martedì 15 ottobre 2019

Minatitlan

La Minatitlan durante le prove in mare nel Golfo di Genova, luglio 1941 (Fondazione Ansaldo)

Motonave cisterna di 7651 (o 7599) tsl e 10.500 tpl, lunga 132,25 o 141,4 metri, larga 19,15 e pescante 7,80-8, con velocità di 12 nodi (propulsa da un motore diesel FIAT LS 606 da 2800 HP). Faceva parte di un gruppo di tre moderne navi cisterna (Minatitlan, Panuco, Poza Rica) ordinate nel 1939 ai cantieri Ansaldo dalla Petróleos Mexicanos (Pemex), la compagnia petrolifera di Stato del Messico, e confiscate dal Governo italiano nel 1941.
All’epoca della perdita, la Minatitlan risultava ancora di proprietà della Società Ansaldo di Genova, e non era stata ancora immatricolata; armata per conto dello Stato italiano, era stata affidata in gestione alla Società Anonima Cooperativa di Navigazione Garibaldi, con sede a Genova (compagnia incaricata tra l’altro della gestione di buona parte del naviglio ausiliario della Regia Marina, nonché di altre navi mercantili di proprietà dello Stato).
È sovente menzionata erroneamente come “Minatitland”.

Breve e parziale cronologia.

10 maggio 1939
Impostata nei cantieri Gio. Ansaldo & Co. di Sestri Ponente per conto della società Petróleos Mexicanos (numero di costruzione 337).
La Minatitlán fa parte di un gruppo di tre petroliere gemelle (le altre due sono Pánuco e Poza Rica, numeri di costruzione 336 e 335) ordinate all’Ansaldo nel 1939 dalla Petróleos Mexicanos (Pemex), la compagnia petrolifera di Stato fondata in Messico nel 1938 in seguito alla nazionalizzazione dell’industria petrolifera messicana, precedentemente controllata da compagnie britanniche, statunitensi ed olandesi. Tutte e tre le nuove motocisterne sono state battezzate con nomi di città petrolifere messicane (Minatitlán, città dello stato di Veracruz che oggi conta 150.000 abitanti, è sede della prima e più grande raffineria dell’America Latina).
La decisione di nazionalizzare le risorse petrolifere nazionali, nel 1938, ha posto il Messico in una situazione decisamente contraddittoria: uno dei Paesi più apertamente antifascisti del mondo (il Messico di Lázaro Cárdenas è stato uno dei pochi Paesi ad appoggiare apertamente la fazione repubblicana nella guerra civile spagnola, fornendo ai repubblicani armi, munizioni ed appoggio diplomatico – mentre Francia, Regno Unito e Stati Uniti restano sostanzialmente a guardare, senza fornire alcun aiuto concreto alla causa repubblicana – e poi accogliendo decine di migliaia di esuli dopo la sconfitta della Repubblica) si è ritrovato ad avere come principali clienti l’Italia fascista e la Germania nazista, proprio quelle nazioni che nella guerra civile spagnola erano state dall’altra parte della barricata. Ciò è accaduto perché le compagnie petrolifere anglosassoni (specialmente quelle britanniche), che con la nazionalizzazione si sono viste espropriare gli impianti e attrezzature petrolifere che possedevano in Messico, hanno lanciato un vero e proprio boicottaggio organizzato ai danni della Pemex, chiudendo il mercato britannico e quelli di altri Paesi Europei (mentre gli Stati Uniti si sono mantenuti su posizioni più moderate, non volendo inimicarsi un vicino) al petrolio messicano, sperando che la Pemex sarebbe crollata per mancanza di clienti; il Regno Unito è giunto al punto di interrompere le relazioni diplomatiche con il Messico, e diverse compagnie britanniche hanno lanciato una violenta campagna stampa per esortare il pubblico a boicottare in generale tutti i prodotti messicani. Il risultato è stato il dimezzamento delle esportazioni di petrolio messicano, un deprezzamento del peso messicano ed un aumento dei prezzi nel Paese del 20 %. In queste condizioni, era abbastanza ovvio che al Messico non restasse che vendere il proprio petrolio ad altri “reietti” internazionali, Paesi anch’essi nemici del Regno Unito sebbene per motivi del tutto differenti: Italia e Germania, che alla fine degli anni Trenta diventano così i principali clienti della Pemex. Principale tramite negli accordi tra Italia, Germania e Messico è il petroliere statunitense William Rhodes Davis, vicino alla Germania nazista, titolare della società Davis & Co.
Il 22 marzo 1939 il Ministro delle Infrastrutture e Comunicazioni del Messico, Francisco Múgica, ha concluso con le autorità italiane, con la mediazione di Davis, un accordo che prevede la fornitura all’Italia, nei successivi due anni, di petrolio messicano per un valore complessivo di tre milioni e mezzo di dollari dell’epoca; l’accordo prevede che il pagamento da parte dell’industria italiana non avvenga per mezzo di denaro, bensì attraverso la costruzione delle tre petroliere per la Pemex, la cui consegna è prevista per il 1940, da parte dei cantieri Ansaldo di Genova (altra fonte, però, afferma che il contratto di costruzione delle tre navi tra la Pemex e l’Ansaldo fu stipulato il 28 ottobre 1938, non nel marzo 1939; altra ancora parla dell’autunno del 1939, ma ciò è impossibile, dato che le navi furono impostate già nel maggio di quell’anno). Alla sua nascita, infatti, la compagnia petrolifera messicana non disponeva che di quattro navi cisterna, del tutto insufficienti rispetto alle sue esigenze, ed il boicottaggio imposto dalle compagnie petrolifere britanniche scoraggia anche i piccoli armatori di navi cisterna dal noleggiare le loro navi alla Pemex: la società ha bisogno di una flotta propria. L’accordo con l’Italia prevede la costruzione di tre motonavi cisterna di ultima generazione, in grado di raggiungere una velocità superiore ai 10 nodi, del valore di 1.300.000 dollari ciascuna.
Minatitlán, Pánuco e Poza Rica vengono impostate lo stesso giorno, anche se poi la loro costruzione procederà a ritmi diversi (la Minatitlan sarà l’ultima delle tre ad entrare in servizio). Lo stato di progressione e la qualità del lavoro vengono controllati periodicamente da ufficiali della Marina Militare messicana. Secondo una fonte, i lavori di costruzione delle tre motocisterne avrebbero subito notevoli rallentamenti a causa della priorità data ai lavori sulle corazzate Littorio ed Impero, anch’esse in costruzione presso i cantieri Ansaldo; tuttavia il libro "Mexico between Hitler and Roosevelt" di Friedrich Engelbert Schuler afferma invece che un ispettore messicano recatosi in Italia tra il dicembre 1939 ed il gennaio 1940 avrebbe telegrafato da Genova che «i cantieri in Italia… continuano a lavorare sulle navi cisterna come se la guerra in Europa non fosse stata dichiarata».

Minatitlan e Panuco in costruzione in una foto del 15 gennaio 1940 (Fondazione Ansaldo)

Sopra e sotto, Minatitlan, Panuco e Poza Rica in tre foto datate 20 marzo 1940 (Fondazione Ansaldo)



10 giugno 1940
L’Italia entra nella seconda guerra mondiale. Lo stato di guerra così sorto tra il Regno Unito, la cui flotta controlla gli oceani, e l’Italia stravolge gli accordi esistenti tra Italia e Messico: non sarà tra l’altro possibile trasferire le petroliere, una volta complete (per il momento, nessuna delle tre è stata ultimata, anche se la Poza Rica è già stata varata), dall’Italia al Messico se non con il consenso britannico, che ben difficilmente arriverà. Da parte sua, il Governo messicano avvia dei contatti presso quello britannico per ottenere la garanzia di salvacondotto per il viaggio di trasferimento in Messico delle navi cisterna, viaggio che dovrà avvenire con equipaggi reclutati tra marittimi di Paesi neutrali.

Alcune altre immagini di Minatitlan, Panuco e Poza Rica in costruzione nel 1940 (Fondazione Ansaldo):





La Minatitlan (dietro) con in primo piano la Panuco pronta al varo (Fondazione Ansaldo)
Minatitlan e gemelle in costruzione in una foto del 9 novembre 1940… (Fondazione Ansaldo)
…ed in una del 1° dicembre 1940 (Fondazione Ansaldo)

Dicembre 1940
Un promemoria datato 29 dicembre 1940 accenna che la Minatitlan, ancora sullo scalo, sarà pronta in quattro mesi (Panuco e Poza Rica sono già state varate da tempo ed ormai a fine allestimento) e riassume così le caratteristiche delle tre motocisterne: «navi cisterna di 10.000 tonnellate [di portata], con velocità di miglia 12,5, compartimentazione bene studiata. Sono state pagate a mezzo di petrolio messicano fornito all’AGIP, la quale ha versato il contante all’Ansaldo. L’operazione fu eseguita per evitare esiti di valuta pregiata». Il promemoria fa poi il punto della situazione, menzionando che «in vista dell’avvenuto pagamento, della premura dimostrata dal governo messicano di entrare in possesso delle navi e per non perdere in avvenire commesse del genere per i nostri cantieri a vantaggio di quelli nord-americani nostri concorrenti» si è deciso di consegnare la prima delle tre navi (la Poza Rica) alla Pemex, a patto che la consegna avvenga a Genova (come del resto stabilito nel contratto), che l’equipaggio sia messicano o comunque neutrale e che il Governo messicano dia formale assicurazione di aver ottenuto dal Regno Unito la garanzia di libero passaggio della nave. Tuttavia, nonostante l’esistenza di una Commissione messicana impegnata nel tentare di soddisfare tali clausole, finora non è stato ancora ottenuto nulla in proposito; «nel frattempo la ditta [Ansaldo] sostiene spese di assicurazione, sorveglianza, manutenzione ecc., che costituiscono già un nuovo credito verso i proprietari messicani delle navi». Il documento prosegue poi: «Nuova situazione: nel momento presente non vi sarebbe interesse alcuno per noi di procedere alla consegna delle tre navi al Messico. Per conseguire il risultato [di non consegnare le petroliere], si potrebbe o tirare per le lunghe le trattative di consegna, liquidazione dei crediti, ecc., oppure ricorrere alle facoltà conferite allo stato italiano dalla vigente legge di guerra, in base alla quale si possono requisire le navi neutrali esistenti nei nostri porti». Politicamente le relazioni Italia-Messico sono corrette («malgrado che il governo messicano sia a tinta rossa»), mentre il Governo messicano viene giudicato dall’estensore del promemoria come «di principio anti Stati Uniti» ed in pessime relazioni col Regno Unito per via dell’esproprio degli impianti delle compagnie petrolifere britanniche avvenuto nel 1938; «questa situazione fa nascere l’ipotesi che le navi da noi costruire potrebbero essere sequestrate dalle autorità britanniche a titolo di rivalsa dei crediti insoluti derivanti dalla nota questione del petrolio. La requisizione delle tre navi messicane è naturalmente da studiarsi in base ai nostri bisogni e dell’utile impiego che noi potremmo fare di tali navi, progettate e costruite per il trasporto di combustibile (…) Secondo comunicazioni avute dal Direttore Generale dell’Ansaldo, al momento attuale il Messico penserebbe di far partire le navi per la Francia. Noi potremmo in questo caso preavvisare che le coste francesi sono tuttora dichiarate da noi pericolose perché sono sospese le ostilità ma non è sospesa la guerra e quindi vige il nostro veto di avvicinarsi oltre le 30 miglia dalla costa francese senza incorrere in pericoli. Se malgrado questo avvertimento, le navi dirigessero egualmente verso i porti francesi, potrebbero essere da noi attaccate ed affondate in pieno diritto entro la suddetta fascia di 30 miglia. Se, viceversa, le navi uscendo da Genova fossero dirette a porti neutrali, ad esempio della Spagna, non potrebbe agirsi giuridicamente per prevenirle». Si prospetta la possibilità, in caso di requisizione delle tre motocisterne da parte italiana, di proporre al Governo messicano, a titolo di indennizzo, di utilizzare per le sue esigenze parte delle otto navi cisterna italiane internate in porti messicani dallo scoppio della guerra, per un tonnellaggio complessivo pari a quello delle tre motocisterne dell’Ansaldo, con il vincolo però di usarle soltanto «per i rifornimenti del Sud America e non del Nord America».

Minatitlan, Panuco e Poza Rica in costruzione nei cantieri Ansaldo, in una foto del 2 febbraio 1941 (Fondazione Ansaldo)





La Minatitlan in costruzione nel febbraio 1941 (Fondazione Ansaldo)


20 marzo 1941
Varo della Minatitlan nei cantieri Gio. Ansaldo & Co. di Sestri Ponente.


La Minatitlan pronta al varo (Fondazione Ansaldo)


Il varo (Fondazione Ansaldo)
La nave appena varata (Fondazione Ansaldo)

Aprile 1941
A inizio aprile (per altra fonte, invece, il 30 aprile), dinanzi all’impossibilità, determinata dallo stato di guerra, di consegnare le tre petroliere al Messico nonché in considerazione della necessità di disporre di moderne e veloci navi cisterna per il trasporto di carburante in Africa Settentrionale (buona parte della flotta petrolifera italiana è rimasta bloccata oltremare all’atto della dichiarazione di guerra), il Governo italiano decide di confiscare Minatitlan, Panuco e Poza Rica. Le tre navi, i cui nomi non vengono cambiati, vengono date in gestione alla Cooperativa Garibaldi di Genova.
Più o meno contemporaneamente (1° aprile) il Governo messicano, seguendo la condotta degli Stati Uniti – che il 30 marzo hanno confiscato tutto il naviglio mercantile dell’Asse presente nei loro porti –, confisca le otto petroliere italiane che si trovavano internate in porti messicani dal giugno 1940, e successivamente le integra nella flotta Pemex. (Non è molto chiaro se sia stato prima il governo italiano a confiscare le navi messicane, o viceversa). A tre delle otto cisterne ex italiane verranno assegnati proprio i nomi delle tre navi in costruzione dall’Ansaldo e confiscate dall’Italia: la pirocisterna Tuscania (appartenente all’armature Pittaluga di Genova) diverrà infatti Minatitlán, mentre i nomi di Pánuco e Poza Rica verranno assegnati rispettivamente alle ex Giorgio Fassio e Fede.


