Il Pietro Campanella sotto l’originario nome di Chanda (da www.clydeships.co.uk) |
Piroscafo da carico
di 6140 tsl, 3802 tsn e 9530 tpl, lungo 131,24 metri, largo 16,52 e pescante 9,75-10,6,
con velocità di 12-13 nodi. Poteva trasportare 11.000 metri cubi di merci ed
anche dodici passeggeri.
Appartenente alla
Società Anonima di Navigazione Tito Campanella, avente sede a Genova, ed
iscritto con matricola 1344 al Compartimento Marittimo di Genova.
Breve e parziale cronologia.
27 dicembre 1905
Varato nel cantiere
Barclay, Curle & Co. Ltd., Clydeholm Shipyard, di Whiteinch (Glasgow) come
britannico Chanda (numero di cantiere
457).
16 marzo 1906
Completato come Chanda per la British India Steam
Navigation Company Ltd. di Glasgow. Registrato a Glasgow, stazza lorda
originaria 6168/6169 (o 6280) tsl, stazza netta 3951 o 3960 tsn.
Il Chanda, la cui costruzione è costata
72.800 sterline, è la terza delle sei nuove navi “classe C” ad essere
consegnata alla British India; le sue gemelle sono Colaba, Chupra, Culna, Chyebassa e Canara.
Inizialmente, il Chanda viene impiegato
sulla linea Londra-Australia.
Settembre 1907
Il Chanda trasporta a Brisbane, insieme ad
altre merci, un organo realizzato dalla ditta londinese Norman & Beard e
destinato alla nuova chiesa anglicana di St. Luke a Toowoomba, nel Queensland
(Australia).
24 giugno 1914
La British India
Steam Navigation Company viene assorbita dalla Peninsular & Oriental Steam
Navigation Company, ma continua ad esistere come sua controllata.
1914-1918
Durante la prima
guerra mondiale, il Chanda viene
impiegato come trasporto.
Marzo 1915
Mentre il Chanda si trova a Calcutta, due fratelli
indiani membri dell’equipaggio (lascari) vengono contagiati durante un’epidemia
di vaiolo che in quel periodo è scoppiata nella città. La malattia si manifesta
solo dopo la partenza della nave per Sydney; dopo aver attraversato lo stretto
di Torres, il piroscafo raggiunge il porto australiano il 15 marzo, ma il
giorno precedente uno dei due malati è morto ed è stato sepolto in mare. L’altro
marittimo è convalescente quando il Chanda
arriva a Sydney, e viene consegnato alla stazione di quarantena di North Head;
il piroscafo stesso viene tenuto in quarantena per diversi giorni.
Giugno 1918-Giugno 1919
Requisito in base al
Liner Requisition Scheme, branca del Ministry of Shipping che si occupa della
requisizione e gestione delle navi passeggeri per il trasporto di truppe, merci
e prigionieri.
21 febbraio 1919
Il Chanda entra in collisione con il
piroscafo Australind al largo di
Dover.
Il Chanda (Sydney Heritage Fleet) |
31 marzo 1925
Acquistato per 21.000
sterline dalla Società di Navigazione Tito Campanella, di Genova, e
ribattezzato Pietro Campanella.
Registrato a Genova.
Settembre 1932
Il Pietro Campanella carica 8464 tonnellate
di grano nel porto canadese di Churchill, Manitoba; è la più grande nave ad
aver fatto scalo, fino a quel momento, nel porto di Churchill, la cui
realizzazione è stata da poco ultimata.
11 febbraio 1937
Mentre il Pietro Campanella si trova nel porto di
Bona, in Algeria, un membro dell’equipaggio, il livornese Leonetto Santigli, di
fede comunista, “diserta” dalla nave e s’imbarca clandestinamente per la
Francia, da dove poi si recherà in Spagna per combattere nella guerra civile
nelle fila repubblicane. Arruolatosi nella Brigata "Garibaldi"
(composta in maggioranza da volontari italiani antifascisti) della XII Brigata
Internazionale (2° Battaglione, 2a Compagnia), morirà in combattimento
nel settembre 1938, durante la battaglia dell’Ebro.
18 febbraio 1938
Il Pietro Campanella, in navigazione
dall’Italia a Danzica, si ritrova in difficoltà al largo di Gibilterra, al
punto di lanciare un SOS, anche se successivamente il problema viene risolto.
Un’altra immagine della nave come Chanda (da www.clydeships.co.uk) |
Baltimora
All’ingresso
dell’Italia nel secondo conflitto mondiale, il 10 giugno 1940, il Pietro Campanella, al comando del
capitano Luigi Schiaffino, si ritrovò ad essere tra i più di 200 mercantili
italiani che la dichiarazione di guerra sorprese al di fuori del Mediterraneo.
Si dovette pertanto rifugiare a Baltimora (Maryland), negli Stati Uniti, dove
venne internato, come nave mercantile di Paese belligerante in un porto
neutrale. Questo secondo la maggior parte delle fonti; secondo un rapporto del
servizio informativo del War Cabinet britannico dell’agosto 1940, tuttavia, il Pietro Campanella risulterebbe essersi
trasferito da Norfolk a Baltimora l’8 agosto 1940, il che sembrerebbe
significare che il piroscafo si rifugiò inizialmente a Norfolk, per poi
trasferirsi a Baltimora dopo due mesi.
La storia dei mesi
successivi è la stessa di tutti i bastimenti italiani internati negli Stati
Uniti; il Pietro Campanella languì inattivo
a Baltimora, praticamente in disarmo. Gli faceva compagnia nell’internamento un
altro piroscafo italiano, l’Euro.
Nulla accadde fino al
30 marzo 1941, quando le autorità statunitensi, pur essendo quel Paese ancora
neutrale, confiscarono tutte le navi di Paesi dell’Asse (od ad essa
assoggettati, come la Danimarca) che si trovavano nei porti degli Stati Uniti.
In base ad ordini emessi da Washington, approvati dal presidente Franklin
Delano Roosevelt, soldati e personale della Guardia Costiera statunitense,
armati di fucili e mitragliatrici, abbordarono decine di piroscafi, sbarcando
sotto la minaccia delle armi i loro equipaggi, che furono poi temporaneamente
rinchiusi nelle carceri locali o nei centri di primo ricevimento per immigrati.
Si trattò del primo caso di uso della forza armata da parte statunitense nella
seconda guerra mondiale; complessivamente vennero catturate 296.615 tsl di
naviglio (di cui 178.030 tsl erano italiane e tedesche), tra navi italiane
(28), tedesche (due) e danesi (35).
Il pretesto per
quest’azione fu che gli equipaggi italiani e tedeschi avessero iniziato a
sabotare le loro navi, e che l’intervento militare statunitense fosse
necessario per fermarli, in esecuzione delle norme dell’Espionage Act del 1917
(che autorizzava il sequestro di navi straniere per impedirne il sabotaggio,
anche da parte dei loro stessi marinai). Secondo la versione diffusa sui
giornali statunitensi, le prime notizie sul sabotaggio di alcune delle navi
italiane vennero trasmesse alla Tesoreria statunitense il pomeriggio del 29
marzo, dal reparto informazioni della Marina (qualche articolo di giornale
dell’epoca affermò anzi che le prime segnalazioni di sabotaggi, a seguito delle
quali la Guardia Costiera si attivò, scoprendo il sabotaggio in massa delle
navi e procedendo alla loro cattura, arrivarono proprio da Baltimora – dove si
trovavano Pietro Campanella ed Euro – e da Wilmington). La notizia
venne portata a conoscenza del presidente Roosevelt a Port Everglades, e con la
sua approvazione il personale della Guardia Costiera statunitense venne inviato
ad assumere il controllo delle navi, tra la tarda sera del 29 marzo e la prima
mattina del 30. Questa mossa, fu poi dichiarato da funzionari governativi,
aveva avuto uno scopo “puramente protettivo”, ed era stata “decisa per evitare
l’ulteriore apportamento di danni che avrebbero rappresentato una minaccia per
le navi americane e per il traffico che si svolgeva nei porti degli Stati
Uniti”.
In effetti gli
equipaggi delle navi dell’Asse avevano davvero iniziato a sabotare le loro
navi, ma non senza motivo: obbedivano ad una direttiva impartita
dall’ammiraglio Alberto Lais, addetto navale italiano presso l’ambasciata di
Washington, che già nel gennaio 1941 era venuto a conoscenza dei piani
statunitensi per impadronirsi dei mercantili italiani presenti nei porti del
Paese ed utilizzarli, con bandiera statunitense, per trasportare materiale
bellico dall’America al Regno Unito (od anche, secondo un’altra versione, per
consegnarli al Regno Unito, che aveva disperatamente bisogno di navi
mercantili, visto il crescendo delle perdite inflitte dagli U-Boote tedeschi).
Il 22 febbraio 1941
l’ammiraglio Lais si recò a Baltimora ed incontrò i due comandanti, Schiaffino
del Campanella e Pierraccini dell’Euro, ad un appuntamento prestabilito in
città, spiegando loro che nel prossimo futuro avrebbero ricevuto una
comunicazione convenzionale in codice, la cui ricezione avrebbe significato che
avrebbero dovuto danneggiare gli apparati motori, le caldaie ed i macchinari di
coperta delle loro navi, senza però recare danno agli scafi. Più tardi nel
corso della stessa giornata, Lais salì a bordo di Pietro Campanella ed Euro,
entrambi ancorati nel porto a sud di Fort McHenry, insieme ai rispettivi
comandanti, ed incontrò gli equipaggi, coi quali parlò.
