giovedì 4 febbraio 2016

Leone


Il Leone (g.c. Giorgio Parodi via www.naviearmatori.net

Cacciatorpediniere, già esploratore leggero, capoclasse della classe Leone (dislocamento standard di 1773 tonnellate, in carico normale 2003 tonnellate, a pieno carico 2203 o 2648).
La classe Leone (informalmente nota anche come classe “Belve”, per i nomi delle unità che la componevano), pensata come uno sviluppo degli ottimi esploratori della classe Mirabello, dei quali era una versione potenziata ed ingrandita, doveva essere in origine composta da cinque unità (Leone, Tigre, Pantera, Leopardo e Lince); la sua costruzione fu ordinata dalla Regia Marina in piena prima guerra mondiale, il 18 gennaio 1917, ma la mancanza di materie prime (soprattutto acciaio) impedì di impostare le unità della classe prima del 1921, anche perché nel frattempo l’ordine era stato inizialmente annullato (essendo finita la guerra) salvo essere replicato il 30 ottobre 1920. A quel punto un nuovo problema, la mancanza di fondi, aveva costretto a ridurre le previste cinque unità a sole tre, cancellando la costruzione di Leopardo e Lince; e rallentò di molto anche la costruzione di Leone, Tigre e Pantera, che richiese ben tre anni.


Il Leone durante le prove di velocità, il 7 giugno 1924 (g.c. Giorgio Parodi via www.naviearmatori.net)

Due gruppi di turbine Parsons della potenza di 42.000 HP (oltre 45.000 alle prove), alimentate da quattro caldaie Yarrow a nafta, permettevano l’eccellente velocità – per l’epoca – di 31-32 nodi (33,73 alle prove, ma con dislocamento inferiore a quello standard) ed un’autonomia di 2070 miglia a 18 nodi, 1623 miglia a 20 nodi e 534 miglia a 31 nodi; il tempo di approntamento, da caldaie spente, era di quattro ore, per l’epoca pienamente rispondente alle necessità. In generale, le prestazioni dell’apparato motore erano più che buone, sebbene non rappresentassero una grande novità rispetto ai precedenti Mirabello; a dimostrazione della loro bontà, dopo sedici anni di servizio e la conseguente usura queste navi raggiungevano ancora velocità attorno ai 29 nodi. I Leone presentavano inoltre buone caratteristiche di stabilità ed abitabilità (i locali dell’equipaggio erano foderati in legno, con pavimenti in linoleum, e riscaldati da caloriferi; per i capi carico vi erano dei camerini così come per gli ufficiali – tranne il comandante, che aveva un piccolo appartamento –, e vi erano due quadrati per i sottufficiali ed uno per gli ufficiali).
L’armamento principale, per l’epoca, era notevole: otto cannoni da 120/45 mm (Cante-Schneider-Armstrong Mod. 1918/1919) in quattro impianti binati scudati disposti lungo l’asse longitudinale (uno sul castello di prua, uno tra i due fumaioli, uno tra i due impianti lanciasiluri ed uno a poppa), con ampi campi di tiro su entrambi i lati ed anche in ritirata; superiori, sia nel numero che nel calibro, a quelli dei cacciatorpediniere loro contemporanei, dunque confacenti ai compiti affidati agli esploratori (eguagliare i cacciatorpediniere nemici in velocità, e superarli in armamento). Quale armamento contraereo – dopo la lezione, appresa in guerra, sulle potenzialità offensive dell’aereo – erano dotate di due cannoncini da 76/40 mm (Mod. 1916 R. M.) piazzati ai lati del castello; stranamente scarso invece l’armamento silurante, dato che i sei tubi lanciasiluri (in due impianti trinati) erano da 450 mm anziché, come ormai in quasi tutte le altre Marine, da 533 o 550 mm (ma a correggere questo “errore” si provvide dopo qualche anno).

La nave nel 1933 (Giorgio Ramperti via Giuseppe Celeste e www.associazione-venus.it

Completavano l’armamento bombe di profondità e due torpedini da rimorchio (in funzione antisommergibili) ed era possibile sistemare a bordo ferroguide per l’imbarco e la posa di 70 mine tipo Vickers od 82 mine tipo Bollo (il che avrebbe però reso inutilizzabile l’armamento in coperta).
Il lungo lasso di tempo intercorso tra la progettazione (1917) ed il completamento (1924) fece dei Leone delle unità concettualmente superate già all’epoca della loro entrata in servizio, quando ormai il diffondersi dell’aereo rendeva impossibile una “guerriglia navale” tra siluranti come quella svoltasi in Adriatico durante la Grande Guerra, e per la quale gli esploratori leggeri erano concepiti; tuttavia si rivelarono robusti, veloci, marini, affidabili e potentemente armati, e svolsero un lungo ed utile servizio come conduttori di flottiglia durante il periodo interbellico.
Paradossalmente la loro dislocazione in Mar Rosso, durante il secondo conflitto mondiale, fece sì che si trovassero coinvolti proprio in una “guerriglia navale” in un mare ristretto e contro unità sottili nemiche, proprio come in Adriatico venticinque prima, dunque proprio nel ruolo per cui erano stati concepiti. Ma ora dovevano combattere contro navi ben più moderne e recenti, e supportate da aerei.

Il Leone svolse in guerra dieci missioni, percorrendo in tutto 2388 miglia.

Breve e parziale cronologia.

23 novembre 1921
Impostazione nei cantieri Gio. Ansaldo & C. di Sestri Ponente (Genova); numero di costruzione 657.
1° ottobre 1923
Varo nei cantieri Gio. Ansaldo & C. di Sestri Ponente (Genova).


Sopra, il Leone pronto al varo (g.c. Aldo Cavallini via www.naviearmatori.net); sotto, varato (Archivio Storico Ansaldo, via Maurizio Brescia e www.associazione-venus.it)


8 febbraio 1924
Entrata in servizio.


Due immagini della nave durante le prove in mare al largo di Genova, nel 1924 (sopra, Archivio Storico Ansaldo, via Maurizio Brescia e Dante Flore; sotto, Coll. Maurizio Brescia; entrambe da www.associazione-venus.it).