La Minatitlan in fase di allestimento presso l’Officina Allestimento Navi di Genova Sampierdarena (Fondazione Ansaldo)


12 luglio 1941
Completata ed immediatamente data in gestione, il giorno stesso della sua consegna, alla S. A. Cooperativa di Navigazione Garibaldi (con sede a Genova), senza essere iscritta nel ruolo del naviglio ausiliario dello Stato.
16 agosto 1941
La Minatitlan salpa da Napoli per Tripoli alle 00.30, in convoglio con i piroscafi Nicolò OderoMaddalena Odero e Caffaro e le motonavi Giulia e Marin Sanudo. Scortano il convoglio, denominato «Odero» (o, dalle fonti tedesche, 40. Seetransport Staffel), i cacciatorpediniere Euro, Dardo e Freccia (caposcorta, capitano di fregata Giorgio Ghè) e le torpediniere ProcionePegaso. Il mare è leggermente mosso.
Alle 10.13 il sommergibile olandese O 23 (tenente di vascello Gerardus Bernardus Michael Van Erkel), preavvisato già alle nove dall’avvistamento di due bombardieri bimotori a cinque miglia per 100°, avvista il convoglio, che procede con rotta 212° a dieci nodi di velocità, a dieci miglia di distanza, su rilevamento 057°. Il comandante olandese stima la composizione del convoglio in almeno sei mercantili e quattro cacciatorpediniere, e vede due aerei sul suo cielo; manovra per attaccare il convoglio ed alle 11.03, nel punto 39°35’ N e 13°18’ E (a 74 miglia per 211°, cioè a sudovest, di Capri), lancia due siluri da cinque miglia di distanza, per poi scendere subito a 40 metri. Nessuna delle armi colpisce, e le scie vengono avvistate da un idrovolante CANT Z. 501 della 182a Squadriglia di scorta al convoglio, che lancia due bombe di profondità sul punto in cui presumibilmente si trova il sommergibile; alle 11.15 il Freccia lancia l’allarme.
Secondo il rapporto dell’O 23, undici minuti dopo il lancio dei siluri alcune unità della scorta si portano al contrattacco e lanciano, fino alle 13.30, un centinaio di bombe di profondità. L’O 23 evita danni scendendo a 95 metri; terminata la caccia, alcune unità continuano a lanciare una carica di profondità ogni venti minuti sino alle 19.30.
Nel tardo pomeriggio/sera si aggrega alla scorta anche la torpediniera Giuseppe Sirtori, partita da Palermo alle 16.
17 agosto 1941
Nel tardo pomeriggio il convoglio, mentre procede a 9 nodi a sud di Pantelleria, viene avvistato da ricognitori nemici.
Alle 20.45 (o 20.47), 17 minuti dopo che la scorta aerea ha lasciato le navi per rientrare alle basi, il convoglio viene attaccato a sudest di Malta da aerosiluranti britannici: due sezioni di due aerei ciascuna (Fairey Swordfish dell’830th Squadron della Fleet Air Arm), provenienti dai fianchi, appaiono ai lati del convoglio, defilando lungo i mercantili e sganciando i loro siluri da poca distanza. Le navi della scorta reagiscono con opportune manovre, l’apertura del fuoco (sia con le artiglierie che con le mitragliere) e l’emissione di cortine nebbiogene per coprire i piroscafi.
Tre dei quattro siluri sganciati mancano il bersaglio, grazie anche all’azione della scorta (e soprattutto all’emissione di cortine fumogene, che disorientano gli ultimi aerei ad attaccare), ma uno colpisce il Maddalena Odero, immobilizzandolo. Il piroscafo danneggiato dev’essere preso a rimorchio della Pegaso, assistito dalla Sirtori; viene portato fino in un’insenatura sulla costa di Lampedusa, ma qui il piroscafo, colpito ancora da bombe d’aereo, esplode e trascina nella sua fine anche la cannoniera Maggiore Macchi della Guardia di Finanza, inviata a prestargli assistenza.
Il resto del convoglio prosegue per Tripoli.
Sulla base dell’esperienza di questo attacco aereo il caposcorta scriverà nel suo rapporto, a proposito del comportamento dei mercantili: «Alcuni dei piroscafi si sono troppo allontanati dalla direttrice di marcia. Questo inconveniente, oltre a rendere più difficile il riordinamento della formazion dopo l’attacco, diminuisce molto la possibilità di protezione da parte delle unità di scorta (…) Ritengo sia assolutamente necessario dotare ciascun piroscafo di un radiosegnalatore per eventuali segnali di emergenza durante allarmi o per eventuali notturni intesi ad ordinare manovre per le quali non convenga impiegare la radio principale (…) e la segnalazione luminosa diventa troppo lunga e troppo pericolosa per avvistamenti».
19 agosto 1941
Verso le 15.30 il sommergibile britannico P 32 (tenente di vascello David Anthony Bail Abdy), in agguato a quota periscopica fuori Tripoli, avvista il convoglio «Odero» in posizione 33°02’ N e 13°10’ E, ad est-nord-est della città libica. Apprezzata la composizione del convoglio come quattro mercantili di medie dimensioni che procedono in linea di fila, sorvolati da un aereo e senza navi di scorta in vista (evidentemente non notate da Abdy), il comandante britannico inizia la manovra d’attacco prendendo di mira la nave di coda, una nave cisterna stimata in circa 6000 tsl: cioè proprio la Minatitlan. Il P 32 scende a 15 metri e si avvicina ad elevata velocità; ma verso le 15.40, mentre sta tornando a quota periscopica, il sommergibile viene scosso da un’esplosione a dieci metri di profondità ed affonda, adagiandosi sul fondale a 60 metri. La metà anteriore del sommergibile si allaga immediatamente, mentre i compartimenti centro-poppieri rimangono inizialmente asciutti: la rapida diffusione di gas di cloro, però, rende subito difficile la sopravvivenza per gli uomini intrappolati nel P 32.
L’esplosione viene notata anche dalle navi del convoglio italiano, ormai in arrivo a Tripoli. Un MAS inviato sul posto dalla base libica recupera due sopravvissuti (gli unici superstiti su 34 membri dell’equipaggio), che sono fuoriusciti dal relitto del sommergibile attraverso il portello della torretta: uno dei due è il comandante Abdy. Un terzo membro dell’equipaggio è annegato nel tentativo di fuoriuscire, mentre di parecchi altri uomini del P 32, che hanno tentato la fuoriuscita dal portello d’emergenza del locale motori, non si saprà più nulla.
Sul momento si ritiene che il P 32 sia saltato sulle mine dei campi minati posti a difesa del porto, mentre un successivo esame del relitto mostrerà che probabilmente il battello è rimasto vittima dell’esplosione accidentale di uno dei suoi stessi siluri.
Il convoglio giunge a Tripoli alle 17.30.
29 agosto 1941
Alle 18.30 la Minatitlan lascia Tripoli insieme alle motonavi Giulia e Marin Sanudo, ai piroscafi Caffaro e Nicolò Odero ed al dragamine ausiliario DM 6 Eritrea, con la scorta dei cacciatorpediniere Alfredo Oriani (caposcorta) ed Euro ed alle torpediniere OrsaCalliope e Pegaso.
31 agosto 1941
Orsa e Marin Sanudo, separatesi dal convoglio, raggiungono Trapani alle 11.45.
1° settembre 1941
Il resto del convoglio giunge a Napoli alle 12.30.
17 settembre 1941
La Minatitlan lascia Napoli alle cinque del mattino facendo parte del convoglio lento «Caterina» (che forma insieme al piroscafo Caterina ed alle motonavi Marin Sanudo e Col di Lana), diretto a Tripoli e scortato dai cacciatorpediniere EuroFreccia (caposcorta, capitano di fregata Giorgio Ghè), Folgore e Dardo. Si tratta del terzo convoglio di navi da carico del mese diretto in Libia; segue la rotta di ponente.
I mercantili del convoglio «Caterina» sono i primi bastimenti da carico, nella guerra dei convogli libici, ad essere muniti di radiosegnalatori per le comunicazioni radio con le altre unità della formazione; un significativo progresso nell’organizzazione dei convogli (nel corso della navigazione, infatti, le comunicazioni tra mercantili e navi scorta si svolgeranno regolarmente e con facilità, come riferito dal caposcorta nel suo rapporto).
18 settembre 1941
Alle quattro del mattino il convoglio, mentre naviga sulle rotte interne di Favignana, viene attaccato da aerosiluranti britannici a tre miglia da Marsala. Le navi della scorta, come al solito, cercano di nascondere i mercantili con cortine nebbiogene ed aprono il fuoco con l’armamento contraereo (anche i mercantili lo fanno, ma il caposcorta Ghè lamenterà nel suo rapporto che, mentre il tiro contraereo delle navi scorta è efficace, «i piroscafi di solito hanno eseguito un disordinato tiro di sbarramento che molte volte era diretto verso le unità di scorta»); data la vicinanza della costa, anche le batterie di terra sparano contro gli aerei. Uno degli attaccanti viene abbattuto, ma un siluro colpisce la Col di Lana, che viene rimorchiata a Trapani dai rimorchiatori Liguria e Montecristo, scortati dal Dardo.
In serata, il convoglio viene nuovamente attaccato da aerosiluranti, decollati a Malta dopo il tramonto; questa volta, però, le abbondanti cortine nebbiogene emesse dalle navi scorta riescono a frustrare l’attacco.
19 settembre 1941
In mattinata si unisce alla scorta il cacciatorpediniere Vincenzo Gioberti, proveniente da Tripoli. Qui il convoglio giunge alle 12.30 (o 17.30).
30 settembre 1941
Minatitlan, Caterina e Marin Sanudo lasciano Tripoli alle 16 per tornare in Italia, scortati dai cacciatorpediniere Alpino (caposcorta), Oriani, Fulmine e Strale. Il convoglio è denominato "H".
Alcuni giorni prima, i decrittatori britannici di “ULTRA” avevano intercettato dei messaggi dai quali risultava che Minatitlan, Caterina e Marin Sanudo avrebbero dovuto lasciare Tripoli per Napoli il 26 settembre, e che uno dei cacciatorpediniere della scorta avrebbe rimorchiato a Napoli la torpediniera Circe. Evidentemente il viaggio è stato poi rimandato di qualche giorno, il che ha reso inutili queste decrittazioni.
2 ottobre 1941
All’1.19, in posizione 37°53’ N e 12°05’ E (a sud di Marettimo), il sommergibile britannico Utmost (capitano di corvetta Richard Douglas Cayley) avvista il convoglio di cui fa parte la Minatitlan a 6 miglia di distanza, su rilevamento 130°, con rotta stimata 330°. Pur giudicando le condizioni molto sfavorevoli per un attacco, Cayley tenta ugualmente e lancia un singolo siluro contro un mercantile valutato in 2000 tsl; sarebbe in realtà sua intenzione lanciarne tre, ma dopo il lancio del primo l’Utmost viene localizzato dall’Oriani, che lancia un razzo Very verde nella sua direzione. Il sommergibile, pertanto, interrompe l’attacco e s’immerge immediatamente, venendo poi sottoposto dall’Oriani, precipitatosi contro di esso, a caccia col lancio di 22 bombe di profondità (nessuna delle quali esplode vicino all’Utmost, che così non subisce danni). Il siluro lanciato non colpisce nulla.
3 ottobre 1941
Il convoglio arriva a Napoli alle due.

