La Pegaso (g.c. Giorgio Parodi via www.naviearmatori.net) |
Torpediniera, o avviso scorta, della classe Orsa (talvolta detta anche
“classe Pegaso”; dislocamento
standard 840 tonnellate, in carico normale 1016 tonnellate, a pieno carico 1600
tonnellate).
All’entrata in guerra dell’Italia, le quattro unità della classe erano
di fatto le sole navi della Regia Marina appositamente concepite per la scorta
ai convogli (eccezion fatta per il poco riuscito cacciasommergibili
“sperimentale” Albatros), oltre ad
essere dotate di considerevole autonomia, e di conseguenza furono fin da subito
in “prima linea” sulle rotte per l’Africa Settentrionale, dove prestarono
intenso servizio per tutta la campagna nordafricana. Furono anche le prime navi
da guerra italiane dotate di sonar, prodotto dalla ditta SAFAR.
Durante la sua carriera, la Pegaso
affondò quasi certamente almeno un sommergibile britannico (il Thorn) e forse anche altri due (l’Upholder e l’Undaunted; alcune fonti citano anche il possibile affondamento di
un quarto sommergibile, l’Urge, il
che tuttavia appare poco probabile).
Breve e parziale
cronologia.
15 febbraio 1936
Impostazione presso i Bacini & Scali Napoletani di Napoli.
8 dicembre 1936
Varo presso i Bacini & Scali Napoletani di Napoli.
1937
Allestimento e prove in mare per il collaudo di apparato motore ed
armamento.
La Pegaso nel 1937 (Gruppo di Cultura Navale) |
30 marzo 1938
Entrata in servizio.
Poco dopo, la Pegaso viene
dislocata a Cagliari e partecipa alle operazioni connesse alla guerra civile
spagnola, scortando convogli con rifornimenti per le truppe falangiste e del
Corpo Truppe Volontarie, al comando del tenente di vascello Luciano Sotgiu (che
per il suo operato riceverà dalla Spagna franchista la Cruz Naval Blanca di
prima classe al merito). Durante tali missioni, la nave fa anche scalo a Ceuta,
nel Marocco spagnolo.
In questo periodo è imbarcato sulla Pegaso
il tenente del Genio Navale Luca Balsofiore, futura MOVM.
Maggio 1938
È presente, a Napoli, durante la rivista navale "H" tenuta
per la visita in Italia di Adolf Hitler, durante la quale la Pegaso e le gemelle (che formano la
Squadriglia Avvisi Scorta) sono a disposizione di Maridipart Napoli.
5 ottobre 1938
Inizialmente classificata avviso scorta, la Pegaso viene in questa data riclassificata torpediniera.
La Pegaso a Barcellona nel 1939 (foto Antonio Cavallini – ANMI Monza) |
Maggio 1939
Rientra a Napoli. Successivamente viene dislocata per sei mesi a
Tripoli, effettuando anche alcuni viaggi verso Bengasi.
Un’altra foto della nave nel 1939 (Coll. Erminio Bagnasco, da “Mussolini’s Navy” di Maurizio Brescia) |
10 giugno 1940
All’entrata in guerra dell’Italia, la Pegaso fa parte della IV Squadriglia Torpediniere, di base a Napoli, che forma con le
gemelle Procione (caposquadriglia), Orsa e Orione.
La Pegaso (a destra) ed il resto della IV Squadriglia Torpediniere (Orsa, Orione e Procione, andando verso sinistra) a Napoli l’8 giugno 1940 (foto Antonio Cavallini – ANMI Monza) |
16 giugno 1940
Alle 20 dello stesso giorno la Pegaso
ed il resto della Squadriglia (Procione,
Orsa e Orione) salpano da Napoli per compiere un rastrello
antisommergibili al largo di Napoli.
25 giugno 1940
La Pegaso ed il resto della IV Squadriglia Torpediniere (Procione
– caposcorta –, Orsa e Orione) partono da Napoli alle 2.15 per
scortare a Tripoli i trasporti truppe Esperia
e Victoria, aventi a bordo 937
militari e 2775 tonnellate di materiali.
Si tratta del primo convoglio organico inviato in Libia, preceduto
soltanto dall’invio della XII Squadriglia Cacciatorpediniere con alcune
batterie anticarro.
(Per altra versione, Procione
ed Orsa si limitano a scortare i due
bastimento fino a Siracusa, poi essere sostituite dalla XIV Squadriglia
Cacciatorpediniere «Vivaldi», mentre Orione
e Pegaso non partecipano alla
missione).
Ha così inizio quella che prenderà il nome di “battaglia dei convogli”.
26 giugno 1940
Il convoglio giunge a Tripoli alle 13.30.
2 luglio 1940
Pegaso, Procione (caposcorta), Orsa e Orione lasciano Tripoli alle 13, per scortare Esperia e Victoria che
rientrano a Napoli. Oltre alla scorta diretta, è ora presente una forza di
scorta a distanza costituita dalla I Divisione Navale (incrociatori pesanti Zara, Fiume e Gorizia) con la
IX Squadriglia Cacciatorpediniere (Vittorio
Alfieri, Alfredo Oriani, Vincenzo Gioberti, Giosuè Carducci) e dalla II Divisione Navale (incrociatori leggeri Giovanni delle Bande Nere e Bartolomeo Colleoni) con la X
Squadriglia Cacciatorpediniere (Maestrale,
Grecale, Libeccio, Scirocco).
4 luglio 1940
Il convoglio arriva a Napoli alle 23.
6 luglio 1940
La IV Squadriglia Torpediniere, con Pegaso, Procione
(caposquadriglia), Orsa e Orione, salpa da Napoli alle 19.45 per
scortare a Bengasi i trasporti truppe Esperia
e Calitea, che hanno a bordo 2190
uomini, e le moderne motonavi da carico Marco
Foscarini e Vettor Pisani. Al
largo di Catania si unisce al convoglio la motonave Francesco Barbaro, scortata dalle vecchie torpediniere Giuseppe Cesare Abba e Rosolino Pilo. L’operazione è denominata
«TCM» (Terra, Cielo, Mare).
Il convoglio segue la rotta che passa per lo Stretto di Messina.
7 luglio 1940
Mentre il convoglio si trova in Mar Ionio, Supermarina viene informato
che alle otto del mattino dello stesso 7 luglio la Forza H britannica
(portaerei Ark Royal, corazzate Valiant e Resolution, incrociatore da battaglia Hood, incrociatori leggeri Arethusa, Delhi ed Enterprise, cacciatorpediniere Faulknor,
Foxhound, Fearless, Douglas, Active, Velox, Vortingern, Wrestler, Escort e Forester) è
uscita in mare da Gibilterra. Scopo di tale uscita (operazione «MA 5») è
attaccare gli aeroporti della Sardegna, per distogliere l’attenzione dei
comandi italiani da un traffico di convogli tra Alessandria a Malta (due
convogli di mercantili per l’evacuazione di civili e materiali da inviare ad
Alessandria, ed uno di cacciatorpediniere con alcuni rifornimenti per Malta),
con l’appoggio dell’intera Mediterranean Fleet (corazzate Warspite, Malaya e Royal Sovereign, portaerei Eagle, incrociatori leggeri Orion, Neptune, Sydney, Gloucester e Liverpool, cacciatorpediniere Dainty,
Defender, Decoy, Hasty, Hero, Hereward, Hyperion, Hostile, Ilex, Nubian, Mohawk, Stuart, Voyager, Vampire, Janus e Juno); questo,
però, non è a conoscenza dei comandi italiani, che decidono di fornire
protezione al convoglio diretto a Bengasi, facendo uscire in mare l’intera
flotta italiana.
La scorta diretta viene così rinforzata dalla II Divisione Navale, con
gli incrociatori Bande Nere e Colleoni, dalla X Squadriglia
Cacciatorpediniere con Maestrale, Grecale, Libeccio e Scirocco, e
dalle torpediniere Pilo e Missori; quale scorta a distanza, escono
in mare la 1a Squadra Navale con le Divisioni IV (incrociatori
leggeri Alberico Da Barbiano, Alberto Di Giussano, Luigi Cadorna ed Armando Diaz), V (corazzate Giulio
Cesare e Conte di Cavour) e VIII
(incrociatori leggeri Luigi di Savoia
Duca degli Abruzzi e Giuseppe
Garibaldi) e le Squadriglie Cacciatorpediniere VII (Freccia, Dardo, Saetta, Strale), VIII (Folgore, Fulmine, Lampo, Baleno), XIV (Leone Pancaldo, Ugolino Vivaldi, Antonio Da
Noli), XV (Antonio Pigafetta, Nicolò Zeno) e XVI (Nicoloso Da Recco, Emanuele
Pessagno, Antoniotto Usodimare),
e la 2a Squadra Navale con l’incrociatore pesante Pola (nave ammiraglia), le Divisioni I (Zara, Fiume, Gorizia), III
(incrociatori pesanti Trento e Bolzano) e VII (incrociatori leggeri Emanuele Filiberto Duca d’Aosta, Eugenio di Savoia, Raimondo Montecuccoli e Muzio
Attendolo) e le Squadriglie Cacciatorpediniere IX (Alfieri, Oriani, Gioberti, Carducci), XI (Aviere, Artigliere, Geniere, Camicia Nera),
XII (Lanciere, Carabiniere, Ascari, Corazziere) e XIII (Granatiere, Bersagliere, Fuciliere, Alpino). Pola, I e III Divisione, con le relative squadriglie di
cacciatorpediniere (IX, XI e XII), si posizionano 35 miglia ad est del
convoglio, per proteggerlo da un attacco navale proveniente da est, mentre la
VII Divisione e la XIII Squadriglia, posizionate 45 miglia ad ovest, forniscono
protezione da attacchi provenienti da Malta; il resto della flotta (IV, V e
VIII Divisione, VII, VIII, XIV, XV e XVI Squadriglia) forma infine un gruppo di
sostegno. Non è tutto: viene organizzata un’intensa ricognizione aerea con
grandi aliquote dei velivoli della ricognizione marittima, il posamine
ausiliario Barletta viene inviato a
posare mine a protezione del porto di Bengasi, e vengono inviati in tutto 14
sommergibili in agguato nel Mediterraneo orientale.
L’avvistamento anche della Mediterranean Fleet, uscita da Alessandria
nel pomeriggio del 7 – come si è detto – per proteggere i convogli con Malta,
non fa che confermare la convinzione di Supermarina circa la necessità delle
misure adottate.
Il convoglio, procedendo a 14 nodi, segue rotta apparente verso Tobruk
fino a giungere in un punto situato 245 miglia a nordovest di Bengasi, quindi
assume rotta verso quest’ultimo porto; dopo altre 100 miglia il convoglio si
divide, lasciando proseguire a 18 nodi le più veloci Esperia e Calitea, mentre
le motonavi da carico manterranno una velocità di 14 nodi.
8 luglio 1940
All’1.50 l’ammiraglio Inigo Campioni, comandante della flotta italiana,
a seguito di avvistamenti della ricognizione che rivelano la presenza in mare
della Mediterranean Fleet britannica (anch’essa uscita a tutela di convogli),
ordina al convoglio, che si trova in rotta 147° (per Bengasi) di assumere rotta
180°, in modo da essere pronto ad essere dirottato su Tripoli in caso di
necessità. Alle 7.10, appurato che la Mediterranean Fleet non può essere diretta
ad intercettare il convoglio, Campioni ordina a quest’ultimo di tornare sulla
rotta per Bengasi.
La Pegaso e le altre navi del
convoglio (le torpediniere seguono in porto i mercantili) entrano a Bengasi tra
le 18 e le 22, così concludendo la traversata senza inconvenienti. In tutto il
convoglio porta in Libia 2190 uomini (1571 sull’Esperia e 619 sulla Calitea),
72 carri armati M11/39, 232 automezzi, 5720 tonnellate di carburante e 10.445
tonnellate di rifornimenti.
Durante la navigazione di rientro alle basi, la flotta italiana si
scontrerà con quella britannica, nell’inconclusivo confronto divenuto poi noto
come battaglia di Punta Stilo.
10 luglio 1940
Per ordine di Marina Bengasi, la Pegaso
esce in mare per cercare un idrovolante CANT Z. 501 della 148a
Squadriglia da Ricognizione Marittima Lontana, il n. 6 del sottotenente Fulvio
Simiani, che alle 9.20 è dovuto ammarare, in condizioni di mare sfavorevoli, a
80 miglia da Bengasi, a causa di un’avaria al motore.
Durante la notte la Pegaso
cerca l’idrovolante in avaria, che intanto scarroccia per il moto ondoso e del
vento da nordovest, ma non riesce a trovarlo.
11 luglio 1940
Una volta sorto il sole, l’idrovolante del sottotenente Simiani viene
localizzato 80 miglia a nordovest di Bengasi dal CANT Z. 501 del tenente Vannio
Vercillo (anch’egli appartenente alla 148a Squadriglia R.M.L.), che
indirizza sul posto della Pegaso, già
in mare da venti ore. La torpediniera riesce infine ad agganciare l’idrovolante
– avariato ma intatto – ed a rimorchiarlo, non senza difficoltà, fin nel porto
di Bengasi, salvando così sia il mezzo che l’equipaggio.
19 luglio 1940
Alle sei del mattino la Pegaso
lascia Bengasi insieme al resto della IV Squadriglia (Procione, caposcorta, Orsa
e Orione) per scortare in Italia Esperia, Calitea, Foscarini, Pisani e Barbaro.
In mattinata la scorta diretta viene rinforzata dalla X Squadriglia
Cacciatorpediniere (Maestrale, Grecale, Libeccio, Scirocco)
proveniente da Tripoli. Per scorta indiretta esce da Taranto l’VIII Divisione
Navale (Duca degli Abruzzi e Garibaldi) con i relativi
cacciatorpediniere, mentre la III Divisione si tiene pronta a Messina, per
intervenire rapidamente in caso di necessità.
21 luglio 1940
Il convoglio arriva a Napoli alle 00.30, senza che si siano manifestati
problemi.
27 luglio 1940
Pegaso, Procione (caposquadriglia), Orsa e Orione salpano da Napoli alle 5.30 per scortare a Tripoli un
convoglio composto dai piroscafi Maria Eugenia, Bainsizza e Gloria Stella e dalle
motonavi Mauly, Col di Lana, Francesco Barbaro e Città
di Bari, nell’ambito dell’operazione «Trasporto Veloce Lento» (T.V.L.). Si
tratta del convoglio lento, avente velocità 7,5 nodi.
A protezione di questo e di un secondo convoglio diretto a Bengasi
(quello veloce, che procede a 16 nodi: trasporti truppe Marco Polo, Città di Palermo e Città
di Napoli, torpediniere Alcione, Airone, Aretusa ed Ariel)
saranno in mare, dal 30 luglio al 1° agosto, gli incrociatori pesanti Pola, Zara, Fiume, Trento e Gorizia (I Divisione), gli incrociatori leggeri Alberico Da Barbiano ed Alberto Di Giussano della IV
Divisione e Luigi di Savoia Duca
degli Abruzzi, Eugenio di Savoia, Raimondo Montecuccoli e Muzio Attendolo della VII
Divisione, e le Squadriglie Cacciatorpediniere IX (Alfieri, Oriani, Gioberti, Carducci), XII (Lanciere, Corazziere, Carabiniere, Alpino),
XIII (Granatiere, Bersagliere, Fuciliere, Ascari) e
XV (Pigafetta, Malocello, Zeno).
28 luglio 1940
A seguito dell’avvistamento di notevoli forze navali britanniche uscite
in mare sia da Alessandria (il grosso della Mediterranean Fleet) che da
Gibilterra (l’incrociatore da battaglia Hood,
le corazzate Valiant e Resolution e le portaerei Argus ed Ark Royal), i due convogli dell’operazione T.V.L. ricevono ordine
da Supermarina di rifugiarsi immediatamente nei porti della Sicilia.
Il convoglio lento, con la IV Squadriglia, giunge a Catania in serata
e vi sosta per due giorni.
30 luglio 1940
Passata la minaccia, il convoglio riparte in mattinata da Catania, con
il rinforzo della X Squadriglia Cacciatorpediniere (Maestrale, Grecale, Libeccio e Scirocco)
Intorno alle 14 il convoglio viene attaccato, circa 20 miglia a sud di
Capo dell’Armi (ed a sudovest di Capo Spartivento), dal sommergibile
britannico Oswald (capitano
di corvetta David Alexander Fraser), che lancia alcuni siluri contro il Grecale e la Col di Lana: il cacciatorpediniere
riesce però a schivare le armi, che mancano anche la motonave. L’Oswald lancia via radio un segnale di
scoperta relativo al convoglio.
1° agosto 1940
Il convoglio raggiunge indenne Tripoli alle 9.45.
2 agosto 1940
Pegaso, Procione, Orsa e Orione salpano da
Tripoli alle 8.30 per scortare a Bengasi Maria
Eugenia, Gloria Stella, Mauly, Caffaro, Col di Lana e Città di Bari.
4 agosto 1940
Il convoglio raggiunge Bengasi a mezzogiorno.
12 agosto 1940
Pegaso ed Orione (caposcorta) salpano da Bengasi
alle 14 per scortare a Tripoli il Marco
Polo.
(Per la stessa data, con evidente incrongruenza, lo stesso volume
dell’USMM riporta anche che la Pegaso
sarebbe partita da Bengasi alle 19 scortando Maria Eugenia, Gloria Stella,
Mauly e Col di Lana, giungendo a Tripoli alle 10.10 del 15).
13 agosto 1940
Pegaso, Orione e Marco Polo arrivano a Tripoli alle 10.30.
16 agosto 1940
Pegaso, Procione, Orsa e Orione lasciano da
Tripoli alle 18.30 per scortare in Italia Marco
Polo, Città di Palermo e Città di Napoli.
Nella notte si uniscono alla scorta la X Squadriglia Cacciatorpediniere
(Maestrale, Grecale, Libeccio e Scirocco) e la I Squadriglia
Torpediniere (Alcione, Airone, Ariel ed Aretusa).
18 agosto 1940
Il convoglio arriva a Palermo alle tre.
(Sempre secondo il libro dell’USMM, con un’altra incongruenza, la Pegaso sarebbe salpata alle 16 del 18 da
Tripoli, scortando a Palermo Mauly e Col di Lana, arrivandovi alle 8 del 21
agosto).
19 agosto 1940
Il convoglio giunge a Napoli alle 19.
10 settembre 1940
La Pegaso salpa da Napoli per
Tripoli alle 18, scortando il piroscafo Caffaro
e le motonavi Mauly e Col di Lana.
Un’altra foto della nave (g.c. Marcello Risolo) |
13 settembre 1940
Il convoglio giunge a Tripoli alle 16.30.
14 settembre 1940
La Pegaso salpa da Bengasi alle
9.30 di scorta alla motonave Andrea
Gritti, diretta a Tripoli.
15 settembre 1940
Pegaso e Gritti arrivano a Tripoli alle 10.30.
21 settembre 1940
La Pegaso lascia Tripoli alle
4.15 di scorta alla Gritti, diretta
ora a Napoli.
22 settembre 1940
Le due navi giungono a Napoli alle 18.30.
2 novembre 1940
La Pegaso salpa da Palermo
per Tripoli alle 5, scortando i piroscafi Rapido
e Pegli.
4 novembre 1940
Il convoglietto raggiunge Tripoli alle 12.15.
15 novembre 1940
La Pegaso e la torpediniera Castore partono da Tripoli per Bengasi
alle 10.45, scortando la motonave Calino.
16 novembre 1940
Le tre navi arrivano a Bengasi alle 9.
17 novembre 1940
La Pegaso lascia Bengasi per
Tripoli alle 14, scortando il piroscafo Livenza.
19 novembre 1940
Pegaso e Livenza arrivano a Tripoli alle 10.45.
22 novembre 1940
La Pegaso lascia Tripoli alle
4 scortando il Livenza e la motonave Giulia, diretti a Palermo.
25 novembre 1940
Il convoglio raggiunge Palermo alle 8.40.
3 dicembre 1940
La Pegaso lascia Palermo per
Tripoli alle 10.15, scortando le navi cisterna mercantili Ennio e Caucaso e la
cisterna militare Po.
6 dicembre 1940
Il convoglio giunge a Tripoli alle 00.30.
2 gennaio 1941
La Pegaso salpa da Tripoli a
mezzogiorno scortando i piroscafi Pallade
ed Ezilda Croce, diretti a Napoli,
via Palermo.
4 gennaio 1941
Il convoglio viene infruttuosamente attaccato da aerosiluranti
britannici al largo di Capo Bon.
5 gennaio 1941
Il convoglio giunge a Palermo alle 17.30.
9 gennaio 1941
Il convoglio giunge a Napoli alle 13.
20 gennaio 1941
La Pegaso lascia Napoli alle
18 per scortare a Tripoli i piroscafi Caffaro
(italiano) e Menes (tedesco) e la
motonave Col di Lana.
21-22 gennaio 1941
A causa del maltempo, il convoglietto deve restare a ridosso di
Favignana dalle 22 del 21 gennaio alle 12.30 del 22.
24 gennaio 1941
Il convoglio arriva a Tripoli alle 10.
La Pegaso in un’immagine probabilmente d’almanacco (da buenaventuramenorca.files.wordpress) |
1940-1941
L’armamento contraereo viene completamente sostituito: vengono
eliminate le otto mitragliere da 13,2/76 mm (due singole e tre binate) che lo
costituivano, mentre al loro posto sono installate quattro più potenti mitragliere
binate Breda 1935 da 20/65 mm. Le tramogge per bombe di profondità vengono
aumentate da due a quattro.
13 febbraio 1941
Pegaso (caposcorta,
capitano di corvetta Giungi) ed Orsa,
insieme alla vecchia torpediniera Giuseppe
La Farina, lasciano Tripoli alle 11 per scortare a Napoli i mercantili
tedeschi Arcturus, Alicante ed Ankara.
14 febbraio 1941
Verso le tre di notte (altra versione: le 23) il convoglio subisce un
infruttuoso attacco di aerosiluranti, poco a nord delle isole Kerkennah. Tutte
le navi aprono immediatamente il fuoco con le artiglierie contraeree; l’Ankara ritiene di aver colpito con il
suo tiro un aerosilurante che l’ha attaccata, forse riuscendo a costringerlo ad
ammarare per i danni.
Alle 23.49, le navi italiane vengono avvistate a nord di Pantelleria
dal sommergibile britannico Triumph
(capitano di corvetta Wilfrid John Wentworth Woods).
15 febbraio 1941
Alle 00.18 il Triumph lancia
cinque siluri da 4600 metri (intenzione di Woods sarebbe lanciarne quattro, ma
un malinteso induce i siluristi a pensare di doverne lanciare sei; uno di essi
non parte per un difetto), ma nessuna nave viene colpita.
Il convoglio giunge a Napoli a mezzogiorno dello stesso 15.
1° marzo 1941
Pegaso, Orione e la torpediniera Clio (caposcorta) salpano da Napoli per
Tripoli alle 4 (o 4.15), scotando i piroscafi Amsterdam, Castellon, Ruhr e Maritza (italiano il primo, tedeschi gli altri).
3 marzo 1941
Il convoglio arriva a Tripoli alle 18.
5 marzo 1941
Pegaso, Orione e l’incrociatore ausiliario RAMB III lasciano Tripoli alle 12 di
scorta a Castellon, Ruhr e Maritza che ritornano a Napoli.
7 marzo 1941
Il convoglio giunge a Napoli alle 15.
15 marzo 1941
La Pegaso salpa da Tripoli
alle 8 insieme alle torpediniere Centauro
e Clio (caposcorta) per assumere la
scorta della nave cisterna Rondine e
la motonave Cilicia. Centauro e Clio sono salpate già il 13 insieme ai due mercantili, diretti a
Palermo e Napoli, ma sono dovute tornare indietro a causa del maltempo,
lasciando proseguire Rondine e Cilicia.
17 marzo 1941
Raggiunta la Rondine, la Pegaso la scorta fino a Napoli, dove
giunge alle 21.30.
23 marzo 1941
La Pegaso, insieme alle
torpediniere Castore, Circe (caposcorta), Clio, Centauro e Calliope, salpa da Napoli per Tripoli
tra le 5 e le 15, di scorta ad un convoglio composto dai piroscafi Amsterdam, Caffaro e Capo Orso e
dalle motonavi Giulia e Col di Lana.
27 marzo 1941
Il convoglio raggiunge Tripoli alle 14.
30 marzo 1941
La Pegaso (tenente
di vascello Sironi) lascia Tripoli alle 14.30 uNitamente alle torpediniere Cigno, Calliope e Clio (caposcorta, capitano di corvetta
Giliberto), scortando un convoglio di ritorno formato dai piroscafi Aquitania, Galilea (tedesco), Caffaro e Beatrice Costa.
31 marzo 1941
Alle 7 il sommergibile britannico Upright (tenente di vascello Edward Dudley Norman) avvista in
posizione 33°38’ N e 12°40’ E (una sessantina di miglia a nordovest di Tripoli)
il convoglio, su rilevamento 220° e con rotta 350°. In quel momento il
convoglio, in procinto di raggiungere la zona delle secche di Kerkennah,
incontra un convoglio veloce di mercantili tedeschi scortati dai
cacciatorpediniere della XIV Squadriglia Cacciatorpediniere; il comandante di
quest’ultima (capitano di vascello Giovanni Galati, del Vivaldi) nota che, pur essendo ormai giorno fatto, il convoglio
procede ancora in linea di fila (formazione adottata durante la navigazione
notturna) anziché in linea di fronte (formazione usata di giorno, quando
garantisce maggior sicurezza contro gli attacchi subacquei), e che il Galilea è rimasto molto indietro
rispetto alle altre navi.
Anche il comandante dell’Upright
si accorge che il Galilea è più
arretrato degli altri, e che sembra parzialmente carico (a differenza degli altri
tre, che appaiono scarichi): così lo sceglie come bersaglio e, alle 7.39,
gli lancia due siluri da 915 metri. Una delle armi colpisce il Galilea, provocando seri danni, due
vittime e tre feriti; Pegaso e Calliope vengono distaccate per
prestargli assistenza. Il resto della scorta inizia alle 7.51 il contrattacco,
lanciando quattro bombe di profondità, poi seguite da altre due alle 8.06 (che
scoppiano piuttosto vicine al sommergibile, causando alcuni danni leggeri) ed
un’ultima alle 9.21, dopo che l’Upright è
tornato temporaneamente a quota periscopica alle 9.
La Pegaso, intanto, prende a
rimorchio il Galilea e, sotto la
scorta della Calliope, fa rotta per
Tripoli. Più tardi sopraggiunge il rimorchiatore Polifemo, che sostituisce la Pegaso
nel rimorchio; alle 00.30 del 31 il Galilea
viene portato all’incaglio nei pressi di Tripoli, in modo da evitarne
l’affondamento. Non verrà mai riparato.
8 aprile 1941
Pegaso, Orsa ed i cacciatorpediniere Turbine, Saetta (caposcorta) e Scirocco
partono da Tripoli alle 4.30 per scortare a Napoli i piroscafi tedeschi Maritza, Procida, Alicante e Santa Fe.
A mezzogiorno il convoglio è costretto a tornare in porto a causa del
maltempo.
9 aprile 1941
In mattinata le navi lasciano nuovamente Tripoli.
11 aprile 1941
Il convoglio giunge a Napoli alle 10.
(Nuova incongruenza del libro USMM: la Pegaso sarebbe anche partita da Tripoli per Napoli alle 22 del 10,
scortando i piroscafi Tembien e Capo Orso insieme ai cacciatorpediniere Turbine e Saetta, il secondo dei quali caposcorta. Il convoglio giunge a
Napoli alle 14.30 del 13).
4 maggio 1941
Pegaso, Orione e la torpediniera Cassiopea partono da Napoli per Tripoli
all’1.15, insieme ai cacciatorpediniere Ugolino
Vivaldi (caposcorta), Antonio Da Noli
e Lanzerotto Malocello della XIV
Squadriglia Cacciatorpediniere, formando la scorta diretta di un convoglio
(convoglio «Victoria») diretto a Tripoli e scortato dalle motonavi Victoria, Andrea Gritti, Marco
Foscarini, Sebastiano Venier, Barbarigo, Ankara (tedesca) e Calitea.
Dal momento che a Malta sono state avvistate unità leggere della Royal
Navy, il convoglio gode anche della scorta a distanza della VII Divisione
Navale (ammiraglio di divisione Ferdinando Casardi), con gli incrociatori
leggeri Eugenio di Savoia, Muzio Attendolo ed Emanuele Filiberto Duca d’Aosta, ed i cacciatorpediniere Nicoloso Da Recco, Alvise Da Mosto, Antonio
Pigafetta, Giovanni Da Verrazzano
e Nicolò Zeno. Queste navi prendono
posizione in testa al convoglio «Victoria» alle 20.03, a circa tre chilometri
di distanza, con i cacciatorpediniere in posizione di scorta avanzata. La
formazione di marcia notturna disposta da Casardi è così articolata:
cacciatorpediniere in scorta avanzata, seguiti dagli incrociatori in linea di
fila, seguiti dal convoglio disposto su tre colonne, con scorta laterale. Ciò
al fine di consentire alle navi della VII Divisione di reagire prontamente
contro unità di superficie che dovessero attaccare dai settori dove ciò appare
più probabile, senza essere intralciati nelle manovre da convoglio e scorta,
che avrebbe inoltre così modo di allontanarsi senza perdite. La scorta diretta,
secondo la valutazione dell’ammiraglio, dovrebbe bastare a proteggere il
convoglio da attacchi nei settori poppieri, che comunque sono poco probabili,
stante la velocità del convoglio e la posizione delle basi britanniche.
Fino al tramonto, il convoglio fruisce di numerosa scorta aerea con
velivoli sia da caccia che da bombardamento.
5 maggio 1941
La navigazione notturna si svolge senza inconvenienti.
Alle 5.45 la VII Divisione si porta sulla congiungente Malta-convoglio,
sulla quale poi si mantiene zigzagando per tutta la giornata, tenendosi in
vista del convoglio. Alle 6.40 sopraggiungono i primi velivoli della scorta
aerea (idrovolanti della ricognizione marittima e bombardieri).
Alle 14.26 viene avvistato un secondo convoglio, il «Marco Polo», in
navigazione su rotta opposta, e la VII Divisione passa a scortare quest’ultimo,
mentre il «Victoria» dirige su Tripoli.
Dopo un viaggio nel quale il convoglio «Victoria», continuamente
pedinato da ricognitori, ha subito diversi infruttuosi attacchi aerei, le navi
entrano a Tripoli alle 20.45.
12 maggio 1941
Alle 10 la Pegaso (capitano
di corvetta Gian Luigi Sironi), insieme all’Orione
ed alla torpediniera Clio
(caposcorta), salpa da Tripoli scortando i piroscafi Nicolò Odero e Maddalena
Odero, diretti in Italia. Il convoglio (che gode della scorta indiretta
dell’VIII Divisione Navale, con gli incrociatori leggeri Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi e dei cacciatorpediniere Granatiere e Bersagliere),
in base agli ordini ricevuti, deve seguire la costa della Tripolitania fino
all’altezza di Zuara, per poi fare rotta per Trapani.
Alle 18.40, a nord di Tripoli ed al largo di Zuara, uno dei velivoli
della scorta aerea segnala la presenza di un sommergibile sul lato mare; la Pegaso, che in quel momento dista
diverse miglia dal convoglio, lascia la formazione e si dirige sul posto
indicato dall’aereo. La nave attacca il presunto sommergibile con bombe di
profondità, dopo di che vede emergere in superficie vaste chiazze di nafta;
alle 20.28, ritenendo di aver affondato il sommergibile, la Pegaso ritorna in formazione,
comunicando alla Clio quanto
accaduto.
