Ilio Lombardo, marinaio cannoniere, da Paola
Vincenzo Lombardo, marinaio, da Lampedusa
Filippo Longo, marinaio, da Ostuni
Annunziato Lopa, marinaio cannoniere, da
Reggio Calabria
Giuseppe Lora, secondo capo meccanico
(cannoniera Caboto), da Montecchio
Maggiore (9/9/1943) (*)
Giobatta Lorenzi, marinaio cannoniere, da
Ventimiglia
Giuseppe Losito, marinaio, da Margherita di
Savoia
Pietro Losito, marinaio cannoniere, da
Peschici
Diego Macaluso, marinaio cannoniere, da Erice
Giuseppe Macciò, marinaio, da Masone
(9/9/1943)
Giuseppe Macolino, marinaio cannoniere, da
Napoli
Arturo Maffei, marinaio, da Arco
Giuseppe Maggio, marinaio cannoniere, da
Augusta
Stefano Magri, capo segnalatore di terza
classe, da Riccò del Golfo di Spezia 9/9/1943)
Cesare Magrini, secondo capo elettricista, da
Pistoia (9/9/1943) (*)
Giovanni Maioli, secondo capo nocchiere, da
Villa di Tirano
Leonardo Maiorana, marinaio cannoniere, da
Trapani
Giuseppe Malpetti, marinaio cannoniere, da Calvisano
Pasqualino Mameli, marinaio radiotelegrafista,
da Siracusa
Pietro Mancini, marinaio cannoniere, da Genova
Guido Mandarino, marinaio fuochista, da Torano
Castello
Armando Manetti, marinaio, da Chieti
Giuseppe Manfredi, marinaio, da Paola
Lino Mangiarotti, secondo capo elettricista,
da Cremona (*)
Pietro Mangili, marinaio cannoniere, da
Zandobbio
Alfredo Mantero, sottocapo segnalatore, da
Genova (9/9/1943) (*)
Cesare Mantoan, marinaio, da Chioggia
Remigio Mantovani, marinaio motorista, da
Padova
Alessandro Maragliano, sergente furiere, da
Genova (9/9/1943) (*)
Gennaro Marasco, marinaio, da Torre del Greco
Ellero Marazzato, marinaio cannoniere, da
Trebaseleghe
Vitantonio Marcario, secondo capo meccanico,
da Grumo Appula
Giovanni Marchese, marinaio, da Catania
Antonio Marchitto, marinaio cannoniere, da San
Paolo di Civitate
Giovanni Marcialis, marinaio, da Tortolì
Vincenzo Marconi, sottocapo motorista, da
Monteprandone (*)
Carlo Marcozzi, sottocapo segnalatore, da
Tortoreto (*)
Antonio Maresca, marinaio, da Vico Equense
Vittorio Gino Margarito, marinaio, da Racale
Giuseppe Margheriti, marinaio, da La Spezia
(9/9/1943)
Eugenio Marguerettaz, marinaio cannoniere, da
Sarre (9/9/1943)
Francesco Mariano, marinaio, da Mola di Bari (*)
Giovanni Marin, sergente cannoniere, da
Cassola
Giuseppe Marino, marinaio fuochista, da Napoli
Luigi Marino, secondo capo cannoniere, da
Vasto (19/9/1943)
Pellegrino Marino, sergente radiotelegrafista,
da Padova (*)
Vincenzo Marinucci, marinaio fuochista, da
Vasto
Filippo Mariotti, marinaio cannoniere, da
Apiro
Marino Mariotti, marinaio, da Cremona
Asterio Marolla, marinaio, da Caldogno
Nicola Maronetto, sottocapo motorista, da
Moncalieri (9/9/1943)
Giuseppe Marra, marinaio cannoniere, da
Boscotrecase
Michele Marta, marinaio cannoniere, da
Mondragone
Francesco Pietro Martinotti, marinaio
elettricista, da Casale Monferrato
Realino Mareggio, marinaio, da Spongano
Renzo Marzi, marinaio, da Livorno (9/9/1943)
Michele Marzulli, marinaio fuochista, da
Taranto
Aldo Masetti, marinaio, da Mordano
Danilo Massari, marinaio, da Ancona
Aride Masseroli, marinaio cannoniere, da
Castelvetro Piacentino
Carlo Massetti, marinaio cannoniere, da Asti
Rosario Massimino, marinaio, da Acireale
Luigi Mastandrea, marinaio, da Giovinazzo
Gaetano Mastropasqua, marinaio, da Margherita
di Savoia (9/9/1943)
Leopoldo Masullo, secondo capo cannoniere, da
Vietri sul Mare
Mario Mautone, marinaio cannoniere, da Napoli (*)
Domenico Mazza, marinaio fuochista, da San
Zeno Naviglio (*)
Giuseppe Mazza, marinaio, da Palermo
Augusto Marino Mazzaferro, marinaio
cannoniere, da Porto San Giorgio
Giuseppe Mazzucco, marinaio cannoniere, da San
Salvatore Monferrato (9/9/1943)
Felice Mazzucotelli, marinaio, da Palazzago
Bruno Meazza, sergente S.D.T., da Milano (*)
Umberto Mecozzi, marinaio, da Sant’Elpidio a
Mare
Carlo Medri, marinaio, da Bertinoro
Giovanni Meiattini, secondo capo cannoniere,
da Volterra (9/9/1943) (*)
Pasquale Mellace, sottocapo radiotelegrafista,
da Squillace
Egidio Meloni, marinaio fuochista, da Cagliari
Cesarino Mengazzoli, marinaio segnalatore, da
Castellucchio
Armando Manghi, marinaio, da Mercato Saraceno
(9/9/1943)
Bruno Menin, marinaio fuochista, da Venezia
Giuseppe Meola, marinaio cannoniere, da Santa
Maria Capua Vetere
Giuseppe Mercuri, marinaio, da Reggio Calabria
Davide Merlo, marinaio cannoniere, da Genova
(9/9/1943)
Mario Mersnich, sergente segnalatore, da
Pirano
Mauro Messina, marinaio fuochista, da Molfetta
Santo Messina, marinaio, da Palermo
Leonardo Messinese, sottocapo furiere, da
Taranto
Giovanni Micalizzi, marinaio, da Reggio
Calabria
Armando Miceli, marinaio, da Genova
Marino Micheletti, marinaio, da Falconara
Marittima
Vincenzo Micich, sottocapo furiere, da Zara
(9/9/1943)
Guido Miliotti, marinaio, da Prato (9/9/1943)
Gaetano Milo, marinaio, da Ispani (*)
Alessandro Miotto, marinaio cannoniere, da
Baone
Sebastiano Mirizzi, marinaio, da Bari
Natale Mirone, marinaio, da Catania
Feroccio Moderz, marinaio cannoniere, da Terzo
di Aquileia
Walter Moncalieri, marinaio, da Genova
(9/9/1943)
Angelo Monopoli, sergente cannoniere, da
Fasano
Luciano Montacchini, marinaio, da Parma
