Sommergibile oceanico della classe Marcello (1059 tonnellate di
dislocamento in superficie, 1313 in immersione). Il Cappellini ed il gemello Comandante
Faà di Bruno furono rispettivamente la penultima e l’ultima delle undici unità
della classe Marcello: per via delle modifiche apportate rispetto al progetto
originale, questi due battelli formarono la “classe Marcello migliorata”,
talvolta chiamata anche “classe Cappellini”. La principale differenza rispetto
agli altri sommergibili della classe (tranne Mocenigo e Veniero) consisteva
nel tipo di motori diesel: Cappellini
e Faà di Bruno erano muniti di motori
diesel FIAT, mentre gli altri avevano motori CRDA.
Durante la seconda guerra mondiale il Cappellini effettuò 12 missioni in Atlantico e due in Mediterraneo,
percorrendo 73.062 miglia nautiche e trascorrendo 463 giorni in mare. Affondò
cinque navi mercantili per complessive 33.198 tsl.
Insieme al sommergibile Luigi
Torelli, fu l’unica unità navale a prestare servizio in tutte e tre le
Marine delle principali potenze dell’Asse.
Breve e parziale
cronologia.
25 aprile 1938
Impostazione nei cantieri Odero Terni Orlando del Muggiano (La Spezia).
14 maggio 1939
Varo nei cantieri Odero Terni Orlando del Muggiano.
23 settembre 1939
6 giugno 1940
Quattro giorni prima che l’Italia entri nella seconda guerra mondiale,
il Cappellini (capitano di corvetta
Cristiano Masi) parte da Cagliari diretto in un’area d’agguato situata tra
Casablanca, Madera e le Canarie: sarà così uno dei primi sommergibili italiani
ad operare in Atlantico. È stato scelto per via della sua recente costruzione,
che ne fa uno dei sommergibili oceanici nelle migliori condizioni meccaniche.
10 giugno 1940
All’entrata in guerra dell’Italia, il Comandante Cappellini fa parte della XII Squadriglia Sommergibili
(1° Gruppo Sommergibili), di base a La Spezia, che forma insieme ai gemelli Comandante Faà di Bruno, Mocenigo e Veniero ed ai meno recenti Glauco
ed Otaria.
All’atto della dichiarazione di guerra, come detto, il Cappellini è già in navigazione verso
l’Atlantico.
14 giugno 1940
In serata, mentre si appresta ad attraversare lo Stretto di Gibilterra,
il Cappellini viene attaccato presso
Capo Negro (a sud di Punta Almina) dal peschereccio antisommergibili britannico
Arctic Ranger; si sottrae alla caccia
con un’immersione rapida.
15 giugno 1940
Alle 00.30 il Cappellini,
mentre sta per doppiare Punta Almina, viene nuovamente avvistato, stavolta dal
cacciatorpediniere britannico Vidette,
e sottoposto a caccia con bombe di profondità; reagisce col lancio di un
siluro, ma avvista anche una seconda nave. A questo punto si rifugia nelle
acque del Marocco spagnolo.
(Per altra fonte il Cappellini
avrebbe avvistato prima l’Arctic Ranger
e poi il Vidette la sera del 14, con
reciproco scambio di siluri, poi avrebbe fatto perdere le proprie tracce ma
sarebbe stato avvistato da un altro cacciatorpediniere il 15, il che lo avrebbe
indotto a rifugiarsi a Ceuta. Secondo un’altra versione ancora, la sera del 14
sarebbe stato avvistato dall’Arctic
Ranger, si sarebbe disimpegnato con un’immersione rapida; alle 00.30
avrebbe avvistato un gruppo di unità nemiche, tra cui il Vidette, ed avrebbe lanciato un siluro contro di esse; avrebbe poi
elso la caccia, ma dopo l’avvistamento di un’ulteriore unità britannica sarebbe
sttao costretto a rifugiarsi a Ceuta).
Per via dei danni riportati nell’attacco, specie al timone, il Cappellini deve rifugiarsi a Ceuta, dove
entra alle due di notte del 15 giugno, chiedendo alle autorità spagnole l’autorizzazione
a sostare per effettuare alcune riparazioni. Una volta ormeggiato, alle 2.50,
il sommergibile viene ispezionato dall’ingegnere spagnolo Serafín Pérez, che
riferisce al locale comandante della Marina spagnola, Francisco Jiménez, che il
timone verticale di poppa è bloccato e disallineato, e che occorrerà
l’ispezione di un subacqueo per poter accertare la reale entità dei danni
subiti dal battello.
Alle 9.45 un subacqueo s’immerge ed esamina dunque lo scafo, senza
trovare segni di danni esterni; da parte italiana vengono richiesti 15 giorni
di sosta per provvedere alle riparazioni dei danni interni (per altra fonte, 15
giorni sarebbero il tempo necessario per le riparazioni secondo la stima delle
autorità spagnole, e precisamente di Pérez).