Durante una riunione
indetta da Ascanio Colonna, ambasciatore italiano negli USA, l’ammiraglio Lais
aveva esposto le intenzioni del Dipartimento della Difesa statunitense circa il
naviglio italiano. Dopo aver ottenuto le necessarie autorizzazioni da Roma,
Lais aveva studiato un piano per rendere le navi inutilizzabili (per un lungo
periodo di tempo) prima della cattura, senza che le autorità statunitensi se ne
accorgessero; il lavoro di distruzione si sarebbe concentrato esclusivamente sugli
apparati motori, da rendere inservibili nel modo più silenzioso possibile
(quindi rinunciando all’uso di esplosivi), mediante la fiamma ossidrica. Gli
ordini precisavano che le navi non dovevano in alcun caso essere incendiate od
affondate, per evitare di recare danno alle strutture portuali od ai cittadini
statunitensi, non essendovi uno stato di guerra tra le due nazioni: l’opera di
distruzione doveva essere esclusivamente “interna”.
Al pari del resto
delle navi italiane che si trovavano nei porti degli Stati Uniti, il 30 marzo
1941 il Pietro Campanella venne
catturato da personale della Guardia Costiera statunitense. Analoga sorte subì
l’Euro; ben 45 uomini della Guardia
Costiera statunitense, armati di tutto punto e guidati dal tenente di vascello
Walter C. Capron (facente funzione di comandante di porto di Baltimora),
sciamarono a bordo dei due piroscafi italiani, ormeggiati l’uno accanto
all’altro, e se ne impadronirono. Il tenente di vascello Capron dichiarò poi ai
giornalisti: "Qui non abbiamo avuto
problemi, perché abbiamo chiarito subito che facevamo sul serio". I
marittimi italiani riempirono frettolosamente i loro sacchi con i loro effetti
personali, dopo di che vennero sbarcati; fu poi permesso ai giornalisti di
salire a bordo per osservare i danni.
Prima della cattura,
l’equipaggio del Pietro Campanella
era comunque riuscito a sabotare la nave, come ordinato il 19 marzo, con il
previsto messaggio in codice, dall’ammiraglio Lais: il messaggio era stato
ricevuto per via postale, e dopo averlo letto il comandante Schiaffino aveva
ordinato all’equipaggio, tramite il direttore di macchina Paolo Caltabiano, di
danneggiare i motori, le macchine e le caldaie, rendendole inutilizzabili.
L’ordine era stato prontamente eseguito. Lo stesso 30 marzo alcuni fotografi e
giornalisti locali, condotti in visita a bordo del Pietro Campanella per osservare i danni causati dall’equipaggio,
constatarono che motori ed altri macchinari erano stati fracassati. Durante la
visita, un ufficiale della Guardia Costiera raccolse un piccolo barattolo
riempito di rifiuti cosparsi di cherosene, e lo gettò in mare. Altri rifiuti
imbevuti di cherosene vennero trovati in altre parti della nave. Qualche
giornalista chiese all’ufficiale della Guardia Costiera se sembrasse che gli italiani
avessero pianificato di incendiare la nave, e questi rispose semplicemente:
“Non lo so, ma potete provare a capire un po’ quello che vi pare”. Una mazza
era appoggiata sopra le macchine “ancora calde” del piroscafo, e pistoni e
testate dei cilindri erano state sbullonate e fracassate. Un altro uomo della
Guardia Costiera riferì che un monoblocco era stato riempito di cenere e terra
refrattaria. Anche il motore a vapore del timone era stato fracassato, ed
un’altra mazza giaceva ancora accanto ai suoi resti; gli ingranaggi erano stati
distrutti, gli assi piegati, la conduttura per l’aspirazione del vapore – in
acciaio, spessa 35 centrimetri – era stata troncata con dei seghetti. L’equipaggio,
giudicarono gli statunitensi, doveva aver passato giorni, o forse anche
settimane a distruggere gli apparati nevralgici del piroscafo. Erano stati
usati trapani a mano, cannelli acetilenici (per tagliare i pistoni), mazze,
scalpelli, asce e lime. Cuscinetti a sfere, bielle (sbullonate e danneggiate a
colpi di scalpello), pompe erano state squarciate e martellate; i generatori
erano stati spaccati a colpi d’ascia; le caldaie erano state bucate (praticando
fori sul fondo) per far uscire l’acqua sino a prosciugarsi, tenendo accesi i
fuochi al loro interno, così che le tubature si bruciassero. Non era stata
toccata, invece, la radio, che era stata sigillata sin dall’arrivo dellea nave
negli Stati Uniti.
La Guardia Costiera
“rifiutò di commentare sulla possibilità che gli equipaggi potessero aver
pianificato di incendiare la nave”. A bordo del Pietro Campanella, nelle cabine, nelle camerate e nei locali mensa,
i giornalisti videro ovunque i segni del frettoloso sbarco dell’equipaggio:
nella mensa ufficiali, sulla cui paratia campeggiava un’immagine a colori di
Benito Mussolini, c’erano ancora bicchieri di vino e tazzine di caffè mezze
piene. Anche nella mensa equipaggio, immagini di Mussolini e di Adolf Hitler
erano affisse con puntine sulla paratia, scrissero i giornalisti americani. Su
un tavolo, c’era ancora un piatto di spaghetti mangiato a metà. Sul ponte di
coperta non era visibile alcun danno; argani, verricelli e picchi di carico
erano arrugginiti per la lunga inattività cui erano andati incontro dall’epoca
dell’internamento nell’estate precedente. Non c’era più corrente elettrica a
bordo. La Guardia Costiera prese Pietro
Campanella ed Euro in “custodia
protettiva” in quanto, in quelle condizioni, rappresentavano “un potenziale
pericolo per la navigazione nel porto di Baltimora”.
(Secondo il volume "Navi
mercantili perdute" dell’USMM, la cattura del Pietro Campanella sarebbe avvenuta a Norfolk nel dicembre 1941. Si
tratta di un errore, come comprovato dai numerosi articoli di giornali
statunitensi del marzo-aprile 1941 che elencano anche questo bastimento tra le
navi confiscate a fine marzo. Secondo un’altra fonte, la nave fu “internata”
nel marzo 1941 – ma in realtà lo era già dal giugno 1940 – e legalmente
confiscata dagli Stati Uniti come preda di guerra l’8 dicembre 1941, ma anche
questo sembra un errore).
Gli equipaggi di 26
dei 28 mercantili italiani catturati riuscirono ad eseguire gli ordini
dell’ammiraglio Lais, sabotando le loro navi per evitare che cadessero intatte
in mano statunitense: tutti e 26 i bastimenti sabotati, infatti, richiesero
lunghi lavori di riparazione in cantiere prima di poter tornare in efficienza.
Un articolo del "New York Times" dell’11 febbraio 1942 menzionò che
molte delle navi catturate erano state sabotate tanto abilmente che era stato
impossibile scoprire la vera entità dei danni inflitti fino a quando non erano
uscite una prima volta in mare aperto («many
of the seized German and Italian ships were so deftly sabotaged that it was
impossible to discover all of the damage until they took a pounding at sea»).
Un giornale della Francia libera affermò che un’ispezione preliminare avesse
rivelato che almeno venti delle navi italiane erano state rese “quasi
inutilizzabili”, mentre un successivo articolo della rivista statunitense "Life"
riferì che le navi italiane erano sì danneggiate, ma risultavano tutte
riparabili (il che rispondeva al vero; "Life", però, seguendo la mai
del tutto sopita – ed anzi amplificata ad arte, durante quella guerra, dalla
propaganda Alleata – idea anglosassone che gli italiani fossero generalmente
degli incapaci ed i tedeschi ben più competenti, si soffermò ad affermare
malignamente che gli italiani avessero così “pasticciato” il sabotaggio, “non
avendo più successo che in Albania ed Africa”, mentre l’equipaggio della
cisterna tedesca Pauline Friederich,
con “abituale efficienza germanica”, aveva reso la sua nave del tutto
inutilizzabile, tanto da rendere improbabile una sua riparazione. Vale qui la
pena di puntualizzare che a dispetto di siffatte affermazioni la Pauline Friederich, proprio come le navi
italiane, venne poi riparata e rimessa in servizio dagli americani come Ormondale…).
Un funzionario del
governo statunitense, Herbert Gaston, dichiarò che il sabotaggio delle navi
appariva concertato e simultaneo, e parlò di “sabotaggio su larga scala”.
Alcuni dei comandanti italiani non sembrarono per nulla sorpresi quando gli
uomini della Guardia Costiera salirono sulle loro navi per sequestrarle, come
se se lo aspettassero; uno affermò che l’azione statunitense equivaleva ad un
atto di guerra. Con l’eccezione del piroscafo Confidenza, ormeggiato a Jacksonville, non ci fu resistenza da
parte dei marittimi italiani, che in generale obbedirono prontamente agli
ordini loro impartiti dal personale della Guardia Costiera (né diversamente
sarebbe potuto accadere, visto che gli italiani erano civili senz’armi mentre i
militari statunitensi erano saliti a bordo armi alla mano). Insieme ai militari
armati, erano saliti sulle navi anche marinai della Guardia Costiera per tenere
in efficienza le pompe e provvedere alla manutenzione delle unità.
I costi di
riparazione per 16 delle navi sabotate variarono dai 60.000 ai 550.000 dollari
per bastimento.
