domenica 5 ottobre 2014

Antonietta Costa

La nave a Signa (Dalmazia) negli anni ’20, quando portava il nome di Monte Bianco (g.c. Mauro Millefiorini via www.naviearmatori.net)

Piroscafo da carico da 5900 tsl e 3619 tsn, lungo 137,6 (o 139,9) metri e largo 16,6, pescante 8,47 metri, velocità 10,5-11 nodi. Appartenente all’armatore Giacomo Costa di Genova, matricola 2023 al Compartimento Marittimo di Genova.

Breve e parziale cronologia.

1913
Costruito dallo Stabilimento Tecnico Triestino di Trieste per la Navigazione Generale Austriaca Gerolimich & Co. SiA di Trieste, con il nome di Nimrod. Stazza lorda originaria 6968 tsl, portata lorda 10.000 tpl.
30 maggio 1915
Trovandosi in un porto italiano al momento dell’entrata in guerra dell’Italia contro l’Impero Austro-Ungarico, il Nimrod viene catturato e posto sotto sequestro con decreto luogotenenziale (la cattura verrà legittimata ed ufficializzata solo a guerra finita, il 15 marzo 1919, con decreto della Commissione delle Prede).
23 giugno 1915
Con decreto luogotenenziale di Tomaso di Savoia, luogotenente generale di Vittorio Emanuele III, il Nimrod, già requisito e posto a disposizione della Regia Marina per tutta la durata della guerra, viene iscritto nel ruolo del naviglio militare, divenendo così una nave ausiliaria.
1916
Ribattezzato Monte Bianco e dato in gestione alle Ferrovie dello Stato (porto di registrazione Genova).
5 gennaio 1917
Al largo di Capo Verde il Monte Bianco entra in collisione con il piroscafo britannico Martazan, in navigazione dalla Sierra Leone a Liverpool, che affonda.
21 dicembre 1917
Il Monte Bianco viene silurato e danneggiato dal sommergibile tedesco UB 49 (tenente di vascello Hans von Mellenthin) nel Golfo di Genova, in posizione 43°58’ N e 08°12’ E, durante la navigazione da Genova a Gibilterra.
1920
Restituito all’armatore Gerolimich, frattanto divenuto italiano, mantiene il nome di Monte Bianco.
Agosto 1920-Febbraio 1921
Il Monte Bianco lascia Genova nell’agosto 1920, scarico, diretto a Newcastle (dove, come da contratto di nolo, deve imbarcare un carico di carbone da trasportare a Genova), con a bordo una quantità di provviste insufficiente, in quanto a Genova, in pieno periodo di scioperi del “biennio rosso”, non risulta quasi possibile procurarsi dei viveri. Il comandante intende fare scalo a Gibilterra per approvvigionarsi di cibo, ma problemi con l’equipaggio glie lo impediscono, costringendolo a dirigere invece per Tenerife; ma violente tempeste ed avarie agli apparati mandano il Monte Bianco completamente fuori rotta, sino a farlo finire nel Sud Atlantico, diverse miglia a sud di Capetown. Occorre razionare le provviste, e fare rotta verso le Isole di Saint Paul ed Amsterdam.
Il 20 dicembre 1920, nel punto 38°30’ S e 62°15’ E, il Monte Bianco s’imbatte nel piroscafo australiano Gilgai, e, dopo aver ridotto quanto più possibile le distanze, segnala con le bandiere di avere bisogno di cibo: l’equipaggio non mangia più da quasi cinque giorni. Il Gilgai trasborda sul Monte Bianco provviste per 60 giorni, e la nave italiana può così riprendere il viaggio; dato che la carena molto sporca ed i venti contrari da nord la rallentano, fa rotta su Sydney, dove arriva il 24 febbraio 1921, dopo 159 giorni trascorsi in mare.
1937
Acquistato dall’armatore genovese Giacomo Costa fu Andrea dal governo italiano e ribattezzato Antonietta Costa (contestualmente all’acquisto dei piroscafi Clara Camus – gemello del Monte Bianco – e Generale Petitti, ribattezzati rispettivamente Beatrice C. e Giacomo C.).
La stazza viene ridotta da 6880 a 5899 tsl.
10 giugno 1940
L’Italia entra nella seconda guerra mondiale. L’Antonietta Costa non sarà mai requisito, né iscritto nel ruolo del naviglio ausiliario dello Stato.
5 settembre 1940
Viaggio da Bari a Durazzo, in convoglio con il piroscafo Perla e la scorta della torpediniera Castelfidardo, trasportando (tra entrambi i mercantili) 52 militari, 671 quadrupedi e 2100 tonnellate di carrette, autovetture, motocicli e biciclette.
7 settembre 1940
Rientra da Durazzo a Bari, scarico, in convoglio con il piroscafo Premuda e la piccola nave cisterna Abruzzi, sotto la scorta della Castelfidardo.
10 settembre 1940
Naviga in convoglio da Bari a Brindisi e quindi a Valona, insieme al piroscafo Polcevera (il carico complessivo ammonta a 4000 tonnellate di artiglierie, armi leggere e materiali vari più 19 veicoli), scortato dalla Castelfidardo.
12 settembre 1940
Viaggia in convoglio, con i piroscafi Oreste e Premuda, da Bari a Durazzo, con la scorta della torpediniera Palestro. I tre mercantili trasportano 1305 quadrupedi e 135 tonnellate di rifornimenti.
17 settembre 1940
Antonietta Costa, Oreste e Premuda rientrano vuoti da Durazzo a Bari con la scorta del cacciatorpediniere Augusto Riboty.
23 settembre 1940