6 marzo 1925
Insieme a Tigre e Pantera, va a formare il Gruppo Autonomo Esploratori Leggeri. Le tre unità svolgono un breve periodo di addestramento integrato di squadriglia.
4 aprile-22 settembre 1925
Le tre unità, sotto il comando del capitano di vascello Domenico Cavagnari (futuro capo di Stato Maggiore della Marina), imbarcato sul Pantera (è invece comandante del Leone il capitano di fregata Francesco De Orestis), compiono una crociera di rappresentanza in Spagna, Portogallo, Regno Unito, Norvegia, Danimarca, Unione Sovietica, Finlandia, Estonia, Lettonia, Germania, Paesi Bassi, Belgio, Francia, Algeria e Libia. Dopo la partenza da La Spezia (4 aprile 1925), vengono toccati i porti di Valenza (6-9 aprile), Almeria (10-11 aprile), Malaga (11-15 aprile), Cadice (15-23 aprile), Lisbona (24-27 aprile), Vigo (28-29 aprile), Portsmouth (1-8 maggio), Bristol (9-12 maggio), Liverpool (13-17 maggio), Glasgow (18-24 maggio), Edimburgo (26 maggio-3 giugno), Bergen (4-10 giugno), Oslo (11-17 giugno), Copenhagen (17-24 giugno), Leningrado (25-29 giugno, una delle prime visite di un Paese occidentale alla Russia post-rivoluzionaria, dopo anni di isolamento), Helsinki (30 giugno-4 luglio), Reval (4-6 luglio), Riga (6-8 luglio), Brema (10-14 luglio), Amsterdam (15-21 luglio), Gand (21-27 luglio), Ostenda (27-31 luglio; i comandanti degli esploratori si recano a Bruxelles dove sono ricevuti dal re del Belgio Alberto I), Le Havre (1-6 agosto), Lorient (7-12 agosto), Bordeaux (13-20 agosto), Santander (21-25 agosto; qui le navi sono visitate dai reali di Spagna), Gibilterra (27-28 agosto), Orano (29 agosto-2 settembre) e Tripoli (4-15 settembre). In ogni porto l’accoglienza, da parte sia delle autorità che della popolazione locale, è molto cordiale, tranne che a Brema, dove il trattamento riservato è piuttosto freddo, forse per la guerra ancora troppo vicina. Navi ed equipaggi danno ottima prova di sé, sia nell’affrontare ogni impedimento lungo nella navigazione, che nelle visite nei porti.
Lasciata Tripoli, i tre esploratori fanno scalo a Napoli dal 16 al 21 settembre ed infine concludono la crociera (soprannominata dai marinai “crociera delle belve”) a La Spezia, dove giungono il 22 settembre 1925 dopo aver percorso in tutto 12.000 miglia.
Metà anni Venti
Svolge con i gemelli una crociera in Egeo.
1928
Altra crociera di rappresentanza con Tigre e Pantera, questa volta in Spagna.
1928-1931
Il Leone è conduttore di flottiglia della 1a e 2a Flottiglia Cacciatorpediniere.
1930-1931
Lavori di rimodernamento; i 6 tubi lanciasiluri DAAN-Whitehead da 450 mm vengono sostituiti con 4 San Giorgio da 533 mm, in due impianti binati, e vengono imbarcati due cannoncini Vickers-Armstrong da 40/39 mm a potenziamento dell’armamento contraereo.
15 settembre 1932
Assume il comando del Leone, e diviene caposquadriglia della Squadriglia Esploratori, il capitano di fregata (poi capitano di vascello da novembre) Carlo Bergamini, futuro ammiraglio di squadra (comandante delle forze da battaglia nel 1942-1943) e Medaglia d’oro al Valor Militare. Nello stesso periodo prestano servizio sul Leone le future MOVM Mario Ruta (tenente di vascello, quale ufficiale di rotta) e Mario Mastrangelo (capitano di corvetta, quale comandante in seconda).
Bergamini resterà comandante del Leone fino all’aprile 1934.

Il Leone a Gaeta nel luglio 1933 (g.c. Nedo B. Gonzales, via www.naviearmatori.net

Luglio 1933
Prende parte alle manovre navali nel Golfo di Gaeta.
1935-1936
Il Leone ed i due gemelli vengono sottoposti a lavori di adattamento per l’impiego in climi tropicali (vengono dotati di impianti di condizionamento dell’aria e di refrigerazione dei depositi munizioni) e subiscono l’eliminazione di due cannoni da 76/40 mm per allungare di alcuni metri il castello, allo scopo di ricavare un nuovo locale per i compressori dei macchinari dell’impianto di condizionamento. Viene anche leggermente incrementata la scorta di carburante; il dislocamento diviene di 2000 tonnellate standard, 2150 in carico normale e 2648 a pieno carico.
Completati i lavori, Leone (al comando del capitano di fregata Giuseppe Manfredi), Tigre e Pantera vengono assegnati alla Divisione Navale Africa Orientale (che oltre ad essi comprende gli incrociatori leggeri Bari, Taranto e Quarto, i cacciatorpediniere Francesco Nullo e Daniele Manin, le torpediniere Audace, Generale Antonio Cantore e Giacinto Carini, i sommergibili Luigi Settembrini, Ruggero Settimo, Narvalo, Tricheco, Salpa e Serpente, le navi appoggio sommergibili Alessandro Volta ed Antonio Pacinotti e l’incrociatore ausiliario Arborea) e dunque dislocati in Eritrea.

La nave nel 1935 (commons.wikimedia.org)  

27 aprile 1938
Rientrato in Italia per un breve periodo, il Leone subisce un incendio mentre è ormeggiato a La Spezia; per impedire che le fiamme raggiungano i depositi munizioni con conseguenze catastrofiche, occorre allagare tali depositi.
1938
Durante i lavori di riparazione dell’incendio, riceve un potenziamento dell’armamento contraereo (vengono aggiunte due mitragliere binate Breda Mod. 31 da 13,2/76 mm e due o quattro mitragliatrici singole Colt da 6,5 mm), stante l’accresciuta minaccia posta dall’arma aerea rispetto agli ormai lontani tempi della sua entrata in servizio. Viene installata una stazione di direzione del tiro.
Settembre 1938
Viene riclassificato cacciatorpediniere, analogamente a Tigre e Pantera, ed insieme ad essi viene assegnato alla V Squadriglia Cacciatorpediniere, di base a Massaua.
27 gennaio 1939
Ultimati i lavori, torna a Massaua. Non rivedrà più l’Italia.
1939
In seguito a nuovi lavori, le mitragliatrici da 13,2 e 6,5 mm vengono sostituite da due mitragliere binate Breda da 20/65 mm Mod. 1935.

Il Leone nel 1934 (Giorgio Ramperti via Giuseppe Celeste e www.associazione-venus.it).