Nel frattempo, l’ambasciatore britannico in Spagna invia al Ministro
degli Esteri spagnolo, Juan Beigbeder y Atienza, una lettera nella quale
riferisce «Un sommergibile italiano è stato attaccato e danneggiato da un
cacciatorpediniere inglese il 12 giugno 1940 alle ore 4:00. Il 14 giugno 1940
all’1:31 un altro sommergibile – probabilmente la stesso – è stato visto da un
altro caccia britannico a Punta Almina. Il nostro cacciatorpediniere era al di
fuori delle acque territoriali, ma non ha fatto alcun tentativo di attaccare,
dal momento che il sottomarino era all'interno delle acque territoriali. Questo
non ha dissuaso il sommergibile dal lanciare un siluro contro il
cacciatorpediniere». Il messaggio britannico conclude che un tale attacco,
lanciato dalle acque territoriali di un Paese neutrale, costituisce una chiara violazione
delle leggi internazionali, e chiede alle autorità spagnole per quanto tempo
esse intendano concedere al sommergibile italiano di restare nelle loro acque.
Francisco Jiménez risponde redigendo un rapporto che afferma: "Il
14 giugno 1940 alle ore 2:00 è entrato in porto, navigando in superficie e con
le luci di navigazione accese, il
sommergibile Cappellini. Si è
presentato alle autorità portuali il capitano di corvetta signor Cristiano Masi,
che ha confermato che era il sommergibile Cappellini
della Marina Militare Italiana e di recentissima costruzione. Ha detto che
veniva da est ed 3,5 miglia da Hacho è stato circondato da un incrociatore, due
cacciatorpediniere e due unità leggere, tutti inglesi, che hanno gettato bombe
di profondità. Vedendosi circondato, ha lanciato un siluro ed ha virato verso
la terra, poi entrando in acque spagnole. Non ritiene di avere alcuna avaria e
pensa di ripartire prima che siano trascorse le ventiquattr’ore [concesse per
la sosta in un porto neutrale]".
Il rapporto si conclude dicendo che, nell’effettuare le prove finali
prima di ripartire entro l’orario prefissato, il Cappellini ha manifestato seri problemi al timone verticale di
poppa, che gli hanno impedito di salpare; per questo, alle 9 il Ministro della
Marina spagnolo stabilisce che il sommergibile non potrà ripartire e che dovrà
essere legato al molo del frangiflutti di ponente, con un servizio di vigilanza
per la sua “protezione”. Alle 9.45 ordina una nuova ispezione da parte di un
subacqueo, ed alle 10.30 del 17 giugno delibera che personale e materiali
necessari alle riparazioni siano messi a disposizione del Cappellini.
In realtà, l’avaria al timone è stata soltanto simulata per prendere
tempo: l’articolo 14 della XIII Convenzione dell’Aja, infatti, fissa in
ventiquattr’ore il limite massimo consentito per la sosta di un’unità da guerra
di un Paese belligerante in un porto neutrale; a meno che l’unità in questione
non sia afflitta da avarie, che ne impediscano la partenza.
Le autorità spagnole, la cui neutralità è di fatto piuttosto favorevole
all’Asse, sono pronte a “chiudere un occhio” e lasciare che il Cappellini riparta, nonostante le
pressioni britanniche. Il governo del Regno Unito chiede infatti delucidazioni
sui motivi per i quali il Cappellini
deve trattenersi a Ceuta, ed anche che la Spagna chiarisca la propria posizione
“legale” nell’accogliere in porto unità di Paesi belligeranti, essendo Paese
neutrale.
L’equipaggio scende a terra, fingendo di essere in franchigia, mentre
comandante e stato maggiore vanno a teatro; calata la notte, tutti tornano
furtivamente a bordo.
Nelle prime ore del 23 giugno, il Cappellini
lascia silenziosamente Ceuta, navigando in superficie ma a luci spente, e
riesce a far perdere le proprie tracce, eludendo la vigilanza di sei
cacciatorpediniere britannici inviati a sorvegliare le unità in uscita dal
porto.