È possibile che il sommergibile attaccato dalla Pegaso fosse il britannico Undaunted
(tenente di vascello James Lees Livesay), alla sua prima missione in
Mediterraneo, scomparso negli stessi giorni e nella stessa zona. A favore
dell’ipotesi di un suo affondamento da parte della Pegaso, vi sono l’avvistamento da parte dell’aereo di scorta,
l’abbondante quantità di nafta vista affiorare in superficie, ed il fatto che
l’attacco della Pegaso avvenne
effettivamente nel settore d’agguato assegnato all’Undaunted; contro quest’ipotesi, invece, vi è il fatto che il 12
maggio l’Undaunted, in base agli
ordini, non si sarebbe dovuto trovare nella zona dove avvenne l’attacco, bensì
già in navigazione di ritorno verso Malta (ma è possibile che il suo comandante
avesse deciso di restare in zona per un altro giorno, o che qualche avaria
avesse impedito al sommergibile di tornare). Rimane anche la possibilità che il
sommergibile sia affondato su un campo minato.
15 maggio 1941
24 maggio 1941
Pegaso, Orsa e Procione salpano da Napoli alle 4.30 (o 4.40) insieme al
cacciatorpediniere Freccia (caposcorta,
capitano di fregata Giorgio Ghè) per scortare a Tripoli un convoglio veloce
formato dai trasporti truppe Conte Rosso, Marco Polo, Esperia e Victoria,
aventi a bordo in tutto 8500 soldati diretti in Libia. Capoconvoglio è il
contrammiraglio Francesco Canzoneri, imbarcato sul Conte Rosso. Il convoglio segue a 17-18 nodi la rotta che passa ad
est di Malta.
Tra le 8 e le 9, come preavvisato da Marina Napoli, Esperia e Conte Rosso vengono sottoposti ad attacchi simulati da parte di
aerosiluranti italiani, per addestrare sia questi ultimi (ad attaccare) che le
navi stesse (a difendersi da simili attacchi).
Alle 15.15 le navi imboccano lo stretto di Messina; da quest’ultima
città escono le torpediniere Calliope, Perseo e Calatafimi, che raggiungono il convoglio al largo della città e
fino alle 19.10 lo accompagnano per rafforzare la vigilanza antisommergibile,
per poi lasciarlo al largo di Riposto, come ordinato, e tornare a Messina. Alle
16 salpa da Messina la III Divisione Navale (ammiraglio di divisione Bruno
Brivonesi), con gli incrociatori pesanti Trieste e Bolzano ed
i cacciatorpediniere Ascari, Lanciere e Corazziere, che fornirà al convoglio
scorta indiretta (procedendo circa 3 km a poppavia dello stesso); aerei da
caccia, bombardieri ed idrovolanti (83° Gruppo della Regia Aeronautica)
costituiscono invece la scorta aerea, presente dalle 13.56 fino al tramonto
(gli ultimi aerei, due idrovolanti CANT Z. 501, se ne vanno alle 20.15 per
tornare alle basi di Augusta e Taranto).
Nel frattempo – subito dopo aver attraversato lo stretto (il che
avviene tra le 15.15 e le 17.30) – il convoglio assume la formazione in colonna
doppia; Esperia e Conte Rosso sono i capi colonna,
rispettivamente a dritta ed a sinistra (l’Esperia
è seguito dalla Victoria, il Conte Rosso dal Marco Polo). L’Orsa
precede il convoglio e lancia bombe di profondità a scopo intimidatorio dopo
aver superato Reggio Calabria; alle 16.34 e 16.53 anche il Freccia lancia due bombe. Poi Pegaso
e Freccia si dispongono in colonna
sul lato sinistro del convoglio (Freccia
più avanti, all’altezza del Conte Rosso;
Pegaso più indietro, a poppavia del Marco Polo), Orsa e Procione sul lato dritto (l’Orsa in posizione più avanzata, all’altezza dell’Esperia, e la Procione più indietro, a poppavia della Victoria). Trieste e Bolzano seguono incolonnati a tre
chilometri, preceduti da Ascari (a
dritta), Lanciere (a sinistra) e Corazziere (al centro) che procedono in
linea di fronte. Il convoglio procede quindi a zig zag su quattro colonne (due
di trasporti e due di siluranti, con due navi in ogni colonna), con rotta 171°
e velocità 18 nodi.
Il mare è calmo, forza 1-2 senza cresta d’onda, non un alito di vento;
il tramonto, particolarmente luminoso, rende le sagome delle navi molto
visibili da ovest.
Alle 20.30 il convoglio viene avvistato nel punto 36°48’ N e 15°42’ E
(una decina di miglia ad est di Siracusa e a 10 miglia per 83° da Capo Murro di
Porco) dal sommergibile britannico Upholder (tenente
di vascello Malcolm David Wanklyn). Wankyn stima che il convoglio abbia una
rotta di 215°, e si avvicina per attaccare. Proprio alle 20.40, le navi
smettono di zigzagare, per fare il punto.
Alle 20.43, prima di scendere a 45 metri e ripiegare verso est, l’Upholder lancia due siluri contro
il Conte Rosso, la nave più
grande del convoglio. Dopo una breve corsa, i siluri mancano il Freccia e colpiscono il bersaglio
prescelto.
Subito dopo il siluramento, il Freccia
lancia un razzo Very verde, segnale convenzionale d’allarme; i tre trasporti
illesi eseguono la prescritta manovra di disimpegno, Esperia e Victoria
accostando di 90° a dritta, Marco Polo
a sinistra. Alle 20.50 Pegaso e Procione ricevono ordine dal Freccia, come stabilito già nell’ordine
di operazioni, di provvedere al salvataggio dei naufraghi; intanto il
caposcorta inizia a lanciare bombe di profondità (effettuerà tre corse,
lanciando in tutto 17 cariche fino alle 21), ordina all’Orsa di proseguire col convoglio (ma questa risponde solo alle
21.15) e poi cerca di contattare i tre piroscafi per radiosegnalatore (ma,
benché si sia stabilito che su ognuno di essi si debba effettuare servizio
continuo di ascolto dalle 21 in poi, e sempre in caso di allarme, nessuno
risponde).
Il Conte Rosso s’inabissa in
poco più di dieci minuti, una decina di miglia ad est di Capo Murro di Porco.
L’Upholder, sceso a 45 metri, viene
bombardato con 37 cariche di profondità dalle 20.47 alle 21.07 da Freccia, Lanciere e Corazziere, ma
non subisce danni.
Lanciere e Corazziere si uniscono a Pegaso e Procione nel salvataggio dei naufraghi (sul posto, per partecipare
ai soccorsi, arrivano in seguito anche le torpediniere Cigno, Pallade e Clio, inviate da Messina, e le navi
ospedale Arno e Sicilia), mentre il convoglio prosegue verso Tripoli (dove arriverà
alle 17.30 dell’indomani).
Il buio della notte rende particolarmente difficile il recupero dei
naufraghi; dei 2729 uomini imbarcati sul Conte
Rosso, 1297 sono affondati con la nave o sono morti in mare dopo
l’affondamento. La Pegaso recupera 445
sopravvissuti e 4 salme; la Procione
trae in salvo circa 270 naufraghi, mentre altri 540 circa sono salvati da Granatiere e Corazziere.
25 maggio 1941
Terminate le operazioni di salvataggio, la Pegaso e le altre unità soccorritrici giungono in mattinata ad
Augusta, dove sbarcano i naufraghi del Conte
Rosso. Nel rapporto sulle operazioni di salvataggio, così si parla
dell’operato delle torpediniere: "Tutti i passeggeri senza distinzione
hanno manifestato la loro profonda riconoscenza per l’opera dei marinai delle
siluranti che procedettero al salvataggio e per le più che fraterne cure
ricevute a bordo. In modo speciale vi è stato un vero entusiasmo generale per
le Torpediniere Procione e Pegaso che col loro spirito di
abnegazione e colla abilità marinaresca dimostrata dall’equipaggio oltre che
dai Comandanti, hanno contribuito nella misura massima possibile al salvataggio".
26 maggio 1941
Pegaso, Pallade, Procione, Castore, Cigno ed i cacciatorpediniere Vivaldi (caposcorta, capitano di
vascello Giovanni Galati), Saetta e Da Noli partono da Napoli alle 2.30
(altra versione indica l’orario di partenza nelle 23 del 25 maggio) per
scortare a Tripoli un convoglio formato dalle motonavi Marco Foscarini, Andrea
Gritti, Sebastiano Venier, Barbarigo, Rialto ed Ankara
(tedesca).
Il convoglio, che ha scorta aerea per alcuni tratti, è scortato a
distanza dalla III Divisione Navale, dallo stretto di Messina in poi; segue le
rotte che passano ad est di Malta.
27 maggio 1941
Verso le 13 (poco dopo che gli aerei dell’Aeronautica di Sicilia della
scorta aerea hanno lasciato il convoglio, mentre i velivoli che avrebbero
dovuto sostituirli, provenienti dalla Libia, non sono potuti decollare a causa
del forte ghibli) vengono avvistati sei aerei a 6-7 km di distanza, i quali
volano a 10-20 metri di quota su rotta opposta al convoglio. Si tratta di
bombardieri britannici Bristol Blenheim decollati da Malta, i quali si portano
al traverso del convoglio e poi accostano per attaccare il gruppo formato da Foscarini, Barbarigo, Venier, Cigno e Da Noli. Le navi aprono subito il fuoco; due degli attaccanti (il
V6460 del sergente E. B. Inman e lo Z6247 del capitano G. M. Fairburn) vengono
abbattuti (secondo fonti italiane, dal fuoco contraereo; per i britannici,
ambedue gli aerei sarebbero stati travolti e distrutti dallo scoppio delle
bombe sganciate dallo stesso Inman su una delle motonavi), ma Foscarini e Venier sono colpite.
La Venier subisce solo danni
lievi, perché l’unica bomba che la colpisce non esplode; ma la Foscarini viene incendiata ed
immobilizzata. L’unico sopravvissuto dei sei uomini componenti gli equipaggi
dei due aerei, il sergente K. P. Collins della 82a Squadriglia della
R.A.F., gravemente ferito, viene recuperato dalla Cigno.
L’attacco dura tre minuti. La Foscarini,
in fiamme assistita dal Da Noli,
dovrà essere rimorchiata fino a Tripoli, dove viene portata a poggiare sul
fondo dell’avamporto il 30 maggio; ma non verrà mai recuperata.
Si tratta del primo attacco aereo verificatosi sulla rotta di levante
per la Libia, nonché del primo bombardamento a bassa quota contro navi nella
guerra del Mediterraneo.
Alle 19.10 sopraggiungono, dopo ripetute richieste del caposcorta,
quattro aerei da caccia ed un aerosilurante Savoia Marchetti S.M.79 per la
scorta aerea.
28 maggio 1941
Il convoglio giunge a Tripoli in mattinata.
Sempre secondo la cronologia dell’U.S.M.M., Pegaso, Procione, Orsa e Freccia lasciano Tripoli per Napoli a
mezzogiorno del 27 scortando Esperia,
Victoria e Marco Polo, che tornano in Italia (evidente discrepanza temporale
con il viaggio precedente). Si segue di nuovo la rotta di levante e per lo
stretto di Messina; la III Divisione fornisce protezione a distanza nel tratto
centrale della traversata, distaccando anche il cacciatorpediniere Lanciere per rafforzare la scorta
diretta.
29 maggio 1941
Il convoglio giunge a Napoli all’1.30.
10 giugno 1941
Pegaso, Procione, Orsa ed il cacciatorpediniere Lanzerotto
Malocello (caposcorta, capitano di fregata Nicolò Del Buono) salpano da
Napoli per Tripoli alle 5.30, scortando un convoglio formato dai piroscafi
italiani Amsterdam, Ernesto e Tembien, dal tedesco Wachtfels
e dalle motonavi italiane Giulia e Col di Lana. Le navi procedono a 10
nodi.
Al largo di Favignana si aggregano al convoglio anche la nave appoggio
sommergibili Antonio Pacinotti e la
torpediniera Clio, uscita da Trapani
alle 14.30.
11 giugno 1941
Alle 18.30, a sud di Pantelleria, due bombardieri britannici Bristol
Blenheim appaiono a poppavia del convoglio, volando a bassissima quota, e si
avventano sul Tembien, secondo
mercantile della colonna di sinistra, mitragliando e sganciando bombe. Prima
dello sgancio, tuttavia, il tiro contraereo di Tembien e Wachtfels colpisce
uno dei due aerei attaccanti: il bombardiere perde quota, urta l’albero
del Tembien e precipita in
mare, incendiandosi. Il secondo bombardiere, eseguito lo sgancio delle bombe,
si allontana inseguito da un Savoia Marchetti S.M. 79 (che, al momento
dell’attacco, era l’unico velivolo dell’Asse in visto del convoglio, 5 km a
proravia) e poi da due caccia della scorta aerea, nonché dal tiro delle mitragliere
della Pegaso (secondo una
fonte, sarebbe stato poi anch’esso abbattuto).
Il Tembien non
viene colpito dalle bombe e non subisce danni di rilievo, ma deve lamentare
parecchi feriti per il mitragliamento.
12 giugno 1941
Il convoglio arriva a Tripoli tra le 19 e le 21.
21 giugno 1941
Alle 15 la Pegaso
(tenente di vascello Sironi) salpa da Tripoli insieme al
cacciatorpediniere Lanzerotto
Malocello (caposcorta, capitano di fregata Del Buono) ed alle
torpediniere Enrico Cosenz, Procione, Orsa e Clio,
scortando un convoglio composto dai piroscafi Wachtfels (tedesco), Amsterdam, Giulia, Ernesto e Tembien,
e dalla motonave Col di Lana.
22 giugno 1941
Alle 12.08 sei bombardieri Bristol Blenheim, che volano a bassissima
quota, vengono avvistati sulla dritta del convoglio (che in quel momento ha una
scorta aerea formata da due caccia biplani FIAT CR. 42 e da un idrovolante
antisommergibili CANT Z. 501). Il caposcorta apre il fuoco con le mitragliere
per dare l’allarme, e poi, quando possibile, anche con i cannoni; il CANT Z.
501 s’interpone tra i bombardieri ed i piroscafi, sparando con le proprie mitragliere
(tornerà poi in posizione di scorta al termine dell’attacco). Anche le altre
navi della scorta ed i mercantili aprono il fuoco; la formazione nemica si
divide in due gruppi di tre bombardieri ciascuno, che attaccano uno la prima
linea di piroscafi e l’altro la seconda. I mercantili accostano in modo da
volgere la poppa agli aerei; due o forse tre dei velivoli vengono abbattuti
(due colpiti dal tiro delle siluranti: uno cade in mare, l’altro s’incendia in
volo e poi precipita; un terzo è forse abbattuto dai FIAT CR. 42 della scorta
aerea) ed altri si allontanano scaricando le bombe in mare, ma due riescono a
portare a termine l’attacco, sganciando le loro bombe su Tembien e Wachtfels.
Entrambi i piroscafi riportano danni gravissimi, imbarcando molta
acqua; solo grazie all’assistenza prestata da Procione ed Orsa, che li
prendono a rimorchio, i due mercantili rimangono a galla.
Proprio mentre le torpediniere stanno prestando assistenza a Tembien e Wachtfels, viene avvistato un sommergibile nemico, probabilmente
intenzionato ad attaccare i due piroscafi immobilizzati e danneggiati: si
tratta del britannico Unique (tenente
di vascello Anthony Foster Collett), che alle 11.25, cinque minuti dopo aver
avvistato fumi ed un aero su rilevamento 140°, ha avvistato le navi del
convoglio, della cui presenza era già stato precedentemente informato. Alle
12.03 il sommergibile osserva il convoglio accostare da 320° a 265°, e quattro
minuti dopo Collett nota che le navi della scorta sembrano avvicinarsi al suo
battello: l’Unique è stato infatti
avvistato da un aereo, e Pegaso, Orsa e Procione provvedono subito a dargli la caccia. Collett abbandona
l’attacco ed ordina subito di scendere in profondità.
La Pegaso, particolarmente
attiva nel contrattacco, inizia a lanciare bombe di profondità alle 12.54;
terminata la prima corsa con lancio di bombe, viene avvistata una bolla d’aria
a circa 1500 metri dalla poppa, dopo di che il sommergibile emerge
parzialmente, mostrando tutto il fianco e la parte superiore della torretta,
sbandato a dritta di circa 70°. Poco dopo il sommergibile torna ad immergersi;
la Pegaso inverte immediatamente la
rotta. Gli equipaggi di Pegaso e Tembien hanno assistito quasi al
completo alla scena, che desta grande entusiasmo; si ritiene che il
sommergibile sia ormai agonizzante, e gli uomini celebrano la vittoria con
applausi ed acclamazioni (il comandante del Tembien grida “Viva l’Italia” tanto forte da essere sentito fin
sulla Pegaso). Alle 12.59 la Pegaso inizia un secondo lancio di
bombe, dopo di che, perlustrando l’area a lento moto, nota grosse chiazze di
nafta sulla superficie del mare.
Nonostante le apparenze (che apparentemente dovevano comprendere una
vera e propria illusione collettiva, non infrequente in tempo di guerra),
tuttavia, il sommergibile attaccante non è stato affondato, e nemmeno
danneggiato. Alle 12.37 l’Unique ha
sentito la prima scarica di bombe di profondità, gettate singolarmente,
esplodere “piuttosto vicine”, seguite da ulteriori e più intensi lanci alle
12.50, 12.55 e 13.14, quando in certi casi vengono lanciate fino a 17 bombe di
profondità tutte insieme. L’ultima bomba ad esplodere “piuttosto vicina” (le
esplosioni più vicine vengono avvertite a 180-270 metri di distanza), la
cinquantaduesima, scoppia alle 13.35, dopo di che le bombe successive (le
ultime delle quali sono gettate alle 13.51) scoppiano a maggiore distanza. In
tutto l’Unique conta l’esplosione di
un’ottantina di bombe di profondità, ma non subisce danni.
Verso le 16 l’Orsa recupera
da un battellino tre aviatori britannici di uno degli aerei abbattuti: il
maggiore John Davidson-Broadley ed i sergenti Stewart Carl Thompson e Leonard
Felton, quest’ultimo ferito gravemente.
Dopo alcune ore di rimorchio, Tembien e Wachtfels riescono a riparare le
avarie ed a contenere le infiltrazioni d’acqua, così riuscendo a rimettere in
moto con le proprie macchine. Stante comunque la gravità dei danni, entrambi i
piroscafi devono raggiungere Pantelleria, scortati da Procione ed Orsa, cui poi
si aggiungono anche i cacciatorpediniere Maestrale e Grecale inviati
in loro soccorso da Palermo.
23 giugno 1941
In rinforzo alla scorta viene inviata la X Squadriglia
Cacciatorpediniere, con Maestrale, Grecale ed Antoniotto Usodimare.
24 giugno 1941
Il convoglio giunge a Napoli alle 3.30.
10 luglio 1941
Pegaso, Orsa e Procione salpano da Napoli alle 21 (o 21.45) di scorta ai piroscafi
Ernesto, Nita, Castelverde, Nirvo ed Aquitania, diretti a Tripoli.
11 luglio 1941
A Palermo, alle 16.30, si uniscono alla scorta del convoglio i
cacciatorpediniere Fuciliere (che
assume il ruolo di caposcorta), Alpino
e Malocello.
14 luglio 1941
Il convoglio giunge a Tripoli alle 6.
Alle 16 (o 17) Pegaso, Orsa, Procione, Alpino, Fuciliere e Malocello (caposcorta) lasciano Tripoli per scortare a Napoli le
motonavi Rialto, Barbarigo, Andrea Gritti,
Sebastiano Venier ed Ankara (tedesca); il convoglio è
denominato «Barbarigo».
Questo convoglio è il primo ad essere oggetto con successo delle
intercettazioni di “ULTRA”, che l’11 luglio 1941, tre giorni prima della
partenza, apprende da messaggi decrittati che un convoglio di sei mercantili di
5000 tsl, scortato da cacciatorpediniere, lascerà Tripoli alle 16 del 14
luglio, procedendo a 14 nodi, passando a est delle Kerkennah alle cinque del
mattino del 15 luglio e poi ad ovest di Pantelleria alle 14 del 15 luglio,
probabilmente diretto a Napoli.
In seguito a quest’informazione, i comandi britannici schierano uno
sbarramento di sommergibili (tra cui l’Union ed
il P 33) attorno a Pantelleria,
dove sanno che il convoglio dovrà passare nel primo pomeriggio del 15.
Vengono anche lanciati diversi attacchi aerei tra il 14 ed il 15
luglio, ma i velivoli – Fairey Swordfish decollati da Malta – non riescono a
localizzare il convoglio da attaccare.
15 luglio 1941
In mattinata il convoglio viene localizzato da un ricognitore
britannico, e nel pomeriggio si verificano gli attacchi dei sommergibili.
Alle 11.20 le navi giungono in vista di Pantelleria, su rilevamento
24°, ed accostano in tale direzione, procedendo a zig zag; oltre ai
cacciatorpediniere ed alle torpediniere, è presente anche una scorta aerea, con
due caccia e due idrovolanti CANT Z. 501. Alle 14.07 il P 33 (tenente di vascello Reginald Denis Whiteway-Wilkinson)
avvista il convoglio nel punto 36°27’ N e 11°54’ E, da una distanza di 10
km, si avvicina ed alle 14.39, da 2300 metri, lancia quattro siluri.
Alle 14.41 il convoglio si trova a 21 miglia per 209° da
Punta Sciaccazza (Pantelleria) quando l’Alpino riferisce
per radiosegnalatore «Scie di siluro a dritta», mentre uno dei velivoli della
scorta aerea (l’idrovolante CANT Z. 501/6 della 144a Squadriglia
della Regia Aeronautica) si getta in picchiata sul punto dove si presume essere
il sommergibile nemico, sganciando due bombe per poi inseguire e mitragliare le
scie dei siluri. L’Alpino ed
il Fuciliere riescono ad
evitarne uno e due siluri, ma la Barbarigo viene
colpita alle 14.43 ed inizia subito ad affondare di poppa.
La Pegaso, per ordine
del Malocello, viene distaccata
per dare assistenza alla motonave danneggiata, che tuttavia affonda ugualmente
alle 15.10 nel punto 36°27’ N e 11°54’ E. La torpediniera ne recupera allora i
naufraghi; alle 15.40 riferisce per radio di aver tratto in salvo tutti i
superstiti della Barbarigo, e che
nessuno di essi è ferito.
Intanto il Fuciliere, avendo
visto le scie dei siluri, contrattacca subito con 28 bombe di profondità,
seguito dall’Alpino che ne lancia
altre due; poi i due cacciatorpediniere riassumono le loro posizioni nel
convoglio, mentre Procione ed Orsa vengono distaccate per proseguire
la caccia al sommergibile, in cooperazione con l’idrovolante CANT Z. 501 numero
2 della 144a Squadriglia.
La caccia prosegue fino alle 16.05, con il lancio in tutto di 116 bombe
di profondità. Solo una scarica di bombe esplode vicina al P 33, limitandosi a mettere fuori uso alcune luci; il sommergibile
riporta però gravi danni proprio durante il tentativo di eludere la caccia,
perdendo il controllo dell’assetto e precipitando accidentalmente dai 21 metri
previsti a ben 94 metri di profondità, dove l’elevata pressione deforma lo
scafo resistente e causa vie d’acqua che costringeranno il P 33 ad interrompere la missione e rientrare a Malta per le
riparazioni.
Alle 15.26 si verifica un nuovo attacco di sommergibili, ma nessuna
nave viene colpita.
Alle 16.15 tutte le siluranti hanno riassunto le posizioni assegnate
per la scorta, e la navigazione prosegue regolarmente.
16 luglio 1941
Il convoglio arriva a Tripoli alle 14.30.
30 luglio 1941
Pegaso, Procione e Malocello (caposcorta) partono da Napoli per Tripoli alle 15,
scortando Gritti, Rialto, Ankara e Pisani. Da
Trapani salpa anche l’Orione, che va
a rinforzare la scorta.
31 luglio 1941
Tra le 19.30 e le 20.45, circa 50 miglia a nordovest di Pantelleria, il
convoglio viene attaccato da bombardieri Bristol Blenheim della Royal Air Force
decollati al tramonto da Luqa (Malta) e guidati dal maggiore George Goode; la
reazione della scorta abbatte uno degli aerei (colpito dal tiro del Malocello e poi inseguito e colpito
ancora da due caccia FIAT CR. 42 della scorta aerea) e li costringe tutti a
sganciare le proprie bombe in mare e ritirarsi.
1° agosto 1941
Raggiunto nell’ultimo tratto dalla torpediniera Partenope, il convoglio arriva a Tripoli alle 13.30.
Pegaso e Procione a Napoli (Naval History and Heritage Command via Giorgio Parodi e www.naviearmatori.net) |
4 agosto 1941
La Pegaso, insieme ai
cacciatorpediniere Freccia
(caposcorta, capitano di fregata Giorgio Ghè), Dardo, Strale, Turbine e Malocello, parte da Tripoli alle 8 (o 9.30) scortando i piroscafi Amsterdam, Bainsizza e Maddalena Odero
e la motonave Col di Lana (convoglio
«Amsterdam», con velocità 10 nodi).
5-6 agosto 1941
Nella notte sul 6 agosto, al largo di Pantelleria, il convoglio viene
attaccato da aerei. Il caposcorta ordina l’emissione di nebbia artificiale, ma
tale provvedimento si rivela inefficace, perché rende più visibile la posizione
del convoglio; risulta inutile accostare verso i bengala, perché gli aerei ne
lanciano su entrambi i lati del convoglio. Ad ogni modo, nessuna nave viene
colpita.
7 agosto 1941
Il convoglio raggiunge Napoli alle 2.30 (o 7.30).
16 agosto 1941
Pegaso, Procione, la vecchia torpediniera Giuseppe Sirtori ed i cacciatorpediniere
Freccia (caposcorta, capitano di
fregata Giorgio Ghè), Euro e Dardo salpano da Napoli per Tripoli alle
00.30, scortando un convoglio composto dai piroscafi Nicolò Odero, Maddalena Odero
e Caffaro, dalla nave cisterna Minatitlan e dalle motonavi Giulia e Marin Sanudo.
Alle 9.13 il sommergibile olandese O 23 (tenente di vascello Gerardus Bernardus Michael Van
Erkel) avvista il convoglio, che procede con rotta 212° a dieci nodi di
velocità, a 10 miglia per 057°, ed alle 10.03, nel punto 39°35’ N e 13°18’ E (a
sudovest di Capri), lancia due siluri da cinque miglia per poi scendere subito
a 40 metri. Nessuna delle armi colpisce, ma dopo undici minuti alcune unità
della scorta si portano al contrattacco e lanciano, fino alle 13.30, un
centinaio di bombe di profondità. L’O 23 evita
danni scendendo a 95 metri; terminata la caccia, alcune unità continuano a
lanciare una carica di profondità ogni venti minuti sino alle 19.30.
17 agosto 1941
Nel tardo pomeriggio il convoglio, mentre procede a 9 nodi a sud di
Pantelleria, viene avvistato da ricognitori nemici.
Alle 20.45 (o 20.47), 17 minuti dopo che la scorta aerea ha lasciato le
navi per rientrare alle basi, il convoglio viene attaccato da aerosiluranti
britannici: due sezioni di due aerei ciascuna, provenienti dai fianchi,
appaiono ai lati del convoglio, defilando lungo i mercantili e sganciando i
loro siluri da poca distanza. Le navi della scorta reagiscono con opportune
manovre, l’apertura del fuoco (sia con le artiglierie che con le mitragliere) e
l’emissione di cortine nebbiogene per coprire i piroscafi.
Tre dei quattro siluri sganciati mancano il bersaglio, grazie anche
all’azione della scorta (e soprattutto all’emissione di cortine fumogene, che
disorientano gli ultimi aerei ad attaccare), ma uno colpisce il Maddalena Odero, immobilizzandolo. Pegaso e Sirtori vanno al suo soccorso, mentre il resto del convoglio
prosegue per Tripoli. La Pegaso
riesce a prenderlo a rimorchio e, nonostante la notevole differenza di massa
tra la piccola torpediniera ed il mercantile, che per giunta è appesantito
dall’acqua imbarcata, riesce a rimorchiarlo fino all’isola di Lampedusa.
18 agosto 1941
Verso le 7.30, mentre la Pegaso
presta assistenza al Maddalena Odero,
portato all’incaglio a Punta Galera (Lampedusa), passano nelle vicinanze la
cisterna militare Velino e la
cannoniera Maggiore Macchi della
Guardia di Finanza, che funge da scorta; la Pegaso
ordina a quest’ultima di porsi a sua disposizione, per cooperare nel tentativo
di condurre il Maddalena Odero in
un luogo più sicuro. La Macchi riesce
infatti a disincagliare il piroscafo ed a portarlo nuovamente ad incagliare,
verso le 11, all’interno dell’insenatura di Cala Croce. Verso mezzogiorno
sopraggiungono i MAS 531 e 544 con a bordo l’ammiraglio Amilcare
Cesarano, comandante della Zona Militare Marittima di Pantelleria, giunto per
dirigere il tentativo di salvataggio del Maddalena
Odero; l’idea è che la Pegaso
disincagli il piroscafo dalla punta di scoglio dove si è incagliato, dopo di
che la Macchi dovrà prendere la cima
di prua del piroscafo e rimorchiarlo all’interno della Cala Croce. Il lavoro è
appena cominciato, quando alle 13.30 sopraggiungono cinque bombardieri
britannici Bristol Blenheim del 105th Squadron della Royal Air
Force, uno dei quali colpisce il Maddalena
Odero con diverse bombe incendiarie a proravia della plancia. Le
fiamme si estendono rapidamente al carico di munizioni del piroscafo, con
conseguenze catastrofiche: equipaggio e militari imbarcati fanno appena in
tempo a mettersi in salvo, dopo di che il Maddalena
Odero viene distrutto da una colossale esplosione, che travolge e affonda
anche la Maggiore Macchi (abbandonata
dall’equipaggio poco prima, su ordine del comandante, nell’impossibilità di
uscire dall’insenatura ed allontanarsi).
22 agosto 1941
Alle 10.30 la Pegaso lascia
Palermo insieme alla Cigno
(caposcorta), per scortare a Tripoli il trasporto militare Lussin, avente a rimorchio la piccola
cisterna Alcione, e la nave
cisterna Alberto Fassio.
Alle 15.45 il convoglio viene avvistato dal sommergibile
britannico Upholder (capitano
di corvetta Malcolm David Wanklyn) un paio di miglia a nordovest di Capo San
Vito Siculo. Alle 16.29 l’Upholder lancia
quattro siluri (da 3660 metri di distanza) contro la nave che procede in
testa al convoglio: alle 16.32 la Lussin è
colpita, ed affonda in due minuti.
La Pegaso, insieme
all’idrovolante CANT Z. 501 della scorta aerea (si tratta del velivolo n. 3
della 144a Squadriglia, che sgancia due bombe antisom sul punto di
origine delle scie dei siluri), passa al contrattacco: dalle 16.35 alle 16.43
lancia ben 48 bombe di profondità, alcune delle quali esplodono abbastanza
vicine all’Upholder (che sta
ripiegando verso nordovest ad elevata velocità), arrecandogli lievi danni;
dalle 16.43 alle 18.13 ne lancia altre tredici, ma stavolta esplodono più
lontane dal sommergibile, che non subisce altri danni. La Cigno, intanto, recupera gli 83 sopravvissuti della Lussin.
23 agosto 1941
Il resto del convoglio raggiunge Tripoli alle 22.
26 agosto 1941
La Pegaso salpa da Trapani
per andare a rinforzare Procione, Orsa, Clio, Euro ed il
cacciatorpediniere Alfredo Oriani
(caposcorta, capitano di fregata Vittorio Chinigò) nella scorta ad un convoglio
in navigazione da Napoli a Tripoli e formato dai piroscafi Ernesto, Aquitania e Bainsizza, dalle motonavi Col di Lana e Riv e dalla nave cisterna Pozarica.
27 agosto 1941
Alle 6.30 il sommergibile britannico Urge (tenente di vascello Edward Philip Tomkinson) avvista il
convoglio italiano, ed alle 6.42, in posizione 38°11’ N e 12°07’ E (una decina
di miglia a nord di Marettimo), lancia quattro siluri contro uno dei
mercantili, da 4115 metri di distanza. Uno dei siluri, quello nel tubo numero
3, rimane però bloccato per metà dentro e per metà fuori dal tubo; l’Urge finisce così con l’affiorare
involontariamente in superficie.