Dino Montanari, marinaio, da Pesaro
Edoardo Monteleone, marinaio, da Genova
Salvatore Morana, marinaio, da Palermo
Gennaro Morello, marinaio cannoniere, da
Napoli
Aldo Moretti, marinaio fuochista, da Ancona
Antonio Morlando, marinaio, da Minturno
Umberto Morresi, marinaio, da Morrovalle
Edoardo Morsia, marinaio, da Fiorenzuola
d’Arda (9/9/1943)
Luigi Mortola, marinaio, da Camogli
Tullio Moschini, marinaio S.D.T., da Venezia
Giovanni Mossini, marinaio, da Guastalla
Nando Mossini, marinaio, da Guastalla
Pio Motta, marinaio, da Sestri Levante
Gino Muccioli, marinaio cannoniere, da
Monfalcone
Pietro Mura, marinaio aerofonista, da
Paulilatino
Mario Mussini, marinaio fuochista, da Reggio
Emilia
Francesco Musso, marinaio cannoniere, da Gioia
Tauro
Giovanni Musumeci, marinaio cannoniere, da
Acireale
Colombo Nadaletti, marinaio, da Cremona
Bruno Nannini, marinaio cannoniere, da Terni
Giuseppe Nardone, marinaio cannoniere, da
Portopalo di Capo Passero
Guido Navarra, marinaio carpentiere, da Melfi
Luciano Navarro, marinaio radiotelegrafista,
da Venezia (9/9/1943)
Mario Nedoch, sottocapo segnalatore, da
Trieste (*)
Egidio Negri, marinaio cannoniere, da Pavia
Amilcare Nenci, secondo capo segnalatore, da Portoferraio
(9/9/1943)
Rocco Nenna, marinaio, da San Vito Chetino
Filippo Nicolosi, sottocapo segnalatore, da
Aci Castello (23/9/1943)
Giacomo Nigro, marinaio, da Laureana Cilento
Arrigo Ninotti, marinaio silurista, da Oderzo
Aurelio Nizzolini, marinaio cannoniere, da
Saronno
Ireneo Nobile, marinaio cannoniere, da Udine
Costantino Nocco, marinaio cannoniere, da
Porto Torres (9/9/1943)
Antonio Nocerino, marinaio, da Ercolano
Oreste Nosengo, marinaio, da Casale Monferrato
(9/9/1943)
Mario Novelli, marinaio, da Chieti
Giorgio Paolo Noventa, marinaio, da
Albignasego
Serafino Donato Nuccio, marinaio, da Tricase
Francesco Nunziante, marinaio nocchiere, da
Eboli (*)
Giuseppe Nuzzo, marinaio cannoniere, da Diso
Ugo Nuzzo, marinaio, da Diso
Guglielmo Occhipinti, marinaio cannoniere, da
Scicli
Francesco Oddone, marinaio, da Pozzolo
Formigaro (9/9/1943)
Abele Odoni, marinaio, da Villanterio
Antonino Oliva, marinaio, da Napoli
(20/9/1943)
Gennaro Oliva, marinaio cannoniere, da Napoli
(9/9/1943)
Antonino Oliveri, marinaio, da Paternò
Matteo Olivieri, marinaio fuochista, da Campo
Ligure (9/9/1943)
Giovanni Orame, sergente cannoniere, da Savona
Francesco Orfano, marinaio infermiere, da
Napoli
Guido Orizio, marinaio, da Castegnato
Guerrino Orlandini, marinaio cannoniere, da Ospedaletti
Lorenzino Orrù, marinaio, da Furti
Ettore Ottonello, sergente elettricista, da
Genova (9/9/1943)
Pellegro Ottonello, marinaio, da Rapallo
(9/9/1943)
Domenico Pace, marinaio, da Polignano a Mare
Costanzo Pacifico, marinaio, da Mesagne
Giuseppe Pacucci, marinaio, da Bari
Giuseppe Paffi, marinaio cannoniere, da
Sigillo (9/9/1943)
Rocco Pagano, marinaio, da Palmi
Giuseppe Pagliero, marinao, da Torino
(9/9/1943)
Giuseppe Pagnoncelli, marinaio fuochista, da
Brembate
Guglielmo Paladini, marinaio, da Viareggio
(9/9/1943)
Antonio Paladino, marinaio, da Torre Santa
Susanna
Pasquale Palamara, marinaio, da Bagnara
Calabra
Vincenzo Palazzo, marinaio cannoniere, da San
Giorgio Lucano
Salvatore Pallonetto, marinaio, da Napoli
Mario Palma, marinaio, da Torremaggiore
Nicola Palmeto, marinaio, da Monopoli
Luigi Palumbo, marinaio carpentiere, da
Ercolano
Vincenzo Palumbo, marinaio, da Paternò
Rodolfo Panattoni, marinaio cannoniere, da
Roma
Antonio Panebianco, marinaio, da Bari
Arcangelo Panzera, marinaio, da Cassano d’Adda
Domenico Paolantoni, secondo capo cannoniere,
da Terni (19/9/1943)
Carlo Paoletti, marinaio cannoniere, da Roma
(9/9/1943)
Ippolito Paoli, capo furiere di terza classe,
da Rio nell’Elba (9/9/1943) (*)
Lorenzo Papagna, marinaio nocchiere, da
Molfetta
Giacomo Papetti, marinaio cannoniere, da Omega
Luigi Papili, capo segnalatore di prima
classe, da Camerata Picena (*)
Raffaele Pappalardo, marinaio, da Giarre
Rosario Pappalardo, secondo capo
radiotelegrafista, da Catania (22/9/1943) (*)
Francesco Parasporo, sottocapo
radiotelegrafista, da Villa San Giovanni (*)
Aldo Parenti, capo cannoniere di terza classe,
da Modena
Doride Pareschi, marinaio cannoniere, da
Magnacavallo
Arturo Parma, marinaio cannoniere, da Ranica
Onorato Parodi, marinaio, da Mele (9/9/1943)
Vincenzo Parodi, marinaio, da Genova
(9/9/1943)
Francesco Parrotta, marinaio, da Cirò
Michele Pasca, marinaio cannoniere, da Maglie
Paolo Pascalicchio, sottocapo motorista, da
Turi
Piero Pasqui, marinaio, da Livorno (9/9/1943)
Angelo Pasquino, marinaio nocchiere, da Rodi
Garganico
Vincenzo Passarello, marinaio, da Palermo
Vito Passeri, marinaio, da Mola di Bari
Primo Passerini, marinaio, da Viadana
Francesco Pata, marinaio, da Amantea
Gaetano Patinella, marinaio, da Palermo
Vittorio Patrucco, marinaio cannoniere, da
Frassineto Po
Antonio Pavone, marinaio nocchiere, da
Letojanni
Silvio Pecchioli, marinaio, da Scandicci
Domenico Pecoraio, sottocapo cannoniere, da
Roseto degli Abruzzi
Antonio Pecoraro, marinaio, da Castellammare
di Stabia
Bruno Pedercini, sergente cannoniere, da Milano
Francesco Pellegrini, marinaio, da Ronchis