775 marittimi
italiani e 100 tedeschi, presi inizialmente in custodia dalla Guardia Costiera
ed affidati ai rispettivi capitani di porto dopo essere stati sbarcati dalle
loro navi, vennero formalmente colpiti da mandati d’arresto con l’accusa di
aver violato le leggi statunitensi sull’immigrazione, essendo rimasti nei porti
oltre il limite massimo di 60 giorni fissato dalle leggi americane per i
marittimi stranieri. Portavoce della tesoreria statunitense spiegarono che gli
equipaggi italiani erano stati sbarcati perché era impossibile piazzare
abbastanza guardie su ciascuna nave per poter tener d’occhio ogni parte di ogni
nave più l’intero equipaggio.
I rappresentanti
diplomatici dell’Italia e della Germania inviarono immediatamente lettere di
protesta al segretario di Stato americano Cordell Hull, denunciando
l’illegalità della cattura delle navi, e pretendendo il loro rilascio; tali
istanze vennero però respinte. La stampa dell’Asse pubblicò articoli di fuoco,
parlando di “pirateria” e di “selvaggio West”. Da parte statunitense si
sostenne che il sabotaggio delle navi avesse messo in pericolo la sicurezza dei
porti americani e la libertà di navigazione, e che pertanto la confisca fosse
stata necessaria e giustificata dall’Espionage Act; inoltre, il sabotaggio di
una nave da parte del suo equipaggio nelle acque degli Stati Uniti era
considerato reato dalla legge statunitense, pertanto – secondo il punto di
vista americano – non vi sarebbe stata alcuna illegalità nel confiscarle, ed
anzi sarebbe stato preciso dovere delle autorità statunitensi impedire che gli
equipaggi potessero recare ai bastimenti ulteriore danno.
L’ammiraglio Lais,
ritenuto – a ragione – responsabile di aver ordinato il sabotaggio, venne
dichiarato persona non gradita ed immediatamente espulso dagli Stati Uniti. Al
momento di lasciare l’America, Lais lamentò l’utilizzo della parola
“sabotaggio” da parte della stampa statunitense, ribadì (come dichiarato da uno
dei comandanti) che le navi erano state sabotate per evitare che venissero
usate per trasportare nel Regno Unito bombe destinate ad essere usate contro
l’Italia, e dichiarò che i comandanti dei bastimenti italiani avevano «semplicemente seguito quel giuramento di
onore e dovere scritto nel 1813 sulla bandiera del vostro valoroso commodoro
Perry con le splendide parole “Non abbandonare la nave”».
La cattura delle navi
destò reazioni diverse anche all’interno dell’ambiente politico statunitense.
Il senatore Walter F. George, presidente del comitato relazioni estere nel
senato statunitense, dichiarò che se marinai olandesi, norvegesi, svedesi o di
qualsiasi altra nazione avessero tentato di sabotare le loro navi la Guardia Costiera
sarebbe intervenuta analogamente a quanto fatto per le navi italiane; aggiunse
che in base ad una legge della prima guerra mondiale una nave sabotata dal suo
equipaggio in un porto americano poteva essere considerata come “persa”/“rinunciata”
dalla sua nazione originaria, pertanto gli Stati Uniti se ne sarebbero potuti
appropriare se lo avessero desiderato, ma che riteneva che ciò non sarebbe
accaduto. Il segretario del tesoro Henry Morgenthau spiegò che la Guardia
Costiera aveva pieni poteri per effetto della legge della prima guerra
mondiale, e che il presidente poteva ordinare di prendere in “custodia
protettiva” le navi straniere in porti statunitensi, e che poteva anche
dichiarare che la nazione straniera proprietaria di un bastimento avesse rinunciato
alla sua proprietà, in favore degli Stati Uniti, se il suo comandante aveva
volontariamente consentito che questo fosse danneggiato. Il senatore Burton K.
Wheeler, convinto neutralista e tra i maggiori avversari della politica
filobritannica dell’amministrazione Roosevelt, dichiarò invece “Non abbiamo
diritto legale di sequestrare quelle navi. Questo è un altro atto di guerra”.
In alcuni circoli americani, discutendo sui motivi del sabotaggio, si ipotizzò
– correttamente – che le navi fossero state danneggiate per prevenire un
qualsiasi sviluppo che avrebbe potuto vedere le navi finire in mano britannica.
Portavoce britannici, difatti, in passato avevano apertamente espresso la
speranza che gli Stati Uniti avrebbero sequestrato le navi italiane, tedesche e
danesi presenti nei porti statunitensi.
Pochi giorni dopo la
confisca della nave, nell’aprile 1941, diciotto uomini dell’equipaggio del Pietro Campanella vennero tradotti nel
locale carcere con l’accusa di sabotaggio, in vista di un processo, per i danni
arrecati alla nave prima della cattura. Il 12 aprile il commissario James K.
Cullen della corte federale del Maryland fissò per ciascuno di essi una
cauzione di 10.000 dollari, rinviando la prima udienza al 28 aprile affinché il
console italiano, che non era presente, potesse giungere per difendere gli
interessi dei connazionali. Tutti i marittimi si dichiararono non colpevoli.
Il processo contro il
comandante Luigi Schiaffino ed altri quindici membri dell’equipaggio del Pietro Campanella, tenuto presso la
corte federale del Maryland (avente sede proprio a Baltimora), ebbe luogo nel
luglio 1941; le accuse erano di sabotaggio e cospirazione. I marittimi italiani
ammisero di aver danneggiato la loro nave prima della confisca da parte della
Guardia Costiera statunitense, ma negarono – in una «stipulation of facts»
presentata presso la giuria della corte federale – che fosse loro intenzione
ledere e mettere a repentaglio la sicurezza della nave, come invece sosteneva
l’accusa; dichiararono che la loro azione aveva avuto lo scopo di rendere la
nave inutilizzabile per un nemico. Il consulente della difesa ed il procuratore
distrettuale Bernard J. Flynn furono d’accordo sul fatto che il Pietro Campanella si trovasse
immobilizzato all’ancora nella baia di Curtis da poco dopo il suo arrivo nel
porto di Baltimora, il 9 agosto 1940; sul fatto che l’ammiraglio Alberto Lais
avesse visitato la nave il 22 febbraio 1941 e che avesse informato il
comandante Schiaffino che avrebbe ricevuto un messaggio in codice il cui significato
era che avrebbe dovuto dare ordini per la messa fuori uso della nave; e sul
fatto che siffatto messaggio fosse stato ricevuto dal Pietro Campanella il 19 marzo, dopo di che l’equipaggio avesse
messo fuori uso la nave in circa otto ore. Il 29 marzo funzionari statunitensi
avevano ispezionato la nave, ed il giorno seguente personale della Guardia
Costiera statunitense ne aveva assunto il controllo, sbarcando ufficiali ed
equipaggio italiani. Lo scafo della nave non era stato danneggiato. Durante l’udienza
dell’8 luglio, “testimoni governativi” dichiararono che se fosse stato
scatenato un incendio a bordo sarebbe stato difficile estinguere le fiamme,
perché tra gli apparati danneggiati ve n’erano anche alcuni che sarebbero stati
essenziali per domare un incendio. Il procuratore Flynn asserì pertanto che il
danno causato dall’equipaggio rappresentasse una decisa minaccia alla sicurezza
della nave.
Il 9 luglio 1941, in
seguito ad un accordo, l’accusa di cospirazione venne ritirata, ma i 16
marittimi del Pietro Campanella
vennero ritenuti colpevoli per l’accusa di sabotaggio; specificamente, il
tribunale ritenne che i marittimi italiani, danneggiando macchine, motori,
pompe ed altri macchinari della nave e così distruggendone la forza motrice, su
ordine dell’ammiraglio Lais, avessero violato la sezione 1 del titolo III della
legge del 15 giugno 1917 (cioè l’Espionage Act). La giuria raccomandò
indulgenza per tutti gli imputati, tranne il comandante ed il direttore di
macchina. Nonostante le proteste dell’avvocato difensore Homer J. Loomis, che
spiegò di doversi recare a New Orleans per rappresentare altri marinai italiani
sotto processo in quella città, il sessantottenne giudice William Calvin
Chestnut rinviò la determinazione delle condanne per gli imputati del Pietro Campanella onde dare subito
inizio, il giorno seguente, ad un altro processo, contro 15 marittimi dell’Euro imputati per analoghe accuse. Il 17
luglio, concluso anche il processo dell’Euro,
vennero pronunciate anche le condanne per i marittimi del Pietro Campanella: il comandante Schiaffino venne condannato a tre
anni di carcere; il direttore di macchina, Paolo Caltabiano, a due anni;
analoghe condanne furono emesse per i loro colleghi dell’Euro, Paolo Pierraccini e Carlo Saglietto. Degli altri 27 marittimi
processati (14 del Pietro Campanella
e 13 dell’Euro), 24 vennero
condannati ad un anno ed un giorno di carcere, ed i restanti tre ricevettero
una condanna a tre mesi. I condannati iniziarono subito a scontare la condanna,
presso il Baltimore City Jail.
L’11 novembre 1941 un
elenco con i nomi dei 31 marittimi del Pietro
Campanella e dell’Euro ivi
rinchiusi venne trasmesso dai delegati pontifici di Washington al Vaticano,
dove giunse il 5 febbraio 1942.
