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Il Macallè (g.c. Marcello Risolo, via www.naviearmatori.net) |
Sommergibile di piccola crociera della classe Adua (detta anche “classe Africani”; dislocamento di 698 tonnellate in superficie, 866 tonnellate in immersione).
Ebbe la poco desiderabile distinzione di essere il primo sommergibile perduto dall’Italia nel secondo conflitto mondiale.
Nell’unica missione effettuata, conclusasi con il suo affondamento, percorse 450 miglia.
Breve e parziale cronologia.
1° marzo 1936
Impostazione nei cantieri Odero Terni Orlando del Muggiano (La Spezia).
29 ottobre 1936
Varo nei cantieri Odero Terni Orlando del Muggiano.
Due immagini del Macallè in costruzione (da www.ivg.it)
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Il varo del Macallè; in secondo piano è visibile l’incrociatore leggero Duca degli Abruzzi, in allestimento (g.c. Marcello Risolo, via www.naviearmatori.net) |
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Un’altra immagine del varo (da www.ivg.it) |
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Dettaglio della prua del Macallè |
1° marzo 1937
Entrata in servizio.
20 aprile 1937
Passato alle dipendenze di Maricosom (il Comando Squadra Sommergibili), viene assegnato alla XXIII Squadriglia Sommergibili di Napoli, con la quale svolge una breve crociera addestrativa.
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Nastrino per berretto da marinaio del Macallè (g.c. Ricardo Preve) |
27 agosto 1937
Inquadrato nel I Grupsom di La Spezia, il Macallè salpa da Trapani al comando del tenente di vascello Giuseppe Aicardi, per una missione clandestina nel Canale di Sicilia in appoggio alle forze franchiste durante la guerra civile spagnola.
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Il Macallè ormeggiato presso i cantieri del Muggiano insieme ai gemelli Gondar, Neghelli ed Ascianghi nel 1937-1938 (g.c. Aldo Cavallini, via www.naviearmatori.net) |
3 settembre 1937
Conclude la missione entrando ad Augusta. Durante la missione ha iniziato due manovre d’attacco, non portate a termine per l’impossibilità di identificare con certezza i bersagli, e percorso 171 miglia in superficie e 67 in immersione.
Questa missione si pone nel quadro della seconda campagna subacquea (una prima, di dimensioni molto più limitate, si è svolta tra la fine del 1936 e l’inizio del 1937) ordinata da Mussolini nell’agosto 1937 su richiesta di Francisco Franco, in risposta all’incremento del flusso di rifornimenti inviati dall’Unione Sovietica alla Spagna repubblicana, lungo la rotta Sebastopoli-Cartagena. Il 3 agosto Franco ha chiesto urgentemente a Mussolini di usare la sua flotta per fermare un grosso “convoglio” sovietico appena partito da Odessa e diretto nei porti repubblicani; sulle prime era previsto il solo impiego di sommergibili, ma Franco è riuscito a convincere Mussolini ad impiegare anche le navi di superficie. Nel suo telegramma Franco afferma: «Tutte le informazioni degli ultimi giorni concordano nell’annunciare un aiuto possente della Russia ai rossi, consistente in carri armati, dei quali 10 pesanti, 500 medi e 2 000 leggeri, 3 000 mitragliatrici motorizzate [sic], 300 aerei e alcune decine di mitragliatrici leggere, il tutto accompagnato da personale e organi del comando rosso [si trattava, in realtà, di una grossolana esagerazione]. L’informazione sembra esagerata, poiché le cifre devono superare la possibilità di aiuto di una sola nazione. Ma se l’informazione trovasse conferma, bisognerebbe agire d’urgenza e arrestare i trasporti al loro passaggio nello stretto a sud dell’Italia e sbarrare la rotta verso la Spagna. Per far ciò, bisogna, o che la Spagna sia provvista del numero necessario di navi o che la flotta italiana intervenga ella stessa. Un certo numero di cacciatorpediniere operanti davanti ai porti e alle coste dell’Italia potrebbe sbarrare la rotta del Mediterraneo ai rinforzi rossi: la cattura potrebbe essere effettuata da navi battenti apertamente bandiera italiana, aventi a bordo un ufficiale e qualche soldato spagnolo, che isserebbero la bandiera nazionalista spagnola al momento stesso della cattura. Invierò d’urgenza un rappresentante a Roma per negoziare questo importante affare. Nell’intervallo, e per impedire l’invio delle navi che saranno già in rotta per la Spagna, prego il governo italiano di sorvegliare e segnalare la posizione e la rotta delle navi russe e spagnole che lasciano Odessa. Queste navi devono essere sorvegliate e perquisite da cacciatorpediniere italiani che segnaleranno la loro posizione alla nostra flotta. Vogliate trasmettere in tutta urgenza al Duce e a Ciano l’informazione di cui sopra e la nostra richiesta, unita all’assicurazione dell’indefettibile amicizia e della riconoscenza del generalissimo alla nazione italiana».
Mussolini ha pertanto ordinato alla Marina di bloccare il Canale di Sicilia, per impedire l’invio di rifornimenti dall’Unione Sovietica (Mar Nero) alle forze repubblicane spagnole.
Il blocco navale viene ordinato da Marina Roma il 7 agosto ed ha inizio due giorni più tardi; oltre ai sommergibili, inviati sia al largo dei Dardanelli che lungo le coste della Spagna, prendono il mare gli incrociatori Armando Diaz e Luigi Cadorna, otto cacciatorpediniere ed altrettante torpediniere che si posizionano nel Canale di Sicilia e lungo le coste del Nordafrica francese. Cacciatorpediniere e torpediniere operano in cooperazione con quattro sommergibili ed un sistema di esplorazione aerea a maglie strette (idrovolanti dell’83° Gruppo Ricognizione Marittima, di base ad Augusta) e sono alle dipendenze dell’ammiraglio di divisione Riccardo Paladini, comandante militare marittimo della Sicilia, cui è affidata la direzione del dispositivo di sbarramento; successivamente verranno avvicendati da altre siluranti e dalla IV Divisione Navale (incrociatori leggeri Armando Diaz, Alberto Di Giussano, Luigi Cadorna, Bartolomeo Colleoni). Sono complessivamente ben 40 le navi mobilitate per il blocco: i quattro incrociatori della IV Divisione, l’esploratore Aquila, dieci cacciatorpediniere (Freccia, Dardo, Saetta, Strale, Fulmine, Lampo, Espero, Borea, Ostro e Zeffiro), 24 torpediniere (Cigno, Canopo, Castore, Climene, Centauro, Cassiopea, Andromeda, Antares, Altair, Aldebaran, Vega, Sagittario, Astore, Sirio, Spica, Perseo, Giuseppe La Masa, Generale Carlo Montanari, Ippolito Nievo, Giuseppe Cesare Abba, Generale Achille Papa, Nicola Fabrizi, Giuseppe Missori e Monfalcone) e la nave coloniale Eritrea. Altre due navi, gli incrociatori ausiliari Adriatico e Barletta, camuffati da spagnoli Lago e Rio, hanno l’incarico di visitare i mercantili sospetti avvistati dalle navi da guerra in crociera. I primi quattro sommergibili a partecipare al blocco, a partire dal 9 agosto, sono il Diaspro, il gemello Berillo ed i più grandi Ciro Menotti e Santorre Santarosa, che operano in cooperazione con le Squadriglie Cacciatorpediniere "Freccia" e "Zeffiro" e con le Squadriglie Torpediniere "Cigno" ed "Altair".
Il dispositivo di blocco è articolato in più fasi: informatori ad Istanbul segnalano all’Alto Comando Navale le navi sovietiche, o di altre nazionalità ma sospettate di operare al servizio dei repubblicani, che passano per il Bosforo; ad attenderle in agguato per primi vi sono i sommergibili appostati all’uscita dei Dardanelli. Se le navi superano indenni questo primo ostacolo, vengono segnalate alle navi di superficie ed ai sommergibili in crociera nel Canale di Sicilia e nello Stretto di Messina; qualora dovessero riuscire ad evitare anche questo nuovo pericolo (possibile soltanto appoggiandosi a porti neutrali) troverebbero ad aspettarle altre navi da guerra in crociera nelle acque della Tunisia e dell’Algeria. Infine, come ultima barriera per i bastimenti che riuscissero ad eludere anche tale minaccia, altri sommergibili sono in agguato lungo le coste della Spagna.
Il blocco si protrae dal 7 agosto al 12 settembre con intensità variabile; nel periodo di maggiore attività sono contemporaneamente in mare nel Canale di Sicilia 12 navi di superficie, 5 sommergibili e 6 aerei. Gli ordini per le navi di superficie sono di avvicinare e riconoscere tutti i mercantili avvistati, specialmente quelli privi di bandiera (e che non la issano subito dopo averne ricevuto l’intimazione dalle unità italiane), quelli che di notte procedono a luci spente, quelli con bandiera sovietica o spagnola repubblicana, quelli che hanno in coperta carichi di natura palesemente militare, e quelli che sono stati specificamente indicati per nome dal Comando Centrale. Se un mercantile viene riconosciuto come al servizio della Spagna repubblicana, la nave italiana che l’ha avvistato deve seguirlo e segnalarlo al sommergibile più vicino, che dovrà poi procedere ad affondarlo. Se quest’ultimo fosse impossibilitato a farlo, spetterebbe alla nave di superficie il compito di seguire il mercantile fino a notte, tenendosi in contatto visivo, per poi silurarlo una volta calata l’oscurità. I piroscafi identificati come “contrabbandieri” di notte devono invece essere subito affondati. Se venisse incontrato un mercantile repubblicano a grande distanza dalle acque territoriali della Tunisia, la nave che lo avvista deve chiamare sul posto uno tra Rio e Lago oppure una nave da guerra spagnola nazionalista (parecchie di queste sono appositamente dislocate nel Mediterraneo centrale) che provvederanno a catturarlo. Ordini tassativi sono emanati per evitare interferenze o incidenti con bastimenti neutrali (il che talvolta obbliga a seguire un mercantile “sospetto” per tutto il giorno al fine di identificarlo, dato che talvolta quelli diretti nei porti repubblicani usano bandiere false), e questo, insieme all’intensità del traffico navale nel Canale di Sicilia, rende piuttosto complessa e delicata la missione delle navi che partecipano al blocco.
Il blocco navale così organizzato (del tutto illegale, dato che l’Italia non è formalmente in guerra con la Repubblica spagnola) si rivela un pieno successo: sebbene le navi effettivamente affondate o catturate siano numericamente poche, l’elevato rischio comportato dalla traversata a causa del blocco italiano porta in breve tempo alla totale interruzione del flusso di rifornimenti dall’Unione Sovietica alla Spagna repubblicana. Soltanto qualche mercantile battente bandiera britannica o francese riesce a raggiungere i porti repubblicani, oltre a poche navi che salpano dalla costa francese del Mediterraneo e raggiungono Barcellona col favore della notte. Entro settembre, l’invio di mercantili con rifornimenti per i repubblicani dall’Unione Sovietica attraverso il Bosforo è praticamente cessato, tanto che i comandi italiani si possono ormai permettere di ridurre di molto il numero di navi in mare per la vigilanza, essendo quest’ultima sempre meno necessaria e non volendo provare troppo le navi in una zona dove c’è spesso maltempo con mare grosso. Ad ogni modo, le navi assegnate al blocco vengono mantenute nelle basi siciliane, pronte a riprendere il mare qualora dovesse manifestarsi una ripresa nel traffico verso la Spagna.
Oltre alla grave crisi nei rifornimenti di materiale militare, che si verifica proprio nel momento cruciale della conquista nazionalista dei Paesi Baschi (principale centro di produzione di armi tra le regioni in mano repubblicana), il blocco ha un impatto notevole anche sul morale dei repubblicani, tanto nella popolazione civile (il cui morale va deteriorandosi per la difficoltà di procurarsi beni di prima necessità) quanto nei vertici politico-militari, che si rendono conto di come, mentre i nazionalisti ricevono dall’Italia supporto incondizionato, persino sfacciato, con largo dispiego di mezzi, Francia e Regno Unito non sembrano disposte a fare molto più che parlare in aiuto alla causa repubblicana (in alcuni centri repubblicani si svolgono anche aperte manifestazioni contro queste due nazioni, da cui i repubblicani si sentono abbandonati).
Il
blocco italiano impartisce dunque un durissimo colpo ai repubblicani,
ma scatena anche gravi tensioni internazionali (specie col Regno
Unito) e feroci proteste sulla stampa spagnola repubblicana ed
internazionale, con accuse di pirateria – essendo, come detto,
un’operazione in totale violazione di ogni legge internazionale –
nei confronti della Marina italiana, ripetute anche da Winston
Churchill. Il governo britannico, invece, evita di accusare
apertamente l’Italia, dato che il primo ministro Neville
Chamberlain intende condurre una politica di “riavvicinamento”
verso l’Italia per allontanarla dalla Germania; anche questo fa
infuriare i repubblicani, che hanno fornito ai britannici prove del
coinvolgimento italiano (prove che i britannici peraltro possiedono
già, dato che l’Operational Intelligence Center dell’Ammiragliato
intercetta e decifra svariate comunicazioni italiane relative alle
missioni “spagnole”), solo per vedere questi ultimi fingere di
attribuire gli attacchi ai soli nazionalisti spagnoli.
Nel
periodo 5 agosto-12 settembre, i sommergibili italiani effettuano
complessivamente 59 missioni ed iniziano ben 444 attacchi, portandone
però a termine soltanto 24 (a causa delle citate regole restrittive
sulla necessità di identificare con assoluta certezza i bersagli
prima di lanciare), con il lancio di 43 siluri ed il conseguente
affondamento di quattro mercantili e danneggiamento di un
cacciatorpediniere.
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Un’altra immagine del Macallè (g.c. Ricardo Preve) |
1938
Trasferito a La Spezia, al comando del tenente di vascello Giuseppe Aicardi e poi del parigrado Salvatore Todaro. Successivamente trasferito a Taranto.
1938-1939
È comandante del Macallè il tenente di vascello Salvatore Todaro.
14 novembre 1938
Lascia Taranto per trasferirsi a Lero.
La sala macchine del Macallè (da www.marinaiditalia.com) |
16 novembre 1938
Arriva a Lero, dove rimane di stanza per alcuni mesi.
28 marzo 1939
Lascia Lero per rientrare in Italia.
30 marzo 1939
Arriva a Taranto.
22 ottobre 1939
Assume il comando del Macallè il tenente di vascello Alfredo Morone.
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In uscita dal Mar Piccolo nel 1939 |
4 marzo 1940
Trasferito in Mar Rosso in sostituzione di un altro sommergibile serie “600” rientrato per lavori, arriva nella base eritrea di Massaua (all’epoca facente parte della colonia dell’Africa Orientale Italiana), pochi mesi prima dell’entrata dell’Italia nella seconda guerra mondiale.
Entra così a far parte della LXXXII Squadriglia Sommergibili, insieme al similare Perla ed ai più grandi sommergibili oceanici Archimede e Torricelli; unitamente alla LXXXI Squadriglia (Galileo Galileo, Galileo Ferraris, Guglielmotti e Galvani) questi battelli costituiscono il VIII Gruppo Sommergibili (capitano di fregata Gino Spagone) di Massaua. Passa i mesi seguenti effettuando uscite addestrative.
Il sergente silurista Adriano Tovo descrive così, nel suo diario (in data 9 giugno 1940, il giorno prima dell’entrata in guerra), la vita a bordo del Macallè a Massaua: “Ho ultimato la regolazione dei siluri, la mia gente è stanca, sdraiati sotto la tenda di bordo, con la stoffa zozza ci togliamo il grasso dei siluri che unge quasi tutto il corpo. Il sudore gronda abbondante dalla nostra pelle quasi nera, ormai stracotta dai raggi solari più simili a pungenti aghi. Una doccia? Soltanto un sogno! Non c'è acqua. Tuffarsi nel mare? Il lichene non ci darebbe pace. E' la vita di ogni giorno. E' la vita del sommergibilista in Africa, è la più nera delle vite che un uomo possa condurre su questa terra. Sono stanco, stanco di tutto, sogno ad occhi aperti l'Asmara. Asmara! Asmara! Dove sei? Mandami un po' della tua aria fresca, mandami il sollievo accompagnato da una delle tue donne che tanto desidero…”.
Il ventenne sottocapo radiotelegrafista Giovanni Battista Ferrando, da Novi Ligure, registra parimenti nel suo diario l’attività dei giorni immediatamente precedenti l’entrata in guerra: “Si imbarcano siluri, munizioni, viveri acqua e nafta al completo, sbarchiamo i due tubi Gerolami (apparecchi di salvataggio), si bloccano le boe telefoniche a prora e poppa, lasciando così come unico mezzo di salvataggio la maschera Davis, maschera capace per un salvataggio a non più di 30 metri circa (…) si deve dunque morire per forza? Infine il nostromo e i suoi marinai di coperta procedono alla mimetizzazione del battello”.
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Il Macallè (quinto da sinistra) ormeggiato a Massaua con altri sommergibili (da www.portoercole.org) |
La prima vittima
La perdita del Macallè mostra come i sommergibilisti del Mar Rosso, prima che dal nemico, dovessero guardarsi da un nemico “interno”, molto più insidioso di qualsiasi avversario sul campo di battaglia. Un nemico invisibile ed inodore, che colpiva non visto: il cloruro di metile.
Si trattava di un gas altamente tossico, impiegato come refrigerante negli impianti di condizionamento dei sommergibili italiani; il clima del Mar Rosso, che in estate raggiungeva temperature dell’ordine dei 40 gradi con umidità prossima al 90 %, rendeva inevitabile l’utilizzo pressoché continuativo degli impianti di condizionamento, specialmente sui sommergibili. Finché tutto funzionava a dovere, non c’erano problemi; ma se si verificava una perdita di cloruro di metile dall’impianto, gli effetti erano disastrosi. La sua inalazione affliggeva il sistema nervoso centrale provocando sintomi che sulle prime assomigliavano a quelli dell’ubriachezza, per poi peggiorare con il passare del tempo. Gli intossicati presentavano sonnolenza, intontimento, stato confusionale e problemi respiratori, motori e di linguaggio; a concentrazioni maggiori, il gas poteva causare delirio, perdita di coscienza, paralisi, convulsioni e coma. Da ultimo, follia (anche irreversibile) e morte. Essendo il cloruro di metile sia inodore che incolore, era impossibile accorgersi di una sua perdita fino a quando gli uomini non iniziavano a mostrare i sintomi dell’intossicazione.
Proprio in seguito alla perdita del Macallè il colonnello medico Giordano, direttore del servizio sanitario della Regia Marina in Africa Orientale Italiana, avrebbe stilato una relazione sugli effetti dell’intossicazione da cloruro di metile: «…concentrazioni superiori a 49 parti di metile su 1.000.000 possono dare disturbi di varia entità che possono arrivare all’esito letale in concentrazioni di 77 parti su 1.000.000. Tuttavia tale indice di tossicità non è il solo che debba esser preso in considerazione negli incidenti occorsi sui sommergibili Macallè e Perla poichè è ovvio che tale indice, come per tutte le sostanze volatili, sia legato a numerosi fattori, rappresentati da un lato da condizioni ambientali proprie dei sommergibili (ambiente confinato, temperatura elevata, notevole grado di umidità, coesistenza di varie esalazioni quali ossido di carbonio, aldeidi, cloro, ecc.) dall'altro da particolari affinità in rapporto alle particolari condizioni in cui venivano a trovarsi a causa dell'organismo debilitato da lunga permanenza in clima torrido e dagli speciali disagi che comporta la vita sui sommergibili in tempo di guerra. Mentre i primi fattori sono da considerare come aggravanti dell'intossicazione di cloruro di metile, i secondi sono tali da abbassare certamente la soglia di tolleranza da parte dell'organismo. In base a tali considerazioni si può fondatamente ritenere che la sintomatologia presentata dagli equipaggi in parola, quale venne riferita dai superstiti, dai sanitari giunti sul posto, ed ancora constatata in alcuni soggetti all'atto del ricovero dopo alcuni giorni nell'Infermeria di Massaua, debbano attribuirsi in modo preponderante all'azione tossica del cloruro di medie, che diffusosi accidentalmente nell'ambiente confinato, sia pure in piccolissime quantità, ha trovato tempo e condizioni favorevoli per esplicare la sua azione sugli infortunati. Tuttavia non si può escludere che altre cause (ossido di carbonio, ecc.) per particolari condizioni di luogo e di affinità da parte dei soggetti, abbiano esplicato un'azione tossica aggravante in determinati individui, conducendo anche all'esito letale. Quanto alla sintomatologia dei casi in esame, si constata che essa in gran parte ha riprodotto quella ormai classica riferita nelle pubblicazioni scientifiche al riguardo, cioè a carico del sistema nervoso, quali vertigini, andatura barcollante, ebbrezza, tremori, delirio, stupore, apatia improvvisa, impossibilità di calcolare, cambiamento di umore, abolizione del senso del dovere o esagerazione di esso, automatismo di gesti e di parole, ecc».