Alle 6.50 (ora italiana), poco dopo che il convoglio ha superato Punta
Mugnone (Trapani), l’Aquitania viene
colpito.
Sull’Urge, intanto,
l’equipaggio ripristina l’assetto, ed a questo punto il siluro esce dal tubo;
l’Urge torna ad immergersi
rapidamente, mentre la Clio (distante
2740 metri), che l’ha visto affiorare, gli si dirige incontro. Anche un
idrovolante CANT Z. 501 della 144a Squadriglia della Regia
Aeronautica, di scorta al convoglio, sgancia una bomba contro l’Urge, precedendo l’arrivo della Clio; quest’ultima giunge sul posto
quando l’attaccante si è ormai immerso, e getta in tutto una dozzina di bombe
di profondità. Anche la Procione
inverte la rotta e partecipa al contrattacco, lanciando sette bombe di
profondità. L’Urge, benché la Clio ritenga di averlo certamente
danneggiato se non affondato, si ritira verso nordovest senza subire danni.
Preso a rimorchio dapprima dall’Orsa
e poi dai rimorchiatori Marsigli e Montecristo (con la scorta della Clio), l’Aquitania potrà essere condotto in salvo a Trapani, dove giungerà
alle 20.45.
Il resto del convoglio prosegue nella navigazione.
29 agosto 1941
Il convoglio giunge a Tripoli alle 7.45.
Alle 18.30 la Pegaso ne
riparte insieme ad Orsa e Calliope ed ai cacciatorpediniere Euro ed Alfredo Oriani (caposcorta) scortando un convoglio formato dalle
motonavi Giulia e Marin Sanudo, dai piroscafi Caffaro e Nicolò Odero, dalla nave cisterna Minatitland e dal dragamine ausiliario DM 6 Eritrea.
31 agosto 1941
Orsa e Marin Sanudo, separatesi dal convoglio,
raggiungono Trapani alle 11.45.
1° settembre 1941
Il resto del convoglio giunge a Napoli alle 12.30.
10 settembre 1941
Alle 10.30 Pegaso, Procione, Orsa, Orione, Fulmine ed Alfredo Oriani (capitano di fregata
Vittorio Chinigò, caposcorta) salpano da Napoli diretti a Tripoli, scortando i
piroscafi Tembien, Caffaro, Nirvo, Bainsizza e Nicolò Odero e la motonave Giulia. Si tratta del convoglio «Tembien»,
che, essendo composto da navi piuttosto lente, riceve l’ordine di seguire la
rotta di ponente (Marettimo-Canale di Sicilia-Secche di Kerkennah).
Nel Canale di Sicilia si aggrega alla scorta anche la torpediniera Circe, proveniente da Trapani.
12 settembre 1941
Alle 3.10 di notte il convoglio, dopo essere stato scoperto da un
ricognitore a sud di Pantelleria, viene attaccato da bombardieri od
aerosiluranti, ma nessuna nave viene colpita, grazie alle manovre evasive,
all’emissione di cortine nebbiogene ed alla reazione dell’armamento contraereo
delle navi. Il mattino seguente, il convoglio procede su rotte varie nella zona
delle Kerkennah, senza alcun allarme.
Alle 14, mentre il convoglio procede sotto scorta di velivoli della
Regia Aeronautica, si verifica un nuovo attacco aereo, da parte di otto
bombardieri (Fairey Swordfish dell’830th Squadron della Fleet
Air Arm, decollati da Malta): i velivoli, provenienti da ovest, si avvicinano a
bassa quota e sganciano le loro bombe. Sia le unità della scorta che i
mercantili aprono il fuoco, puntato e di sbarramento: tre aerei nemici vengono
abbattuti e precipitano in fiamme, ma alle 14.10 il Caffaro viene colpito ed incendiato da una bomba. Circe, Orsa e più tardi anche il Fulmine ricevono ordine di fornirgli assistenza, mentre il
resto del convoglio prosegue. Alle 16.05 il Caffaro esplode ed affonda in posizione 34°14’ N e 11°54’ E (a
nordovest di Tripoli); Circe ed Orsa si ricongiungono al convoglio,
mentre il Fulmine, avendo a
bordo un ferito gravissimo, dirige verso Tripoli.
Alle 23.54 il convoglio raggiunge il punto «C» della rotta di sicurezza
di Tripoli; i piroscafi si dispongono in linea di fila.
13 settembre 1941
All’1.05 vengono avvistati 4-5 aerei che procedono con rotta 240° ed i
fanali di via accesi; il caposcorta dirama l’allarme aereo, ed all’1.20 diversi
razzi illuminanti (diciotto in tutto) si accendono sulla sinistra del
convoglio. Le unità di scorta, in base agli ordini del caposcorta, emettono
fumo; sia queste che i mercantili aprono il fuoco, puntato e di sbarramento.
Alle 2.30 l’attacco si conclude senza danni, e la formazione si
riordina e riprende la navigazione.
Alle 3.45 si sentono rumori di aerei di poppa, ed alle 3.55 viene
avvistato un fuoco galleggiante sulla dritta del convoglio. Di nuovo le unità
di scorta iniziano ad emettere fumo, e tutte le navi aprono il fuoco di
sbarramento: ma alle quattro del mattino, il Nicolò Odero viene colpito. Circe, Orsa e la
torpediniera Perseo (inviata
incontro al convoglio da Zuara e giunta durante l’attacco) vengono inviate ad
assisterlo, mentre il resto del convoglio, riordinatosi in formazione alle
cinque, prosegue.
All’alba partono da Tripoli i rimorchiatori Pronta e Porto Palo,
che tentano vanamente di domare le fiamme sul Nicolò Odero con ogni mezzo disponibile, poi lo prendono
a rimorchio e tentano dapprima di portarlo a Tripoli, indi lo portano ad
incagliare in costa. Sarà tutto vano, perché alle 15 del 14 le fiamme
raggiungeranno una stiva piena di munizioni, ed il Nicolò Odero salterà in aria.
All’alba otto bombardieri Bristol Blenheim del 105th Squadron
RAF, guidati dal maggiore Smithers, attaccano il convoglio in posizione 34°14’
N e 11°52’ E: la scorta aerea, composta da tre caccia Macchi MC. 200 ed altrettanti
FIAT CR. 42 del 230° Gruppo della Regia Aeronautica, interviene ed abbatte tre
dei Blenheim, cioè i velivoli numero Z7357, Z7423 e Z7504. L’attacco fallisce.
Il resto del convoglio giunge a Tripoli alle 12.30 del 13.
Già sette ore dopo Pegaso, Procione, Orsa, Fulmine ed Oriani (ancora caposcorta) ripartono da
Tripoli per scortare a Napoli Rialto,
Pisani e Venier. Il convoglio segue la rotta di ponente; la navigazione si
svolgerà senza che si registrino eventi di rilievo.
15 settembre 1941
Il convoglio arriva a Napoli alle 9.
Settembre 1941
Assume il comando della Pegaso
il capitano di corvetta Francesco Acton.
30 settembre 1941
La Pegaso, insieme alla
torpediniera Calliope, salpa da Napoli
per scortare a Bengasi i piroscafi tedeschi Savona
e Castellon.
2 ottobre 1941
Per proteggere il convoglio in arrivo dagli attacchi nemici, il Comando
Marina di Bengasi ha inviato i cacciasommergibili Zuri e Selve ed il
sommergibile Onice a compiere
perlustrazione antisom, durante la notte tra l’1 ed il 2 ottobre, nelle acque
che le navi dovranno attraversare; due piccoli cacciasommergibili sono inviati
lungo la rotta di sicurezza, la torpediniera Partenope viene mandata incontro al convoglio per pilotaggio e
scorta, ed all’alba due Junkers Ju 88 tedeschi e due idrovolanti CANT Z. 501
della Marina assumono la scorta aerea del convoglio, per difenderlo sia da
aerei che da sommergibili.
Tutto inutile: alle 9.55 il convoglio, emergendo dalla foschia (la
visibilità è mediocre, a causa delle nuvole di sabbia che il vento di ghibli
spinge fino sul mare), viene avvistato da 5500 metri di distanza dal
sommergibile britannico Perseus
(capitano di corvetta Edward Christian Frederick Nicolay), che manovra per
attaccare. Alle 10.05 il Perseus
lancia tre siluri contro il mercantile di testa, da una distanza di 3200 metri,
ed alle 10.07 ne lancia altri due contro il secondo mercantile. Il CANT Z. 501
situato ad ovest del convoglio si accorge subito del lancio del siluro, e lo
segnala alle navi sganciando bombe sulla bolla d’aria fuoriuscita al momento
del lancio, mitragliando le scie dei siluri e lanciando fumogeni colorati. Il Savona, compreso il significato dei
segnali, accosta subito a sinistra con tutta la barra, ma il Castellon accosta troppo tardivamente e
viene colpito, alle 10.12, da uno dei siluri, affondando di prua in pochi
minuti in posizione 32°30’ N e 19°09’ E (una cinquantina di miglia a nordovest
di Bengasi; per altra fonte, ad una decina di miglia da tale porto).
Tra le 10.11 e le 10.34 la scorta contrattacca col lancio di 38 bombe
di profondità, ma nessuna esplode molto vicina al Perseus. Pegaso e Calliope, insieme ai cacciasommergibili,
rimangono poi sul posto per recuperare i naufraghi del Castellon (vengono salvati 108 uomini, 6 italiani e 102 tedeschi,
mentre le vittime sono 8, tutte tedesche), mentre il Savona prosegue per Bengasi con la sorta della Partenope.
La Pegaso riparte da Bengasi
alle 18.10 (o 18.50) per scortare a Brindisi i piroscafi Iseo e Capo Faro.
3 ottobre 1941
Alle 2.10 di nuovo il Perseus (capitano
di corvetta Edward Christian Frederic Nicolay) avvista due torpediniere a 4,5
miglia per 225° (evidentemente uno dei due piroscafi viene scambiato da Nicolay
per una torpediniera), su rotta 330°, e poco dopo anche una nave mercantile a
poppavia di esse: si tratta di Pegaso,
Iseo e Capo Faro.
Avvicinatosi per attaccare (la posizione del convoglio è 32°50’ N e
19°18’ E, una cinquantina di miglia a nordovest di Bengasi), alle 2.39 il Perseus lancia due siluri da 4570
metri, ma senza successo; il Capo Faro avvista
una scia di siluro alle 2.55. Dato che le navi sono dirette in Italia, dunque
scariche, Nicolay decide di non perseverare nell’attacco.
5 ottobre 1941
Il convoglio giunge a Brindisi alle 13.
4 novembre 1941
La Pegaso (tenente di
vascello Francesco Acton) salpa da Brindisi per Bengasi alle otto di sera,
scortando i piroscafi Bosforo
(italiano) e Savona (tedesco),
carichi di 6466 tonnellate di rifornimenti (il convoglio è denominato appunto «Pegaso»).
5 novembre 1941
A causa del mare molto mosso, le navi sono costrette a tornare a
Brindisi alle dieci del mattino.
7 novembre 1941
Il convoglio riparte da Brindisi alle 00.00. Il servizio britannico di
decrittazione dei messaggi in codice italiani, “ULTRA”, intercetta alcune
comunicazioni dalle quali conclude che il convoglio «Pegaso» sarebbe partito da
Brindisi per Bengasi il 3 novembre, con una sosta in porti greci, e che dopo
l’arrivo a Bengasi la Pegaso dovrà
ripartire scortando i piroscafi Capo Arma
e Capo Faro, per arrivare a Brindisi
alle 10 del 12 novembre.
Alle 10.30 (o 10.50) le navi, mentre lasciano l’Adriatico, sono
avvistate da un ricognitore britannico 60 miglia ad ovest-nord-ovest di
Cefalonia, mentre procedono su rotta 165°; da Malta decollano per attaccarlo
undici bombardieri Bristol Blenheim, cinque dei quali del 18th
Squadron e sei del 107th Squadron.
Alle 15 (o 15.15), ad ovest di Cefalonia, i cinque Blenheim del 18th
Squadron attaccano il convoglio, ma senza riuscire ad infliggere alcun danno; i
sei Blenheim del 107th Squadron, invece, non riescono a trovare le
navi italiane.
Sempre nel pomeriggio, due caccia Macchi Mc 200 della 364a
Squadriglia Caccia dell’Aeronautica dell’Albania decollano dalla base di Araxos
(Patrasso) per fornirgli scorta aerea, urgentemente chiesta da Supermarina a
Superaereo. Neanche loro, però, riescono a rintracciare il convoglio, ed alle
17.55, durante il rientro, il Mc 200 del sergente Adriano Caprioli precipita
per cause ignote sull’isola di Zante, con la morte del pilota.
8 novembre 1941
Alle 8.30 la Pegaso avvista
un ricognitore britannico in posizione 35°50’ N e 19°50’ E (110 miglia a
sudovest dell’isola di Sapienza), riferendolo al Comando Aeronautica della
Sicilia, che a sua volta informa Superaereo.
Il Comando della Royal Air Force di Malta fa decollare altri dodici
bombardieri Bristol Blenheim, sei del 18th Squadron ed altrettanti
del 107th Squadron, per attaccare il convoglio «Pegaso»; alle 10 la
stazione di ascolto italiana “Titus” intercetta una comunicazione radio di una
delle due squadriglie di Blenheim, che si trova in quel momento a nord del
convoglio.
Dopo aver superato Capo Spartivento, i Blenheim attaccano il convoglio
«Pegaso» in due ondate, alle 10.15 ed
alle 12.30. I bombardieri attaccano a volo radente; Pegaso e piroscafi reagiscono soprattutto col tiro delle mitragliere
Breda da 20 mm, che abbattono un Blenheim del 18th Squadron
(capitano pilota C. G. Prior) e ne colpiscono altri due del 107th
Squadron, uno dei quali (sergente W. A. Hopkinson) precipita però proprio sulla
coperta del Savona, scatenando un
violento incendio. Il Bosforo riporta
invece solo danni leggeri.
Mentre gli aerei si allontanano, la Pegaso, vedendo che il Savona
è stato abbandonato dall’equipaggio ma si muove ancora (girando col timone alla
banda) con incendio a bordo, si avvicina al piroscafo. Il comandante Acton
chiama con il megafono; notando il comandante tedesco del Savona e l’ufficiale di collegamento italiano, tenente di vascello
Benedetti, Acton chiede loro quale sia la situazione del bastimento, se esso
sia in grado di navigare e se le sue macchine siano danneggiate. Benedetti
risponde che tutti hanno abbandonato la nave eccetto lui, il comandante, il
medico ed un ferito; poco dopo, il Savona
si ferma. La Pegaso recupera
l’equipaggio del Savona dalle
lance e ne rimanda a bordo la parte indispensabile per salvare la nave, che più
tardi viene nuovamente attaccata da aerei: l’attacco scatena un certo panico
sul Savona, dove gli sforzi per
domare le fiamme subiscono un rallentamento, ma il tiro contraereo della Pegaso abbatte uno degli aerei (i corpi
del cui equipaggio vengono poi recuperati dalla torpediniera, ed identificati
come il tenente pilota Hamilton ed il sergente John Gibson), ne danneggia degli
altri e respinge l’attacco.
Alle 10.30, intanto, Superaereo viene informato da Supermarina del
fatto che il convoglio «Pegaso» si trova sotto attacco e necessita di scorta
aerea, in posizione 35°30’ N e 19°30’ E; il Comando dell’Aeronautica della
Sicilia, verso mezzogiorno, fa decollare una pattuglia di tre caccia Mc 200
(gli unici disponibili) per intercettare i bombardieri britannici che rientrano
a Malta dopo l’attacco, ma i caccia non riescono a trovarli.
Alle 15.30, nel punto 38°40’ N e 19°56’ E, il Bosforo, fermo per assistere il Savona, viene colpito, riportando solo lievi danni alle
sovrastrutture, ma due soldati rimangono uccisi.
Circa tre ore e mezza dopo l’inizio degli attacchi aerei, il Savona, domato l’incendio, può
riprendere la navigazione, ma, date le sue condizioni, il comandante Acton
decide di portare il convoglio a Navarino.
10 novembre 1941
Pegaso e Bosforo (il danneggiato Savona viene invece trasferito a
Patrasso per le riparazioni) ripartono alle 18.30 per riprendere il viaggio
verso Bengasi.
12 novembre 1941
Pegaso e Bosforo arrivano a Bengasi alle
8.10 (o 7.30).
22 novembre 1941
La Pegaso (tenente di
vascello Francesco Acton) parte da Brindisi alle 17.30 scortando la nave
cisterna Berbera, diretta a Bengasi
nell’ambito di una complessa operazione di traffico che vede in mare diversi
convogli per la Libia.
24 novembre 1941
Alle 8.30 Pegaso e Berbera vengono avvistate in posizione
37°13’ N e 20°37’ E dal sommergibile britannico Trusty (capitano di corvetta William Donald Aelian King), inviato
ad ovest dell’isola di Stravathi per intercettare il convoglietto. Durante la
fase di preparazione dei tubi per il lancio, il motore di uno dei siluri si
attiva per sbaglio mentre il siluro è ancora nel tubo; i siluristi vengono
colpiti da avvelenamento da monossido di carbonio, e l’attacco dev’essere
abbandonato.
Lo stesso giorno, mentre Pegaso
e Berbera sono in navigazione
verso Bengasi, il sommergibile Luigi
Settembrini rileva agli idrofoni, a 105 miglia per 125° da Malta, la
Forza K britannica – incrociatori leggeri Aurora e Penelope e
cacciatorpediniere Lance e Lively – uscita in mare da Malta
per intercettare convogli italiani. Supermarina, avvisata dal Settembrini,
ordina il dirottamento di tutti i convogli in zona; al convoglio formato
da Pegaso e Berbera viene ordinato di rifugiarsi a Suda e poi a Navarino,
dove giungono nel pomeriggio.
A cadere vittima della Forza K sarà invece il convoglio «Maritza», in
navigazione dal Pireo a Bengasi, con l’affondamento dei piroscafi
tedeschi Maritza e Procida nonostante la difesa
opposta dalle torpediniere di scorta Lupo e Cassiopea.
Frattanto, stante la grave crisi nel traffico verso la Libia, causata
dalle numerose perdite subite in novembre (soprattutto per mano della Forza K),
Supermarina (il Comando superiore della Regia Marina), dietro pressione dei
comandi militari (specie quelli tedeschi), ha messo a punto, in cooperazione
col Comando Supremo, un piano d’emergenza per il trasporto di rifornimenti urgenti
in Libia a mezzo siluranti: esso prevede che torpediniere e cacciatorpediniere
debbano fare la spola tra la Grecia e la Libia, caricando ad Argostoli,
Navarino o Suda la massima quantità possibile di materiali e carburante, da
trasportare poi a Bengasi o Derna. Per dare attuazione a tale piano, è
necessario dislocare nei designati porti ellenici alcune navi cisterna che
fungano da depositi galleggianti di carburante e di acqua per il rifornimento
delle siluranti destinate al traffico con la Libia: per questo motivo è stato
disposto il trasferimento della Berbera
a Navarino, dopo il suo iniziale dirottamento a Suda.
E proprio la Pegaso, subito
dopo l’arrivo a Navarino con la Berbera,
viene scelta per essere una delle prime siluranti a compiere una missione di
trasporto verso la Libia: la torpediniera preleva un’aliquota di gasolio dalla Berbera, riempiendovi alcuni dei suoi
depositi di nafta, dopo di che salpa alla volta di Bengasi. Le condizioni del
mare, tuttavia, la costringono a tornare indietro.
28 novembre 1941
Durante un attaco aereo sulla rada di Navarino, la Berbera viene colpita ed incendiata; portata all’incaglio, si
capovolge ed affonda dopo ventiquattr’ore.
29 novembre 1941
In serata la Pegaso si unisce
alla torpediniera Aretusa (tenente di
vascello Egidio Cioppa) nella scorta alla cisterna militare per acqua Volturno (tenente di vascello Arienti),
in navigazione da Navarino a Suda, dov’è stata inviata per essere impiegata
come unità rifornitrice (d’acqua) alle siluranti impegnate nel traffico tra
Grecia e Libia (in base al programma d’emergenza sopra menzionato). Una volta
arrivata a Suda con la Volturno, la Pegaso dovrebbe proseguire per Bengasi
per trasportarvi il gasolio prelevato giorni prima dalla Berbera, che ha ancora a bordo, ma di nuovo deve rinunciare alla
traversata a causa di probemi agli assi delle eliche. Raggiunta Argostoli,
pertanto, la Pegaso vi travasa tutto
il gasolio che ha a bordo sulla gemella Procione
(capitano di corvetta Villa), che riesce infine a recapitarlo a Bengasi.
13 dicembre 1941
La Pegaso salpa da Taranto
alle 19 insieme ai cacciatorpediniere Freccia ed
Emanuele Pessagno (avente a bordo il
contrammiraglio Amedeo Nomis di Pollone, caposcorta), nell’ambito
dell’operazione di traffico «M. 41». Dopo le gravi perdite subite dai convogli
diretti in Libia nelle settimane precedenti, infatti, le forze italo-tedesche
in Nordafrica si trovano in situazione di grave carenza di rifornimenti proprio
mentre è in corso l’operazione «Crusader», ed urge rifornirle.
Pegaso, Freccia e Pessagno costituiscono la scorta del convoglio «L», formato dalle
moderne motonavi Monginevro, Napoli e Vettor Pisani e diretto a Bengasi.
Con la «M. 41», Supermarina intende inviare a Tripoli e Bengasi tutti i
mercantili già carichi presenti nei porti dell’Italia meridionale, mobilitando
per la loro protezione, diretta e indiretta, pressoché tutta la flotta in condizioni
di efficienza.
Sono previsti tre convogli: l’«A», da Messina a Tripoli, formato dalle
moderne motonavi Fabio Filzi e Carlo Del Greco scortate dai
cacciatorpediniere Nicoloso Da Recco ed Antoniotto Usodimare (poi dirottato su Taranto per unirsi da subito
all’«L» ma distrutto durante tale percorso dal sommergibile britannico Upright); l’«L», da Taranto per Tripoli,
formato da Monginevro, Napoli, Vettor Pisani, Freccia, Pessagno e Pegaso; e l’«N», da Navarino ed Argostoli per Bengasi, costituito
dai piroscafi Iseo e Capo Orso scortati dai
cacciatorpediniere Turbine e Strale, cui si devono aggiungere la
motonave tedesca Ankara, il
cacciatorpediniere Saetta e
la torpediniera Procione provenienti
da Argostoli.
Ogni convoglio deve fruire della protezione di una forza navale di
sostegno, che di giorno si terrà in vista dei trasporti e di notte a in
formazione con essi, incorporato. Il gruppo assegnato al convoglio «L» dalla
corazzata Duilio (nave
ammiraglia dell’ammiraglio di squadra Carlo Bergamini) e da un’eterogenea VIII
Divisione composta per l’occasione dagli incrociatori leggeri Giuseppe Garibaldi (nave di bandiera
dell’ammiraglio Giuseppe Lombardi, comandante della VIII Divisione) e Raimondo Montecuccoli e
dall’incrociatore pesante Gorizia (con
a bordo l’ammiraglio di divisione Angelo Parona), mentre il gruppo assegnato
agli altri convogli è composto dalla corazzata Andrea Doria e dalla VII Divisione (ammiraglio di divisione
Raffaele De Courten) con gli incrociatori leggeri Muzio Attendolo ed Emanuele
Filiberto Duca d’Aosta.
Infine, a tutela dell’intera operazione contro un’eventuale uscita in
mare delle corazzate della Mediterranean Fleet, prende il mare la IX Divisione
Navale (ammiraglio di squadra Angelo Iachino, comandante superiore in mare) con
le moderne corazzate Littorio e Vittorio Veneto, scortate dalla XIII
Squadriglia Cacciatorpediniere (Granatiere, Bersagliere, Fuciliere, Alpino).
Queste navi si dovranno posizionare nel Mediterraneo centrale.
A completamento dello schieramento, un gruppo di sommergibili viene
dislocato nel Mediterraneo centro-orientale con compiti esplorativi ed
offensivi; è inoltre previsto un imponente intervento della Regia Aeronautica
(comprensivo, tra l’altro, di ricognizioni su Alessandria e nel Mediterraneo
orientale e centro-orientale).
Per via della carenza di navi scorta e del tempo necessario a
reperirne, l’operazione, inizialmente prevista per il 12 dicembre, viene
posticipata di un giorno.
Le decrittazioni di “ULTRA” sono stavolta tardive ed erronee: riportano
la partenza del convoglio come prevista per il 14 dicembre, anziché il 13.
Nel tardo pomeriggio del 13, quando i convogli sono già in mare, la
ricognizione aerea comunica a Supermarina che una consistente forza britannica,
comprensiva di corazzate ed incrociatori (in realtà sono solo quattro
incrociatori leggeri: i ricognitori hanno grossolanamente sovrastimato la
composizione e potenza della forza avvistata), si trova tra Tobruk e Marsa
Matruh, diretta verso ovest. La somma delle forze italiane in mare è complessivamente
superiore, ma si trova divisa in gruppi tra loro distanziati e vincolati a
convogli lenti e poco manovrieri; per questo, alle ore 20 Supermarina decide di
sospendere l’operazione, ed i convogli ricevono ordine di rientrare. Ciò non
basterà ad evitare danni: durante la notte, il sommergibile britannico Urge silurerà la Vittorio Veneto, danneggiandola
gravemente. I piroscafi Iseo e Capo Orso entrano in collisione in
fase di rientro, danneggiandosi gravemente.
14 dicembre 1941
La Pegaso e le altre navi
(il Freccia è stato
sostituito dall’Usodimare)
raggiungono Taranto tra pomeriggio e sera.
16 dicembre 1941
Dopo il fallimento della «M. 41», viene rapidamente organizzata al suo
posto l’operazione «M. 42», che prevede l’invio di quattro mercantili (Monginevro, Napoli, Vettor Pisani, Ankara: le motonavi uscite indenni dalla
«M. 41», non essendovene altre pronte) riunite in un unico convoglio per gran
parte della navigazione, ed inoltre l’impiego delle Divisioni di incrociatori
adibite alla scorta secondo la loro struttura organica, a differenza che nella
«M. 41». In tutto le quattro motonavi trasportano 14.770 tonnellate di
materiali e 212 uomini.
La scorta diretta è costituita, oltre che dalla Pegaso, dai cacciatorpediniere Vivaldi (caposcorta, contrammiraglio Nomis di Pollone), Da Noli, Da Recco, Pessagno, Malocello, Zeno e Saetta.
L’ordine d’operazione prevede che le navi procedano in formazione unica, a 13
nodi di velocità, sino al largo di Misurata, per poi scindersi in due convogli:
«N», formato da Ankara, Pegaso e Saetta (caposcorta), per Bengasi; «L», composto da tutte le altre
unità, per Tripoli.
I due convogli partono da Taranto il 16 dicembre, ad un’ora di distanza
l’uno dall’altro: alle 15 l’«N», alle 16 l’«L».
Da Taranto esce un gruppo di sostegno composto dalla corazzata Duilio (nave di bandiera
dell’ammiraglio Carlo Bergamini, comandante del gruppo), dalla VII Divisione
(incrociatori leggeri Emanuele Filiberto
Duca d’Aosta, nave di bandiera dell’ammiraglio De Courten, Raimondo Montecuccoli e Muzio Attendolo) e dai
cacciatorpediniere Ascari, Aviere e Camicia Nera; i suoi ordini sono di tenersi ad immediato contatto
del convoglio fino alle 8 del 18, per poi spostarsi verso est così da poter
intervenire in caso di invio contro il convoglio di forza di superficie da
Malta.
Vi è anche un gruppo di appoggio composto dalle corazzate Giulio Cesare, Andrea Doria e Littorio (nave di bandiera
dell’ammiraglio Angelo Iachino, comandante superiore in mare), dagli
incrociatori pesanti Trento e Gorizia (nave di bandiera
dell’ammiraglio di divisione Angelo Parona, comandante della III Divisione) e
dai cacciatorpediniere Granatiere, Bersagliere, Corazziere, Fuciliere,
Carabiniere, Alpino, Oriani, Gioberti ed Usodimare, nonché ricognizione e scorta
aerea assicurata dalla Regia Aeronautica e dalla Luftwaffe, l’invio dei
sommergibili Topazio, Santarosa, Squalo, Ascianghi, Dagabur e Galatea in agguato nel Mediterraneo centro-orientale, e la
posa di ulteriori campi minati al largo della Tripolitania.
Già prima della partenza, i comandi italiani e l’ammiraglio Iachino
sono stati informati dell’avvistamento alle 14.50, da parte di un ricognitore
tedesco, di una formazione britannica che comprende una corazzata. In realtà,
di corazzate britanniche in mare non ce ne sono: il ricognitore ha scambiato
per corazzata la nave cisterna militare Breconshire, partita da Alessandria per Malta con 5000 tonnellate
di carburante destinato all’isola, con la scorta degli incrociatori
leggeri Naiad, Euryalus e Carlisle e dei cacciatorpediniere Jervis, Havock, Hasty, Nizam, Kimberley, Kingston, Kipling e Decoy, il tutto sotto il comando dell’ammiraglio Philip L. Vian.
Comunque, Supermarina decide di procedere egualmente con l’operazione, sia per
via della disperata necessità di far arrivare rifornimenti in Libia al più
presto, sia perché la formazione italiana è comunque molto più potente di
quella avversaria. Convoglio e gruppo di sostegno procedono dunque lungo la
rotta prestabilita.
Poco prima di mezzanotte, il sommergibile britannico Unbeaten avvista parte delle unità
italiane e ne informa il comando britannico (messaggio che viene peraltro
intercettato e decrittato dalla Littorio);
quest’ultimo ne è in realtà già al corrente grazie alle decrittazioni di
“ULTRA”, che tra il 16 ed il 17 dicembre forniscono a più riprese molte
informazioni su mercantili, scorte dirette ed indirette, porti ed orari di
partenza e di arrivo. Il 16 dicembre “ULTRA” informa che è probabile un nuovo
tentativo di rifornimento della Libia con inizio proprio quel giorno, dopo
quello fallito di tre giorni prima. Il 17 dicembre “ULTRA” aggiunge
informazioni più precise: Monginevro, Pisani e Napoli, scortati da sei cacciatorpediniere tra cui il Vivaldi, dovevano lasciare Taranto a
mezzogiorno del 16 insieme all’Ankara,
scortata invece da due siluranti tra cui il cacciatorpediniere Saetta; arrivo previsto a Bengasi alle 8
del 18 per l’Ankara, a Tripoli alle
17 dello stesso giorno per le altre motonavi; presenza in mare a scopo di
protezione della Duilio, della
VII Divisione (“probabilmente l’Aosta e
l’Attendolo”) e forse anche di altre
forze navali, Littorio compresa.
Il 18 aggiungerà che le motonavi sono partite da Taranto alle 13 del 16 e che
sono scortate da 2 corazzate, 2 incrociatori e 12 cacciatorpediniere, più una
forza di supporto di 3 corazzate, 2 incrociatori e 10 cacciatorpediniere a
nordest.
I comandi britannici, tuttavia, non si trovano in condizione di poter
organizzare un attacco contro il convoglio italiano.
17 dicembre 1941
Alle 16.25 il convoglio viene avvistato da un ricognitore britannico.
Nel tardo pomeriggio del 17 dicembre il gruppo «Littorio» si scontra
con la scorta della Breconshire,
in un breve ed inconclusivo scambio di colpi chiamato prima battaglia della
Sirte. Iniziato alle 17.23, lo scontro si conclude già alle 18.10, senza danni
da ambo le parti; Iachino, ancora all’oscuro dell’invio a Malta della Breconshire e convinto che navi da
battaglia britanniche siano in mare, attacca gli incrociatori di Vian per
tenerli lontani dal suo convoglio (ritiene infatti che gli incrociatori
britannici siano lì per attaccare i mercantili italiani, mentre in realtà non
vi è alcun tentativo del genere da parte britannica) e rompe il contatto al
crepuscolo, per evitare un combattimento notturno, per il quale la flotta
italiana non è preparata.