Nel dicembre 1941 il
comandante Schiaffino, insieme a diversi altri comandanti e componenti degli
equipaggi del Pietro Campanella,
dell’Euro e della motonave Villarperosa, fece ricorso in appello
contro la condanna (caso «Schiaffino et al. v. United States») presso la corte
d’appello del quarto circuito (U.S. Court of Appeals for the Fourth Circuit),
facendosi rappresentare dagli avvocati Homer Leslie Loomis, Charles Ruzicka,
Hilary W. Gans e Joseph T. Brennan. Pubblico ministero era Bernard J. Flynn; il
caso venne giudicato dai giudici Parker, Soper e Dobie. Ricorrendo in appello,
Schiaffino e gli altri asserivano che l’accusa di sabotaggio in base
all’Espionage Act non fosse valida perché il sabotaggio non era stato attuato
con l’intento di compromettere la sicurezza della nave, bensì con il consenso
dell’armatore ed allo scopo di immobilizzarla ed impedirne l’utilizzo da parte
di una nazione nemica.
La sezione 1 del III
titolo dell’Espionage Act, per la cui violazione Schiaffino e tanti altri erano
stati condannati, affermava che “chiunque
incendiasse una nave di registro straniero, od una nave di registro americano
avente il diritto di svolgere commercio con nazioni straniere, (…) od il suo carico, o che manomettesse la
forza motrice o gli strumenti di navigazione di tale bastimento, o compisse qualsiasi
altro atto contro o su tale nave all’interno della giurisdizione degli Stati
Uniti (…) con l’intento di mettere a
repentaglio la sicurezza della nave, o del suo carico, o di persone [che si
trovano] a bordo, sia che l’intento sia
che il danno o pericolo abbia luogo all’interno della giurisdizione degli Stati
Uniti, o dopo che la nave ne sarà partita; o chiunque tentasse o cospirasse per
fare un qualsiasi atto del genere con siffatto intento, sarà multato fino ad un
massimo di 10.000 dollari od incarcerato fino ad un massimo di 20 anni, o
entrambe le cose”. I marittimi italiani contestavano la condanna per
quattro motivi: in primo luogo, non ritenevano che l’Espionage Act si potesse
applicare al loro specifico caso; in secondo luogo, che gli atti d’accusa
fossero insufficienti perché non si occupavano della proprietà della nave; poi,
che le prove fossero insufficienti perché non dimostravano intenti criminali e
specialmente quelli (di mettere a repentaglio la sicurezza della nave, del
carico o dei passeggeri) previsti dall’Espionage Act; ed infine che, se
l’Espionage Act era stato interpretato appositamente per “coprire” il
sabotaggio commesso dagli italiani, ciò andava a violare il diritto ad un
giusto processo (due process clause)
previsto dal quinto emendamento della costituzione degli Stati Uniti.
La corte
statunitense, com’era prevedibile, respinse una per una tutte le obiezioni
avanzate da Schiaffino e dagli altri. Sul primo punto, i giudici americani
ribadirono di ritenere chiaro che l’Espionage Act, approvato durante la Grande
Guerra e pensato per tutelare i commerci tra Stati Uniti ed estero e le navi
utilizzabili in tali commerci, fosse pensato proprio per vietare e punire
comportamenti come quelli di cui erano stati protagonisti i marittimi italiani:
“…è perfettamente chiaro che la sezione 1
del titolo III (…) si applica a qualsiasi persona che dovesse
manomettere la forza motrice di qualsiasi «nave di registro straniero» (…) «con l’intento di mettere a repentaglio la
sicurezza della nave, o del suo carico»”. La difesa aveva fatto notare che
la legge parlava solo di navi impiegate in commerci con l’estero, mentre il Pietro Campanella non stava svolgendo
commerci del genere, dato che era fermo all’ormeggio fin dall’inizio della
guerra; ma i giudici ritennero che essendo questi una nave di registro
straniero che era giunta negli Stati Uniti per svolgere commercio con Paesi
stranieri, dovesse considerarsi come una nave impiegata nel commercio con
l’estero, “e se anche così non fosse
(…) le parole sella sezione tutelano le
navi «di registro straniero» senza riferirsi al fatto che siano impiegate nel
commercio con l’estero o meno”. Il fatto che il sabotaggio fosse stato
compiuto col consenso dell’armatore, aggiunsero, non cambiava la situazione,
perché scopo dell’Espionage Act non era di tutelare gli armatori contro atti
delittuosi da parte di terzi, bensì di tutelare le navi stesse, quali strumenti
utilizzabili nel vitale commercio con l’estero degli Stati Uniti, da danni
causati da chiunque; “chiunque”, com’era scritto nella legge, includeva non
solo ufficiali e marinai, ma anche gli armatori stessi. Obiezione forse
“cavillosa” era che la parola “manomettere” (tamper) implicasse un’azione da parte di soggetti che non
vantassero alcun diritto circa le navi, e fu puntualmente respinta, i giudici
ritenendo che riguardasse qualsiasi interferenza impropria contro i macchinari
delle navi. Con quanto detto in merito agli armatori, la corte aveva liquidato
anche la seconda obiezione (gli atti d’accusa non si erano occupati della
proprietà delle navi), dato che il sabotaggio non rappresentava un crimine in
quanto commesso contro gli armatori, bensì per via del danno arrecato a
strumenti (le navi) per il commercio con l’estero. Non era necessario occuparsi
della proprietà.
Sul terzo punto, i
giudici affermarono che se gli imputati avevano commesso le azioni vietate
dall’Espionage Act, non erano necessarie ulteriori prove di dolo od intenzione
di commettere un crimine; il punto principale era di ritenere se vi fossero
prove che l’intenzione dei condannati fosse di ledere o mettere in pericolo la
sicurezza della nave. I giudici ritennero che, non avendo senso parlare di
“ledere la sicurezza” di un oggetto come una nave, l’Espionage Act punisse sia
chi avesse leso (danneggiato in
qualsiasi modo) alla nave, sia chi ne avesse messo a repentaglio la sicurezza; dunque il danneggiamento
dell’apparato motore ricadeva negli atti puniti da quella legge. Ed in ogni
caso, anche in caso di diversa interpretazione delle parole, il danneggiamento
dell’apparato motore non poteva essere avvenuto senza compromettere o “ledere”
alla sicurezza del bastimento come strumento di commercio. Obiezione della
difesa era che, essendo le navi ormeggiate in porto, la semplice
immobilizzazione dei loro motori non avesse leso alla loro sicurezza, e che
siffatto intento non si potesse dunque presumere da quelle azioni; ma secondo i
giudici “è manifesto che la distruzione
dei macchinari che rendeva le navi non più in grado di muoversi ne
compromettesse fino a un certo punto la sicurezza, anche se ormeggiate al molo”. Inoltre, “le navi sono fatte per solcare i mari, non
per marcire all’ormeggio; e qualsiasi distruzione che renda per esse pericoloso
svolgere la loro funzione essenziale potrebbe essere propriamente considerata
come una compromissione della loro sicurezza”.
Il quarto punto fu
liquidato ribadendo che l’Espionage Act puniva qualsiasi manomissione dei
macchinari di una nave di registro straniero od impegnata nel commercio con
l’estero, allo scopo di danneggiare il bastimento o di comprometterne la
sicurezza.
Mentre gli uomini
condannati per il sabotaggio venivano incarcerati, i restanti marittimi del Pietro Campanella, quelli che non erano
stati processati perché non ritenuti personalmente responsabili degli atti di
sabotaggio, vennero internati sulle prime a Petersburg, in Virginia, insieme a
colleghi provenienti da altri dieci mercantili italiani (Alberta, Antonietta, Arsa, Aussa, Belvedere, Brennero, San Leonardo, Mar Glauco,
Euro e Santa Rosa). Qui i marittimi ricevettero la visita, nel maggio
1942, del delegato apostolico negli USA, il quale celebrò una messa, amministrò
la cresima ad alcuni degli internati e distribuì loro doni a nome del Papa; i
marittimi chiesero di far sapere alle loro famiglie che, nonostante il loro
status di internati, si trovavano in buone condizioni generali e di salute, e
che mandavano affettuosi saluti ai loro cari. Nel giugno 1942 il delegato
apostolico compilò una lista dei marittimi internati a Petersburg, che il 30
settembre spedì da Washington in Italia, dove giunse in novembre. Le famiglie
vennero informate tramite le suore di Santa Marta.
Nell’ottobre 1942,
intanto, i marittimi del Pietro
Campanella e delle altre navi internati a Petersburg erano stati trasferiti
nel campo di Fort Missoula, nel Montana. Questa era una installazione militare
che nel 1941 era stata trasferita sotto il controllo del Dipartimento
Immigrazione e Naturalizzazione (Department of Immigration and Naturalization)
degli Stati Uniti per essere impiegato come centro detenzione per stranieri
(Alien Detention Center). Il campo d’internamento di Fort Missoula era
specificamente dedicato all’internamento di civili italiani; furono
complessivamente 1200 i cittadini italiani internati a Fort Missoula nel corso
della guerra, in massima parte marittimi delle 28 navi confiscate nel marzo
1941 (ma c’erano anche operai che avevano lavorato al padiglione italiano
dell’Esposizione universale di New York del 1939-1940 e non erano potuti
rientrare in Italia, nonché altri cittadini italiani che si trovavano negli
Stati Uniti per vari motivi).
La delegazione
pontificia a Washington, ed in particolare monsignor Egidio Vagnozzi,
intercedettero nel frattempo presso le autorità statunitensi affinché anche i marittimi
condannati ed incarcerati per sabotaggio (326, complessivamente) potessero
essere trasferiti a Fort Missoula (dove le condizioni erano nettamente migliori
rispetto alle carceri), dove già si trovavano i loro colleghi non condannati,
come semplici internati anziché detenuti; tali sforzi ebbero infine successo, e
tra luglio 1942 e gennaio 1943 anche i marittimi incarcerati raggiunsero Fort
Missoula (il primo gruppo di 12 arrivò nel campo il 20 luglio 1942, altri 7 il
26 settembre, 182 il 5 ottobre 1942 ed i restanti 125 tra la fine del 1942 e
l’inizio del 1943).