Le problematiche legate all’utilizzo del cloruro di metile erano emerse già in tempo di pace: il primo caso di intossicazione si era verificato nell’estate del 1937 sul sommergibile Glauco, in Mediterraneo, sul quale era rimasto intossicato quasi tutto l’equipaggio. A questo primo episodio ne erano seguiti altri quattro di minor gravità, in cui si erano verificate perdite di cloruro di metile che non avevano cagionato disturbi agli equipaggi; in seguito a ciò, nel febbraio 1938 il Comando dei sommergibili aveva proposto alla Direzione Generale delle costruzioni navali e meccaniche (Maricost) di sostituire il cloruro di metile con l’innocuo freon (diclorodifluorometano), già ampiamente utilizzato in America, ma la risposta (dispaccio 60705 del 16 febbraio 1938) era stata che la questione sarebbe stata esaminata «quando l’industria italiana fosse stata in grado di fornire il freon», non essendovi la capacità industriale per produrlo in quantità sufficienti. Per altra versione il freon venne escluso perché molto più costoso del cloruro di metile.
I Comandi responsabili si erano illusi che non si sarebbero raggiunte concentrazioni eccessive ed esposizioni troppo prolungate, anche sulla scorta di esercitazioni condotte in condizioni irrealistiche, non replicabili in tempo di guerra (durata massima 8-10 ore, secondo quanto ricordato molti anni dopo dall’allora guardiamarina del Macallè Elio Sandroni; nel corso di queste uscite l’impianto di condizionamento veniva attivato soltanto per 3-5 ore, quelle passate in immersione), quando si rimase in mare per periodi molto più lunghi e fu giocoforza passare più tempo in immersione, riducendo dunque la possibilità di aerare i locali e diminuire la concentrazione del pericoloso gas. Spegnere l’impianto di condizionamento non sarebbe stata un’alternativa praticabile, dato che con l’infernale clima africano la temperatura nei locali sarebbe salita sopra i 60 gradi: sui sommergibili del Mar Rosso, a differenza che nel Mediterraneo, l’impianto di condizionamento doveva essere tenuto sempre in funzione.
Altro problema del cloruro di metile era costituito dalla sua tendenza a provocare esplosioni: per ridurre questo rischio, sui sommergibili il cloruro di metile era stato mischiato al bromuro di metile, gas che ne riduceva l’esplosività ma che era anch’esso tossico, così che la miscela risultante risultava ancora più pericolosa per chi si trovava a respirarla. Anche l’acetofene, aggiunto al cloruro di metile per aumentare la possibilità di percepire una perdita con l’olfatto, rendeva quel gas ancora più tossico.
Dopo i primi incidenti il Comando dei sommergibili aveva raccomandato alcune precauzioni, ma tra il marzo 1938 ed il giugno 1940 si erano verificati ben 23 altri casi di fuga di cloruro di metile; di questi, ben venti casi avvennero su sommergibili operanti in Mar Rosso. Solo in quattro casi, però (due in Mar Rosso e due in Mediterraneo), le perdite cagionarono disturbi agli equipaggi, ed in nessuno di questi casi gli effetti sugli intossicati risultarono gravi, il che certamente contribuì alla sottovalutazione di un problema che invece esplose in tutta la sua gravità nei giorni immediatamente successivi all’entrata in guerra dell’Italia.
Il Macallè in bacino a Massaua nel 1940 (da “Marinai in guerra: 1940-1945, diari di tre ventenni” di Guido Alfano) |
Al comando del tenente di vascello Alfredo Morone, il Macallè partì da Massaua diretto verso nord alle quattro del pomeriggio del 10 giugno 1940, il giorno della dichiarazione di guerra. Il sottocapo radiotelegrafista Giovanni Battista Ferrando registrò così quei momenti nel suo diario: “[il mattino del 10 giugno] il nostromo ci viene ad avvertire di andare tutti a bordo, adunata a poppa di tutto l’equipaggio per comunicazioni, e qui il comandante Marone [sic] fa un discorso, dicendo fra l’altro che la grande ora per l’Italia è scoccata e fa quindi appello ad ognuno di noi invitandoci coscienziosamente ad adempiere ognuno il proprio dovere. Alle 16.45 si salta, tutto l’equipaggio al posto di manovra saluta i compagni sulla banchina, ed il Macallè lentamente scivola verso l’aperto mare. Il mare è calmo (…) Durante la notte Roma chiama tutti i sommergibili con un telegramma che dice: «Noto personaggio partito per l’Inghilterra». Guerra dunque, per me e per i miei compagni questa è una parola nuova, qualcuno aveva fatto la guerra di Spagna e raccontava tante belle cose, navi colate a picco, bellissimi giorni trascorsi a terra al ritorno dalle missioni, terribili momenti sotto bombardamento da parte di cacciatorpediniere nemici, etc.”.
Nelle disposizioni emanate nell’agosto 1939 il Comando Squadra Sommergibili (Maricosom) aveva stabilito, circa l’impiego in caso di guerra dei sommergibili di stanza in Mar Rosso, che nei primi tre giorni di ostilità si sarebbero dovuti impiegare i tre quarti dei sommergibili pronti (cioè sei su otto), dopo di che si sarebbero dovute organizzare le missioni nelle zone che sulla scorta delle informazioni disponibili al momento avrebbero offerto la maggior probabilità di successo, senza necessariamente mantenere costantemente un agguato in una stessa zona. Nei primi giorni del conflitto, sommergibili avrebbe dovuto essere inviati negli approcci di Port Sudan, Aden, Gibuti, Berbera ed Oman (uno per porto) ed a nord di Perim. La Direttiva Navale 4 (Di. Na. 4), emessa dall’alto Comando della Marina a fine settembre 1939, prevedeva che i sommergibili avrebbero dovuto attaccare con o senza preavviso, a seconda delle circostanze, il naviglio sicuramente riconosciuto come nemico, ed attenersi strettamente alle norme internazionali sulla condotta della guerra al traffico. La durata delle missioni sarebbe stata compresa tra gli 8 ed i 28 giorni (otto per quella al largo di Porto Sudan, la zona più vicina; 28 per quella nelle acque dell’Oman, la più lontana), incluso il tempo delle navigazioni di trasferimento, ed i comandanti avrebbero potuto decidere di allungare od abbreviare la permanenza nella zona assegnata a seconda delle circostanze.
Questi piani erano però stati rivisti dal comandante delle forze navali italiane in Africa Orientale, contrammiraglio Carlo Balsamo, in seguito al rafforzamento delle basi di Aden e Gibuti ed alla luce dell’esigenza di appoggiare – intralciando l’afflusso di rinforzi e rifornimenti anglo-francesi via mare – una progettata invasione della Somalia francese subito dopo l’inizio del conflitto, piano ideato dal viceré Amedeo di Savoia-Aosta e poi mai attuato. Per evitare un eccessivo logorio dei mezzi che già nei primi giorni d’impiego, ed al fine di mantenere una buona parte dei sommergibili efficienti per operazioni successive, l’ammiraglio Balsamo dimezzò gli agguati iniziali rispetto a quelli stabiliti da Maricosom e dalla Di.Na. 4, stabilendo che ve ne sarebbero stati soltanto tre, nei golfi di Tagiura e di Aden, tutti in appoggio all’operazione contro Gibuti; il 28 maggio 1940 Supermarina approvò le modifiche proposte da Balsamo, cui fu lasciata piena libertà d’azione. Il rapido evolversi degli avvenimenti tuttavia fece sì, alla fine, che Balsamo dovesse venire meno ai suoi propositi, mandando in missione quattro sommergibili, metà di quelli a sua disposizione, fin dall’inizio delle ostilità: Macallè, Galileo Galilei, Galileo Ferraris e Galvani, inviati rispettivamente al largo di Porto Sudan, di Aden, di Gibuti e nel Golfo di Oman. I primi tre avrebbero dovuto contrastare il traffico britannico nel Mar Rosso ed il naviglio isolato in navigazione nel Golfo di Aden ed al largo di Gibuti diretto verso Suez, prima che venissero formati dei convogli; il quarto avrebbe dovuto attaccare le grosse petroliere provenienti dall’Iran. La storia ufficiale dell’USMM così riassume: “…il lodevole criterio di una condotta di guerra decisamente offensiva, almeno nei primi giorni, il desiderio di tenere alto il nome della Marina, l’entusiasmo e lo slancio che animavano tutti, e magari anche la previsione di una rapida conclusione della guerra, finirono con l’indurre i comandi a non considerare più profondamente quella massa di dati e di elementi negativi forniti da esperienze e da esercitazioni in tempo di pace; a sormontare quei criteri restrittivi ai quali l’Ammiraglio di Massaua aveva in precedenza ispirato le sue proposte, e formularne altre, regolarmente approvate a Roma, per un largo impiego iniziale dei sommergibili… purtroppo le conseguenze di tanta larghezza non tardarono a farsi sentire, ed anche più gravi di quanto una visione meno ottimistica avrebbe permesso di prevedere”.
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Membri dell’equipaggio del Macallè a Massaua nel giugno 1940: in piedi, con in mano una bottiglia, il marinaio Paolo Costagliola (da www.portoercole.org) |
Gli ordini del Macallè prevedevano che si portasse in un punto situato otto miglia ad est di Porto Sudan, e rimanesse poi in agguato entro una fascia di trenta miglia da quel porto, restando immerso nelle ore diurne.
Il sergente silurista Adriano Tovo avrebbe così descritto la partenza per la missione e la notizia dell’entrata in guerra (una notevole discrepanza è costituita dal fatto che nel diario si parla della partenza del Macallè come avvenuta il 9 giugno 1940, invece che il 10 come riportato nella storia ufficiale dell’USMM): “Arriva Garasi, il flemmatico Sottocapo segnalatore. Ragazzi si parte. Per dove Garasi? Non si sa, alle dieci posto di manovra. Il comandante Alfredo Morrone arriva, lancia uno sguardo veloce a tutto l'equipaggio schierato a poppa e dice: Nostromo, pronti a mollare. Ognuno raggiunge il proprio posto, c'è un'aria di mistero, un'aria insolita. Molla a poppa, molla a prua, pari avanti adagio, tutta la barra a dritta. I primi giri dell'elica creano una scia di poppa, lascia la banchina... Il sommergibile Macallé con i suoi motori elettrici silenziosamente esce dal porto di Massaua. Pare che scivoli in questo mare piatto, a vederlo sembra una grande massa di olio. Sono le dieci e venti, al largo un po' di ventilazione ci fa rivivere, ma è il venticello prodotto dalla velocità del sommergibile perché di vento vero e proprio non ce n'è. Alle ore quattordici pronti per l'immersione, ma dove andiamo? Nessuno sa dove. Alle quattordici e trenta immersione.. Sempre più buio. Sul da farsi, in immersione nulla si sa, nulla si vede, solo il comandante guida il battello e i suoi uomini. Ore ventidue, aria all'emersione, c'è una brezza tesa, che delizia! Si respira a pieni polmoni, si fumano sigarette una dietro l'altra. Fumare, fumare. Sono otto ore che non si fuma, otto lunghe eterne ore! Si inizia la carica degli accumulatori. Un motore diesel per far girare un'elica e spingere il sommergibile, un altro per il dinamotore che darà la carica agli accumulatori che a loro volta faranno funzionare i motori elettrici per la propulsione in immersione. In immersione non si può sprecare aria per la combustione dei motori, per questo motivo si naviga con motori elettrici che non hanno bisogno di ossigeno. Alle ventitré, franco dalla guardia mi sdraio in cuccetta. Un rapido pensiero a mio padre, ai miei fratelli e alla mia povera madre defunta. Uno storpiato segno di croce residuo di una fede ormai vacillante ma ancora presente. Mi prende il sonno mentre il Macallé naviga verso ignota destinazione. (…) Alle ore cinque immersione, monto di guardia presso la mia camera lancia siluri, sono ormai le dieci e la quota è di sessanta metri sotto il pelo dell'acqua. Il Macallè è in linea di navigazione perfetta, il suo assetto lo fa sembrare immobile come posato su due cavalletti. Improvvisamente l'interfonico: Attenzione! Tutta la gente in camera di manovra. Il Secondo di bordo dà l'attenti, è il Signor Napp, Tenente di vascello e presenta l'equipaggio al Comandante. Attimi di silenzio, silenzio di tomba, tutto è fermo a bordo. Noto il tic tac dell'orologio, parla Morrone. La sua voce è ferma, il suo sguardo tiene a bada quarantaquattro uomini. Ragazzi!... Da questo momento siamo in guerra! (non si sente il respiro di nessuno). Contro l'Inghilterra, scrupolosamente faremo il nostro dovere! Che il destino della Patria salga ai massimi allori. So perfettamente, e ne sono sicuro, che tutti mi seguirete fiduciosamente. Le nostre famiglie ci seguono con il loro pensiero e ci benedicono. Siate sempre sereni e soprattutto calmi. Per il Macallé, per l'Italia, per noi tutti, in bocca al lupo! Viva il Re! Evviva! Rispondiamo con slancio. Ognuno ai propri posti! Tovo e Manfredini, approntate i siluri al lancio, distanza tremila metri, profondità tre metri, angolazione a zero, appena pronti avvisate. Signorsì! Alle dodici pronto! Pronto! Camera di manovra? Tutti i siluri pronti al lancio. Noto nel volto della gente uno sguardo mutato, sono più seri, le loro espressioni par che dicano: ho da fare qualcosa. Si naviga in rotta per Porto Sudan”.
Il Macallè, in primo piano, ormeggiato a Massaua con Perla, Archimede, Torricelli, Guglielmotti, Galvani, le torpediniere Giovanni Acerbi e Vincenzo Giordano Orsini ed altre unità il 10 giugno 1940 (Coll. Mario Cassisa, via www.qattara.it) |
Dopo aver lasciato la baia di Dachilia ed effettuato un’immersione di assetto, il sommergibile diresse in emersione verso il Canale del Nord, seguendo la rotta di sicurezza; procedendo in superficie nelle ore notturne ed in immersione in quelle diurne, avrebbe dovuto percorrere le 310 miglia che lo separavano dalla zona d’agguato in circa 55 ore. Non sarebbe stata una navigazione facile: nel tratto finale della traversata il Macallè avrebbe dovuto aggirare il dedalo di secche, scogli, isole ed isolotti disseminati tutt’attorno a Porto Sudan, e specialmente nelle acque a sudest di quella città. Per evitare di finire in quelle acque insidiose, dove il rischio d’incaglio sarebbe stato elevatissimo, il sommergibile avrebbe dovuto riconoscere e rilevare i fari degli isolotti di Masamarhu ed Hindi Gider e quello della secca di Sanganeb; rilevamenti che avrebbero dovuto giocoforza essere effettuati di giorno, al periscopio.
Ultimo punto di riferimento sicuro su cui il Macallè poteva fare affidamento era il faro italiano di Cavet, che venne acceso appositamente per il suo passaggio: sulla sua luce il sommergibile poté regolare la navigazione fino alle tre di notte dell’11 giugno, quando si spense. In quel momento il Macallè si trovava da circa venti minuti sulla rotta d’allontanamento (45°); una volta in franchia del settore di avvicinamento di Cavet, diresse verso l’isola di Masamarhu, tenendo una rotta (352°) che lo mantenesse a distanza di sicurezza dalle numerose secche ed isolotti situati a sud di quell’isola.
L’alba dell’11 giugno rivelò un cielo nuvoloso, che impedì all’equipaggio di fare il punto basandosi sugli astri; e la copertura nuvolosa perdurò per tutta la giornata ed anche quella successiva, precludendo qualsiasi osservazione astronomica. Come se non bastasse, non fu possibile nemmeno riconoscere il faro di Masamarhu (“per ragioni contingenti”, scrive la storia ufficiale dell’USMM). Ma i guai erano appena cominciati.
Adriano Tovo descrisse così nel suo diario la giornata dell’11 giugno: “Alle cinque immersione, siamo davanti all'uscita del porto, quota periscopica otto metri, il mare è piatto, la visibilità al periscopio è limpida, l'occhio del Macallé non vede anima viva. Gregorio un mio silurista milanese mi chiede: ma quando esce questo incrociatore? Calma Gregorio gli dico, ci vuole pazienza, nella guerra di Spagna per tre settimane a diciotto ore di immersione al giorno ho atteso davanti a Cartagena uno scafo da pizzicare. Arrivò finalmente, era il Ciurruca un caccia da duemila tonnellate, due "chiodi" in pancia e addio Ciurruca, calma Gregorio, verrà perché lo sento. Zigzaghiamo tutto il giorno. Nulla all'orizzonte! I sommergibilisti non perdono mai la calma, sanno attendere, altrimenti guai, diventerebbero pazzi in breve tempo. Io sono vecchio della vita d'agguato, la guerra di Spagna mi ha ben allenato. Alle ore ventuno aria all'emersione. Ora non si può più andare in coperta tutti insieme, i portelli sono sempre chiusi, il battello è pronto ad una eventuale immersione rapida, soltanto quello della torretta è aperto per favorire l'aspirazione dei motori. La plancia è piccola. In navigazione di superficie in torretta c'è il comandante, quattro vedette e un timoniere, sono già troppi per lo spazio che offre. Così a turno, uno alla volta per cinque minuti si sale a prendere una boccata d'aria. Inspirazioni profonde a pieni polmoni, aria, aria pura, che delizia! E' il mio turno, fumo una sigaretta, tenendo la brace chiusa nel palmo della mano, la brace potrebbe tradirmi, nel buio si vede a distanza. Il Secondo Napp fa assemblea in camera di manovra, un breve discorsetto sfotticchiando un po' tutti, poi dà l'attenti e fa cenno all'Ufficiale di rotta, signor Sandroni, di iniziare la preghiera del Marinaio. Tutti assumiamo un aspetto serio, il battito del cuore cambia ritmo. A te o grande eterno Iddio Signore del cielo e dell'abisso, cui obbediscono i venti e le onde, noi uomini di mare e di guerra, Ufficiali e Marinai d'Italia, da questa sacra nave armata dalla Patria leviamo i cuori. Salva ed esalta nella sua fede o gran Dio la nostra nazione, salva ed esalta il Re. Dai giusta gloria e potenza alla nostra bandiera, comanda che le tempeste ed i flutti servano a lei. Fa che per sempre la cingano in difesa petti di ferro più forti del ferro che cinge questa nave, a lei per sempre dona la vittoria! Benedici o Signore le nostre case lontane, le care gemi. Benedici nella cadente notte il riposo del popolo, benedici noi che per esso vegliamo in armi sul mare. Benedici Viva il Re! Evviva”. (Anche qui si rileva una notevole difformità rispetto alla storia ufficiale dell’USMM, dal momento che il Macallè non risulterebbe essere mai giunto davanti a Porto Sudan. Sembrerebbe che in realtà il diario originale di Tovo sia stato da questi perduto – come si vedrà più avanti – e sembra dunque probabile che Tovo abbia ricostruito gli eventi relativi ai giorni precedenti il naufragio affidandosi alla memoria, probabilmente alterata anche in conseguenza dell’intossicazione da cloruro di metile). La sera dell’11 il Macallè ricevette da Roma un secondo messaggio, che disponeva di applicare la tabella mercantile.