Questa fuga causerà un’irritata reazione dei rappresentanti diplomatici
britannici, i quali chiederanno alle autorità spagnole chiarimenti su come il Cappellini abbia potuto lasciare Ceuta
senza essere visto, accusandole di averli male informato e di avere di fatto
coperto la fuga delle autorità italiane. Gli spagnoli rispondono di non avere
colpa, in base alle norme del diritto internazionale: rammentano che in base
all’articolo 14 della Convenzione dell’Aja "Una nave da guerra [di
nazione] belligerante non può prolungare la sua permanenza in un porto neutrale
al di là del termine legale, se non per causa di guasti o per ragioni legate allo
stato del mare. Dovrà partire quando cesserà la causa del ritardo. Le regole
per limitare la permanenza nei porti, porti e acque neutrali non si applicano
alle navi da guerra impegnate esclusivamente in una missione filantropica, religiosa
o scientifica". Ed il Cappellini
si trovava (in avaria) nella situazione descritta dall’articolo 14, fino a
quando "...ha lasciato il porto eludendo la sorveglianza inglese eludere,
che con sei unità era esercitata in modo permanente intorno Punta Almina, al
punto da rendere necessario in alcune occasioni inviare una motovedetta
spagnola per invitarle a lasciare le acque territoriali."
Sedici giorni dopo l’inizio del “caso Cappellini”, l’ambasciata britannica invia al governo spagnolo la
seguente lettera: "Il 21 giugno 1940 la ministro degli Esteri ha informato
l'ambasciatore britannico che il governo spagnolo aveva accolto un sommergibile
italiano a Ceuta. L'ambasciatore sapeva che il sommergibile era sfuggito,
"nonostante le misure adottate per evitarlo", la notte del 23 giugno
1940. Non vi è alcun motivo di dubitare che questo sommergibile è lo stesso che
il 12 giugno 1940 si è rifugiato in acque territoriali spagnole per evitare
l'attacco di un cacciatorpediniere inglese e di conseguenza il 14 giugno 1940,
da queste acque sicure, ha deliberatamente lanciato un siluro contron uno dei
nostri cacciatorpediniere, che era fuori di queste acque, e si era astenuto
dall’intraprendere azioni od attaccare. Questa ambasciata emetterà una protesta
formale al governo spagnolo contro di esso, in particolare contro il fallimento
delle autorità competenti nell’adottare misure per evitare che questo
sommergibile fuggisse. Siamo stati ora informati che il sommergibile ha
superato il margine di 24 ore perché era stato danneggiato ed è stato dato più
tempo per riparare il danno. L'ambasciata vuole sottolineare che è obbligo di
un Paese neutrale di informare entrambe le parti sulle circostanze che si sono
verificate, se si è concesso tempo supplementare e, in caso affermativo, quanto
tempo è stato dato. Questa informazione non ci è mai stata inviata. Quando
l’addetto navale ha chiesto informazioni al Ministro della Marina, questi gli
ha insistentemente detto che sarebbe dovuto andare al Ministro degli Affari
Esteri, ma era chiaro che il ministro degli Esteri, che credeva che il
sommergibile fosse stato accolto legalmente, non era stato debitamente
informato dal Ministro della Marina. In questo stato di cose, l'Ambasciata
ritiene giustificato presentare una serie di questioni in un memorandum
allegato, così come richiedere alle autorità spagnole di informarla che i passi
che saranno compiuti in futuro per evitare il ripetersi di questi abusi
flagranti delle acque territoriali spagnole. L'urgenza di questo problema si
riflette nel fatto che i sommergibili italiani sono quotidianamente attaccati
da imbarcazioni del nostro impero (se ne sono contati circa 12) ed il pericolo
di ulteriori incidenti dovuti a sommergibili italiani che cerchino di sfuggire
è evidente. L'ambasciata è convinta che sia giusto ammettere che questa azione
disciplinare sia presa nei confronti dei responsabili per la fuga di questo
sottomarino".
L’8 luglio 1940 il Ministero degli Esteri spagnolo risponde con una
nuova lettera, ripetendo che il sommergibile ha eluso la sorveglianza
esercitata permanentemente da sei navi britanniche attorno a Punta Almina, e
che le citate norme della convenzione dell’Aja non prevedono eccezioni per i
sommergibili; il fatto che durante la prima guerra mondiale la Spagna, dietro pressioni
dell’Intesa, abbia accettato di internare i sommergibili che entravano nei
propri porti non costituisce un precedente, perché nessun impegno del genere era
stato preso per il futuro. Si cita anche il caso del José Luís Díez, cacciatorpediniere repubblicano, che durante la
guerra civile spagnola ha potuto trattenersi a Gibilterra per cinque mesi per
riparazioni.