Trasporta 814 quadrupedi, 33 automezzi e 123 tonnellate di rifornimenti da Bari a Durazzo, scortato dalla torpediniera Pallade.
29 settembre 1940
Torna scarico da Durazzo a Bari scortato dall’incrociatore ausiliario Capitano A. Cecchi.
3 ottobre 1940
Lascia Bari diretto a Durazzo con un carico di materiali vari, in convoglio con i Oreste e Premuda e la scorta del RAMB III.
4 ottobre 1940
Durante la navigazione in convoglio, alle 3.30, l’Antonietta Costa striscia con la carena contro un oggetto immerso “resistente”, nel punto 41°28’ N e 18°05’ E (60 miglia ad est/nordest di Bari e 20 miglia a nord di Brindisi), e subito dopo le altre navi del convoglio sentono una violenta esplosione subacquea la cui concussione fa vibrare fortemente i loro scafi, oltre a far tremare lo stesso Antonietta Costa; quasi contemporaneamente Oreste e Premuda, che seguono l’Antonietta Costa, urtano quello che ritengono essere un relitto. L’Antonietta Costa subisce qualche danno nella stiva numero 5, dove alcune piastre dello scafo vengono smosse e si forma una via d’acqua che si riesce tuttavia a portare subito sotto controllo, ma può proseguire alla stessa velocità di prima, ed entro l’ora di arrivo a Durazzo la poca acqua imbarcata è già stata espulsa. Una volta in porto, un palombaro ispeziona lo scafo del piroscafo, rilevando che a dritta ed a sinistra della chiglia vi sono quattro strisce parallele della lunghezza di due metri, i segni della collisione e dello strisciamento contro un grosso e solido oggetto metallico. Anche Oreste e Premuda vengono ispezionati da palombari, che però non notano nulla. Si pensa di sottoporre l’Antonietta Costa ad ulteriori verifiche circa i danni allo scafo, che però necessiterebbero di un bacino di carenaggio (e che la sua perdita nel viaggio di ritorno renderà impossibili).
L’Ufficio Statistica di Supermarina rimarrà dubbioso sulla possibilità che l’Antonietta Costa possa aver speronato ed affondato un sommergibile nemico, non essendo stati avvistati rottami o chiazze di nafta nella zona della collisione.
Per diversi decenni, sia l’Ufficio Storico della Marina Militare italiana che l’Ammiragliato britannico riterranno che il sommergibile britannico Rainbow (capitano di corvetta Lewis Peter Moore), salpato da Alessandria d’Egitto il 23 settembre 1940 per operare nel golfo di Taranto, sia stato affondato il 16 ottobre dal sommergibile italiano Enrico Toti, che ha appunto incontrato ed affondato in quella data e nel golfo di Taranto (all’1.40, nel punto 38°15’ N e 17°30’ E), con il cannone ed il siluro, un sommergibile britannico. Più approfondite ricerche negli archivi britannici, nel 1987, avrebbero però portato a scoprire che il sommergibile britannico Triad, originariamente inviato al largo della Cirenaica, era stato poi mandato anch’esso nel golfo di Taranto a seguito di un nuovo ordine, e che la nuova zona d’agguato del Triad (a differenza di quella del Rainbow, che era leggermente più verso il mare aperto) coincideva proprio con quella in cui si trovava il sommergibile affondato dal Toti, mentre il Rainbow l’avrebbe dovuta lasciare, per tornare alla base, già il 13 ottobre, ed al momento dell’azione del Toti si sarebbe trovato ad almeno 200 miglia di distanza. Il Rainbow, per giunta, il 3 ottobre aveva ricevuto l’ordine di lasciare il Golfo di Taranto e di trasferirsi nel Basso Adriatico sulla rotta percorsa dai convogli italiani tra Bari e Durazzo, posizionandosi vicino alla costa albanese; l’ordine di tornare nel golfo di Taranto era stato dato il 7 ottobre, ma non c’era nulla che potesse confermare che il Rainbow lo avesse ricevuto, dato che i sommergibili in missione dovevano mantenere il silenzio radio, e non potevano neanche accusare ricevuta degli ordini loro inviati via radio. Lungo le rotte che il Rainbow avrebbe dovuto seguire non vi erano campi minati italiani né britannici, e nessun altro sommergibile riferì di collisioni in data e luogo compatibili con quelli dell’Antonietta Costa.
La conclusione di queste ricerche è che la vittima del Toti fu probabilmente il Triad: il Rainbow, molto probabilmente, era stato speronato ed affondato il 4 ottobre dall’Antonietta Costa. Forse il comandante britannico intendeva attaccare il convoglio e lo aveva lasciato avvicinare per meglio attaccare, ma aveva commesso un errore e le distanze si erano ridotte a tal punto da portare alla collisione. Con il sommergibile erano scomparsi il comandante Moore, 5 altri ufficiali e 50 tra sottufficiali e marinai.
L’Antonietta Costa divenne così – sebbene in maniera accidentale ed inconsapevole – uno dei pochi mercantili nella storia ad aver affondato un sommergibile nemico; il Rainbow fu l’unico sommergibile britannico ad essere affondato da una nave mercantile avversaria. Ma la sua fine sarebbe presto stata vendicata.