Pietro Pennisi, marinaio, da Catania
Umberto Penso, marinaio, da Venezia
Aurelio Perazzi, marinaio elettricista, da
Verbania (9/9/1943)
Battista Percivalle, marinaio, da Roccaforte
Mondovì (9/9/1943)
Francesco Perricone, marinaio, da Palermo
(9/9/1943)
Mario Petratti, marinaio segnalatore, da
Bussero
Salvatore Petrone, marinaio, da Formia
(12/9/1943)
Alvaro Petrucci, marinaio, da San Marcello
Pistoiese (9/9/1943)
Carlo Petrucci, marinaio cannoniere, da Napoli
Raffaele Pianese, marinaio cannoniere, da
Napoli
Giuseppe Piazzi, marinaio cannoniere, da
Paderno Ponchielli
Ugo Lino Piazzi, marinaio cannoniere, da
Portomaggiore
Leandro Piccinini, marinaio fuochista, da
Ancona
Vito Piccolella, marinaio, da Aquilonia
Sergio Pierucci, marinaio, da Firenze
Tullio Pietraforte, marinaio torpediniere, da
Castel di Sangro (9/9/1943)
Pierino Pietta, marinaio, da Gussago
Giuseppe Pignatelli, marinaio, da Taranto
Marino Pignatelli, marinaio cannoniere, da Beura
Cardezza (*)
Pietro Piloni, capo cannoniere di terza classe
(batteria Majorana), da Lecco (*)
Tommaso Pimpinella, marinaio cannoniere, da
Minturno
Mario Pinna, marinaio cannoniere, da Oristano
Vincenzo Pinto, marinaio fuochista, da Napoli
Luigi Pioggia, marinaio cannoniere, da
Bernalda
Guido Piron, marinaio, da Piove di Sacco
(9/9/1943)
Gennaro Pirozzi, marinaio, da Pozzuoli
Enrico Pisano, marinaio, da Apricale
Giustino Pitacco, marinaio cannoniere, da Buie
d’Istria
Giovanni Pitini, marinaio, da Palermo
(9/9/1943)
Sergio Pittana, marinaio elettricista, da
Torino
Antonio Pittani, marinaio, da Santa Margherita
d’Adige
Galliano Pitton, marinaio cannoniere, da Teor
Giovanni Piunti, marinaio, da San Benedetto
del Tronto (*)
Carlo Pizzi, marinaio, da Armeno (9/9/1943)
Rodolfo Pulich/Poli, marinaio cannoniere, da
Bogliuno
Giovanni Pollarolo, marinaio, da Genova
(9/9/1943)
Amleto Polli, marinaio cannoniere, da Roma
(9/9/1943)
Renato Polovineo, marinaio furiere, da Zara
Alfio Pontanari, marinaio, da Pontedera
Celestino Pontoglio, marinaio, da Rovato
Dino Ponzetto, marinaio, da Taglio di Po
Vincenzo Ponzio, sergente segnalatore, da
Latronico
Pietro Porcaro, marinaio, da Arpaise
Salvatore Porcelli, sottocapo cannoniere, da
Piedimonte Matese
Marino Porzionato, marinaio, da Chioggia
Rolando Povoli, marinaio, da Trento
Rizzieri Pozzato, marinaio, da Donada
Vittorio Prati, marinaio, da Caldonazzo
Alfredo Pregnolato, sottocapo cannoniere, da
Porto Tolle (9/9/1943)
Gasperino Primomo, marinaio, da Mozzagrogna
(9/9/1943)
Giacomo Prinzivalli, sottocapo
radiotelegrafista, da Palermo (*)
Giuseppe Priolo, marinaio fuochista, da
Giardini-Naxos
Giulio Prostini, marinaio elettricista, da
Ferrara
Antonino Puglisi, marinaio, da Catania
Nicolò Purpura, marinaio, da Palermo
Claudio Quaglia, marinaio, da Biella
Massimo Quarello, marinaio, da Torino
(9/9/1943)
Vittorio Quattrocchi, marinaio fuochista, da
Catania
Antonio Quero, marinaio, da Taranto
Ernesto Rabellino, marinaio, da Le vice
Carmine Radano, marinaio, da Pollica
(19/9/1943)
Fabio Raffaelli, sottocapo radiotelegrafista,
da Volterra (*)
Arnaldo Ragni, marinaio cannoniere, da Colonna
(9/9/1943)
Michele Rago, marinaio cannoniere, da
Accettura
Sabato Raia, marinaio, da Ercolano (19/9/1943)
Antonio Raimondo, marinaio, da Larino
Massimiliano Raineri, marinaio, da Quistello
Francesco Rainone, marinaio, da Sarno
Luigi Raman, marinaio, da Vedelago
Alfredo Rampini, marinaio, nato in Francia
Giuseppe Rangan, marinaio, da Arba
Pietro Rastellino, marinaio, da Breme
(9/9/1943)
Luigi Ravagnin, marinaio cannoniere, da
Venezia
Ciro Rea, marinaio, da Pozzuoli
Stelio Reali, marinaio furiere, da
Civitavecchia
Salvatore Rella, sottocapo radiotelegrafista,
da Rodi (9/9/1943)
Orlando Remigio, marinaio, da Ortona
(9/9/1943)
Annibale Remotti, sergente segnalatore, da
Bologna (9/9/1943) (*)
Enrico Restivo, marinaio, da Enna (9/9/1943)
Antonino Restuccia, marinaio, da Santa Teresa
di Riva
Luigi Retegno, marinaio, da Cavaglia
(9/9/1943)
Giovanni Ricciardi, sottocapo
radiotelegrafista, da Napoli (19/9/1943)
Bruno Ricciotti, marinaio radiotelegrafista,
da Chieti
Andrea Ricco, marinaio cannoniere, da Bari
Vincenzo Rigione, marinaio cannoniere, da
Napoli
Francesco Rinaldi, sergente cannoniere, da
Ercolano
Enrico Riparbelli, marinaio segnalatore, da
Viareggio (9/9/1943)
Vincenzo Risola, marinaio, da Bari
Giuseppe Rispoli, marinaio cannoniere, da
Paiano
Aldo Risso, capo radiotelegrafista di terza
classe, da Genova (9/9/1943) (*)
Edoardo Risso, marinaio, da Mignanego
(9/9/1943)
Mario Rissotto, marinaio silurista, da Genova
Giobatta Rivano, sottocapo, da Genova
(9/9/1943)
Raffaele Rivieccio, sergente segnalatore, da
Torre del Greco (9/9/1943) (*)
Andrea Rizzo, secondo capo furiere, da Salemi
(22/9/1943) (*)
Antonio Rizzo, marinaio, da Ascea
Arnaldo Rizzo, marinaio, da Belmonte Calabro
Beniamino Rizzo, marinaio, da San Cataldo
Donato Rizzo, marinaio, da Otranto
Luigi Rizzo, marinaio cannoniere, da Perito
Vittorio Rizzo, marinaio cannoniere, da Cison
di Valmarino
Alberto Rocca, marinaio S.D.T., da Genova
Avio Rodriguez, sottocapo nocchiere, da Rimini
Angelo Rolla, marinaio, da Lerici
Angelo Rolt, marinaio cannoniere, da Trichina