A Genova Sampierdarena nel 1941 (Archivio Ansaldo, via Giorgio Parodi e www.naviearmatori.net)

Convoglio “Duisburg”

Alle cinque del mattino del 7 novembre 1941 la Minatitlan, al comando del capitano di lungo corso Guido Incagliati, salpò da Napoli diretta a Tripoli con un carico di 8946 tonnellate di carburante (6692 tonnellate di carburante per le forze armate italiane in Africa Settentrionale e 2254 tonnellate di benzina per la Luftwaffe). L’equipaggio della petroliera era composto da 58 uomini, tra civili e militari.
La Minatitlan viaggiava in convoglio con la motonave Maria (capitano di lungo corso Angelo Pogliani), il piroscafo italiano Sagitta (capitano di lungo corso Domenico Ingegneri) ed i piroscafi tedeschi Duisburg (capitano di lungo corso Arno Ostermeier, capoconvoglio) e San Marco (capitano di lungo corso Paul Ossemberg): il convoglio era ufficialmente denominato «Beta», ma era destinato a diventare famoso col nome di convoglio "Duisburg". I Comandi tedeschi, da parte loro, lo conoscevano come 51. Seetransportstaffel. Scortavano i cinque mercantili i cacciatorpediniere Maestrale (caposcorta, capitano di vascello Ugo Bisciani), Euro (capitano di corvetta Giuseppe Cigala Fulgosi) e Fulmine (capitano di corvetta Mario Milano).
Il convoglio «Beta», che doveva essere composto complessivamente da sette navi mercantili (le altre due si sarebbero unite ad esso a Messina), era in assoluto uno dei più grandi convogli dell’Asse mai partiti per l’Africa Settentrionale: normalmente, infatti, i convogli italo-tedeschi per la Libia non contavano più di tre o quattro mercantili. La formazione di un convoglio tanto numeroso, in vista di una pianificata offensiva italo-tedesca contro Tobruk e l’Egitto (con inizio previsto per il 21 novembre, per la quale era necessario costituire considerevoli riserve di carburante ed altri rifornimenti), era stata autorizzata dal Comando Supremo il 29 ottobre, a dispetto della perplessità della Marina. A fine ottobre il traffico con il Nordafrica era stato temporaneamente interrotto a seguito della notizia dell’arrivo a Malta, il 21 ottobre (136° anniversario di Trafalgar, data scelta non a caso), di una formazione navale britannica: la Forza K, composta dagli incrociatori leggeri Aurora e Penelope e dai cacciatorpediniere Lance e Lively. Questa formazione aveva la precisa finalità di insidiare le linee di rifornimento italo-tedesche dell’Africa Settentrionale, compiendo scorrerie notturne – profittando della superiorità della Royal Navy rispetto alla Regia Marina nel combattimento notturno, dovuta sia al possesso del radar che ad un migliore addestramento alle azioni di notte – a danno dei convogli dell’Asse diretti in Libia. Aurora e Penelope erano stati inviati direttamente dal Regno Unito (provenivano da Scapa Flow), Lance e Lively erano invece stati distaccati dalla Forza H di Gibilterra.
L’invio a Malta della Forza K scaturiva da una richiesta originatasi direttamente dal primo ministro britannico Winston Churchill, il 22 agosto 1941, per mezzo di una lettera spedita all’Ammiragliato britannico: intervenendo in una diatriba in corso fin da inizio luglio tra l’Ammiragliato ed il Comitato dei Capi di Stato Maggiore, nella quale si lamentava l’insufficienza dei mezzi a disposizione della Mediterranean Fleet per assolvere il suo compito di contrasto all’invio di rifornimenti dall’Italia alla Libia, Churchill proponeva di dislocare a Malta una forza leggera composta da uno o due incrociatori ed unità sottili. La risposta fu la costituzione della Forza K.
Tra il 21 ottobre e l’8 novembre la nuova forza britannica di base a Malta aveva già compiuto due tentativi di scorreria notturna, ma senza successo: nelle notti del 25-26 ottobre e dell’1-2 novembre, infatti, le navi della Forza K erano uscite in mare per intercettare rispettivamente un convoglio italiano ed una formazione di cacciatorpediniere in missione di trasporto, ma non erano riuscite a trovare né l’uno né l’altra ed erano rientrate a mani vuote.
La sospensione dei traffici da parte italiana, ordinata il 22 ottobre (dopo che l’arrivo a Malta delle navi britanniche, segnalato dallo spionaggio italiano nell’isola, era stato confermato anche dalla ricognizione aerea) dal capo di Stato Maggiore della Regia Marina, ammiraglio Arturo Riccardi (che aveva altresì sollecitato un’intensificazione dei bombardamenti su Malta da parte dell’Aeronautica, invitando al contempo il Comando Supremo a fare pressione sull’alleato tedesco affinché i reparti aerei della Luftwaffe, ritirati dal Mediterraneo qualche mese prima, venissero riportati in Italia), era durata pochi giorni: poi era dovuta inevitabilmente riprendere, data la necessità di far avere nuovi rifornimenti alle forze di Rommel, a maggior ragione in vista della già citata nuova offensiva prevista per il 21 novembre, la cui preparazione richiedeva rifornimenti urgenti di considerevoli quantitativi di munizioni, carburanti ed automezzi. Per prima cosa si era ripreso ad inviare mercantili isolati o a coppie a Bengasi; poi si era deciso l’invio del convoglio «Beta», che però sarebbe stato mandato a Tripoli, porto molto più lontano dalla prima linea, invece che a Bengasi: quest’ultimo porto, infatti, non era in grado di ricevere e scaricare un convoglio tanto grande. Non era possibile inviare rapidamente in Libia i rifornimenti previsti per la nuova offensiva utilizzando soltanto Bengasi; c’erano per la verità anche altri porti della Cirenaica (Bardia, Derna, Ain-el-Gazala) che per la loro posizione avrebbero potuto essere raggiunti senza grande rischio di essere attaccati da Malta, ma le loro capacità ricettive erano ancora più ridotte di quelle di Bengasi, ed inoltre tali approdi erano troppo esposti agli attacchi aerei provenienti dalle basi dell’Egitto. In tutta la Libia, soltanto Tripoli era in grado di ricevere e scaricare i quantitativi di rifornimenti necessari per la preparazione dell’offensiva, od anche solo per la normale “sopravvivenza” dell’armata italo-tedesca. Pertanto, fin da inizio novembre l’ammiraglio Arturo Riccardi, capo di Stato Maggiore della Regia Marina, si era ritrovato insistentemente “pressato” affinché si riprendesse il prima possibile il traffico con Tripoli, a partire dall’invio dei numerosi mercantili, tra cui due navi cisterna – Minatitlan e Conte di Misurata –, già carichi ed in attesa dell’ordine di partenza nei porti del Sud Italia. Il 3 novembre Supermarina aveva risposto che il convoglio richiesto sarebbe potuto essere preparato subito, a patto che gli fosse stata fornita una scorta aerea sia diurna che notturna; ma la scorta aerea notturna era al di fuori delle possibilità della Regia Aeronautica e della Luftwaffe, per cui si era dovuto organizzare il convoglio «Beta» accontentandosi della sola scorta diurna.
In origine era previsto che il convoglio dovesse salpare da Napoli e Messina tra il 4 ed il 5 novembre, riunendosi 20 miglia a nord di Pantelleria per poi raggiungere Tripoli la sera del 6 novembre. Di ciò Supermarina aveva informato Superaereo il mattino del 3 novembre; il Comando Superiore dell’Aeronautica aveva impartito le disposizioni per la scorta del convoglio con aerei da caccia, voli di vigilanza e ricognizione, il bombardamento dei porti ed aeroporti di Malta e l’approntamento su allarme dei reparti aerei, ma poco dopo Supermarina aveva fatto sapere che la partenza del convoglio era rimandata per via delle avverse condizioni meteomarine. Per la verità, più che un miglioramento del tempo i vertici della Marina aspettavano di poter chiarire quali scorte aeree e navali sarebbero state disponibili, ed erano ancora incerti sulla rotta da seguire (inizialmente si era pensato di far passare il convoglio ad ovest di Malta, seguendo la rotta del Canale di Sicilia, ma alla fine si decise invece per la rotta ad est di Malta, tracciando un percorso molto allargato che passasse vicino alla costa occidentale greca per tenersi lontano dal raggio d’azione degli aerosiluranti maltesi). Si sarebbe voluto aspettare almeno una settimana, confidando nel previsto arrivo in Sicilia dei 30 bombardieri tedeschi Ju 88 del Kampfgruppe 606 della Luftwaffe, che il sottocapo di Stato Maggiore della Marina, ammiraglio Luigi Sansonetti, giudicava «particolarmente adatti alla lotta su Malta». Ma non c’era tanto tempo a disposizione: il Comando Supremo premeva perché quegli urgenti rifornimenti venissero inviati a Tripoli al più presto, accettando «il rischio e il prezzo» che si sarebbe dovuto pagare, come riferì per telefono l’ammiraglio Sansonetti all’ammiraglio Angelo Iachino, comandante in capo della Squadra Navale.
Il 5 novembre il capo di Stato Maggiore generale, Ugo Cavallero, aveva ordinato personalmente al generale Giuseppe Santoro, sottocapo di Stato Maggiore dell’Aeronautica, di garantire al convoglio una adeguata scorta aerea. Per parte sua Supermarina, al fine di scongiurare eventuali attacchi da parte delle navi di superficie britanniche che si sapeva ora avere base a Malta, assegnò al convoglio, oltre ai soliti cacciatorpediniere della scorta diretta, anche una scorta indiretta formata da due incrociatori pesanti, aventi armamento nettamente superiore a quello degli incrociatori britannici di Malta: la III Divisione Navale dell’ammiraglio Bruno Brivonesi, con Trento e Trieste. In un primo momento si era optato per l’VIII Divisione Navale, di base a Palermo e composta dai due grossi incrociatori leggeri Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi (i più moderno e potenti incrociatori del tipo presenti nei ranghi della Regia Marina, nettamente superiori ad Aurora e Penelope), ma poi si era ritenuto meglio utilizzare degli incrociatori pesanti.
L’ammiraglio Brivonesi, che aveva già compiuto altre missioni di scorta convogli, fin dal maggio 1941 aveva avanzato dei dubbi sulla realizzabilità e opportunità di una scorta ravvicinata ad un convoglio da parte di grossi incrociatori: in caso di allarme, infatti, con le improvvise accostate e dispersioni di unità che conseguivano spesso a tali situazioni, aumentava il rischio di collisioni o di incidenti di fuoco amico; per quanto riguardava la posizione da far assumere gli incrociatori, Brivonesi riteneva che l’unica abbastanza soddisfacente fosse una posizione a poppavia del convoglio, che oltre a proteggere il lato poppiero avrebbe consentito di intervenire rapidamente in caso di attacco sia sul lato dritto che su quello sinistro, e di manovrare tempestivamente in armonia col convoglio. Tenere gli incrociatori a proravia del convoglio, infatti, risultava difficile sul piano pratico e non consentiva di proteggerne né i fianchi né il lato poppiero; tenerli su un lato sarebbe stato più semplice, avrebbe consentito di proteggere adeguatamente soltanto quel lato, lasciando scoperto l’altro.
Il 6 novembre, Supermarina aveva comunicato a Superareo i particolari dell’operazione con l’Avviso n. 7401: i mercantili Duisburg, San Marco, Maria, Minatitlan e Sagitta sarebbero dovuti partire da Napoli alle cinque del 7 novembre, scortati da sette cacciatorpediniere della Squadriglia «Maestrale» (quest’ultima essendo la nave caposcorta), ed avrebbero fatto rotta sud verso lo stretto di Messina, ove si sarebbero uniti al convoglio altri due mercantili, Rina Corrado e Conte di Misurata, provenienti da Palermo con la scorta di altri tre cacciatorpediniere. I quattro cacciatorpediniere della XIII Squadriglia si sarebbero poi uniti alla III Divisione Navale, mentre il convoglio così formato sarebbe entrato in Mar Ionio con la scorta degli altri sei caccia; la formazione avrebbe fatto rotta su Tripoli e la III Divisione, partita da Messina, avrebbe fornito protezione al convoglio con speciale attenzione a minacce provenienti da Malta. Alle 19 del 10 novembre il convoglio si sarebbe ormai trovato prossimo a Tripoli, dunque il gruppo «Trieste» avrebbe invertito la rotta per tornare alla base, mentre i mercantili e la scorta diretta avrebbero raggiunto Tripoli alle 17.30 dell’11 novembre. Per precauzione nel caso di intercettazioni, il messaggio non indicava i nomi dei porti, sostituendoli con nominativi convenzionali: ad esempio, "punto Base" per Messina, "punto Lunghezza" per Tripoli. Per quanto riguardava la copertura aerea, gli idrovolanti della Ricognizione Marittima di base a Messina avrebbero fornito scorta aerea antisommergibili sia al convoglio che alla III Divisione fino al tramonto dell’8 novembre, per un raggio di 100 miglia dalle coste della Sicilia. Il 9 ed il 10 novembre, invece (durante l’avvicinamento e l’arrivo a Tripoli del convoglio), se ne sarebbero occupati gli idrovolanti della Ricognizione Marittima di base a Tripoli. Gli idrovolanti di Messina avrebbero poi riassunto la protezione della III Divisione, di ritorno alla base, quando questa fosse giunta a 100 miglia dalla costa siciliana, nella giornata dell’11 novembre.
Il convoglio avrebbe seguito la rotta che passava ad est di Malta; complessivamente, i sette mercantili avrebbero trasportato in Nordafrica 34.473 tonnellate di materiali (di cui 17.281 tonnellate di carburante e 1579 di munizioni), 389 autoveicoli (172 italiani e 217 tedeschi) e 243 uomini (145 militari italiani, 77 militari tedeschi e 21 civili diretti in Libia).