Una relazione del
comitato internazionale della Croce Rossa, del quale alcuni membri visitarono
il campo tra il 28 ed il 30 ottobre 1942, così descriveva le condizioni di vita
a Fort Missoula: nel campo, situato a circa 1000 metri s.l.m. in una vallata la
cui produzione agricola ed industriale consisteva principalmente nello
zucchero, erano internati complessivamente 1143 italiani e 29 giapponesi;
fiduciario era il capitano Paolo Saglietto, già comandante del piroscafo San Giuseppe, che fungeva da
collegamento tra gli internati e gli ufficiali statunitensi al comando del
campo (Saglietto sarebbe rimasto negli Stati Uniti anche dopo la guerra,
sposando una donna americana e fondando nel 1947 una compagnia di navigazione a
Baltimora; nel 1966 sarebbe stato insignito dall’Italia del cavalierato per
l’Ordine al Merito della Repubblica Italiana, per il suo contributo ai buoni
rapporti tra Italia e Stati Uniti). Gli internati erano alloggiati in baracche
di legno dotate di impianti di riscaldamento, acqua corrente sia calda che
fredda, stanze con uno o due letti per gli ufficiali e spaziosi dormitori per
la “bassa forza”, nonché stanze di soggiorno ben areate ed impianti igienici in
ottime condizioni. Le baracche occupavano uno spazio di circa un chilometro,
recintato con filo di ferro.
Fuori dal recinto
sorgeva un moderno edificio adibito ad ospedale, con stanze per i
degenti da 12 letti ciascuna, una sezione d’isolamento, una sala chirurgica ed
un gabinetto dentistico; ai malati era fornito lo stesso vitto del dottore e
degli impiegati statunitensi del campo. L’ospedale era diretto da un medico
statunitense, assistito da due infermieri e da un medico italiano; due volte a
settimana, inoltre, un dentista faceva visita al campo, operando gratuitamente
sugli internati che ne abbisognavano, grazie ad un contratto stipulato con la
direzione del campo. Nelle cucine del campo, che occupavano un altro grande
edifico in legno, lavoravano un cuoco italiano e 20 tra aiuto cuochi,
inservienti e camerieri scelti tra gli internati che, a bordo delle navi,
facevano parte del personale di cucina e di camera; la mensa equipaggi
conteneva otto ordini di tavoli, e gli internati andavano a ritirare i piatti
da un bancone che separava tale locale dalla cucina. Per gli ufficiali, invece,
c’era una mensa a parte, più piccola, ed erano serviti dai camerieri di bordo.
Le provviste fornite, per dichiarazione unanime degli internati, erano di
ottima qualità, con razioni giornaliere uguali a quelle fornite ai militari
statunitensi. Anche la fornitura di abiti e calzature era adeguata, mentre
destava parecchie lamentele il servizio postale: nell’ottobre 1942 628
internati non avevano ricevuto alcuna lettera dall’Italia da almeno tre mesi, e
parecchi di essi da tempi molto più lunghi (10, 12, anche 15 mesi).
Su iniziativa del
capitano Saglietto, all’interno del campo venne realizzata una scuola che
teneva corsi delle materie più svariate (alcune delle quali, per ovvi motivi,
di carattere marittimo): italiano, inglese, tedesco, spagnolo, francese,
matematica, navigazione, motori marini, legislazione marittima, disegno e
geometria. Complessivamente, 968 dei 1143 internati seguivano uno o più corsi.
Due volte a settimana
venivano proiettati nel campo film di produzione statunitense; con i mezzi
messi a disposizione dal campo, inoltre, gli internati formarono due orchestre
ed un gruppo artistico di prosa, organizzando concerti e rappresentazioni sia a
beneficio degli internati che degli abitanti della vicina cittadina. Altri
ammazzavano il tempo giocando a bocce o a golf; qualcuno dipingeva. I materiali
per dipingere erano stati procurati grazie all’aiuto di una ragazza di
Missoula, Margery Ann Walker Van Nice, studentessa di arte all’Università del
Montana e conoscitrice della “scena artistica” del luogo. Quest’ultima contattò
alcuni artisti della zona, che donarono agli internati tele, pennelli, colori
ad olio e per acquerelli. Tra i “pittori” di Fort Missoula c’era anche il
secondo ufficiale del Pietro Campanella,
Francesco Coscia, ivi internato dal 1941 al 1944: tre suoi acquerelli sono
conservati ancor oggi presso il museo di Fort Missoula. Due dei dipinti
ritraggono paesaggi costieri dell’Italia, con coste frastagliate, mare calmo o
appena increspato, cieli blu, pini marittimi (sulla parte posteriore di uno dei
due quadri è infatti scritto, probabilmente dall’autore stesso, “Maritime
Pines”). Il terzo dipinto, datato 1943 e intitolato “Rogue River”, ritrae un
paesaggio diverso, probabilmente proprio del Montana. Coscia regalò uno dei
dipinti a Jacqueline Moore, la moglie di William Moore, funzionario della
polizia confinaria statunitense in servizio a Fort Missoula; la signora Moore, come
altre mogli delle guardie di Fort Missoula, era solita cucinare torte di
ciliegie insieme agli internati.
Un prete internato,
padre Bruno, celebrava la messa ogni domenica e si occupava dell’assistenza
religiosa.
I servizi del campo
includevano anche una grande lavanderia (disponibile gratuitamente agli internati,
dotata di apparecchi a vapore ed azionata da motori elettrici), una biblioteca
(con 4000 libri in italiano e diverse centinaia di libri in inglese e
francese), un campo di calcio realizzato dagli internati, tavoli di ping pong
ed una cantina-spaccio (in cui erano in vendita a prezzi ragionevoli sigari,
sigarette, articoli di cancelleria, oggetti di toeletta, generi alimentari come
formaggio e sardine ed altro ancora).
Gli internati erano
impiegati nel lavoro principalmente nelle aziende agricole della zona di
Missoula (coltivazione di barbabietole), divisi in gruppi di 20-50 internati
per ogni fattoria (essendo ogni tenuta molto grande); altri ancora vennero
impiegati in industrie della zona o nella lotta contro gli incendi boschivi. I
contratti per l’impiego degli internati prevedevano un regolare salario, in
base alla legislazione statunitense. Internamente al campo, attività fiorente
era la realizzazione di modellini di navi: essi venivano poi messi in vendita,
ed i ricavi andavano per i 9/10 a chi li aveva realizzati e per 1/10 ad un
fondo comune.
Una nota curiosa che
emerge dal rapporto della Croce Rossa è che il 28 ottobre 1942, ventesimo
anniversario della marcia su Roma, le autorità (statunitensi) del campo non
solo permisero agli internati di celebrare la ricorrenza (all’epoca festività
in Italia) decorando la sala delle feste con fasci e ritratti di Vittorio
Emanuele III e di Benito Mussolini, ma giunsero persino a fornire delle camicie
nere agli internati per i festeggiamenti (!). Per trattamento e condizioni di
vita, scrisse anni dopo uno degli ex internati, Fort Missoula (noto presso gli
italiani anche come “Fort Bella Vista”) era forse il miglior campo
d’internamento degli Stati Uniti; i problemi più sentiti erano la forzata
lontananza da casa e la mancanza di donne.
I delegati della
C.R.I. interrogarono anche numerosi marittimi provenienti dalle carceri
federali e comunali, i quali dichiararono unanimemente che il trattamento in
prigione era stato pessimo; anche il cibo era scadente, e bisognava pagare per
averne di migliore.
I marittimi italiani
rimasero internati a Fort Missoula fino al 1944, quando vennero rilasciati in
seguito alla nuova situazione di co-belligeranza tra Italia ed Alleati seguita
all’armistizio di Cassibile. Alcuni di loro sarebbero tornati nel dopoguerra
stabilendosi negli Stati Uniti, qualcuno proprio a Missoula.
Due marittimi del Pietro Campanella non fecero mai ritorno
in Italia perché morirono in terra americana: il marinaio Paolo Catalbiano morì
in prigionia il 16 gennaio 1945, ed il fuochista Costantino Caboara, di La
Spezia, morì a guerra appena finita, il 5 settembre 1945, prima di poter
tornare in Italia.
Il 6 giugno 1941 le
autorità statunitensi approvarono lo Ship Requisition Act, che permetteva alla
Guardia Costiera di confiscare le 84 navi straniere di grandi dimensioni che
giacevano “volontariamente inattive” nei porti degli Stati Uniti per il loro
impiego nello sforzo bellico.
Il 23 agosto 1941 il Pietro Campanella venne formalmente
sequestrato dalle autorità statunitensi a Baltimora, in base ad ordine
esecutivo del presidente degli Stati Uniti, e trasferito alla United States
Maritime Commission. Alle ore 12.00 dell’11 settembre 1941, in seguito ad un
altro ordine esecutivo basato su una legge approvata dal congresso statunitense
il 6 giugno 1941 (che autorizzava il presidente degli Stati Uniti “ad acquistare, requisire, per qualsiasi
periodo durante tale emergenza, noleggiare o requisire l’uso di, od assumere il
titolo o la proprietà di (…) qualsiasi
nave mercantile straniera che giaccia inattiva in acque nella giurisdizione
degli Stati Uniti”), il piroscafo venne requisito e consegnato dalla U. S.