Enzo Romagna, marinaio fuochista, da Pesaro
Biagio Romano, marinaio, da Ercolano
Gennaro Romano, marinaio nocchiere, da Ponza
Nunzio Romano, marinaio cannoniere, da Taranto
Tolmino Romano, marinaio, da Zuglio
Luigi Romeo, marinaio, da Palermo
Michele Romeno, marinaio, da Terrasini in
Favarotta
Luigi Roncato, marinaio, da Noale
Vincenzo Ronchi, marinaio, da Margherita di
Savoia
Luciano Ronzani, marinaio, da Venezia
Antonio Rosadini, marinaio, da Arezzo
Renzo Rossetti, sergente elettricista, da
Massa Marittima
Francesco Rossi, marinaio, da Meta (9/9/1943)
Gaetano Rossi, marinaio, da Altino
Giovanni Rossi, marinaio cannoniere, da
Viadana
Aldo Rossini, sottocapo cannoniere, da Agugliano
Argone Rosso, marinaio cannoniere, da Udine
Angelo Rota, marinaio fuochista, da Mondragone
Eugenio Rota, marinaio cannoniere, da Nave
Giuseppe Rotunno, sergente meccanico, da
Calciano
Mario Roveri, marinaio, da Sermide
Giuseppe Ruatta, marinaio, da Savigliano
(9/9/1943)
Mario Rufino, sergente segnalatore, da Roma
(9/9/1943)
Giuseppe Ruggiero, marinaio fuochista, da Vico
Equense (19/9/1943)
Vincenzo Ruggiero, marinaio cannoniere, nato
negli Stati Uniti
Domenico Ruscigno, marinaio fuochista, da Bari
Armando Russo, marinaio segnalatore, da Torre
del Greco
Giuseppe Russo, marinaio fuochista, da Catania
Luigi Russo, marinaio cannoniere, da Foggia
Michele Russo, marinaio, da Margherita di
Savoia
Vincenzo Russo, marinaio, da Napoli
Marcello Sabadini, secondo capo furiere, da
Trieste (*)
Pietro Sabattoli, marinaio, da Ghedi
Giuseppe Sabella, marinaio, da Sciacca
Antonio Sabetti, marinaio furiere, da Roma
Giuseppe Sacchi, marinaio radiotelegrafista,
da Milano
Mario Saias, sottocapo furiere, da Cagliari
(9/9/1943)
Fiorenzo Sala, sottocapo cannoniere, da
Capriate San Gervasio
Livio Sala, marinaio, da Torre Bordone
Giuseppe Salerno, marinaio, da San Cataldo
Angelo Salvador, sergente radiotelegrafista,
da Vittorio Veneto (*)
Arrigo Salvati, marinaio elettricista, da Roma
Aldo Salvatori, marinaio, da Bagnacavallo
Marino Salvatori, marinaio, da Alfonsine
Bruno Samaritani, marinaio cannoniere, da
Rimini
Mario Sampaolesi, marinaio, da Numana
Giulio Sampietro, marinaio, da Bellagio
Girolamo Sanfilippo, marinaio, nato negli
Stati Uniti
Guerrino Sanna, secondo capo cannoniere, da
Tempio Pausania
Mario Santilli, sergente cannoniere, da
Sulmona
Ermenegildo Santini, marinaio cannoniere, da
Rimini
Giovanni Santoni, sottocapo nocchiere, da
Castelnuovo Cilento
Natale Santonocito, marinaio cannoniere, da
Misterbianco
Angelo Santoro, marinaio, da Taranto
Niceta Santoro, marinaio cannoniere, da
Melendugno
Paolo Santoro, marinaio, da Canicattini Bagni
(9/9/1943)
Mario Sapucci, marinaio cannoniere, da Coriano
Stefano Sarcina, marinaio cannoniere, da
Trinitapoli
Giacomo Sardegna, marinaio, da Venezia
Francesco Sardi, sottocapo radiotelegrafista,
da Città di Castello (*)
Benedetto Sardiello, marinaio, da Francavilla
Fontana (9/9/1943)
Saverio Sassanelli, marinaio cannoniere, da
Bari (*)
Nicola Satalino, marinaio, da Monopoli
Vincenzo Savoca, marinaio cannoniere, da
Bagnara Calabra
Corrado Savrie, capo cannoniere di terza
classe, da Argenta
Giuseppe Scaffidi, sergente carpentiere, da
Piratino
Adriano Scaini, marinaio, da San Giacomo delle
Segnate
Vincenzo Scala, marinaio, da Torre del Greco
(9/9/1943)
Mario Scalabrin, marinaio, da Venezia
Fiorindo Scarazza, marinaio, da Tortoreto
(9/9/1943)
Augusto Scarci, marinaio, da Taranto
Sirio Scarlatti, sottocapo radiotelegrafista, da
Firenze (9/9/1943)
Giovanni Scarpa, secondo capo furiere, da
Venezia (*)
Antonio Scarpato, marinaio, da Procida
Egeo Scarpato, sottocapo cannoniere, da La
Spezia
Giuseppe Scartapenna, marinaio, da Noverato
Giuseppe Scavo, marinaio fuochista, da Palermo
Nereo Scatton, marinaio cannoniere, da Trieste
Antonio Schina, marinaio cannoniere, da Salve
Domenico Schirò, marinaio, da Rionero in
Vulture
Efisio Schirru, marinaio, da Cagliari
Cesare Scialoni, marinaio, da Altopascio (*)
Francesco Sciarrino, sottocapo infermiere, da
Palermo
Giuseppe Scognamiglio, marinaio cannoniere, da
Ercolano
Vito Scorcia, secondo capo cannoniere, da Bari
(9/9/1943)
Salvatore Scorrano, marinaio, da Manduria
Arnaldo Scosta, marinaio, da Terni (19/9/1943)
Rosario Scotto di Perrotolo, marinaio, da
Procida
Agostino Scriva, marinaio, da Palmi
Gennaro Senatore, marinaio, da Palermo
Carmelo Sera, marinaio, da Piazza Armerina
Marinio Serfilippi, marinaio, da Monte Porzio
Umberto Serio, capo elettricista di terza
classe, da La Maddalena
Armando Sesto, marinaio, da Marzio
Domenico Settembre, sottocapo furiere, da
Caltanissetta (*)
Roberto Sgavetta, marinaio, da Busseto
Vincenzo Siciliano, sottocapo furiere, da
Caserta (9/9/1943)
Ermanno Siega, marinaio cannoniere, da Trieste
Nicolò Signorelli, marinaio, da MaZara del Vallo
Jader Signorini, marinaio, da Ravenna
Raffaele Simeone Rossetto, marinaio, da Gaeta
Attilio Simigliani, marinaio, da Mozzagrogna
Nazzareno Simonetti, marinaio cannoniere, da
Montemarciano
Matteo Sinagra, marinaio, da Palermo
Giuseppe Siracusa, marinaio, da Porto
Empedocle
Giuseppe Sirchia, marinaio, da Palermo