10 giugno 1940
All’ingresso dell’Italia nel secondo conflitto mondiale, il Leone fa parte della V Squadriglia Cacciatorpediniere, di base a Massaua, insieme ai gemelli Tigre e Pantera.
24 giugno 1940
Il Leone parte da Massaua e va incontro al sommergibile Archimede, sul quale esalazioni di cloruro di metile hanno avvelenato più di metà dell’equipaggio (6 uomini sono morti, 8 sono impazziti e 24 sono gravemente intossicati), e vi trasferisce un gruppo di uomini mandati a rimpiazzare i membri dell’equipaggio intossicati e riportare il sommergibile alla base di Assab. Il Leone prende inoltre a bordo gli uomini intossicati e li porta a terra per le cure.

Visto da poppa (Coll. Francesco Bucca, via www.associazione-venus.it

27 giugno 1940
In mattinata il Leone lascia Massaua insieme al Pantera ed alla vecchia torpediniera Giovanni Acerbi, per andare in soccorso al sommergibile Perla, incagliatosi dopo che perdite di cloruro di metile hanno intossicato larga parte dell’equipaggio. L’Acerbi dovrebbe se possibile disincagliare e prendere a rimorchio il Perla, mentre Leone e Pantera fornirebbero appoggio e sostegno; qualora ciò risultasse impossibile, le unità dovrebbero recuperare l’equipaggio del sommergibile.
Il Leone deve però tornare indietro quasi subito, a causa di avarie. (Anche Acerbi e Pantera rientreranno più tardi alla base, in seguito all’avvistamento di una superiore formazione navale britannica diretta verso il Perla; il sommergibile scamperà però alla distruzione e potrà essere disincagliato e riparato dopo alcuni giorni).
27-28 giugno 1940
Leone, Tigre, Pantera ed i più piccoli cacciatorpediniere Nazario Sauro e Daniele Manin compiono un’uscita in mare alla ricerca di naviglio britannico, senza risultati.
6-7 settembre 1940
Inviato assieme a Tigre, Battisti e Manin a cercare il convoglio britannico «BS. 4», proveniente da Suez e scortato dall’incrociatore leggero Leander, dall’incrociatore antiaereo Carlisle, dal cacciatorpediniere Kingston e dagli sloops Grimsby, Auckland, Clive e Parramatta. Durante la missione vengono lanciati siluri contro un cacciatorpediniere britannico, che viene tuttavia mancato.
19 settembre 1940
Salpa da Massaua insieme a Pantera, Battisti e Manin per attaccare il convoglio britannico «BN 5», formato da 23 trasporti con la scorta dell’incrociatore leggero neozelandese Leander e degli sloops Auckland (britannico), Yarra (australiano) e Parramatta (australiano).

Un’altra immagine del Leone (g.c. STORIA militare)

21 settembre 1940
Non avendo trovato il convoglio, i cacciatorpediniere devono tornare a mani vuote alla base.
20-21 ottobre 1940
LeonePantera ed i più piccoli Nazario Sauro e Francesco Nullo della III Squadriglia vengono inviati ad intercettare il convoglio britannico «BN 7», formato da 32 mercantili (partiti da Aden il 19 ottobre alla volta di Suez) scortati dall’incrociatore leggero neozelandese Leander, dal cacciatorpediniere britannico Kimberley, dagli sloops YarraAuckland ed Indus, rispettivamente australiano, britannico ed indiano, e dai dragamine britannici Derby e Huntley (nonché da una cinquantina di aerei da caccia e bombardieri di Aden). Il convoglio, diretto verso nord, è stato avvistato il 19 ottobre da un aerosilurante italiano Savoia Marchetti S. 79, ed il 20 ottobre il Comando Marina di Massaua ha disposto la partenza dei sei cacciatorpediniere per intercettarlo. Il piano prevede che i meno veloci ma meglio armati Leone e Pantera (che formano la prima sezione, al comando del capitano di fregata Paolo Aloisi del Pantera) distraggano la scorta, permettendo a Sauro e Nullo (che costituiscono la seconda sezione) di superare lo schermo protettivo e lanciare i loro siluri contro le navi mercantili. Partite la sera del 20 ottobre, le due sezioni di cacciatorpediniere, dopo essere transitate nel canale di nord est dell’arcipelago delle Dahlak, si separano alle 21.15.
Il Pantera avvista per primo il fumo prodotto dalle navi del convoglio (con mare calmo e bene illuminato dalla luce lunare), a prora dritta, alle 23.21 (per altra versione alle 2.19 di notte del 21 ottobre: la differenza è causata verosimilmente dal diverso fuso orario), circa 35 miglia a nord-nord-ovest dell’isoletta di Jabal al-Tair: come da piano, il Pantera comunica al Sauro l’avvistamento, poi la sezione costituita da Leone e Pantera manovra a 22 nodi per posizionare i bersagli tra sé e la luna, in modo che appaiano meglio visibili.
Poco dopo lo Yarra avvista a sua volta il Pantera e, non sapendo di quale nave si tratti, effettua il segnale di riconoscimento; il Pantera risponde lanciando due coppiole di siluri, alle 23.31 ed alle 23.34, e sparando alcune salve di artiglieria contro il convoglio (nessun proiettile va a segno, anche se alcune schegge danneggiano una scialuppa del mercantile capoconvoglio). Il Leone, che segue il Pantera di 800 metri, non riesce ad inquadrare alcun bersaglio, così non lancia nessun siluro.
Lo Yarra e l’Auckland, avvistati i siluri, contrattaccano e dirigono verso i due cacciatorpediniere italiani, che a questo punto ripiegano, sparando con i loro complessi poppieri. Ritenendo a torto di aver messo due siluri a segno, e quindi di aver completato con successo la missione, Leone e Pantera dirigono per rientrare alla base; al loro inseguimento, mentre Yarra ed Auckland vengono richiamati per restare col convoglio, si pongono il Kimberley (che, trovandosi in coda al convoglio, accelera a 33 nodi e vira verso nordest per avvicinarsi) ed il Leander (che, trovandosi sul lato sinistro del convoglio, vira verso sudest). I due cacciatorpediniere, però, riescono a rompere il contatto ed allontanarsi verso ovest-sud-ovest; raggiungeranno indenni Massaua attraverso il Canale Sud.
Nel frattempo, dopo aver ricevuto il segnale di scoperta del PanteraSauro e Nullo si allontanano dalla zona mentre la prima sezione attacca, poi manovrano per portarsi in posizione favorevole per attaccare, ma non riescono a trovare il convoglio fino all’1.48. A quel punto il Sauro esegue un duplice attacco silurante, senza risultato; poi si ritira insieme al Nullo, inseguiti da Kimberley e Leander. Durante il ripiegamento il Nullo subisce un’avaria al timone, rimane indietro e perde il contatto con il Sauro: inseguito dal Kimberley, verrà da questo affondato dopo un duro combattimento.
3-5 dicembre 1940
Leone, Tigre, Sauro e Manin, così come il sommergibile Ferraris, vengono mandati a cercare un convoglio, che non riescono a trovare.
2-3 febbraio 1941
Tigre, Leone e Pantera attaccano un convoglio britannico e ritengono di aver silurato due mercantili, ma in realtà nessuna nave nemica è stata colpita.
27 marzo 1941
Muore in Eritrea il tenente del Genio Navale Giacomo Giannone, appartenente all’equipaggio del Leone.