Le prime navi del convoglio iniziarono ad uscire dal porto di Napoli alle 2.20, ma un attacco aereo scatenatosi su Napoli proprio mentre i bastimenti cominciavano la manovra di partenza (il Duisburg era stato anche illuminato e mitragliato, pur senza subire danni) ne rallentò l’uscita, così che solo dopo le 6.30 il convoglio si formò fuori del porto, ed ebbe inizio la navigazione verso sud. Il convoglio era seguito a distanza dalla XIII Squadriglia Cacciatorpediniere (caposquadriglia capitano di vascello Ferrante Capponi, del Granatiere), con GranatiereBersagliereFuciliere ed Alpino.
Prima della partenza da Napoli, il caposcorta Bisciani aveva convocato i comandanti delle altre navi del convoglio e della scorta per esporre loro le direttive del suo ordine di operazioni: esse prevedevano che in caso di attacco di navi di superficie la difesa del convoglio sarebbe spettata esclusivamente alla III Divisione Navale (scorta a distanza), mentre i cacciatorpediniere della scorta diretta avrebbero dovuto difendere il convoglio soltanto contro sommergibili ed aerei (il che sarebbe stato in seguito giudicato arbitrario dalla Commissione d’Inchiesta Speciale istituita sul convoglio "Duisburg", dato che in base alle direttive della pubblicazione D.T. 1, alla scorta diretta spettava anche un sostegno ravvicinato al convoglio in caso di attacco di navi di superficie, manovrando in modo da allontanarsi con il convoglio stesso, “pur cercando di reagire fin che possono, con le loro artiglierie”).
Alle nove del mattino, giunto il convoglio nelle acque della Sicilia, MaestraleEuro e Fulmine ricevettero ordine dal Comando in Capo del Dipartimento Militare Marittimo di Napoli di lasciare il convoglio ed entrare a Messina (dove diressero a 17 nodi) per rifornirsi, venendo sostituiti nella scorta diretta dalla XIII Squadriglia. Nelle prime ore dell’8 novembre MaestraleEuro e Fulmine, una volta rifornitisi, lasciarono Messina e tornarono ad assumere la loro posizione di scorta, mentre fu il turno della XIII Squadriglia di entrare a Messina per rifornirsi di acqua e nafta.
Alle 3.30 uscirono da Messina le altre navi che dovevano far parte del convoglio «Beta»: il piroscafo Rina Corrado (capitano di lungo corso Guglielmo Schettini) e la pirocisterna Conte di Misurata (capitano di lungo corso Mario Penco), scortati dai cacciatorpediniere Grecale (capitano di fregata Giovanni Di Gropello), Libeccio (capitano di fregata Corrado Tagliamonte) ed Alfredo Oriani (capitano di fregata Vittorio Chinigò).
La riunione tra i due gruppi del convoglio – dei quali il primo, che comprendeva la Minatitlan, aveva già superato lo stretto – avvenne alle 4.30 dell’8 novembre, a sud dello stretto di Messina; si formò un unico convoglio di sette mercantili scortati da MaestraleLibeccioGrecaleOrianiFulmine ed Euro, mentre i quattro cacciatorpediniere della XIII Squadriglia, dopo essersi riforniti a Messina, si unirono alla III Divisione (incrociatori pesanti Trento e Trieste, nave di bandiera dell’ammiraglio di divisione Bruno Brivonesi), uscita in mare alle 12.35 per fornire scorta indiretta al convoglio.
Durante la mattina vennero avvistati da diverse navi alcuni aerei nemici diretti verso ovest: andavano ad attaccare un altro convoglio diretto in Libia, il convoglio "Pegaso".
Alle 16.45, con l’arrivo della III Divisione (che raggiunse il convoglio in posizione 37°40’ N e 15°57’ E, a 19 miglia per 155° da Capo dell’Armi, e si posizionò a poppavia dello stesso) la formazione poteva dirsi completa.
Il convoglio procedeva su tre colonne: la Minatitlan procedeva in testa alla colonna sinistra, preceduta dall’Euro e seguita dalla Maria, dietro la quale procedeva a sua volta il Grecale; la colonna di dritta era composta da San Marco e Conte di Misurata, preceduti dal Maestrale e seguiti dall’Oriani; quella centrale era composta da DuisburgSagitta e Rina Corrado. Il Fulmine era posizionato a dritta della terza colonna, il Libeccio a sinistra della prima colonna. Le navi procedevano ad otto nodi di velocità.
Vi era anche, fin dalla partenza da Napoli e Messina – ma solo di giorno –, una scorta aerea per la quale erano stati mobilitati in tutto 64 aerei (58 dell’Armata Aerea e 6 idrovolanti antisommergibili), mantenendo sempre otto velivoli costantemente in volo sul cielo del convoglio. Sul Maestrale, per coordinare l’attività di tale scorta aerea, era stato imbarcato il tenente pilota Paolo Manfredi della Regia Aeronautica.
Dalle 7.30 fino alle 17.30, sul cielo del convoglio e della III Divisione si alternarono dieci idrovolanti CANT Z. 506 della Ricognizione Marittima, due bombardieri Savoia Marchetti SM. 79 "Sparviero" e ben 66 caccia (34 Macchi MC 200 del 54° Stormo della Regia Aeronautica, due FIAT CR. 42 del medesimo stormo, 22 CR. 42 del 23° Gruppo e otto Messerschmitt Bf 110 della 9° Squadriglia del 3° Gruppo del 26° Stormo da Caccia della Luftwaffe). I caccia si alternavano sul convoglio in numero di quattro per volta: una coppia ad alta quota per contrastare eventuali attacchi di bombardieri, e una coppia a 1000 metri di quota per contrastare attacchi a volo radente e di aerosiluranti.
Tre coppie di SM. 79 decollarono dalla Sicilia ed effettuarono ricognizione marittima verso sudest; altri aerei dell’Aeronautica della Sicilia erano incaricati di effettuare missioni di ricognizione e bombardamento sul porto della Valletta.
Ad ulteriore protezione del convoglio, Supermarina aveva inviato nelle acque di Malta i sommergibili Delfino, Corallo e Luigi Settembrini, con compiti esplorativi ed offensivi nei confronti di unità britanniche in partenza dall’isola.
L’incrociatore pesante Gorizia (anch’esso appartenente alla III Divisione) ed i cacciatorpediniere Carabiniere e Corazziere della XII Squadriglia erano a Messina, pronti a muovere in due ore qualora se ne fosse manifestata la necessità.


La Minatitlan (sopra, al centro; sotto, a sinistra) in alcune fotografie scattate da bordo dell’Euro nella giornata dell’8 novembre 1941. Si tratta verosimilmente delle ultime immagini della Minatitlan prima dell’attacco britannico al convoglio “Duisburg” (da un saggio di Francesco Mattesini sul sito della Società Italiana di Storia Militare)


Una volta in franchia dello stretto di Messina (la riunione avvenne subito dopo il suo superamento da parte del primo gruppo di navi), il convoglio mise la prua verso est (rotta 90°), per imboccare la rotta che passava ad est di Malta, al largo della costa occidentale greca – rotta più lunga ma anche più sicura, perché avrebbe consentito di restare fuori dal raggio d’azione degli aerosiluranti di Malta, stimato in 190 miglia –, nonché per ingannare i britannici circa la destinazione del convoglio, facendo credere che questa fosse un porto della Grecia oppure Bengasi. (La formazione compì le accostate prestabilite con un anticipo di circa un’ora e mezza rispetto a quanto disposto da Supermarina, ma ciò ebbe l’effetto positivo di far passare il convoglio a distanza da Malta ancora superiore rispetto a quanto stabilito).
Durante la navigazione verso est, inoltre, le unità effettuarono diverse accostate verso ovest per confondere le idee ad eventuali ricognitori circa la loro rotte; ciò non bastò tuttavia ad impedire che, nel pomeriggio dell’8 novembre – alle 16.45, poco prima del tramonto, secondo il resoconto italiano; già alle 13.55, secondo quello britannico – il convoglio (ma non la III Divisione) venisse comunque localizzato, in posizione 37°38’ N e 17°16’ E (o 37°53’ N e 16°56’ E; 40 o 45 miglia ad est di Capo Spartivento Calabro, parecchio ad est di Malta), da un ricognitore Martin Maryland del 69th Reconnaissance Squadron della Royal Air Force, decollato da Luqa (Malta) e pilotato personalmente dal tenente colonnello John Noel Dowland, comandante del 69th Reconnaissance Squadron. L’idrovolante stava rientrando a Malta quando avvistò il convoglio.
In quel momento, aerei italiani e tedeschi si trovavano ancora sul cielo del convoglio; le navi della scorta – e più precisamente l’Euro, che lo segnalò subito al Maestrale con il messaggio ad ultracorte «Aerei in vista Rb 200 – quota superiore quota 3.000», e poi anche a tutte le altre navi ed a Supermarina con un segnale di scoperta via radio lanciato all’aria – avvistarono il ricognitore da 5000 metri di distanza e fecero segnali luminosi alla scorta aerea – con cui non fu possibile comunicare via radio – per richiedere che attaccasse il velivolo nemico; al contempo il Duisburg, mercantile capoconvoglio, alzò a riva i palloni di avvistamento aereo, ma gli aerei della scorta non fecero nulla (per altra fonte, invece, le segnalazioni previste per avvisare gli aerei della presenza del ricognitore non vennero effettuate, “per grave disservizio”).
Il Maryland si trattenne in vista del convoglio solo il tempo strettamente necessario a rilevarne gli elementi del moto, che comunicò prontamente a Malta alle ore 14 («Un convoglio di 6 navi mercantili e 4 cacciatorpediniere diretto verso levante, nel punto 40 miglia per 95° da Capo Spartivento», anche se la velocità, nella realtà 9 nodi, era sovrastimata in 10-12 nodi). Il messaggio inviato a Malta dal Maryland venne intercettato anche a Roma, ma fu decifrato soltanto in seguito. Oltre a sovrastimare la velocità, il ricognitore aveva leggermente sottostimato il numero di navi nel convoglio (specie di cacciatorpediniere) e non aveva minimamente notato la III Divisione, che seguiva a distanza, mentre aveva apprezzato con estrema accuratezza la rotta e posizione del convoglio.
Contrariamente a molte altre occasioni, e nonostante quanto riferito da diverse fonti secondarie, il servizio di intercettazione e decrittazione britannico “ULTRA” non ebbe alcun ruolo nelle vicende del convoglio «Beta»: vennero infatti intercettati soltanto tre messaggi molto vaghi, dei quali il primo – risalente alle 13.10 del 7 novembre – poté essere decifrato solo alle 20.49 dell’8 novembre, risultando essere un radiocifrato in cui il Ministero della Marina chiedeva al Comando Marina di Salonicco di inoltrare al X Corpo Aereo Tedesco la richiesta di compiere alcuni voli di ricognizione nel Mediterraneo orientale a protezione del convoglio «Beta». Il secondo messaggio intercettato, sempre dal Ministero della Marina a Salonicco, era delle 20 dell’8 novembre e recitava: "A protezione di attacchi provenienti da Alessandria contro l’importante convoglio diretto a Tripoli, si richiede al X Fliegerkorps tedesco di tenere pronte tutte le disponibili unità per i giorni 9 e 10". Il terzo ed ultimo, in cui ancora una volta si parlava di grosso convoglio diretto a Tripoli che sarebbe stato in mare il 9-10 novembre, per il quale si chiedeva la copertura del X Fliegerkorps, fu decrittato dalla Special Liaison Unit di “ULTRA” al Cairo alle 00.34 del 9 novembre, cioè pochi minuti prima che la Forza K aprisse il fuoco contro il convoglio. Tutti e tre i messaggi erano troppo vaghi per poter organizzare un’intercettazione, non contenendo alcuna informazione su porti e orari di partenza o di arrivo, rotta e velocità del convoglio; ma soprattutto, il primo ad essere decrittato lo fu soltanto quando già da tre ore la Forza K era partita per intercettare il convoglio “Duisburg”, basandosi sulle sole informazioni dei ricognitori.