Alle 17.56, per evitare un pericoloso incontro del convoglio con unità
di superficie britanniche (si crede ancora che in mare ci siano una o più
corazzate britanniche), il convoglio ed il gruppo di sostegno accostano ad un
tempo ed assumono rotta nord (in modo da allontanarsi dalla zona dove si trova
la formazione britannica), sulla quale rimangono fino alle 20 circa; poi, in
base a nuovi ordini impartiti da Iachino (e per non allontanarsi troppo dalla
zona di destinazione), manovrano per conversione di 20° per volta (in modo da
mantenere per quanto possibile la formazione, in una zona ad elevato rischio di
attacchi aerei) ed effettuano un’ampia accostata sino a rimettere la prua su
Misurata. Convoglio e gruppo di sostegno sono “incorporate” in un’unica
complessa formazione (i mercantili su due colonne, con Monginevro in posizione avanzata a
dritta, Pisani in posizione
avanzata a sinistra, seguite rispettivamente da Napoli ed Ankara,
il Vivaldi in testa, Da Noli e Malocello rispettivamente 30° di prora a dritta e sinistra
di Pisani e Monginevro, Zeno e Da Recco
70° di prora a dritta e sinistra di Pisani e Monginevro, Saetta a sinistra della Pisani e Pessagno a
dritta della Napoli; seguite dal gruppo di sostegno su due colonne,
con Duca d’Aosta seguito
da Attendolo e Camicia Nera a sinistra, Duilio seguita da Montecuccoli ed Aviere a dritta, più Pigafetta a sinistra di Duca d’Aosta ed Attendolo e Carabiniere a dritta di Duilio e Montecuccoli), il che fa sì che occorra più del previsto perché la
formazione venga riordinata sulla rotta 210°: ciò accade alle 22 del 17.
Durante la notte il convoglio, che avanza a 13 nodi, viene avvistato da
ricognitori nemici, ma non subisce attacchi.
18 dicembre 1941
Poco prima dell’alba del 18, i cacciatorpediniere Granatiere e Corazziere entrano in collisione,
distruggendosi a vicenda la prua; gli incrociatori della VII Divisione prestano
loro soccorso. Alle 13 la Duilio si
riunisce al gruppo «Littorio», lasciando la VII Divisione a protezione
immediata dei mercantili.
Frattanto, alle 12.30 (in posizione 33°18’ N e 15°33’ E), l’ammiraglio
Bergamini ordina a Pegaso, Saetta ed Ankara di dirigere per Bengasi; il convoglio «N» si separa dunque
dalle altre navi, mentre il convoglio «L» prosegue per Tripoli con la scorta e
diretta e, fino al tramonto, anche quella della VII Divisione.
19 dicembre 1941
Alle 9.30 Pegaso, Ankara e Saetta entrano a Bengasi. Anche il convoglio di Tripoli giunge a
destinazione. L’operazione «M. 42» si conclude finalmente in un successo, con
l’arrivo a destinazione di tutti i rifornimenti inviati.
Alle 18 Pegaso e Saetta ripartono da Bengasi trasportando
300 prigionieri di guerra (e relativa scorta), evacuati dalla città libica, che
ormai sta per cadere in mano alle forze britanniche in avanzata durante
l’operazione «Crusader».
20 dicembre 1941
Pegaso e Saetta raggiungono Suda alle 14.
23 dicembre 1941
La Pegaso, insieme alle
torpediniere Lupo e Sirio, al cacciatorpediniere Turbine, all’incrociatore ausiliario Brioni ed al cacciasommergibili tedesco Drache, scorta da Suda al Pireo un
convoglio formato dalla Volturno,
dalle motonavi italiane Città di
Agrigento, Città di Alessandria e
Città di Savona e dai piroscafi tedeschi Salzburg
e Santa Fe, carichi di truppe e
materiali.
La Pegaso al Pireo il 24 dicembre 1941
(foto Aldo Fraccaroli, via Coll. Domenico Jacono e www.associazione-venus.it)
30 dicembre 1941
La Pegaso, insieme alla
motovedetta Spanedda della Guardia di
Finanza, salpa da Patrasso per scortare a Brindisi i piroscafi Iseo e Capo Orso, che trasportano materiali e personale militare
rimpatriante.
Alle 16.45 il sommergibile britannico Thorn silura la nave cisterna romena Campina, facente parte di un altro convoglio in navigazione nei
pressi (un po’ più a nord), anch’esso proveniente da Patrasso ma diretto a
Taranto. Sentite le esplosioni dei due siluri che hanno colpito la Campina, la Pegaso si separa dal proprio convoglio, porta la velocità al
massimo e si precipita sul luogo dell’attacco, per poi iniziare a lanciare
bombe di profondità a poppavia e sulla dritta della Campina. Sono in tutto quattro le navi che danno la caccia al
sommergibile attaccante, ispezionando e bombardando il mare tutt’attorno alla
petroliera silurata: la Pegaso,
l’incrociatore ausiliario Egitto (che
scortava la Campina) e due
cacciasommergibili tedeschi. Dalle 16.46 in poi, le quattro unità lanciano in
tutto 61 bombe di profondità, nessuna delle quali, tuttavia, esplode nelle
vicinanze del Thorn.
La Campina, in lento
affondamento, mette a mare una scialuppa nella quale si pone in salvo
l’equipaggio (vi è un’unica vittima), dopo di che affonda alle 17.15 in
posizione 38°35’ N e 20°27’ E (al largo di Capo Dukato, nell’Isola di Santa
Maura).
Terminato il proprio compito, la Pegaso
ritorna a scortare il proprio convoglio.
La Pegaso nel marzo 1942 (da www.difesa.it) |
13 aprile 1942
La Pegaso (capitano di
corvetta Francesco Acton), da poco dotata di ecogoniometro (la fase di
addestramento al suo utilizzo si è appena conclusa), salpa da Napoli alle 7.30 per
scortare a Tripoli, insieme ai cacciatorpediniere Antonio Pigafetta (caposcorta) e Nicolò Zeno, le motonavi Vettor Pisani (italiana) e Reichenfels (tedesca) nell’ambito dell’operazione
di traffico «Aprilia».
Ad est della Sicilia il convoglio che comprende la Pegaso si congiunge con altri due, provenienti da Taranto
(motonave Ravello,
cacciatorpediniere Freccia e Turbine) e da Brindisi (motonave Reginaldo Giuliani, cacciatorpediniere Mitragliere, torpediniera Aretusa, quest’ultima rientrata in porto
il 14 mattina), formando un unico convoglio diretto a Tripoli (caposcorta è
il Pigafetta).
14 aprile 1942
Il 14 aprile “ULTRA” intercetta dei messaggi relativi al convoglio; due
idroricognitori Martin Maryland del 203rd Squadron vengono
inviati da Bu Amud, in Cirenaica, alla ricerca del convoglio, e lo trovano.
Alle 7.30 anche un Beaufort del 22nd Squadron (sergente S. E.
Howroyd), dotato di radar ASV (Air to Surface Vessel), viene inviato a
rintracciarlo.
A mezzogiorno decollano da Bu Amud otto aerosiluranti britannici
Bristol Beaufort (in realtà nove, ma uno, del 39th Squadron,
deve rientrare poco dopo), due del 22nd Squadron e sei del 39th
Squadron (201st Group), guidati dal capitano John M. Lander e
scortati da quattro caccia Bristol Beaufighter del 272nd Squadron
(maggiore W. Riley, sottotenente Stephenson, tenente Derek Hammond, sergente J.
S. France; gli aerei, non avendo abbastanza autonomia per tornare in Cirenaica
dopo l’attacco, dovranno poi raggiungere Malta). Nel pomeriggio, un Martin
Maryland che sta tallonando il convoglio (tenente James Bruce Halbert) viene
abbattuto da un velivolo tedesco della scorta; anche il Beaufort con radar ASV,
dopo aver localizzato il convoglio e comunicato la sua posizione, viene
danneggiato da dei Messerschmitt Bf 109 tedeschi mentre cerca di atterrare a
Malta, e si schianta al suolo. Il suo messaggio non viene però ricevuto dagli
aerei inviati ad attaccare il convoglio, che anzi superano la rotta da esso percorsa
senza notare nulla.
Giunti gli aerei in un punto 70 miglia a sudest di Malta, il capitano
Lander si rende conto che devono aver già oltrepassato il convoglio ed ordina
quindi di virare verso sudovest, ponendosi alla ricerca del convoglio. Dopo
venti minuti i Beaufighter dopo avvistano un gruppo di Me 110 e Ju 88 tedeschi
della scorta aerea, che ingaggiano, abbattendo un cacciabombardiere Dornier Do 17 e danneggiano un caccia Messerschmitt Bf 110 ed un bombardiere Junkers Ju
88. Dopo questo primo scontro tra aerei, a qualche miglio di distanza dalle
navi, i caccia britannici avvistano anche il convoglio. Si verifica qui, però,
un errore che salverà le navi dell’Asse: i Beaufighter della scorta, ritenendo
che anche i Beaufort debbano aver avvistato il convoglio, si allontanano in
direzione di Malta, come previsto dai loro piani (i Beaufighter, infatti,
avendo minore autonomia dei Beaufort, avevano il solo compito di accompagnare i
Beaufort sull’obiettivo e localizzare il convoglio, per permettere agli
aerosiluranti di attaccare, dopo di che avrebbero dovuto subito fare rotta per
Malta, per non esaurire il carburante; che peraltro è già notevolmente
diminuito a causa dello scontro con gli aerei tedeschi), senza avvisare gli
aerosiluranti della presenza delle navi dell’Asse. In realtà i Beaufort, che
volano a meno di quindici metri (per eludere i radar), più bassi dei
Beaufighter (questi ultimi, essendo più veloci, dovevano procedere a zig zag
sulla loro verticale, per non lasciare indietro i Beaufort: anche questo ha
aumentato i loro consumi), avvistano le navi solo mezz’ora più tardi, alle
15.47, e passano all’attacco prendendo di mira la Giuliani ed il Reichenfels,
che sono le navi più grosse del convoglio: ma con loro sorpresa vedono pararsi
dinanzi a sé ben 15-20 (per altra fonte, oltre 25) caccia Messerschmitt Bf 109
(appartenenti al JG. 53), sei Bf 110 e parecchi Ju 88 della Luftwaffe.
Gli aerosiluranti britannici, privi ora di scorta, tentano egualmente
di allinearsi per lanciare contro Giuliani e Reichenfels, ma vengono attaccati dagli
aerei tedeschi e presi sotto il tiro delle armi contraeree delle navi di
scorta. Solo cinque degli otto aerei riescono a lanciare i propri siluri, nessuno dei quali va a segno,
mentre gli altri tre devono gettare in mare il proprio carico per alleggerirsi
quando vengono attaccati dalla scorta aerea. Uno dei Beaufort (sottotenente
Bertram W. Way) attacca un CANT Z. 506 italiano della 170a Squadriglia
Ricognizione Marittima ma viene abbattuto da un Bf 109 (sergente Ludwig
Reibel), mentre gli altri, danneggiati, inseguiti dagli aerei tedeschi e con il
carburante in esaurimento, tentano disperatamente di raggiungere Malta: ma
proprio quando sono giunti in vista dell’isola, vengono abbattuti o precipitano
uno dopo l’altro. Un primo Beaufort (capitano Robert W. G. Beveridge) cade in
mare alle 16.45, un altro (tenente Robert B. Seddon) precipita subito dopo a
causa dei danni subiti, un terzo (tenente Derek A. R. Bee) viene abbattuto da
un Messerschmitt quando ormai sta per atterrare, un quarto (sottotenente
Belfield) viene abbattuto anch’esso da un Bf 109. Alla fine, solo tre degli
otto Beaufort che avevano attaccato il convoglio riescono ad atterrare: due
(tenente S. W. Gooch e capitano Lander) con danni gravissimi (tanto che uno –
quello del capitano Lander – deve compiere un atterraggio d’emergenza e non
potrà più essere riparato), uno (capitano A. T. Leaning) del tutto indenne. 15
avieri britannici, su 20 componenti gli equipaggi dei cinque Beaufort distrutti,
sono morti. L’unico squadrone di Beaufort britannici in Egitto è stato
annientato, e ci vorranno due mesi prima che ne venga ricostituito un altro.
Tre sommergibili britannici, il Thrasher, l’Urge e
l’Upholder, hanno anch’essi ricevuto
l’ordine di attaccare il convoglio, formando uno sbarramento lungo 50 miglia
tra Lampedusa ed il Golfo della Sirte.
Alle 15.33 del 14, proprio mentre è in corso l’attacco dei Beaufort,
due Ju 88 della scorta ravvicinata, dopo aver danneggiato un Beaufort,
mitragliano un sommergibile avvistato in superficie nel punto 36°10’ N e 15°15’
E, ritenendo di aver ottenuto esito positivo. In realtà, nessun sommergibile
britannico risulta essersi trovato in posizione compatibile; è probabile un
abbaglio dei piloti, cosa assai comune.
Poco dopo, alle 16.15, la Pegaso riceve
da un idrovolante CANT Z. 506 della scorta aerea (il MM 45389, n. 2 della 170a Squadriglia
dell’83° Gruppo della Ricognizione Marittima, pilotato dal sottotenente pilota
Pier Luigi Colli e con a bordo il tenente di vascello Mauro Tavoni quale
osservatore) la segnalazione della presenza di un sommergibile (precisamente di
una «scia ritenuta di sommergibile») in posizione 34°47’ N e 15°55’ E (a 90
miglia per 130° da Malta, e 200 miglia a nordest di Tripoli). Il CANT Z. 506
lancia un fumogeno bianco per segnalare il sommergibile, sulla sinistra del
convoglio; la Pegaso lo
riferisce al Pigafetta (caposcorta),
il quale lancia all’aria il segnale «un sommergibile in 34°50’ – 15°50’» ed
ordina alle navi di accostare subito a dritta, mediante segnale di bandiera,
razzi a luce verde (due) e segnalazioni col radiotelefono.
La Pegaso lascia la
sua posizione di scorta in testa al convoglio, si porta a tutta forza nel punto
indicato dall’idrovolante, ottiene un contatto all’ecogoniometro e lancia un
pacchetto di bombe di profondità, poi perde il contatto (alle 16.30). Non
vengono avvistati rottami. Conclusa la brevissima azione antisom, senza che si
siano manifestati segnali di un avvenuto affondamento del sommergibile, la
torpediniera segnala al Pigafetta il
risultato dell’attacco e poi ritorna al convoglio, riassumendo la sua posizione
di scorta in testa ad esso. Nel suo rapporto il comandante Acton descriverà
l’azione in poche sintetiche parole: "16,15 – In seguito a fumata bianca
idro di scorta e rilevamento et distanza ecogoniometro eseguo i prescritti
segnali di allarme sommergibile e inizio attacco con lancio di un pacchetto di
bombe. 16,30 – Non avendo più eco all’ecogoniometro cesso l’attacco e raggiungo
il convoglio riassumendo la scorta prodiera".
Tuttavia, nel frattempo (subito dopo aver lanciato il fumogeno) il
pilota dell’idrovolante si è accorto che la scia da lui avvistata, e ritenuta
quella di un periscopio, è in realtà lasciata da un delfino; osservando
l’attacco dall’alto, senza aver modo di avvertire la Pegaso dell’errore (avrebbe potuto farlo solo usando la radio, ma
ciò non è consentito), il sottotenente Colli ha visto che esso si è svolto
contro un branco di delfini, e non un sommergibile, cosa che provvederà a riferire
al suo rientro alla base di Taranto, alle 19.30 di quel giorno. Anche Marina
Messina, in una telefonata a Supermarina effettuata alle 19.45 del 12 aprile,
riferirà: "1615 – Il nostro aereo ha avvistato scia ritenuta di
sommergibile. Lanciato fumata bianca – effettivo riconoscimento per scia di
delfini. 1630 – Un C.T. [in realtà, la Pegaso] di scorta ha segnalato “sommergibile nemico” con
artifizi e sparando con Mitragliere e
con cannoni. Aereo ritiene si trattasse ancora di scie di delfini".
Per lungo tempo l’attacco della Pegaso
è stato ritenuto la causa dell’affondamento del sommergibile britannico Upholder (capitano di corvetta
Malcolm David Wanklyn), il più famoso e temuto sommergibile della Royal Navy
scomparso proprio in questi giorni al largo della Libia; ma i documenti
relativi all’equivoco avente per vittime i delfini, scoperti alcuni anni fa
dallo storico Francesco Mattesini, inducono a ritenere che non sia andata così.
Il sommergibile, d’altro canto, non sarebbe nemmeno dovuto essere nella
zona in cui si svolse l’attacco: in base agli ordini ricevuti, avrebbe dovuto
trovarsi molto più a sudovest (la posizione d’agguato ad esso assegnata era
33°25’ N e 13°40’ E), a circa cento miglia di distanza. Secondo diversi autori,
britannici ed italiani, che hanno trattato nel dopoguerra la scomparsa dell’Upholder, Wanklyn potrebbe aver scelto
una posizione differente per permettere una più diretta intercettazione del
convoglio, o semplicemente per portarsi in una zona che garantisse maggiori
probabilità di trovare naviglio nemico. Francesco Mattesini, tuttavia, è di
opinione diversa: la posizione assegnata all’Upholder nello sbarramento formato con Urge e Thrasher era quella centrale, di importanza cruciale, e
sembra improbabile che Wanklyn potesse disattendere gli ordini di collaborare
con gli altri sommergibili per garantire il successo dell’intercettazione.
Sempre dai documenti consultati da Mattesini, inoltre, risulta che
l’esito dell’azione antisom della Pegaso
fosse stato valutato da Supermarina come "poco consistente", vale a
dire molto dubbio, e lo stesso comandante Acton non aveva rivendicato
l’affondamento di un sommergibile. Dopo il lancio di un unico pacchetto di
bombe da parte della torpediniera (quindi, in un’azione brevissima), il
contatto era stato perso, ma non erano emersi rottami né tracce di nafta ad
indicare l’affondamento o danneggiamento di un’unità subacquea.
Sulla fine dell’Upholder
esistono altre tre ipotesi: una è che sia affondato contro mine dello
sbarramento italiano «T» nelle acque antistanti Tripoli; un’altra è che sia
rimasto vittima delle operazioni di ricerca e caccia antisom svolte tra Tripoli
e Misurata, nei giorni 13 e 14 aprile, dalla torpediniera italiana Montanari e dai dragamine tedeschi R 9, R
12 e R 15 (nessuno dei quali,
tuttavia, ritenne di aver affondato o danneggiato alcunché).
L’ultima ipotesi, infine, è che l’Upholder
sia stato affondato il 14 aprile, tre ore prima dell’azione antisom della Pegaso, da due caccia Messerschmitt Bf
109 della 8a Squadriglia e due bombardieri Dornier Do 17 (uno
dei quali poi abbattuto dai Beaufighter) della 10a Squadriglia
del III./ZG. 26 della Luftwaffe, decollati dalla base libica di Castel Benito e
diretti incontro al convoglio per unirsi alla scorta aerea. Alle 13.10 di quel
giorno, i quattro aerei avevano individuato una scia, ritenuta di idrofono di
sommergibile immerso, in avvicinamento al convoglio, ed avevano dapprima
lanciato un fumogeno segnalatore e poi sganciato bombe su quel punto, venendo
subito dopo emergere una macchia scura, ritenuta nafta.
Delle diverse ipotesi sulla perdita dell’Upholder, l’affondamento per mano della Pegaso rimane ad oggi quella più diffusa, anche da parte britannica
(compresa la Sezione Storica dell’Ammiragliato); ma in realtà risulta
impossibile stabilire con certezza quale sia stata la vera causa
dell’affondamento dell’Upholder.
15 aprile 1942
Le navi del convoglio giungono a destinazione senza alcun danno, tra le
9.30 e le 10.
17 aprile 1942
La Pegaso salpa da
Tripoli alle 15, insieme ai cacciatorpediniere Freccia (caposcorta) e Mitragliere,
per scortare in Italia le motonavi Lerici
e Monviso.
Il convoglio viene dirottato verso la Grecia a seguito
dell’affondamento, sulla stessa rotta, del piroscafo tedesco Bellona da parte di un sommergibile
britannico (il Torbay); poi
viene diviso in base alla destinazione: Monviso e Mitragliere verso
Brindisi (dove giungono alle 13.30 del 19), Lerici e Freccia verso
Taranto (dove arrivano alle 14.15 del 19).
21 aprile 1942
Alle due di notte la Pegaso
lascia Tripoli per andare a rinforzare la torpediniera Perseo nella scorta ad un convoglietto (piroscafo Tripolino, nave cisterna Ennio, motoveliero Egusa) in navigazione da Trapani a Tripoli. La Pegaso raggiunge il convoglio mentre esso sosta a Lampedusa.
23 aprile 1942
Il convoglio, cui si è aggregata la Pegaso,
lascia Lampedusa alle 10 per raggiungere Tripoli.
24 aprile 1942
Le navi raggiungono Tripoli alle 9.40.
29 aprile 1942
Secondo alcune fonti, in questo periodo la Pegaso potrebbe aver affondato il sommergibile britannico Urge nel Mediterraneo orientale. Una
mina, od un attacco di caccia FIAT CR. 42 al largo di Ras el Hilal, sono
tuttavia ritenute cause molto più verosimili.
La Pegaso con colorazione mimetica (da www.difesa.it) |
6 maggio 1942
La Pegaso salpa da Taranto
per andare a rinforzare la scorta (cacciatorpediniere Ugolino Vivaldi – caposcorta, capitano di vascello Ignazio
Castrogiovanni – e Turbine,
torpediniere Circe ed Enrico Cosenz) di un convoglio in
navigazione alla volta di Bengasi, e composto dai piroscafi Trapani (tedesco), Capo Arma ed Anna Maria Gualdi (italiani).
La Pegaso raggiunge il
convoglio alle 22.
7 maggio 1942
Alle 5.35 la Cosenz lascia
la scorta del convoglio, e la Circe fa
lo stesso alle 16.45.
Alle 16.32 il sommergibile britannico Thorn (capitano di corvetta Robert Galliano Norfolk) avvista
in posizione 34°34’ N e 17°59’ E del fumo, su rilevamento 335°. Il sommergibile
– indirizzato verso il convoglio sulla base di decrittazioni di “ULTRA” –
accosta nella direzione in cui si trova il fumo, ed alle 17.02 avvista gli
alberi ed i fumaioli dei tre piroscafi del convoglio, distanti 9150 metri, con
rotta 170°. Norfolk avvista anche cinque aerei di scorta, ed alle 17.15 anche
due dei cacciatorpediniere della scorta.
Alle 17.22 (fonti italiane indicano l’orario dell’attacco nelle 17.30),
in posizione 34°34’ N e 17°56’ E (180 miglia a nordovest di Bengasi), il Thorn lancia quattro siluri contro
il mercantile di testa, da una distanza di 2750 metri: tutte le navi evitano i
siluri con rapide manovre, poi Vivaldi e Pegaso contrattaccano, lanciando 35 bombe
di profondità nell’arco di un’ora. La Pegaso
è particolarmente attiva nel contrattacco, e ritiene di aver danneggiato il
sommergibile; in realtà, sebbene due pacchetti di bombe di profondità (composti
da cinque bombe ciascuno, i primi lanciati durante l’attacco) siano esplosi
piuttosto vicini al Thorn, il
sommergibile non ha subito danni.
8 maggio 1942
Tra le 2 e le 5.30 il convoglio subisce ripetuti attacchi aerei;
nessuna nave subisce danni, mentre uno dei velivoli avversari viene abbattuto.
Il convoglio arriva a Bengasi alle 17.
Da Alessandria d’Egitto, a seguito dell’avvistamento del convoglio,
salpano il 10 maggio (quando le navi sono già giunte a destinazione) i
cacciatorpediniere britannici Jervis, Kipling, Lively e Jackal,
con l’incarico di intercettarlo e distruggerlo al largo di Bengasi: non solo
non riusciranno a trovarlo (visto che è già in porto), ma saranno avvistati ed
attaccati dall’aviazione tedesca di base a Creta. Dei quattro
cacciatorpediniere, soltanto il Jervis riuscirà
a tornare alla base.
La Pegaso riparte da Bengasi
già alle 19.45 per scortare a Taranto, insieme al cacciatorpediniere Ugolino Vivaldi (caposcorta), la
motonave Monviso.
9 maggio 1942
Alle 21, al largo della Cirenaica, il convoglio di cui fa parte
la Pegaso si unisce ad un
altro formato dalla motonave tedesca Ankara e
dal cacciatorpediniere Turbine.
A mezzanotte, il Vivaldi lascia
la scorta diretto a Messina.
10 maggio 1942
All’alba, Monviso ed Ankara si separano di nuovo,
dirette l’una a Taranto e l’altra a Brindisi. Pegaso e Turbine
rimangono entrambi con l’Ankara, che
giunge a Brindisi a mezzogiorno.
14 maggio 1942
La Pegaso lascia Brindisi per
Bengasi alle 22.30, scortando il piroscafo Petrarca.
15 maggio 1942
Alle 00.30 le due navi vengono avvistate da un ricognitore illuminante,
che prende a seguirle; si verificano alcuni attacchi aerei, ma nessuna unità
viene colpita.
17 maggio 1942
Pegaso e Petrarca entrano a Bengasi alle 17.30.
Alle 20.05 (19.30 per altra fonte) la Pegaso (tenente di vascello Francesco Acton) riparte da Bengasi per
scortare a Taranto i piroscafi Iseo e
Bolsena.
Dopo lo sbarco del pilota, il convoglio si dispone in linea di fila,
con la Pegaso in testa, l’Iseo al centro ed il Bolsena in coda, procedendo a 7-8
nodi.
Del passaggio del convoglio, tuttavia, è già stato informato il
sommergibile britannico Turbulent,
al comando del capitano di fregata John Wallace Linton: il “merito”
dell’agguato è dell’organizzazione britannica «ULTRA», che il 17 maggio, sulla
base di quanto ricavato da messaggi italiani intercettati e decifrati, ha
comunicato che Iseo e Bolsena devono lasciare Bengasi
alle 19.30 di questo stesso giorno, scortati dalla Pegaso, diretti l’uno a Brindisi e l’altro a Taranto. ULTRA indica
anche la velocità prevista: dieci nodi.
Il Turbulent si
porta quindi in posizione idonea all’attacco, giungendovi alle 23.20 del 17
maggio, e nove minuti dopo, nel punto 32°02’ N e 19°30’ E, avvista le tre navi
italiane in avvicinamento (con rotta 260°, poi cambiata in 335° da
un’accostata, e velocità 10 nodi), che identifica come due mercantili di 4000
tsl ed un cacciatorpediniere di scorta, iniziando l’attacco.
18 maggio 1942
All’1.40 del 18 (ora di bordo del Turbulent, 00.40 per l’orario italiano), dopo aver lungamente
manovrato per portarsi in una posizione favorevole all’attacco, il sommergibile
accosta per lanciare contro il piroscafo di coda, il Bolsena, ma Winton rileva che la distanza è maggiore di quanto in
precedenza abbia stimato, perciò assume rotta parallela al convoglio e si
rimette all’inseguimento. Alle due di notte (l’una per l’orario italiano) il
battello britannico accosta di nuovo per lanciare contro il Bolsena, ed alle 2.10 (1.10 ora
italiana), nel punto 32°16’ N e 19°16’ E, lancia tre siluri da 1830 metri.
All’1.12 (ora italiana) del 18 maggio la Pegaso avverte due forti esplosioni verso poppavia, sulla sinistra,
dove si trova il Bolsena; poco dopo,
la sagoma del piroscafo viene vista sparire in una manciata di secondi, per
lasciare il posto solo a pochi segnali luminosi dei mezzi di salvataggio. Il
piroscafo, colpito da due siluri, è affondato in appena mezzo minuto nel punto
32°26’ N e 19°16’ E (circa 45 miglia a nordovest di Bengasi), portando con sé
48 degli 86 uomini a bordo.
La Pegaso raggiunge il
probabile punto del lancio dei siluri ed inizia a lanciare bombe di profondità
a scopo intimidatorio, ma non riesce a localizzare il sommergibile attaccante
con l’ecogoniometro; pertanto, il comandante Acton fa lanciare il segnale di
scoperta e comunica per radiosegnalatore a Bengasi, distante circa 50 miglia,
la notizia dell’affondamento del Bolsena,
precisando le coordinare e chiedendo l’invio di mezzi per recuperare i
naufraghi. Avendo ancora l’Iseo da
scortare, infatti, Acton ritiene indispensabile per la sua sicurezza di non
lasciare solo il piroscafo superstite, ergo interrompe la caccia antisom ed
all’1.50 riprende la navigazione, scortando l’Iseo, senza fermarsi a raccogliere i sopravvissuti del Bolsena (che saranno più tardi salvati
dai dragamine tedeschi R 11 e R 16, inviati da Bengasi).
Alle 16.45 l’Iseo viene
attaccato a sua volta, in questo caso da aerosiluranti, ma la reazione della Pegaso costringe gli aerei alla
ritirata.
20 maggio 1942
Iseo e Pegaso giungono a Taranto alle
15.30.
La Pegaso nella primavera del 1942 (g.c. STORIA militare) |
2 giugno 1942
Alle 22.45 la Pegaso, il
cacciatorpediniere Freccia
(caposcorta, capitano di fregata Minio Paluello) e la torpediniera Partenope salpano da Taranto per
scortare a Tripoli la motonave Reginaldo
Giuliani. Durante la giornata, la navigazione prosegue senza intoppi a
circa 15 nodi di velocità.
Già il 31 maggio, tuttavia, “ULTRA” ha avuto modo di comunicare ai
comandi britannici, a seguito delle decrittazioni di messaggi italiani, che
la Giuliani, la cui partenza è
stata ritardata, dovrà partire da Taranto nella notte tra il 2 ed il 3 giugno con
la scorta di Freccia, Partenope e Pegaso; dai messaggi intercettati i
britannici sono venuti a conoscenza anche della prevista velocità del
convoglio, 15 nodi, e del previsto orario d’arrivo a Bengasi, le 10.30 del 4
giugno.
4 giugno 1942
Nella notte tra il 3 ed il 4 giugno il convoglio viene localizzato da
ricognitori decollati dalla Cirenaica ed illuminato dallo sgancio di numerosi
bengala, cui segue una serie di attacchi di aerosiluranti isolati, che si
protraggono per più di due ore. Alle 4.52 (o 4.53; per altra versione,
probabilmente erronea, alle 5.30) del 4 giugno, a 125-130 miglia per 20° da
Bengasi (cioè a nord di tale porto), un aerosilurante riesce a portarsi molto
vicino prima di sganciare, e la Giuliani viene
colpita a poppa sinistra dal suo siluro, rimanendo immobilizzata con gravi
danni. Il Freccia, dopo diversi
tentativi, riesce prendere a rimorchio la motonave nel tentativo di portarla in
salvo a Bengasi.
Durante il rimorchio le paratie della Giuliani cedono alla pressione dell’acqua, permettendo al mare
di allagare progressivamente tutti i compartimenti ed impedendo di proseguire
nel rimorchio. Da Bengasi viene inviato il rimorchiatore tedesco Max Barendt che cerca a sua volta di
prenderla a rimorchio, ma senza successo; i 225 uomini imbarcati devono essere
trasferiti sulle unità della scorta.
5 giugno 1942
Siccome la motonave risulta ormai irrecuperabile (non è possibile
prenderla a rimorchio, e Bengasi dista 130 miglia), ma al contempo affonda
troppo lentamente, giunge da Marina Bengasi l’ordine di darle il colpo di
grazia e poi raggiungere Bengasi; è la Partenope ad
assumersi il mesto incarico, affondandola alle 6.30 del 5 giugno.
Non avendo più nulla da fare, Pegaso,
Partenope e Freccia raggiungono Bengasi, dove sbarcano i 225 naufraghi, ma
qui la perdita della Giuliani rivela
uno dei suoi perniciosi aspetti. La nafta necessaria al rifornimento di Pegaso e Partenope, per permettere loro di tornare in Italia, era proprio quella
che era stata caricata a bordo della motonave: ed ora giace in fondo al mare.
Per permettere a Freccia, Partenope e Pegaso di tornare a Taranto si rende
necessario prelevare la nafta dai serbatoi di altre due torpediniere, impedendo
così che queste ultime, come programmato, possano compiere la loro programmata
missione di caccia antisommergibile.