Il Leone nei primi anni di servizio (da www.marina.difesa.it


Uno scoglio non segnato

Come per gli altri cacciatorpediniere di Massaua, la lunga vita del Leone si avviò all’epilogo con la primavera del 1941; il loro tramonto coincise con quello dell’Africa Orientale Italiana, colonia sprovvista di ogni collegamento con la madrepatria, circondata da territori in mano nemica e condannata dunque al crollo nel giro di meno di un anno, in caso di guerra. Così avvenne.
Occupata la Somalia già in febbraio ed invasa parte dell’Etiopia, il 27 marzo le truppe del Commonwealth avevano sfondato a Cheren, aprendosi così la via per Asmara e Massaua.
Quest’ultima aveva i giorni contati; così pure le navi, italiane e tedesche, che si trovavano da mesi nel suo porto.
Il contrammiraglio Mario Bonetti, comandante delle forze navali italiane in Africa Orientale, dovette così eseguire un “triage” delle unità militari e mercantili sotto il suo comando: quelle aventi autonomia sufficiente per tentare una lunga traversata, sarebbero partite per la Francia o per il Giappone (così fecero i quattro sommergibili, la nave coloniale Eritrea, gli incrociatori ausiliari RAMB I e RAMB II ed otto mercantili, con alterne fortune); quelle impossibilitate a partire e poco o punto armate, si sarebbero autoaffondate per evitare la cattura ed al contempo bloccare il porto di Massaua (così fecero le unità minori ed ausiliarie e quasi tutti i mercantili); quelle ancora in grado di recare danno al nemico, sarebbero partite in un ultimo e disperato tentativo d’attacco. Il Leone rientrava tra queste ultime.
Il piano steso da Bonetti prevedeva l’impiego di tutti i cacciatorpediniere superstiti in due separati attacchi: Leone, Tigre e Pantera (la V Squadriglia), dotati di maggiore autonomia, avrebbero risalito tutto il Mar Rosso per attaccare Suez (500 miglia più a nord, navigazione che avrebbe richiesto almeno 50 ore); Sauro, Battisti e Manin (la III Squadriglia), più piccoli, avrebbero invece attaccato la più vicina Port Sudan. Compito di tutti era arrecare il maggior danno possibile alle installazioni portuali ed alle navi britanniche che vi si trovassero, per poi raggiungere le coste dell’Arabia Saudita e lì autoaffondarsi (in modo che gli equipaggi potessero sbarcare in Arabia Saudita, Paese neutrale). Il ritorno non era contemplato.
La missione della V Squadriglia sarebbe dovuta avvenire in concomitanza con un’incursione aerea della Luftwaffe, che, con Heinkel He 111 inviati da Creta, avrebbe bombardato Suez. I britannici, immaginando un possibile attacco, avevano inviato a Suez due cacciatorpediniere classe J per aumentare le forze navali là presenti.

L’operazione prese avvio il 31 marzo 1941. Intorno alle 18 di quel giorno il Leone (al comando del capitano di fregata Uguccione Scroffa), il Tigre (capitano di fregata Gaetano Tortora) ed il Pantera (capitano di vascello Andrea Gasparini, caposquadriglia) salparono da Massaua. La III Squadriglia rimase in porto: data la maggior vicinanza dell’obiettivo, sarebbe dovuta partire il giorno seguente.
Normalmente il Pantera, in qualità di caposquadriglia, sarebbe dovuto procedere in testa: ma a testimonianza della disastrosa condizione in cui versavano queste navi, sia la girobussola che il solcometro di questa unità erano guasti, mentre la sua bussola magnetica era stata messa fuori uso da un fulmine. Unico cacciatorpediniere ad avere bussola magnetica, solcometro, ecoscandaglio e girobussola in efficienza era il Leone, e così toccò ad esso di guidare la formazione, seguito in linea di fila dal Tigre e per ultimo dal Pantera.
La prima insidia della navigazione che attendeva le tre navi non era posta dal nemico, ma dalla natura: Leone, Tigre e Pantera avrebbero infatti dovuto attraversare di notte l’arcipelago delle Dahlak, seguendo una “rotta di sicurezza” (definizione decisamente impropria, date le circostanze) che li avrebbe condotti attraverso il Canale di Nord-Est per uscire dall’arcipelago; superata l’isola di Dohul, avrebbero poi assunto rotta verso nord. Le Dahlak erano e sono caratterizzate da innumerevoli isole ed isolotti e, quel che è peggio, scogli e secche talvolta non segnate sulle carte nautiche: attraversarle di notte con gli strumenti di navigazione in cattivo stato era, probabilmente, non molto meno pericoloso che affrontare gli aerei britannici che si sarebbero avventati sulle navi italiane quando fossero giunte nei pressi di Suez.
Verso le 22 del 31 marzo Leone, Tigre e Pantera si lasciarono al traverso a dritta le isole di Tanam, Wusta ed Isratu (nell’estremità settentrionale dell’arcipelago delle Dahlak), e intorno a mezzanotte si lasciarono al traverso anche l’isolotto di Awali Hutub. A questo punto la zona più pericolosa era stata superata; la V Squadriglia era entrata in acque più profonde e meno insidiose, dove poté anche incrementare la propria velocità (che fu portata a 24 nodi), così da potersi avvicinare a Suez con il favore della notte.
Fu proprio a questo punto che si verificò il disastro.
Improvvisamente, alle 00.30 del 1° aprile, il Leone venne scosso da un forte urto e si immobilizzò dopo pochi metri; Tigre e Pantera, proseguendo a 24 nodi, passarono a fianco del Leone – uno a dritta e l’altro a sinistra – senza che loro accadesse nulla (intanto, gli ecoscandagli continuavano a segnalare profondità ben maggiori di quelle del limite di sicurezza), poi rallentarono e ritornarono verso di esso, prestando la massima attenzione ad eventuali ostacoli.