Da parte britannica si chiede come fosse possibile che ancora il 21
giugno il Ministro degli Esteri spagnolo non fosse al corrente della presenza a
Ceuta del Cappellini, aggiungendo che
è stata proprio una sua formale rassicurazione ad indurre i britannici a
ritirare le proprie unità adibite alla sorveglianza (così che il Cappellini avrebbe eluso la sorveglianza
spagnola, e non britannica, nel partire da Ceuta). Si ribadisce poi la propria
interpretazione sulla necessità che le autorità del Paese neutrale informino
entrambe le parti sul prolungamento della sosta permessa a nave belligerante,
sui suoi motivi e sulla sua durata; nel caso del José Luís Díez, per esempio, i britannici hanno annunciato
pubblicamente il tempo concesso alla nave per le riparazioni, mentre nel caso
del Cappellini i britannici non sono
stati informati non solo di questo, ma neanche dell’entità dei danni subiti dal
sommergibile. L’ambasciata britannica sollecita la Spagna ad attivarsi per
evitare il ripetersi di simili “incidenti”, precisando che gli attacchi di navi
britanniche contro sommergibili italiani sono in aumento, e che pertanto in
futuro aumenteranno i tentativi, da parte di sommergibili italiani, di
rifugiarsi nelle acque territoriali spagnole. Si conclude dicendo che da parte
britannica non si intende violare le acque territoriali della Spagna, ma che il
governo britannico si riserva di adottare le misure ritenute più opportune
contro i sommergibili che violano le acque territoriali dei Paesi neutrali.
Viene anche inviato un “questionario” nel quale si chiedono le circostanze
dell’arrivo e della partenza da Ceuta del Cappellini,
il lasso di tempo concesso, le misure prese per la sorveglianza da parte
spagnola.
Il caso viene chiuso il 24 giugno, quando il Ministro degli Esteri
spagnolo, contraddicendo quanto detto fino a quel momento, chiude la questione
affermando che la Spagna non ha mai firmato la convenzione dell’Aja, e dunque
non è vincolata dalle sue regole.
Ai comandi italiani, la sosta del Cappellini
a Ceuta ha permesso di comprendere il funzionamento del dispositivo britannico
di sorveglianza dello stretto di Gibilterra, suddiviso in sei settori, ciascuno
dei quali presidiato da unità sottili.
27 giugno 1940
Arriva a La Spezia, dove il comandante Masi viene avvicendato dal
capitano di corvetta Salvatore Todaro.
Messinese, 32 anni, Todaro è destinato a diventare una delle figure più leggendarie del sommergibilismo italiano, famoso tanto per il suo ardimento in battaglia quanto per l'umanità mostrata verso i naufraghi delle navi da lui stesso affondate.
Messinese, 32 anni, Todaro è destinato a diventare una delle figure più leggendarie del sommergibilismo italiano, famoso tanto per il suo ardimento in battaglia quanto per l'umanità mostrata verso i naufraghi delle navi da lui stesso affondate.
A seguito della creazione della nuova base atlantica italiana di
Betasom, stabilita nella città francese di Bordeaux, si decide di inviarvi
anche il Cappellini. Il trasferimento
è programmato per il mese di agosto, ma dev’essere rimandato a causa di avarie.
Salvatore
Todaro, comandante del Cappellini dal
giugno 1940 al settembre 1941 (foto Marina Militare). Figura tra le più
leggendarie del sommergibilismo italiano, iniziò la carriera in Marina nel
1923, entrando all’Accademia Naval di Livorno all’età di quindici anni. Ne uscì
come guardiamarina nel 1927; dopo aver prestato servizio su navi da guerra,
sommergibili ed anche aerei (come osservatore), il 27 aprile 1933 fu coinvolto
in un incidente aereo nel quale subì una lesione della colonna vertebrale che
lo costrinse a portare il busto per il resto della sua vita. Proseguì nondimeno
la sua carriera in Marina, fino ad ottenere il comando del Cappellini. Personaggio molto peculiare, sulla sua personalità la
storia si mescola alla leggenda: si racconta che conducesse uno stile di vita
austero, quasi ascetico; che praticasse la ginnastica almeno una volta al
giorno, esigendo lo stesso dai suoi uomini; che fosse vegetariano; che
praticasse la yoga; che collezionasse libri rari ed antichi di letteratura, matematica,
filosofia ed astronomia; che avesse un interesse particolarmente acceso nei
confronti della psicologia e della psicanalisi, studiando e sperimentando egli
stesso le teorie di Freud e Jung; che sperimentasse l’ipnosi e leggesse anche
libri di parapsicologia e persino di magia, ragion per cui era noto anche con
il soprannome di “Mago Bakù”. Alcuni racconti sembrano persino attribuirgli
capacità divinatorie. A dispetto delle tante stranezze, o forse proprio grazie
ad esse, Todaro era molto popolare tra i suoi uomini; carismatico e ardito in
battaglia, esigeva – in una Marina ancora fortemente “classista” come quella
italiana, dove il trattamento degli ufficiali differiva ancora molto da quello
dei marinai – che sul suo sommergibile il vitto fosse lo stesso per tutti,
senza distinzione di grado. Di lui ancora si racconta che diffidasse dei
siluri, ritenendoli poco affidabili, e prediligesse il cannone, come in effetti
sembrerebbe dalla dinamica dei suoi attacchi; aveva una concezione cavalleresca
della guerra sul mare – guerra contro le navi, secondo il suo modo di vedere,
non contro gli uomini –, e la sua condotta negli episodi del Kabalo e dello Shakespear, descritta più sotto, gli valse il soprannome di “gentiluomo
del mare” e quello meno entusiastico, da parte di chi riteneva le sue azioni
umanitarie un’anacronistica e pericolosa perdita di tempo, di “Don Chisciotte
del mare”. A lui la Marina italiana, dopo averlo decorato alla memoria di
Medaglia d’Oro al Valor Militare, ha intitolato una corvetta in servizio dal 1966
al 1994 ed un sottomarino entrato in servizio nel 2006.