Maritime Commission alla War Shipping Administration, sempre a Baltimora (da
altra fonte risulterebbe che il 9 settembre la United States Maritime
Commission avrebbe requisito l’utilizzo
della nave in base alla Public Law 101
del 6 giugno 1941); contestualmente, venne ribattezzato Equipoise.
L’ordine di formale
confisca di questa e di altre quattordici navi italiane era stato impartito l’11
luglio dal segretario del Tesoro statunitense, Henry Morgenthau, sulla base
dell’Espionage Act del 1917, dopo che questi aveva ottenuto dal Dipartimento di
Giustizia assicurazione che vi fosse "probabile causa" per la confisca
delle navi ed il loro trasferimento agli Stati Uniti senza compensazione,
stanti i sabotaggi commessi dai loro equipaggi mentre i bastimenti si trovavano
inattivi nei porti statunitensi. L’11 luglio l’ambasciata britannica a
Washington aveva annunciato che il governo britannico avrebbe rinunciato ai
suoi "diritti di belligerante" e che non avrebbe sequestrato nessuna
delle navi dell’Asse requisite dagli Stati Uniti, in vista dell’impiego che
questi bastimenti avrebbero avuto. In seguito all’ordine di confisca, la
responsabilità del Pietro Campanella
e delle altre navi passò dalla Guardia Costiera ai locali esattori doganali di
porto (collectors of customs).
Una volta completate
le riparazioni dei danni causati dal sabotaggio, alle 12.01 del 6 ottobre 1941
(per altra fonte, il 3 ottobre), sempre a Baltimora, l’Equipoise venne dato in gestione dalla War Shipping Administration alla
International Freighting Co. Inc. di New York (altra fonte parla anche delle
United States Lines), che avrebbe dovuto impiegarlo in base ad un accordo
«General Agency Agreement». Il 25 ottobre il piroscafo venne registrato, per
ragioni di "praticità", sotto bandiera panamense (pur restando di
proprietà del Governo statunitense, o più precisamente della U. S. Maritime
Commission). La registrazione a Panama garantiva infatti norme meno restrittive
sia relativamente all’età delle navi, sia alla composizione degli equipaggi,
che furono appieno sfruttate sull’Equipoise,
il cui equipaggio venne formato con marittimi di almeno dodici nazionalità
diverse. L’Equipoise ricevette
il nominativo di chiamata radio HPXO.
Nei registri di
Panama la nave venne registrata come avente una stazza lorda di 6210 tsl e
netta di 3872 tsn.
L’Equipoise in una foto del 6 gennaio 1942 (The Mariner’s Museum, via Monitor National Marine Sanctuary) |
Proseguiva intanto la
battaglia legale sulla proprietà delle navi: il 19 luglio 1941 il governo
statunitense aveva presentato domanda per la confisca definitiva del Pietro Campanella a motivo del suo
volontario danneggiamento da parte dell’equipaggio, sulla base dell’Espionage
Act, e prima ancora, il 14 maggio, anche la ditta privata Dichmann, Wright &
Pugh Inc. aveva fatto causa alla Società di Navigazione Tito Campanella per
ottenere il pagmento di un debito. Quest’ultimo si opponeva ad un ordine che
stabilisse il trasferimento del possesso delle navi, perché avrebbe danneggiato
i suoi diritti di creditore. Il 14 agosto la Società di Navigazione Tito
Campanella
Il 6 ottobre il
governo statunitense aveva presentato un’istanza per la confisca (poi emendata
il successivo 21 gennaio, in seguito ad alcune eccezioni che erano state
frattanto sollevate), richiedendo alla dalla corte distrettuale del Maryland di
emettere un ordine nei confronti del locale marshal
(funzionario di polizia alle dipendenze del tribunale) e dell’esattore doganale
(collector of customs) per la
consegna dei piroscafi alla United States Maritime Commission. La corte avrebbe
mantenuto custodia e giurisdizione delle navi. I casi furono giudicati nell’ottobre
1941, ancora dal giudice Chestnut; questi acconsentì alla richiesta di emettere
un ordine per la confisca, purché la loro custodia e giurisdizione rimanesse in
mano alla corte, e stabilì che per quanto riguardava la Dichmann, Wright &
Pugh Inc. i suoi diritti di creditrice non sarebbero stati minacciati dal
trasferimento, ma si sarebbero semplicemente trasferiti anch’essi verso il
nuovo ente che aveva il controllo dell’ormai ex Pietro Campanella. Inutilmente gli armatori si opposero. Venne
infine stabilito che il proprietario del Pietro
Campanella, in base al Merchant Marine Act del 1936, avrebbe dovuto ricevere
un adeguato indennizzo per l’utilizzo della sua nave, nonché un risarcimento
qualora questa fosse stata danneggiata o fosse andata perduta.
Durante i lavori di
riparazione e rimessa in efficienza, l’Equipoise
era stato anche dotato di un armamento difensivo, consistente in un cannone da
101 mm a poppa, camuffato per non rivelarne la presenza, e quattro mitragliere,
due sulla plancia e due sulla poppa; l’equipaggio civile venne addestrato ad
usare queste armi, così che non fu necessario imbarcare personale militare. Il 29
novembre 1941 l’Equipoise arrivò da
Rio de Janeiro con un carico di carbone imbarcato a Norfolk; fu la prima nave a
giungere in quel porto dopo l’abolizione, da parte di Panama, del divieto di
armamento sulle proprie navi.
Il 7 dicembre 1941
gli Stati Uniti, dopo l’attacco contro Pearl Harbour, entrarono nella seconda
guerra mondiale.
Pochi
mesi dopo l’ingresso in guerra degli Stati Uniti, l’Equipoise incontrò una tragica fine durante il cosiddetto “second
happy time” (noto anche, tra gli equipaggi tedeschi, come “stagione di caccia
americana”), l’offensiva lanciata dalla flotta subacquea tedesca lungo le coste
statunitensi (e poi, con la partecipazione di sommergibili italiani di Betasom,
anche nelle acque dell’America centrale) nella prima metà del 1942. In quei
primi mesi di guerra, prima che la macchina bellica statunitense iniziasse a
funzionare a pieno regime, la Marina americana fu colta del tutto impreparata
dall’offensiva tedesca, che con minimo rischio fece strage di bastimenti a
stelle e strisce (e non solo): nel giro di alcuni mesi i sommergibili dell’Asse
affondarono più di 600 navi mercantili, molte di esse praticamente sulla porta
di casa, subendo per contro la perdita di soli 22 battelli.
L’Equipoise fu una delle tante vittime di
quel periodo di terrore. Il 17 gennaio 1942 il piroscafo aveva lasciato New
York con un carico di merci varie, diretto in Brasile; dopo aver sostato a
Norfolk dal 19 al 23 gennaio, aveva raggiunto Rio de Janeiro il 25 febbraio,
ripartendone il 5 marzo con un carico di 8000 tonnellate di minerale di
manganese, diretto a Baltimora. Il comandante, il capitano statunitense John
Anderson, aveva ai suoi ordini un equipaggio a dir poco multinazionale: tra i
54 uomini imbarcati sull’Equipoise,
infatti, c’erano 18 norvegesi, 10 finlandesi (cosa piuttosto strana, se si
considera che la Finlandia combatteva all’epoca a fianco dell’Asse pur non
facendone ufficialmente parte), 7 statunitensi (compreso Anderson), 4
portoghesi, tre portoricani, due svedesi, un estone, un lettone, un lituano, un
danese, un brasiliano, un polacco, un ungherese (altro paese dell’Asse) e due
uomini di altra nazionalità.
Alle
2.38 (per altra fonte, 18.34) del 27 marzo 1942 l’Equipoise venne colpito da un siluro lanciato dal sommergibile
tedesco U 160 (capitano di corvetta
Georg Lassen) mentre navigava da solo e senza scorta, al largo di Capo Hatteras
e 60 miglia a sudest di Capo Henry, in Virginia. Un bersaglio molto facile: la
velocità massima dell’Equipoise, data
la sua età (e probabilmente anche gli effetti del sabotaggio subito l’anno
precedente), raggiungeva a stento gli otto nodi, e la nave non stava neanche
zigzagando al momento dell’attacco, anche se era oscurata.
Il
siluro colpì il piroscafo a prora dritta, tra i portelloni numero 1 e 2,
strappando letteralmente il fondo dello scafo; a causa anche, probabilmente,
del pesante carico di minerale, l’Equipoise
andò a fondo in soli due o tre minuti, nel punto 36°36’ N e 74°45’ O (o 36°09’
N e 74°30’ E; al largo del faro di Currituck e di Caffey’s inlet, 100 miglia ad
est di Norfolk, 30 miglia ad est di Hampton Roads e 60 ad est di Virginia
Beach, nel quadratino noto ai sommergibilisti tedeschi come CA 8455). Per l’U 160, completato cinque mesi prima,
l’affondamento dell’Equipoise rappresentò
il primo successo della “carriera”; avrebbe affondato ben 26 navi prima di
essere a sua volta distrutto da aerei statunitensi nel luglio 1943.
L’eterogenea
composizione dell’equipaggio dell’Equipoise
contribuì non poco all’infernale confusione che si scatenò a bordo mentre la
nave affondava: gli uomini non riuscivano a capirsi tra di loro a causa delle
differenze di lingua, e molti ordini non vennero compresi, o furono
disobbediti.