Il Leone in navigazione in tempo di pace (da www.regiamarinaitaliana.it)

Il Leone era finito contro una formazione madreporica, non segnata sulle carte nautich: due punte madreporiche isolate erano bastate a fermare per sempre la corsa del cacciatorpediniere, circa tredici miglia a nord di Awali Hutub (potrebbe essersi trattato del Fawn Reef, che corrisponde alle caratteristiche descritte – formazione corallina isolata, in mezzo ad un tratto di mare profondo – e vicino alla quale le carte nautiche dell’Ammiragliato britannico indicano oggi la presenza di un relitto: in tal caso, però, le navi italiane avrebbero commesso un grosso errore nella stima della posizione, dato che il Fawn Reef si trova a più di 26 miglia a nord di Awali Hutub, anziché a 13) e 45 miglia a nord di Massaua. Data la loro conformazione, siffatte formazioni sfuggivano spesso agli scandagliamenti; la Regia Marina aveva effettuato infatti ben due campagne idrografiche in quelle acque, ma evidentemente quello scoglio era stato mancato.
L’urto contro lo scoglio madreporico aveva causato gravi vie d’acqua nello scafo del Leone; come se non bastasse, scoppiò anche un violento incendio a prua, nel locale caldaia 4. Gli sforzi dell’equipaggio di arrestare gli allagamenti e domare le fiamme risultarono vani; quest’ultima opera, anzi, peggiorò la situazione, perché l’allagamento del deposito munizioni prodiero, minacciato dall’incendio, causò anche lo spegnimento della caldaia numero 1, l’unica che ancora funzionasse.
Il comandante Scroffa, d’accordo col caposquadriglia Gasparini, dovette giungere alla triste conclusione: il Leone era perduto e non restava ormai altro da fare che accelerarne l’affondamento. Vennero aperte tutte le prese a mare, e l’equipaggio fu trasferito su Tigre e Pantera.
Pur ferito a morte, il Leone si rifiutò ostinatamente di morire. Quando giunse l’alba, la nave galleggiava ancora: pertanto il caposquadriglia Gasparini dovette dare ordine di prendere a cannonate l’unità dipendente, per farla affondare più in fretta.
Dopo aver incassato anche diverse cannonate del Pantera, il Leone sbandò sulla dritta e s’inabissò per sempre alle cinque del mattino del 1° aprile 1941. Tigre, Pantera, Sauro, Battisti e Manin lo avrebbero raggiunto presto sui fondali del Mar Rosso, nel giro di tre giorni.
Il relitto del Leone, affondato in acque non molto profonde, venne avvistato lo stesso 1° aprile da aerei britannici della Fleet Air Arm decollati da Port Sudan (che in precedenza lo avevano già avvistato in navigazione); i britannici conclusero correttamente che la nave dovesse essersi incagliata od autoaffondata (erano accadute entrambe le cose). Alcuni cannoni da 120 mm, recuperati dal relitto, vennero impiegati nell’ultima difesa di Massaua.

Così il tenente di vascello Ennio Giunchi, allora imbarcato sul Pantera, avrebbe ricordato la perdita del Leone nel suo libro "Ultima missione in Mar Rosso": «Venne la notte. Percorrevamo la rotta di sicurezza nord fra le isole Dahlak e la costa eritrea. I rilievi idrografici vi erano incerti e ci si navigava per niente tranquilli; l’unica “sicurezza” che poteva darci quella rotta era che soltanto la fortuna poteva evitarci di dare in secco. Infatti dalla plancia del Pantera vedemmo d’un tratto il Leone, che procedeva in testa alla linea di fila, ingrandire rapidamente: gli correvamo addosso; facemmo appena in tempo ad accostare e sfilammo lungo il suo bordo di dritta. Ci segnalò che aveva dato in secco. Parve in un primo momento che l’avaria non fosse grave. Ma alte fiamme si levarono al centro della nave, dagli osteriggi di macchina e dai fumaioli, lambendo le teste dei siluri e le riservette delle munizioni. Si decise di abbandonare la nave. (…) Due ore dopo il Leone non era più che un relitto fiammeggiante, il suo equipaggio era in salvo sulle altre navi; il comandante Scroffa aveva preso imbarco sul Pantera, portando con sé, del suo bagaglio, solo la sciabola. Ci recammo (…) ad ancorarci in luogo più sicuro, in attesa del giorno; non si poteva proseguire senza prima cancellare le tracce del nostro passaggio, né si poteva manovrare di notte fra gli scogli per affondare il Leone. Dopo una notte di veglia spuntò un’alba livida, fasciata di nebbia. Tornammo indietro scandagliando finché avvistammo il Leone. L’incendio si era spento, la nave vuota pareva attenderci piena di speranza, attendere i suoi uomini. Dovevamo finirla a cannonate, e ci sentivamo come chi, sperduto nel deserto senza risorse, uccide per pietà il compagno incapace di proseguire. Il Pantera aprì il fuoco, tiro teso, da poco più di mille metri. Con una specie di rabbia sorda Sabbatini metteva a segno tutti i suoi colpi: vedevamo larghi squarci aprirsi nei fianchi del Leone che, rotta la catena dell’ancora, cominciò a derivare e parve d’un tratto volersi difendere. Infatti con stupore, quasi con sgomento, vedemmo d’un tratto un tracciante di mitragliera partire dalla sua ala di plancia; il puntino luminoso fischiò sui nostri fumaioli. Forse una scheggia aveva colpito la leva di sparo dell’arma. Ma quella risposta della nave ferita ci parve un rimprovero della sua anima, alla quale noi marinai crediamo. Sospendemmo il tiro e ci allontanammo; d’un tratto il Leone parve cambiar colore, si capovolse e continuò a galleggiare con la chiglia in alto. Quando guardai di nuovo non lo vidi più.»