29 settembre 1940
Parte diretto a Bordeaux, al comando del di corvetta Salvatore Todaro. Fa
parte del gruppo «Da Vinci» (Cappellini, Nani, Leonardo Da Vinci, Glauco, Otaria, Pietro Calvi, Enrico Tazzoli, Argo e Veniero), i cui battelli dovranno attraversare lo Stretto di
Gibilterra in coincidenza con il periodo della luna nuova e del primo quarto,
attaccare il naviglio mercantile nell’Atlantico centro-orientale (per il Cappellini la zona designata sono le
acque di Madera e delle Azzorre) sino al limite dell’autonomia e poi
raggiungere la base di Betasom a Bordeaux.
5 ottobre 1940
Attraversa lo stretto di Gibilterra in immersione. Come accaduto a
molti altri sommergibili durante l’attraversamento dello stretto, incontra
correnti che lo fanno precipitare alla profondità di 140 metri, ben al di sotto
della quota di omologazione.
13 ottobre 1940
Dopo aver oltrepassato lo stretto di Gibilterra e raggiunto il settore
d’agguato (situato tra i paralleli di Vigo e Mogador), il Cappellini intima il fermo al piroscafo jugoslavo Rapin Topic, neutrale, e procede ad
ispezionarlo, per accertare che non trasporti materiali d’interesse bellico.
L’ispezione non rivela nulla di irregolare, così la nave viene lasciata andare.
15 ottobre 1940
Alle 23.15, circa 700 miglia a nordovest di Madera e 800 miglia ad
ovest di Casablanca, il Cappellini
avvista una sagoma che il buio impedisce di identificare con certezza.
Il sommergibile dirige per l’attacco ad elevata velocità, riuscendo
presto ad identificare il bersaglio come un piroscafo che mostra i settori
poppieri (beta 150° circa): si tratta infatti del piroscafo belga Kabalo, di 5186 tsl, unità dispersa del
convoglio OB. 223. Carico di aerei e pezzi di ricambio per aerei, è in
navigazione da Glasgow a Freetown.
Scesa la distanza a circa due chilometri, il Kabalo si accorge di essere inseguito, e volge la poppa al Cappellini, aumentando al contempo la
velocità. Quando la distanza si è ridotta a 1500 metri, il piroscafo apre il
fuoco col cannone poppiero (un pezzo da 102 mm); il suo tiro risulta molto
lungo.
Il Cappellini riduce
ulteriormente le distanze, mantenendo la prua sul Kabalo, in modo da offrire un bersaglio il più ristretto possibile;
giunto a 1000 metri, Todaro accosta in fuori ed ordina di aprire il fuoco.
La terza salva dei cannoni del Cappellini
colpisce il Kabalo a poppa,
scatenando subito un incendio nella stiva di poppa: il cannone del piroscafo,
che si trova nelle vicinanze, deve interrompere il fuoco. Intanto, molte altre
cannonate sparate dal sommergibile colpiscono il Kabalo in plancia ed in corrispondenza della linea di
galleggiamento: il piroscafo rimane immobilizzato, e sbanda sulla sinistra.
Serrate ancora le distanze fino a 500 metri, il Cappellini si porta su beta 90° e lancia un siluro contro il
piroscafo immobilizzato, per affondarlo rapidamente e così evitare che possa
cercare di riprendere il tiro: il siluro, però, passa sotto lo scafo del Kabalo, senza esplodere. Todaro fa
allora lanciare un secondo siluro, da 533 mm, e poi un terzo da 450 mm, ma
fanno entrambi la stessa fine del primo: se ne vedono distintamente le scie, ma
non si verificano esplosioni; Todaro attribuisce tale fenomeno a forti
irregolarità della traiettoria verticale, causate dal mare agitato (forza 4-5).
Per non sprecare altri siluri, Todaro decide di finire il Kabalo a cannonate: il Cappellini riprende perciò il tiro, finché
alle quattro del mattino del 16 ottobre il Kabalo
affonda in posizione 31°59’ N e 31°20’ O (o 32°20’ N e 31°14’ O; a 720 miglia
per 268° dal faro di Punta Pardo, sull’isola di Madera). Tra l’equipaggio del
piroscafo vi è una vittima, il marinaio congolese Pierre Essende.