Il 12 giugno il mare si mantenne calmo, con caldo torrido; l’impianto di condizionamento funzionava a pieno regime, ma non riusciva a contrastare l’effetto del sole che quasi arroventava lo scafo del sommergibile a forza di battervi. Nel corso di quella giornata, alcuni uomini addetti alla camera di lancio siluri prodiera iniziarono a manifestare sintomi di intossicazione: nausea, spossatezza, inappetenza, difficoltà di concentrazione. Fu considerata la possibilità di una perdita di cloruro di metile, ma una pur accurata ispezione delle tubolature dell’impianto di condizionamento non sembrò mostrare perdite di gas; si pensò pertanto che gli uomini avessero mangiato del cibo avariato, o ad un accumulo di anidride carbonica in quel locale, od ancora alle pestilenziali esalazioni di alcuni buglioli cui l’equipaggio aveva dovuto ricorrere per un’avaria alla latrina d’immersione. Si cercò di ovviare come si poté: gli intossicati, nelle ore di navigazione in emersione, vennero tenuti a respirare affacciati ai boccaporti; venne somministrato del latte ed i locali interni vennero abbondantemente ventilati. Ma la situazione non migliorò.
Il Macallè raggiunse la zona d’agguato il mattino del 13 giugno, ed una schiarita rese finalmente possibile fare il punto astronomico, che rivelò che il sommergibile era spostato di una ventina di miglia ad ovest rispetto al punto stimato; durante la giornata venne pertanto mantenuto l’agguato con rotta verso est. Secondo il diario di Giovanni Battista Ferrando, in mattinata il Macallè s’immerse ad una profondità di una decina di metri, rimanendovi anche durante il pomeriggio; nelle ore pomeridiane vennero rilevate agli idrofoni tre sorgenti sonore, una stazionaria e due in movimento, ed il sommergibile si portò a quota periscopica, ma non avvistò niente. A sera il battello riemerse per ricaricare le batterie.
Sopra, a destra, Giovanni Battista Ferrando; sotto, una pagina del suo diario (da “Marinai in guerra: 1940-1945, diari di tre ventenni” di Guido Alfano)
A bordo si cercava intanto di fare qualcosa per migliorare le condizioni degli intossicati, il cui numero non faceva che aumentare. Lo stesso comandante Morone e gli altri ufficiali iniziarono a sentirsi male; tra i più colpiti era anzi proprio l’ufficiale di rotta, il guardiamarina viareggino Elio Sandroni, proprio quando la sua opera sarebbe stata più necessaria. Lo stato d’intossicazione ed intontimento generato dal cloruro di metile – ché questa, nonostante i risultati dell’esame iniziale delle tubolature dell’impianto di condizionamento, era la causa del malessere generale – rendeva difficile la condotta della navigazione, lunghe e faticose le osservazioni astronomiche serali ed il calcolo del punto.
Dal diario di Adriano Tovo: “13 giugno. Attenzione! Attenzione, l'interfonico chiama la mia sezione poppiera. Poppa, parla camera manovra. Tovo in camera di manovra. Mi dirigo al centro, il Comandante: Tovo siamo con i locali in pressione, compressore di poppa in moto. Perché dà a me questo ordine? A prora c'è un capo silurista... non discuto e mi avvio a prora, cosa vedo? Le nove persone destinate in questo locale sdraiate a terra, chi con le mani legate ad una maniglia fissa, altri con gli occhi stralunati, altri dormienti. Cosa succede? Manfredini che ti piglia? Marchetti! Marchetti parlo con te, che cosa fai? Questo mi risponde con una risata e gesticola con le mani. Santo cielo qui sono tutti impazziti! Non riesco a rendermi conto di cosa possa essere accaduto. Metto in moto il compressore, porto la pressione regolare affidandomi al barometro, richiudo la paratia stagna e ritorno in camera di manovra. Incontro subito con lo sguardo il Comandante, non riesco a pronunciare parola che mi fa cenno di tacere, mi accosto, mi fissa un attimo negli occhi, china due o tre volte la testa e sotto voce mi dice: cloruro di metile! I condizionatori d'aria servono a ridurre la temperatura ambiente e per ottenere tale risultato, nel complesso di questa macchina, ci sono anche le bombole di cloruro di metile, questo gas è indispensabile per ottenere il raffreddamento dell'aria ma una sua fuoruscita può essere mortale. Non c’è sistema per trovare la perdita di questo gas perché è invisibile, incolore, inodore, agisce sull'uomo lentamente provocando sonnolenza, poi pazzia e con l'abuso la morte! Nove uomini sono destinati a prora, nove pazzi adesso lottano e giocano con la morte! La missione continua, il condizionatore è stato fermato, la bombola del gas si è ormai esaurita, il suo effetto non si è smentito. La temperatura sale, abbiamo al termometro a quarantanove gradi. Una follia”.
Consapevole della scarsa affidabilità del punto calcolato in quelle condizioni, il comandante Morone decise di mantenere, durante la notte, due rotte di pari lunghezza, la prima verso nord e la seconda verso sud, in modo da riportare il sommergibile – al netto dello scarroccio – più o meno nello stesso punto della sera. Nel corso della notte il locale di prua venne ancora abbondantemente ventilato e vi fu poi immesso dell’ossigeno, ma la situazione non accennò a migliorare.
All’alba del 14 giugno, poco prima di ordinare l’immersione, il comandante Morone avvistò un traliccio molto alto con accanto una casetta, che – considerato il punto astronomico eseguito la sera precedente e l’effetto stimato della corrente, piuttosto forte in quella zona – ritenne essere quello delle secche di Sanganeb, il che avrebbe significato che il Macallè era in acque libere. Era invece il faro di Hindi Gider, distante ben trenta miglia da quello di Sanganeb: il sommergibile, senza saperlo, si trovava proprio nella zona di secche ed isolotti a sudest di Porto Sudan, molto più a sud e ad est di quanto Morone non credesse. La Commissione d’inchiesta istituita sulla perdita del Macallè avrebbe in seguito ricavato la convinzione «che il comandante nella giornata del 14 non fosse nel pieno delle sue facoltà mentali e psichiche, e che presentasse i primi sintomi di avvelenamento per cloruro di metile, con manifestazioni di apatia, difficoltà di calcolare e di ragionare, automatismo di gesti e di parole. La relazione medica indica appunto che per avvelenamento per cloruro di metile i principali disturbi, ed i primi a comparire in ordine cronologico, sono quelli a carico del sistema nervoso con inibizione delle funzioni cerebrali più nobili».
Durante la giornata del 14, passata in immersione, le condizioni degli intossicati andarono peggiorando, tanto che si rese necessario sguarnire la camera di lancio siluri poppiera, rinunciando al suo utilizzo, per mandare tutti i siluristi ancora validi nella camera di lancio prodiera, il cui personale era ormai tutto fuori combattimento. «Alcuni ammalati hanno perduto il controllo delle loro azioni e girano nudi per i locali, insensibili ai richiami. Il Sottocapo Acefalo è particolarmente irrequieto e dice anche frasi prive di senso». Un marinaio, vestitosi con la grande uniforme, tentò di “andare in licenza”; altri esplodevano in fragorose risate senza motivo. Ormai la maggior parte dell’equipaggio era intossicato, compresi tutti gli ufficiali, e si moltiplicavano i casi di allucinazioni, delirio e follia; l’equipaggio del Macallè era intontito proprio mentre si trovava a navigare in una zona che per la sua insidiosità avrebbe richiesto la massima attenzione e vigilanza. Il comandante alternava momenti di malessere ad altri di lucidità. I sintomi – si erano adesso aggiunti anche vomito, singhiozzo e mal di ventre – rendevano ormai evidente che l’equipaggio doveva essere colpito da intossicazione da cloruro di metile, ed il mattino del 14 il comandante in seconda Napp ed il direttore di macchina, sottotenente del Genio Navale Giorgio Mazza, effettuarono una seconda verifica dell’impianto di condizionamento di prua.
Secondo il diario di Giovanni Battista Ferrando, alle 10.30 del mattino del 14 vennero avvertiti due piccoli urti verso prua, e quando a sera il sommergibile riemerse venne osservato che il timone orizzontale prodiero di sinistra appariva leggermente schiacciato, segno che aveva urtato uno scoglio od un relitto sottomarino; ad ogni modo, risultava ancora funzionante.
La sera del 14 Morone esaminò la situazione insieme al comandante in seconda, tenente di vascello Bruno Napp: venne deciso che se nel corso della notte gli intossicati si fossero ripresi grazie alle cure prestate ed all’aria pulita respirata, si sarebbe proseguito con la missione; altrimenti, il Macallè avrebbe diretto per il rientro a Massaua.
Ma la sorte aveva deciso diversamente. Nella notte tra il 14 ed il 15 giugno, le conseguenze dell’errata identificazione del faro di Hindi Gider si manifestarono disastrosamente quando alle 2.35 del 15 giugno il Macallè, navigando in superficie ad otto nodi (con un motore diesel ingranato sull’elica e l’altro impiegato per ricaricare gli accumulatori), andò violentemente ad incagliarsi su un banco madreporico situato circa cinque metri sotto la superficie, presso l’isolotto di Barra Musa Kebir (nome variamente riportato anche come Barr Musa Kabir, Bar Mousa Kebir, Bar Musa Chebir, o Barr Musa Kebir), 65 miglia ad est/sudest di Porto Sudan ed a 48 miglia dalla costa sudanese, in posizione 19°13' N e 38°09' E (o 19°14'12" N e 38°10'29" E).
Al momento dell’incaglio il comandante Morone si trovava in plancia insieme all’ufficiale di rotta Sandroni, al sergente cannoniere Giorgio Fara ed al timoniere di manovra; si rese conto del pericolo ed ordinò all’interfonico di mettere tutta la barra a sinistra per evitare l’ostacolo, ordinando contemporaneamente a Fara di scendere in camera di manovra per ripetere l’ordine a voce, ma era ormai troppo tardi. Molti anni dopo, Elio Sandroni avrebbe così rievocato quei momenti: “Quando il sommergibile incagliò, ero andato giù un momento in camera di manovra, ma risalendo riuscii appena a salire ed a chiudere il portello perché il sommergibile si era inclinato di quasi 90 gradi sulla sinistra; avevamo chiuso il portello per evitare che entrasse acqua. C’era il comandante Morone in plancia, c’era un sergente, Fara, io, il timoniere di manovra, e poi abbiamo comunicato con l’interfonico in camera di manovra che stessero calmi, li avremmo poi fatti uscire dallo scafo attraverso il portello della torretta. Intanto il sommergibile (…) aveva l’aletta di rollio, quella di dritta, [che] era fuori [dall’acqua]; sembrava un grosso cetaceo adagiato metà sulla scogliera e metà…”.
Giovanni Battista Ferrando avrebbe scritto nel suo diario: “Sono di guardia dalle 20.00 alle 24.00 [del 14], durante queste quattro ore ricordo che malgrado tutti i miei sforzi non riuscivo a tenermi sveglio, la testa mi pesava immensamente e avevo una gran voglia di bere. A mezzanotte sveglio il mio compagno che mi deve rilevare e vado a dormire, addormentandomi subito pesantemente. Dopo due ore e venticinque minuti di sonno e precisamente alle 02.25 del giorno 15 un forte urto mi sveglia di colpo e lo sbandare repentino del sommergibile mi fa fare un balzo dalla cuccetta da dove dormivo contro la parete. Di corsa tento di raggiungere la camera di manovra, ostacolato da tavoli, paglioli e ingredienti vari cascati al momento dell'urto, riesco così a raggiungere la scaletta della plancia deciso a buttarmi subito a mare, ma un nuovo spettacolo mi sorprende appena misi la testa all'aria libera, in un bottazzo quasi totalmente fuori dall'acqua (dato lo sbandamento del battello), buona parte dei miei compagni stava domandandosi cosa era successo, la notte era senza luna, buio pesto e non si riusciva a distinguere se era uno scoglio a fior d'acqua oppure un isolotto; il comandante dice di tentare a tirar fuori il battellino perché il battello si immergeva piano piano e si rovesciava sempre più”.
L’impatto fu così violento che il Macallè sbandò di ben 60° a sinistra (secondo la storia ufficiale dell’USMM; secondo alcuni documenti rintracciati da Ricardo Preve lo sbandamento avrebbe sfiorato gli 80°), impennando la prua verso il cielo: così rimase incastrato sugli scogli per diverse ore, con la prua “impennata” e la poppa sott’acqua, mentre l’equipaggio provvedeva a sbarcare sull’isolotto viveri e materiali (tra cui lenzuola, asciugamani e strumenti nautici, ma anche il tiretto del comandante, contenente diversi pacchetti di sigarette e fiammiferi) ed a distruggere cifrari e documenti segreti. Subito dopo l’incaglio venne infatti recuperato il battellino in legno sistemato in un’intercapedine tra il ponte di coperta e lo scafo resistente, a prua; su ordine del comandante Morone i due telegrafisti portarono in coperta i cifrari e gli altri documenti segreti, contenuti in due cassette di ferro forate e piombate per un rapido affondamento, e li gettarono in mare dalla poppa.
La chiglia del Macallè poggiava sugli scogli per i due terzi della lunghezza, a prua ed al centro, mentre la poppa sporgeva dalla scogliera che scendeva a strapiombo verso gli alti fondali.
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La dislocazione dell’equipaggio del Macallè al momento dell’incaglio (Ufficio Storico della Marina Militare, via Ricardo Preve) |
Ancora dal diario di Giovanni Battista Ferrando: “II portello di torretta era ormai in parte immerso ma alcuni si inoltrano ugualmente per cercar di tirar fuori dei viveri, ma nessuno si azzarda più ad andare verso poppa (locale viveri) riescono tuttavia a tirar fuori una cassetta di gallette, 24 bottiglie d'acqua minerale, un pezzetto di prosciutto e una scatola di caffè. Nel frattempo cerco di isolare la parte d'aereo che era sottacqua per lanciare un segnale soccorso. Tre maschere Davis dalla camera manovra furono perse salvate [?] e dopo aver isolato l'aereo, io e Sannazzaro, un elettricista di Asti, tentiamo di discendere e raggiungere la gabina radio. Da diversi minuti, nessuno si azzardava più a scendere perché l'acqua a bordo aumentava continuamente il suo livello, molti o quasi tutti, imbarcati i pochi viveri sulla barchetta, si erano già diretti a nuoto verso un punto che ancora io non conoscevo. Muniti di maschera dunque scendiamo per la scaletta, prima io e poi Sanazzaro, ma avevo fatto pochi gradini e di già avevo l'acqua ai piedi, continuo a scendere e mi accorgo che l'acqua era molta; quando riuscii a toccare il pavimento (paglioli) avevo l'acqua più alta della cintola, niente da fare dunque, i motori erano ormai tutti sotto livello, impossibile metterli in moto, faccio segno al mio compagno di salire e ritorniamo quindi in plancia. Zuà spiega al comandante in seconda la situazione e a malincuore lui ci ordina di lasciare il battello; scivolata quindi dal bottazzo e piano piano ci allontaniamo a nuoto”. Ferrando ed il sottocapo elettricista Cesare Sannazzaro sarebbero stati in seguito decorati di Croce di Guerra al Valor Militare per essersi offerti di tornare nel sommergibile semiallagato per tentare di trasmettere un ultimo messaggio (motivazione per entrambi: «Imbarcato su sommergibile, in missione di guerra in Mar Rosso, adempiva con serenità il suo compito, durante la navigazione, resa difficile dallo sviluppo di gas tossici, offrendosi volontariamente, con elevato senso del dovere, dopo l’incaglio dell’unità, di far ritorno sul sommergibile in procinto di affondare, nel tentativo di trasmettere un messaggio»).
Adriano
Tovo tratteggia una descrizione molto vivida dell’incaglio e
dell’abbandono del Macallè: “Stiamo caricando gli
accumulatori, siamo lontani da Port Sudan di circa quaranta miglia,
l'atmosfera è un po' fosca, una brezza tesa increspa il mare
producendo piccole onde spumeggianti, nel mar Rosso c'è molta
fosforescenza dovuta alla presenza di abbondante plancton, a volte
addirittura sembra che ci sia terra di prua, altre volte invece è
schiuma bianca. Un fortissimo colpo arresta il Macallé che sbanda
sul lato sinistro, sbanda rapidamente, i “massimi” scattano, la
luce si spegne, non ritorna orizzontale. Ma che succede? Mi sveglio
di soprassalto, sono scaraventato per terra dalla mia cuccetta,
accuso un forte colpo al fianco. Macallè fermati! Urla qualcuno. Dio
mio! Mamma! Mi faccio il segno della croce e invoco la mia povera
mamma e le chiedo di salvarmi. Salvami mamma! Il Macallè è
abbattuto di novanta gradi con una inclinazione poppiera spaventosa,
non mi rendo conto di cosa sta per succedere, è tutto buio. Il
manometro non so se scende, quanti metri saremo? Dieci, cento,
duecento chissà? La pressione ci schiaccerà. (…) sento che mi
scorre qualcosa di caldo giù fino alla gamba, porto la mano alle
labbra, sangue. Capisco che è sangue, ne sento il sapore, sono
ferito. Urlo, urlo come un pazzo ma nessuno mi ascolta, probabilmente
tutti parlano, tutti urlano ma nessuno sente gli urli degli altri.
Sono il più anziano del locale di poppa, spetta a me prendere il
comando. Con questo pensiero riesco a calmarmi, luce, luce di
sicurezza, accendete la luce di sicurezza! Gregorio rispondimi...
Gregorio! Accendi! Sbrigati! Sì Tovo, cerco. Sento la sua voce,
anch'io mi muovo e cerco, sarebbe stato facile in condizioni normali
con il sommergibile diritto ma così sbandato le pareti erano
diventate pavimento e qualche stipetto aperto ti faceva cadere nel
vuoto, è brutto cadere nel vuoto al buio a tastoni, m'incontro con
Gregorio, quasi contemporaneamente arriviamo con la mano
sull'interruttore del circuito di sicurezza. Il tutto sono due
piccole lampadine alimentate da un accumulatore. Giro l'interruttore,
luce! Poca luce ma sufficiente, la camera è a soqquadro, guardo il
manometro: dodici metri. dal profondo dell'anima mi parte un sospiro
di sollievo, un sospiro di salvezza. Mi coglie il sospetto che la
lancetta sia incantata, mi accosto al manometro e lo colpisco con
qualche schiaffetto, la lancetta oscilla e rimane ferma sul dodici,
funziona! Dentro la poppa siamo in tredici, un numero che dovrebbe
portare fortuna, tutti aggrappati alle pareti, uno qui uno là mi
guardano, pare che dicano: cosa facciamo? Hanno fiducia in me, se ci
fosse un mio superiore io guarderei lui affidandomi a lui, ma non
c'è, sono il più alto in grado, bella storia! Vado all'interfonico
e chiamo col ‘generale’: camera manovra a plancia, camera manovra
a plancia, sempre lo stesso appello infinite volte poi finalmente una
risposta. Qui plancia parlo con camera di lancio addietro? Riconosco
la voce del Comandante. Tovo! Tovo! Parla Tovo? Si Comandante sono
io. Tieni la gente calma, non c'è alcun pericolo, abbiamo picchiato
contro uno scoglio, ci sono feriti? Do uno sguardo ai miei compagni,
mi fanno cenno di no, rispondo: no signore, nessun ferito. Perdo
sangue sul lato sinistro, sino alla caviglia è tutto rosso. Bene,
risponde il comandante, mettetevi gli autorespiratori Davis e state
pronti per la fuoriuscita se sarà necessario. In ogni locale, in
base al numero delle persone ci sono le maschere, a parte la fatalità
per cui un marinaio che doveva essere in camera di manovra, si
trovava a poppa. Dò l'ordine di mettere le maschere e non mi accorgo
di essere senza. Di Nunzio mi porge la sua, non l'accetto, penso che
non servirà a nessuno. Grazie Di Nunzio, ammiro il tuo gesto.