Dell’equipaggio del Leone, persero la vita nell’incidente il marinaio silurista Giovanni Melano ed il marinaio torpediniere Dino Pannocchia, che risultarono dispersi.
Il resto dell’equipaggio fu riportato a Massaua da Tigre e Pantera, che abortirono la missione perché il tempo perso a causa del sinistro del Leone impediva di avvicinarsi a Suez col favore della notte (giunsero a Massaua in tarda mattinata). Quando il 2 aprile le due navi ripartirono per attaccare Port Sudan, per non fare più ritorno, il comandante Scroffa era a bordo del Pantera, deciso a vendicare la sua nave; anche altri naufraghi del Leone si erano imbarcati più o meno di soppiatto sulle navi in partenza per l’ultima missione (Tigre, Pantera ed anche Sauro, Battisti e Manin) e ne condivisero la sorte, fino all’affondamento delle unità ed all’internamento in Arabia Saudita. Scroffa, che fu tra gli internati, rientrò in Italia nel marzo 1943 in seguito ad un singolare scambio organizzato tra italiani e britannici e svoltosi in Turchia; ebbe di nuovo il comando di un cacciatorpediniere, il Fuciliere.
Gli altri superstiti del Leone, rimasti a Massaua, caddero in prigionia pochi giorni dopo, l’8 aprile, quando la piazzaforte si arrese alle forze del Commonwealth dopo che ogni nave ancora presente nel suo porto si era autoaffondata. Due degli uomini del Leone morirono durante la lunga prigionia: il marinaio cannoniere Rosario Andronaco morì in India il 18 giugno 1943, ed il marinaio fuochista Giovanni Corciulo morì in Kenya il 30 novembre 1945, a guerra finita.
 
Un’altra immagine del Leone

domenica 31 gennaio 2016

Felce

Il Felce (Coll. Staatsarchiv, Brema – da www.ddghansa-shipspotos.de

Piroscafo da carico da 5639 tsl, 3518 tsn e 8600 tpl, lungo 128,36-132,59 metri, largo 16,76 e pescante 7,63-8,7, con una velocità di 11,5 nodi. Appartenente all’armatore Achille Lauro, di Napoli, ed iscritto con matricola 336 al Compartimento Marittimo di Napoli.

Breve e parziale cronologia.

20 settembre 1910
Varato dai cantieri Tecklenborg J. C. – Johannes Carlo Teclenborg A. G. di Geestemunde come Freienfels (numero di cantiere 237).

Il varo del Freienfels (Coll. Peter Kiehlmann, da www.ddghansa-shipspotos.de)

22 novembre 1910
Completato per la compagnia Deutsche Dampfschifffahrts Gesellschaft Hansa, con sede a Brema. Nominativo di chiamata QJVC; le caratteristiche originarie sono 5633 tsl, 3545 tsn, 8705 tpl. Ha sette gemelle: Ockenfels, Birkenfels, Kandelfels, Sturmfels, Huberfels, Lauterfels e Spitzfels.
5 agosto 1914
Lo scoppio della prima guerra mondiale sorprende il Freienfels a Calcutta, nell’India controllata dai britannici: essendo di una nazione nemica, il piroscafo viene catturato ed affidato all’Ammiragliato (Royal Navy), che lo dà in gestione alla compagnia Grahams & Co. Ltd. La nave viene registrata a Londra; il nominativo di chiamata viene cambiato in JLGB.
Armato con equipaggio britannico, il Freienfels viene trasferito a Bombay e sottoposto a lavori di modifica per imbarcare uomini ed animali del Camel Corps, per un’operazione programmata nel Golfo Persico.
1919 o 1920
Finita la guerra, il Freienfels viene trasferito sotto il controllo della Segreteria di Stato per l’India, che lo dà in gestione all’India Office Shipping Director.
Assieme ad altri quattro mercantili della DDG Hansa, il Freienfels è una delle sole navi tedesche catturate che, sebbene confiscate, non sono considerate prede di guerra; a seguito del trattato di Versailles, ne viene disposta la vendita.
Giugno 1925
Posto in vendita; dapprima rimane a Dunkerque dal 6 al 18 giugno, per poter essere ispezionato da potenziali acquirenti, poi è disarmato a Falmouth in attesa della vendita. Nel parlamento britannico si è già valutata la possibilità di vendere le cinque navi della DDG Hansa (il cui utilizzo ha permesso un guadagno di 1.700.000 sterline) alla Grecia.
1925
Venduto agli armatori greci Pnevmaticos, Rethymnis, Yannaghas & Co. di Sira e ribattezzato Hadiotis (nominativo di chiamata NPCL).
1927
Trasferito alla Kassos Steam Navigation Company, anch’essa avente sede a Sira, senza cambiare nome. Rimane sotto la gestione di Pnevmaticos, Rethymnis, Yannaghas & Co.
Settembre 1928
Acquistato dall’armatore napoletano Achille Lauro e ribattezzato Felce (nominativo di chiamata IBVL).
Dicembre 1933
Partito da Cuddalore con 150 lavoratori asiatici a bordo, il Felce scampa ad un ciclone che provoca un centinaio di morti nella provincia di Madras.

La nave fotografata a Capetown tra il 1934 ed il 1936 (g.c. John H. Marsh Marittime Research Centre di Capetown, via Mauro Millefiorini e www.naviearmatori.net

18 gennaio 1937
Il Felce s’incaglia a Gibuti, ma, dopo essere stato alleggerito del carico, può essere disincagliato con l’aiuto di un rimorchiatore.
30 giugno 1938
Una bomba, inesplosa, viene scoperta a bordo del Felce nel porto di Taranto. L’ordigno è stato piazzato a bordo durante una sosta in un porto scandinavo, ad opera di un membro della rete di sabotatori organizzata da Ernst Wollweber, comunista tedesco in esilio che ha pianificato una serie di sabotaggi ai danni di navi appartenenti alle nazioni che riforniscono i nazionalisti di Francisco Franco nella guerra civile spagnola.
Marzo 1940
A guerra mondiale già scoppiata, ma durante la non belligeranza italiana, il Felce finisce al centro di un incidente internazionale: partito da Rotterdam e diretto in Italia con un carico di carbone tedesco, viene sequestrato e dirottato da cacciatorpediniere britannici nella rada delle Downs (al largo di Deal, nel Kent, dove è stata stabilita una base britannica per i controlli sul contrabbando) dalle unità britanniche che assicurano il blocco navale contro la Germania (dal 1° marzo è entrato in vigore il divieto, imposto dal Regno Unito, dell’esportazione di carbone tedesco da Rotterdam in Italia, pena l’intercettazione in alto mare e conseguente sequestro delle navi e confisca dei carichi come preda bellica), per effettuare controlli. Stessa sorte subiscono anche altre sette navi italiane anch’esse cariche di carbone: i piroscafi Orata, AbsirteaLianaRapidoErnesto e Caterina e la motonave Loasso, ed entro l’8 marzo il numero salirà a 15, tra cui i mercantili Pozzuoli, Ischia, Integritas, PamiaSemien e San Luigi (in tutto in quei giorni vi sono a Rotterdam 17 navi intente a caricare carbone: l’Italia, per questa risorsa di energia, dipende infatti dalle importazioni, ed il 60 % del carbone importato – 11.000.000 di tonnellate – viene dalla Germania). In tutto più di 100.000 tonnellate di carbone vengono confiscate. Il governo italiano invia a Londra una forte nota di protesta, dicendo che l’accaduto mette in discussione le relazioni politiche ed economiche stabilite tra i due paesi, e la notizia viene riportata da numerosi giornali tedeschi (che parlano di pirateria e furto ai danni dell’Italia), britannici (alcuni dei quali rivendicano il diritto del Regno Unito di interdire le esportazioni di carbone della Germania, mentre altri prospettano una crisi con l’Italia ed ipotizzano i suoi risvolti), italiani (tra i quali “Il popolo d’Italia” denuncia l’accaduto come imperdonabile, mentre altre testate auspicano una soluzione che non nuoccia ai rapporti anglo-italiani), australiani, americani. A Venezia un folto gruppo di studenti universitari organizza una manifestazione di protesta (la prima manifestazione antibritannica dai tempi della guerra d’Etiopia) contro il blocco navale britannico sotto il consolato del Regno Unito, venendo disperso da polizia e carabinieri. L’accaduto sconcerta anche molti circoli italiani usualmente favorevoli ai britannici.
Tutte le navi, tranne la Loasso (che ha caricato il suo carbone prima che il divieto entrasse in vigore), vengono rilasciate solo dopo la confisca del carico.
 