La perdita

Il 9 ottobre 1940, pochi giorni dopo l’affondamento del Rainbow, l’Antonietta Costa ripartì scarico da Durazzo insieme al piroscafo Maria, e con la scorta dell’incrociatore ausiliario RAMB III, per tornare a Bari. Il convoglio, tuttavia, venne poco dopo avvistato dal sommergibile britannico Regent (al comando del capitano di corvetta Hugh Christopher Browne), gemello del Rainbow, che ebbe più perizia o fortuna del perduto omologo. Alle 17.37 dello stesso 9 ottobre, nel punto 41°21’ N e 18°52’ E (21 miglia ad ovest di Durazzo), l’Antonietta Costa venne colpito a proravia di mezza nave da un siluro del Regent, riportando gravi danni (il Regent venne a sua volta danneggiato dalle bombe di profondità gettate dalla scorta).
Un membro dell’equipaggio, il marinaio istriano Giovanni Sarcoz, rimase ucciso, ed altri due o tre uomini furono feriti. Secondo il volume dell’USMM “La difesa del traffico con l’Albania, la Grecia e l’Egeo”, l’equipaggio fu inizialmente trasbordato sul RAMB III, ma poi, visto che il piroscafo restava a galla, il comandante tornò a bordo, insieme al direttore di macchina ed ad altri sei uomini, per cercare di salvare la nave. Secondo i documenti dell’USMM (consultati da Platon Alexiades), solo 23 (o 27) uomini furono trasferiti sul RAMB III, mentre gli altri otto membri dell’equipaggio rimasero a bordo ininterrottamente dopo il siluramento, fino a quando la nave non fu portata all’incaglio.
Furono fatti partire da Durazzo il posamine Azio, un rimorchiatore ed una squadriglia di motovelieri trasformati in cacciasommergibili, e l’Antonietta Costa, preso a rimorchio dal rimorchiatore Vetiska Sant’Andrea, alle 12.45 del 10 ottobre, dopo una ventina di miglia così percorse, poté essere portato all’incaglio nei pressi dell’avamporto di Durazzo, nel punto 41°17’ N e 19°25’ E, poco a sud della città. Qui, tuttavia, il piroscafo affondò in meno di dieci metri d’acqua, lasciando emergere solo il fumaiolo ed i picchi di carico.
Giovanni Sarcoz fu l’unica vittima dell’Antonietta Costa.

Il relitto affiorante dell’Antonietta Costa fotografato il 24 febbraio 1941 da bordo di una nave in arrivo a Durazzo (foto Guido Barili da www.lombardiabeniculturali.it)

Sulle prime, si pensò di poter recuperare la nave. Il ponte di coperta giaceva appena sotto la superficie del mare, quindi si progettò di recuperare l’Antonietta Costa senza nemmeno usare dei cilindri di spinta: vennero dapprima sigillate le stive ed ogni altra apertura, poi si riuscì a portare in superficie un cofferdam nel quale vennero infilati i pescanti delle pompe, e si procedette a svuotare dall’acqua e risollevare la poppa. In questo modo sarebbe stato possibile riportare la nave in galleggiamento a sufficienza da poterla rimorchiare dentro il porto di Durazzo, ove sottoporla a lavori di recupero e riparazione più approfonditi, ma per cause non note il recupero venne interrotto, e l’Antonietta Costa si adagiò di nuovo, e per sempre, nel punto in cui era stato fatto incagliare.
Quel che con ogni probabilità è il relitto dell’Antonietta Costa giace oggi a due miglia dalla costa di Durazzo, tre metri sotto la superficie, nel punto 41° 16,757’ N e 19° 26,804' E.


Due immagini del tentato recupero dell’Antonietta Costa (g.c. Danilo Pellegrini via www.betasom.it)




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