Afferro uno straccio, uno dei tanti che si trovano sulle navi per
asciugarsi le mani dall'olio e dal grasso e mi asciugo il sangue
riuscendo a stagnare la ferita che mi ero provocato contro quel
maledetto stipetto nel momento del rovesciamento. La sezione di prora
è fuori acqua, il centro del portello della camera di manovra è al
livello del mare. Noi di poppa siamo immersi per dodici metri dalla
chiglia al pelo dell'acqua. Tutti escono dal sommergibile, il mio
locale, la poppa, ha la paratia chiusa e non si può aprire. Data la
posizione scomoda lavoriamo male, cerco in tutti i modi di aprire il
portello e ci riesco con una serie di movimenti acrobatici.
Sospendendomi ai volantini e alle trasmissioni riesco ad arrivare con
gli altri sino alla camera di manovra, prendo la maschera
disponibile, la garitta di salita è quasi orizzontale, cammino con
le gambe e con le mani, prendo una chiave, batto alcuni colpi. Di
fuori mi rispondono, capisco che quello è il portello centrale e che
sta giocando col livello del mare, faccio arrivare tutta la gente in
contro torretta e chiudo il contro portello inferiore mentre do un
ordine: ragazzi calma!
Maschere in funzione. Picchio
ripetutamente al portello superiore e vedo che il volantino di
chiusura si muove finché si apre. Una provvidenziale colonna d'acqua
del diametro di sessanta centimetri ci casca sulla testa allagando il
nostro piccolo locale. I polmoni della gente con l'autorespiratore
inspirano e respirano rumorosamente aria del polmone di gomma della
maschera come fossero delle macchine, appena completato l'allagamento
fuori! Mi tolgo il facciale ed il boccaglio. Aria! Aria pura
nuovamente. Il
ventre del Macallé sinistrato fa da coperta, è buio, non si vede
terra, riusciamo dopo tremendi sforzi a mettere in mare il battellino
situato nell'intercapedine di prora. Il Comandante fa una nota di
S.O.S. chiama il radiotelegrafista e gli da l'ordine di tentare una
trasmissione. Il S. Capo R.T si chiama Sergio Ursino che dimostra una
certa indecisione nell'eseguire l'ordine, certamente è pericoloso
ridiscendere in quella tomba. Capisco la situazione e l'importanza di
quella trasmissione per cui chiedo il permesso di accompagnare il
Sotto capo R.T. Il Comandante Morrone battendomi una mano sulla
spalla: lo sapevo Tovo che saresti stato il primo. Rimettiamo al
posto le maschere, in una mano un fanale stagno, due persone aprono
il portello, noi ci infiliamo e poi il portello viene richiuso alle
nostre spalle. Camminiamo strisciando nella garitta allagata fino al
contro portello, lo apro e scarico tutta l'acqua in camera di
manovra, una capacità di circa quattro metri cubi (quattromila
litri). Ci dirigiamo verso la sala radio ma la convertitrice è
allagata quindi la trasmissione non può essere effettuata, torniamo
indietro ripetendo al contrario le stesse operazioni fatte durante la
fuoriuscita. Il Comandante dopo dieci minuti mi dice che devo tornare
nel quadrato ufficiali e portare su le cassette con i segreti di
guerra, bisogna immediatamente affondarli prima che all'alba il
nemico ci scorga e facendoci prigionieri s'impossessi dei
“riservatissimi". Ritorno per la seconda volta e porto a
termine la missione, ricevo un elogio da Morrone. Affondiamo le
cassette dei segreti. In questo secondo viaggio prendo dal mio
stipetto la fotografia di mia madre, sfondo con un calcio la
vetrinetta della vinicola e prelevo una bottiglia di cognac, ne
riempio un mezzo bicchiere e lo svuoto d'un fiato, poi lo scaglio
contro uno specchio e tutto va in frantumi, sfidando quel detto che
vuole che lo specchio rotto porta disgrazia, impreco contro il
destino che peggio di così al Macallé non poteva capitare. Riesco
all'aria aperta. Il comandante da l'ordine di ridiscendere in tre
persone attraverso quell'infernale portello per andare a prora a
salvare quei pazzi del cloruro di metile. Ritorno volontariamente, mi
adopero con il massimo delle mie forze disponibili, si completa il
salvataggio. Il mio Sotto Capo silurista è il più grave fra tutti,
si studia intanto a quale distanza da noi ci può essere terra,
partiamo a nuoto in quattro direzioni diverse, le quattro più
probabili per una ricognizione ma l'alba non si fa ancora viva ma
dopo venti minuti ecco un grido: terra! Si tocca coi piedi, terra! La
staffetta al traverso di dritta ci regala un grido di salvezza. Alle
ore cinque del sedici giugno 1940, nel mar Rosso è già giorno, lo
scoglio alto sul mare un metro, lungo circa duecento metri e largo
cinquanta con un po' di sabbia al centro è posto sulla nostra dritta
poco distante”.
Ricostruzione dal documentario “Tornando a casa” di Ricardo Preve
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Schizzo di Adriano Tovo che mostra il Macallè incagliato (da www.trentoincina.it) |
Due puntate all’interno del sommergibile, per recuperare viveri e materiali, si svolsero tra le quattro e le cinque e mezza del mattino. Giunta l’alba, l’equipaggio venne radunato e si procedette all’appello; risultò che non vi erano dispersi e nemmeno feriti o contusi, ad eccezione del sottocapo Foggi, che aveva riportato una lieve ferita.
Stante la gravità della situazione, il comandante Morone decise di trasferire a terra l’equipaggio, dando la precedenza agli intossicati, molti dei quali dovettero essere aiutati dai compagni. Per portare a riva gli intossicati e coloro che non sapevano nuotare venne usato il battellino in legno in dotazione al sommergibile, mentre gli altri raggiunsero la riva, distante un centinaio di metri, direttamente a nuoto; in tutto ci vollero tra un’ora e un’ora e mezza per portare tutti a terra.
Il recupero ed il trasferimento a terra di viveri e materiali venne eseguito da Adriano Tovo, dal sergente cannoniere Giorgio Fara da Como, dal sottocapo segnalatore Alfredo Bordonali da Palermo, dal sottocapo elettricista Osvaldo Foggi da Castelfranco di Sopra, dal sottocapo silurista Fabio Niccoloso da Buia, dal sottocapo motorista Vincenzo D’Addario da Taranto, dal marinaio cannoniere Gino Dulizia da Roma, dal marinaio elettricista Giovanni Torchio da Torino e dai fuochisti Gennaro Di Napoli da Napoli e Bernardino Aceti da Bergamo. Tutti sarebbero poi stato decorati di Croce di Guerra al Valor Militare, con motivazione: «Imbarcato su sommergibile, in missione di guerra in Mar Rosso, assolveva con serenità il suo compito durante la navigazione, resa difficile per lo sviluppo di gas tossici, prodigandosi coraggiosamente dopo l’incaglio dell’unità, nel recupero di viveri e materiali dal sommergibile in procinto di affondare». Il capo elettricista di terza classe Angelo Ballerini, da Bobbio, avrebbe ricevuto analoga decorazione con motivazione «Imbarcato su sommergibile, in missione di guerra in Mar Rosso, resa difficile per lo sviluppo di gas tossici, assolveva serenamente il suo compito, prestando con elevato senso di cameratismo, la sua opera fino all’estremo delle forze fisiche, nel salvataggio del personale, dopo l’incaglio dell’unità in procinto di affondare».
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Gino Dulizia, a destra, con due compagni (Coll. Emanuela Dulizia, via Ricardo Preve) |
Completato lo sbarco dell’equipaggio e dei materiali sull’isola il comandante Morone, insieme ad alcuni uomini tra quelli in condizioni migliori (tra di essi il capo elettricista di terza classe Ambrogio Grimoldi da Faenza, poi decorato di Croce di Guerra al Valor Militare con motivazione «Imbarcato su sommergibile, in missione di guerra in Mar Rosso, assolveva il suo compito con serenità e coraggio, sia durante la navigazione resa difficile per lo sviluppo di gas tossici, che durante i tentativi di salvare l’unità incagliata, prodigandosi fino all’ultimo momento nell’esecuzione delle manovre ordinategli, con elevato spirito di sacrificio ed attaccamento al dovere»), rimase a bordo eseguendo tutte le manovre di acqua e di pesi utili a tentare di disincagliare il sommergibile, ma senza successo.
Infine, il Macallè si liberò dalla morsa degli scogli soltanto per affondare di poppa, su fondali di circa 400 metri; secondo il ricordo alcuni superstiti, l’affondamento avvenne così rapidamente che il comandante Morone e gli altri uomini a bordo ebbero appena il tempo strettamente necessario per abbandonarlo. Secondo il diario di Adriano Tovo (che, anche qui, presenta evidenti discrepanze rispetto alla storia dell’USMM): “Tutto l'equipaggio mette i piedi sulla terra ferma, io, il Comandante in seconda, e due motoristi restiamo a bordo. Facciamo mille prove per tentare di salvare il Macallé, cercando di disincagliarlo. Si cerca di allagare la poppa in modo da appesantire il sommergibile per farlo scivolare via dallo scoglio. Allaga, allaga, ecco si muove, il Comandante in seconda ordina di chiudere il portello, l'acqua entra con troppa violenza, non si chiude più, si allaga tutto, noi subito fuori per non affondare insieme al Macallé che affonda. Affonda verticalmente per non risalire più a galla. Mai più! Tutti piangono esclusi i pazzi. Siamo tutti su questo maledetto scoglio, quarantacinque uomini senza cibo e senz'acqua, nudi e col sole africano a temperatura di sessanta gradi ed anche settanta nelle ore più calde”.
In effetti sembra esservi una certa confusione sulla causa ultima dell’inabissamento del sommergibile: su alcuni siti Internet si parla di autoaffondamento, deciso dopo il fallimento dei tentativi di disincaglio per evitare che il Macallè potesse cadere in mano britannica, vista la sua vicinanza alle coste sudanesi, mentre Tovo parla di affondamento causato dai tentativi di disincaglio, e l’USMM nel volume "Le operazioni in Africa Orientale" si limita a dire che il sommergibile “rimase per alcune ore sugli scogli, poi scivolò di poppa ed affondò”. Il volume "Navi militari perdute", sempre dell’USMM, afferma che “nei tentativi di disincaglio il Macallè affondò scivolando in alti fondali”, tra l’una e le due del pomeriggio del 15 giugno.
Elio Sandroni avrebbe ricordato: “…nella fase di ripristino della galleggiabilità, il sommergibile è affondato con la prua in alto su un fondale di quasi quattrocento metri. Ma intanto avevamo salvato un certo numero di casse di bottiglie di acqua minerale, io avevo salvato la bussola, avevamo salvato il sestante, ma soprattutto avevamo affondato su fondali notevoli le due cassette contenenti i cifrari, e soprattutto siamo riusciti a tirar fuori dall’intercapedine il battellino (…)”. Anche Giovanni Battista Ferrando parla di un affondamento imprevisto e repentino: “ad un tratto il signor Napp (uff. in seconda), che nuotava vicino a noi, manda un urlo terribile: “Il battello!!!” Lentamente prima, e poi rapidamente il Macallè scivola di poppa, impennandosi quasi verticalmente e scompare quindi sotto la superficie del mare. Quaranta bocche a terra lanciano unanimi un grido: la nostra casa, la mia casa che da 23 mesi abitavo è colata a picco”.
Comunque fosse andata, il Macallè era appena divenuto il primo sommergibile italiano ad andare perduto nella seconda guerra mondiale: più di cento lo avrebbero seguito nei tre anni a venire.
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La spiaggia di Barr Musa Kebir ai giorni nostri (foto Arne van Leuvenhaege, via Ricardo Preve) |
Rimanevano 45 tra ufficiali e marinai su un isolotto poco più grande di un campo da calcio o di Piazza San Marco a Venezia, alcuni dei quali, ancora in preda agli effetti dell’intossicazione, vagavano per l’isola come ubriachi. Altri, in migliori condizioni, condussero una rapida esplorazione di Barra Musa Kebir. L’isolotto era poco più di una striscia di sabbia di forma vagamente triangolare, 500 metri per lato, bassa – il punto più alto era a sei metri sul livello del mare – e sprovvista di acqua o vegetazione che offrisse riparo dall’implacabile sole del Mar Rosso, all’infuori di pochi cespugli di arbusti situati al suo centro, nel punto più “alto”.
Il comandante Morone esortò i suoi uomini a non perdersi d’animo, e li organizzò rapidamente in alcune squadre cui affidò vari compiti: il più importante, raccogliere pezzi di legno portati a riva dal mare per vario uso futuro. Altri naufraghi si radunarono al centro dell’isola e cercarono di scavare un pozzo con le mani e con qualche pezzo di legno: trovarono l’acqua, ma era più salata di quella del mare. Analogo risultato ebbero tentativi di scavare altri pozzi più vicini alla spiaggia.
Lo stordimento generale causato dal cloruro di metile aveva sortito un altro nefasto effetto: nelle ore passate tra l’incaglio e l’affondamento del Macallè, nessuno aveva pensato a trasmettere un messaggio radio con cui informare Massaua dell’accaduto. (Nel diario/memoria di Adriano Tovo, citato in precedenza, si afferma invece che il comandante Morrone avrebbe ordinato di tentare una trasmissione con la radio, ma che questa sarebbe risultata impossibile perché il locale radio era già allagato; anche il diario di Giovanni Battista Ferrando parla di un tentativo di tornare sottocoperta per lanciare un messaggio radio, abbandonato perché irrealizzabile a causa degli allagamenti, ed è convalidato dalla motivazione della Croce di Guerra al Valor Militare conferita a lui ed a Cesare Sannazzaro. Di tutto ciò, stranamente, non si fa tuttavia menzione nel volume USMM "Le operazioni in Africa Orientale" né nelle altre fonti consultate).
Gli uomini del Macallè si trovavano così bloccati su un isolotto desertico, a centinaia di miglia dalla loro base ed in prossimità di una base nemica, senza che nessuno, amico o nemico, avesse la minima idea che fossero lì: a Massaua si sarebbero accorti che era successo qualcosa soltanto quando il Macallè non fosse rientrato alla base nella data prevista, ma sarebbero passate delle settimane, mentre le scarse provviste a loro disposizione non sarebbero durate che pochi giorni. Le prospettive non erano rosee: nel migliore dei casi, la prigionia dopo essere stati scoperti dai britannici; nel peggiore, la morte per fame e per sete su quel lembo di terra arida dimenticato da Dio.
O forse no. Tra il materiale recuperato dal Macallè prima che affondasse c’erano anche un battellino con due remi, una bussola ed una carta nautica: con quelli qualcuno poteva tentare di raggiungere territorio amico – distante duecento miglia – per allertare i soccorsi. Durante il pomeriggio Morone e Napp decisero dunque di organizzare una spedizione di soccorso, per la quale scelsero il guardiamarina Elio Sandroni, il sergente nocchiere Reginaldo Torchia (da Verbicaro, nostromo del Macallè) ed il marinaio nocchiere Paolo Costagliola (da Porto Ercole, timoniere d’attacco del sommergibile). Il battellino venne dotato di una vela ricavata, a seconda della versione, da un lenzuolo, una fascia di strapuntino od un telo da branda strappato, od ancora cucendo insieme pezzi di magliette e di lenzuola, o una fascia di strapuntino, una maglia ed un asciugamano; come albero fu usata una gaffa, come pennone alcuni pezzi di legno recuperati dalla spiaggia. Sandroni avrebbe ricordato, molti anni dopo: “Fui chiamato da Morone e da Napp. Morone era molto scosso da quello che era successo, anche perché quasi certamente era stato colpito dalle esalazioni di gas (…) e con la carta nautica, di sera, sulla sabbia, Morone mi disse che non c’era altro da fare che cercare aiuto, e mi affidava l’incarico di questa missione con due marinai. Avrei voluto un certo Tovo, che era un silurista, ragazzo molto atletico, simpatico, aperto, disinvolto, invece Napp volle che partissi con un sergente nocchiere, Torchia Reginaldo, e naturalmente con Paolo Costagliola, che era il nocchiere di bordo (…) Napp mi voleva dare soltanto due bottiglie di acqua minerale, io dissi: Siamo in tre, almeno ci dia la terza bottiglia (…) Cominciammo a partire (…) con questa bussola che era la bussola di rotta, che avevo fatto saltare dalla chiesuola con martello e scalpello”.
Sopra, Paolo Costagliola nel 1940 e sotto, vent’anni dopo (da www.portoercole.org)
Dopo che Sandroni ebbe ricevuto le ultime istruzioni dal comandante Morone sulla carta nautica del Mar Rosso, i tre ardimentosi partirono la sera stessa del 15 giugno, alle 21.30, portando con sé una bussola magnetica, un accumulatore, una carta generale del Mar Rosso, una busta di tela, un brogliaccio, due matite, tre bottiglie di acqua minerale, poca pancetta affumicata e qualche pacchetto di gallette. Il comandante Morone augurò ai partenti buona fortuna, la partenza avvenne tra molta commozione tra grida di “Viva l’Italia” e “Viva il re”: dall’una e dall’altra parte non si sapeva se e quando ci si sarebbe rivisti. Ancora a tanti anni di distanza Paolo Costagliola avrebbe ricordato le facce dei compagni radunati sulla spiaggia dell’isolotto che li guardavano mentre il loro battellino si allontanava con rotta verso sudest, aiutato un po’ dalla brezza leggera. Il mare era calmo.
Essendovi soltanto due remi, uno dei quali doveva servire da timone, era stato stabilito che alla voga ed al timone si sarebbero alternati tutti e tre, a turno: quattro ore di voga, quattro ore al timone e quattro ore di riposo. Alla partenza fu Sandroni a remare per primo, mentre Torchia fu messo al timone e Costagliola si accovacciò a prua cercando per quanto possibile di dormire. L’acqua sarebbe stata razionata in due dita ogni quattro ore. Per non dover accendere continuamente la luce per controllare la bussola per verificare la rotta (che doveva essere di circa 230°, verso sudovest, per raggiungere la costa sudanese), Sandroni suggerì a Torchia e Costagliola di usare come punto di riferimento una stella che si trovava nei settori poppieri, bassa sull’orizzonte.
Alle due del mattino del 16 giugno la brezza lasciò il posto alla bonaccia, ma i tre naufraghi del Macallè continuarono la navigazione a forza di remi. Verso le 10.15 Sandroni avvistò l’isolotto di Talla Talla Kebir, che gli servì per fare il punto e correggere la rotta; l’imbacazione diresse dunque verso Ras Asis, aiutata da una corrente che spingeva verso sud e dal mare calmo, mentre il sole batteva impietoso sui tre rematori e nel mare tutt’attorno apparivano minacciose le pinne degli squali che infestavano quelle acque. “Cautela, vogare e qualche frase per rompere il silenzio, alla via così...”
Nel frattempo, il resto dell’equipaggio si organizzò come meglio poté per rendere sopportabile una permanenza sull’isolotto che tutti si auguravano la più breve possibile. Il vestiario venne distribuito in modo che tutti avessero una maglietta ed un paio di pantaloni; viveri ed acqua vennero sottoposti a rigoroso razionamento; con arbusti e pietrame vennero costruiti dei ripari con cui sottrarsi alla morsa del sole (alcuni asciugamani prelevati dal sommergibile prima dell’affondamento servirono a realizzare qualche modesta tenda), anche se molti preferivano passare la maggior parte delle giornate in acqua per sfuggire al caldo insopportabile (45 °C con umidità prossima al 100 %). Si cercò di distillare dell’acqua dolce, le magre razioni disponibili vennero integrate con pochi pesci, granchi e gabbiani che alcuni dei naufraghi riuscirono a catturare.
Proprio al centro dell’isola, tra i radi cespugli, si trovavano alcuni nidi di gabbiani: le femmine vi covavano le loro uova, mentre i maschi andavano in cerca di cibo. Avvicinandosi di soppiatto ed attaccando a sorpresa era possibile catturare uova e gabbiani; gli uccelli venivano poi spennati ed arrostiti. Uno dei naufraghi che riscossero maggior successo come “cacciatori” fu il sottocapo furiere Giovanni Dominici, che proprio poco dopo la partenza di Sandroni, Torchia e Costagliola riuscì a catturare due o tre gabbiani.