Giuseppe Skocaj, marinaio cannoniere, da
Cormons
Vittorio Soavi, sergente segnalatore, da
Seriana (9/9/1943)
Giuseppe Sorace, marinaio radiotelegrafista,
da Acireale
Pio Sorrentino, marinaio, da Ercolano
Mario Spaccini, marinaio cannoniere, da
Perugia (9/9/1943)
Alfredo Spampinato, sergente
radiotelegrafista, da Catania
Francesco Sparta, marinaio fuochista, da
Messina (9/9/1943)
Simplicio Spensatellu, marinaio, da Modugno
Pasquale Spinosa, marinaio, da Gaeta
Giuseppe Spinozzi, marinaio fuochista, da
Portocannone
Larino Squartini, sottocapo, da Ancona
Nunzio Stasino, marinaio, da Napoli
Giovanni Sterbich, marinaio fuochista, da
Orsera
Giuseppe Stimma, marinaio, da Ponza
Silvio Stizzolo, marinaio fuochista, da Milano
Antonio Stoppa, sottocapo, da Taglio di Po
Luigi Storino, marinaio, da Cetraro
Savio Strancar, marinaio cannoniere, da
Trieste
Antonio Sturla, capo furiere di terza classe,
da Arenzano (9/9/1943)
Federico Surina, marinaio, da Elsane
Beniamino Taboni, marinaio cannoniere, da
Palazzolo sull’Oglio
Adelino Taffelli, marinaio cannoniere, da
Marcaria
Curiazio Tafi, marinaio fuochista, da Livorno
Giorgio Taliercio, marinaio, da Barano
d’Ischia
Giuseppe Tambasco, marinaio, da Pisciotta
Vito Tamma, marinaio, da Bari
Filippo Tana, marinaio segnalatore, da Vasto
Ubaldo Tarantino, marinaio radiotelegrafista,
da Palermo
Domenico Taranto, sottocapo cannoniere, da
Castelluccio Superiore (*)
Alfredo Targhetta, marinaio, da Amantea
Ciro Tarsi, marinaio, da Corinaldo (9/9/1943)
Giulio Tedesco, marinaio, da Molfetta
Enrico Tempesti, marinaio cannoniere, da
Arcola (9/9/1943)
Augusto Tenerani, marinaio, da Carrara
(9/9/1943)
Francesco Teodori, marinaio, da Milano
Giovanni Terragno, marinaio, da Imperia
Giovanni Tibaldo, marinaio, da Vigone
(9/9/1943)
Salvatore Tizzano, marinaio, da Napoli
Ferdinando Todaro, marinaio, da Trapani
Guerrino Todero, marinaio cannoniere, da
Calcinato
Ermanno Tognon, marinaio nocchiere, da Grado
Francesco Tola, marinaio cannoniere, da
Cagliari
Dionigi Tolosa, marinaio, da Volvera
(9/9/1943)
Antonio Tomaiuolo, marinaio, da Monte
Sant’Angelo
Romeo Tomasicchio, marinaio fuochista, da Bari
Santo Tomba, marinaio, da Reggio Calabria
Guido Tommolini, sottocapo segnalatore, da
Colonnella
Alfredo Tonin, marinaio, da Crespano del
Grappa
Osiride Toninelli, capo cannoniere di terza
classe, da Lerici (*)
Pierino Tonoli, marinaio cannoniere, da
Cellatica
Romualdo Topputi, marinaio cannoniere, da
Monopoli (22/9/1943)
Vito Topputi, marinaio cannoniere, da Monopoli
Alfio Torrisi, marinaio cannoniere, da Castel
di Iudica
Agostino Toscano, marinaio cannoniere, da
Catania (9/9/1943)
Elio Toselli, marinaio cannoniere, da Cento
(9/9/1943)
Giovanni Tosini, sottocapo elettricista, da Brescia
Carmine Tosto, marinaio, da Paola
Bruno Trainini, marinaio, da Brescia
Salvatore Tranchina, marinaio, da Palermo
Vincenzo Tranchina, marinaio fuochista, da
Napoli
Dario Traverso, marinaio, da Genova (9/9/1943)
Demario Trenti, marinaio cannoniere, da Genova
(9/9/1943)
Gino Tribolo, marinaio cannoniere, da Rassa
(9/9/1943)
Silvio Tricca, marinaio cannoniere, da
Sansepolcro
Francesco Trichilo, marinaio, da Siderno
Nicola Trifiletti, marinaio cannoniere, da
Torregrotta (9/9/1943)
Francesco Tringali, marinaio cannoniere, da
Augusta
Annunziato Tripodi, marinaio, da Montebello
Ionico
Pietro Triulzi, marinaio elettricista, da Milano
Calcedonio Trombetta, capo cannoniere di terza
classe, da Vico del Gargano
Giordano Trombini, marinaio cannoniere, da
Ravenna
Salvatore Trusiano, marinaio cannoniere, da
Napoli
Gregorio Tuninetti, marinaio, da Carmagnola
Orazio Turco, marinaio, da Gela
Ugo Turola, sergente radiotelegrafista, da
Ferrara
Bartolomeo Vacca, marinaio, da Anacapri
Erminio Vaccari, capo nocchiere di terza
classe, da Formignana
Giovanni Valente, marinaio cannoniere, da
Bisceglie
Maurizio Valeri, marinaio cannoniere, da
Rivolta d’Adda
Tommaso Valerio, marinaio segnalatore, da Bari
Faustino Valle, marinaio cannoniere, da Uscio
(9/9/1943)
Francesco Vallesi, marinaio, da Capodimonte
Ermanno Valsecchi, marinaio fuochista, da
Malgrate
Aldo Vanoni, marinaio cannoniere, da Caronno
Varesino
Silvio Vecchi, marinaio furiere, da Torino
(9/9/1943)
Giovanni Veglia, marinaio, da Savigliano
Raniero Vendramin, sottocapo cannoniere, da
Paese (9/9/1943)
Mario Verbanaz, marinaio segnalatore, da Pola
Carlo Verbano, marinaio S.D.T., da Pola
Angelo Verde, marinaio fuochista, da Enna
(9/9/1943) (*)
Ferdinando Vermi, marinaio, da Travagliato
Santino Verri, marinaio cannoniere, da Linaiolo
Michele Vescia, marinaio, da Rodi Garganico
Aniello Vetrano, capo meccanico di prima
classe, da Avella (*)
Ermes Vezzali, marinaio cannoniere, di San
Giorgio in Mantova
Alfredo Viali, marinaio cannoniere, da Terni
Romano Vianello, marinaio, da Venezia
Ciro Villano, marinaio cannoniere, da Livorno
(9/9/1943)
Luigi Villano, marinaio, da Livorno (9/9/1943)
Nunzio Villari, marinaio, da Scaletta Zanclea
(9/9/1943)
Gian Carlo Viotti, sottocapo segnalatore, da
Castiglione delle Stiviere
Giovanni Virgona, marinaio, da Lipari
(19/9/1943)
Vito Virzi, marinaio, da Leonforte
Carlo Visintainer, marinaio (cuoco dell’amm.