L’orientamento verso est della rotta del convoglio (che virò verso sud solo più tardi) non ingannò i comandi britannici: un convoglio tanto grande non poteva essere diretto né in Grecia né a Bengasi, porto dalle capacità ricettive insufficienti ad accogliere sette mercantili. L’unica destinazione plausibile era Tripoli, e le navi italiane avrebbero cercato di raggiungerla tenendosi al di fuori del raggio della portata degli aerosiluranti: il che permise ai britannici di intuire che il convoglio sarebbe dovuto passare circa 200 miglia ad est di Malta, per poi puntare verso sud dopo il tramonto per raggiungere un porto della Libia, sempre seguendo una rotta che lo tenesse al di fuori del raggio degli aerosiluranti di Malta.
Alle 17.30, di conseguenza, salpò da Malta la Forza K britannica, formata dagli incrociatori leggeri Aurora (capitano di vascello William Gladstone Agnew, comandante della Forza K) e Penelope (capitano di vascello Angus Dacres Nicholl) e dai cacciatorpediniere Lance (capitano di corvetta Ralph William Frank Northcott) e Lively (capitano di corvetta William Frederick Eyre Hussey), con il compito di intercettare il convoglio segnalato. La partenza della Forza K fu tanto fulminea che il comandante del Penelope, capitano di vascello Nicholl, dovette raggiungere la sua nave con un’imbarcazione, in quanto l’incrociatore stava già manovrando per uscire dal porto. Lasciatesi Malta alle spalle, le navi britanniche assunsero rotta 064° (verso est-nord-est) e velocità 28 nodi, in modo da intercettare il convoglio alle due della notte seguente. La ricerca delle navi dell’Asse sarebbe avvenuta lungo la presumibile rotta che il convoglio avrebbe seguito per tenersi al di fuori della portata degli aerosiluranti di Malta.
La ricognizione aerea italiana (due CANT Z. 1007 dell’Aeronautica dell’Egeo) e tedesca (due Junkers Ju 88 del X Fliegerkorps) non avvistò le navi britanniche.
Anche un bombardiere Wellington munito di radar (del 211st Squadron della RAF) ed otto aerosiluranti Fairey Swordfish (dell’830th Squadron della Fleet Air Arm, di base a Hal Far) decollarono da Malta per rintracciare il convoglio nel tardo pomeriggio (il primo per seguirlo e mantenere il contatto con esso, guidando sul posto la Forza K; i secondi per attaccarlo), ma non riuscirono a trovarlo: il Wellington per malfunzionamento della radio e del radar, gli Swordfish perché il convoglio seguiva appunto una rotta che lo teneva al di fuori del loro raggio d’azione.
Niente di tutto ciò era a conoscenza delle navi del convoglio «Beta», che proseguirono regolarmente per la loro rotta. Il tempo era buono: mare calmo, nubi leggere e vento debole, forza 3. La scorta aerea venne ritirata al tramonto.
Tra le 18 e le 18.30, mentre la III Divisione Navale e la XIII Squadriglia Cacciatorpediniere zigzagavano sulla sinistra del convoglio, quest’ultimo manovrò per passare dalla formazione su tre colonne a quella su due colonne, distanziate di 1000-1500 metri. La nuova formazione era così composta: a dritta, nell’ordine, Minatitlan (in testa alla colonna), Maria e Sagitta; a sinistra, nell’ordine, DuisburgSan Marco e Conte di Misurata, mentre il Rina Corrado procedeva più a poppavia degli altri sei mercantili, in posizione centrale rispetto alle due colonne. Tutt’intorno la scorta diretta: Maestrale in testa al convoglio, Grecale in coda, Libeccio seguito dall’Oriani sul lato sinistro, ed Euro seguito dal Fulmine sul lato destro.  
Fino alle 19.30 il convoglio seguì rotta 090°, poi accostò per 122°, ed alle 19.55 per 161°, sempre per tenersi al di fuori del raggio d’azione degli aerosiluranti.
Alle 20.45 la III Divisione si portò a poppa del convoglio, e tra le 22 e le 24 le navi  di Brivonesi risalirono il convoglio sino a portarsi a 30° di prora a dritta del Maestrale (distante da loro 4 km); poi, a mezzanotte, invertirono la rotta a un tempo per defilare di controbordo al convoglio. L’ammiraglio italiano aveva pianificato i movimenti della sua Divisione e la velocità da tenere in modo da tenersi in contatto col convoglio, mantenendo al tempo stesso una sufficiente libertà di manovra, lungo le spezzate da percorrere, per ridurre il pericolo di attacchi di sommergibili avversari contro i suoi incrociatori. La velocità che la III Divisione avrebbe dovuto tenere, secondo gli ordini di Supermarina, sarebbe stata di 16 nodi; ma con una tale velocità gli incrociatori, per mantenersi in vista del convoglio che procedeva a soli 9 nodi, avrebbero dovuto compiere accostate esageratamente ampie, oppure allontanarsi troppo dal convoglio in ogni accostata. D’altra parte, una velocità di 9 nodi non avrebbe consentito a Trento e Trieste di mantenere un’adeguata manovrabilità; pertanto Brivonesi era giunto ad una soluzione di compromesso, facendo assumere alla III Divisione una velocità di 12 nodi e tenendosi nella scia del convoglio, manovrando periodicamente per risalire il convoglio sul lato di dritta (quello rivolto verso Malta e dunque ritenuto più esposto) fino all’unità capofila, indi accostare di controbordo e tornare in scia al convoglio, per poi replicare tale manovra di pendolamento. In tal modo, le navi di Brivonesi si sarebbero interposte tra i trasporti e la probabile direzione di provenienza di un attacco navale britannico.
Intanto, la Forza K navigava verso la sua ignara preda: avendo inizialmente assunto rotta verso est, la formazione britannica virò verso sudest subito dopo il tramonto, ed attraversò, senza essere avvistata, la zona d’agguato del Settembrini. Le unità britanniche erano disposte in linea di fila, con l’Aurora in testa seguito nell’ordine da LancePenelope e Lively, distanziati tra loro di 750 metri.
Agnew aveva già da tempo preparato e discusso con i comandanti dipendenti un piano d’azione in caso di attacco ad un convoglio: le navi britanniche sarebbero rimaste in linea di fila, per evitare problemi di riconoscimento e per poter lanciare liberamente siluri; prima di attaccare dei mercantili, la Forza K avrebbe neutralizzato le navi di scorta presenti sul lato attaccato; nel caso altre unità di scorta fossero apparse durante l’attacco ai mercantili, esse sarebbero immediatamente divenute bersaglio prioritario; l’Aurora (capofila) avrebbe mantenuto ogni nave di scorta bene di prora fino ad averla posta fuori uso. Così facendo, le navi britanniche avrebbero potuto sfruttare al massimo la loro potenza di fuoco contro il convoglio, e minimizzare il rischio di un attacco silurante. Agnew sottolineò l’importanza di colpire subito i bersagli, fin dalle prime salve, e distribuire il tiro in modo da non lasciar scampo a nessuna delle unità avversarie.
Alle 00.39 del 9 novembre le vedette sulla plancia dell’Aurora avvistarono un gruppo di navi oscurate aventi rotta approssimata 170° (verso sud), a nove miglia di distanza, su rilevamento 30°: era il convoglio “Duisburg”. Il radar non ebbe alcun ruolo di rilievo nell’individuazione del convoglio: le navi italiane vennero avvistate otticamente dalla Forza K, col solo uso di binocoli, perché illuminate dalla luce lunare, mentre il radar fu poi impiegato nel puntamento dei cannoni durante il combattimento. Secondo il rapporto britannico, in quel momento le navi italiane si trovavano in posizione 36°55’ N e 17°58’ E (135 miglia a sud di Siracusa, 100 miglia ad est-sud-est di Capo Spartivento e 180 miglia ad est di Malta), a cinque miglia per 30° dalla Forza K (per altra fonte, a 7 miglia per 30° dall’Aurora, autore dell’avvistamento); la documentazione italiana indica invece il punto dell’attacco come 37°00’ N e 18°10’ E, a circa 120 miglia dalle coste della Calabria ("Navi mercantili perdute" indica la posizione come 37°08’ N e 18°09’ E, circa 120 miglia a sudest di Punta Stilo o 130 miglia a sudovest della Calabria). Secondo Agnew, la visibilità notturna era ottimale per un’intercettazione, la luna splendente e luminosa (su rilevamento 100°, con un’elevazione di 45°), e le condizioni perfette per un’intercettazione (vento forza 3 da nord-nord-ovest, nubi leggere e calma di mare); nel suo rapporto, il caposcorta Bisciani registrò brezza moderata verso sud-est, nuvolaglia leggera e luna scoperta, con «orizzonte ottimo nel secondo quadrante, buono nel terzo, fosco nel quarto». Secondo Brivonesi, la visibilità era buona quando la luna era libera, e scarsa quando le nubi la coprivano.
(Secondo "Struggle for the Middle Sea" di Vince O’Hara, poco ci era mancato che le navi dell’Asse scampassero, anche questa volta, all’intercettazione: le unità della Forza K erano infatti giunte quasi al punto in cui avrebbero dovuto interrompere le ricerche e tornare indietro per raggiunti limiti di autonomia, e Agnew scrisse in seguito che aveva quasi abbandonato le speranze di trovare il convoglio segnalato dal Maryland, quando all’improvviso apparvero nell’oscurità le sagome delle navi nemiche. Questo sembra però in contrasto con quanto riferito da altre fonti, tra cui la storia ufficiale dell’USMM, secondo cui invece l’incontro con il convoglio italiano avvenne un’ora prima del previsto, dato che Agnew si aspettava di incontrarlo intorno alle due di notte: invece, le navi dell’Asse avevano seguito una rotta più ad ovest di quella stimata dai britannici, e la Forza K riuscì a trovarle senza neanche bisogno di dispiegarsi in catena di ricerca. Questo era, peraltro, il modus operandi generalmente seguito dalle unità britanniche: mentre nella nella Marina italiana la ricerca di formazioni nemiche si compiva distendendo le proprie navi “a rastrello” in linea di fronte o di rilevamento, i britannici compivano andavano in cerca di convogli mantenendo le proprie formazioni compatte, in linea di fila).
Il convoglio italo-tedesco avanzava su rotta 161° alla velocità di 9 nodi, nella formazione su due colonne assunta alle 18.30; la Minatitlan procedeva circa 1300 metri a poppavia del Maestrale, che si trovava in testa alla formazione italiana. La III Divisione, quale scorta indiretta, seguiva il convoglio a quattro chilometri a poppavia dritta (ossia verso ovest, ritenuta la più probabile direzione di provenienza di un attacco: Malta, infatti, era a dritta rispetto al convoglio), zigzagando alla velocità di dodici nodi. Mezz’ora prima, le navi di Brivonesi avevano raggiunto il punto più settentrionale nel loro pendolamento, ultimando l’accostata per defilare di controbordo al convoglio; ora avevano accostato per assumere rotta parallela al convoglio e ripetere il pendolamento, verso sud.
Qualcuna delle unità della scorta diretta, grazie alla luna piena, avvistò anche la Forza K, 3-5 km a poppavia, ma ritenne trattarsi della III Divisione. Il Bersagliere, che avvistò le navi britanniche meno di un minuto prima che aprissero il fuoco, fu l’unico a capire che si trattava di navi nemiche, ed a lanciare immediatamente il segnale di scoperta, ma era già troppo tardi; il segnale fu ricevuto da Maestrale e Trieste proprio mentre la Forza K iniziava a sparare.
Anziché attaccare subito il convoglio, il comandante Agnew manovrò flemmaticamente per portarsi nella posizione più favorevole all’attacco, di poppa al convoglio (dove in genere la sorveglianza risultava più debole) e con la luna di fronte, approfittando del fatto che nessuna nave italiana sembrasse accorgersi della sua presenza.
La Forza K ridusse la velocità da 28 a 20 nodi ed accostò a sinistra per 350°, quindi aggirò il convoglio con una manovra che richiese 17 minuti, attraversandone la scia e portandosi a poppavia dritta rispetto ad esso, di modo che i bersagli si stagliassero contro la chiara luce lunare. Alle 00.50 l’Aurora, trovandosi quasi al traverso di un cacciatorpediniere italiano che procedeva in coda al convoglio (probabilmente il Grecale), puntò dritto su di esso, accostando a dritta su rotta est/nordest; Agnew apprezzò la composizione del convoglio in otto grossi mercantili e quattro cacciatorpediniere. Aveva ormai deciso cosa fare: avrebbe attaccato il convoglio da poppa e poi ne avrebbe “risalito” la formazione, distruggendo sistematicamente i mercantili dopo aver neutralizzato la scorta sul lato attaccato. I bersagli vennero identificati e scelti dai puntatori, i cannoni puntati e preparati ad aprire il fuoco a colpo sicuro. L’Aurora puntò l’armamento principale, asservito al radar di scoperta navale tipo 284, sui cacciatorpediniere della scorta, ed i cannoni da 100 mm di sinistra, asserviti al radar tipo 290 ed alla centrale di tiro poppiera, sui mercantili.
Alle 00.52 la Forza K avvistò su rilevamento 330° (verso sinistra) la III Divisione, della cui presenza nessuno, da parte britannica, aveva fino a quel momento avuto sentore; ma ciò non modificò le intenzioni di Agnew, il quale poco dopo concluse che le due “navi maggiori” (che erano, in effetti, il Trento ed il Trieste, che in quel momento si trovavano un poco di prua rispetto al traverso sinistro dell’Aurora: il Trieste distava tre miglia e mezzo, il Bersagliere meno di tre) ed i cacciatorpediniere che le accompagnavano, oscurate e distanti sei miglia, dovessero essere degli altri mercantili con la loro scorta (tanto che a cose fatte, i britannici ritennero erroneamente di aver affondato dieci mercantili invece che sette, credendo di aver attaccato "otto mercantili e quattro cacciatorpediniere nemici, seguiti da un secondo convoglio di due cacciatorpediniere e due mercantili"). Alle 00.56 il Lively stimò che il convoglio avesse rotta 150° e velocità 8 nodi; in base ai dati del suo radar, il Maestrale (che al momento dell’attacco si trovava al traverso a poppavia della Forza K, a sud della stessa) distava 10.060 metri, i mercantili che lo seguivano 8230 metri.
Solo alle 00.57 la Forza K, giunta circa 5 km a sudest del convoglio, aprì il fuoco sulle ignare navi italiane da una distanza di 5200 metri, orientando il tiro con l’ausilio dei radar tipo 284 e defilando lungo il fianco dei mercantili. Sempre per agevolare il tiro, le navi britanniche lanciarono dei bengala illuminanti a quote comprese tra i 600 ed i 1000 metri.