15 giugno 1942
Durante la battaglia aeronavale di Mezzo Giugno, la Pegaso viene fatta uscire da Patrasso
(per ordine di Supermarina) per andare in soccorso dell’incrociatore pesante Trento, immobilizzato da un
aerosilurante nel Mediterraneo centrale. Prima che la Pegaso possa giungere sul posto, tuttavia, il Trento verrà silurato dal sommergibile britannico Umbra ed affonderà portando con sé metà
del suo equipaggio.
2 luglio 1942
La Pegaso salpa alle 13
da Taranto insieme ai cacciatorpediniere Turbine, Euro e Giovanni Da Verrazzano (caposcorta) ed
alle torpediniere Antares, San Martino, Castore e Polluce
per scortare a Bengasi un convoglio composto dalle moderne motonavi Monviso, Nino Bixio ed Ankara (quest’ultima
tedesca).
Si tratta del primo importante convoglio dopo la riconquista di Tobruk
da parte dell’Asse, con un carico complessivo di 8182 tonnellate di munizioni e
materiali, 1247 tonnellate di carburanti e lubrificanti, sette carri armati e
439 veicoli; la Monviso ha a
bordo 128 automezzi, due carri armati, 300 tonnellate di carburanti e
lubrificanti e 3020 tonnellate di altri materiali (tra cui materiale
d’artiglieria e munizioni), oltre a 165 militari.
Già alle 14.18 il servizio di decrittazione britannico “ULTRA” intercetta
e decifra un messaggio codificato dalla macchina “Enigma”, apprendendo così
della partenza del convoglio; successive decrittazioni precisano la
composizione della scorta e la rotta che il convoglio seguirà (rotte costiere e
di sicurezza fino alle 4.30 del 3 luglio, quando Sagittario e San
Martino si devono unire alla scorta, dopo aver completato un rastrello
in quelle acque; indi riunione con convoglio che deve passare probabilmente a
sudovest di Capo Gherogambo). Vengono dunque disposti attacchi aerei contro il
convoglio, ed un ricognitore viene inviato a cercarlo, in base alle
informazioni di “ULTRA”, per precisarne meglio la posizione.
Tuttavia, anche l’Ufficio Beta del Servizio Informazioni Segrete (il
servizio segreto della Regia Marina) è al lavoro: la sera del 2 luglio gli
uomini del SIS intercettano e decrittano un messaggio radio inviato alle 20.40
da Malta ai ricognitori YU3Y e 86KK, con l’ordine di cambiare rotta e cercare
30 miglia più ad est delle posizioni assegnate. Il messaggio è codificato col
sistema SYKO, che i decrittatori del SIS sono riusciti a decifrare; inoltre,
rilevazioni radiogoniometriche permettono di localizzare i ricognitori
britannici (a 150 miglia per 350° da Bengasi l’uno, a 90 miglia per 350° da
Bengasi l’altro). Alle 21.40, così, Supermarina invia al convoglio della Pegaso un messaggio PAPA (Precedenza
Assoluta sulle Precedenze Assolute) ed informa il capoconvoglio che i
britannici conoscono la loro posizione: in tal modo, il capoconvoglio cambia
rotta.
La Pegaso rileva
all’ecogoniometro un sommergibile nemico e lo attacca con intenso lancio di
bombe di profondità, ritenendo di averlo affondato, ma in realtà non è stato
colpito nulla (è possibile che il sommergibile stesso fosse solo un falso
contatto).
3 luglio 1942
Nonostante il cambiamento di rotta, alle 3.30 il ricognitore H3TL
riesce a trovare il convoglio, e lo comunica per radio a Malta. Di nuovo, però,
il SIS intercetta e decifra il messaggio, e nel giro di mezz’ora Supermarina
invia un nuovo avvertimento al convoglio, che cambia di nuovo rotta. La mattina
ed il pomeriggio il convoglio procede senza incontrare forze britanniche.
Alle 15.13 ed alle 16.13, però, il SIS intercetta nuovi messaggi in
codice britannici, e scopre che da Malta sono decollati otto aerosiluranti
Bristol Beaufort.
Infatti il convoglio è stato avvistato da ricognitori nel pomeriggio,
ed alle 18.30 sono decollati per attaccarlo otto aerosiluranti Bristol
Beaufort, scortati da cinque caccia Bristol Beaufighteer; due degli aerei,
però, non sono riusciti a decollare, ed altri due sono stati costretti a
tornare indietro poco dopo il decollo. I rimanenti attaccano il convoglio alle
20.10, da est, provenendo dalla direzione opposta del crepuscolo e delle navi
della scorta. Due aerei attaccano il mercantile al centro (la Bixio), altri due il mercantile di coda;
questi ultimi due vengono abbattuti dal tiro contraereo della scorta (per altra
fonte i Beaufort attaccanti erano sei, di cui tre abbattuti). Nonostante la
coordinazione con i Beaufighters, che mitragliano le navi per contrastare il
loro tiro contraereo, l’attacco britannico fallisce completamente: nessuna nave
è colpita.
(Secondo una fonte, sempre in serata il convoglio viene attaccato da
tre aerosiluranti Vickers Wellington, guidati da un Wellington VIII dotato di
radar ASV – Air to Surface Vessel, per l’individuazione delle navi da parte di
un aereo –, ma anche in questo caso non vengono subiti danni. È però probabile
una confusione col successivo attacco di Wellington del 4 luglio).
4 luglio 1942
Alle 00.18 ed alle 00.42 il ricognitore N1KL invia due segnali di
scoperta del convoglio, seguiti all’una di notte da un terzo segnale, lanciato
dal ricognitore ZZ7P. Sono decollati da Malta cinque velivoli Vickers
Wellington, due dei quali armati con siluri e tre con bombe da 227 kg: la
scorta del convoglio, però, occulta i mercantili con cortine fumogene, e gli
attaccanti devono sganciare bombe e siluri pressoché a caso, senza riuscire a
vedere i bersagli. Nessuna bomba o siluro va a segno.
Nella mattinata del 4 luglio, nuovo attacco: stavolta da parte di tre
Wellington e tre bombardieri quadrimotori Consolidated B-24 “Liberator”, tutti
della Royal Air Force, decollati dall’Egitto. I Wellington non riescono a
trovare il convoglio; i B-24 invece sì, ma le loro bombe non vanno a segno.
Alle 10.30 ed alle 14.15 (quando l’Ankara viene
mancata da quelli che sembrano dei siluri) il convoglio viene attaccato da
sommergibili (ma è probabile che si sia trattato di falsi allarmi).
Il britannico Turbulent (capitano
di fregata John Wallace Linton) avvista le alberature e poi le navi italiane
alle 11.10, in posizione 33°30’ N e 20°30’ E (un’ottantina di miglia a nord di
Bengasi), ma viene localizzato dal sonar della Pegaso alle 11.41, prima di poter attaccare, e subisce poi una
caccia antisom che inizia alle 11.48: la prima scarica di 6 bombe di
profondità, lanciata in posizione 33°28’ N e 20°28’ E, esplode molto vicina ma
causa soltanto danni minori; successivamente vengono gettate molte altre bombe
di profondità, che però esplodono più lontane. Da parte italiana si ritiene,
erroneamente, di avere affondato il sommergibile; comunque, l’attacco è
sventato.
Il convoglio giunge indenne a Bengasi alle 18.45.
Subito (leggera discrepanza negli orari: 18.15 è indicato come l’ora di
partenza) la Pegaso riparte per
scortare a Brindisi, insieme alle torpediniere Castore, Polluce ed Antares, la motonave Rosolino Pilo. Alle 19 queste navi si
uniscono alle motonavi Sestriere e Vettor Pisani, scortate dal cacciatorpediniere
Nicoloso Da Recco e dalle torpediniere Lince
e Calatafimi, e formano un unico
grande convoglio, l’«M», con il Da Recco
come caposcorta.
5 luglio 1942
Alle 7 si unisce alla scorta la torpediniera Sagittario, ed alle 8.30 si aggrega anche il Da Verrazzano, che però se ne va dopo tre ore.
Alle 24 anche la Polluce
lascia il convoglio per dirigere su Patrasso, come da ordini in precedenza
ricevuti.
6 luglio 1942
Alle 5.30 anche la Sagittario
lascia il convoglio per raggiungere Taranto, in base a disposizioni prestabilite.
Il convoglio raggiunge Brindisi alle 14.
26 luglio 1942
La Pegaso scorta la motonave Manfredo Camperio da Gallipoli a Patrasso.
Luglio 1942
Il capitano di corvetta Acton lascia il comando della Pegaso, sostituito dal tenente di
vascello Mario De Petris.
3 agosto 1942
La Pegaso viene inviata da
Bengasi in soccorso dei naufraghi della motonave Monviso, affondata alle 15.25 per arma subacquea (mine o siluri del
sommergibile HMS Thorn) a otto miglia
per 333° da Sidi Sueicher, 16 miglia a nordovest di Bengasi. La Pegaso e la motovedetta Cotugno della
Guardia di Finanza recuperano 241 sopravvissuti, mentre le vittime sono 6. Per
ordine di Supermarina, la Pegaso
riceve anche ordine di effettuare caccia antisom, sostituendo in questo i
cacciatorpediniere Alpino e Corazziere (che scortavano la Monviso) che già lo stavano facendo a
seguito dell’affondamento, nella presunzione che la motonave sia stata
affondata dai siluri di un sommergibile; ma sembra oggi più probabile che non
vi fosse alcun sommergibile, e che la Monviso
sia affondata per urto contro mina.
4 agosto 1942
La Pegaso, insieme all’Orsa ed al cacciatorpediniere Saetta, salpa da Bengasi alle 19 per
scortare la motonave Tergestea,
diretta a Brindisi (convoglio «T»).
Alle 24 la Pegaso lascia la
scorta della motonave.
5 agosto 1942
La Pegaso, proveniente da
Bengasi, si unisce alla scorta (cacciatorpediniere Legionario, caposcorta, e Corsaro,
torpediniere Partenope e Calliope) delle motonavi Nino Bixio e Sestriere, provenienti da Brindisi e dirette a Bengasi. Superati
indenne alcuni attacchi aerei, il convoglio giunge a destinazione alle 12.30.
6 agosto 1942
La Pegaso (tenente di
vascello Mario De Petris) salpa da Bengasi alle due di notte, di scorta al
piroscafo Istria.
Alle 12.55, trenta miglia a sudovest di Gaudo e 50 miglia a sudovest di
Creta, viene avvistato un bombardiere tedesco Junkers Ju 88 (per una fonte,
appartenente alla scorta aerea) intento a mitragliare qualcosa sulla superficie
del mare, 4600 metri a proravia del convoglio; la Pegaso si porta nella zona per vedere di cosa si tratti, e nota un
periscopio affiorante che lascia una scia visibile a notevole distanza,
nonostante la superficie del mare sia increspata. Il periscopio, che rimane
visibile per un po’ di tempo anche dopo la fine dell’attacco dello Ju 88,
continua a muoversi verso sinistra ad alta velocità con l’apparente intenzione
di portarsi sul suo fianco sinistro, tagliando la rotta del convoglio, per poi
scomparire alla vista dopo due minuti.
Alle 12.58 la Pegaso ottiene
un buon contatto all’ecogoniometro, 1400 metri di prora: si tratta del
sommergibile britannico Thorn
(capitano di corvetta Robert Galliano Norfolk). Iniziano quindi gli attacchi
con bombe di profondità: in tutto la Pegaso
ne esegue ben sette, dalle 12.58 alle 13.47, mantenendo sempre un buon contatto
all’ecogoniometro. Vengono lanciate tre bombe di profondità con ciascuno dei
tre lanciabombe di dritta, distanziate tra di loro di 50 metri e regolate per
esplodere a 15, 45 e 70 metri di profondità, in modo da saturare la zona
bombardata.
Il sommergibile manovra rapidamente nel tentativo di sottrarsi alla
caccia, ma dopo il secondo attacco sembra ridurre di molto la velocità, e poco
dopo la Pegaso osserva delle tracce
di carburante. Dopo il sesto attacco, affiorano in superficie in successione
dell’altro carburante e tre vistose bolle d’aria, che inducono il comandante De
Petris a pensare che il sommergibile stia tentando di emergere.
Dopo il settimo attacco, il contatto all’ecogoniometro viene perso, e vengono
visti affiorare in superficie prima un’enorme bolla d’aria (alle 13.45) e poi
del carburante, che forma rapidamente una chiazza molto vasta. La Pegaso rimane per qualche tempo sul
punto dell’affondamento, poi ritorna a scortare l’Istria.
Il Thorn si è inabissato con
tutto l’equipaggio di 60 uomini, in posizione 34°25’ N e 22°36’ E.
Pegaso ed Istria
giungono al Pireo alle 9.30.
21 agosto 1942
Alle 5.40 la Pegaso va a
rinforzare la scorta (cacciatorpediniere Aviere,
caposcorta, e Geniere, torpediniere Ciclone e Climene) della nave cisterna Pozarica
e del piroscafo tedesco Dora, in
navigazione da Messina a Bengasi.
Alle 16.17, al largo dell’isolotto di Sivota, il convoglio viene
attaccato da aerosiluranti: la Pozarica
viene colpita da un siluro, ma si riesce a portarla all’incaglio nella baia di
Saiada (Canale di Corfù) alle 7.20 del 22 (sarà poi possibile recuperarne il
carburante ed avviarla ai lavori di riparazione); le altre navi ricevono ordine
di raggiungere Corfù, dove arrivano alle 20.30. Durante l’attacco, la Pegaso ha abbattuto un aerosilurante
Bristol Beaufort ed un caccia Bristol Beaufighter.
La Pegaso al Pireo il 23 agosto 1942, in secondo piano un cacciasommergibili ausiliario della Kriegsmarine (foto Aldo Fraccaroli, via Giorgio Parodi e www.naviearmatori.net) |
25 agosto 1942
La Pegaso, l’anziana
torpediniera Calatafimi e
l’incrociatore ausiliario Barletta
scortano dal Pireo a Suda un convoglio formato dai piroscafi italiani Palermo (che poi prosegue per Iraklion)
e Pier Luigi, dal tedesco Rhea e dalla nave cisterna Ossag, pure tedesca.
27 agosto 1942
La Pegaso, uscita da Suda, va
incontro alle motozattere MZ 744 e MZ 758 e prende a bordo i naufraghi del
piroscafo Istria, affondato alcune
ore prima, che le due motozattere hanno soccorso.
6 settembre 1942
Alle 2.30 la Pegaso salpa da
Brindisi insieme ai cacciatorpediniere Aviere
(caposcorta, capitano di vascello Ignazio Castrogiovanni), Lampo e Legionario ed
alla torpediniera Partenope, per
scortare in Libia il convoglio «P» (motonavi Ankara e Sestriere).
Alle 10.40, al largo di Capo Santa Maria di Leuca, il convoglio «P» si
unisce al convoglio «N», proveniente da Taranto (motonavi Ravello e Luciano Manara,
scortate dai cacciatorpediniere Freccia,
Bombardiere, Geniere, Fuciliere, Corsaro e Camicia Nera e dalla torpediniera Pallade), formando un unico convoglio denominato «Lambda», che
fruisce anche di nutrita scorta aerea da parte di velivoli italiani e tedeschi.
In base alle disposizioni impartite, il convoglio naviga lungo la costa
della Grecia; verso le 15.30, al largo di Corfù, si verifica un attacco di
aerosiluranti decollati da Malta. Quattro degli aerei vengono abbattuti dalle
navi della scorta, ma alle 15.40 la Manara
viene colpita a poppa da un siluro; presa a rimorchio dal Freccia (capitano di fregata Minio Paluello), può essere portata
all’incaglio nella baia di Arilla (Corfù). Il resto del convoglio prosegue; al
tramonto si scinde nuovamente nei due gruppi originari (meno Freccia e Manara) che navigano separati per tutta la notte, pur seguendo
entrambi la medesima rotta lungo la costa ellenica.
7 settembre 1942
All’alba i due gruppi si riuniscono di nuovo, assumendo una formazione
con le motonavi disposte a triangolo (Ravello
a dritta, Ankara a sinistra, Sestriere di poppa) e le navi scorta
disposte tutt’intorno, oltre alla scorta aerea di 7 Junkers Ju 88 tedeschi, 5
caccia italiani Macchi Mc 200 ed un idrovolante CANT Z. 506.
Alle 8.35 il sommergibile britannico P 34 (tenente di vascello Peter Robert Helfrich Harrison),
preavvisato del prossimo arrivo del convoglio, avvista su rilevamento 305° le
alberature ed i fumaioli delle navi italiane. Iniziata la manovra d’attacco
alle 8.40, il P 34 lancia quattro
siluri alle 9.21, da 6400 metri, in posizione 36°17’ N e 21°03’ E (45 miglia a
sudovest dell’isola greca di Schiza); Sestriere
e Ravello, avvistati i siluri, li
evitano con la manovra. Il Lampo
(capitano di corvetta Antonio Cuzzaniti) viene temporaneamente distaccato per
dargli la caccia, lanciando bombe di profondità a scopo intimidatorio, per poi
riunirsi al convoglio; anche l’Aviere,
che ha avvistato le scie dei siluri, effettua un attacco con bombe di
profondità. Il contrattacco contro il P
34 si protrae dalle 9.36 alle 13 circa (con una pausa di circa un’ora), con
il lancio in tutto di 83 bombe di profondità; gli scoppi delle bombe, oltre ad
indurre il sommergibile a restare immerso in profondità per tutto il
pomeriggio, arrecano seri danni al suo motore di sinistra (quando si cerca di
metterlo in moto, scoppia un incendio), costringendolo ad interrompere la
missione e rientrare a Malta per le riparazioni.
Per tutta la giornata del 7, e nella notte successiva, le navi vengono
ripetutamente attaccate da bombardieri (di giorno si tratta di Consolidated
B-24 “Liberator” statunitensi) ed aerosiluranti.
Alle 19.40 il convoglio «Lambda» si scinde nuovamente in due gruppi: Ankara, Lampo, Geniere e Partenope dirigono per Tobruk (dove
arriveranno alle 14 dell’8), mentre Pegaso,
Pallade, Camicia Nera, Aviere, Corsaro, Legionario, Ravello e Sestriere fanno rotta per Bengasi.
8 settembre 1942
La Pegaso e le altre navi del
suo gruppo entrano a Bengasi alle 11.
10 settembre 1942
La Pegaso lascia Bengasi alle
18.15 per scortare a Suda il piroscafo O.
Bottiglieri.
13 settembre 1942
Pegaso e Bottiglieri giungono a Suda alle 18.30.
16 settembre 1942
La Pegaso scorta da Suda al
Pireo il piroscafo G. Bottiglieri.
La poppa
della Pegaso nel 1942, con il suo
variegato armamento (Coll. Aldo Fraccaroli via Maurizio Brescia e www.associazione-venus.it; STORIA
militare via Dante Flore e www.naviearmatori.net)
1942-1943
Lavori di modifica: l’armamento contraereo viene potenziato con
l’aggiunta di tre mitragliere singole Scotti-Isotta Fraschini 1939 da 20/70 mm.
Viene anche modificato lo scudo delle artiglierie ed aggiunta una gruetta a
centro nave per un’imbarcazione di servizio.
1° gennaio 1943
Il comandante De Petris viene promosso a capitano di corvetta.
9 febbraio 1943
Alle 18 la Pegaso (capitano
di corvetta Mario De Petris) salpa da Taranto per scortare a Tunisi, via
Palermo, il piroscafo Petrarca,
con un carico di 2900 tonnellate di rifornimenti, tra cui armi e 1500
tonnellate di munizioni.
Alle 22 aerei nemici iniziano a tallonare il convoglio.
10 febbraio 1943
Tra le 2.13 e le 4.47 Pegaso
e Petrarca subiscono ripetuti
attacchi di bombardieri ed aerosiluranti; alle 2.45 il Petrarca evita un siluro con la manovra, mentre alle 3.15 il
piroscafo viene mancato da alcune bombe. Per evitare che gli aerei attacchino
anche dal lato terra, Pegaso e Petrarca navigano quanto più possibile
vicino alla costa della Calabria, così tenendosi sotto la protezione delle
batterie costiere, e reagendo con il tiro delle mitragliere di Pegaso e Petrarca.
Navigare sottocosta, però, presenta un rischio nella scarsa profondità
dei fondali: quando, verso le sette del mattino del 10 (una decina di miglia a
nord di Crotone), ha inizio un nuovo attacco aereo, il Petrarca, a causa di carte nautiche non aggiornate, pur navigando
con vapore minimo, s’incaglia intorno alle 7.30 su una secca a circa 800 metri
dalla spiaggia di Marina di Strongoli (nei pressi dell’odierna Via Magna
Grecia), una decina di miglia a nord di Crotone, assumendo un leggero
appoppamento. Il forte vento di tramontana e le conseguenti forti onde impediscono
il disincaglio, e fanno sbandare il Petrarca sul
lato sinistro.
La Pegaso tenta più
volte di disincagliare il piroscafo, ma inutilmente; alle 18 arrivano per tale
compito due rimorchiatori inviati da Taranto, dopo di che la torpediniera
rimane in zona per assicurare protezione antisommergibili.
11 febbraio 1943
A causa di un fortunale da scirocco frattanto sviluppatosi, la Pegaso, al pari dei rimorchiatori e
della torpediniera Cassiopea
(capitano di corvetta Virginio Nasta) inviata da Messina a darle il cambio, è
obbligata a puggiare a Crotone.
Il 15 febbraio il Petrarca,
ancora incagliato, verrà silurato dal sommergibile britannico Una e salterà in aria, con la morte di
79 uomini.
20 febbraio 1943
Alle 15.40 (o 14.50) la Pegaso
(capitano di corvetta Mario De Petris), uscita da Palermo, va a rinforzare le
torpediniere Orione (caposcorta,
capitano di corvetta Luigi Colavolpe) ed Animoso
(capitano di corvetta Camillo Cuzzi) nella scorta al piroscafo Fabriano (con 1700 tonnellate di viveri
e munizioni) ed alla grossa nave cisterna Thorsheimer
(carica di 13.000 tonnellate di benzina), in navigazione da Napoli a Biserta.
C’è anche una poderosa scorta aerea, con numerosi velivoli da caccia.
Lo stesso giorno, tuttavia, l’organizzazione britannica “ULTRA”
intercetta e decifra un messaggio dal quale apprende che «Petroliera Thorsheimer e piroscafo Fabriano debbono raggiungere Biserta
alle 17.00 del 21, lasciando Napoli alle 10.00 del 20».
Da Malta decollano pertanto diversi aerosiluranti Fairey Albacore
dell’828th Squadron della Fleet Air Arm, in parte armati con bombe
ed in parte con siluri, nonché quattro Bristol Beaufort del 39th
Squadron della Royal Air Force, armati di siluri. Dei quattro Beaufort, che
dopo il decollo s’imbattono in pioggia, grandine e tempeste di elettricità, che
riducono fortemente la visibilità, soltanto uno (pilotato dal tenente Stanley
R. Muller-Rowland) riuscirà a trovare i bersagli ed a sganciare il suo siluro,
ma senza comunque colpire nulla.
Alle 19.40 il convoglio viene attaccato infruttuosamente da bombardieri
ed aerosiluranti (gli Albacore); alle 21 le navi entrano nel porto di Trapani,
dove sostano fino alle prime ore del giorno seguente, ma di nuovo i messaggi
relativi al convoglio vengono decrittati da “ULTRA”, permettendo ai comandi
britannici di apprendere che «Thorsheimer
e Fabriano salperanno da Trapani alle
03.00 del 21, velocità 12 nodi, diretti a Biserta dove arriveranno alle 15.30
del 21».
Durante un’incursione aerea verificatasi mentre le navi sono alla
fonda, il Fabriano viene colpito e
subisce danni alle caldaie, che lo costringono a rimanere a Trapani.
21 febbraio 1943
Nelle prime ore del 21, le navi del convoglio sono infruttuosamente
attaccate da altri quattro Beaufort (erano decollati in cinque, ma il quinto
non è riuscito a trovare il convoglio), pilotati rispettivamente dal tenente
John Cartwright, dal sergente maggiore L. T. Garland, dal sergente maggiore
Stanley H. Balkwill e dal maresciallo Richard J. S. Dawson. Nessuna nave viene
colpita dai quattro siluri sganciati; uno dei Beaufort, quello di Balkwill,
viene gravemente danneggiato dal tiro contraereo delle navi italiane, anche se
riesce a rientrare a Luqa (Malta).
Thorsheimer e torpediniere
ripartono da Trapani alle 5.50, ma appena uscita dal porto (5.51) la petroliera
viene mitragliata da un Albacore dell’828th Squadron F.A.A., che
ferisce a morte il comandante; l’Orione
ordina alle navi di ancorarsi nuovamente, preleva il moribondo comandante della
Thorsheimer e lo porta a Trapani,
dove imbarca il comandante del Fabriano,
che viene poi trasbordato sulla nave cisterna per assumerne il comando. Alle
11.15 il convoglio è in grado di mettere nuovamente in moto verso Biserta.
Stante l’importanza del carico della Thorsheimer, il convoglio gode anche di una nutrita scorta aerea,
con dieci caccia della Luftwaffe e quattro idrovolanti antisommergibili.
Alle 14.25, venti miglia a sudovest di Marettimo, le navi sono
attaccate da otto bombardieri statunitensi North American B-25 Mitchell,
scortati da dodici caccia, che sganciano le loro bombe a bassa quota. Il tiro
delle torpediniere abbatte due degli attaccanti, mentre un terzo viene
abbattuto da un caccia; la scorta aerea dell’Asse perde uno Junkers Ju 88
tedesco ed un idrovolante CANT Z. 506 italiano.
La Thorsheimer viene colpita
da due degli ordigni, rimanendo immobilizzata con principio d’incendio a bordo;
Pegaso ed Animoso le danno assistenza, mentre l’Orione è costretta a fermarsi perché la concussione di alcune bombe
scoppiate a pochissima distanza le ha temporaneamente messo fuori uso il
timone. Riparato il timone, l’Orione
imbarca i 49 membri dell’equipaggio della Thorsheimer
e poi dirige a Trapani per sbarcarveli, lasciando Pegaso ed Animoso ad
assistere la petroliera in attesa dell’arrivo di due rimorchiatori (il cui
intervento è stato subito richiesto) inviati da Trapani.
Alle 20.15, mentre si predispone il rimorchio, l’ancora immobile Thorsheimer attaccata nuovamente da sei
aerosiluranti Bristol Beaufort del 39th Squadron R.A.F.: uno dopo
l’altro, sono ben quattro i siluri che vanno a segno (sganciati,
rispettivamente, dal capitano Don Tilley, dal sergente maggiore Ewen Gillies,
dal tenente Feast e dal sergente maggiore H. H. Deacon). Questa volta la nave
esplode, per poi affondare in un mare di fiamme.
25 febbraio 1943
Alle 15 la Pegaso salpa da
Napoli insieme alle torpediniere Sirio
(caposcorta), Sagittario, Castore, Ciclone e Generale Antonino Cascino
ed ai cacciasommergibili tedeschi UJ 2209,
UJ 2210 e UJ 2220, per scortare a Biserta i piroscafi Forlì e Teramo.
Sei ore dopo la partenza, il convoglio viene avvistato da ricognitori
avversari.
26 febbraio 1943
Individuato da ricognitori avversari, il convoglio viene attaccato da
aerosiluranti alle 3.30, 38 miglia a sudovest da Punta Licosa.
Alle 14.30 esso subisce un nuovo attacco, stavolta da parte di 18
bombardieri, 38 miglia a nord di Capo Zaffarano. Nessuna nave è colpita tranne
l’UJ 2209, lievemente danneggiato da schegge.
Nelle acque antistanti Palermo, si uniscono al convoglio anche le navi
cisterna Bivona e Labor ed il piroscafo Volta, nonché le torpediniere Groppo ed Orione, la corvetta Gabbiano
ed il dragamine tedesco R 15; si
forma così un unico convoglio, scortato da Groppo
(caposcorta), Ciclone, Orione, Pegaso, Cascino, Gabbiano e R 15. Sirio e Sagittario, al pari dei tre
cacciasommergibili tedeschi, rientrano invece a Napoli, mentre la Castore è costretta ad entrare a Palermo
e restarvi a causa di un’avaria.
Al largo di Trapani la Gabbiano lascia
la scorta.
27 febbraio 1943
Alle 10.40 un aereo da caccia italiano, di scorta al convoglio,
precipita per avaria; l’Orione ne
salva il pilota.
28 febbraio 1943
Il convoglio giunge a Biserta all’1.45.
5 marzo 1943
La Pegaso lascia Biserta alle
10, insieme al cacciatorpediniere Lampo
(caposcorta) ed alla torpediniera Animoso,
per scortare a Napoli i piroscafi Sabbia
e Frosinone e la nave cisterna Bivona.
6 marzo 1943
Alle 22 l’Animoso lascia la
scorta del convoglio. Il Sabbia è
colto da avaria di macchina che lo costringe a ridurre la velocità, ritardando
l’arrivo a Napoli.
7 marzo 1943
La Pegaso lascia la scorta
alle 23.30, poco prima che le navi raggiungano Napoli (ciò avviene tra le 21 e
le 23.30).
12 marzo 1943
Alle 00.30 la Pegaso
(capitano di corvetta Mario De Petris), insieme alle torpediniere Sirio (capitano di corvetta Antonio
Cuzzaniti, caposcorta capitano di vascello Corrado Tagliamonte) e Ardito (capitano di corvetta Silvio
Cavo) ed alla corvetta Cicogna (tenente
di vascello Augusto Migliorini), salpa da Napoli per scortare a Tunisi il
convoglio «D», formato dai piroscafi tedeschi Esterel e Caraibe.
Alle 2.10 l’Ardito deve
rientrare a Napoli a causa di una grave avaria di macchina.
Alle 14.40 si uniscono al convoglio la cisterna militare Sterope, partita da Messina e diretta a
Biserta, e le torpediniere Cigno (capitano
di corvetta Carlo Maccaferri) ed Orione (capitano
di corvetta Luigi Colavolpe) che la scortano. Poco prima si è unita alla scorta
anche la corvetta Persefone (capitano
di corvetta Oreste Tazzari), salpata da Trapani, che insieme alla gemella Antilope ed a cinque cacciasommergibili
tedeschi ha il compito di effettuare ricerca e caccia antisom preventiva; poco
dopo si aggrega anche la vecchia torpediniera Generale Antonino Cascino
(tenente di vascello Gustavo Galliano), proveniente da Messina.
Alle 16.10 si unisce alla scorta anche la torpediniera Libra, proveniente da Palermo, e più
tardi i cacciasommergibili VAS 231 e VAS 232.
Già dal 10 marzo, tuttavia, i comandi britannici – attraverso le
decrittazioni di “ULTRA” – sanno che la nave cisterna Sterope e la motonave Nicolò
Tommaseo devono arrivare a Messina alle 20 del 9, provenienti da
Brindisi, per poi unirsi ad Esterel e Caraibe e Manzoni, provenienti da Napoli e diretti a Messina o Trapani, e
fare rotta insieme verso Tunisi e Biserta, dove giungere nel pomeriggio
dell’11. Il 12 marzo “ULTRA” ha poi appreso del rinvio di 48 ore di tale
programma, con l’arrivo a Messina di Sterope e Tommaseo alle 14 dell’11 anziché la
sera del 9; i comandi britannici deducono correttamente che la prevista
riunione in mare avverrà nella giornata del 12, e pertanto inviano numerosi
aerei a cercare il convoglio.
Lo trovano alle 20.40: tra quell’ora e le 21.20 il convoglio viene
continuamente sorvolato da aerosiluranti, bersagliati più volte dal tiro di
tutte le navi. Uno di essi, un Bristol Beaufort del 39th Squadron
pilotato dal tenente Arnold M. Feast, viene abbattuto; la Persefone recupera tre superstiti.
Alle 21.25 (o 21.35), dodici miglia ad ovest di Capo Gallo, la Sterope viene colpita a prora
sinistra da un siluro, sganciato da un altro Beaufort del 39th
Squadron R.A.F. (pilotato dal capitano Stanley Muller-Rowland). Per ordine del
caposcorta, Pegaso e Cascino sono distaccate per assistere la
petroliera danneggiata, mentre il resto del convoglio prosegue.