Daviso), da Divezzano (*)
Bruno Visintin, sottocapo, da San Pier
d’Isonzo
Luigi Vitali, marinaio cannoniere, da Bergamo
(9/9/1943)
Vitandrea Vitti, marinaio, da Fasano
Vincenzo Vivone, marinaio, da Maratea
Luigi Zadra, marinaio, da Trento
Aldo Zadro, marinaio cannoniere, da Venezia
Ernesto Zambonetti, marinaio cannoniere, da Milano
Mario Zanatta, sottocapo elettricista, da
Genova
Beniamino Zanatti, marinaio, da Piacenza
Alfonso Zanconi Tomasetti, marinaio furiere,
da Macerata
Annibale Zanetti, marinaio cannoniere, da
Cremona
Pasquale Zanghi, marinaio nocchiere, da
Messina (22/9/1943)
Bruno Zanni, marinaio, da Orta San Giulio
(9/9/1943)
Ivo Zannoni, sottocapo radiotelegrafista, da
Savignano sul Rubiconde
Alfiero Zanon, marinaio, da Isola d’Istria
Salvatore Zappalà, marinaio, da Catania
Antonio Zarzana, marinaio fuochista, da
Palermo (9/9/1943)
Matteo Zema, sergente S.D.T., da Reggio
Calabria (9/9/1943)
Salvatore Ziccardi, marinaio, da Campobasso
Nicolò Zichichi, marinaio cannoniere, da
Trapani
Mario Zini, marinaio cannoniere, da Gazzo
Padovano
Mario Zito, marinaio furiere, da Taranto
Augusto Zoffoli, sottocapo motorista, da
Cesenatico (9/9/1943)
Franco Zombolo, marinaio cannoniere, da
Candelo (9/9/1943)
Angelo Zuccaro, sottocapo fuochista, da
Brindisi
Gennaro Zuccaro, capo segnalatore di seconda
classe, da Lipari (*)
Giovanni Zuccon, marinaio, da Pola
Amelio Zunino, marinaio, da Genova
Salvo indicato
diversamente, tutti i militari che figurano nell’elenco risultano dispersi in
data 11 settembre 1943. Secondo l’ammiraglio Giuliano Manzari, quasi tutti i
militari di Marina Rodi dispersi in tale data avevano preso imbarco sulla Donizetti.
Gli otto ufficiali di artiglieria del Regio
Esercito, distaccati presso le batterie della Marina di Rodi, imbarcatisi con i
loro uomini sulla Donizetti e con
essa scomparsi:
Antonio Clerici, tenente, da Ravenna
Bruno Cruciani, tenente, da Roma
Iusuf Eleusi, sottotenente (unica vittima
albanese)
Mario Keller, tenente, da Brescia
Romualdo Lia, tenente, da Laurito
Adolfo Messina, tenente, da Salerno
Giovanni Papa, sottotenente, da Felizzano
Luigi Sabbioni, tenente, da Credera Rubbiano
Il
marinaio Vincenzo Passarello (sopra, in uniforme; sotto, in abiti civili in un
fotomontaggio con la madre ed il ritratto del padre), nato a Palermo l’11
febbraio 1923 e disperso a Rodi l’11 settembre 1943 (si ringrazia il nipote
Antonino Vincenzo Passarello)
Parziale elenco del personale della Regia
Aeronautica imbarcato sulla Donizetti
il 22 settembre 1943 (dall’Archivio Segreto
Vaticano, copia presente sul gruppo Facebook "DISPERSI 2° GUERRA MONDIALE:
Mar Egeo – Isola di Rodi – Piroscafo DONIZETTI"):
Antonio Agosto, aviere
Bruno Alessi, aviere
Giacomo Allegrini,
Ubaldo Angeletti, primo aviere
Livio Antole, aviere
Giuseppe Avarello, aviere
Livio Barbi, aviere
William Barone, aviere scelto
Paolo Bellagamba, aviere
Attilio Benassi, aviere
Salvatore Benigno, aviere scelto
Antonio Berti, aviere
Anacleto Beschi, aviere
Enrico Biasolo, aviere
Francesco Biscardi, primo aviere
Raimondo Boifava, aviere
Giorgio Boncristiani, aviere scelto
Valentino Bottero, aviere
Aldo Botti, aviere
Mario Brenna, aviere
Leonardo Bruni, primo aviere
Salvatore Bussa, aviere
Dino Calvanese, aviere
Emanuele Caracciolo, aviere
Salvatore Carapezza, aviere
Riccardo Casal, aviere
Filippo Casanova, aviere scelto
Augusto Cella, aviere
Giorgio Cetica, primo aviere
Alfredo Chieregato, aviere
Pierino Cignietti, aviere
Pasquale Cirello, aviere
Elso Colarossi, aviere
Carlo Conti, aviere
Domenico Conti, sergente maggiore
Giovanni Corti, aviere
Giuseppe Coviello, aviere
Gennaro D’Agnesi, aviere
Andrea De Angelis, aviere
Saverio De Cunto, aviere scelto
Annibale Delle Case, aviere
Nello De Santis, aviere
Alfonso Di Noia, aviere scelto
Antonio Docchio, aviere
Simplicio Doria, aviere
Antonio Durso, aviere
Vincenzo Esposito, aviere
Domenico Faccio, aviere
Nazareno Fanesi, aviere
Nevio Farini, aviere scelto
Antonio Farina, aviere scelto
Amelio Farinelli, aviere
Emilio Felizzani, aviere
Settimio Fiore, aviere
Leonida Flaibani, aviere
Ermenegildo Furletti, aviere
Aldo Gaviraghi, aviere
Giuseppe Ghezzi, aviere
Battista Gotti, aviere
Luigi Izzo, aviere
Emilio Lastrucci, aviere
Rocco Luisi, aviere
Giuseppe Maestroni, primo aviere
Bruno Magri, primo aviere
Dino Mammei, aviere
Salvatore Manca, primo aviere
Armando Mancini, aviere scelto
Paolino Mancini, aviere
Antonio Mandasi, aviere
Michelangelo Marano, aviere
Alfredo Masoero, aviere
Angelo Mazza, aviere
Adamo Mussi, aviere
Paolo Ornofoli, aviere
Angelo Pacifico, aviere
Giobatta Pagano, aviere
Ragolo Paiato, aviere
Eugenio Palma, aviere scelto
Giuseppe Palmieri, aviere
Artemio Papini, aviere
Giovanni Porcelli, aviere
Pietro Puleo, aviere
Salvatore Ranieri, aviere
Guido Ranzetti, primo aviere
Gustavo Rinaldi, aviere
Lino Rizzolo, aviere
Salvatore Romano, aviere
Silvano Romano, aviere
Avio Rossetti, aviere
Cesare Roveri, aviere scelto
Pietro Russi, aviere scelto
Enzo Sacchi, aviere
Fausto Saffrei, aviere
Leonardo Saglimbene, aviere
Giuseppe Sali, primo aviere
Mario Salomone, aviere scelto
Umberto Santopietro, aviere
Francesco Santoro, aviere
Lanfranco Sartori, aviere
Domenico Savelli, primo aviere
Ettore Schiavo, aviere
Giuseppe Sicilia, aviere scelto
Luigi Sicuro, aviere
Cesare Sopracolle, aviere
Carlo Sorma, aviere
Luigi Spaccasassi, aviere
Luciano Spadoni, aviere
Aldo Stella, aviere
Emilio Stramucci, aviere
Pietro Testa, aviere
Giulio Tiziani, sergente
Franco Tognoli, aviere scelto
Italo Tosti, aviere
Giuseppe Traini, aviere
Luigi Trigoso, aviere
Danilo Trivellato, aviere
Guglielmo Trovati, aviere
Giuseppe Ugeri, aviere
Michelangelo Viberti, aviere
Renato Vicci, aviere
Attilio Zaffini, aviere
Walter Zuanelli, primo aviere
L’Albo dei caduti e dispersi della Repubblica
Sociale Italiana elenca 19 uomini che risulterebbero dispersi nell’affondamento
della Donizetti (interessante notare che i nomi di quattro di essi, personale
della Marina – gli altri 15 erano dell’Esercito e dell’Aeronautica –, non
figurano nell’Albo dei caduti e dispersi della Marina Militare: forse perché, a
differenza degli altri milleduecento marinai di Marina Rodi dispersi nel
settembre 1943, avevano aderito alle proposte tedesche di collaborazione e
dunque non erano considerati più come appartenenti alla Marina italiana):
Mario Arban, 1° aviere 97a
Squadriglia da Caccia, da Fiume
Celso Codeghini, sergente Div.