Il tiro britannico si abbatté per primo sui cacciatorpediniere che proteggevano il lato più vicino alla Forza K: FulmineEuro e Grecale. Il primo e l’ultimo vennero ripetutamente centrati prima di poter avere il tempo per imbastire una reazione efficace: il Fulmine affondò dopo pochi minuti, il Grecale rimase alla deriva con danni gravissimi e decine di morti e di feriti gravi, completamente fuori combattimento. L’Euro scampò invece alla strage iniziale (venne anch’esso colpito, ma i danni non risultarono gravi), e tentò di coprire i mercantili con una cortina fumogena, imitato da Maestrale e Libeccio.
Subito dopo l’Aurora, il cui primo bersaglio era stato il Grecale (che venne immobilizzato e incendiato dalle prime tre salve, dopo di che l’Aurora spostò il tiro sul Maestrale, contro il quale stava già sparando il Penelope), anche Lance e Penelope aprono il fuoco: quest’ultimo tirò prima su un piroscafo e poi sul Maestrale, che accostò per 80° (verso sinistra, aggirando la testa del convoglio: Bisciani ritenne che l’unica possibilità di attacco consistesse nel portarsi in posizione prodiera rispetto alle navi nemiche, accostando a sinistra), accelerò a 20 nodi ed emise cortine fumogene, seguito dal convoglio. Euro e Libeccio manovrarono anch’essi aumentando la velocità, per tentare di occultare le navi di testa del convoglio con cortine fumogene.
Per ordine del Maestrale, che aveva ordinato alle unità della scorta di radunarsi intorno a lui, i superstiti cacciatorpediniere della scorta diretta emisero cortine fumogene per nascondere i mercantili, poi assunsero rotta verso est ed incrementano la velocità. Nella generale confusione, il caposcorta Bisciani ritenne erroneamente che l’attacco provenisse dal lato sinistro del convoglio (in realtà ad essere sotto attacco era il lato destro), e che le navi sul lato destro fossero quelle della III Divisione (mentre era la Forza K). Poco dopo, il Maestrale stesso fu colpito dal tiro britannico, subendo danni leggeri ma anche l’abbattimento dell’aereo della radio, il che gli impedì di comunicare con il resto della scorta e del convoglio.
I cacciatorpediniere della scorta diretta che si trovavano sul lato orientale del convoglio (Libeccio ed Oriani) si ritrovarono così disorientati e senza ordini; per la loro posizione, non avevano neanche compreso – per lo meno nei primi minuti, quelli decisivi – quale fosse il tipo di attacco lanciato contro il convoglio. Si limitarono ad emettere fumo. Alcuni ritennero che le navi fossero sotto attacco aereo, e non da parte di altre navi di superficie: questa fu anche l’impressione che ebbero sulle prime i comandanti di diversi mercantili; questa convinzione – cui contribuì anche l’impiego di bengala da parte britannica per illuminare meglio i bersagli – si spinse a tal punto che alcuni dei mercantili aprirono un fitto e disordinato fuoco con le mitragliere in tutte le direzioni, sparando praticamente a caso contro aerei che non esistevano. Come se non bastasse, alcune delle mitragliere dei mercantili, credendo di trovarsi sotto attacco da parte di aerosiluranti (che conducevano i loro attacchi volando a bassa quota), tiravano basso, e finirono col colpire col loro tiro l’agonizzante Fulmine, provocando ulteriori perdite tra il già decimato equipaggio del cacciatorpediniere. Altro effetto pernicioso della convinzione di trovarsi sotto attacco aereo, anziché navale, fu che i mercantili non tentarono di disperdersi e fuggire (o anche solo di dare la poppa alle navi britanniche), il che avrebbe quanto meno reso più difficile alla Forza K il compito di rintracciarlo e distruggerli. Disperdere il convoglio sotto un attacco aereo, infatti, avrebbe reso i mercantili più vulnerabili, privandoli della protezione delle armi contraeree dei cacciatorpediniere ed impedendo il tiro concentrato delle armi contraeree di tutte le navi; mentre in un attacco da parte di navi di superficie, mantenere intatta la formazione serviva solo a facilitare il compito degli aggressori.
Intanto, all’1.18, l’Euro andò al contrattacco silurante, unica unità della scorta ad abbozzare un effettivo tentativo di reazione; il suo comandante, tuttavia, ebbe il dubbio di stare attaccando le navi della III Divisione (anche per via degli ordini impartiti dal caposcorta), così rinunciò a lanciare i siluri ed abbandonò il contrattacco, accostando a sinistra per riunirsi a MaestraleLibeccio ed Oriani, che dirigevano verso est inquadrati dal tiro delle artiglierie della Forza K.
I mercantili, nel vano tentativo di sfuggire alla Forza K (proveniente da ovest, cioè da dritta), misero la prua verso est (verso sinistra); molti comandanti continuavano a non rendersi conto di cosa esattamente stesse accadendo, alcuni virarono verso est perché si erano resi conto che l’attacco proveniva da ovest, altri semplicemente per imitazione di manovra dei primi, altri ancora perché così facendo potevano rifugiarsi nelle cortine fumogene stese dai cacciatorpediniere. Ma non servì a niente. Anche il Maestrale, per motivo difficilmente spiegabile (il relativo volume dell’U.S.M.M. così giudica tale manovra del caposcorta: "Forse d’istinto più che in base ad un ragionamento"), dopo aver trasmesso l’ordine di coprire i mercantili con cortine nebbiogene (l’ultimo impartito prima dell’abbattimento dell’aereo radio) mise la prua in tale direzione, inquadrato dalle salve nemiche. Oriani e Libeccio, in mancanza di ordini, seguirono loro caposcorta per imitazione di manovra, continuando ad avvolgere i mercantili in inutili cortine nebbiogene (più tardi, alzata un’antenna radio di fortuna, fu il Maestrale stesso ad ordinare ai cacciatorpediniere superstiti di seguirlo verso est). L’Euro, unico altro cacciatorpediniere rimasto in efficienza, fece come loro. Il comandante Bisciani avrebbe poi scritto così nel suo rapporto: «Ritengo [all’1.17 circa] che nulla sia più possibile per la salvezza del convoglio, e penso che, occultandoli, potrò riunire i Ct, dei quali due sono in vista con rotta presso a poco parallela alla mia, per una successiva azione» che però non si materializzò mai.
In tal modo, eccetto che per l’abortito tentativo iniziale dell’Euro, nessuna unità della scorta tentò di contrattaccare attivamente le navi nemiche, a differenza di quanto accadde di solito in simili circostanze; la successiva azione della Forza K contro i mercantili incontrò così ben poco contrasto. L’operato della scorta diretta del convoglio "Duisburg" e del caposcorta Bisciani sarebbe stato poi giudicato sfavorevolmente dall’ammiraglio Wladimiro Pini, comandante del Dipartimento Militare Marittimo del Basso Tirreno, e dagli alti comandi della Regia Marina.
Neutralizzata la parte della scorta diretta sul lato attaccato, mentre il resto di quest’ultima brancolava nel buio, alle 00.59 l’Aurora accostò a dritta (verso sud, assumendo rotta parallela a quella del convoglio) e guidò la Forza K in una manovra avvolgente attorno al convoglio, una sorta di volta tonda nella quale aggirò i mercantili da ovest verso est, risalendo il lato destro del convoglio e facendo sistematicamente fuoco su ognuno dei mercantili con tutte le armi di bordo, da circa 1800 metri di distanza, finché questo s’incendiava od esplodeva. Il tiro preciso, celere e ravvicinato delle unità britanniche – l’ammiraglio Brivonesi stimò che sparassero con ritmo inferiore ai dieci secondi: in ogni caso tirarono con una tale intensità da surriscaldarsi fino a provocare lo scioglimento ed il distacco della vernice – demolì, una dopo l’altra, tutte le navi del convoglio: siccome tutte avevano carburante e/o munizioni tra il loro carico, ognuna di esse prendeva fuoco od era scossa da esplosioni non appena veniva colpita. Come riferito nei loro rapporti dai comandanti di Euro e Grecale, i più vicini al lato attaccato, già pochi minuti dopo l’una i mercantili più poppieri del convoglio erano trasformati in roghi; entro l’1.10 tutti e sette erano in preda alle fiamme.
Oltre che con i pezzi da 152 degli incrociatori (che “fornirono eccellenti prestazioni”, come annotò Agnew nel suo rapporto), con i pezzi secondari da 102 mm degli stessi e quelli principali da 120 dei cacciatorpediniere, le navi della Forza K spararono sui loro bersagli anche con le micidiali mitragliere quadrinate da 40 mm, note come “pom-pom”. Il tiro venne eseguito da distanze comprese tra i 2000 ed i 4000 metri. Venne anche lanciato qualche siluro, tre dall’Aurora ed almeno uno dal Lance.
Primi ad essere colpiti furono Maria e Sagitta, i più vicini alla zona di provenienza della Forza K (questi due mercantili, insieme alla Minatitlan che li precedeva, formavano la colonna destra del convoglio), poi anche gli altri, uno dopo l’altro. Nessun trasporto fu in grado di sfuggire, data la bassa velocità massima sviluppabile; le cortine fumogene non servirono a nulla, né servì il violento e confuso fuoco di mitragliere che molti dei mercantili – alcuni dei quali credevano ancora di avere a che fare con un attacco di aerosiluranti – aprirono disordinatamente. Molte delle navi, continuando a non capire se fossero sotto attacco navale od aereo, non tentarono nemmeno di diradarsi e fuggire: Agnew scrisse poi che “sembrava che le navi mercantili stessero aspettando il loro turno per essere distrutte”.
Il Lance colpì ripetutamente Maria e Sagitta (oltre al Fulmine), mentre il Lively, che aprì il fuoco per ultimo (all’una di notte), colpì il Duisburg con sei salve, incendiandolo. L’Aurora cannoneggiò ed incendiò il Rina Corrado, quindi mitragliò il già danneggiato Fulmine, che venne poi finito dal Penelope. Il Conte di Misurata tentò di dare la poppa al fuoco nemico per allontanarsi, ma venne a sua volta colpito ed incendiato dall’Aurora (tra l’1.10 e l’1.15, secondo la ricostruzione di Francesco Mattesini). E fu sempre l’Aurora, dopo aver ridotto il Conte di Misurata ad un relitto in affondamento, ad aprire il fuoco sulla Minatitlan da una distanza di circa 2750 metri (poco dopo l’1.15, secondo Mattesini). Il tiro dell’incrociatore, diretto con l’aiuto del radar tipo 284, non mancò di ottenere rapidi e ripetuti centri anche su questa nave; all’1.04 il Lance lanciò un siluro contro la petroliera, ritenendo di averla colpita. Dopo aver cannoneggiato la Minatitlan, anche l’Aurora lanciò tre siluri contro altrettanti mercantili, giudicando di averne colpiti due.
Tra tutte le navi del convoglio, fu proprio alla Minatitlan che toccò la sorte peggiore: carica com’era di novemila tonnellate di carburante (tra cui oltre duemila di infiammabilissima benzina avio), la sventurata motocisterna prese fuoco dopo i primi colpi, venendo immediatamente avvolta dalle fiamme da prua a poppa.
L’incendio fu così repentino e catastrofico da non lasciare scampo quasi a nessuno: dei 58 uomini dell’equipaggio, soltanto in sei riuscirono a salvarsi. Persero la vita 38 membri dell’equipaggio civile, compreso il comandante Incagliati, e 14 militari, compreso il regio commissario, capitano del Genio Navale Direzione Macchine di complemento Rosario Toscano (40 anni, da Acireale).


La Minatitlan in fiamme il mattino del 9 novembre 1941 (sopra: g.c. STORIA militare; sotto: da “Navi mercantili perdute” di Rolando Notarangelo e Gian Paolo Pagano, USMM, Roma 1997)


(dal libro “Le missioni avventurose d’una squadra di navi bianche”, di Mario Peruzzi)