La sera del 15 giugno il comandante Morone fece accendere un falò sul punto più alto dell’isola con la legna raccolta, nella speranza che qualcuno lo avvistasse, ma questo espediente non sortì alcun risultato.
Molti degli intossicati, a partire da Morone e dal comandante in seconda Napp, si ripresero rapidamente adesso che finalmente potevano stare all’aria aperta; su Morone, la Commissione d’inchiesta avrebbe in seguito rilevato: «Il comandante, mentre ricorda con discreta lucidità i fatti avvenuti nei giorni 10, 11, 12 e 13, ha una lacuna quasi completa per quanto riguarda il periodo dell’incaglio (…) del periodo trascorso dall’incaglio al trasferimento a terra dell’equipaggio, non ricorda che la distruzione dell’archivio (…) poiché ai periodi di diminuzione delle facoltà mentali e psichiche si associa sempre la diminuzione di capacità di fissare nella memoria gli atti che avvengono in tali periodi, sembra molto probabile che il comandante non fosse nel pieno delle sue facoltà (…) Ha preso la sola decisione di distruggere l’archivio, ma anche questa pare presa tanto affrettatamente da far pensare che non si tratti di una decisione derivata da un ponderato esame della situazione, ma che sia un’azione che egli sapeva di dover fare appena vedesse il pericolo di essere preso vivo, e la esegue subito, senza pensare, ad esempio, a scrivere prima un messaggio o anche a tenere almeno un codice fino all’alba. Egli sa che deve compiere in casi simili una tale azione, ma non ha la facoltà di ragionamento necessaria per adattarla alla specifica situazione attuale. (…) Poi, nei giorni trascorsi sull’isola, egli si trasforma completamente ed è tutt’altro che assente e passivamente fatalista (…)». Morone e Napp, una volta ripresisi dagli effetti dell’intossicazione, si fecero in quattro per tenere alto il morale dei loro uomini abbandonati su quell’isolotto sperduto, dando l’esempio partecipando personalmente alla raccolta del legno, alla costruzione dei ripari ed alle altre attività necessarie per resistere fino all’arrivo dei soccorsi.
Sulla permanenza dei naufraghi a Bar Musa Chebir, sempre la commissione d’inchiesta avrebbe rilevato: «la vita sull’isola viene del resto organizzata benissimo (…) la disciplina non viene mai meno, il razionamento viene osservato rigorosamente, lo spirito di cameratismo è sempre vivo e l’autorità del comandante e degli ufficiali mai diminuita né da un gesto né da una parola meno che rispettosa».
Più drammatici, rispetto alla prosa formale dei documenti ufficiali, sono i ricordi di Adriano Tovo. “Stavamo praticamente immersi nell'acqua tutto il giorno con le mutande bagnate sulla testa, funzionava col principio della brocca, l'acqua evaporando sottrae calore alla testa così come avviene per una brocca di terracotta o anche con una anguria tagliata a metà e messa al sole, il risultato è che si rinfresca. Durante la notte, alla luce della luna, una miriade di granchi col carapace sottile e morbido con la consistenza della pellicola che sta dentro un uovo sodo, salivano dal mare sull'isolotto. Noi riuscivamo a schiacciarli con uno schiaffetto pensando di poterli mangiare ma erano pieni di acqua di mare e nient'altro, li chiamavamo i granchi della luna. (…) Un giorno un piccolo gabbiano, forse stanco o forse ferito ha avuto l'ardire di star fermo e lasciarsi catturare. Quarantadue uomini che circondano un gabbiano, immaginarsi la scena, lo abbiamo mangiato vivo dividendolo in quarantadue parti uguali. Abbiamo privato della vita un gabbiano, il migliore amico dei marinai. Qualche giorno dopo uno dei nostri compagni di sventura, nonostante il prolungato digiuno, riuscì ad andare di corpo. Tu hai mangiato qualcosa di nascosto senza dividere con glii altri, fu in breve il verdetto, ma il poveraccio aveva defecato una parte del suo stesso organismo, una cosa verde, forse la stessa bile, non si seppe mai”. Una delle prime preoccupazioni, dopo l’arrivo sull’isola, era stata di scavare nella sabbia una buca profonda nella quale erano state depositate due cassette di bottiglie d’acqua minerale (24 bottiglie in tutto); per evitare furti venne stabilito che due uomini fossero posti di guardia alle casse, alternandosi a turni di due ore. La distribuzione, effettuata personalmente dal comandante Morone, avveniva ogni sera al tramonto; la razione giornaliera era di due decilitri d’acqua a testa. Alcuni la bevevano tutti subito, altri preferivano conservarla per berla due o tre volte nell’arco della giornata, sempre che disponessero di qualche recipiente per conservarla (Giovanni Battista Ferrando, ad esempio, la conservava in un pezzo di lampadina trovato in riva al mare). Durante la prima notte ci fu da parte di qualcuno un tentativo di sottrarre qualche bottiglia, ma gli aspiranti ladri non ebbero successo.
Ci fu chi per la disperazione bevve acqua di mare, con il risultato di stare peggio di prima.
Il silurista piacentino Aldo Pavesi, all’epoca ventunenne, avrebbe ricordato anni dopo che che il cuoco del Macallè, napoletano e pescatore nella vita civile, lo aveva portato all’alba negli affioramenti corallini dove l’acqua non era mossa, e gli aveva insegnato a bere la prima acqua depositata sopra la superficie, la rugiada della notte.
Il capo meccanico di terza classe Angelo Ballerini escogitò un sistema per la distillazione dell’acqua: asportati i tubi di tre autorespiratori Davis, li applicò su altrettante bottiglie riempite con acqua di mare, sotto le quali accese un fuoco allo scopo di far evaporare l’acqua di mare, che poi si condensava come acqua dolce nella gomma del tubo della maschera Davis. Questo ingegnoso sistema permetteva di ottenere una bottiglia e mezza d’acqua distillata ogni ventiquattr’ore.
Il 16 giugno trascorse senza eventi degni di nota: capo Ballerini proseguì nella sua attività di distillazione, una squadra guidata da Dominici riprese la caccia ai gabbiani riuscendo a catturarne parecchi, un’altra andò a cercare granchi lungo la costa dell’isola. Giovanni Battista Ferrando ricevette da Morone e Napp l’ordine di fare la guardia alle bottiglie d’acqua.
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Medaglietta commemorativa del Macallè, appartenente ad Adriano Tovo (da www.trentoincina.it) |
Non tutti gli intossicati si ripresero rapidamente una volta sull’isola. Alcuni dei più gravi non mostrarono segni di miglioramento, pur respirando aria pulita: si manifestarono ancora atti di follia, gesti pericolosi; Adriano Tovo dovette stordire con un pugno un amico diventato aggressivo. “…il marinaio cuoco Alfredo Russo ancora sotto l'effetto del cloruro di metile, disturba parte della gente che cerca di dormire per far trascorrere queste terribili ore, lo scacciano ma il Russo insiste con scherzi pericolosi lanciando sabbia negli occhi dei compagni. Non è colpa sua, egli non è in se, cammina agitando la testa qua e là guardando verso il cielo e di colpo si butta per terra gridando: voglio mia zia, dov'è mia zia? Mi alzo e cerco di calmarlo e lui tenta di mordermi, lo tengo fermo per i polsi, cerca di darmi dei calci che riesco ad evitare ma lui ride, ride. Il Comandante mi ordina di farlo dormire. Dovrei colpirlo sulla testa ma è una vigliaccata, non me la sento, è come un fratello l'Alfredo, cerco ancora di calmarlo e riesco a farlo sedere vicino a me ma neanche cinque minuti dopo si alza di scatto raccoglie un sasso e tenta di scagliarlo contro il Comandante in Seconda che dormiva. Riesco con un salto ad afferrargli il braccio, lui riprova a mordermi ed il Comandante mi ripete l'ordine di farlo dormire, ho un attimo di esitazione ma poi gli sferro un poderoso cazzotto sul viso. Barcolla e si accascia al suolo, mi avvicino, lo accarezzo, con la mia canottiera bagnata cerco di medicargli la ferita sullo zigomo destro che io stesso gli avevo procurato. Grondava copioso sangue mentre il mio nodo alla gola mi strangolava e piangevo, piangevo come un bambino per essermi comportato come una bestia, si, una bestia, avevo colpito mio fratello”.
Anche Giovanni Battista Ferrando registrò i segni della follia dilagante tra alcuni dei suoi compagni nel suo diario. “Qualcuno dà segni di demenza; infatti Scaglione, un silurista, sta parlando da solo e non vuol essere disturbato perché parla con sua zia; Marchetti, un RT, è seduto sulla spiaggia che si sta buttando l'acqua addosso e ride; Russo, il cuoco, che ha trovato una mazzola di legno e sta picchiandola nell'acqua nell'atto di uccidere pesci invisibili. Camminando così arriva nei pressi di Marchetti e vedendo i di lui piedi lo colpisce fortemente; questi, malgrado tutto sente il male e li ritira ed ecco Russo a gridargli con accento genovese: «E sta fermo no, che fai scappare i pesci». Quel ch'è di peggio è che Acefalo Carlo, sotto capo silurista, sta male, disteso in un cespuglio non riesce più ad alzarsi in piedi, già è in delirio da tempo e dice che si sente morire”.
Il più grave tra gli intossicati era infatti il sottocapo silurista Carlo Acefalo, di 24 anni, originario di Monastero di Vasco in Piemonte. Le sue condizioni non migliorarono neanche dopo lo sbarco dal Macallè: complici il caldo terribile e la scarsità di cibo e di acqua, non fecero anzi che peggiorare.
In acqua Giovanni Battista Ferrando, il sergente cannoniere Fara ed altri riuscirono a circondare in acqua un pesciolino che, infilandosi sotto una pietra, si cacciò in trappola; Zara lo afferrò con le mani e lo gettò sulla spiaggia. Dopo qualche discussione su come dividerlo – troppo piccolo perché bastasse per tutti, anzi troppo piccolo perché bastasse anche solo per tutti quelli che avevano partecipato alla sua cattura – si decise di cuocerlo sul fuoco e darlo ad Acefalo, ma lui lo risputò: ormai non era più in grado neanche di ingerire il cibo, quasi nemmeno di aprire la bocca. “I denti ci si sono inchiodati”, scrisse Ferrando nel suo diario.
Al tramonto del 16 il comandante Morone chiese se tutti fossero d’accordo a dare una razione d’acqua in più ad Acefalo; la risposta fu unanimemente positiva, e dopo aver bevuto un po’ d’acqua il giovane silurista parve stare un po’ meglio.
Nella notte il capo radiotelegrafista Aiachini svegliò tutti mettendosi a gridare. Ancora dal diario di Giovanni Battista Ferando: “…grida: «Chi va là, alto là, fermo là!» Che diavolo ha visto!!? Ci si chiede, e dice di vedere un motoscafo avvicinarsi. Si guarda anche noi con i cuori battenti oltre il normale ma nulla, né rumore dei motori, né motoscafo, lui invece continua a vederlo. «Scendono ora a terra», dice. Ecco un altro che sta per partire, se di già non è partito”.
Nonostante l’acqua in più, le condizioni di Carlo Acefalo continuarono a peggiorare, fino a culminare nella sua morte, alle tre del pomeriggio del 17 giugno. “Verso mezzogiorno qualcuno grida: «È morto Acefalo». Tutti corriamo: infatti, il povero Acefalo è morto, ecco il primo compagno che non ha potuto resistere oltre, torturato dalla sete, dalla fame, dal caldo ha chiuso gli occhi per sempre. Chi lo seguirà ora? Quando toccherà il mio turno? Queste sono le domande che ognuno di noi faceva a se stesso. «Non scoraggiatevi, Dio avrà pietà di noi e ci salverà», diceva il comandante. «Ognuno ripigli le proprie attività e chi vuol rimanere vicino ad Acefalo lo faccia pure» (…) A sera inoltrata si decide di sepellire il povero Acefalo, si scava quindi una fossa nella sabbia verso il centro dell'isolotto, ci si copre la faccia con uno straccio e un pezzo di casco e si sotterra; una croce improvvisata con due bastoni incrociati indica il luogo di sepoltura” (Giovanni Battista Ferrando).
Non essendovi nemmeno attrezzi con cui scavare, i suoi compagni dovettero scavare una fossa – profonda non più di un metro – con le mani nella sabbia dell’isola, ad una sessantina di metri dalla battigia sulla costa nordoccidentale, in linea retta da Porto Sudan. Deposero il suo corpo all’interno, posarono una pietra sul suo volto, e poi la ricoprirono, marcando il punto della sepoltura con alcune pietre ed una modesta croce di legno. Dopo aver rivolto poche parole di commemorazione, il comandante Morone fece recitare la Preghiera del Marinaio.
Carlo Acefalo sarebbe stata l’unica vittima del naufragio del Macallè. Adriano Tovo avrebbe così ricordato i suoi ultimi momenti: “Un uomo è sempre immobile sdraiato per terra, si tratta di Carlo Acefalo il mio Sotto Capo silurista. Mi accosto e gli poggio una mano su una spalla, beh come va Carlo? E' passato? A stento mi risponde, Tovo ho sete dammi acqua, ho detto dammi acqua! Volgo lo sguardo al cielo invocando un acquazzone, ma figurati... tutto attorno non c'è che sole e mare, mare e sole... e morte. Col palmo della mano gli tolgo la schiuma dalla bocca, cerco di darmi forza e con voce ferma e sicura gli regalo un po' di bugie di incoraggiamento. Guardo fisso i suoi occhi incavati che mi dicevano muoio. Sto con lui qualche ora, lo prendo di peso e lo porto nel mare, non saprei Carlo se ti sto facendo più male che bene, ma in mare si ha la sensazione di respirare meglio. Viene la sera, i gabbiani volano su di noi ondeggianti, di tanto in tanto a bassa quota quasi a dare l'impressione di voler beccare carne umana come se fosse cibo. È soltanto un mio pensiero folle, i gabbiani sono da sempre i migliori amici dei marinai, infatti volavano basse picchiate per porgere un ultimo saluto d'onore all'amico Carlo, all'eroe ormai sepolto sotto pochi centimetri di sabbia, la poca sabbia che l'isolotto poteva offrire. Dopo tanto tempo lui è ancora lì a riposare, scrupolosamente protetto dai voli radenti degli amici gabbiani dell'isolotto di Barr Musa Kebir”.
Il comandante Morone avrebbe poi raccontato a Sandroni, in ospedale a Massaua, che i marinai piangevano quando avevano sepolto Acefalo, e che prima di spirare lo sfortunato sottocapo aveva come avuto una visione e sussurrato ai compagni di stare tranquilli e di avere fiducia nel signor Sandroni, che era già riuscito ad arrivare a terra (“Non temete, perché il signor Sandroni è arrivato”), annunciando che si sarebbero salvati tutti grazie all'impresa dei tre uomini del battellino.
La morte di Acefalo ebbe un effetto depressivo sul morale dei rimanenti superstiti. Nel pomeriggio del 17 giugno alcuni uomini scoprirono un banco di coralli poco al largo di una delle spiagge di Barra Musa Kebir, e su proposta del comandante Morone numerosi coralli vennero staccati ed utilizzati per comporre sulla sabbia la scritta “SOS” a grandi caratteri, nella speranza che potesse essere vista da qualche aereo di passaggio. Il 18 e il 19 giugno furono segnati dall’abbattimento generale: diversi naufraghi svennero, tutti si sentivano sempre più deboli, la morte del sottocapo silurista gettava funesti presagi sulla sorte di tutti. Anche Morone appariva scoraggiato, mentre crescevano i dubbi sulla sorte dei tre uomini partiti con il battellino. Il cuoco Russo, folle per l’intossicazione e la sete, continuava a “vedere” navi e cisterne in mare, correndo fino alla spiaggia e cadendo in acqua. Altri, di sera, erano colti da allucinazioni e credevano di vedere inesistenti luci; ogni tanto Morone faceva accendere dei falò, che bruciavano per una mezz’ora prima di spegnersi.
Anche il 20 ed il 21 giugno trascorsero all’insegna della sete; “piccoli gruppetti incominciano a formarsi. “Morire per morire”, dice qualcuno, “è meglio morire nel tentativo di salvarsi”. Ma con che? A nuoto forse? Altri fissano continuamente il cespuglio dove sono sotterrate le poche bottiglie d’acqua di riserva, vogliono fare il colpo? Lo facciano, si muore prima. (…) io faccio buona guardia alle bottiglie perché molti ora ci si stanno avvicinando. (…) più di uno si è aggirato da queste parti ma io gli ho fatto capire che ero sveglio”. Napp, aiutato da Ferrando, tentò di fabbricare una nassa con un pezzo di cavo d’acciaio. Molti ormai erano troppo deboli per andare a caccia di gabbiani, che per giunta era diventata difficile perché i volatili, dopo la sorte toccata a molti loro compagni, si erano fatti più guardinghi. Anche capo Ballerini riferì che diverse bottiglie usate per la distillazione si erano rotte, ormai stavano per finire, dopo di che non sarebbe stato più possibile distillarla.
Nel frattempo, il viaggio di Sandroni, Torchia e Costagliola nella loro piccola imbarcazione – lunga appena due metri – procedeva a forza di remi. Le razioni d’acqua dovettero essere diminuite, due dita ogni otto ore; per berla si utilizzava un bicchierino d’alluminio, al cui interno era stata praticata un’incisione per segnare il livello corrispondente alla razione. Il pezzo di pancetta affumicata venne gettato in mare, in quanto mangiandola si sarebbe forse calmata momentaneamente la fame, ma al costo di accrescere la già terribile sete.
Costagliola, un toscano giovane, allegro, vivace e muscoloso (nella vita civile faceva il pescatore), si mostrava sempre vigile, forte e volenteroso; Torchia, il più anziano dei tre, iniziò a dare segni di inquietudine: anche lui era rimasto intossicato dal cloruro di metile, e le fatiche della difficile navigazione stavano amplificando gli effetti dell’intossicazione. Iniziò a domandare ansiosamente come mai la terra non fosse ancora in vista, ed a che velocità il battellino stesse procedendo; Sandroni gli spiegò che il loro orizzonte era molto limitato perché la loro imbarcazione era estremamente bassa sul mare, e che la costa non era visibile perché in quel tratto era sprovvisto di rilievi montuosi particolarmente alti. Stimò la loro velocità in circa due nodi, al netto della deriva e dello scarroccio, pur non riponendo grande affidabilità nella sua valutazione visto che la velocità a cui procedevano variava di molto a seconda di chi fosse ai remi, Costagliola – il più giovane e forte – remava con maggior vigore, mentre quando a remare erano Sandroni o Torchia si andava più lentamente. Iniziarono intanto a manifestarsi dolorosi disturbi emorroidali, dovuti alla fatica, al caldo ed alla posizione di voga sul legno duro.
Il mattino del 17 giugno, verso le 6.30, i tre avvistarono la costa del Sudan, all’altezza di Ras Asis; poco dopo tornò a levarsi il vento ed anche il mare si fece leggermente mosso, ma il vento soffiava adesso da sudovest, in senso contrario rispetto alla rotta che dovevano seguire. Faticando ad avanzare in quelle condizioni, venne deciso di accostare verso la riva, ed intorno alle dieci del mattino Sandroni credette di avvistare sulla costa del fumo e delle capanne di indigeni. Preso terra in quel punto, tuttavia, i tre uomini non trovarono anima viva, né tracce di abitazioni, mentre si faceva sempre più pressante il problema dell’acqua, quasi finita nonostante il rigoroso razionamento: ormai ci si poteva soltanto inumidire le labbra ogni quattro ore. Forse Sandroni aveva avuto un’allucinazione, o un miraggio. In quel punto della costa c’erano solo sabbia e deserto: il “fumo” non era altro che sabbia sollevata dal vento e fatta vorticare in spirali.