"Regina", da Podenzano
Daniele Comi, aviere, da Gorizia
Francesco De Cillis, caporale 331° Rgt.
Fanteria, da Bisceglie
Aniello Di Lieto, geniere Div.
"Regina", da Tramonti
Luigi Di Stefano, sottocapo, da Città
Sant’Angelo
Americo Galuppi, marinaio, da Alatri
Giuseppe Krizman, sergente dell’Aeronautica,
da Monrupino
Milan Krizman, primo aviere, da Trieste
Sante Giuseppe Lonati, geniere Div.
"Regina", da Mazzano
Adamo Nioli, artigliere Div.
"Regina", da Curtatone
Attilio Panzetti, soldato 331° Rgt. Fanteria,
da Camisano
Venerino Pedrazzoli, 1° aviere, da Ariano
Polesine
Imperio Polacco, sottocapo, da Acquapendente
Romolo Rinaldi, caporale 331° Rgt. Fanteria,
da Assisi
Mario Rocchetti, soldato 331° Rgt. Fanteria,
da Ussita
Amato Vaselli, 1° aviere, da Rapolano
Luigi Vogric, aviere scelto, da Gorizia
Renato Mario Zoso, sottocapo, da Sandrigo
Infine, alcuni nominativi incompleti di uomini
della Marina menzionati da reduci di Rodi come imbarcatisi sulla Donizetti, ma i cui nomi non figurano
nell’elenco dei caduti e dispersi della Marina Militare: si tratta
probabilmente di nomi sbagliati (erano riferiti dai reduci a memoria, a
distanza di anni) o magari di uomini che in realtà non s’imbarcarono realmente
sulla Donizetti:
Giuseppe Cagliari, capo segnalatore
Franco Castellini, sottocapo radiotelegrafista
… Cuomo, secondo capo radiotelegrafista
… Di Gennaro, sottocapo motorista
… Govi, sergente radiotelegrafista
… Sasso, sergente
… Testa, capo cannoniere di seconda classe
Sono il pronipote di Mazzaferro Augusto, qui sopra nella lista dei probabili passeggeri, disperso a Rodi. Sulla sua sorte, alla famiglia fu raccontata una storia differente, raccontava la sorella che morì sotto le bombe tedesche mentre era ai cannoni di difesa. Dopo aver letto il suo precisissimo articolo mi sono reso conto che non ci fu nessun bombardamento di aerei tedeschi, pertanto ritengo più plausibile la sua teoria sull'imbarco. Magari alla famiglia fu raccontata una storia diversa per cercare di rendere la morte del figlio meno dolorosa. Complimenti per l'articolo e grazie mille, sono anni che cerco di scoprire qualcosa.
RispondiEliminaBuon giorno, leggendo il suo interessante post sulla Donizetti, mi sono ricordato anche dei casi analoghi del Sinfra e del Petrella, le chiedo: il sistema di intelligence inglese chiamato ULTRA (cosi ben descritto nel libro di Alberto Santoni nel 1981 ) non avrebbe potuto intercettare i messaggi tedeschi che certamente furono scambiati tra i vari comandi germanici, inerenti alla partenza e alle destinazioni delle suddette navi? Grazie
RispondiEliminaBuongiorno,
Eliminaè certamente possibile, ma non è detto che sia avvenuto (che io sappia, non avvenne) dal momento che naturalmente gli inglesi non potevano intercettare e decifrare in tempo utile tutti i messaggi tedeschi. Del resto, anche allorquando avessero intercettato e decifrato questi messaggi in tempo, è probabile che non avrebbero fatto niente per impedire che queste navi venissero attaccate dalle loro unità aeronavali: non lo fecero nemmeno con le navi italiane che trasportavano i loro stessi prigionieri (di cui sapevano, tramite “ULTRA”: Nino Bixio, Scillin, Ariosto, Loreto, etc.), per evitare che i comandi dell’Asse notassero che le navi che trasportavano prigionieri britannici non venivano attaccate e conseguentemente intuissero che i britannici riuscissero a leggere i loro messaggi, cambiando pertanto i codici.
Grazie per la sua risposta e mi scuso per il ritardo con cui la leggo. E' condivisibile quello che dice lei in merito ai ritardi per decifrare i messaggi eventualmente intercettati, ma sta di fatto che questi messaggi non è che venivano scambiati uno o due giorni prima della partenza delle navi, l'organizzazione di questi imbarchi richiedeva alcuni giorni ed alcune partenze venivano anche posticipate. Ma a parte questo, c'è un'altra domanda che mi frulla per la testa: quale valore militare potevano avere per gli anglo-americani abombardare e affondare navi che si sapeva essere da carico (come il Rosselli, Il Sinfra, il Petrella ed il Donizetti)? Non potevano portare aiuti militari nè a Creta nè a Rodi, perchè il viaggio era DA queste isole per la Grecia continentale ed al max potevano portare 100 o 200 tedeschi cadauna che lasciavano le isole. Altro fattore che non mi convince: è noto che sia a Rodi e a Creta in special modo, esisteva un efficiente rete di informatori greci che comunicavano al Cairo i movimenti che avvenivano nei porti locali. In conclusione, ho il sospetto, che questa sia una delle tante storie che a causa della guerra fredda e della collocazione politica e militare dell'Italia del dopoguerra, sia stata tenuta forzatamente nell'oblio. Potrà sembrare fantastoria, perchè non c'erano navi tedesche in Mar Nero a trasportare i POW italiani, ma come sarebbe andata a finire se per un attimo immaginiamo che queste navi c'erano e che fossero state affondate da aerei sovietici in Mar Nero? Grazie per l'attenzione. Osvaldo Bardelli
EliminaBe', le navi mercantili sono un obiettivo primario della guerra navale da sempre. L'obiettivo degli angloamericani era di paralizzare ogni traffico marittimo tedesco in Egeo, che le navi stessero portando rifornimenti verso le isole o tornando da esse più o meno scariche (per la verità, avrebbero potuto trasportare ben più di cento o duecento tedeschi) non faceva molta differenza; del resto anche i mercantili italiani che rientravano scarichi dal Nord Africa, negli anni precedenti, erano regolarmente attaccati anche se era evidente che non stavano certo trasportando rifornimenti, o erano vuoti, o trasportavano militari rimpatrianti, o portavano prigionieri (come infatti accadde più di una volta con tragiche conseguenze). Sugli informatori greci non mi esprimo perché non è un argomento che conosco nel dettaglio, però nel caso specifico della Donizetti, a meno di due settimane dall'armistizio, non penso che potesse essersi già organizzata a Rodi una rete particolarmente efficiente.
EliminaConcordo con lei che se ad affondare navi cariche di prigionieri italiani fossero stati i sovietici, probabilmente nel dopoguerra se ne sarebbe sentito parlare molto di più. Un po' come molto si è sempre parlato della tragica sorte dei prigionieri italiani in Unione Sovietica mentre ben poco si è detto sul trattamento subito da quelli nei campi francesi in Algeria, tanto per esempio.