L’equipaggio
fece comunque in tempo a calare due scialuppe (quelle di sinistra: le due
scialuppe di dritta affondarono con la nave) e mettere a mare due zattere; una
delle lance, però, si capovolse non appena toccò l’acqua, mentre l’altra venne
calata senza nessuno a bordo, si danneggiò e si riempì parzialmente d’acqua. Nove
uomini, compreso il comandante Anderson, si arrampicarono su quest’ultima
imbarcazione (gli ultimi a salire furono il terzo ufficiale, che la raggiunse
dopo due ore, ed un marinaio), ma Anderson era ferito gravemente, e morì durante
la notte successiva. Il suo corpo venne sepolto in mare. Altri uomini salirono
sulle due zattere. Il mare era molto mosso, ed i naufraghi rimasero in balia
delle onde per oltre trenta ore. Finalmente, nel primo pomeriggio del 28 marzo
vennero avvistati degli aerei dell’USAAF, che lanciarono dei razzi di
segnalazione per indicare la posizione dei naufraghi al cacciatorpediniere
statunitense Greer (capitano di
corvetta L. H. Frost). Alle 14.05 il Greer
raggiunse una prima zattera dall’Equipoise,
dalla quale recuperò quattro naufraghi; alle 14.37 recuperò un altro
sopravvissuto ed un cadavere da una seconda zattera. Alle 16.25 il Greer trovò anche la scialuppa, molto
malridotta, della quale recuperò gli otto occupanti, tra cui il terzo ufficiale
Nils Nilsen, norvegese, unico ufficiale sopravvissuto. I tredici superstiti,
sette dei quali necessitarono di ricovero in ospedale, ed il corpo senza vita
furono sbarcati dal Greer a Norfolk alle
due del pomeriggio del giorno seguente; avevano perso la vita 41 dei 54 uomini
che formavano l’equipaggio dell’Equipoise.
Una
vittima “collaterale” dell’affondamento dell’Equipoise, e più in generale della psicosi da U-Boot che in quel
periodo dilagava lungo le coste statunitensi, fu una sventurata balena di
quindici metri, che lo stesso 28 marzo venne mitragliata e bombardata con bombe
di profondità, al largo di Kitty Hawk, da uno degli aerei che avevano avvistato
la scialuppa dell’Equipoise, il cui
pilota aveva scambiato il cetaceo per un sommergibile tedesco (in effetti per
forma, colore e dimensione, una balena poteva trarre in inganno un pilota di
aereo, specie se questi era convinto della presenza in zona di sommergibili).
Dopo l’attacco, l’aereo aveva persino annunciato di aver visto una sostanza
oleosa, probabilmente carburante del sommergibile colpito, venire in
superficie. Il cadavere della balena, con uno squarcio di un metro e venti
centimetri sul dorso, venne portato a riva dalle onde due giorni dopo.
Le
cause e dispute legali per il possesso del Pietro
Campanella proseguirono per mesi e anni anche dopo il suo affondamento. Il
7 aprile 1942 – pochi giorni dopo che l’Equipoise
era stato affondato – la corte distrettuale del Maryland respinse il ricorso
degli armatori contro il decreto di confisca.
Nell’ottobre
1942, sette mesi dopo l’affondamento dell’Equipoise,
la corte distrettuale del Maryland fu chiamata a giudicare su un’istanza
avanzata il 30 luglio di quell’anno dall’Alien Property Custodian (ente
statunitense istituito nel 1942 ed incaricato della custodia e gestione dei
beni appartenenti a stranieri di nazioni nemiche) il quale chiedeva di
sostituirsi all’armatore del Pietro
Campanella come parte in causa nelle cause avviate dal governo statunitense
per la confisca della nave. Già il 22 luglio l’Alien Property Custodian,
siccome gli armatori italiani, con l’entrata in guerra degli Stati Uniti, erano
diventati nemici, quindi soggetti al "Trading with the Enemy Act" del
6 ottobre 1917 (che delegava all’Alien Property Custodian ampi poteri in
qualità di agente del governo statunitense, che agiva nell’interesse dello
Stato), aveva emesso un ordine col quale si era dichiarato investito di tutti i
loro interessi e diritti nei confronti delle navi, nell’interesse degli Stati
Uniti. I soggetti coinvolti in questa causa erano ormai nomi noti: Homer Leslie
Loomis e Hilary W. Gans per gli armatori, William Calvin Chestnut come giudice,
Bernard J. Flynn per il governo. L’Alien Property Custodian, sostituendosi agli
armatori (che sarebbero così stati esclusi da eventuali cause successive),
sarebbe divenuto “dominus litis” per qualsiasi altra contesa avente ad oggetto
la nave, ed avrebbe potuto acconsentire ad un decreto di confisca definitiva
del piroscafo a favore degli Stati Uniti; inoltre, con la sostituzione l’Alien
Property Custodian sarebbe subentrato ai proprietari in tutti i diritti che
riguardavano il bastimento, e sarebbero cadute tutte le istanze precedentemente
avanzate dagli armatori italiani. Questi ultimi, con istanza presentata il 19
agosto, si opponevano alla sostituzione e chiedevano – non sapendo,
probabilmente, che la loro nave giaceva già da mesi sui fondali del
Nordatlantico – che ogni disputa legale venisse sospesa fino alla fine della
guerra. Il giudice Chestnut accolse solo parzialmente la richiesta dell’Alien
Property Custodian, concedendogli di subentrare agli armatori negli interessi
che questi avevano sulla nave, ma non fino al punto di escluderli dall’opporsi
in tribunale contro l’eventuale confisca. La corte accolse poi la richiesta, da
parte degli armatori, che ogni azione legale relativa alle istanze di confisca
venisse sospesa fino alla fine della guerra (l’Alien Property Custodian
inizialmente ricorse contro tale decisione, ma poi rinunciò). Il 13 ottobre
1943 Leo T. Crowley, Alien Property Custodian, presentò una formale
rivendicazione del diritto di proprietà sulle navi, comprensivo del diritto a
ricevere qualsiasi compensazione fosse stata corrisposta per il loro utilizzo.
Un
nuovo processo si tenne presso la corte distrettuale del Maryland nel luglio
1947, a guerra finita, quando il relitto di quello che era stato il Pietro Campanella stava arrugginendo in
fondo al mare da più di cinque anni. All’Alien Property Custodian era
subentrato il procuratore generale Tom C. Clark; per il resto, molte delle
figure coinvolte erano “vecchie conoscenze”: Bernard J. Flynn, Charles Ruzika,
l’ormai settantaquattrenne William Calvin Chestnut e l’onnipresente Homer
Leslie Loomis. Rappresentavano gli interessi della Società di Navigazione Tito
Campanella l’avvocato Thomas G. Young Jr. e lo studio France, Rouzer &
Lentz di Baltimora. L’oggetto del contendere erano, ancora una volta, le
istanze di confisca del Pietro Campanella
e dell’Euro (che era anch’esso
affondato in guerra), o piuttosto la loro fondatezza legale. Il 24 febbraio
1947 il procuratore generale degli Stati Uniti aveva presentato un’istanza per
subentrare all’Alien Property Custodian, figura che, terminata la guerra, era
stata “disattivata” con ordine esecutivo del 14 ottobre 1946, trasferendo tutti
i suoi poteri ed incarichi al procuratore generale. L’oggetto del contendere
nel processo del luglio 1947 era se Pietro
Campanella ed Euro fossero
legalmente soggette ad un provvedimento di confisca per effetto dell’Espionage
Act: tale legge prevedeva tra l’altro (sezioni 1 e 2) che se il presidente
degli Stati Uniti avesse ordinato lo spostamento di determinate navi
all’interno delle acque territoriali statunitensi in situazioni di guerra in
corso od imminente o comunque di emergenza nazionale, tali navi sarebbero state
soggette a confisca qualora i soggetti responsabili non avessero adempiuto agli
ordini presidenziali. Inoltre (sezione 3), essa stabiliva che fosse illegale,
per il comandante o l’armatore di una nave, causare o consentire
volontariamente il danneggiamento o distruzione del bastimento, od il suo
impiego come luogo di rifugio per soggetti cospiranti al fine di commettere
reati contro gli Stati Uniti. Per quanto riguardava le sezioni 1 e 2, esse non
potevano essere applicate per giustificare la confisca delle navi, perché nel
marzo 1941 non era stato emesso alcun ordine presidenziale che ne disponesse lo
spostamento. Per quanto concerneva la sezione 3, il giudice Chestnut negò –
contrariamente a quanto era stato affermato dal governo, a sostegno della
confisca – che i due piroscafi fossero stati usati come “luogo di rifugio per soggetti cospiranti al fine di commettere reati
contro gli Stati Uniti”: il termine “luogo
di rifugio”, infatti, secondo Chestnut, faceva riferimento a soggetti “esterni” che vi avessero trovato
rifugio, e non ai loro equipaggi, che vi dimoravano abitualmente. Fu obiettato
che l’aver permesso all’ammiraglio Lais di salire a bordo, visitare i
bastimenti ed ordinarne il sabotaggio permettesse di considerarle “luogo di rifugio per soggetti cospiranti al
fine di commettere reati contro gli Stati Uniti”, ma Chestnut respinse
questa interpretazione. Era invece innegabile che l’equipaggio avesse “causato o consentito volontariamente il
danneggiamento o distruzione del bastimento”, ma meno chiaro se a questo
reato si applicasse la confisca, provvedimento che un’interpretazione letterale
avrebbe potuto associare ai soli reati contemplati dalle sezioni 1 e 2.
Chestnut si dichiarò in favore di tale interpretazione, e ritenne che il
sabotaggio non costituisse motivo legalmente valido per la confisca. Decise
pertanto che la confisca non trovasse base legale nell’Espionage Act, anche se
riconobbe che comunque l’Alien Property Custodian era subentrato agli armatori
in tutti i titoli e diritti.