Venne dunque ripresa la navigazione, stavolta aiutata da una brezza favorevole che permise, dalle 14.30, di navigare per un po’ a vela. Si procedeva a rilento, dovendo doppiare un’infinità di isolotti e talvolta scendere e spingere a mano il battellino quando si capitava in acque troppo basse: in questo modo, per lo meno, era possibile sgranchire un po’ le gambe, mentre contro il caldo ed il sole l’unico sollievo era offerto dal calare della notte, che pemetteva di vogare con più forza. Il razionamento della poca acqua rimasta venne ulteriormente ridotto a due dita al giorno.
La situazione si aggravò quando Torchia iniziò a sentirsi male, tanto da non riuscire più a remare, sprofondando in un grave stato confusionale.
Alle tre di notte del 18 giugno il battellino si arenò; lasciato Torchia a riposare sul battellino, Sandroni e Costagliola si allontanarono e per più di un’ora batterono il mare tutt’attorno cercando vanamente un fondale più profondo. Tornati al battellino, Sandroni propose a Costagliola di inumidirsi le labbra inumidendo un pezzo di carta da introdurre nella bottiglia, ma quando lo fecero scoprirono che non era rimasta una gocia d’acqua. Ne derivò un alterco, Torchia, accusato di aver bevuto la poca acqua rimasta, ebbe uno scatto d’ira e venne quasi alle mani con Costagliola, a fatica Sandroni riuscì a placare gli animi.
Alla fine non rimase che tornare indietro e tentare di passare in un altro punto; il fondale divenne a poco a poco più profondo, ma nel frattempo si era di nuovo levato vento contrario, che faceva ingrossare il mare. Per ore Sandroni e Costagliola vogarono a turno contro il vento con la forza della disperazione: Costagliola avrebbe ricordato decenni dopo "Sembravamo impazziti, un po' ai remi e un po' a spingere, sempre controvento". Torchia intanto stava sempre peggio, piangeva e delirava, ripeteva che sarebbero finiti tutti in pasto agli squali. Anche gli altri iniziavano ormai ad accusare gli effetti della stanchezza, del caldo e della costrizione in uno spazio troppo ristretto: Sandroni tentava, quando il fondale lo consentiva, di spingere con le mani anziché remare, per riposare le braccia e per placare il dolore causato dalle emorroidi; Costagliola era sfinito e colto da brividi di freddo, forse aveva la febbre. Sandroni gli diede la maglia di lana a maniche lunghe – l’unica che avessero in tre – e cercò di rincuorare Torchia.
Alle 3.15 (per altra fonte, alle 7.15) dello stesso 18 giugno il battellino entrò in un piccolo golfo circa cinque miglia a nordovest di Ras Kasar e raggiunse la riva; nascosta l’imbarcazione tra i canneti e la fitta vegetazione della riva, gli esausti Sandroni, Torchia e Costagliola s’incamminarono verso l’interno in cerca d’acqua. Raggiunsero un villaggio, dove da una tenda sortì un indigeno “enorme, arrabbiato, minaccioso e con una scimitarra in mano”, cui poi si aggiunsero altri indigeni armati e dallo sguardo diffidente. Sandroni ordinò a Torchia e Costagliola di non parlare ed avvicinatosi con cautela, fece grandi cenni di saluto portandosi la mano prima alla fronte e poi alla bocca, esclamando “Salam el lek” e cercando di apparire amichevole. Parlando in inglese, in francese e con qualche parola di arabo cercò di far comprendere agli indigeni che lui ed i compagni erano naufraghi ed avevano bisogno di acqua, accompagnando i suoi tentativi con ampi gesti delle braccia, ma senza apparente risultato. Alla fine si ricordò che nella lingua locale “acqua” si diceva “moia”, e prese a ripeterla più volte ad alta voce; a questo punto l’omone comprese ed uno degli indigeni entrò in una tenda e ne uscì con un piccolo catino in ferro smaltato (Costagliola, molto tempo dopo, avrebbe invece parlato di un otre di pelle), sporco ma pieno d’acqua. Per quanto fosse “sporca e fetida”, di colore giallastro e con uno strato di sabbia che galleggiava sulla superficie, i tre uomini del Macallè ne bevvero più che poterono (Sandroni sarebbe stato poi colpito dall’ameba, evidentemente per aver bevuto quell’acqua). Poi, gli indigeni costrinsero i tre italiani a sedersi sulla sabbia, e si misero a discutere nella loro lingua. Incerti sulle intenzioni di quei sudanesi, che in fin dei conti erano tecnicamente sudditi britannici e dunque nemici, Sandroni, Torchia e Costagliola si rialzarono lentamente, fingendo di volersi sgranchire le gambe, e poi s’incamminarono cautamente verso la spiaggia, sempre seguiti dagli sguardi diffidenti degli indigeni, mentre Sandroni si girava ogni tanto a rivolgere ampi cenni di saluto e ringraziamento. Raggiunto il battellino, lo spinsero rapidamente in acqua e vi balzarono dentro; Costagliola si mise ai remi, e si allontanarono vogando a più non posso.
Uscita dal golfo, la piccola imbarcazione incontrò di nuovo vento contrario, che ridusse al minimo la velocità.
Ripresero la navigazione verso sud fino alle 22, quando si arenarono su una secca; fu deciso di fermarsi e riposare un po’, in attesa dell’alta marea. Liberato il battellino ricominciò la navigazione lungo la costa, a forza di remi e quando possibile con l’aiuto della vela; quando il battellino capitava sulle secche, spingevano a forza di braccia. Torchia stava sempre peggio.
Alle cinque del mattino del 19 giugno i tre naufraghi vennero avvolti da una foschia fitta e bassa, che li privò di qualsiasi punto di riferimento, mentre anche la carta nautica era ormai così sgualcita da risultare pressoché inutilizzabile, non riuscendo più neanche a leggere simboli e nomi delle località; come se non bastasse, incapparono ancora una volta in bassifondali. Procedendo lentamente verso est a forza di remi, riuscirono finalmente ad avvistare di nuovo la costa, ed anche un sambuco arabo, cui si avvicinarono per chiedere informazioni sulla loro posizione: dal suo equipaggio appresero che il confine con l’Eritrea non era molto lontano. Proseguirono dunque tenendosi a distanza di sicurezza dalla costa (circa cinque miglia), cui era meglio non avvicinarsi troppo per evitare di essere avvistati da eventuali posti d’osservazione britannici.
Nella notte tra il 19 ed il 20 giugno il battellino puntò verso terra, ma verso l’alba il vento lo fece arenare ancora una volta su un bassofondale, costringendo i tre occupanti a scendere e spingere a turno, camminando sul un fondale roccioso disseminato di sassi e ricci di mare, puntando verso sud. Solo alle sei del mattino riuscirono ad uscire dalle secche e riprendere la navigazione a remi verso l’ormai vicina costa eritrea; su una spiaggia venne avvistata una pattuglia di ascari, da cui Sandroni si fece riconoscere agitando un corpetto bianco. Arenatosi il battellino ad un centinaio di metri dalla riva, i tre occupanti raggiunsero terra, dove gli ascari, comandanti da un bulucbasci, si prodigarono per assisterli ed offrirono loro tè con latte di cammella dolcificato, che offrì loro un agognato ristoro.
Avevano finalmente raggiunto del territorio italiano; gli ascari, tuttavia, non disponevano di radio o di altri mezzi di comunicazione, ed il distaccamento italiano più vicino si trovava a Mersa Taclai, distante trenta miglia. Sandroni decise di riprendere la navigazione a dispetto del mare grosso, con vento da nordovest, ma prima di ripartire consegnò al bulucbasci un messaggio in italiano, da inviare il prima possibile a Mersa Taclai a mezzo di messaggero su cammello, in cui spiegava che da cinque giorni i naufraghi del Macallè erano bloccati su un isolotto, del quale forniva le coordinate.
Il vento soffiava abbastanza forte da riuscire a procedere piuttosto velocemente a vela, pur non senza notevoli rischi e difficoltà. Sandroni fece sdraiare Torchia e Costagliola sul fondo del battellino, per migliorare un po’ la stabilità, e legò il remo all’anello dello specchio di poppa, come timone; rotta verso sudest, verso Taclai.
Alle 15 dello stesso giorno il battellino giunse in vista del faro di Taclai, ma ancora un ultimo ostacolo si frappose sulla strada dei tre naufraghi del Macallè: una scogliera a pelo d’acqua proprio davanti a quella località. Il battellino riuscì a superarla con l’aiuto di un’onda, ma strusciò contro di essa la poppa, con conseguente apertura di una grossa falla; tamponatala alla meglio, Sandroni, Torchia e Costagliola remarono fino a giungere finalmente sulla spiaggia di Mersa Taclai, alle 15.30 del 20 giugno 1940.
Gli ascari di sentinella sulla spiaggia li accolsero con i fucili puntati: conciati com’erano (Sandroni era a torso nudo, con indosso soltanto un paio di pantaloncini legati con una cordicella) risultava difficile capire se fossero amici o nemici; Sandroni disse loro di essere un ufficiale della Marina italiana e chiese di essere accompagnato subito dal comandante della locale stazione di vedetta.
Gli ascari esaudirono la richiesta, e condussero i tre dal tenente di fanteria Cutrelli, che chiese a Sandroni chi fosse; la risposta fu “Sono il Guardiamarina Sandroni, ufficiale di rotta del sommergibile Macallè affondato davanti all’isolotto di Bari Musa Kebir. Avvertite subito Massaua con la massima urgenza, tutto l’equipaggio attende dal 15 giugno di essere salvato”. Lui ed i compagni si reggevano a stento in piedi, erano esausti, febbricitanti e ustionati dal sole, con le labbra spaccate e mani e natiche coperte di piaghe per il continuo remare e per i giorni passati scomodamente seduti nel ristretto spazio del battellino. Cutrelli li fece medicare e rifocillare ed inviò tre messaggeri a cammello – anche quella stazione di vedetta era priva di radio – verso le vicine località di Gheb, Alghena e Cavet, con l’ordine di inoltrare urgentemente un messaggio destinato al Comando Superiore Navale in Africa Orientale a Massaua (per altra fonte Cutrelli avrebbe trasmesso un fonogramma urgente a Massaua, ma sembra probabile un errore).
In cinque giorni, Sandroni, Torchia e Costagliola avevano percorso tra le 150 e le 200 miglia sulla loro minuscola imbarcazione. Un aereo venne prenderli a Marsa Taclai, atterrando su una pista di fortuna; dopo essersi reidratati bevendo e mangiando frutta sciroppata, furono riportati a Massaua, dove atterrarono all’aeroporto di Otumlo alle undici del 22 giugno per poi essere portati nella locale infermeria della Marina, dove rimasero a lungo in convalescenza per riprendersi dai postumi di quell’infernale viaggio.
Nel frattempo, la macchina dei soccorsi si era subito messa in moto. Da Massaua venne fatto partire alle 13.10 del 21 giugno il sommergibile Guglielmotti (capitano di corvetta Carlo Tucci), incaricato di recuperare i naufraghi, ed il 22 giugno, non appena fu giorno, decollò un trimotore Savoia Marchetti SM. 81, incaricato di localizzare l’isolotto ed avvisare gli uomini del Macallè che i soccorsi erano in arrivo.
Nel frattempo, però, anche occhi meno amichevoli si erano posati su Bar Musa Chebir: la sera del 21 giugno un aereo del 14th Squadron della Royal Air Force, pilotato dal tenente neozelandese Murray MacKenzie, aveva avvistato quei quaranta e più uomini accampati su quella strisciolina di sabbia, oltre ad una chiazza di carburante visibile in superficie a poca distanza dall’isola, evidentemente frutto della nafta che affiorava dal relitto del Macallè. Giovanni Battista Ferrando descrive così nel suo diario l’avvistamento dell’aereo: “Verso sera, dopo la quotidiana distribuzione dell'acqua, Russo il cuoco, che ogni tanto continuava a vedere navi, si mette a urlare: «Un apparecchio, un apparecchio!» Tutti guardano in alto ma non vedono che gabbiani, dopo poco però qualcun'altro grida ugualmente e anch'io distinguo infine: è veramente un apparecchio, ci ha avvistati, scende di quota, è ora bassissimo, tutti urliamo come se ci dovesse sentire, fa un giro, e poi un'altro ancora, si distingue benissimo nel seggiolino posteriore l'osservatore fa dei segni con le mani e poi piano piano scompare all'orizzonte ormai scuro dalle prime variazioni della notte. Cosa sia successo tra noi è indescrivibile: chi piangeva e chi rideva, chi sveniva e chi si abbracciava, che importa se è inglese o francese? L'interessante è che ci ha visti, siamo salvi capite? Salvi. Si fa subito proposta al comandante di una seconda razione d'acqua, che dopo una lunga mediazione acconsente. Tutti poi si va vicino alla tomba del nostro compagno morto ed ognuno dedica qualche minuto a lui. Si ritorna poi sulla spiaggia per dormire, ma chi dorme; malgrado le gambe non ci reggano più, malgrado tutto il passato, si parla, si commenta. Era francese? Era inglese? Io ho visto i cerchi nella carlinga, erano bianco, rosso e blu, sono i colori francesi, saremmo dunque prigionieri (non sapevamo che la Francia nel frattempo aveva chiesto l’armistizio)”.
L’indomani mattina l’aereo di MacKenzie fece ritorno e lanciò un messaggio con istruzioni su come comunicare con esso, annunciando di prepararsi ad imbarcarsi su un’unità della Royal Navy che sarebbe giunta per portarli prigionieri a Porto Sudan.
Erano passati sei giorni dal naufragio, e gli stremati superstiti del Macallè non sapevano ancora se Sandroni e i suoi fossero riusciti a raggiungere la costa eritrea o fossero stati inghiottiti dal Mar Rosso: il comandante Morone decise dunque di seguire le istruzioni, ed i britannici appresero che quegli uomini erano un gruppo di marinai italiani.
Ancora dal diario di Giovanni Battista Ferrando: “Stamattina presto ci sveglia un rumore di apparecchio, è qua nuovamente infatti, quello di ieri sera o qualche suo fratello. Ancora riprende a girare, avrà di già certamente letto il grosso SOS fatto coi coralli sulla riva, si abbassa ora, lancia qualcosa, una fiamma in tela e un borsellino o qualcosa di simile. Non posso trascrivere le parole scritte sul pezzetto di carta che si trovava in quel sacchetto lanciato dall'aereo, perché non son mai riuscito a saperlo di preciso. Il comandante dopo aver letto attentamente ci fa mettere, la metà di noi, distesi sulla spiaggia con le braccia aperte e la seconda metà in piedi gesticolando a mo' di saluto. L'aereo che continua a girare si rialza ora e nuovamente l'osservatore fa segni con le mani, poi nuovamente scompare. Si sa ora che il biglietto è scritto in tre lingue, inglese, francese e arabo. Dice pressapoco così: «Se siete italiani sdraiatevi a terra con braccia distese; se avete bisogno di soccorso, fame e sete sventolate qualche capo di corredo». Noi certamente vestiario non ne avevamo, io avevo un paio di mutandine da bagno che di mutande era rimasto solo il nome. Eccoci ora in attesa di qualche esito, ognuno ritorna a sorridere, a sperare, tutti si pensa alla pagnotta e all'acqua che ci sarà certamente data anche se trattasi di nemico; solo uno non parla più, dorme a circa un metro sotto la sabbia”.
(Secondo i ricordi di Adriano Tovo, all’arrivo dell’idrovolante gli uomini del Macallè si sarebbero nascosti in acqua utilizzando gli autorespiratori Davis. Di questo non vi è però traccia da nessun’altra parte, e sembra dunque piuttosto probabile che a distanza di tanti anni ricordasse male).
Circa due ore dopo che la sagoma dell’aereo di MacKenzie era scomparsa all’orizzonte, i naufraghi del Macallè videro apparire nel cielo una sagoma diversa e familiare: il trimotore S.M. 81 decollato da Massaua, che avvistato l’isolotto verso le otto del mattino del 22 giugno, lo sorvolò lanciando provviste e vestiario ed un messaggio che annunciava che il Guglielmotti stava venendo a prenderli. Alle 11.10 di quello stesso giorno (altra versione parla delle 12.45), il sommergibile raggiunse Bar Musa Chebir: non appena gli uomini del Macallè lo videro fermarsi e mettere in mare un battellino per imbarcarli, molti, disperati ed in parte non ancora nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali per via dell’intossicazione, si gettarono in mare per raggiungerlo a nuoto.
Sempre dal diario di Giovanni Battista Ferrando: “si ode ora rumore d'aerei nuovamente, ma molto lontani; qualche cosa ci dice che questi non sono nemici, sono nostri o è nostro questo, il rumore non è uguale, ma è lontano e non si vede. Qualcuno incomincia a dire: «Vuoi vedere che cerca noi su qualche altra isola e non scorgendoci se ne torna indietro?» Qualche altro aggiunge: «E se torna l'aereo nemico? Fanno combattimento, si abbattono a vicenda e noi rimaniamo nuovamente a terra». Ora il rumore si avvicina; dato l'aumentare d'intensità, qualcuno lo vede infatti, lo vedo anch'io; è un grosso bestione, un bimotore. È nostro, altre manifestazioni di gioia, altri svenimenti, intanto l'aereo ci scorge e scende; passa sopra di noi bassissimo tanto da far tremare lo scoglio, lancia qualcosa: sono borracce di acqua, molte cascano a mare, qualcuna invece casca sopra e le beve chi beve. Vicino a me casca una scatola di latte che si fa in frantumi, trovo solo un chiaro, una forchetta e qua e là pezzi di vetro con vicino del succo di limone. L'aereo si allontana ora nuovamente dopo aver fatto segno d'attendere, sale e allontana sempre più fino a sparire. Dopo poco ricompare ancora, ritorna a scendere basso e lancia un sacchetto con una bandierina tricolore, i nostri tre colori; questa volta però leggo anch'io — a undici miglia un sommergibile dirige verso voi — undici miglia; tra un'ora dunque al massimo è qua, di corsa ci dirigiamo tutti dalla parte di dove l'aereo si è nuovamente allontanato. Dopo sei lunghi giorni che si guardava l'orizzonte senza scorgere nemmeno una vela, il settimo giorno ci fa il dono di un puntino nero prima, che man mano si fa sempre più grande fino a distinguere chiaramente la sagoma di un sommergibile, che a tutta forza in superficie dirige su di noi. Tra poco saremmo salvi, ci daran da bere, da mangiare e per di più ci ricondurranno in terre nostre, niente prigionieri dunque, niente pane e acqua, ma certamente qualcosa di più. Il battello si avvicina sempre più: è il Guglielmotti, lo riconosciamo dalla strutura: ora rallenta le macchine e si ferma, noi urliamo malgrado le gole arse dalla sete, da bordo filano a mare la barchetta e a remi si dirigono verso terra, dritto in piedi si distingue e si riconosce il signor Tamburini, ufficiale in seconda del Gugliemotti. Qualcuno di noi si butta a mare per andarle incontro, il comandante nostro grida a questi incitandoli di tornare indietro: «Siete deboli e finirete col rimanere a metà strada!» Ma nulla li ferma più. Inizia il trasbordo e in due o tre viaggi siamo tutti a bordo, uno solo è rimastro a terra, padrone assoluto dell’isolotto, il povero Acefalo. A bordo ci danno subito del latte; il dottore Origlia di Torino, imbarcato per l'occasione, sta urlando di non mangiare niente e di non bere acqua. Intanto il sommergibile fa manovra per l'immersione, è quasi mezzogiorno e siamo ora immersi a quota periscopica. Il comandante Tacci al periscopio avvista, prima uno e poi un altro, due aerei nemici che girano sopra lo scoglio, chissà qual sorpresa non trovando più nessuno”.
Il battellino del Guglielmotti traghettò i naufraghi tra l’isola ed il sommergibile soccorritore in due o tre viaggi, dopo di che il sommergibbile s’immerse alle 12.20, pochi attimi prima che un idrovolante britannico Supermarine Walrus – pilotato personalmente dal maggiore Anthony Dunkerton Selway, comandante del 14th Squadron RAF, e dal capitano Deryck Cameron Stapleton, destinato a succedergli al comando di lì a pochi mesi –, inviato dal comando di Porto Sudan per prelevare i naufraghi od almeno stabilire con essi un primo contatto, raggiungesse Bar Musa Chebir (altra fonte parla di un rimorchiatore, con equipaggio armato per catturare i naufraghi).