Affondata la nave, il comandante Todaro decide di prestare soccorso ai
naufraghi: dapprima il Cappellini,
sentito un fischietto, setaccia con un proiettore la superficie del mare ed
avvista cinque uomini che hanno abbandonato la nave all’ultimo momento, su un
canotto che si è poi capovolto, facendoli finire in mare; i cinque (tra cui il
terzo ufficiale del Kabalo, Reclercq)
vengono issati a bordo, e Todaro si toglie il maglione per darlo a Reclercq,
tremante per il freddo. Poi, il Cappellini
si mette alla ricerca delle due scialuppe sulle quali ha preso posto il resto
dell’equipaggio del Kabalo.
Il piroscafo belga Kabalo (da “Costituzione e attività operativa di Betasom nel 1939-1940” di Francesco Mattesini, su www.academia.edu) |
Ne trova una, con a bordo 21 uomini (tra cui il comandante della nave,
Georges Vogels, dal quale Todaro s’informa delle condizioni degli occupanti,
assicurandosi che abbiano abbastanza cibo ed acqua): due di essi, feriti
gravemente, vengono trasbordati sul Cappellini,
che a sua volta trasferisce sull’imbarcazione i cinque naufraghi raccolti in
precedenza; poi si separa dalla lancia per mettersi alla ricerca dell’altra
imbarcazione (che ha a bordo 16 naufraghi), promettendo di tornare il giorno
seguente. Dalla radio si viene a sapere che la seconda scialuppa è già stata
trovata e soccorsa dal mercantile Pan American (che sbarcherà poi i naufraghi a
Lisbona); il Cappellini torna allora
alla prima scialuppa e la prende a rimorchio, in attesa di incontrare un
piroscafo neutrale sul quale trasferirli. A causa del mare grosso, il cavo di
rimorchio si spezza tre volte durante la navigazione, ma ogni volta il sommergibile
torna indietro e prende nuovamente a rimorchio la scialuppa, con rischiose
manovre (un marinaio cade in mare, ma si riesce a recuperarlo). Il rimorchio
risulta sempre più difficile, a causa delle condizioni del mare in continuo
peggioramento.
Nel pomeriggio del 17 ottobre la forza del mare provoca lo sfondamento
della scialuppa: gli occupanti vengono allora presi a bordo del Cappellini e sistemati nella falsatorre,
ovunque vi sia spazio, latrine comprese (eccetto il comandante Vogels, che
viene invece ospitato in quadrato ufficiali). Sottocoperta non c’è spazio;
questa sistemazione espone i naufraghi, stipati alla meglio, agli elementi, e
Todaro fa distribuire loro coperte, cibo e sigarette, per alleviare la loro
misera situazione. (Secondo altra versione, inizialmente sarebbero stati
trasferiti sul Cappellini tutti gli
occupanti della lancia tranne quattro, incaricati di governarla, per andare più
velocemente; poi, sfasciatasi la lancia, sarebbero stati presi a bordo anche
gli altri quattro).
Il sommergibile continua così a navigare in emersione per quattro
giorni e quattro notti, percorrendo in tutto 750 miglia, e porta i naufraghi
fino alle Azzorre, sbarcandoli all’alba del 19 ottobre, per mezzo del
battellino pneumatico in dotazione (a gruppi di quattro), in un’insenatura
dell’isola di Santa Maria. Al momento dello sbarco uno degli ufficiali belgi,
il tenente Caudron, chiede di poter conoscere il nome del comandante italiano;
Todaro, uomo di grande modestia, prima si schermisce; poi, quando l’ufficiale
dice di avere quattro figli, e di voler sapere chi dovranno ricordare nelle
loro preghiere, gli risponde di chiamarsi Salvatore Bruno – i suoi due nomi di
battesimo –, tacendo il cognome (il dialogo tra i due sarebbe stato il
seguente: “Dopo aver visto come vi siete comportato con i nemici, mi chiedo
come voi siate con gli amici, e che stima questi debbano avere di voi. Diteci
almeno il vostro nome comandante” – “A che servirebbe? Sono un uomo di mare
come voi e credo che al mio posto avreste fatto lo stesso” – “Ho quattro figli
vorrei che nelle loro preghiere ricordassero il nome di chi salvò il loro
padre” – “Dite ai vostri figli di pregare per Salvatore Bruno”).
Un’altra fonte aggiunge altri particolari, al limite tra storia e
leggenda: prendendo commiato dal comandante del Kabalo, Todaro gli avrebbe riconsegnato una scatola metallica
contenente 100.000 lire, salvata dal naufragio e consegnata all’italiano,
invitandolo a controllare che il denaro ci sia tutto; al che un marinaio
congolese avrebbe porto a Todaro una mela, unico “avere” che aveva potuto
salvare dal Kabalo in affondamento,
dicendogli “Siete un generoso, signore”.