All’1.25 l’Aurora accostò a sinistra, di prora al convoglio (aggirandone la testa), per tagliargli la rotta ed assicurarsi che nessun mercantile potese sfuggire, indi “ridiscese” il convoglio lungo il suo lato sinistro ed all’1.45 diresse verso ovest per girargli intorno: tutti i mercantili erano ormai avvolti dalle fiamme. Alle 2.06, completata la propria opera di distruzione ed essendo ormai a corto di munizioni (il Penelope, ad esempio, aveva sparato 259 colpi da 152 mm e 111 da 120 mm nel giro di un’ora; l’Aurora, 279 colpi da 152 e 73 da 120; il Lance, 434 colpi da 120, mentre mancano dati sul Lively), la Forza K passò a poppavia di ciò che restava del convoglio, accelerò a 25 nodi e diresse verso ovest per rientrare a Malta, dove giunse alle 13.05 di quello stesso giorno, senza aver subito alcun danno (eccetto uno lievissimo, un foro da scheggia, al fumaiolo del Lively), eludendo anche un attacco da parte di quattro aerosiluranti italiani.
Deludente la reazione della III Divisione: avvistate, all’1.01, le vampe dei cannoni della Forza K che aprivano il fuoco sul convoglio, le navi di Brivonesi accostarono a dritta, su rotta 240°, poi a sinistra; il Trieste aprì il fuoco all’1.03 ed il Trento due minuti dopo, da grandissima distanza (8 km). Mentre manovravano per impegnare le navi della Forza K, i due incrociatori italiani dovettero assistere alla mattanza del convoglio che avrebbero dovuto proteggere: Brivonesi scrisse poi che “Il tiro del nemico aveva un ritmo celere, e salve ben raggruppate che si potevano osservare seguendo le codette luminose dei proiettili. Se non alla prima, alla seconda salva un piroscafo era già in fiamme ed illuminava vividamente gli altri piroscafi contigui. Gli incendi degli altri piroscafi si sono seguiti con una rapidità inimmaginabile, tanto che alle 01.07, ossia sette minuti dopo dell’inizio dell’azione, tutti i piroscafi erano in fiamme. (…) quando il TRIESTE ha fatto partire la sua prima salva (alle ore 01.03) non meno di due piroscafi erano già stati colpiti ed incendiati e quando anche il TRENTO ha potuto iniziare il tiro (alle ore 01.05) quasi tutti i piroscafi erano già in fiamme; essi bruciavano tutti alle ore 01.07”. Brivonesi giudicò che tale risultato dipendesse dall’“ausilio prezioso fornito dagli strumenti radiotelegrafici di cui esso dispone, del munizionamento perfettamente adatto e dei congegni di tiro che esso impiega certamente nelle azioni notturne, ed anche dalla estrema infiammabilità del carico di tutti i piroscafi che costituivano il convoglio DUISBURG”.
All’1.08 la III Divisione assunse rotta 180°; pur potendo raggiungere velocità superiori ai 30 nodi, Brivonesi mantenne inspiegabilmente la velocità delle sue navi a 15-16 nodi (la Forza K procedeva a 20 nodi), aumentandoli a 18 solo all’1.12, ed a 24 all’1.18. Intanto la Forza K aggirava il convoglio e ne completava la distruzione, coprendosi proprio con le cortine fumogene stese in precedenza dagli stessi cacciatorpediniere italiani per nascondere i mercantili.
Per via delle rispettive manovre, la III Divisione e la Forza K si ritrovarono a girare intorno al convoglio, scambiandosi inconsapevolmente di posizione (la III Divisione a sudovest del convoglio, la Forza K a nordest); il risultato fu che la Forza K, girando attorno ai mercantili, mantenne sempre il convoglio tra sé e gli incrociatori di Brivonesi (senza neanche volerlo, dato che Agnew non si era minimamente accorto della presenza di incrociatori italiani), il che intralciò non poco il tiro di questi ultimi: tra i cannonieri di Brivonesi ed i loro bersagli s’interponevano i mercantili incendiati ed il fumo generato da questi incendi.
Per quel che riguardava i quattro cacciatorpediniere della XIII Squadriglia, il Bersagliere, prima unità in assoluto ad avvistare il nemico, si era avvicinato alla Forza K facendo fuoco coi propri pezzi da 120, ma aveva ripiegato verso est dopo essere stato bersagliato dal tiro del Penelope; il Granatiere non sparò per la difficoltà di individuare i bersagli, troppo lontani, e per non farsi localizzare dal nemico, indi virò a dritta allontanandosi dalla III Divisione e finendo col passare in mezzo ai mercantili incendiati; Fuciliere ed Alpino, in seguito all’accostata, erano rimasti a poppavia degli incrociatori di Brivonesi e non riuscirono neanche ad avvistare le unità della Forza K.
All’1.25, essendo la distanza divenuta ormai eccessiva (alzo 17 km), la III Divisione cessò il fuoco: a quell’ora il convoglio "Duisburg" non esisteva ormai più. All’1.26 le navi della Forza K risultavano completamente nascoste dal fumo dei mercantili in fiamme. Gli incrociatori di Brivonesi avevano sparato 207 colpi da 203 mm e 82 da 100 mm, senza metterne uno solo a segno. All’1.29 l’ammiraglio fece assumere alle sue navi rotta nord e velocità 24 nodi per intercettare le unità britanniche che, aggirando verso nord i resti del convoglio, dirigevano verso Malta, ma l’incontro non avvenne in quanto Brivonesi, informato da Supermarina del possibile pericolo di un attacco di aerosiluranti, credette di trovarsi nel raggio d’azione di una portaerei britannica: pertanto, all’1.35 – siccome le sagome dei suoi incrociatori, profilandosi contro gli incendi dei mercantili, sarebbero state particolarmente vistose per gli aerei ed anche eventuali sommergibili nemici – assunse rotta nordovest, allontanandosi dal luogo dello scontro e dalla Forza K.
All’1.41 MaestraleLibeccioEuro ed Oriani assunsero rotta 90° (verso est), che seguirono per un po’ a 30 nodi di velocità, mentre il caposcorta Bisciani attendeva che giungesse qualche ordine o notizia sugli accadimenti in corso.
(Secondo una fonte, i quattro cacciatorpediniere si ritirarono una decina di miglia ad est del convoglio per riorganizzarsi, poi andarono al contrattacco, guidati dal Maestrale, aprendo il fuoco con le proprie artiglierie, ma astenendosi dal lanciare siluri per evitare di colpire i mercantili, che si trovavano al di là della Forza K. Le quattro unità di Bisciani seguitarono poi a fare fumo ed ad impegnare le navi britanniche ogni volta che queste divenivano visibili, senza però riuscire a concludere nulla. Niente di tutto ciò, però, risulta dall’approfondita ricostruzione dello scontro fatta dallo storico Francesco Mattesini).
All’1.44 l’ammiraglio Brivonesi ordinò a Bisciani di tornare presso i mercantili per recuperarne i naufraghi; alle due di notte i cacciatorpediniere, tutti spostatisi verso est seguendo il caposcorta (ormai distavano ben 17 miglia da quel che restava del convoglio), invertirono finalmente la rotta per riavvicinarsi al convoglio, procedendo a 18 nodi. Raggiunsero i relitti in fiamme alle tre di notte. Non vi era a galla un solo piroscafo che risultasse salvabile; alcuni erano già affondati, altri lo fecero più tardi. La Minatitlan era ancora a galla: senza accennare ad andare a fondo, continuò a bruciare furiosamente per tutta la notte, illuminando la scena del disastro con il suo rogo.

Tre immagini della Minatitlan in fiamme scattate da una sezione di bombardieri Savoia Marchetti SM. 79 del 10° Stormo da Bombardamento Terrestre, provenienti dalla Sicilia, che la sorvolarono il mattino del 9 novembre (prima e seconda foto: da un saggio di Francesco Mattesini su www.academia.edu; terza foto: g.c. STORIA militare)




Poco dopo le tre di notte, i quattro cacciatorpediniere iniziarono a recuperare centinaia di naufraghi dal mare cosparso di nafta e rottami; l’operazione di soccorso, cui molto più tardi si unirono anche Fuciliere, Bersagliere ed Alpino della XIII Squadriglia, proseguì per tutta la mattinata del 9 novembre. Intanto, il malconcio Grecale arrancava verso nord; alle quattro del mattino rimase definitivamente immobilizzato, per cui l’Oriani venne inviato a prenderlo a rimorchio per portarlo a Crotone.
Dalle 7.30 iniziarono a sopraggiungere anche gli aerei: nel corso della giornata, si alternarono sui cieli delle navi superstiti numerosi caccia Messerschmitt Bf 110 del 26° Stormo da Caccia della Luftwaffe, dieci SM. 79 del 10° Stormo Bombardieri della Regia Aeronautica e 22 caccia italiani tra CR. 42 e Reggiane Re 2000 del 23° Gruppo Autonomo e Macchi Mc 200 del 7° Gruppo del 54° Stormo. Tali velivoli esercitavano vigilanza sia antiaerea sia antisommergibili.
La III Divisione Navale, invertita la rotta, tornò anch’essa sul luogo dove il convoglio era stato distrutto, giungendovi alle 9.20 ed unendosi ai superstiti cacciatorpediniere della scorta diretta in posizione 37°02’ N e 18°03’ E.
L’ultimo, amarissimo boccone di quella tremenda giornata la Marina italiana lo dovette inghiottire alle 6.40, quando il sommergibile britannico Upholder (capitano di corvetta Malcolm David Wanklyn), attirato sul posto dagli stessi ricognitori che avevano guidato la Forza K – durante la notte era stato visto navigare in superficie, tra le navi incendiate, dai naufraghi di alcuni dei mercantili –, silurò il Libeccio che stava rimettendo in moto dopo aver recuperato un gruppo di 150 naufraghi, in gran parte appartenenti al Fulmine. Privato della poppa, il Libeccio colò a picco alle 11.18, dopo un breve quanto penoso tentativo di rimorchio da parte dell’Euro; la maggior parte dell’equipaggio poté essere salvato, ma molti naufraghi erano stati uccisi dallo scoppio del siluro, che aveva colpito proprio i locali in cui erano stati portati per i primi soccorsi.
Ai cacciatorpediniere della scorta diretta si unirono, per il soccorso ai naufraghi, anche i cacciatorpediniere Nicoloso Da Recco, Antoniotto Usodimare e Vincenzo Gioberti, usciti da Trapani, e le navi ospedale Virgilio, fatta appositamente uscire da Augusta ed arrivata alle 16.30, ed Arno, dirottata sul posto durante la navigazione da Bengasi all’Italia e giunta sul posto poco dopo le undici del mattino (proprio a quell’ora, venne avvistata da bordo la grande nube di fumo nero dell’incendio della Minatitlan). Le due navi ospedale continuarono ad ispezionare la zona del disastro fino all’alba del 10 novembre.
Sia l’Arno che la Virgilio giunsero sul posto facendosi guidare, nell’ultimo tratto della navigazione, dalla densa nube di fumo dell’incendio della Minatitlan, che ancora galleggiava: ultima unità del convoglio ancora a galla, la petroliera continuò a galleggiare in preda alle fiamme per tutto il mattino del 9 novembre, venendo fotografata a più riprese sia dalle unità impegnate nei soccorsi che dagli aerei di passaggio. Queste drammatiche immagini sarebbero diventate il simbolo della tragedia del convoglio “Duisburg”.
Infine, anche il relitto carbonizzato della motocisterna scivolò per sempre sotto le onde, portando con sé i resti del suo sfortunato equipaggio. (Secondo Erminio Bagnasco nel libro "Navi e marinai italiani nella seconda guerra mondiale", invece, il relitto galleggiante della Minatitlan venne finito a cannonate da uno dei cacciatorpediniere italiani impegnati nel salvataggio dei naufraghi). Nessuno dei testi che trattano la vicenda del convoglio “Duisburg” indica esattamente a che ora questo avvenne: ma siccome anche la Virgilio, giunta sul posto alle 16.40, menzionò nel suo rapporto di aver avvistato la Minatitlan in fiamme, si può presumere che la petroliera rimase a galla anche per buona parte del pomeriggio, colando a picco soltanto nel tardo pomeriggio od in serata.
Tra gli aerei che sorvolarono il teatro della tragedia era anche l’idrovolante CANT Z. 506 della 186a Squadriglia Ricognizione Marittima (di base ad Augusta) sul quale si trovava come osservatore il guardiamarina Alfonso Di Nitto. Questi descrisse così le operazioni di ricerca nel suo diario: «9 NOVEMBRE – Domenica. Non ceno – Questa mattina in missione speciale con 506 per ricerca naufraghi convoglio 7 piroscafi sdrumati dagli inglesi. Alle 08.30 in Lat. = 37 ° 10 Long. = 17° 40 avvisto due CC.TT. OR – GR a lento moto rotta NW. Alle 9 in Lat. = 37° 10 – Long. = 17° 50 avvisto la 3a. divisione con rotta 130. Alle 9.10 in Lat. = 37° 10 Long- = 18° 10 1 piroscafo 1 cisterna in fiamme, 3 CC.TT. uno dei quali Libeccio alle 11.30 affonda. In zona molti naufraghi che segnalo ai CC.TT. Alle 11 una nave ospedale in Lat. = 36° 50 Long. = 17° 50 (Arno) alla quale indico la zona sulla quale poi dirige. 10 NOVEMBRE – Lunedì. Questa mattina in volo con 506 per ricerca naufraghi nella zona nota. Arrivo ad avvistare Cefalonia e Zante. Mi viene il desiderio di andare ad ammarare ad Argostoli a trovare Vincenzo! Arrivato in zona avvisto un naufrago a mg. 8 per 290° dalla cisterna [che era la Minatitlan]. Lo segnalo e gli lancio una cassetta viveri con fumate. Nel pomeriggio viene salvato. 11 NOVEMBRE – Martedì. In volo per la solita ricerca naufraghi. App. n° 1-170 S.T. Colli 1° pilota – Zona di relitti e nafta molto più vasta – Non avvisto naufraghi. Alle 10.35 in Lat. = 37° 20 Long. = 18° 05 avvisto 1 Blenheim a sinistra a quota 300 col quale sostengo combattimento per 20 minuti. Il velivolo nemico esegue tre passaggi 2 in prua ed uno laterale – Nessun colpo a bordo. Mitragliera da 12.7 inceppata poi ultimi 5 m. disimpegno. Nemico sicuramente colpito – Probabilmente abbattuto». Lo stesso Alfonso Di Nitto sarebbe scomparso in mare poco più di un mese dopo, il 18 dicembre 1941, con tutto l’equipaggio del suo idrovolante.


Altre due foto aeree della Minatitlan in fiamme il mattino del 9 novembre (sopra: dal citato saggio di Francesco Mattesini; sotto: g.c. STORIA militare)


In tutto vennero tratti in salvo 764 naufraghi delle nove navi affondate: 401 dal Maestrale, 189 dall’Euro, 48 dall’Oriani, 35 dall’Alpino, 34 dalla Virgilio, 21 dall’Arno, 20 dal Fuciliere, undici dal Bersagliere.
Una lancia del Rina Corrado con 13 superstiti, evidentemente sfuggita alle ricerche, raggiunse Valona, in Albania, dopo quattro giorni di navigazione.
Soltanto 6 di questi 764 sopravvissuti appartenevano all’equipaggio della Minatitlan.