Altri quattro Beaufort attaccano le navi italiane, senza ottenere
ulteriori centri; due di essi sono colpiti, uno dei quali (sergente William A.
Blackmore) viene abbattuto senza superstiti e l’altro (sergente J. T. Garland)
viene gravemente danneggiato ma riesce a tornare a Luqa (Malta).
13 marzo 1943
Sterope, Pegaso e Cascino raggiungono Palermo alle 4.30. Terminato il loro compito,
le due torpediniere proseguono per Trapani, dove è stato dirottato il resto del
convoglio a seguito dell’avvistamento – alle 20.18 del 12, da parte di un
ricognitore della Luftwaffe – di quattro
cacciatorpediniere britannici al largo di Bona, con rotta nordest ed elevata
velocità. I mercantili sono ora ridotti al solo Caraibe, perché anche l’Esterel
è stato silurato e danneggiato ed è dovuto riparare a Trapani, mentre la
scorta, essendo alcune unità state distaccate per caccia antisom ed assistenza
alle navi colpite, è ridotta alle sole Sirio,
Cigno e Libra.
Alle 22.45 Caraibe e
scorta, ora costituita da Sirio (caposcorta), Cigno, Libra, Orione, Cascino e Pegaso nonché dalle VAS
231 e 232 (i quali
precedono il convoglio per effettuare dragaggio), ripartono da Trapani per
unirsi, dieci miglia ad est del banco di Skerki, ad un altro convoglio formato
dalle motonavi Manzoni e Mario Roselli.
14 marzo 1943
All’1.34 aerei avversari iniziano a sorvolare il convoglio, e tra le
2.42 e le 2.44 questi lanciano tre siluri: la Pegaso abbatte un aereo, ma alle 2.44 il Caraibe viene colpito da un siluro,
il terzo lanciato. Incendiato, il piroscafo viene scosso da varie esplosioni ed
affonda alle 4.35; le unità della scorta subiscono insistenti attacchi di
bombardieri ed aerosiluranti fino alle quattro del mattino, ma non subiscono
danni. Pegaso e Cascino recuperano 63 sopravvissuti
del Caraibe (su un
centinaio di uomini presenti a bordo) e dirigono per Trapani.
Le altre torpediniere raggiungono il convoglio formato da Manzoni e Roselli, che giunge a Biserta alle 17 (per altra versione, anche la
Pegaso si sarebbe riunita alla scorta
delle due motonavi nell’ultimo tratto di navigazione).
15 marzo 1943
Alle 3.15 la Pegaso lascia
Trapani e va a rinforzare la scorta (torpediniere Orione – caposcorta –, Clio
e Sagittario) di un convoglio formato
dai piroscafi Fabriano e Pierre Claude (tedesco) e dalle motonavi
Belluno e Caterina Costa, proveniente dalla Tunisia e
diretto a Napoli.
Alle 20.37, una trentina di miglia a sud di Capri, il sommergibile
britannico Trooper (tenente di
vascello John Somerton Wraith) avvista verso est le sagome oscurate di navi
dirette verso Napoli, ed alle 20.46 lancia quattro siluri contro la Belluno, da
una distanza di circa quattro miglia. Nessuna delle armi va a segno; il Trooper s’immerge e si allontana alle
20.48.
Dalle 21.35 aerei nemici prendono a sorvolare le navi italiane a più
riprese, ma sono sempre respinti dal tiro delle armi di bordo.
16 marzo 1943
Il convoglio giunge a Napoli tra le 4 e le 7.
30 marzo 1943
Nelle prime ore della notte Pegaso
ed Orione, in navigazione da Biserta
a Trapani nel buio più totale (essendo la notte senza luna), incrociano le
corvette Antilope e Persefone, in navigazione con rotta
opposta, al largo di Favignana. A causa dell’oscurità e di un errore di manovra,
in condizioni di mare forza 8, la Pegaso sperona
a poppa l’Antilope, che verso le 2.30
chiede aiuto, via radio, alla Persefone;
quest’ultima, che non aveva notato quanto accaduto, raggiunge rapidamente il
luogo del sinistro e recupera una decina di uomini caduti in mare, che vengono
rifocillati e ricevono indumenti asciutti. La danneggiata Pegaso e l’Orione
dirigono per Trapani, scortando Antilope
e Persefone, la prima a rimorchio
della seconda. Le quattro navi arrivano in porto intorno alle 18.
La Pegaso, dopo le prime
riparazioni provvisorie compiute a Trapani, viene inviata a Venezia per lavori
più estesi, che si risolveranno nella completa sostituzione della prua
lesionata: al suo posto verrà messa la prua di una delle corvette in
costruzione a Monfalcone. Durante i lavori viene anche rimosso l’ecogoniometro,
trasferito sulla corvetta Folaga.
11 aprile 1943
La Pegaso (caposcorta) salpa
da Trapani per scortare a Palermo, insieme al vecchio cacciatorpediniere Augusto Riboty, al cacciasommergibili tedesco UJ 2210 ed al dragamine tedesco M
6524, un convoglio formato dai piroscafi italiani Macerata e Giovanni
Bottiglieri, dal piroscafo tedesco Hans
SS Carbet, dalla nave cisterna Bivona
e dalla cisterna militare Prometeo.
Alle 13.30 il sommergibile britannico Sibyl (tenente di vascello Ernest John Donaldson Turner) avvista
fumo ed un aereo che gira in cerchio su rilevamento 240°, pertanto accosta per
avvicinarsi. Alle 14.30 il Sibyl
avverte degli impulsi sonar dritti di prora, ed avvista le alberature di navi
provenienti da Capo San Vito e dirette verso nordest; avvistato tutto il
convoglio alle 14.50, il sommergibile manovra per attaccare ed alle 15.54
lancia quattro siluri, in posizione 38°19’ N e 13°00’ E (una decina di miglia a
nord-nord-ovest di Punta Raisi), da distanze comprese tra i 4600 ed i 5500
metri, per poi scendere in profondità.
Poco dopo, il Carbet avvista
il periscopio del Sibyl ed apre il
fuoco con una mitragliera da 20 mm, mentre l’UJ 2210, posizionato a poppavia dritta del convoglio, avvista ed
evita di stretta misura tre siluri, che gli passano 40-60 metri a poppa. Il
cacciasommergibili risale poi le scie dei siluri, ottiene un contatto e lancia
alle 16.12 un pacchetto di bombe di profondità (che esplodono piuttosto vicine
al Sibyl); un aereo italiano lancia
due bombe, ma senza colpire. L’UJ 2210
effettua poi un secondo attacco con cariche di profondità, al termine del quale
ritiene di aver affondato l’attaccante; in realtà il Sibyl ha riportato solo lievi danni dallo scoppio delle 36 bombe di
profondità lanciate tra le 16.12 e le 16.38.
[Nota dell’autore – Sembra però
strano che la Pegaso fosse di nuovo operativa a soli undici giorni dalla grave
collisione del 30 marzo].
31 maggio 1943
Riclassificata torpediniera di scorta.
19 luglio 1943
Il piroscafo francese San Pedro,
che la Pegaso e l’anziana
torpediniera Nicola Fabrizi stanno
scortando, viene avvistato alle 8.27 dal sommergibile britannico Torbay (tenente di vascello Robert
Julian Clutterbuck) mentre procede a 10 nodi su rotta 315°. Il Torbay si avvicina per attaccare, ed
alle 9.33, a 9 miglia per 115° dal faro di Giannutri, lancia quattro siluri da
3200 metri contro il San Pedro, che
viene però mancato.
Dettaglio della Pegaso al Pireo il 16 agosto 1943 (g.c. STORIA militare) |
Autoaffondamento
alle Baleari
L’alba dell’8 settembre 1943 trovò la Pegaso a La Spezia, ormeggiata al molo Lagora. Come il resto della
flotta da battaglia stanziata nella base ligure, la nave, nei giorni
precedenti, aveva caricato carburante e munizioni per quella che si pensava
sarebbe stata l’ultima battaglia: girava notizia dell’avvistamento di una
flotta angloamericana di ben 450 navi, diretta verso le coste della Campania;
gli Alleati stavano per sbarcare a Salerno, e la squadra da battaglia, dopo
mesi di immobilità nella base di La Spezia, si preparava a salpare per
contrastare la flotta d’invasione in un ultimo scontro che si sarebbe concluso
nel suo totale annientamento.
Appena qualche giorno prima il capitano di fregata Riccardo Imperiali,
membro dello Stato Maggiore del comandante in capo della squadra da battaglia,
ammiraglio di squadra Carlo Bergamini, aveva chiesto ed ottenuto il comando di
una nave, proprio in vista dell’ultima battaglia. Gli era stato così affidato,
il 2 settembre, il comando della Pegaso:
questa richiesta, come mostrarono gli eventi che seguirono, finì col salvare la
vita del capitano di fregata Imperiali.
Il mattino ed il pomeriggio dell’8 settembre passarono tranquilli, ma
intorno alle 18 il comandante Imperiali fu chiamato a rapporto sulla corazzata Roma, nave ammiraglia di Bergamini,
insieme agli altri ammiragli e comandanti a questi subordinati.
Il giorno precedente, Bergamini aveva partecipato a Roma, presso il quartier generale della
Marina, ad una riunione indetta dal Ministro della Marina nonché capo di Stato
Maggiore della forza armata, ammiraglio Raffaele De Courten. Durante tale
riunione, cui avevano partecipato in tutto dieci ammiragli che detenevano le
posizioni chiave all’interno della Marina, De Courten aveva disposto che
naviglio ed installazioni a terra venissero posti in stato di difesa, la
sorveglianza venisse rafforzata ovunque, ci si preparasse a reagire ad
eventuali atti di ostilità da parte tedesca (tenendosi pronti ad impedire
l’occupazione di installazioni militari e la cattura di navi da parte tedesca,
ad interrompere i collegamenti delle forze tedesche, ad eliminare reparti e
navi tedesche che avessero compiuto atti ostili) ed a far partire le navi in
condizioni di efficienza per Sardegna, Corsica, Elba, Sebenico e Cattaro,
nonché ad autoaffondare le navi non in grado di muovere; in caso di attacco
tedesco, i prigionieri Alleati avrebbero dovuto essere liberati, ed in caso di
attacco tedesco si sarebbero dovuti considerare come nemici i velivoli tedeschi
che sorvolassero le navi italiane, mentre non si sarebbe dovuto aprire il fuoco
contro quelli Alleati. Tutte questi provvedimenti avrebbero dovuto essere presi
in seguito a ricezione di un ordine convenzionale inviato da Supermarina,
oppure dai Comandi in Capo nel caso di un attacco da parte tedesca. De Courten
non aveva rivelato ai presenti che erano in corso le trattative per un
armistizio tra l’Italia e gli Alleati, ma ai più non era sfuggito il
significato di quelle istruzioni.
Un altro ordine dato nel corso della riunione era stato quello di
rifornire al completo le navi in grado di partire con provviste, acqua e nafta;
quest’ordine, eseguito nel pomeriggio dell’8 settembre, destò non pochi dubbi,
dato che i marinai non capivano come mai, se la flotta doveva partire a breve
per l’ultima battaglia nel Basso Tirreno, si imbarcassero rifornimenti che
parevano destinati ad una lunga navigazione.
Agli ammiragli e comandanti riuniti sulla Roma, Bergamini annunciò che non avrebbe potuto riferire tutto
quello che De Courten gli aveva detto, ma che erano imminenti gravissime
decisioni da parte del governo, e che solo la Marina, tra le forze armate
italiane, si poteva ritenere ancora integra ed ordinata.
Qualsiasi cosa dovesse accadere, fece presente Bergamini, nessuna nave
sarebbe dovuta cadere in mano straniera, né britannica né tedesca; piuttosto,
sarebbe stato trasmesso il messaggio in codice «Raccomando massimo riserbo»
ricevuto il quale le navi si sarebbero dovute autoaffondare. Qualora il comando
centrale fosse stato impossibilitato a trasmettere tale messaggio, i comandanti
avrebbero dovuto agire di propria iniziativa, in relazione alla situazione che
si fosse presentata, ricordando la direttiva di non consegnare nessuna nave in
mani straniere. Nel caso di un autoaffondamento, questo sarebbe dovuto avvenire
per quanto possibile in acque profonde, ma a distanza dalla costa tale da
permettere agli equipaggi di mettersi in salvo (per ordine del re, gli uomini
non dovevano sacrificarsi); se ciò non fosse stato possibile, le navi si
sarebbero dovute autodistruggere.
In caso di ricezione del telegramma convenzionale «Attuare misure
ordine pubblico Promemoria n. 1 Comando Supremo», si sarebbe dovuto procedere
alla cattura del personale tedesco presente a bordo per i collegamenti ed
attuare l’allarme speciale, cioè preparare le navi a respingere qualsiasi colpo
di mano proveniente dall’esterno.
Sempre durante questa riunione, l’ammiraglio Bergamini, mostrandosi
piuttosto inquieto, affidò al comandante Imperiali il comando del Gruppo
Torpediniere (che consisteva, oltre che nella Pegaso, nelle gemelle Orsa
ed Orione, nella torpediniera Libra e nelle più moderne torpediniere
di scorta Ardimentoso ed Impetuoso) e gli disse di considerarsi
da quel momento alle sue dipendenze, e di tenersi pronto a prendere il mare
insieme alla squadra da battaglia. Compito delle sue torpediniere sarebbe stato
di svolgere esplorazione avanzata durante la navigazione, e di recuperare gli
equipaggi se le navi fossero state costrette ad autoaffondarsi. Bergamini
spiegò che la flotta poteva salpare da un momento all’altro, e che gli
obiettivi sarebbero potuti essere tre, radicalmente differenti: andare incontro
alla flotta britannica che doveva appoggiare lo sbarco, presumibilmente nel
Golfo di Salerno, ed ingaggiarla in battaglia; raggiungere La Maddalena per
sottrarsi ad eventuali azioni ostili da parte tedesca; oppure autoaffondarsi.
Risultò evidente, tra gli ufficiali presenti, che qualcosa di grave era
nell’aria; paventando una resa ed una consegna delle loro navi agli Alleati,
molti proposero l’autoaffondamento immediato, ma furono riportati all’ordine da
Bergamini.
Il comandante Imperiali non discusse gli ordini, né fece domande;
salutato l’ammiraglio, tornò sulla Pegaso
e convocò immediatamente i comandanti delle unità dipendenti, ossia i capitani
di corvetta Giuseppe Cigala Fulgosi (comandante dell’Impetuoso), Gino Del Pin (dell’Orsa)
e Bertetti (dell’Orione), mentre i
comandanti della Libra e dell’Ardimentoso, capitani di corvetta Nicola
Riccardi e Domenica Ravera, non poterono partecipare alla riunione perché la prima
si trovava in mare e la seconda in manutenzione nell’Arsenale di La Spezia.
Dopo aver concordato un piano per la navigazione, i comandanti tornarono alle
rispettive mansioni; ma poco più tardi, alle otto di sera, la radio diede
l’annuncio dell’armistizio tra l’Italia e gli Alleati.
Da terra giunsero le grida di gioia dei molti soldati che credevano che
la guerra fosse finita, ma gli ufficiali, Imperiali in testa, rimasero confusi
e allibiti. Radunati gli ufficiali, il comandante della Pegaso li avvertì di non perdere la testa: la guerra era tutt’altro
che finita, semplicemente sarebbe probabilmente mutato il nemico; c’era da
aspettarsi una reazione da parte dei tedeschi.
Alle 22 l’ammiraglio Bergamini, dopo una telefonata da parte
dell’ammiraglio De Courten, convocò di nuovo gli ammiragli e comandanti
dipendenti e disse loro che il personale tedesco presente sulle navi era stato
sbarcato, confermò le disposizioni date quattro ore prima e disse di non sapere
se alla squadra da battaglia sarebbe stato ordinato di restare in porto oppure
di trasferirsi in Sardegna od in altra località; gli ordini a questo proposito,
disse, sarebbero stati probabilmente impartiti dopo un colloquio tra
l’ammiraglio De Courten ed il maresciallo Badoglio, che doveva svolgersi proprio
in quei momenti. Il mattino seguente avrebbe impartito nuovi ordini.
Terminata la riunione, ammiragli e comandanti ritornarono sulle
rispettive unità.
Poche ore dopo, alle 00.52 del 9 settembre, giunse sulla Pegaso l’ordine di salpare alle due di notte
con tutta la squadriglia (dal Comando Forze Navali da Battaglia a Pegaso, Impetuoso, Ardimentoso, Orsa e Orione: "Partire ore 02.00 giorno 9 V.22 per ancoraggio.
Lat.42°.36'N Long.80°.19'E. A Isola Asinara"); rotta su La Maddalena,
passando a ponente della Corsica. La Pegaso
uscì per prima dal porto, seguita da Impetuoso,
Orsa ed Orione (l’Ardimentoso,
trovandosi in Arsenale, non poté invece partire con le altre: salpò per proprio
conto, alcune ore dopo, raggiungendo Portoferraio); la squadra da battaglia, Roma compresa, le avrebbe seguite poco
più tardi. La partenza fu tanto affrettata che gli addetti alla comandata della
Pegaso, mandati a terra come al
solito per procurarsi i viveri, furono lasciati a terra.
Le tre moderne corazzate dell’ammiraglio Bergamini, Roma, Italia (nave di bandiera dell’ammiraglio di divisione Enrico
Accorretti, comandante della IX Divisione) e Vittorio Veneto, lasciarono La Spezia un’ora più tardi, insieme
agli incrociatori leggeri Raimondo Montecuccoli, Attilio Regolo ed Eugenio di
Savoia (VII Divisione Navale, al comando dell’ammiraglio di divisione Romeo
Oliva, con bandiera sull’Eugenio di
Savoia), nonché ai cacciatorpediniere Mitragliere
(caposquadriglia, capitano di vascello Giuseppe Marini), Fuciliere, Carabiniere e Velite della XII Squadriglia ed Artigliere, Alfredo Oriani, Legionario
(caposquadriglia, capitano di vascello Amleto Baldo) e Grecale della XIV Squadriglia; la flotta assunse rotta 218° e
velocità 24 nodi. Più o meno nello stesso momento, salparono da Genova anche la
Libra ed i tre incrociatori leggeri
dell’VIII Divisione (Luigi di Savoia Duca
degli Abruzzi, Giuseppe Garibaldi
ed Emanuele Filiberto Duca d’Aosta),
al comando dell’ammiraglio di divisione Luigi Biancheri.
La destinazione per tutte le navi era la base di La Maddalena, in
Sardegna, dove la flotta doveva inizialmente trasferirsi (come De Courten aveva
spiegato a Bergamini la sera prima, ordine poi ufficializzato da un fonogramma
di Supermarina delle 23.45) per poi ricevere ulteriori istruzioni sul da farsi:
nella base sarda, l’ammiraglio Bruno Brivonesi avrebbe consegnato
all’ammiraglio Bergamini i documenti relativi all’armistizio (i cui dettagli
non erano noti a Bergamini) e gli ordini conseguenti. Inizialmente, era previsto
anche che il re ed il governo si sarebbero dovuti trasferire da Roma a La
Maddalena (così aveva detto a De Courten, il 6 settembre, il capo di Stato
Maggiore generale, generale Vittorio Ambrosio), ma poi gli eventi presero una
piega differente.
I gruppi partiti da Genova e La Spezia si riunirono alle 6.15 (o 6.30) a
nord di Capo Corso, per poi proseguire in un unico gruppo; alle 8.40 le navi di
Bergamini avvistarono le torpediniere del comandante Imperiali, che si
mantennero in avanguardia lontana come scorta avanzata. Già alle 4.13
l’ammiraglio Bergamini aveva comunicato a tutte le unità «Attenzione agli
aerosiluranti all’alba», ed alle 7.07 ribadì «Massima attenzione attacchi
aerei».
Alle nove del mattino le navi, arrivate nel punto di atterraggio
previsto per fare rotta verso il Golfo dell’Asinara, accostarono a sinistra,
ridussero la velocità a 20 nodi ed assunsero rotta 180°, procedendo a zig zag.
I movimenti della squadra italiana non erano passati inosservati; le
navi italiane furono avvistate e seguite da alcuni ricognitori britannici ed
alle 9.41 furono localizzate anche da un ricognitore della Luftwaffe, uno
Junkers Ju 88, che allertò immediatamente il proprio comando.
Alle 10.29 venne avvistato un altro aereo, anch’esso tedesco, con
conseguente allarme aereo; la velocità della squadra fu portata a 27 nodi, ed
anche le torpediniere si ricongiunsero con il resto della squadra,
dispiegandosi in formazione di battaglia. Temendo un prossimo attacco aereo,
che sarebbe avvenuto senza la minima copertura aerea nazionale, le navi iniziarono
a zigzagare. Alle 10.46 venne avvistato un terzo aereo, identificato come
Alleato, e venne dato ancora l’allarme aereo; alle 10.56 fu avvistato un
ulteriore ricognitore, riconosciuto come britannico. Alle 11, dato che alcune
navi avevano aperto il fuoco col proprio armamento contraereo, l’ammiraglio
Bergamini ordinò a tutte le unità di non aprire il fuoco contro aerei
riconosciuti come britannici o statunitensi.
In tutto, tra le 9.45 e le 10.56, furono quattro gli allarmi aerei
causati dall’avvistamnento di ricognitori che si tenevano fuori tiro; l’ultimo
allarme aereo cessò alle 11, quando si fu accertato che gli aerei avvistati
erano britannici.
A mezzogiorno del 9 settembre, ormai in prossimità delle coste della
Sardegna, l’ammiraglio Bergamini ordinò alla Libra di unirsi alle torpediniere del Gruppo Pegaso, ed a quest’ultimo di passare in scorta ravvicinata; alle
12.04 ordinò di assumere il dispositivo di marcia GE11, ossia una formazione in
linea di fila con il Gruppo torpediniere in testa, seguito nell’ordine dalla
VII, VIII e IX Divisione, con i cacciatorpediniere in scorta ravvicinata sui
lati. Alle 12.05 la squadra italiana, giunta nei pressi delle Bocche di
Bonifacio, stava aggirando un’ampia zona di mare minata (al largo di Golfo di
Porto, in Corsica) per poi raggiungere La Maddalena. Alle 12.10, avvistata
l’Asinara, la formazione accostò di 45° a sinistra per imboccare la rotta di
sicurezza verso l’ingresso occidentale dell’estuario della Maddalena. Le
torpediniere – data la loro maggiore agilità, che meglio consentiva loro di
passare tra i campi minati – erano tornate in testa alla formazione, ed erano
prossime a giungere a destinazione (alle 12.12, il Comando Forze da Battaglia
aveva già comunicato alla Pegaso,
prima nave della fila, "libertà di manovra per entrare in porto") quando
vennero avvistati da bordo numerosi incendi sulla vicina costa della Sardegna.
La radio ad ultracorte della Pegaso
era in avaria fin dalle 9 (o 9.30), pertanto la nave non poteva ricevere
aggiornamenti su quanto stesse accadendo; il comandante Imperiali ipotizzò che
gli incendi potessero essere causati da combattimenti in corso tra truppe
italiane e tedesche, pertanto fece ridurre la velocità, che fino a quel momento
era stata di 22-23 nodi. Più o meno in quel momento (secondo una fonte, le
13.30, ma le 12.30 sembrano orario più verosimile) il semaforo di Capo Testa
iniziò ad eseguire una sequenza di segnali luminosi, comunicando in codice
morse la conferma dei sospetti di Imperiali: il semaforo riferiva infatti che
il presidio della Maddalena stava per essere sopraffatto dalle forze tedesche,
che avevano attaccato gli ex alleati, e diceva alla Pegaso di allontanarsi, non tentare di entrare a La Maddalena
("Fermate! I tedeschi hanno occupato la base!").
Ciò che era accaduto era che il generale Carl Hans Lungerhausen,
comandante della 90a Divisione tedesca di stanza in Sardegna, aveva
concordato con il comandante militare dell’isola, generale Antonio Basso, la
pacifica evacuazione delle sue truppe (32.000 uomini) verso la Corsica,
attraverso il porto di La Maddalena. Il colonnello Uneus, sottoposto di
Lungerhausen, aveva a sua volta preso accordi con l’ammiraglio Bruno Brivonesi,
comandante militare marittimo della Sardegna, affinché il passaggio delle
truppe tedesche attraverso La Maddalena avvenisse senza atti di ostilità (ed in
questo senso, d’altro canto, andavano gli ordini impartiti dal generale Basso
all’ammiraglio Brivonesi); ma alle 11.25 di quel 9 settembre Uneus aveva
tradito l’accordo preso, attuando un colpo di mano con le sue truppe ed
assumendo così il controllo di diverse posizioni chiave all’interno del
perimetro della base. Le truppe tedesche avevano circondato anche il Comando
Marina di La Maddalena; l’ammiraglio Brivonesi, prima di essere catturato,
aveva però fatto in tempo ad avvertire Supermarina di quanto stava accadendo,
ed alle 13.16 Supermarina ne avrebbe a sua volta informato Bergamini,
ordinandogli di fare rotta per Bona (messaggio ricevuto sulla Roma alle 14.24).
La Pegaso invertì subito la
rotta, imitata dalle altre torpediniere, ed Imperiali contattò l’ammiraglio
Bergamini per avvertirlo, ma proprio in quel momento vide che anche la flotta,
distante una decina di miglia, stava già invertendo la rotta.
Poco dopo, la Pegaso fu
raggiunta da un messaggio da Roma che
le ordinava di seguire la squadra da battaglia, cui Supermarina, confermando
che La Maddalena era stata occupata dalle truppe tedesche, aveva ordinato di
dirigersi verso Bona, in Algeria.
Alle 13.21 venne avvistato un altro aereo, riconosciuto per tedesco, e
venne dato l’allarme aereo; le navi accostarono a sinistra per 120°.
Alle 13.29, per attraversare in sicurezza una zona di campi minati,
venne assunta una formazione in linea di fila con in testa il Gruppo
torpediniere seguito, nell’ordine, dalla VII, VIII e IX Divisione e dalla XII e
XIV Squadriglia Cacciatorpediniere. La velocità fu ridotta a 20 nodi, e la
squadra accostò a sinista, assumendo rotta 110°.
Secondo il volume dell’USMM relativo agli eventi seguiti
all’armistizio, alle 13.16 Supermarina, saputo verso le 13 dell’occupazione di
La Maddalena, ordinò alla squadra di Bergamini di dirigere per Bona; tale
messaggio fu ricevuto sulla Roma alle
14.24, ed alle 14.45 la formazione invertì la rotta ad un tempo di 180° sulla
sinistra (accostata eseguita alla velocità di 24 nodi), finendo con l’invertire
l’ordine di marcia precedentemente assunto: ora il gruppo delle torpediniere
era finito in coda, mentre in testa c’era la XIV Squadriglia
Cacciatorpediniere, seguita nell’ordine dalla XII Squadriglia, dalla Libra, dalla IX Divisione, dall’VIII
Divisione e dalla VII Divisione, con le navi ammiraglie o caposquadriglia che
precedevano in coda alle rispettive Divisioni e Squadriglie.
Alle 13.30 fu assunta rotta 65°, per dirigere verso le Bocche di
Bonifacio; alle 14.41 l’ammiraglio Bergamini ordinò per ultracorte a tutte le
unità dipendenti "Accostate ad un tempo di 180° a sinistra", in modo
da ridurre il raggio di evoluzione delle navi ed evitare così di finire sui
campi minati. Alle 14.46 il Comando Forze Navali da Battaglia ordinò di ridurre
la velocità a 18 nodi ed assumere rotta 285°, la rotta di sicurezza che avrebbe
condotto le navi fuori dal Golfo dell’Asinara, dove poi avrebbero accostato
verso sud per raggiungere Bona.
Un ricognitore tedesco, tuttavia, osservò la squadra italiana durante
la manovra d’inversione della rotta; apprezzati i dati relativi alla nuova
rotta e velocità, alle 14.47 li riferì al Comando della II. Luftflotte, retto
dal feldmaresciallo Von Richtofen. Quest’ultimo, avuto così la certezza che la
flotta italiana fosse ora diretta in un porto Alleato, ordinò al
Kampfgeschwader 100 (100° Stormo da Bombardamento) di inviare i bombardieri ad attaccarla:
dall’aeroporto di Istres (nei pressi di Marsiglia), pertanto, decollarono in
tre ondate 28 bombardieri bimotori Dornier Do 217K, undici dei quali appartenenti
al 2° Gruppo del Kampfgeschwader 100 (erano stati trasferiti da Cognac e li
comandava il capitano Franz Hollweck) e 17 al 3° Gruppo del Kampfgeschwader 100
(maggiore Bernhard Jope).
Intanto, la flotta di Bergamini si stava dirigendo a nord dell’Asinara;
all’ammiraglio giungevano le drammatiche notizie degli scontri in corso in
tutti i porti italiani, che si concludevano invariabilmente con la loro caduta
in mano tedesca. Di tornare in Italia, ormai, non c’era più possibilità: non
restava che dirigere su Bona, come ordinato.
Proprio in questi confusi e critici momenti, alle 15.15, si verificò un
nuovo allarme aereo, con l’avvistamento verso ponente di un gruppo di aerei che
si avvicinavano: dopo un minuto questi vennero identificati dalle navi come
“Junker” tedeschi, e la Roma alzò a
riva il segnale "Posto di combattimento pronti ad aprire il fuoco".
Gli aerei avvistati erano gli undici Dornier Do 217 K2 del III. Gruppe
del Kampfgeschwader 100, decollati da Istres ed armati con innovative bombe
plananti radioguidate FX 1400, meglio note come “Fritz X”, precorritrici dei
moderni missili antinave radiocomandati. Un’arma rivoluzionaria, che vedeva qui
uno dei suoi primi impieghi in combattimento: a differenza delle normali bombe
“a caduta”, questi ordigni potevano essere sganciati da un’angolazione di oltre
80 gradi rispetto all’obiettivo (quelle normali non potevano essere invece
sganciate da un’angolazione superiore ai 60 gradi), e poi guidati a distanza da
un operatore che si trovava sull’aereo che li aveva sganciati, mediante impulsi
radio; la loro velocità di caduta era di 300 metri al secondo, molto superiore
rispetto alle bombe “tradizionali”.
Alle 15.37 i primi cinque Do 217K (guidati dal maggiore Bernhard Jope),
volando a 5000-6000 metri di quota, avevano già oltrepassato il punto di angolo
massimo previsto per lo sgancio di bombe a caduta (60 gradi, come sopra detto:
a bordo si ignorava l’esistenza delle “Fritz X”) senza aver sganciato alcunché:
sulle navi italiane, pertanto, si pensava che ormai i bombardieri fossero in
allontanamento, dato che non avrebbero più potuto sganciare bombe con un angolo
tanto elevato. Non avendo gli aerei manifestato “definite azioni ostili”, non
era possibile aprire preventivamente il fuoco contraereo, nell’incertezza sulle
intenzioni degli ex alleati.
Pochi attimi dopo, però, gli aerei iniziarono a sganciare le loro
bombe, mirando soprattutto a colpire le corazzate. La codetta luminosa della
prima bomba venne inizialmente scambiata per un segnale di riconoscimento, ma
subito dopo si comprese che era invece una bomba; venne allora ordinata
l’apertura del fuoco.
Subito la formazione si diradò, manovrando in modo da ostacolare la
punteria dei bombardieri, e venne aperto il fuoco con tutte le armi a
disposizione, alla massima elevazione. Le torpediniere si avvicinarono al
grosso della squadra, sparando con tutte le Mitragliere
per proteggere le navi maggiori, e manovrando in modo da non intralciarne le
manovre evasive. Orione e Libra, che si trovavano in coda ed
avevano problemi all’apparato motore, finirono col perdere il contatto con la Pegaso, che faticava a comunicare con le
unità dipendenti a causa dell’avaria della radio ad ultracorte (era possibile
usare soltanto i radiosegnalatori). Il pur violento fuoco contraereo delle navi
italiane risultava inutile, dato che gli aerei sganciavano le loro bombe
tenendosi fuori tiro, a quota troppo elevata per le armi contraeree delle navi
italiane.