Il Felce nel 1930 (g.c. Pietro Berti, via www.naviearmatori.net
Da Haifa alla Tunisia

Il destino, posto che esista, giocò più di uno strano scherzo alla nave chiamata Felce.
Questo piroscafo, infatti, fu una delle pochissime navi che poterono annoverare di essere state sorprese dallo scoppio di entrambe le guerre mondiali in un porto nemico: come il Freienfels era stato sorpreso dallo scoppio della prima guerra mondiale a Calcutta, nella colonia britannica dell’India, così il Felce, quando l’Italia dichiarò guerra al Regno Unito (10 giugno 1940) iniziando così la propria partecipazione al secondo conflitto mondiale, si trovava nel porto di Haifa, nella Palestina sotto mandato britannico.
La conseguenza naturalmente fu, come 26 anni prima, la cattura. Confiscata dalla Corte delle Prede della Palestina con decreto del 16 giugno 1940 ed affidata al Ministry of War Transport, la nave venne di nuovo registrata a Londra, ribattezzata Empire Defender e ricevette il nuovo nominativo di chiamata GPJG; fu data in gestione alla City Line Ltd.
L’equipaggio italiano del Felce, che aveva dichiarato di non essere al corrente dell’entrata in guerra dell’Italia, venne internato. Uno dei suoi componenti, l’ufficiale di macchina Antonio Tenze, triestino, morì in prigionia il 21 aprile 1943.

Sotto bandiera britannica, l’Empire Defender navigò nel Mediterraneo, nel Mar Rosso, nell’Oceano Atlantico e nell’Oceano Indiano. Il 4 novembre 1940 il piroscafo salpò da Suez con il convoglio BS 8 (composto da 18 mercantili britannici, due norvegesi, due indiani ed uno egiziano, scortati dall’incrociatore leggero HMS Leander, dal cacciatorpediniere HMS Kingston e dagli sloops Flamingo, Grimsby, Indus e Clive, questi ultimi due indiani), dal quale poi si separò e diresse per Port Sudan, arrivandovi l’8 novembre; da qui ripartì il 22 novembre unendosi al convoglio BS 9 (salpato da Suez il 18 novembre con 14 mercantili britannici, 3 norvegesi, 2 greci, uno olandese, uno indiano ed uno sudafricano, scortati dagli incrociatori HMS Leander, HMAS Hobart e HMS Carlisle, dal Kingston e dagli sloops HMS Auckland, HMIS Clive, HMS Grimsby e HMIS Hindustan), e quando questo si disperse il 26 novembre (in posizione 12°30’ N e 48°23’ E) l’Empire Defender fece rotta per Mombasa, dove giunse l’8 dicembre. Lasciata Mombasa il 15 dicembre, la nave raggiunse Durban undici giorni dopo.
Nel 1941 la gestione dell’Empire Defender fu trasferita alla Stanhope Steamship Company Ltd, che armò la nave con ufficiali britannici ed un equipaggio di lascari (indiani).
Il 6 aprile 1941 la nave salpò da Durban per Capetown, dove giunse l’11 aprile; ripartita il 17 aprile, tornò indietro dopo due giorni per poi ripartire il 3 maggio per Freetown, dove arrivò il 22 maggio. Da qui il piroscafo riprese il mare il 15 giugno per Santa Lucia (Piccole Antille), che raggiunse il 5 luglio, e cinque giorni dopo ripartì verso Hampton Roads, in Virginia, dove arrivò il 21 luglio. Il 10 agosto lasciò Hampton Roads, giungendo ad Halifax il 14, per poi partire da lì il 16 agosto con il convoglio HX 145 (56 mercantili britannici, 7 norvegesi, 6 olandesi, un greco ed un belga, scortati dall’incrociatore ausiliario HMS California e seguiti dalla nave soccorso britannica Zaardam), diretto a Liverpool, con un carico di merci varie. Il 30 agosto l’Empire Defender lasciò il convoglio HX 145 a Loch Ewe e si unì al convoglio WN 175 (43 mercantili britannici, 7 norvegesi, 4 olandesi, 3 greci, un estone ed uno svedese, senza scorta), col quale giunse a Methil il 3 settembre; qui si unì al convoglio FS 585 (15 mercantili britannici e 5 norvegesi, nessuna scorta) ed arrivò con esso a Southend-on-Sea il 6 settembre.
Ripartito da Southend il 27 settembre con il convoglio FN 524 (7 mercantili britannici ed un olandese, privi di scorta), il piroscafo giunse a Methil il 29 settembre, e l’indomani si unì al convoglio EC 79 (16 mercantili britannici, 3 norvegesi ed un olandese, senza scorta), col quale giunse ad Oban il 3 ottobre; l’Empire Defender proseguì e raggiunse Glasgow lo stesso giorno.