Terminato questo compito, il Cappellini
dirige per tornare nella zona d’agguato, che pattuglierà fino al 26 ottobre.
Il risvolto umanitario dell’affondamento del Kabalo sarà riportato da vari giornali di Paesi neutrali (ed in
particolare in una corrispondenza da Lisbona di Pierre Goemere), come un
“barlume di umanità e cavalleria in una guerra spietata”.
Nel novembre 1940 giungerà al Ministero della Marina una lettera,
scritta in francese da una persona mantenutasi anonima e spedita da Lisbona: “Io vorrei, se possibile, che questa lettera
fosse rimessa al comandante del sommergibile italiano che ha affondato la nave Kabalo.
Fortunato il Paese che ha dei figli come voi! I nostri giornali danno il resoconto
del vostro comportamento verso l’equipaggio di una nave che il dovere vi ha costretto
a silurare. Esiste un eroismo barbaro e un altro davanti al quale l'anima si
mette in ginocchio: questo è il vostro. Siate benedetto per la vostra bontà che
fa di voi un eroe, non solo dell'Italia, ma dell'umanità. Lisbona, novembre
1940”.
Secondo quanto riportato da alcune fonti, l’ammiraglio Karl Dönitz,
comandante della flotta subacquea tedesca, avrebbe apprezzato il valore di
Todaro ma ripreso il suo soccorso dei naufraghi, avendo messo a repentaglio il
sommergibile per salvare dei nemici (il Cappellini
avrebbe potuto essere avvistato ed attaccato durante i quattro giorni di
navigazione in superficie), definendolo “Don Chisciotte del mare”; don Teresio
Bosco, nel suo libro “Di professione uomini”, ha scritto che Todaro avrebbe
risposto alle critiche dicendo “Il fatto ammiraglio è che io in quel momento
sentivo sulla schiena il peso di molti secoli di civiltà. Un ufficiale tedesco,
forse, non avrebbe sentito quel peso”, al che Dönitz avrebbe concluso “Mi sono
meritato questa risposta”, stringendogli la mano.
È però il caso di rilevare che lo scambio di battute tra Todaro e
Dönitz è generalmente riportato da fonti “secondarie” e che forse appartiene
più all’alone di leggenda che avvolge la straordinaria figura di Salvatore
Todaro, che non alla storia propriamente detta. Un altro elemento di questa
“leggenda” sarebbe la preferenza accordata da Todaro al cannone rispetto ai
siluri, ritenuta arma poco affidabile: in effetti tutti gli attacchi da lui
condotti si risolsero in accaniti duelli d’artiglieria combattuti in
superficie.
L’affondamento del Kabalo
porterà alla dichiarazione di guerra tra Italia e Belgio, dichiarazione più
formale che sostanziale, essendo il Belgio nazione occupata da mesi, con un
governo in esilio e più nessuna forza armata (all’infuori di poche truppe nelle
colonie africane). L’affondamento, ad ogni modo, era del tutto giustificato,
dato che la nave trasportava rifornimenti militari per gli Alleati.
Quattro
immagini del salvataggio dei naufraghi del Kabalo
da parte del Cappellini (le prime tre
da www.milistory.net, l’ultima per g.c.
di STORIA militare)
I naufraghi del Kabalo dopo lo sbarco nelle Azzorre (dal blog “La voce del marinaio”) |
5 novembre 1940
Rientra a Bordeaux, concludendo la missione.
Per l'affondamento del Kabalo il comandante Todaro riceverà la seconda delle sue tre Medaglie di Bronzo al Valor Militare, con motivazione "Comandante di sommergibile oceanico, nel corso di una lunga missione di guerra, durante la quale attaccava e distruggeva un piroscafo armato nemico che reagiva col fuoco all'azione del sommergibile, dimostrava di possedere in elevato grado doti di iniziativa, di aggressività, di prontezza e di decisione". Tra l'equipaggio, riceveranno la Croce di Guerra al Valor Militare il tenente di vascello Athos Fraternale, da Ancona (comandante in seconda); il sottonocchiere Pietro Bono, da Mazara del Vallo; i sottocapi cannonieri puntatori scelti Antonio Mulargia, da Bulzi, ed Antonio Nucifero, da Squillace; il sottocapo radiotelegrafista Armando Pancani, da Firenze; i marinai Vittorio Marcon, da Chioggia, e Luigi Magnifico, da Torre del Greco; i cannonieri Nicolò Poma, da Corleone, ed Antonio Celentano, da Vico Equense; il mitragliere Leandro Cecchini, da Venezia; ed il fuochista Giuseppe Bastoni, da Pieve San Giacomo.