Alle 15.42 la Roma, nave
ammiraglia di Bergamini, venne colpita da una prima bomba: l’ordigno la
raggiunse a poppavia dritta, trapassandone lo scafo ed esplodendo sotto di
esso, aprendo una falla che causò l’allagamento delle motrici poppiere. Ciò
ridusse la velocità e manovrabilità della corazzata, che dieci minuti dopo
venne centrata da una seconda bomba, questa volta a proravia sinistra:
nell’esplosione furono coinvolti i depositi munizioni delle torri prodiere da
381 mm, che eruppero in una catastrofica deflagrazione, proiettando in aria la
torre numero 2 da 381 ed investendo il torrione prodiero con un’enorme fiammata
che uccise l’ammiraglio Bergamini e tutto il suo stato maggiore. Nel giro di
meno di venti minuti, la Roma si
capovolse, si spezzò in due ed affondò, portando con sé 1393 dei 2021 uomini
dell’equipaggio. La Pegaso, impegnata
a fare fuoco con tutte le Mitragliere
contraeree, assistette impotente al tremendo spettacolo.
Poco dopo, anche l’Italia
venne colpita da una FX 1400, ma nel suo caso la bomba, trapassato lo scafo,
esplose in mare limitandosi ad aprire una falla; la corazzata imbarcò ottocento
tonnellate d’acqua, ma fu in grado di proseguire. Intanto, le navi della
squadra eseguivano continue evoluzioni per confondere la mira dei bombardieri.
Alle 16.09 (per altra fonte, le 16.40) l’ammiraglio Oliva, che aveva
assunto il comando dopo la morte di Bergamini, ordinò al comandante Imperiali
di recarsi sul luogo dell’affondamento della Roma per provvedere al salvataggio dei naufraghi («Date assistenza
nave colpita»). La Pegaso invertì
dunque la rotta e raggiunse il punto in cui la Roma s’era inabissata, seguita da Orsa ed Impetuoso; le
altre torpediniere del gruppo avevano ormai perso il contatto col
caposquadriglia, e non rispondevano più alle chiamate. Proseguirono insieme al
resto della squadra da battaglia, che proseguiva verso Bona in ordine sparso.
Prima delle torpediniere (che giunsero sul posto per ultime, essendo
arretrate in coda alla formazione), già il Regolo
ed i cacciatorpediniere Carabiniere, Mitragliere e Fuciliere erano stati distaccati per il soccorso ai naufraghi della
Roma; quando le tre navi di Imperiali
giunsero sul posto, la maggior parte dei superstiti erano stati già recuperati
da queste unità. Pegaso ed Orsa recuperarono in tutto 55 naufraghi,
mentre l’Impetuoso ne trasse in salvo
47 da sola; molti erano feriti od ustionati dalla tremenda deflagrazione.
Alle 18.15 il capitano di vascello Giuseppe Marini (comandante del
gruppo formato da Regolo, Carabiniere, Mitragliere e Fuciliere)
assunse il comando di tutte le unità impegnate nel recupero dei naufraghi e
diede libertà di manovra alle navi di Imperiali, che non avrebbero potuto
raggiungere le sue, essendo meno veloci. Poi, diresse verso nord con Regolo e cacciatorpediniere.
Terminato il salvataggio degli ultimi naufraghi intorno alle 18, le
torpediniere ispezionarono attentamente l’area per sincerarsi che non vi
fossero più uomini in mare, dopo di che, notando di essere rimaste isolate,
fecero rotta verso nordovest, con l’intento di riunirsi alla squadra, che
avevano visto per l’ultima volta mentre si allontanava in tale direzione (che
era peraltro la stessa direzione verso la quale si era diretto anche il gruppo
formato da Regolo e XII Squadriglia
una volta ultimato il salvataggio dei naufraghi della Roma).
In questo frangente, alle 19, le tre torpediniere furono avvistate da
un’altra formazione di aerei tedeschi, caccia e bombardieri: questi passarono
all’attacco e ricominciò un altro scontro tra navi e aerei, protrattosi fino
alle 20.30. I caccia scendevano in picchiata mitragliando le navi, mentre i
bombardieri sganciavano le loro bombe radioguidate; le navi di Imperiali
reagivano con tutte le armi di bordo e con ininterrotte evoluzioni e manovre
evasive. Non riuscendo le centrali di tiro a stare al passo con una situazione
tanto confusa, i mitraglieri puntavano a vista.
Le bombe sganciate, probabilmente delle bombe razzo Henschel Hs 293
(poco più piccole di un aereo da caccia: per questo, e per i loro movimenti che
seguivano il bersaglio, vennero inizialmente scambiate proprio per dei caccia
intenzionati a mitragliare le navi), venivano sganciate da circa 3000 metri di
quota, scendevano in picchiata e cadevano vicinissime agli scafi, sollevando
enormi spruzzi che ricadevano a bordo delle navi: le onde sollevate da queste
esplosioni erano tanto enormi che l’acqua, riversatasi sulla coperta, entrava
nelle maniche a vento e nei turboventilatori e scendeva così fino nei locali
caldaie. Qui entrava in contatto con le superfici roventi delle caldaie,
trasformandosi in parte in vapore, che tramutava i locali caldaia in “un bagno
turco”, dove nemmeno più era possibile leggere i manometri. Finito ogni
attacco, l’ambiente ridiventava vivibile, ma poi si ricominciava da capo.
La Pegaso, con improvvise
accostate a dritta e sinistra e con inversioni di marcia a tutta forza, evitò
due bombe che caddero in mare a pochi metri di distanza. Più volte ognuna delle
torpediniere venne praticamente sfiorata dalle bombe, nonostante le navi manovrassero
continuamente a tutta forza e con tutto il timone, ma mai nessuna le colpì in
pieno. Contemporaneamente al lancio delle bombe-razzo, si svolgevano anche
attacchi di bombardieri convenzionali e caccia.
A bordo si lottava disperatamente per rispondere al fuoco e non essere
colpiti; i motoristi non impegnati accorrevano in coperta per assistere
cannonieri e mitraglieri, rifornendoli di munizioni. Sulla Pegaso si ebbe anche a verificare un episodio che sfiorava
l’assurdo: sulla torpediniera, recentemente munita di una nuova mitragliera
contraerea quadrinata di produzione tedesca (una “Flakvierling”), si trovavano
anche quattro militari tedeschi addetti a tale mitragliera; questi si erano
così venuti ora a trovare su una nave nemica, sotto attacco da parte dei loro
stessi connazionali. E pur di non essere affondati, aiutarono anche loro nella
difesa della nave, sparando con quell’arma tedesca sui loro compatrioti.
Un aereo puntò sulla Pegaso,
ed un mitragliere gli puntò contro la sua arma, lasciando partire dapprima
alcuni colpi traccianti, che andarono subito a segno, e poi una raffica, che
centrò la cabina di pilotaggio: il velivolo s’incendiò e precipitò in mare,
così vicino alla nave da far temere che sarebbe caduto a bordo; quando impattò
contro la superficie, a meno di 50 metri di distanza, lo spostamento d’aria fu
tale che alcuni, sulla torpediniera, credettero che la nave fosse stata
colpita.
Durante l’attacco, Pegaso ed Impetuoso stimarono di aver abbattuto
tre o quattro velivoli tedeschi tra tutt’e due, mentre l’Orsa rivendicò due abbattimenti. Alle 20.30, infine, gli aerei
conclusero l’attacco e si allontanarono verso la costa francese; le
torpediniere avevano subito solo danni lievi e qualche ferito, anche se in poco
più di un’ora avevano dovuto sparare più di metà delle loro munizioni.
Nel frattempo, alle 19.21, Supermarina aveva comunicato alla Pegaso che «Tedeschi stanno entrando Roma
alt Stazione r.t. San Paolo occupata alt Prevedo eventualità non poter più
esercitare comando alt». La torpediniera intercettò inoltre comunicazioni radio
dalle quali si apprese che truppe tedesche stavano occupando tutti i porti
della costa tirrenica.
Terminato l’attacco, il comandante Imperiali ordinò di aumentare la
velocità e di assumere rotta verso ovest: stava per calare l’oscurità, ed era
sua intenzione allontanarsi dalla costa corsa prima che gli aerei tedeschi
potessero tornare ad attaccare. Vi fu uno scambio di messaggi radio tra Pegaso, Orsa ed Impetuoso; l’Impetuoso riferì di aver subito solo
danni leggeri, e di essere in grado di proseguire senza problemi, mentre l’Orsa comunicò che aveva carburante solo
per dieci ore di navigazione.
Imperiali intendeva riunirsi al grosso della squadra; ordinò al
radiotelegrafista di tentare di contattare l’Eugenio di Savoia (nave di bandiera dell’ammiraglio Oliva) e
Supermarina, ma non ci fu nessuna risposta. Ne trasse la conclusione che
Supermarina non fosse più in grado di dare ordini, o che la VII Divisione non
necessitasse più delle sue torpediniere, o che Supermarina e squadra da
battaglia stessero comunicando tra loro, con messaggi indecifrabili per la Pegaso. Presumendo che la squadra si
trovasse più a settentrione, le tre torpediniere assunsero rotta nord.
Infine qualcuno rispose alla radio, ma non chi ci si aspettava: si
trattava del cacciatorpediniere Ugolino
Vivaldi, finito in un campo minato a sud di Bonifacio (nel quale era
affondato il gemello Antonio Da Noli)
e seriamente danneggiato dal tiro delle batterie costiere cadute in mano
tedesca, che chiedeva aiuto.
Già durante l’ultimo attacco aereo, prima delle 20, il comandante
Marini del Mitragliere aveva ordinato
alla Pegaso di andare in soccorso dei
Vivaldi presso Capo Fenu. In realtà
Marini, contattato dal Vivaldi che
chiedeva aiuto, ed avendo al contempo avvistato un cacciatorpediniere classe
Navigatori che credeva essere il Da Noli
(del cui affondamento non era al corrente) quando invece era il Vivaldi, aveva frainteso il significato
del messaggio e “scambiato” i due cacciatorpediniere; a Capo Fenu non c’era il Vivaldi, bensì i naufraghi del Da Noli, che là era affondato. Ma la Pegaso non sapeva dell’affondamento del Da Noli, e cercava una nave bisognosa di
aiuto, e non dei naufraghi; finito l’attacco, aveva diretto verso Capo Fenu,
poi aveva dovuto mutare rotta per nord-nord-ovest per ragioni di sicurezza, ed
allora era giunto in contatto con il vero Vivaldi.
La posizione indicata dal Vivaldi
era vaga, ed i rischi notevoli: la luna illuminava notevolmente il mare,
agevolando l’avvistamento da parte di altri eventuali aerei tedeschi; dopo aver
brevemente ponderato la situazione, il comandante Imperiali decise di tentare
ugualmente, e fece invertire la rotta. Passarono solo pochi minuti, tuttavia,
prima che venisse avvertito il rumore di aerei in avvicinamento: totalmente
oscurate, le torpediniere diressero nuovamente verso nord, assumendo una
formazione che meglio permettesse la difesa. Dopo aver tentato più volte di
avvicinarsi, senza risultato, gli aerei desistettero e si allontanarono. Poco
dopo, le torpediniere furono raggiunte da un nuovo messaggio del Vivaldi, che annunciava di essere ancora
a galla e di riuscire a sviluppare una velocità di 7 nodi, che gli avrebbe
permesso di portarsi in costa; vedendo il Vivaldi
navigare verso ovest, Imperiali ritenne che il cacciatorpediniere fosse in
grado di cavarsela da sé e, in considerazione dei continui attacchi aerei (che
durarono fino a notte fatta), decise allora di abbandonare il tentativo di
soccorso e di tornare a cercare il resto della squadra (che, a sua insaputa,
stava dirigendo verso Bona).
(Per altra versione, la Pegaso
stava invece cercando proprio i naufraghi del Da Noli, ma vedendo il Vivaldi
navigare verso ovest, il comandante Imperiali ritenne che questi fosse in
condizioni tali da poter provvedere al salvataggio dei naufraghi).
L’Orsa aveva quasi esaurito
il carburante, ed alle 20.30, per non ritrovarsi immobilizzata in mare aperto,
dovette separarsi dalle altre due torpediniere e dirigere, per decisione del
suo comandante, verso l’arcipelago spagnolo delle Baleari, il territorio
neutrale più vicino (sarebbe giunta a Pollença, nell’isola di Maiorca, alle
10.23 del 10 settembre).
Pegaso ed Impetuoso, rimaste sole, vagarono nel
buio senza certezza sul da farsi: i porti dell’Italia meridionale erano ora in
mano agli Alleati, i nemici di ieri, mentre il resto della Penisola era
occupato dai tedeschi, che da alleati si erano trasformati nei nuovi nemici. Né
Imperiali né Cigala Fulgosi conoscevano le clausole dell’armistizio, e dunque
non sapevano bene chi ormai si potesse considerare come amico, quale porto
fosse sicuro; le ripetute richieste di ordini via radio rimanevano inascoltate,
nessuna notizia sulla sorte della squadra da battaglia. I due comandanti non
sapevano cosa fare, né dove andare. Venne intercettato un messaggio
dell’ammiraglio britannico Andrew Browne Cunningham relativo all’armistizio, ma
ad Imperiali e Cigala Fulgosi esso parve un invito a consegnare le navi,
inaccettabile alla luce di quanto detto da Bergamini il giorno prima.
Infine, all’1.30 di notte del 10 settembre, sentito il parere di Cigala
Fulgosi ("Pippo [nomignolo di Cigala Fulgosi, da Giuseppe] che
facciamo?") che propendeva per dirigere alle Baleari, sbarcare naufraghi
ed equipaggio e poi autoaffondarsi, Imperiali decise di puntare verso le
Baleari ("Andiamo a Palma, metti a 25 nodi"), dove almeno si poteva
presumere che non si sarebbe ricevuta accoglienza ostile.
Pegaso ed Impetuoso, come pure l’Orsa prima di loro, non erano le uniche
navi italiane in navigazione verso l’arcipelago spagnolo: anche Regolo, Mitragliere, Fuciliere e Carabiniere, ultimato il recupero dei
naufraghi della Roma, avevano diretto
verso quelle isole. La motivazione di tale decisione era la stessa delle
torpediniere: impossibilità di contattare Supermarina e la VII Divisione per
avere ordini, assottigliamento delle scorte di carburante e pertanto
dell’autonomia, intercettazione di messaggi di Supermarina dai quali risultava
l’impossibilità di raggiungere un porto italiano per sbarcare i feriti, e conseguente
necessità di raggiungere il prima possibile la terra neutrale più vicina per
sbarcarvi i feriti gravi (che abbisognavano di urgenti cure mediche per i quali
i mezzi di bordo non bastavano). Nessuno dei due gruppi, tuttavia, era in quel
momento a conoscenza della presenza dell’altro.
La navigazione verso ovest di Pegaso
ed Impetuoso si svolse senza che si
verificassero altri attacchi od eventi di rilievo; i due comandanti, che si
consultavano di frequente via radio, cercarono ripetutamente di contattare
Supermarina, a Roma, ma senza risultato. Finirono col concludere che anche la
sede di Supermarina fosse ormai stata occupata dai tedeschi, e che tale Comando
avesse pertanto cessato ogni attività.
Rammentando quanto Bergamini gli aveva detto in merito alla possibilità
di doversi autoaffondare, Imperiali giunse alla conclusione che proprio
l’autoaffondamento rappresentasse ormai l’unica soluzione attuabile. Alle 4.13
l’Impetuoso tentò per un’ultima volta
di contattare Roma per chiedere
ordini; una volta di più, Roma
ricevette ma non rispose. La decisione dei due comandanti divenne così
definitiva: Pegaso ed Impetuoso avrebbero raggiunto la baia di
Pollença, nell’isola di Maiorca, e qui avrebbero richiesto le ventiquatt’ore di
tempo che le convenzioni internazionali accordavano alle navi da guerra di
nazioni belligeranti come tempo massimo di sosta in un porto neutrale; sbarcati
feriti e naufraghi della Roma,
avrebbero mollato nuovamente gli ormeggi e si sarebbero portate in acque
profonde, per poi autoaffondarvisi. Se si fossero lasciati internare, come
sarebbe avvenuto nel caso di una sosta che si fosse protratta oltre le
ventiquattr’ore, il timore era che prima o poi le autorità spagnole avrebbero
finito col consegnare le loro navi ad uno dei belligeranti. Imperiali e Cigala
Fulgosi non digerivano la prospettiva di vedere le loro navi entrare in
servizio per conto degli ex nemici angloamericani, e meno che mai di vederle
finire in mano tedesca, dopo quello che i tedeschi avevano fatto.
Né gli Alleati né i tedeschi le avrebbero avute: Pegaso ed Impetuoso
sarebbero finite in fondo al mare.
Alle 7.37 del 10 settembre, durante la navigazione verso le Baleari,
Supermarina fece improvvisamente sentire la sua voce, dopo tante ore di
silenzio e di chiamate ignorate (evidentemente, dedusse Imperiali, i suoi
messaggi precedenti non erano stati ricevuti): l’alto Comando della Regia
Marina chiedeva notizie. Il messaggio ricevuto da Supermarina non comprendeva
però la parola convenzionale «Milano», aggiunta al termine di tutti i messaggi
di Supermarina, come comunicato via radio da tale Comando alle 11.24 del 9
settembre ("Non eseguite eventuali ordini di dirottamento se nel
testo non figura la parola convenzionale MILANO"), per permettere ai
comandanti di essere certi che il messaggio provenisse davvero da Supermarina e
non fosse invece un messaggio fasullo inviato dal nemico. Imperiali, pertanto,
si limitò a rispondere alle 7.50 «sono con Impetuoso
pregasi dare ordini», senza rivelare nulla circa la propria posizione o
destinazione, proseguendo intanto verso le Baleari. Proprio in quell’ora venne
avvistato dalle torpediniere un ricognitore della Luftwaffe, il che fece
sorgere il timore di un nuovo attacco aereo.
Alle 8.37 Supermarina tornò a farsi sentire, con ordine che portava
come orario di compilazione le 7.50 (quindi si era incrociato con la richiesta
di ordini trasmessa dalla Pegaso alla
stessa ora), e che recitava: «Con naufraghi dirigete Bona dove troverete nave
ospedale italiana alt Arrivate nelle ore diurne alt. Milano». Stavolta la
parola convenzionale c’era, ma questo ordine improvviso, dopo un silenzio tanto
prolungato e tante richieste rimaste senza risposta, destò più di un dubbio
nella mente di Imperiali e Cigala Fulgosi, soprattutto alla luce del messaggio
di Supermarina delle 19.21 del giorno precedente – l’ultimo messaggio di
Supermarina ricevuto prima del lungo silenzio durato tutta la sera e la notte –
nel quale si diceva che la stazione radio di San Paolo era caduta in mano
tedesca. I due comandanti erano quindi incerti se quello appena ricevuto fosse
davvero un messaggio di Supermarina, oppure un falso messaggio inviato dal
nemico per trarre in inganno le due torpediniere; tra queste considerazioni ed
il fatto che ormai le navi erano già giunte nelle acque territoriali delle
Baleari, al largo di Minorca, ed i feriti a bordo necessitavano di cure mediche
al più presto, Imperiali e Cigala Fulgosi decisero di proseguire verso Pollença,
nell’isola di Maiorca. Durante le ultime ore di navigazione, un incrociatore
britannico seguì a distanza le due torpediniere; la Pegaso intercettò un telegramma circolare di Supermarina compilato
alle 10, che informava tutte le navi che Genova, Civitavecchia, Livorno, La
Maddalena e Tolone erano state occupate dai tedeschi, ed ordinava quindi di non
approdarvi.
Alle 11.15 (o 11.50) di quel 10 settembre Pegaso ed Impetuoso
entrarono infine nella rada di Pollença; qui trovarono ad attenderle l’Orsa, approdata meno di un’ora prima
dopo la sua navigazione solitaria con il carburante agli sgoccioli.
Quest’ultima si era ormeggiata tra la spiaggia di Pollença e la piccola isola
di Formentor, mentre Pegaso ed Impetuoso preferirono restare in acque
più profonde, segnalando alle autorità locali che sostavano a causa di avarie.
L’incrociatore britannico si tenne al largo della baia, subito oltre il limite
delle acque territoriali, incrociando avanti e indietro dinanzi all’ingresso
del golfo di Pollença.
Non appena le navi si furono ancorate, il comandante Imperiali convocò
a rapporto sia Cigala Fulgosi che Del Pin; quest’ultimo riferì di aver già
domandato alle autorità spagnole di potersi rifornire di acqua e carburante per
poter ripartire, e di essere in attesa di una risposta, ma che probabilmente la
richiesta non sarebbe stata soddisfatta in tempi brevi. Suo proposito era di
tergiversare per poter prorogare la sua sosta oltre le ventiquatt’ore, senza
essere internato, in attesa di capire come evolvevano gli eventi; ma Pegaso ed Impetuoso, che avevano ancora carburante sufficiente per poter
raggiungere un porto italiano e non avevano danni tali da impedire loro di
navigare, non potevano sperare di poter accampare simili pretesti. Scadute le
24 ore, le alternative erano solo la partenza o l’internamento.
Il comandante Imperiali non provò nemmeno a tergiversare; alle autorità
spagnole, richiese soltanto le ventiquattr’ore di sosta in rada previste dalle
convenzioni internazionali, nonché il permesso di sbarcare naufraghi della Roma ed il ricovero in ospedale dei
feriti. Suo reale intento, ovviamente tenuto nascosto, era di autoaffondarsi
una volta che i naufraghi fossero stati messi al sicuro; allo scopo di
agevolare l’autoaffondamento, anzi, riferì alle autorità spagnole un numero di
naufraghi superiore a quello reale, in modo da poter sbarcare insieme ad essi
anche parte degli equipaggi di Pegaso
ed Impetuoso. Imperiali e Cigala
Fulgosi esaminarono al lungo tutte le possibilità, ma la scelta era tra farsi
internare, autoaffondarsi od andarsene prima dello scadere delle
ventiquattr’ore. In quest’ultimo caso, la scelta sarebbe stata tra il rientro
in un porto italiano occupato dai tedeschi, del tutto improponibile, e
l’ubbidienza all’ordine di Supermarina di andare a Bona ed arrendersi ai
britannici (ordine ritenuto dai comandanti di dubbia autenticità, per i motivi
sopra accennati, e per giunta inaccettabile perché – si credeva – avrebbe
comportato la consegna delle navi: Imperiali e Cigala Fulgosi non sapevano che
le navi avrebbero mantenuto equipaggi e bandiera italiana). In caso d’internamento,
come già detto, era opinione comune che le autorità spagnole, troppo deboli
politicamente e militarmente per restare davvero neutrali, avrebbero finito col
cedere le navi ad una delle fazioni belligeranti dietro pressioni diplomatiche
esterne, prospettiva anch’essa inaccettabile.
Circondati da nemici e privi di ogni aiuto da parte spagnola, i due
comandanti non vedevano altra via d’uscita onorevole che l’autoaffondamento.
Nemmeno questa soluzione era del tutto priva di problemi, tuttavia:
Imperiali e Cigala Fulgosi non conoscevano le condizioni dettagliate
dell’armistizio, e la disubbidienza dell’ordine di andare a Bona, se questo
davvero fosse stato il volere di Supermarina e degli Alleati, avrebbe potuto
avere ripercussioni negative per l’Italia. A questo scopo, i due comandanti
idearono una scappatoia che avrebbe potuto all’occorrenza giustificare
l’autoaffondamento delle navi: esagerando l’entità delle modeste avarie subite
durante gli scontri con gli aerei tedeschi, le ingigantirono fino a farle
sembrare di una tale portata da impedire alle torpediniere di proseguire per
Bona; venne dunque redatto un telegramma per Supermarina da lanciare al momento
di autoaffondarsi, nel quale si spiegava che «Causa gravi avarie riportate in
combattimenti e dati avvistamenti Pegaso
e Impetuoso impossibilitati
proseguire missione autoaffondati fuori acque territoriali Maiorca ore 05.00
dell’11 alt Naufraghi dirigono Pollensa». Il telegramma venne poi lanciato
dalla Pegaso alle 5.03 dell’11
settembre, anche se non sembra essere mai stato ricevuto da alcuno.
Le autorità spagnole accordarono soltanto il permesso di sbarcare i
feriti gravi, mentre quelli lievi ed i naufraghi illesi della Roma dovettero restare a bordo. Così fu
fatto, durante il giorno, e tra la mezzanotte e le due di notte dell’11
settembre 1943 (altra fonte indica le 3-3.30), subito dopo il tramonto della
luna, Pegaso ed Impetuoso mollarono gli ormeggi e si portarono, a lento moto e con
le luci di navigazione spente, verso l’uscita della baia, nel massimo silenzio.
Alcune ore prima, il comandante Imperiali aveva radunato tutto
l’equipaggio sulla prua della Pegaso,
annunciando la decisione di autoaffondare la nave; aveva concluso dicendo:
"Io prendo tutta la responsabilità di questa dolorosa decisione,
preparatevi all’amaraggio [sic] con l’ausilio di tutti i mezzi di salvataggio
possibili, con il buio salperemo l’ancora e ci porteremo al largo nella baia,
tutti dovrete essere in acqua prima delle 24.00".
L’Orsa, invece, non intendeva
autoaffondarsi: il suo comandante ancora sperava di riuscire a farsi
procrastinare il periodo di sosta (non fu così: avuto dapprima l’ordine di
spostarsi a Palma per rifornirsi di carburante, cosa che non poté fare, l’Orsa era in procinto di partire quando
ebbe ordine dalle autorità spagnole di trasferirsi a Mahon, nell’isola di
Minorca, seguito da altri ordini e contrordini; per tenere in funzione i
generatori finì con l’esaurire il poco carburante rimasto, così rimase bloccata
a Maiorca e vi fu internata).
Pegaso ed Impetuoso si portarono al centro della
baia di Pollença, ad un paio di miglia dalla costa, dopo di che Imperiali diede
ordine di fermarsi, e mettere a mare tutte le lance e le zattere Carley di
salvataggio, tranne una; sulle imbarcazioni furono fatti salire i (pochi)
naufraghi non feriti della Roma che
erano rimasti a bordo, e parte degli equipaggi delle torpediniere non
indispensabili per l’autoaffondamento. Il resto degli equipaggi, non potendo
trovare posto sulle imbarcazioni, fu fatto saltare in mare con i salvagente
indossati; alcuni si aggrapparono poi alle scialuppe, altri salirono su zattere
improvvisate, realizzate nelle ore precedenti utilizzando porte ed altro
materiale prelevato da bordo, altri ancora si misero semplicemente a nuotare in
direzione della costa. In tutto, erano più di 300 o 400 uomini, tra gli
equipaggi delle due le navi ed i naufraghi illesi della Roma rimasti a bordo (alcune fonti spagnole parlano addirittura di
624 uomini, ma questo appare un numero eccessivo).
A bordo della Pegaso rimasero
in tutto 17 uomini, tra cui il comandante Imperiali e due macchinisti, Alfredo
Capozzi e Riccardo Baiolla, i quali avevano il compito di aprire le
saracinesche delle prese a mare; sull’Impetuoso
rimasero dieci o undici uomini, compresi il comandante Cigala Fulgosi e due
macchinisti con lo stesso compito dei loro colleghi della Pegaso. Era il personale strettamente necessario per l’ultimo
tratto della breve navigazione verso il largo. Prima di separarsi, un ufficiale
della Pegaso raccomandò di nascosto
ad alcuni degli uomini che dovevano restare a bordo nell’ultimo tratto, temendo
che il comandante potesse decidere di seguire la sorte della sua nave: “Se il
comandante Imperiali dovesse cercare di morire con la nave, dategli un colpo in
testa ma portatelo vivo a terra”.
Le due torpediniere proseguirono poi in linea di fila nella navigazione
verso il mare aperto, percorrendo le ultime miglia della loro “vita” verso il
luogo prescelto per il loro “suicidio”, nel canale tra Maiorca e Minorca. Le
imbarcazioni di salvataggio, cariche al massimo e con gruppi di marinai in
acqua aggrappati ai bordi, dirigevano intanto verso la costa.
Quando Pegaso ed Impetuoso furono giunte in un punto del
Canale di Minorca nel quale, stando alle carte nautiche, la profondità superava
i cento metri (garantendo l’impossibilità di qualsiasi tentativo di recupero),
arrestarono le macchine una volta per tutte, fermandosi a poco più di 500 metri
l’una dall’altra. Le due torpediniere si trovavano ad una decina di miglia
dalla costa, tra le penisole di Formentor e di La Victòria, nella parte
settentrionale di Maiorca.
Gli ufficiali provvidero a distruggere i brogliacci di plancia e della
sala radio e tutti i documenti segreti (cifrari e documenti importanti furono
portati in caldaia e bruciati), prelevarono il denaro rimasto in cassa e fecero
alzare la bandiera di combattimento sul pennone più alto; dopo di che, tra le
cinque e le sei del mattino, vennero aperte tutte le prese a mare, le
saracinesche e le valvole Kingston, per dare inizio agli allagamenti. Per
agevolare l’autoaffondamento, i macchinisti lasciarono in funzione le pompe per
il travaso di tutto il carburante nei serbatoi di sinistra, allo scopo di
provocare un rapido e forte sbandamento, ed aprirono tutti gli oblò di poppa, in
modo che l’acqua vi potesse entrare non appena lo scafo si fosse abbassato a
sufficienza sul mare.
Infine, venne dato l’ordine di abbandonare la nave.
Le bandiere furono lasciate dov’erano: Pegaso e Impetuoso
sarebbero affondate con la bandiera di combattimento al picco.
I comandanti Imperiali e Cigala Fulgosi furono gli ultimi ad
abbandonare le loro navi, prendendo posto con i pochi uomini rimasti nelle
ultime due scialuppe tenute a bordo. Il macchinista Riccardo Baiolla, dopo aver
aperto le saracinesche di presa a mare della Pegaso, prese con sé e portò sulla lancia anche Mascherino, la
mascotte della torpediniera, un cane dal folto pelo nero che si era “unito”
all’equipaggio della torpediniera a Ceuta, durante la guerra civile spagnola, e
da allora era rimasto a bordo, seguendola in tutte le sue peripezie in quattro
anni di guerra.
Siccome la motolancia della Pegaso,
mandata dell’Arsenale di La Spezia per riparazioni, era rimasta a terra alla
partenza da La Spezia, le due imbarcazioni avrebbero dovuto remare per diverse
ore prima di poter tornare a riva. Ben presto iniziò a piovere a dirotto.
Un gruppo di ufficiali e marinai radunati a poppa della Pegaso poco prima dell’autoaffondamento, nel pomeriggio del 10 settembre 1943. Al centro, in tuta bianca, il direttore di macchina, capitano del Genio Navale Marino Iseppi; alla sua destra, con il binocolo al collo, il sottotenente di vascello Mario Pradelli (Arch. Ferrentino, via www.piombino-storia.blogspot.com) |
Poco distante, nei pressi di Capo Formentor (che delimita verso nord la
baia di Pollença), il piccolo peschereccio dei Cifre Morro, pescatori di
aragoste maiorchini, languiva all’ancora in attesa che venisse il momento di
salpare le nasse per le aragoste, messe a mare il giorno precedente. Il sole
stava sorgendo quando il venticinquenne Antoni Cifre Morro, di guardia in
coperta, notò qualcosa d’insolito verso il largo: in un tratto di mare dove di
solito non si vedeva mai nulla, si trovavano ora una nave da guerra e quello
che sembrava un sommergibile, del quale si vedeva la torretta (in realtà era
l’altra torpediniera, che stava affondando più rapidamente ed era pertanto più
bassa sull’acqua: la “torretta” era in realtà la sovrastruttura prodiera,
mentre lo scafo non si vedeva perché già sommerso quasi del tutto). Antoni
svegliò il padre, ed entrambi si accorsero con apprensione che le due navi si
trovavano proprio dov’erano situate le loro nasse; all’improvviso l’unità che
sembrava un sommergibile levò la prua in alto, verticalmente, verso il cielo,
ed i due pescatori si resero conto che si trattava di una nave in affondamento.