Osservazioni giuste le sue, anche se i miei dubbi in materia rimangono. Ad esempio, mi sono sempre chiesto come mai gli anglo.americani non trovarono mai ne il tempo ne gli aerei per aiutare i soldati italiani a Cefalonia, mentre pochi giorni dopo avevano gli aerei per bombardare il Rosselli in porto a Corfù mentre stava caricando prigionieri italiani. Il discorso si fa lungo e non voglio tediarla oltre. Visto che lei ha fatto riferimento alla Russia, mi permetto di consigliarle la visone del sito web www.frontedeldon.it , si tratta di un gruppo di 6 persone (di cui faccio parte) che ha deciso di rivisitare la campagna di Russia nell'ottica dell'articolo 11 della nostra Costituzione. Da novembre 2020 abbiamo fatto delle videoconferenze on line a cadenza mensile, con la partecipazione di studiosi come G.Scotoni, M.T. Giusti, Marina Rossi etc Abbiamo terminato questo ciclo a maggio. Riprenderemo a settembre. La ringrazio e la saluto Osvaldo Bardelli
EliminaLa ringrazio, lo stavo guardando proprio ieri sera.
EliminaSpero l'abbia trovato di suo gradimento. Se le interessa, quando riprenderemo con le videoconferenze, le farò sapere i dati per seguirci. A risentirci, cordiali saluti Osvaldo Bardelli
EliminaComplimenti per la ricerca storica estremamente dettagliata, tuttavia vorrei esprimere alcuni dubbi suscitati proprio dalla vs/relazione. Nell'elenco dei marinai caduti/dispersi perché alcuni hanno un asterisco, cosa li accomuna e li distingue dagli altri? I nomi con data 9/9/43 e/o 19/9/43 erano imbarcati sulla Donizetti e colpiti in precedenti missioni rispetto al fatidico 22/9/43? I marinai italiani sostituiti dai tedeschi prima dell'imbarco degli internati e destinati in Polonia furono reimbarcati come internati o subirono un diverso destino? So per certo che un mio parente Ricco Andrea e un suo cugino Lamaddalena Nicola erano effettivi della Donizetti (uno con asterisco e l'altro no), dalla banca dati dei registri della Marina, il mio parente risulterebbe disperso/deceduto in data 11/9/43, di Lamaddalena Nicola non ho una data, ma risulta tra il personale della R.Marina partito per il campo di concentramento il 22/9/43 con la Donizetti. Un vero rebus-trhiller storico, con confusione di dati e di date. Eventuali chiarimenti al rotunnofranco@hotmail.com Grazie ed ancora complimenti.
RispondiEliminaBuonasera,
Eliminai nomi contrassegnati da asterisco sono quelli degli uomini che, attraverso perlopiù le testimonianze raccolte nel dopoguerra da loro compagni che rimasero a terra e li videro imbarcare, si sa per certo essere stati a bordo della Donizetti nell'ultimo fatale viaggio. La data di dispersione + per alcuni indicata nel 9 settembre, per altri nell'11 e per altri ancora nel 19; non credo si riferisca a specifiche circostanze in cui questi uomini rimasero uccisi, ma che sia una differenza perlopiù "burocratica" le cui specifiche ragioni purtroppo non conosco. In generale, si deve ritenere che la data di dispersione dei marinai di Rodi (9 o 11 o 19 settembre 1943) sia convenzionale e non riferita alla data effettiva della loro morte, dal momento che la stragrande maggioranza di loro perse la vita sulla Donizetti il 23 settembre 1943. Tutti coloro per i quali non ho indicato la data nell'elenco risultano ufficialmente dispersi dall'11 settembre 1943.
Dell'equipaggio italiano della Donizetti, quelli che furono sbarcati subito dopo la cattura al Pireo furono inviati in Polonia, e dunque non erano più a bordo della nave nell'ultimo suo fatale viaggio, come per esempio il direttore di macchina Nenci. Quello che non sono riuscito a scoprire è se l'intero equipaggio della Donizetti sia stato sbarcato e sostituito, o se una parte sia rimasta a bordo, integrata da personale tedesco, seguendo quindi la tragica sorte della nave poche settimane dopo.
Grazie per la esauriente e tempestiva risposta alle mie note del 9/07/2021. Purtroppo alcuni miei dubbi sono anche i suoi. Immagino il caos "amministrativo" seguìto all'armistizio, al cambiamento di regime e dei poteri civili e militari, all'occultamento di documenti compromettenti, monarchia, repubblica, fascisti, partigiani, rinascita e rifondazione di partiti politici, servizi segreti, segreti di Stato. Forse una voce equilibrata è tra i documenti (anche essi in parte secretati) in possesso del Vaticano e del suo capillare Ufficio Informazioni. Certo sarebbe utilissimo rendere on-line almeno alcune certezze come un innocente "foglio matricolare" di quanti si sono sacrificati offrendo la loro giovane vita al mutevole patriottismo di una sconsiderata carneficina, almeno la certezza dei loro nomi, al di là di ogni reticenza burocratica di ciò che rimane gelosamente custodito negli archivi ministeriali. Mi scuso per qualche nota di amarezza e le chiedo solo ancora una cortesia. Il diario (o brogliaccio) dell' allora ventenne Widmer Lanzoni è in qualche modo visionabile e quale è stata la sorte dello stesso Widmer. Sempre grazie per la preziosa collaborazione, con stima.
RispondiEliminaBuonasera,
Eliminadopo lo sbarco dalla Donizetti nell'aprile 1943 Widmer Lanzoni riprese gli studi, non tornò più a navigare. E' morto nel 2017 all'età di 94 anni. Del diario/brogliaccio relativo al periodo di imbarco sulla Donizetti mi è stata inviata copia digitale tempo fa dal figlio Maurizio, se desidera potrei inviargliela per email.
Come sempre, gentilissimo e tempestivo nelle risposte. Certamente mi farebbe piacere ricevere il diario dell'allora ventenne allievo ufficiale Widmer Lanzoni, nella certezza di raccogliere testimonianze "oculari" del vissuto della "maledetta" motonave e condividerne l'atmosfera e l'ambiente a cornice dell'inattesa tragedia. Il mio indirizzo @mail è il seguente rotunnofranco@hotmail.com. Grazie
EliminaBuonasera Sig. Colombo,
RispondiEliminaMi chiamo Ugo GAI e il cap. di Porto Ugo Ricciuti era mio nonno per parte materna.
Desidero ringraziarLa sentitamente perchè essendomi imbattuto casualmente in questo eccezionale lavoro di ricostruzione storica, ho potuto rintracciare una lettera autografa di mio nonno che non ho mai conosciuto.
E' stata uan grande emozione per la quale Le sono molto grato.
Ho stampato la lettera e la porterò a mia madre, ormai anziana che ne sarà certamente felice.
Un cordiale saluto.
Ugo GAI
Buonasera Sig. Colombo, grazie mille per questo bellissimo documento. Roberto Dalmasso, marinaio elettricista di Airasca, era mio nonno da parte materna disperso in mare. In famiglia non avevamo mai avuto la certezza della nave dove fosse imbarcato fino ad ora.
RispondiEliminaCordiali saluti