Al loro arrivo, gli inglesi non trovarono altro che i resti dell’accampamento italiano, ed una tomba. Carlo Acefalo non avrebbe più lasciato Bar Musa Chebir, non per altri 78 anni.
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Ricostruzione dal documentario “Tornando a casa” di Ricardo Preve |
Lasciata l’isola, il Guglielmotti diresse per Massaua con a bordo l’equipaggio del Macallè, riemergendo una volta che fu abbastanza lontano dalla costa sudanese. I naufraghi versavano in pessime condizioni, pelle e ossa ed in parte deliranti per l’effetto combinato del cloruro di metile, dell’insolazione e della sete; alcuni, ormai impazziti, dovettero essere tenuti legati per tutto il viaggio di ritorno a Massaua. Per prendersi cura dei casi più gravi, prima della partenza il sommergibile aveva imbarcato un medico, il dottor Origlia di Torino. Il Guglielmotti raggiunse Massaua alle undici del mattino del 23 giugno.
Giovanni Battista Ferrando descrive così il viaggio di ritorno: “Scaglioni e altri sono legati con funi a bordo, la loro demenza può essere pericolosa, Russo il cuoco è qua vicino a me e dà sempre numeri, ora più di prima. La navigazione continua ora in superficie a tutta birra verso Massaua, dove arriviamo verso mezzogiorno; a terra tutte le autorità locali ci attendono congratulandosi con ognuno di noi man mano che si scendeva a terra. Con autoambulanze ci portano quindi all'ospedale dove un magnifico lettino coglie il mio peso alquanto diminuito a partire da due settimane fa a oggi”.
Per la sua impresa il guardiamarina Sandroni sarebbe stato decorato con la Medaglia d’Argento al Valor Militare, con motivazione "Su una piccola imbarcazione, in condizioni di clima particolarmente avverse e con scarsezza di viveri e di acqua, non volendo approdare in territorio nemico percorreva le duecento miglia che lo separavano dalla costa nazionale sorretto dalla tenace volontà di procurare l’aiuto italiano ai componenti l’equipaggio di un sommergibile sinistrato in acque nemiche"; Paolo Costagliola con la Medaglia di Bronzo al Valor Militare, con motivazione "Componente di un piccolo equipaggio rifugiatosi su un isolotto deserto, in seguito all'affondamento della sua unità in acque nemiche, riusciva, insieme ad un guardiamarina e un sottufficiale, ad attrezzare un battellino e, dopo cinque giorni di sforzi, sostenuti con grande fermezza d'animo ed in avverse condizioni di clima e di sostentamento, raggiungeva la costa nazionale, cooperando al salvataggio dei compagni".
Elio Sandroni avrebbe poi ricordato che per il conferimento della medaglia venne a Massaua personalmente il duca d’Aosta, viceré d’Etiopia, che gli consegnò la pergamena che attestava il conferimento della decorazione, ma non la medaglia metallica, perché questa non era disponibile in Africa Orientale: l’avrebbe ricevuta soltanto due anni più tardi, il 10 giugno 1942, per mano del podestà di Pola, in una cerimonia tenuta nell’anfiteatro romano di quella città.
Alla memoria di Carlo Acefalo venne conferita la Croce di Guerra al Valor Militare, con motivazione "Imbarcato su sommergibile, in azione di guerra in Mar Rosso, benché gravemente colpito durante la navigazione da emanazione di gas tossici, assolveva il suo compito con sereno coraggio e diligenza; dopo l’incaglio e l’affondamento dell’unità, tratto in salvo dai suoi camerati ma gravemente provato nel fisico, lasciava la vita nell’adempimento del dovere, rivolgendo alla Patria l’estremo saluto".
Sopra, il podestà di Pola appunta la Medaglia d’Argento al Valor Militare sul petto di Elio Sandroni in una cerimonia tenuta nell’anfiteatro romano del capoluogo istriano, il 10 giugno 1942 (dal “Dizionario Biografico Uomini della Marina 1861-1946”); sotto, la motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferito a Paolo Costagliola (da www.portoercole.org)
A titolo di curiosità, vale la pena di menzionare che qualche sito di lingua inglese afferma che il relitto incagliato del Macallè sarebbe stato cannoneggiato e distrutto dall’incrociatore leggero neozelandese Leander e dai cacciatorpediniere britannici Kandahar e Kingston il 27 giugno 1940. Si tratta, ovviamente, di un errore; il Macallè giaceva sul fondo del Mar Rosso fin dal 15 giugno, mentre il sommergibile cannoneggiato dalle navi britanniche era il Perla, incagliatosi a sua volta sulla costa eritrea – senza poi affondare – dopo un incidente molto simile a quello del Macallè. Il Perla, peraltro, sopravvisse a quell’attacco, pur danneggiato, e venne in seguito disincagliato e riparato.
In ospedale i superstiti del Macallè si ripresero rapidamente dalle conseguenze dei patimenti subiti durante la difficile permanenza su Barra Musa Kebir. Per riprendersi completamente dagli effetti dell’intossicazione da cloruro di metile e da quelli degli stenti, dopo la dimissione gli ex naufraghi vennero mandati per un breve periodo in convalescenza ad Embatkalla (località dell’Eritrea situata a circa mille metri di quota su un altopiano sulla strada che univa Massaua all’Asmara, dove venivano mandati gli equipaggi dei sommergibili per respirare aria pura nei periodi di riposo) o Mai-habar (località montana di villeggiatura non lontana da Nefasit, lungo la strada che univa quella città a Decamerè, sede di un convalescenziario), dove Giovanni Battista Ferrando ricordò che si passò il tempo mangiando, bevendo e compiendo lunghe gite in montagna tra frotte di scimmie.
Terminato questo periodo, l’equipaggio del sommergibile si disperse, venendo assegnato ad altre unità navali e comandi a terra della Marina in Eritrea. Alcuni uomini del Macallè vennero assegnati ai superstiti sommergibili della flottiglia di Massaua (la metà: nel primo mese di guerra erano andati perduti in quattro su otto), seguendone la sorte quando nel marzo del 1941, nell’imminenza della caduta dell’Eritrea, lasciarono quella base per raggiungere la Francia occupata, facendo il periplo dell’Africa. Fu questo il caso di Elio Sandroni, Reginaldo Torchia e Giovanni Battista Ferrando, che furono imbarcati sul Perla (per Sandroni, dopo due brevi periodi d’imbarco su una motonave armata RAMB e sul Guglielmotti), e dell’ex comandante in seconda del Macallè, Bruno Napp, che del Perla divenne il comandante, portando quel piccolo sommergibile, mai pensato per la navigazione oceanica, in una leggendaria traversata attraverso due oceani ed intorno a un continente. Paolo Costagliola s’imbarcò sul Guglielmotti, lo stesso sommergibile che aveva soccorso i naufraghi del Macallè: a proporglielo era stato il comandante stesso di quel battello, al termine di una chiacchierata che aveva intrattenuto con lui quando si era recato a trovare i tre intrepidi del Macallè in ospedale, dov’erano ricoverati per riprendersi dopo il difficile viaggio nella loro barchetta. Sia il Perla che il Guglielmotti, dopo aver circumnavigato l’Africa, raggiunsero la Francia da dove successivamente rientrarono in Italia passando per lo stretto di Gibilterra; durante la traversata oceanica Costagliola guadagnò una seconda Medaglia di Bronzo al Valor Militare, offrendosi volontario per riparare l’antenna radio spezzata dal mare in tempesta.
Il sottotenente del Genio Navale Giorgio Mazza, già direttore di macchina del Macallè, rientrò anch’egli in Italia con il Guglielmotti e fu poi trasferito su un altro sommergibile, il Malachite; fu tra i pochi sopravvissuti dell’affondamento di quel battello, nel febbraio 1943.
Anche Angelo Ballerini, il sottufficiale meccanico che aveva escogitato il sistema per distillare un po’ d’acqua sull’isola deserta, fu tra coloro che scamparono alla prigionia raggiungendo la Francia su uno dei sommergibili superstiti, ma la sua storia non ebbe un lieto fine. Rimasto in Francia, assegnato alla base sommergibilistica italiana di Betasom a Bordeaux, venne trasferito sul sommergibile Morosini, con il quale scomparve nell’Atlantico nell’agosto 1942. Non diversa fu la sorte del fuochista Bernardino Aceti: imbarcato sul Guglielmotti come Mazza e Costagliola, a differenza di loro non ebbe la fortuna di sbarcare prima della sua ultima, fatale missione, e trovò la morte nel suo affondamento in Mediterraneo nel marzo 1942.
Altri uomini del Macallè vennero invece assegnati a navi di superficie o comandi a terra, seguendone la sorte alla caduta di Massaua nell’aprile 1941 e finendo prigionieri dei britannici (alcuni finirono nel grande campo di prigionia di Zonderwater, in Sudafrica) od internati in Arabia Saudita.
Adriano Tovo era stato destinato sui MAS; alla caduta dell’Eritrea, con alcuni compagni attraversò il Mar Rosso su un motoscafo per sottrarsi alla cattura, raggiungendo le coste del neutrale Yemen dove venne internato. Qui rimase per 29 mesi, ricevendo vitto e paga da internato; “tutto tranne che le donne, a meno di non abbracciare la religione Islamica e non poter mai più tornare in patria”. Durante l’internamento in Yemen imparò l’arabo; assisté al taglio della mano di un ladro (“esperienza che avrebbe preferito non fare se solo ci avesse pensato prima, cosa che non fece”); scoprì che in quel Paese musica e giocattoli erano proibiti, dopo che fu severamente ammonito per aver regalato ad un bambino un giocattolo che aveva fabbricato con le sue mani; assisté alla costruzione di una piscina “con i tipici mattoni arabi costituiti da un impasto di sterco, fango e paglia che si sciolsero non appena la piscina fu allagata, crollando tutto sui novelli bagnanti”. Sul finire del 1943 fu rimpatriato su una nave che fece il periplo dell’Africa, ed a bordo della quale conobbe la sua futura moglie, una goriziana con la quale ammazzava il tempo durante la traversata giocando a carte.
Il tempo passò, la guerra finì, la storia del Macallè venne dimenticata dai più. Non era che uno dei 108 sommergibili persi dall’Italia nel conflitto, seppure avesse avuto l’indesiderabile distinzione di essere stato il primo; più di tremila sommergibilisti italiani erano morti in guerra dopo Carlo Acefalo, quasi tutti senza altra tomba se non il mare.
L’effimero impero dell’Africa Orientale Italiana non esisteva più, come il suo fondatore; più nulla restava della flottiglia del Mar Rosso, le sue unità affondate o disperse tra Francia e Giappone nel giro di meno di un anno dalla perdita del Macallè. Il Guglielmotti, il sommergibile che aveva soccorso l’equipaggio del Macallè, era riuscito a rientrare in Mediterraneo soltanto per esservi affondato, senza superstiti, da un sommergibile britannico.
Elio Sandroni, il giovane guardiamarina che aveva guidato la piccola spedizione inviata ad allertare i soccorsi, era sopravvissuto alla guerra ed aveva continuato la sua carriera in Marina, raggiungendo il grado di contrammiraglio e spegnendosi nel 2012 all’età di 95 anni, uno degli ultimi sommergibilisti della Regia Marina a partire per l’ultimo viaggio.
Lo aveva preceduto di un decennio Paolo Costagliola, il nocchiere che l’aveva accompagnato insieme a Reginaldo Torchia nella difficile traversata sul battellino: era morto nella sua natia Porto Ercole nel 2002 (fino alla morte era stato presidente onorario della locale sezione dell’Associazione Nazionale Marinai d’Italia).
Adriano Tovo, divenuto nel dopoguerra dirigente tecnico della SNIA Viscosa a Ceriano Laghetto, era morto già nel 1967, a soli 52 anni, per una polmonite presa guidando l'automobile con la testa fuori dal finestrino a causa della nebbia. Alfredo Morone, il comandante del Macallè, era morto nel 1979 all’età di settant’anni.
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Alfredo Morone ed Elio Sandroni negli anni Cinquanta (da www.miro.medium.com) |
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(da www.portoercole.org) |
La storia del Macallè, tuttavia, era tutt’altro che conclusa. Francesca (“Cichina”) Destefanis, la madre di Carlo Acefalo, avrebbe aspettato invano il rimpatrio dei resti del figlio, per avere almeno una tomba su cui piangerlo: in un’altra guerra, la Grande Guerra, aveva già perso il marito, Pietro Acefalo, soldato del 4° Reggimento Bersaglieri morto il 9 giugno 1916 – meno di cinque mesi dopo la nascita del figlio – sul fronte dell’Isonzo, vicino a Tolmino. Lasciato Monastero di Vasco per tornare nel suo paese natale, Castiglione Falletto nelle Langhe, la madre di Carlo Acefalo sarebbe infine morta nel 1978, portando al collo fino al suo ultimo giorno un medaglione con la foto del marito su un lato e quella del figlio sull’altro: entrambi partiti in guerra, a distanza di venticinque anni l’uno dall’altro, e mai più tornati.
Francesca Destefanis con al collo il medaglione con la foto del figlio e, sotto, il medaglione (g.c. Ricardo Preve)
Già nel dopoguerra i parenti di Acefalo avevano scritto all’Ufficio Informazioni del Vaticano per i dispersi e prigionieri di guerra senza ottenere risposta, e nel maggio 1961 alcuni missionari comboniani italiani che gestivano una scuola a Porto Sudan avevano cercato di convincere l’ambasciata d’Italia a Khartoum ad organizzare il rimpatrio della salma, offrendo il loro aiuto, ma l’offerta era stata declinata per scarsità di fondi. Parimenti senza seguito fu l’appello per il recupero dei resti di Carlo Acefalo lanciato nel 1983 in televisione, durante una puntata della trasmissione “Portobello” di Enzo Tortora, da Elio Sandroni (frattanto diventato ammiraglio), Paolo Costagliola ed altri superstiti del Macallè (Gino Dulizia, Attilio Manfredini, Osvaldo Paggi; avevano partecipato anche il figlio di Giovanni Battista Ferrando, radiotelegrafista del Macallè, ed un marinaio del Guglielmotti, Francesco Zironda). Era stato l’ex cannoniere Gino Dulizia a lanciare per primo l’appello, recandosi da Tortora il 7 gennaio 1983; dopo che la produzione di “Portobello” era riuscita a contattare gli altri reduci, tutti erano tornati in televisione il 14 gennaio, rievocando l’accaduto e chiedendo di attivarsi per riportare in Italia i resti di Acefalo, ma la richiesta era rimasta lettera morta.
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Gino Dulizia a “Portobello” con Enzo Tortora (g.c. Ricardo Preve) |
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Parte della lettera dei missionari comboniani all’ambasciata d’Italia a Khartoum, datata 4 maggio 1961 (g.c. Ricardo Preve) |
Solo nel giugno 2014 il capitolo finale della storia del Macallè ha avuto inizio. All’epoca Ricardo Preve, regista argentino di origini liguri, si trovava in Sudan per girare un documentario sugli squali balena nell’arcipelago delle Suakin (di cui fa parte Barra Musa Kebir); al termine delle riprese nell’isola di Barra Musa Kebir è stato informato, quasi per caso, dalla guida Marco Bove dell’esistenza sull’isola della tomba di un marinaio italiano, vittima dell’affondamento di un sommergibile incagliatosi su una barriera corallina poco distante all’inizio della seconda guerra mondiale. La notizia è stata poi confermata da alcuni subacquei francesi, che hanno raccontato che fino a qualche anno prima sulla tomba si trovava anche una croce di legno.
Incuriosito dalla storia, Preve ha iniziato ad informarsi a riguardo per poi recarsi all’Ufficio Storico della Marina Militare, a Roma, dove ha esaminato gli atti della Commissione d’Inchiesta Speciale, presieduta dal capitano di fregata Paolo Aloisi, istituita nell’estate del 1940 sulla perdita del Macallè; in essi – trecento pagine corredate da numerose mappe e disegni – figuravano le testimonianze della maggior parte dei superstiti, che descrivevano nei dettagli l’accaduto ed anche la morte e la sepoltura di Carlo Acefalo.
Nella sua ricerca, Preve ha anche ottenuto una copia del diario di Giovanni Battista Ferrando, custodito dal figlio Mario a Novi Ligure, e scoperto l’esistenza negli archivi dell’Università di Durham, nel Regno Unito, della traduzione in inglese del diario di Adriano Tovo, che descriveva la permanenza dell’equipaggio a Barra Musa Khebir: abbandonato sull’isola al momento del salvataggio da parte del Guglielmotti, il diario era stato recuperato dai britannici sbarcati a Barra Musa Kebir subito dopo; era successivamente finito nelle mani dell’ultimo comandante britannico del porto di Porto Sudan, Charles Allarton Milward (che aveva ricoperto tale carica dal 1938 al pensionamento nel 1951), la cui vedova l’aveva donato al Sudan Archive (istituito nel 1957, all’indipendenza del Sudan, per conservare i documenti relativi al periodo di dominio anglo-egiziano) ospitato dalla Palace Green Library dell’Università di Durham. Già nel 1956 un prete attivo a Porto Sudan aveva scritto alle autorità italiane per informarle del ritrovamento nell’isola del diario di Tovo, che conteneva informazioni utili ad ubicare la tomba di Carlo Acefalo, ma non c’era stato seguito. (Una stranezza è però costituita dal fatto che sul sito dell’Università di Durham, l’autore del diario è identificato come un capo elettricista, “probabilmente” il capo elettricista di terza classe Arturo Grimoldi).
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Lettera della vedova del comandante di Porto Sudan Milward (g.c. Ricardo Preve) |
Raccolte le necessarie informazioni, Preve ha organizzato una nuova spedizione in Sudan a fine ottobre 2014, con un triplice obiettivo: trovare la tomba di Carlo Acefalo; trovare il relitto del Macallè; e girare un documentario sulla vicenda. Per la ricercare del relitto, Preve aveva noleggiato il battello per immersioni Don Questo, un ex peschereccio battente bandiera italiana ed avente base a Porto Sudan (impiegato già nelle riprese del documentario del giugno precedente), e reclutato attraverso Internet una squadra di subacquei internazionale: la componevano oltre a lui un italiano, due britannici – Ivan Markovic di Stratford-upon-Avon e Chris Joy di Londra – ed un belga, alcuni dei quali avevano studiato archeologia subacquea insieme a lui. I soldi per l’imbarcazione e le attrezzature erano stati messi insieme dagli stessi partecipanti alla spedizione, che prima di recarsi a Barr Musa Kebir si sono addestrati per una settimana con immersioni sul relitto dell’Umbria, piroscafo italiano autoaffondatosi al largo di Porto Sudan nel 1940.
Era convinzione di Preve che il comandante del Macallè avesse esagerato nella sua stima che il sommergibile fosse affondato a 400 metri di profondità, forse per rassicurare i superiori sull’impossibilità per i britannici di recuperarvi alcunché: essendosi incagliato su fondali di soli 4-5 metri, non credeva potesse essere affondato a profondità molto superiori.
Giunta a Barra Musa Kebir, la squadra di Preve ha diviso il fondale antistante la costa sudorientale dell’isola – dove il Macallè si era incagliato per poi affondare – in cinque settori lunghi cento metri ciascuno, che sono poi stati esplorati in sei giorni di immersioni; nel quarto settore sono stati rinvenuti rottami metallici parzialmente incrostati dai coralli in prossimità di una sporgenza (situata su una scarpata sottomarina che degradava oltre i cento metri di profondità) a profondità compresa tra i 55 ed i 60 metri. Uno dei rottami, stretto e lungo, aveva aspetto simile ai supporti verticali degli aerei della radio sui sommergibili della classe Adua. Poco lontano, i subacquei hanno scoperto nella barriera corallina una spaccatura di forma triangolare/semicilindrica e di dimensioni compatibili con quelle dello scafo del Macallè, una sorta di “canyon” lungo ben trenta metri e largo sei: il sommergibile, con ogni probabilità, l’aveva creata scivolando lungo il fondale dopo l’affondamento, sfondando la bandiera corallina per poi continuare a cadere lungo la scarpata. In prossimità del “canyon” giacevano altri rottami metallici contorti, i più grandi lunghi oltre tre metri, alcuni dei quali sono stati recuperati per essere analizzati dalla Marina Militare e da Fincantieri, l’azienda che aveva ereditato i cantieri del Muggiano. La posizione della spaccatura coincideva con quella indicata nei documenti della Commissione d’Inchiesta Speciale come probabile punto di affondamento del Macallè.