Dopo essere rimasta immobile in quella strana posizione per un tempo che parve
infinito, la nave s’inabissò tra bolle e spruzzi, emettendo un suono che pareva
quello di una bestia in agonia.
Salpata l’ancora e messo in moto (la nave era affondata proprio sopra
le loro nasse), il peschereccio si precipitò verso il punto dell’affondamento;
durante il breve tragitto, padre e figlio videro anche l’altra nave appopparsi
improvvisamente, sollevare la prua verso il cielo ed affondare anch’essa tra
gli assordanti rumori prodotti dall’aria che sfuggiva dallo scafo invaso
dall’acqua.
Dalla scialuppa della Pegaso,
il sottocapo meccanico Alfredo Capozzi, che aveva aperto le valvole nei locali
caldaie, vide la sua nave abbassarsi sull’acqua, rovesciarsi sul lato sinistro
ed iniziare ad affondare di poppa. Mentre la prua usciva dall’acqua, il ponte
di coperta cedette con un forte lamento all’altezza del cannone di prua, dopo
di che la Pegaso colò rapidamente a
picco. Il comandante Imperiali, assistendo alla scena dalla lancia, si rizzò in
piedi e salutò la sua nave, un commovente saluto al quale si unirono anche gli
altri uomini della Pegaso presenti
sul battello.
L’orario dell’affondamento è indicato, a seconda delle fonti, nelle
cinque o nelle 7.20 del mattino. Il cedimento della prua era probabilmente
dovuto alla collisione con l’Antilope
dell’aprile precedente ed ai successivi lavori di sostituzione, che facevano di
quella parte il punto più debole dello scafo. Riccardo Baiolla aveva tenuto il
conto del tempo: dall’apertura delle prese a mare al momento in cui la Pegaso era affondata erano trascorsi 56
minuti.
L’Impetuoso affondò poco dopo
la Pegaso, anch’essa di poppa.
La superficie del mare era agitata dalle enormi bolle d’aria
fuoriuscite dagli scafi delle due navi in affondamento; sulle due lance, i
ventotto naufraghi guardavano la scena con occhi lucidi, in silenzio, come ad
un funerale. Così se ne andava, per sempre, quella che per mesi o anni era
stata la loro casa, cui la loro sorte era stata indissolubilmente legata nei
pericoli della guerra: veterana di tante rischiose missioni, la Pegaso; ancora nuova di zecca l’Impetuoso, vissuta appena tre mesi.
Il peschereccio dei Cifre Morro, giunto sul posto, prese a rimorchio la
scialuppa con i 17 naufraghi della Pegaso.
Dato che alcuni di quei marinai erano sardi della zona di Alghero, il cui
dialetto era una variante della lingua catalana parlata anche nelle Baleari,
questi furono perfettamente in grado di parlare con i due pescatori maiorchini,
che offrirono anche dei fichi ai marinai italiani. Molti di questi ultimi,
ricordò decenni dopo Antoni Cifre Morro, mugugnavano tra loro, criticando la
scelta di autoaffondarsi presa dai loro comandanti; era un peccato, dicevano,
mandare a fondo due navi ancora nuove, e soprattutto gettare ai pesci tutte le
provviste che erano a bordo, con la fame che regnava in quei tempi.
Il resto degli equipaggi, che erano stati fatti scendere in acqua in
precedenza, più vicino alla costa, stava intanto anch’esso tornando a terra. Molti
marinai, quelli scesi direttamente in acqua, impiegarono quattro o cinque ore
per raggiungere la riva a nuoto; nuotando nel buio, cercavano di restare uniti
e di tanto in tanto si chiamavano per nome, per essere sicuri che nessuno fosse
rimasto indietro. C’era una leggera brezza marina, che rinfrescava un po’
l’aria, ma il mare era calmo. Tutta la baia di Pollença, da un’estremità
all’altra, pullulava di teste di uomini che nuotavano verso la riva.
Molti giunsero a riva stremati, come il macchinista Nicola Ferrentino
della Pegaso, che venne issato dall’acqua
da due soldati coloniali spagnoli, i quali riuscirono a tirarlo fuori dal mare
solo al secondo o terzo tentativo, tanto era fradicio e sfinito. Altri marinai
non riuscirono proprio a nuotare fino a riva, rimasero in mare per tutta la
notte e furono recuperati all’alba da barche spagnole. Inizialmente era sorto
anche un pericoloso equivoco: i militari spagnoli, vedendo i primi uomini
arrivare a terra nel buio della notte, avevano temuto che fosse in atto uno
sbarco di truppe anfibie ed avevano aperto il fuoco sui naufraghi, ma
fortunatamente alcuni marinai algheresi riuscirono a gridare loro in catalano
che si trattava di naufraghi (“tripulacio, tripulacio”, cioè “equipaggio,
equipaggio”), e di non sparare. Nessuno fu ferito, ed anzi i militari iniziarono
ad aiutare i naufraghi.
In un modo o nell’altro, tutti gli uomini della Pegaso (140 tra sottufficiali e marinai, più una decina di
ufficiali) giunsero a terra sani e salvi. Le due lance con i comandanti e gli
uomini che avevano provveduto all’autoaffondamento raggiunsero la riva per
ultime, nel pomeriggio dell’11 settembre.
L’accoglienza riservata dalle autorità spagnole ai naufraghi italiani
non fu comunque delle più calorose. Inizialmente, gli uomini di Pegaso ed Impetuoso furono internati per una settimana nei pressi dell’hangar
della base idrovolanti di Pollença; mentre i quattro militari tedeschi
aggregati all’equipaggio della torpediniera erano stati comodamente alloggiati
a parte in una casetta di Pollença (ed in generale il trattamento loro riservato
fu nettamente migliore), gli italiani furono lasciati a dormire a cielo aperto,
sulla nuda terra.
Trascorsa la prima settimana, venne disposto il trasferimento dei
naufraghi, ormai internati in qualità di militari di Paese belligerante in una
nazione neutrale; i primi ad essere trasferiti furono gli uomini della Pegaso, che vennero caricati su
autocarri con scorta armata ed inviati a Col de Ribas (o Soller), a sette
chilometri da Palma di Maiorca. Qui furono sistemati in un capannone-caserma
dell’aeronautica spagnola, in prossimità di una base aerea (l’aerodromo di Son
San Joan), dove languirono per i successivi cinque mesi. Vi era una certa
libertà di movimento (gli internati dovevano rientrare in caserma per dormire,
ma durante il giorno potevano muoversi liberamente nei dintorni), ma la razione
giornaliera bastava appena a sopravvivere; i cucinieri spagnoli distribuivano a
ciascuno pochi mestoli di vitto, ed i marinai dovevano mangiare in piedi
girando loro intorno fino a quando questi non decidevano di aver distribuito
abbastanza cibo. Per avere un po’ di più da mangiare, molti marinai si misero a
lavorare i campi circostanti alle dipendenze dei contadini spagnoli, che li
pagavano in provviste, soprattutto patate dolci dette “moniatos”. Le relazioni
con la popolazione locale erano cordiali, e nacque anche qualche amore con
qualche ragazza del posto.
Dopo quattro mesi, l’8 gennaio 1944, l’equipaggio della Pegaso venne fatto imbarcare sul
mercantile Tarifa, diretto a
Barcellona; i marinai italiani furono stipati alla meglio nella stiva prodiera,
sempre sotto ferrea scorta armata, “al pari di pericolosi delinquenti”, e
durante tutto il viaggio fino a Barcellona, tormentato da mare molto mosso, a
nessuno fu permesso di uscire dall’unico boccaporto della stiva, dal quale
entrava poca aria. Sebbene molti stessero male, non era permesso neanche di
uscire a prendere una boccata d’aria; chi doveva andare in bagno poteva farlo
solo sotto la scorta di un marinaio spagnolo armato, uno per volta.
Una volta a Barcellona, i marinai della Pegaso, raggiunti anche da quelli dell’Impetuoso, vennero trasferiti via treno fino a Caldes de Malavella,
località dei Pirenei sita nei pressi di Gerona (il trasferimento degli italiani
da Barcellona a Caldes, via treno, avvenne in tre gruppi: 497 uomini furono
trasferiti il 10 gennaio, 493 il 12 e gli ultimi 83 il 18 gennaio). Qui furono
alloggiati in due alberghi, il Soler ed il Vichy Catalan, dove incontrarono
altri marinai italiani internati: erano gli altri sopravvissuti della Roma ed anche un gruppo di naufraghi del
Vivaldi, che avevano raggiunto le
Baleari dopo una difficile navigazione attraverso il Mediterraneo Occidentale.
Il trasferimento dei marinai italiani a Caldes de Malavella era stato
deciso fin da fine ottobre 1943, su richiesta del consolato italiano nonché per
decisione delle autorità spagnole, resesi conto dell’inadeguatezza delle
sistemazioni originarie; ma erano occorsi alcuni mesi per poter organizzare gli
alberghi della zona per ricevere gli internati (in precedenza, alcuni degli
alberghi erano occupati da profughi ebrei fuggiti in Spagna per sottrarsi alle
persecuzioni naziste, che vennero trasferiti altrove).
Complessivamente, più di mille marinai italiani erano internati a
Caldes; 497 marinai vennero alloggiati al Vichy Catalan, 195 all’albergo Prats,
150 al Soler, 58 al Fonda Ribot, 50 all’Hostal Fabrellas. I proprietari degli
alberghi avevano firmato un contratto col console italiano a Barcellona
impegnandosi a rispettare determinate condizioni per la sistemazione degli
italiani: tre pasti al giorno, per un totale di 2600 calorie; vino per gli
ufficiali; temperatura delle stanze non inferiore a 16 °C; due bagni a
settimana; prezzo del soggiorno, 18 pesetas al giorno, pagate settimanalmente
dal consolato italiano, che si sarebbe anche incaricato di fornire coperte e
biancheria. Il consolato avrebbe messo a disposizione anche delle pellicole
cinematografiche; il tabacco era fornito dall’esercito spagnolo.
L’organizzazione e mantenimento della disciplina fu affidata agli
ufficiali e sottufficiali italiani; i naufraghi vennero divisi in due
“battaglioni”, uno interamente formato dagli uomini alloggiati al Vichy
Catalan, e l’altro composto dai marinai sistemati negli altri alberghi.
Per evitare l’inattività e tenere occupati gli uomini, vennero
organizzati vari corsi di formazione professionale, tenuti di mattina; gli
ufficiali fungevano da insegnanti, ed i marinai erano tenuti a partecipare
almeno ad un corso a scelta, mentre la partecipazione dei sottufficiali era
facoltativa. Gli ufficiali subalterni partecipavano a corsi tenuti da ufficiali
superiori, soprattutto del Genio Navale e delle Armi Navali. Terminati i corsi,
e prima di pranzo, la routine giornaliera prevedeva l’assemblea degli uomini,
durante la quale venivano letti gli ordini, gli avvisi e raccomandazioni nonché
comminate le punizioni per chi infrangeva le regole del “campo” (le pene
detentive erano scontate nel seminterrato dell’albergo Soler, trasformato in
prigione). Il pomeriggio era riservato all’educazione sportiva; di giovedì e di
domenica si tenevano gare di corsa e partite di calcio e di volley (ogni
“battaglione” aveva una squadra per ciascuna delle tre discipline). Dalle 17
alle 19 era consentito agli uomini di uscire e girare per il paese; la cena era
alle 20 ed alle 21 veniva fatto l’appello, sotto la vigilanza della Guardia
Civil (una mezza dozzina di guardie al comando di un sergente, che
rappresentava la massima autorità sul posto; né il Ministero della Marina
spagnolo né il Capitanato Generale della Catalogna, già alle prese con la
gestione dei profughi e fuggiaschi che arrivavano attraverso i Pirenei,
volevano infatti avere responsabilità nella gestione degli internati).
Nonostante il divieto imposto dalle autorità spagnole, veniva pubblicato e
diffuso anche un giornale clandestino, “Serra sotto”.
Il 3 febbraio 1944, in occasione della visita del generale Moscardó,
Capitano Generale della Catalogna, venne organizzata una parata militare;
Moscardó, colpito dalla disciplina mostrata dai marinai, acconsentì alla
richiesta del console di Barcellona di allentare il regime d’internamento e
consentire agli italiani di poter circolare liberamente entro un raggio di tre
chilometri. Venne inoltre stabilito che gli ufficiali, in piccoli gruppi, avrebbero
potuto compiere dei viaggi di due o tre giorni a Barcellona, con l’obbligo di
ritornare; e che i marinai avrebbero potuto recarsi in treno a Girona, sempre
in gruppi e con l’impegno di non creare disordini. In più di una occasione, gli
ufficiali superiori italiani si recarono a Madrid, per ricevere disposizioni
dalle ambasciate Alleate. I malati che richiedevano cure ospedaliere,
certificate da un ufficiale medico, venivano inviati all’ospedale di Girona,
accompagnati da un sottufficiale. Cinque marinai, ammalatisi di tubercolosi,
vennero trasferiti al sanatorio di Montseny per evitare contagi.
Le relazioni con la popolazione di Caldes de Malavella furono
improntate alla cordialità; l’arrivo di più di mille internati ebbe uno impatto
notevole, in termini economici e sociali, sulla vita di un paesino che contava
all’epoca 2300 abitanti. Nacquero relazioni con ragazze del luogo, tre delle
quali culminarono nel matrimonio (ragion per cui i tre marinai interessati
rimpatriarono solo a fine 1946, anziché nel 1944 come i loro compagni); ci
furono anche liti con fidanzati del posto gelosi, e secondo i racconti locali
alcuni dei marinai italiani avrebbero lasciato dei discendenti.
Qualche malumore nacque dal fatto che agli ufficiali fosse permesso di
indossare abiti civili, mentre i marinai erano obbligati a tenere la divisa,
nonché dal fatto che le uniformi invernali non giunsero fino alla fine di
gennaio (indumenti di colore blu, eccetto un maglione nero che destò “una certa
agitazione” perché considerato una “reminescenza fascista”).
Una squadra di calcio formata da marinai internati, nonostante i dubbi
delle autorità spagnole, ebbe modo di partecipare anche alla “Coppa del
Generalissimo”, la versione franchista della Coppa di Spagna.
Anche nella nuova sistemazione di Caldes de Malavella, pur molto migliore
rispetto alle precedenti, la fame rimase un problema notevole; in un periodo di
razionamento come quello, le 2600 calorie della razione giornaliera spesso non
erano raggiunte, ed alcuni marinai, non appena ne avevano occasione, si
recavano nei campi della zona per rubare le rape e mangiarle. Altri andavano a
lavorare presso le fattorie del luogo in cambio di un pasto; altri ancora
lavoravano negli alberghi stessi, come cuochi, manutentori, idraulici,
elettricisti e muratori. Mancando il riscaldamento nei bagni del Vichy Catalan,
progettati per essere usati solo d’estate, alcuni elettricisti realizzarono un
rudimentale sistema di riscaldamento alimentato elettricamente, che tuttavia
causò un intervento del governatore spagnolo a causa dell’eccessivo consumo di
energia elettrica.
Un problema insorse quando vi furono dei ritardi nel pagamento della
pensione dei marinai; il console italiano a Barcellona suggerì agli ufficiali
italiani più alti in grado di confiscare gli alberghi e sottoporli a gestione
militare, ma il problema fu risolto quando il console (nominato dal governo di
Mussolini), venne sostituito da un altro (fedele al governo regio) che provvide
a risolvere il problema dei pagamenti.
Durante l’internamento vi furono anche vari tentativi di fuga; il più
importante si verificò il 22 aprile 1944, quando 21 marinai salirono
clandestinamente su un treno merci nottetempo, con l’intenzione di raggiungere
il consolato tedesco e rientrare in Italia per tornare a combattere. La Guardia
Civil, avvertita, li fermò l’indomani ad Arenys de Mar, dopo di che i
fuggiaschi furono trasferiti nel campo di concentramento di Miranda de Ebro
(Burgos), ove furono sottoposti ad un regime d’incarcerazione particolarmente
duro. Ciò non impedì altri tentativi di fuga, in tutto una dozzina, di
gruppetti di tre o quattro uomini; tutti vennero sempre intercettati dalla
Guardia Civil e mandati a Miranda de Ebro. L’unico tentativo quasi riuscito fu
quello di tre uomini che fuggirono verso Barcellona su tre biciclette rubate,
lasciando un messaggio nel quale si dicevano intenzionati a parlare col console
perché erano stanchi di stare a Caldes e volevano tornare in Italia a
combattere; riuscirono davvero a raggiungere Barcellona in bici, ed a parlare
col console, ma questi li convinse a tornare a Caldes, sapendo già che
l’internamento stava per avere fine. Proprio perché erano tornati
volontariamente, il console convinse anche i funzionari della Guardia Civil a
non mandare i tre a Miranda de Ebro.
I tentativi di fuga sopra descritti nacquero tutti per iniziativa di
singoli gruppetti di marinai, ma vi fu anche un progettato tentativo di fuga in
grande stile da parte degli ufficiali: vi avrebbero partecipato pressoché tutti
gli ufficiali internati, compresi i due comandanti, con l’aiuto del console
italiano a Barcellona e degli ambasciatori Alleati di Madrid. Allo scopo, era
stato preparato nel porto di Tarragona un rimorchiatore, che avrebbe dovuto
imbarcare gli ufficiali in una cala presso la località di Tossa i Lloret per
poi portarli in Corsica. Quando però il rimorchiatore fece scalo a Barcellona,
per caricare del carbone nonché i bagagli degli ufficiali (qui portati dal
console italiano), le autorità doganali del porto ispezionarono la nave e
trovarono documenti, abiti ed anche alcune pistole, così decretando il
fallimento del tentativo.
In un’altra occasione, una denuncia anonima al sergente della Guardia
Civil portò ad un’ispezione nel corso della quale furono rinvenute quattro
pistole Beretta della Regia Marina e diverse casse di munizioni, tenute
nascoste da alcuni membri degli equipaggi: anche in questo caso, i responsabili
finirono a Miranda de Ebro.
Nell’estate del 1944, infine, venne l’agognato momento del rimpatrio:
dopo la liberazione di Roma, le ambasciate
Alleate convinsero il governo spagnolo a rilasciare gli internati, facendo loro
scegliere se preferissero aderire al Governo regio oppure alla Repubblica di
Salò.
Il 22 giugno 1944, pertanto, una commissione formata da tre funzionari
spagnoli richiese individualmente a ciascuno dei marinai internati a Caldes de
Malavella se desiderassero rientrare in Italia dal sud, controllato dagli
Alleati e dal regio governo (imbarcandosi su una nave in partenza da
Gibilterra), oppure dal nord, controllato dai tedeschi e dalla Repubblica
Sociale Italiana (passando per la Francia). Col medesimo voto, che doveva
essere firmato da ciascun marinaio, si sceglieva anche a quale governo si
aderiva: quello regio di Ivanoe Bonomi o quello fascista di Mussolini. Su 948 votanti,
soltanto 22 chiesero di rientrare in Italia dal nord (aderendo cioè alla RSI),
essendo preoccupati per le famiglie, che là vivevano sotto occupazione tedesca
(altra versione parla di 1013 votanti, di cui solo 19 aderirono alla RSI). 923
votarono per il regno del Sud, tre chiesero di restare in Spagna.
I 22 uomini che avevano optato per la RSI lasciarono Caldes de
Malavella già il giornos seguente, 23 giugno; raggiunta in treno Girona, furono
provvisti di passaporto e poi avviati a Portbou, dove passarono il confine con
la Francia occupata dai tedeschi. Uno dei 22, colto da un attacco di
appendicite, fu costretto a restare in Spagna; non poté più passare il confine,
dopo la guarigione, perché le forze Alleate in avanzata in Francia avevano
frattanto liberato anche Portbou.
Il resto degli equipaggi, compresi i comandanti Imperiali e Cigala
Fulgosi, lasciarono Caldes de Malavella il 5 luglio 1944. Il giorno precedente,
gli abitanti del posto organizzarono una festa di commiato, con balli,
brindisi, discorsi e addii.
Il migliaio di uomini di Pegaso,
Impetuoso, Roma e Vivaldi salì poi
su un convoglio formato da più di trenta vagoni (i marinai vennero sistemati su
vagoni merci, mentre i due carri migliori vennero riservati ad ufficiali e sottufficiali)
che alle quattro del mattino del 5 luglio partì dalla stazione di Caldes; pressoché
l’intera popolazione del paese si era radunata per salutare i partenti, e
regnava una certa commozione. Lasciata Caldes de Malavella, il treno sostò a
Barcellona, Saragozza e Madrid per fare rifornimento, ed il 9 luglio arrivò ad
Algeciras, nella baia di Gibilterra, dove gli ormai ex internati vennero
trasbordati sull’incrociatore leggero Emanuele
Filiberto Duca d’Aosta. Attraversato il Golfo dell’Asinara, dove le loro
sventure erano iniziate, il Duca d’Aosta
trasportò infine i marinai a Taranto, dove il loro viaggio si concluse l’11
luglio 1944; molti tornarono in breve a prestare servizio nella Regia Marina.
Anche il cane “Mascherino” tornò in Italia insieme al resto
dell’equipaggio della Pegaso.
Finita la guerra, sulla perdita di Pegaso
ed Impetuoso, come sempre avviene in
seguito alla perdita di una nave militare, venne istituita una Commissione
d’Inchiesta Speciale. Dopo aver valutato le circostanze in cui era maturata la
decisione di autoaffondare le navi (in particolare la mancanza di dispozioni
certe e di provenienza sicura), la Commissione d’Inchiesta giudicò che la
scelta dei comandanti Imperiali e Cigala Fulgosi fosse stata «Conforme alle
leggi dell’onore militare».
Poi, la storia di Pegaso ed Impetuoso cadde nel dimenticatoio. Gli
equipaggi si dispersero, chi proseguì la propria carriera in Marina, chi tornò
alle occupazioni della vita civile; negli ambienti della Marina italiana,
conclusa l’inchiesta sulle circostanze dell’autoaffondamento, la vicenda fu
presto dimenticata. Non erano che due delle tante navi travolte dal gorgo
dell’armistizio, affondate in circostanze meno tragiche di tante altre, forse
in modo più insolito.
Anche tra gli abitanti di Maiorca l’episodio andò presto sbiadendo. La
storia delle due navi italiane divenne uno di quei racconti che poteva capitare
di sentire in osteria, raccontati dai vecchi dinanzi ad un bicchiere. Di quando
in quando, a qualche pescatore di aragoste capitava di trovare nella rete un
fucile, una bomba, delle calzature militari, proiettili, pugnali, perfino un
siluro, a riprova che doveva esserci del vero in quei ricordi sbiaditi.
Nessuno avrebbe il riposo delle due torpediniere, adagiate sul fondo
della baia di Pollença, per ben 43 anni.
Era il 17 dicembre 1986 quando Joaquin Angel Rodriguez Castelao, detto
“Quino”, un anziano corallaro maiorchino noto tanto per la sua eccentricità
quanto per la capacità d’immergersi a più di cento metri di profondità per
cercare il corallo migliore, notò all’ecoscandaglio un’irregolarità sul fondale
alta 7-8 metri durante un’uscita con la sua barca in cerca, appunto, di
corallo. “Quino”, che conosceva la zona da anni e non si era mai accorto della
presenza di quell’anomalia, pensò di aver trovato un grosso scoglio
inesplorato, probabilmente ricoperto di corallo: s’immerse per scoprire di cosa
si trattasse, ma ciò che apparve ai suoi occhi quando arrivò a cento metri di
profondità lo lasciò sbalordito. Non era uno scoglio, quell’irregolarità: era
il relitto ben conservato di una nave da guerra, della quale poteva distinguere
chiaramente un grosso cannone proprio sotto di lui. Aveva sentito qualche
vecchio parlare di navi da guerra italiane affondate a Maiorca durante l’ultimo
conflitto mondiale, ma non sapeva se si trattasse di una storia vera o di una
leggenda da osteria: questa visione confermava i racconti che aveva ascoltato.
Dopo una breve esplorazione, che non rivelò la presenza di alcunché di valore,
né di coralli, “Quino” se ne tornò in superficie. Lui non poteva sapere il nome
della nave, ma “Quino” era il primo uomo a scendere sul relitto della Pegaso.
Seguirono, per le due torpediniere, altri quindici anni di buio e
silenzio. Ma il 30 giugno 1998 il subacqueo italiano Guido Pfeiffer, risalendo
da un’immersione sul relitto di un mercantile greco affondato al largo di
Minorca, fu colto da un’embolia; portato nell’ospedale di Mahon, durante il
trattamento in camera iperbarica ebbe modo di conversare con il medico
specialista in medicina subacquea, dottor Jordi Moya, ch’era anch’egli un
subacqueo. Parlando di mare per ammazzare il tempo durante la lunga permanenza
in camera iperbarica, il dottor Moya parlò a Pfeiffer anche delle due navi da
guerra italiane affondate al largo di Maiorca, e del corallaro che ne aveva
scoperta una per caso.
Interessatosi a questa storia, Pfeiffer, una volta curato dall’embolia,
decise di tentare di individuare ed esplorare i relitti delle due torpediniere.
Impresa non facile: ricerche condotte presso l’Ufficio Storico della
Marina Militare portarono al ritrovamento di molto materiale documentale sulla
vicenda di Pegaso ed Impetuoso, compresi gli incartamenti
relativi all’inchiesta condotta nel dopoguerra, ma in nessun documento figurava
la posizione in cui era avvenuto l’autoaffondamento; si accennava solo ad un
punto al largo della baia di Pollença, al di fuori delle acque territoriali
spagnole. C’era anche una lettera scritta molti anni dopo da un ufficiale dello
Stato Maggiore al comandante Imperiali, ormai in congedo, al quale si chiedeva
di precisare la posizione in cui le navi si erano autoaffondate; ma Imperiali
rispondeva di aver forse annotato le coordinate stimate in un diario, che non
era più riuscito a trovare.
Parallelamente, Guido Pfeiffer ed il collega Claudio Corti condussero
ricerche anche in terra spagnola, intervistando i pescatori di Minorca per
scoprire se sapessero qualcosa; il dottor Moya ed un altro medico e subacqueo,
Alejandro Fernandez, cercavano intanto di riuscire a risalire al corallaro che
aveva scoperto il relitto, del quale sapevano solo per sentito dire, da un
amico che anni prima aveva visto un documentario sulla pesca del corallo. Dopo
varie vicissitudini, Corti, Pfeiffer, Moya e Fernandez riuscirono a
rintracciare “Quino”, col quale Corti, Pfeiffer e l’amico Maurizio Macori
riuscirono ad avere un incontro; il vecchio corallaro confermò di sapere dove
si trovavano i relitti ed accettò di guidarvi i subacquei italiani, ma poi
tergiversò con varie scuse, rimandando di volta in volta l’immersione.
Pfeiffer, Corti, Moya e Fernandez tentarono allora altre strade:
interrogarono pescatori della zona, che però davano informazioni troppo vaghe e
contrastanti; ispezionarono i fondali con l’ecoscandaglio in cerca di anomalie,
ma per tre anni collezionarono soltanto buchi nell’acqua.
Nel 2001, infine, i quattro riuscirono ad ottenere una copia del
documentario sulla pesca del corallo da cui tutta la loro ricerca era
scaturita: analizzando un filmato girato nel 1986 dallo stesso Quino, che
faceva parte del documentario, riuscirono ad individuare il probabile punto
dove si era immerso (nel canale tra Maiorca e Minorca), sulla base di alcuni
punti cospicui della costa maiorchina che si riusciva ad intravedere nel
filmato. Raggiunta in barca tale posizione, l’ecoscandaglio segnalò
effettivamente due punti, a poche centinaia di metri l’uno dall’altro, in cui
il fondale si alzava per poi riabbassarsi, alla profondità e delle dimensioni
giuste. L’immersione sul primo dei due punti, proprio quello individuato in
base all’analisi del filmato, rivelò che si trattava soltanto di un grosso
scoglio; ma quando Pfeiffer s’immerse sulla seconda irregolarità del fondale –
trovata quasi per caso, ispezionando il fondale all’ecoscandaglio nella supposizione
che, se il primo punto fosse stato una delle torpediniere, l’altra si sarebbe
trovata nelle immediate vicinanze –, il 23 giugno 2001, trovò finalmente il
relitto di una nave, adagiata sul lato di dritta a 98 metri di profondità. Dopo
diverse immersioni ed esplorazioni del relitto, volte ad individuare un qualche
elemento che permettesse di capire a quale delle due navi esso appartenesse, si
giunse alla conclusione che si trattava dell’Impetuoso.
Nelle settimane seguenti i subacquei si misero allora alla ricerca
della Pegaso, ma la seconda
torpediniera sembrava eluderli: più e più volte, determinata una posizione in
base a vari indizi, vi rilevarono all’ecoscandaglio una promettente anomalia
del fondale, per poi immergersi e scoprire che si trattava di secche o grossi
scogli. L’errore stava nella supposizione che la Pegaso fosse, delle due, la nave affondata più verso terra, e che
quindi il suo relitto andasse cercato tra quello dell’Impetuoso e la costa di Maiorca: presunzione generata da quanto
affermato dall’ormai anziano Antoni Cifre Morro, che aveva detto che la
torpediniera più al largo era affondata su fondali fangosi, mentre quella più
verso terra era finita su fondali rocciosi (e “Quino” aveva parlato di un
fondale roccioso quando aveva descritto il relitto che aveva visitato). Siccome
il relitto dell’Impetuoso giaceva
effettivamente su un fondale fangoso, la conclusione era che la Pegaso dovesse essere la nave affondata
più verso terra, sulle rocce.
Il 20 agosto 2001, al termine di un’immersione sul relitto dell’Impetuoso, la barca di Pfeiffer e
compagni venne avvicinata da Nemo, la
barca di “Quino”, il quale si offrì di guidarli finalmente sul relitto della
seconda nave. Il corallaro raccontò loro che i dettagli di cui aveva parlato
nel precedente racconto – ad esempio, che la nave poggiava su un fondale
roccioso – erano inventati, e li condusse sul relitto, situato circa 500 metri
più a nord. Contrariamente a quanto avevano pensato, la Pegaso era più verso il mare aperto rispetto all’Impetuoso: per questo non erano riusciti
a trovarla, cercando dalla parte sbagliata.
Il relitto della Pegaso giace
a 94 metri di profondità, appoggiato su un fondo compatto di sabbia bianca
granulosa, circondato da una miriade di oggetti caduti fuori bordo e ricoperto da
uno spesso strato di incrostazioni (formato da alghe calcaree, spugne,
bivalvi). La nave è adagiata sul fianco sinistro, con la prua orientata per
160° e la poppa danneggiata dall’impatto con il fondale; la plancia, la parte
centrale della tuga con parte della murata di dritta ed il ponte di prua sono
collassati e giacciono sul fondale, ma il relitto si presenta in uno stato di
conservazione migliore rispetto a quello dell’Impetuoso. Il fumaiolo non esiste più, al suo posto sono visibili i
trombini; l’albero centrale giace sul fondale. Il relitto dell’Impetuoso dista poche centinaia di
metri.
ciao articolo interessantissimo, solo una nota aeronautica, gli aerei Dornier che attaccarono la Flotta italiana, erano dei Dornier DO217K, e non come indicato, la versione precedente DO17. cordialmente Marco
RispondiEliminaCiao, grazie per la segnalazione; provvedo a correggere.
EliminaComplimenti come sempre, ma la nave nella foto"La Pegaso in rada a Bengasi (Arch. Ferrentino)" dovrebbe essere invece il ct FOLGORE, sarebbe bello vedere bene in particolare la mimetizzazione della nave magari zoomando bene sul particolare
RispondiEliminaHa ragione, grazie! La rimuovo subito. Purtroppo non la possiedo in miglior definizione.
EliminaBellissimo articolo, come sempre!! La nave nella foto "La Pegaso in rada a Bengasi (Arch. Ferrentino)" però non è il PEGASO ma bensi il ct FOLGORE. Sarebbe bello vedere bene la mimetizzazione della nave in quella foto, magari zoomando di più.
RispondiEliminabellissima descrizione dovrebbero conoscere tutti. bravo grazie di quello che scrivi
RispondiElimina