L’altro scherzo che il destino giocò al Felce consisté nella sua fine: nave italiana catturata ed impiegata in guerra dai britannici, infatti, finì affondata proprio dai precedenti “proprietari”.
Dopo l’arrivo a Glasgow, infatti, l’Empire Defender fu caricato di 9000 tonnellate di munizioni ed altri rifornimenti (con la massima segretezza possibile) e destinato a partecipare all’operazione «Astrologer»: un tentativo di rifornire Malta con due sole navi mercantili (l’altra era l’Empire Pelican), che avrebbero viaggiato isolate e senza scorta nel tentativo di non dare nell’occhio. Allo scopo, il piroscafo venne ridipinto con uno scafo nero, le sovrastrutture bianche ed il fumaiolo marrone chiaro, come in tempo di pace e diversamente dalla colorazione adottata in guerra dalla maggior parte dei mercantili; l’armamento (tranne sei mitragliatrici) venne rimosso, per far sembrare che la nave appartenesse ad una nazione neutrale. Per ingannare eventuali osservatori sulla destinazione del carico, sulle casse furono scritti i nomi di Durban e Capetown; dell’equipaggio, solo il comandante conosceva la vera destinazione del viaggio. La partenza era prevista per il 23 ottobre.
Il mattino del 20 ottobre, però, il «serang» (nostromo) dei lascari si recò dal comandante e gli disse che nessuno dei lascari era pronto a partire; spiegò che aveva avuto dei sogni per due notti successive, e che in entrambi la nave era stata affondata prima del prossimo novilunio. Concluse che l’equipaggio sarebbe salpato volentieri su una qualunque altra nave, da Glasgow o da un altro porto, per qualsiasi destinazione, ma che non sarebbero partiti con l’Empire Defender.
Né promesse (di permessi aggiuntivi, paghe supplementari, visita del mullah alla loro moschea locale), né suppliche, né l’invio della polizia con minacce di carcerazione e deportazione servirono a convincere i 60 lascari dell’equipaggio a partire; l’unica risposta che continuarono a ripetere fu “Ni jao” (“no andare”) e dopo due ore di tentativi per convincerli dissero tutti che avrebbero preferito finire in carcere ed essere deportati che partire con l’Empire Defender. Quando l’imbarco del carico giunse verso il termine, i lascari trasferirono i loro effetti personali in un vicino magazzino e si prepararono a dormirvi, per evitare che la nave potesse salpare di notte, con loro a bordo, mentre dormivano. A questo punto la compagnia cedette e si mise a cercare un altro equipaggio; ma gli altri lascari presenti nel porto di Glasgow non vollero nemmeno sentir parlare dell’Empire Defender.
Alla fine fu necessario ingaggiare altrettanti marittimi bianchi, pagando ciascuno di loro dieci sterline in contanti perché accettassero di viaggiare nelle sistemazioni dei lascari, ben più spartane di quelle dei marinai europei.
Il mattino del 27 ottobre, alle cinque, l’Empire Defender partì finalmente da Glasgow. Mentre la nave mollava gli ormeggi, il gruppo dei lascari la osservò silenziosamente dal magazzino. Il viaggio del piroscafo sembrò davvero cominciare sotto una cattiva stella: nel partire la poppa della nave urtò un’altra nave ormeggiata vicino, strappandola dagli ormeggi, e nel discendere il Clyde l’Empire Defender ebbe un’avaria al timone che provocò una collisione con un’altra nave che stava venendo rimorchiata verso il molo, con seri danni ad entrambe (d’altra parte, però, queste due collisioni potrebbero essere il frutto di una successiva “infiorettatura” per rendere la “profezia” dei lascari ancora più evidente: nel resoconto del secondo ufficiale dell’Empire Defender, infatti, non si fa parola di questo duplice incidente, ed anzi si dice che il viaggio si svolse senza incidenti fino all’11 novembre). Riparate le avarie, l’Empire Defender ripartì si unì al convoglio OG 76, salpato tre giorni prima da  Milford Haven e che giunse a Gibilterra l’11 novembre. Trenta miglia prima di giungere a Gibilterra, tuttavia, l’Empire Defender e l’Empire Pelican si separarono dal convoglio e proseguirono con la scorta di un solo cacciatorpediniere. Superato lo stretto di Gibilterra quello stesso giorno, i due mercantili si separarono (l’Empire Defender rallentò per fare in modo che l’Empire Pelican avesse un giorno di vantaggio, come programmato; poi assunse una velocità di dieci nodi) ed iniziarono la navigazione verso Malta; mentre era nelle acque della Spagna, l’Empire Defender assunse il nome fittizio di Josina fu verniciata sulle sue murate la bandiera spagnola. Nelle acque della Francia il nome fasullo fu cambiato in Nevada, e sullo scafo fu verniciata la bandiera francese; tutte le mitragliatrici furono rimosse dal ponte. Analogamente cambiarono le bandiere che sventolavano sulla poppa della nave.
Questo stratagemma non trasse però in inganno i comandi italiani. Alle 11 del 14 un aereo avvistò il piroscafo, seguendolo per tutto il giorno, ed al tramonto del 15 novembre l’Empire Defender venne attaccato da un aerosilurante Savoia Marchetti S. 84, pilotato dal maggiore Buri della 256a Squadriglia (108° Gruppo, 36° Stormo) della Regia Aeronautica (altre fonti, probabilmente errate, parlano di aerosiluranti Savoia Marchetti S. 79 del 130° o 132° Gruppo). L’aereo dapprima mitragliò i ponti del piroscafo, poi si allontanò e tornò dopo dieci minuti. Alle 16.40 il velivolo centrò il piroscafo con un siluro, incendiandolo; l’equipaggio fece appena in tempo ad abbandonarlo su due lance, prima che questi esplodesse ed affondasse alle 16.55, 18 miglia a sud dell’isola La Galite (a nordovest della Tunisia). Quattro dei 64 membri del suo equipaggio persero la vita, mentre gli altri 60 (tra cui un ferito) sbarcarono alle sei del mattino seguente a Tabarca, in Tunisia; qui i superstiti dell’Empire Defender furono internati nel campo di El Kef, così condividendo la sorte del precedente equipaggio italiano di quella stessa nave, dall’altra parte del Mediterraneo.
Nemmeno l’Empire Pelican giunse a Malta: era già stato affondato da aerosiluranti italiani il giorno precedente. Delle sette navi mercantili inviate a Malta isolate e senza scorta nel corso del 1941, solo una giunse a destinazione; l’affondamento di Empire Pelican ed Empire Defender diede il colpo di grazia a questo genere di tentativi. Da quel momento in poi, i britannici inviarono rifornimenti a Malta solo in convogli fortemente scortati o con navi da guerra veloci.
 

La nave quando portava il nome di Freienfels, con i colori della DDG Hansa (Coll. Holger Patzer, da www.ddghansa-shipspotos.de)