I rottami trovati in prossimità del luogo dell’affondamento (foto Arne van Leuvenhaege, via Ricardo Preve)
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La parete verticale sommersa dalla quale “precipitò” il relitto del Macallè (g.c. Ricardo Preve) |
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La spaccatura aperta nella barriera madreporica dal naufragio del Macallè (foto Arne van Leuvenhaege, via Ricardo Preve) |
Antenna probabilmente appartenente al Macallè (g.c. Ricardo Preve) |
Disgraziatamente, le immersioni hanno anche confermato l’esattezza delle valutazioni del comandante Morone sulla profondità a cui doveva essere affondato il Macallè: i subacquei si sono immersi sulla barriera corallina fino a 80 metri di profondità senza trovare ulteriori tracce del relitto, ed hanno rilevato che oltre gli 80 metri il fondale precipitava quasi verticalmente a profondità dell’ordine di 400 metri, irraggiungibili da un subacqueo.
Rinunciato per il momento a cercare il relitto, nell’ultimo giorno della spedizione Preve e compagni hanno esplorato l’isola in cerca della tomba di Carlo Acefalo: a dispetto dei dubbi su quanto potesse esserne rimasto dopo 74 anni, con l’aiuto del diario di Adriano Tovo non hanno tardato ad individuare nei pressi di una spiaggia sulla costa sudorientale di Barra Musa Khebir – la stessa dove i naufraghi del Macallè avevano atteso i soccorsi – un cerchio di pietre piatte, in mezzo al quale giacevano alcuni pezzi di metallo arrugginito, rivelatisi in seguito essere parti di un autorespiratore Davis, in dotazione agli equipaggi dei sommergibili all’epoca della seconda guerra mondiale per la fuga da un battello affondato.
Le caratteristiche della tomba, orientata verso l’Italia e di struttura sensibilmente differente da quella delle sepolture di pescatori sudanesi presenti nell’estremità opposta dell’isola (indicate da piccoli mucchi di conchiglie), corrispondevano alla descrizione contenuta nel diario: avevano ritrovato la sepoltura dell’unico marinaio del Macallè che non aveva mai lasciato Barr Musa Kebir. Prima di lasciare l’isola, Preve e compagni hanno piantato una piccola bandiera navale italiana sulla tomba, del cui ritrovamento hanno poi notificato il Ministero degli Esteri.
Un secondo tentativo di individuare il relitto è stato condotto nell’aprile 2015 dai subacquei Simon Taylor-Watson, Simon Nadim, Marco Scaccabarozzi, Stephen Green, Claude Shafter, Blaise Jeanneret, Stephane Peterhans, Alison Mc Dowell, Tony Evans, Steve Harriss, Samer Isa, Ronald Rizk, Giulio Bartelli ed Anze Petric, con attrezzature per immergersi a profondità maggiori rispetto alla spedizione precedente, acquistate in Europa e spedite in Sudan con sette mesi di anticipo. Partiti da Porto Sudan su un battello per immersioni egiziano, nella prima immersione Simon Taylor-Watson e Simon Nadim si sono immersi in un punto in cui, stando alla carta nautica, il “muro” verticale creato dal fondale dopo gli 80 metri avrebbe lasciato il posto ad un pendio meno inclinato; ma pur scendendo fino a 112 metri e spostandosi lungo la costa sudorientale di Barra Musa Kebir, Taylor-Watson e Nadim non hanno trovato traccia del presunto pendio, scoprendo che contrariamente a quanto indicato sulla carta nautica la parete continuava a scendere verticalmente ed il mare appariva più scuro che in qualsiasi altro punto da essi esplorato in precedenza nel Mar Rosso, senza alcuna traccia del fondale nelle buie acque sotto di loro. Altri membri della spedizione, immersisi in altri punti, hanno trovato una situazione analoga; i componenti rimasti sul battello hanno intanto scandagliato il fondale con due sonar, uno a scansione laterale in grado di fornire un’immagine del fondale fino ad una profondità di cento metri e l’altro di tipo downscan in grado di raggiungere i 180 metri, ma mentre il primo segnava una profondità massima proprio di 180 metri, il secondo è risultato non funzionante.
Nel secondo giorno della spedizione, i subacquei si sono immersi in aree diverse; a 130 metri di profondità è stato trovato quello che in un primo momento sembrava essere il fondale, ma si è in seguito rivelato essere soltanto una “mensola”. Uno scandagliamento con il sistema più tradizionale – l’uso di una sagola – ha rivelato che la profondità era già di 195 metri a soli dieci metri dal margine della barriera corallina. Anche il terzo giorno le immersioni non hanno rivelato alto che pareti verticali tutt’attorno a Barra Musa Kebir e pochi frammenti metallici; il quarto giorno i subacquei, con l’ausilio di scooter subacquei, sono scesi fino a 210 metri (214, per la precisione: l’immersione più profonda eseguita fino a quel momento con un Bonex-Scooter), ma senza trovare traccia del Macallè o del fondale, solo la parete che continuava a scendere verticalmente. In totale, in quattro giorni sono state effettuate 27 immersioni oltre i cento metri di profondità (la più lunga, quella fino a 210 metri, durata ben sette ore e mezzo), ma senza successo: evidentemente il relitto del Macallè giace a profondità troppo elevate per i subacquei, e potrà essere localizzato in futuro soltanto mediante l’utilizzo di un ROV o di un minisommergibile.
Concentratosi sull’obiettivo di identificare e riportare a casa i resti di Carlo Acefalo, Ricardo Preve ha impiegato tre anni a pianificare i passi successivi ed ottenere i permessi per procedere all’esumazione, prima di fare ritorno in Sudan. Messa insieme una troupe per il documentario, ottenuti i necessari permessi dalle autorità sudanesi ed ottenuto il coinvolgimento delle autorità italiane – i Ministeri degli Esteri e della Difesa, la Marina Militare e le rappresentanze diplomatiche in Egitto e Sudan – e la collaborazione dell’antropologo forense Matteo Borrini (professore associato presso la John Moores University di Liverpool e membro della Commonwealth War Graves Commission, con la quale aveva lavorato già in passato all’identificazione di resti di soldati caduti) e dell’archeologo Cosimo Giachetti per l’identificazione dei resti (necessaria per poter ottenere l’autorizzazione al rimpatrio, essendo stata autorizzata l’esumazione soltanto dei resti di Carlo Acefalo), Preve è tornato a Barra Musa Kebir con la Don Questo il 2 ottobre 2017; oltre a lui la spedizione era composta da Borrini, Giachetti, Lorenzo Segalini (comandante della Don Questo) e Maurizio Chiarenza (guida subacquea). L’esumazione dei resti di Carlo Acefalo ha rivelato che gran parte delle ossa, a causa della scarsa profondità della fossa – scavata a mani nude nella sabbia –, erano andate perdute a causa dell’erosione, ma la roccia posata sul suo volto dai compagni al momento della sepoltura aveva protetto da questo fenomeno il cranio, che si era così conservato. Dopo tre giorni di lavoro in un caldo asfissiante – tanto provocare la fusione delle suole degli stivali a contatto con la sabbia rovente –, Borrini ha potuto concludere che i resti appartenevano ad un uomo europeo di età compresa tra i venti ed i trent’anni («Razza europea, diagnosticata dall’assenza di prognatismo, dalla morfologia a parabola della mandibola e dalla lieve curvatura della diafisi femorale; sesso maschile, diagnosticato dallo sviluppo della regione sopraorbitale e della mastoide, nonché dalla forma della sinfisi mentoniera; età compresa tra 20 e 30 anni, diagnosticata dal completo sviluppo della dentatura»), confermando dunque la loro appartenenza a Carlo Acefalo, che oltre a corrispondere a tale descrizione era l’unico europeo di cui sia nota la morte e la sepoltura a Barra Musa Kebir (i resti erano troppo pochi e troppo deteriorati per permettere l’estrazione di DNA per un’identificazione ancor più certa).
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Ricardo Preve davanti alla tomba di Carlo Acefalo (foto Arne van Leauvenhaege) |
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Il recupero dei resti di Carlo Acefalo (g.c. Ricardo Preve) |
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Matteo Borrini, Ricardo Preve e Cosimo Giachetti (da sinistra a destra) davanti all’urna in cui sono stati composti i resti (g.c. Ricardo Preve) |
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La Preghiera del Marinaio viene recitata sulla Don Questo all’imbarco dei resti di Carlo Acefalo, il 9 ottobre 2017 (g.c. Ricardo Preve) |
Imbarcati sulla Don Questo il 6 ottobre 2017 (Borrini avrebbe poi ricordato: “Non volli affidare a nessuno la cassa di Acefalo. La portai personalmente a spalla fin sul gommone. Mentre ci avvicinavamo alla nave vidi che il capitano Lorenzo Segalini, sottomia richiesta, aveva ammainato la bandiera di poppa. Arrivati sotto bordo, un membro della troupe di riprese si agguantò alla murata per scendere. Lo fermai dicendogli “no, prima lui”. E passai la cassa direttamente nelle mani del capitano. Arrivati sul ponte tutti stavano festeggiando. Ce l’avevamo fatta. Stava tramontando il sole all’orizzonte e un branco di delfini iniziò a danzare attorno alla Don Questo, quasi a portare il loro saluto al marinaio dopo averlo vegliato per 77 anni, quasi ad augurargli un felice ritorno a casa”), tre giorni dopo i resti di Carlo Acefalo, posti in una piccola urna drappeggiata in una bandiera della Marina Militare donata dall’ANMI (successivamente donata al Comando Flottiglia Sommergibili nel maggio 2019 ed oggi conservata nella Sala Cimeli di quel Comando), sono stati consegnati da Preve e Borrini – nell’ambito di una cerimonia ufficiale celebrata davanti al Palazzo del Governo di Porto Sudan, nel corso della quale è stata recitata la Preghiera del Marinaio – al governatore del Red Sea State del Sudan, alla presenza delle locali autorità civili e militari.
Dopo i necessari adempimenti burocratici (tra cui l’emissione del certificato di morte da parte del governatore locale, poi trasmesso a Onorcaduti nel maggio 2018), il 19 aprile 2018 il governatore del Red Sea State ha a sua volta consegnato i resti, in un’altra cerimonia tenuta sempre a Porto Sudan, all’ambasciatore italiano in Sudan, Fabrizio Lobasso, che ha poi provveduto al loro trasferimento presso l’ambasciata di Khartoum. Il rientro in Italia, a cura del Commissariato Generale per le Onoranze ai Caduti in guerra del Ministero della Difesa (Onorcaduti), è avvenuto l’8 ottobre 2018 con un volo da Khartoum a Roma; arrivata all’aeroporto di Ciampino, l’urna con i resti è stata temporaneamente custodita presso il Sacrario delle Fosse Ardeatine prima di proseguire verso nord. Un paio di settimane dopo, l’urna è stata trasportata a Savona – la città in cui era avvenuto l’arruolamento in Marina di Carlo Acefalo, essendo il Compartimento Marittimo di competenza per i marinai di origine piemontese – su un camion del COMSUBIN.
Il pomeriggio del 23 novembre 2018 si è svolta a Savona la cerimonia di resa degli onori militari alla presenza di personalità (tra cui i rappresentanti dello stato federale sudanese del Mar Rosso Eisa Kabashi e Samia Oshiak, la senatrice ed ex ministra della Difesa Roberta Pinotti, gli ammiragli Andrea Petroni e Giorgio Lazio – rispettivamente comandante dei sommergibili e del Comando Marittimo Nord: Petroni aveva percorso mezza Italia in auto per essere "vicino ad uno dei miei che torna a casa" –, il generale Alessandro Veltri responsabile di Onorcaduti, il presidente della provincia di Savona Pierangelo Olivieri, il presidente provinciale dell’Associazione Combattenti e Reduci Luigi Viglione, i sindaci di Savona e Castiglione Falletto, il presidente dell’ANMI di Savona Luca Ghersi e lo stesso Ricardo Preve) e rappresentanze della Marina Militare, della Guardia Costiera, dell’Associazione Nazionale Marinai d’Italia (specialmente la componente sommergibilistica), di altre associazioni combattentistiche e d’arma e delle forze dell’ordine savonesi.
L’arrivo dei resti di Carlo Acefalo a Savona e la cerimonia di resa degli onori (foto Marina Militare e Ricardo Preve)
Avvolta nella bandiera della Marina, l’urna, custodita dapprima nella Caserma "GM Giuseppe Aonzo MOVM", sede della locale Capitaneria di Porto, e poi imbarcata simbolicamente sulla motovedetta CP 604 della Capitaneria che l’ha portata al Molo Marinai d’Italia – vicino alla Torre Leon Pancaldo, sede del locale Gruppo ANMI "Vanni Folco" e sulla quale era stato issato per l’occasione il tricolore navale –, ha ricevuto gli onori sul molo da parte di un picchetto armato tratto dall’equipaggio del sommergibile Salvatore Todaro (presente anche il comandante del battello, tenente di vascello Marco Rossacco) mentre il trombettiere di Marina Nord suonava il silenzio. Indi il feretro è stato portato in corteo, a bordo di un mezzo del COMSUBIN e scortato da rappresentanze della Marina e delle associazioni combattentistiche, fino alla chiesa di Sant’Andrea, dove si sono tenute una cerimonia religiosa, con recitazione della Preghiera del Marinaio, e la resa degli onori militari solenni, seguiti da un breve discorso del generale Veltri. Alla cerimonia hanno partecipato circa 5000 persone.
La cerimonia nella chiesa di Sant’Andrea (sopra: foto Marina Militare; sotto: g.c. Ricardo Preve)
I resti sono stati quindi consegnati alla famiglia Destefanis, dopo di che da Savona l’urna è stata trasferita al cimitero di Castiglione Falletto, dove le ossa dell’unica vittima del Macallè, a 78 anni dalla morte, sono state finalmente inumate nella tomba della madre il mattino del 24 novembre 2018. Proprio al momento della sepoltura ci si è accorti che coincidenza avesse voluto che la sepoltura di Carlo Acefalo nella tomba della madre avvenisse proprio nel giorno del compleanno di Francesca Destefanis, nata il 24 novembre 1894. Insieme all’urna è stato posto nella tomba un modello del Macallè.
La cerimonia funebre a Castiglione Falletto (g.c. Ricardo preve e www.targatocn.it)
Il documentario di Ricardo Preve, intitolato “Tornando a casa” ("Volviendo a casa" in lingua originale), è uscito alla fine del 2018; oltre alle riprese effettuate in Sudan ed alle interviste ad esperti, a discendenti di superstiti del Macallè e parenti di Carlo Acefalo, Preve ha ricreato le scene dell’avaria all’impianto di condizionamento, del naufragio e del successivo viaggio dei tre uomini in cerca di aiuto ricostruendo in compensato a grandezza naturale la falsatorre ed alcuni locali interni del Macallè (camera di controllo, camera di lancio siluri prodiera, locale radio) sulla scorta dei piani costruttivi originali – al pari del battellino usato da Sandroni, Torchia e Costagliola – ed integrando il tutto con la computer grafica (il budget complessivo è stato di 350.000 euro, in parte forniti da sponsor ed in parte raccolti attraverso una campagna di crowdfunding). Anche uniformi, salvagente e giubbotti di salvataggio e persino le bottiglie d’acqua e le scatole di gallette usate da Sandroni, Torchia e Costagliola nel viaggio verso l’Eritrea sono state fedelmente ricostruite sulla base di documenti e di foto fornite dalle famiglie di alcuni membri dell’equipaggio, mentre Preve ha avuto la ventura di trovare una bandiera originale della Regia Marina nella casa di suo nonno, in Italia. Le scene ambientate a Barra Musa Khebir e lungo la costa eritrea sono state girate a Claromecó, un tratto di costa atlantica argentina le cui dune sabbiose lo rendevano sufficientemente somigliante alle aride coste del Mar Rosso, se non fosse stato per la temperatura inferiore allo zero, alla quale hanno dovuto recitare gli attori seminudi, abbronzati ed unti d’acqua e d’olio per simulare il sudore causato dal caldo torrido della costa eritrea-sudanese.
La ricostruzione della falsatorre del Macallè utilizzate per le riprese (g.c. Ricardo Preve)
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Ricardo Preve con la bandiera della Regia Marina che era appartenuta al nonno |
Patrocinato e/o sostenuto dall’Instituto Nacional de Cine y Artes Audiovisuales, dalla Film Commission Torino Piemonte (sostegno economico), dalla Marina argentina (che ha fornito sostegno logistico, prestando salvagente, carte nautiche, strumenti di navigazione ed un radiotelegrafo, per il tramite del capitano di vascello Enrique Balbi), dalle ambasciate argentine a Londra, Cairo, Roma ed Abu Dhabi (che hanno fornito appoggio consolare), dal Ministero della Cultura della Repubblica Argentina (che ha dichiarato il documentario di interesse culturale nazionale), dall’Associazione Nazionale Marinai d’Italia, dalla Fondazione Ansaldo, dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Torino (sostegno economico), dai Comuni italiani di Savona, Monastero di Vasco, Castiglione Falletto, dai Comuni argentini di Tres Arroyos e Vicente Lopez e dall’Unione Comuni di Langa e Barolo, “Tornando a casa” ha ottenuto riconoscimenti in undici festival internazionali (il Festival di Cinema Latino di Punta del Este, i Latitude Film Awards di Londra, l’Accolade Global Film Competition di La Jolla, il Los Angeles Motion Picture Festival, il South European International Film Festival di Valencia, i London International Motion Picture Awards, il Dumbo Film Festival of New York, il Festival Internazionale di Cinema di Madrid, il VI Sudan Independent Film Festival di Khartoum, gli Impact Docs Awards di La Jolla, il Puglia International Film Festival di Polignano a Mare) tra il 2018 ed il 2020, ed è stato trasmesso in Italia da Rai Storia e Rai Cultura.
Il 3 marzo 2020 Ricardo Preve è stato inserito della Medaglia d’Oro al Merito di Marina (con motivazione «Eccellente regista di straordinaria professionalità e passione da sempre dedicate alle tematiche naturalistiche e storiche, spinto da rara abnegazione, forte entusiasmo e non comune determinazione, riusciva nel difficile compito di rinvenire i resti del sottocapo Carlo Acefalo, silurista del Regio Sommergibile Macallè, caduto nel 1940 e sepolto sull'isolotto di Barra Musa Kebir, ora appartenente al Sudan e di riportarli in patria, superando notevoli difficoltà di ordine legale, amministrativo e logistico, con la ferrea volontà di onorare e dare degna sepoltura in patria al nostro caduto, al quale venne dedicata la resa degli onori solenni nella città di Savona. In particolare, in occasione di tale ritrovamento, è stato realizzato dallo stesso regista un film-documentario dal titolo "Tornando a casa", il quale, andando in onda sulle reti televisive nazionali ha messo in risalto e valorizzato una delle pagine più importanti della storia navale nazionale da molto tempo dimenticata. Brillante esempio di eccezionali capacità professionali e umane, con la sua attività ha eminentemente contribuito al maggior lustro e prestigio della Marina Militare». L’onorificenza è stata consegnata personalmente dal capo di Stato Maggiore della Marina, ammiraglio Enrico Credendino, presso la Biblioteca Centrale di Palazzo Marino a Roma, in una cerimonia cui ha partecipato anche Pasquale Torchia, figlio di Reginaldo Torchia.
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Winged Crusaders: The Exploits of 14 Squadron RFC & RAF, 1915–45
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Marinaio Carlo Acefalo / Cerimonia della "Resa degli Onori" Savona 23 Novembre 2018
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