Ultima
questione riguardava il fondo costituito per indennizzare i proprietari delle
navi per il loro utilizzo dopo la requisizione e per la loro perdita: il
procuratore generale, in quanto subentrato all’Alien Property Custodian che
avanzava analoghe rivendicazioni, affermava di dover essere il destinatario di
tale indennizzo; l’avvocato Loomis, da parte sua, rivendicava anch’esso tale
diritto, quale compenso per i servigi professionali prestati in quegli anni. Le
relative istanze erano state avanzate fin dal 1° ottobre 1942.
In
un altro processo, di poco precedente, gli armatori del Pietro Campanella e dell’Euro
avevano fatto sapere, tramite loro rappresentanti a Washington, di non essere
più interessati a contestare la confisca delle loro navi da parte degli Stati
Uniti; ormai i loro interessi principali si erano spostati su altre questioni
che erano in corso di dibattimento tra gli Stati Uniti ed il Governo italiano. Una
legge approvata dal Congresso statunitense il 5 agosto 1947, infatti, aveva
deliberato la restituzione agli armatori italiani delle navi sequestrate nel
marzo 1941 e sopravvissute al conflitto, e la consegna agli armatori italiani
le cui navi, dopo la confisca, erano affondate in guerra sotto controllo
americano, di un numero di navi Liberty (di cui ormai gli Stati Uniti, dopo gli
immensi programmi di costruzioni del periodo bellico, avevano una netta
sovrabbondanza rispetto alle esigenze del tempo di pace) aventi equivalente
tonnellaggio; si riteneva che un tale provvedimento sarebbe stato benefico
perché avrebbe aiutato la ripresa dell’economia italiana. In cambio, gli
armatori italiani rinunciavano ad ogni compensazione per l’utilizzo delle loro
navi da parte degli Stati Uniti durante il conflitto, o per la loro perdita
mentre venivano impiegate sotto bandiera statunitense (o panamense). Il 16
marzo 1948, con ordine esecutivo numero 9935 del presidente Truman, il
procuratore generale e la United States Maritime Commission individuarono
quindici navi Liberty “in surplus” che vennero poi trasferite al governo italiano,
e da questi agli armatori. Tra queste quindici navi ce n’era anche una
destinata all’armatore Tito Campanella: la Fort
Rae, costruita nel 1942, che venne battezzata proprio Pietro Campanella, come il piroscafo perduto il cui vuoto andava a
colmare (nel corso dello stesso anno, tuttavia, il suo nome fu cambiato in Clelia Campanella, quello di un’altra
nave dello stesso armatore perdutasi in guerra). Con questo, l’armatore del Pietro Campanella si riteneva ormai
soddisfatto, e rinunciava ad ogni diritto sulla sua vecchia nave requisita
dagli Stati Uniti e affondata in guerra. Lo stesso valeva per gli altri
armatori, in base ad accordi raggiunti tra Italia e Stati Uniti.
I
rappresentanti degli armatori avevano anche dichiarato che gli armatori non avessero
mai richiesto i servigi dell’avvocato Loomis per la tutela dei loro interessi,
e quest’ultimo aveva risposto facendo notare che aveva orginariamente ricevuto
tale incarico dall’ambasciata italiana (prima dell’entrata in guerra
dell’Italia contro gli Stati Uniti) e dalla Società Italia, che all’epoca rappresentava
tutti i diversi armatori coinvolti in quella vicenda, e che da anni si era
battuto contro i provvedimenti di confisca, a difesa degli interessi italiani
su quei bastimenti.
La
causa relativa alle richieste dell’avvocato Loomis fu probabilmente l’ultima
dell’interminabile diatriba legal iniziata nel marzo 1941: fu celebrata nel
dicembre 1948, quando ormai il Pietro
Campanella, o Equipoise, o come
lo si volesse chiamare, aveva terminato la sua vita da più di sei anni e mezzo.
Il giudice fu, ancora una volta, William Calvin Chestnut.
Loomis
aveva spiegato che nel luglio 1941 lui – newyorchese – e due avvocati di
Baltimora, i signori Brown e Brune, erano stati ingaggiati per conto degli
armatori italiani, per difendere i loro interessi nelle cause relative alla
confisca delle navi da parte degli Stati Uniti. Prima ancora, nell’aprile 1941,
erano stati ingaggiati, sempre per conto degli armatori, per provvedere alla
difesa dei comandanti ed equipaggi accusati di sabotaggio, nonché per le cause
relative alla loro espulsione dal territorio statunitense presso il
Dipartimento dell’Immigrazione. Dopo la guerra, Brown e Brune erano stati
pagati dagli armatori del Pietro
Campanella e dell’Euro, ma lo
stesso non era acaduto per Loomis, che pure era quello che più si era impegnato
nella difesa, in termini di dispendio sia di tempo che di denaro. Loomis
chiedeva di essere rimborsato, ed a tale scopo accampava diritti sulle navi – o
piuttosto, non essendo queste più esistenti, sul fondo di indennizzo costituito
per la loro perdita – dal momento che queste erano l’unica proprietà degli
armatori italiani presente negli Stati Uniti. La richiesta di Loomis era
osteggiata sia dal procuratore generale degli Stati Uniti, che avrebbe dovuto
sborsare il denaro, sia dagli ormai ex proprietari italiani, che non volevano
altre grane legali per non turbare l’accordo ormai raggiunto col governo
statunitense. Il giudice Chestnut rilevò che se da una parte era vero che
Loomis non era mai stato ingaggiato direttamente dagli armatori di Pietro Campanella ed Euro, d’altro canto, siccome era
ingaggiato nel marzo 1941 dall’ambasciatore italiano a Washington e dalla
Società Italia (che all’epoca tutelava tutte le navi italiane in acque statunitensi,
non solo le sue) per la difesa degli equipaggi accusati di sabotaggio, e poi
per opporsi alle istanze di confisca delle navi da parte delle autorità
statunitensi, cosa che aveva fatto “vigorosamente” con tutte le sue risorse
professionali, era innegabile che avesse di fatto agito a vantaggio e
nell’interesse degli armatori di Pietro
Campanella ed Euro, i quali
avevano accettato i benefici per loro derivanti dal suo operato e non avevano
“ripudiato” per iscritto il titolo di Loomis ad agire come loro difensore fino
al 16 febbraio 1948, cioè a cose fatte, quando ormai l’accordo raggiunto con
gli Stati Uniti per la cessione delle navi Liberty faceva sì che i loro
interessi differissero completamente da quelli passati, tutelati da Loomis. Chesnut
concluse che vi fossero elementi per affermare che “le relazioni tra il governo italiano e le società di armamento delle
navi fossero tali da implicare che l’ambasciatore italiano avesse l’autorità di
agire per conto degli armatori [nell’ingaggiare Loomis]”.
Parte
delle spese sostenute da Loomis per lo svolgimento della sua attività di difesa,
prima dell’entrata in guerra dell’Italia contro gli Stati Uniti, erano state
rimborsate dall’ambasciata italiana a Washington; ma dopo la dichiarazione di
guerra tra le due nazioni (dicembre 1941) non era stato più in grado di
contattare l’ambasciatore italiano, appoggiandosi invece alla legazione
svizzera a Washington, che in parte era subentrata all’ambasciata italiana
negli affari da questa gestiti. Nonostante lo stato di guerra venuto a crearsi,
Loomis aveva continuato a battersi in difesa degli interessi italiani per il
resto del conflitto, ritenendolo suo dovere professionale; finita la guerra,
tutti i suoi soci ed associati locali nelle diverse cause relative alle navi
italiane erano stati pagati dagli armatori o da loro rappresentanti, ma lui no.
Aveva ricevuto, per la verità, un’offerta di 50.000 dollari, ma la riteneva del
tutto insufficiente in considerazione delle spese sostenute e non rimborsate
(1113,92 dollari), del valore delle due navi da lui “difese” a Baltimora (ben
superiore al milione di dollari) e del tempo che aveva speso nelle varie cause
(1433 ore e un terzo), giudicando invece che un corrispettivo adeguato per i
suoi servigi sarebbe stato di circa 300.000 dollari.
Al
termine della sua disamina, il giudice Chestnut respinse le richieste di
Loomis, in quanto con l’ordine di investitura emesso il 22 luglio 1942
dall’Alien Property Custodian tutti i diritti sulle navi si erano trasferiti a
tale soggetto, ed ogni altra rivendicazione nei confronti degli armatori doveva
seguire le regole del Trading with the Enemy Act.
Un
relitto che giace a circa 43 metri di profondità, 65 miglia a sudest di Capo
Henry (36°10.955 N e 74°58.250 O), viene ritenuto dalla National Oceanic &
Atmospheric Administration (NOAA) e da molti subacquei essere quello dell’Equipoise, ma alcune ricerche condotte
in anni recenti (dalle quali è emerso, peraltro, che il relitto del presunto Equipoise era in realtà molto più corto
rispetto alla lunghezza della nave che risultava dai documenti, nonostante
fosse pressoché integro) sembrerebbero indicare che in realtà quel relitto dovrebbe
quasi sicuramente appartenere alla Mexicano,
una nave cisterna britannica affondata in una tempesta nel 1903.
Un’altra immagine del Pietro Campanella quando ancora si chiamava Chanda (da www.clydeships.co.uk) |
Chi era il proprietario del Pietro Campanella?
RispondiEliminaLa Società Anonima di Navigazione Tito Campanella di Genova.
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