Le vittime tra l’equipaggio civile della Minatitlan:
(si ringraziano Carlo Di Nitto e Michele Strazzeri)

Tommaso Abbonato, marinaio, da Trapani
Luigi Afano (od Ofano), ingrassatore, da Torre del Greco
Angelo Alloi, cameriere, da Genova
Camillo Amodio, mozzo, da Napoli
Giuseppe Annunziato, ingrassatore, da Torre del Greco
Cesare Azzaroli, operaio meccanico, da Genova
Giovanni Cervio, operaio meccanico, da Chiavari
Antonio Colace, marinaio, da Parghelia
Carmelo D'Arrigo, marinaio, da Catania
Virgilio De Angelis (o De Michelis), operaio meccanico, da Porto Longone
Pietro De Vicaris, ingrassatore, da Napoli
Emanuele Fresco, cambusiere, da Genova
Giobatta Ghiggini, secondo cuoco, da Lerici
Guido Incagliati, comandante, da Guspini
Angelo Lagomarsino, secondo ufficiale, da Chiavari
Giovanangelo La Grasta, carbonaio, da Molfetta
Giuseppe Latella, marinaio, da Villa San Giovanni
Andrea Longobardi, capo fuochista, da Torre del Greco
Domenico Lucifero, garzone di camera, da Messina
Pietro Martini Covacci, secondo ufficiale di macchina, da Lesina
Costantino Novella, primo elettricista, da Rivarolo Ligure
Corrado Orlando, marinaio, da Pozzallo
Giuseppe Palomba, garzone di cucina, da Torre del Greco
Pierino Passalacqua, primo ufficiale di macchina, da Arcola
Rosario Pavone, direttore di macchina, da Genova
Agostino Piro, primo cuoco, da Casamicciola
Teodoro Previd, primo elettricista, da Trieste
Francesco Romano, carbonaio, da Torre del Greco
Antonio Salvemini, giovanotto di prima, da Molfetta
Giovanni Sanna, tanchista, da Silico
Giovanni Solari, primo ufficiale, da Zoagli
Donato Sparano, fuochista, 56 anni, da Somma Vesuviana
Liberato Trichilo, garzone, da Siderno Marina
Salvatore Tronu, nostromo, da Cagliari
Francesco Ventrilla, operaio meccanico, da Catania
Arturo Vergani, secondo ufficiale di macchina, da Milano
Nicola Vuoso, mozzo, da Barano d'Ischia
Guido Zino, terzo ufficiale, da Savona



L’atto di scomparizione dei membri dell’equipaggio civile (g.c. Michele Strazzeri)



Non è stato ad ora possibile risalire ai nomi delle quattordici vittime dell’equipaggio militare, salvo che per il regio commissario cap. G.N. Rosario Toscano e per tre militari di passaggio, Luigi Pasquazi, Mariano De Luca ed il caporale maggiore Guido Mascanzoni.

L’atto di scomparizione in mare di Luigi Pasquazi e Mariano De Luca, nel registro di Stato civile del Comune di Cave (Archivio di Stato di Roma via Portale Antenati, si ringrazia Riccardo Traversi)




La distruzione del convoglio “Duisburg” ebbe un effetto particolarmente deleterio sulla situazione delle forze italo-tedesche in Africa Settentrionale, che si ritrovarono indebolite e a corto di rifornimenti dinanzi all’offensiva britannica "Crusader", iniziata il 18 novembre e conclusasi a fine dicembre, dopo alterne vicende, con la conquista britannica dell’intera Cirenaica, per la seconda volta dall’inizio della guerra. Le forze dell’Asse avevano dovuto abbandonare l’assedio di Tobruk a inizio dicembre, a causa della mancanza di rifornimenti. Mussolini scrisse a Hitler in una lettera, facendo riferimento alla distruzione del convoglio “Duisburg”: "L’esito della battaglia fu compromesso sul mare, non sulla terra. Gravissima fu la perdita dell’intero convoglio di sette navi, che portavano reparti tedeschi di carri armati".
Il genero di Mussolini e ministro degli Esteri, Galeazzo Ciano, descrisse l’accaduto nel suo diario in termini estremamente caustici, come del resto era solito fare: «9 novembre. Dal 19 settembre non avevamo più tentato di far passare un convoglio per la Libia [questa affermazione non risponde a verità: tra il 19 settembre – data dell’affondamento dei grossi trasporti truppe Neptunia ed Oceania – ed il 9 novembre erano stati inviati in Libia oltre una dozzina di convogli]: ogni prova era stata pagata a caro prezzo e le perdite subite dal naviglio mercantile erano salite a proporzioni tali da dissuadere da ogni ulteriore esperimento [le perdite nei mesi di settembre e ottobre 1941 tra i rifornimenti inviati in Libia via mare erano salite al 23 %, rispetto al 9 % del mese di agosto. Come detto, comunque, ciò non arrestò l’invio di convogli, contrariamente a quanto affermato da Ciano, fino all’arrivo della Forza K il 21 ottobre]. Stanotte si è voluto nuovamente tentare: la Libia abbisogna di materiali, di armi, di carburanti ogni giorno di più. E il convoglio di sette piroscafi è partito, scortato da ben 10 cacciatorpediniere e due incrociatori da 10.000, perché si sapeva che Malta ospitava da qualche tempo due navi di superficie inglesi destinate a far da lupo nel gregge. Lo scontro è avvenuto, con risultati inesplicabili. Tutti, dico tutti i piroscafi affondati, uno, forse due o tre caccia perduti. Gli inglesi sono rientrati dopo aver fatto strage. Naturalmente, oggi, i nostri vari Stati Maggiori tirano fuori il solito immancabile e immaginario affondamento di un incrociatore inglese a mezzo di aerosiluro; nessuno ci crede. Mussolini stamani era depresso e indignato. La cosa avrà indubbiamente ripercussioni profonde in Italia, in Germania e soprattutto in Libia. In queste condizioni non abbiamo proprio alcun diritto di lamentarci se Hitler manda Kesselring a fare il Comandante del Sud. 10 Novembre. Le fotografie della ricognizione aerea danno le quattro navi inglesi ormeggiate nel porto di Malta. Ciò nonostante nel bollettino si è annunciato che uno degli incrociatori è stato colpito. Pricolo lo sostiene e porta come argomento il fatto che questa nave e andata ad ormeggiarsi vicino al bacino di ormeggio. Il che corrisponde a dichiarare che un uomo è probabilmente un po’ morto perché è andato ad abitare vicino al cimitero.  Buffoni. Tragici buffoni che hanno condotto il paese alla necessità odierna di accettare, anzi d’invocare l’intervento straniero per averne protezione e difesa. Ormai, fino a quando non saranno venuti i tedeschi, l’aviazione inglese dominerà i nostri cieli al pari dei propri. Ho domandato a Cavallero che cosa sarà fatto all’ammiraglio responsabile. Intanto, fino a ier sera Cavallero ne ignorava persino il nome. Gli ho ricordato che l’Italia democratica di Ricasoli ebbe il coraggio di mettere sotto processo Persano quando dopo Lissa telegrafò di essere rimasto padrone delle acque. L’ho detto anche a Mussolini, che continua ad essere depresso e che giudica - a ragione - la giornata di ieri quale la più umiliante dal principio della guerra. “Sono ormai 18 mesi che attendo una buona notizia, che non giunge mai. Sarei fiero di mandare anche io un telegramma come quello che Churchill ha mandato al suo Ammiraglio, ma invano da troppo tempo ne ricerco l’occasione.” (…) 13 novembre. Alla Marina sono scandalizzati di quanto è accaduto in Mediterraneo, ma con un Comando come l’attuale è impossibile attendersi meglio. Bigliardi mi ha descritto le fasi dell’incontro. Tutto sarebbe inspiegabile se non si sapesse che l’Ammiraglio Brivonesi era stato giudicato, da Cavagnari, inidoneo al Comando».
La condotta dell’ammiraglio Brivonesi e del capitano di vascello Bisciani, ritenuta tardiva e poco decisa, venne duramente criticata dagli alti Comandi della Marina; entrambi vennero rimossi dal comando, e Brivonesi fu anche deferito alla corte marziale. Tanto l’ammiraglio Wladimiro Pini, comandante del Dipartimento Militare Marittimo del Basso Tirreno, quando il capo di Stato Maggiore della Marina, ammiraglio Arturo Riccardi, ed il comandante della Squadra Navale, ammiraglio Angelo Iachino, furono molto critici verso il comportamento dei cacciatorpediniere della scorta diretta. Contemporaneamente, i rappresentanti della Marina tedesca in Italia (e specialmente il contrammiraglio Werner Löwisch, addetto navale tedesco a Roma), stigmatizzarono le gravi deficienze della Marina italiana nel combattimento notturno – dall’inadeguatezza dell’addestramento all’arretratezza del materiale e degli strumenti ottici a disposizione per il tiro di notte – che avevano facilitato questo successo britannico, e che ponevano le navi italiane in così gravi condizioni di inferiorità rispetto a quelle britanniche ogni volta che calava il buio.
La distruzione del convoglio “Duisburg” creò un’atmosfera di nervosismo ed insicurezza presso Supermarina, e determinò una nuova interruzione del traffico convogliato verso Tripoli: per una decina di giorni vennero inviati in quel porto solo convogli veloci di unità militari in missione di trasporto e qualche convoglietto di piroscafi di modesto tonnellaggio (attorno alle 1000 tsl), mentre venne di converso intensificato l’invio di convogli a Bengasi, porto più vicino alla prima linea anche se in grado di ricevere meno navi, ma soprattutto raggiungibile seguendo una rotta – partenza da Taranto o Brindisi ed eventuale scalo intermedio a Navarino – meno esposta ad eventuali attacchi navali provenienti da Malta.
Questi provvedimenti però ebbero comunque l’effetto di determinare una riduzione della quantità complessiva di rifornimenti giunti in Libia: tra perdite in mare e mancati invii, proprio il 9 novembre Rommel scriveva al Comando Supremo della Wehrmacht che a fine ottobre erano giunte a Bengasi solo 8093 tonnellate di rifornimenti su 60.000 previste (dato che per la verità sembra esagerato, se si considera che nel mese di ottobre le perdite di materiale sulle rotte della Libia furono del 23 %, dunque il 77 % dei rifornimenti partiti era pur giunto in Libia; ma forse l’aumento delle perdite provocò una riduzione nel flusso dei convogli e quindi parte dei materiali non partì neanche), che un terzo dell’artiglieria e vari reparti comunicazioni da impiegare nel previsto attacco contro Tobruk non sarebbero arrivati prima del 20 novembre, e che su tre divisioni italiane chieste per l’offensiva di novembre ne era arrivata soltanto una, per giunta a ranghi incompleti. Il mese di novembre 1941 fu in effetti il più nero della “battaglia dei convogli”: le perdite tra i carichi inviati in Libia sfiorarono il 70 %, percentuale mai lontanamente raggiunta prima e mai più raggiunta in seguito (in generale, anche nei mesi peggiori di fine 1942 e inizio 1943 le perdite rimasero sempre molto al disotto del 50 %: in ventuno dei trentuno mesi della battaglia dei convogli per la Libia, le perdite di rifornimenti in mare rimasero al di sotto del 20 %); e per il rifornimento più importante, il carburante, questa percentuale raggiungeva un impressionante 92 %. Pesava molto, in questo dato, anche la perdita della Minatitlan con le sue novemila tonnellate di carburante. Il 13 novembre Rommel volò a Roma a discutere la situazione con il maresciallo Cavallero; quest’ultimo reiterò le richieste italiane di un invio di bombardieri della Luftwaffe per riprendere il martellamento aereo di Malta.
Il comandante della Forza K, capitano di vascello Agnew, per parte sua descrisse così le motivazioni del suo successo contro il convoglio “Duisburg”: «a) accuratissimo messaggio del Maryland nel pomeriggio dell’8 novembre in seguito al quale la Forza K salpò da Malta alle 17.30; b) eccezionale fortuna della divisione navale britannica nell’intercettare subito il suo obiettivo; c) addestramento specifico della stessa Forza K alla ricerca e alla distruzione dei convogli nemici in ore notturne; d) grossolana negligenza da parte della Marina italiana». Per questa vittoria, Agnew venne insignito dell’Ordine del Bagno.
Il primo tentativo di inviare a Tripoli un altro convoglio di mercantili di medio-grandi dimensioni dopo il disastro del “Duisburg”, il 21 novembre 1941, fallì a causa degli attacchi aerei e subacquei britannici, che provocarono il danneggiamento di due incrociatori ed il rientro in porto dei mercantili; fu necessario proseguire con espedienti di emergenza (missioni di trasporto da parte di navi da guerra, invio di mercantili veloci isolati che avevano più probabilità di sfuggire all’avvistamento, incremento del traffico con Bengasi) fino a metà dicembre, quando una serie di eventi concomitanti determinarono un forte indebolimento delle forze aeronavali britanniche nel Mediterraneo, dando così inizio ad un periodo di rinnovata “tranquillità” per i convogli italiani.
La Forza K sarebbe rimasta una spina nel fianco delle linee di rifornimento via mare dell’Asse fino al 18 dicembre 1941, quando, in caccia di convogli al largo di Tripoli, andò a finire su un campo minato posato in quelle acque da unità italiane proprio per una simile evenienza.

Il Governo italiano (in nome e per conto di varie imprese italiane, tra cui la società Ansaldo) e la Petróleos Mexicanos regolarono le questioni tra loro pendenti, relative alla confisca “incrociata” delle petroliere avvenuta nell’aprile 1941, con un accordo stipulato a Città del Messico il 10 luglio 1952 tra l’ambasciatore d’Italia in Messico, dottor Luigi Petrucci, ed il senatore Antonio J. Bermudez, direttore generale della Pemex. Il punto b) della clausola prima dell’accordo recitava: «Il Governo italiano riconosce di dovere a Petroleos Mexicanos la somma di Doll. 8.990.013,00 a titolo di indennità per i danni subiti da tale istituzione, a conseguenza della perdita delle navi cisterna "Panuco" e "Minatitlan" costruite dall'Ansaldo S. A.; e a qualsiasi altro titolo relativo al contratto  di  costruzione delle navi cisterna "Poza Rica", "Panuco" e "Minatitlan"; o per fatti posteriori relativi a tali navi; in modo che la somma menzionata rappresenti una liquidazione definitiva tra Petroleos Mexicanos e Ansaldo S. A., per tutto cio' che concerne le tre navi cisterna menzionate». 



1 commento:

  1. mio secondo zio (fratello di mio nonno)era uno dei sei superstiti della Minatitlan....ricordi vividi nella sua memoria fino agli ultimi giorni di vita, avvenuta nel 1992....

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