Segue un periodo di lavori di adattamento tesi a renderlo più idoneo ad
operare in Atlantico: vengono ridotte le camicie dei periscopi ed incrementate
le dotazioni di munizioni per i cannoni e l’autonomia del sommergibile,
trasformando un doppio fondo in deposito supplementare di nafta ed imbarcando
provviste per due mesi.
Il Cappellini nel novembre 1940 (g.c. STORIA militare) |
22 dicembre 1940
Salpa da Le Verdon (vicino a Bordeaux) per la terza missione in
Atlantico, al comando del capitano di corvetta Salvatore Todaro. Tre sono le
zone assegnate: a levante delle Azzorre, a ponente di Freetown ed a ponente
delle Isole di Capo Verde, per insidiare il traffico marittimo in atto tra Freetown
e l’Inghilterra, lungo le rotte delle Isole di Capo Verde, secondo informazioni
di fonte tedesca. Non è assegnato all’area delle Canarie, ma durante il viaggio
di andata perlustra il mare compreso tra queste isole e la costa africana.
25 dicembre 1940
Arriva al largo di Oporto; non trovando naviglio nemico, prosegue verso
sud in direzione di Funchal (Madera).
29 dicembre-1°
gennaio 1941
Perlustra la rada di Funchal, le rotte tra Madera e Lanzarote ed infine
la rada di La Luz (Gran Canaria), dove arriva si spinge fin quasi
all’imboccatura del porto.
La torretta del Cappellini dopo l’abbassamento delle camicie dei periscopi (g.c. STORIA militare) |
5 gennaio 1941
Alle dieci del mattino, tra le Canarie e la costa del Senegal, il Cappellini avvista un piroscafo diretto
verso sud, e si avvicina per investigare: presto la nave si rivela essere il
piroscafo britannico Shakespear, di
5029 tsl, unità dispersa del convoglio OB. 262. Il bastimento, al comando del
capitano Charles Albert Bailey, è in navigazione da Liverpool al Nord America
con un equipaggio di 40 marinai e due artiglieri.
Alle 10.45 (ora di bordo del Cappellini;
le 7.30 secondo un naufrago dello Shakespear)
il Cappellini apre il fuoco con i
suoi cannoni, da una distanza di circa 3000 metri: il primo colpo abbatte
l’albero dello Shakespear, e con esso
l’antenna radio. Il mercantile, che è armato con un cannone da 100 mm (sistemato
a poppa), vira a dritta per allontanarsi, dando la poppa al sommergibile, e
reagisce rabbiosamente col suo cannone, dando inizio ad un lungo duello
d’artiglieria.
Il Cappellini segue una rotta
approssimativamente parallela a quella dello Shakespear, facendo fuoco con entrambi i cannoni da 100 mm; il tiro
del piroscafo britannico risulta accurato, tanto che alle undici un proiettile
colpisce il Cappellini in prossimità
del cannone poppiero, provocando vari danni e ferendo mortalmente il marinaio
Giuseppe Bastoni, uno dei cannonieri, che viene colpito da una scheggia e cade
in mare (altre fonti parlano della morte del sergente Ferruccio Azzolin: il suo
nome, però, non compare nell’elenco dei caduti e dispersi della Marina Militare
nella seconda guerra mondiale).
Il combattimento si protrae a lungo; dopo circa due ore, è il Cappellini a colpire in pieno il cannone
del piroscafo, mettendolo fuori uso, uccidendo entrambi gli artiglieri ed un
marinaio e ferendo gravemente il terzo ufficiale Percy Donald Jones, che ne
dirigeva il tiro. Altri colpi sparati dal sommergibile appiccano incendi in
plancia e nelle stive. Il Cappellini
prosegue il tiro continua finché lo Shakespear,
appoppato, in fiamme e crivellato dalle cannonate, non issa una bandiera bianca
(il suo comandante ha dato ordine di arrendersi), per poi affondare rapidamente
in posizione 18°05’ N e 21°25’ O (o 21°11’ O; 142 miglia a nordest delle Isole
di Capo Verde). Lo scontro tra le due unità è durato circa tre ore.
Il piroscafo britannico Shakespear (da www.clydeships.co.uk) |
Il Cappellini cerca allora di
recuperare il corpo del suo cannoniere caduto in mare, ma non riesce a
trovarlo. Vengono invece avvistati i naufraghi dello Shakespear: alcuni di essi sono su una scialuppa, altri aggrappati
a rottami, in un mare infestato dagli squali.
Come già accaduto per il Kabalo,
il comandante Todaro decide di soccorrere i superstiti. Inizialmente viene
preso a bordo il solo comandante dello Shakespear,
gravemente ferito, mentre viene presa a rimorchio la lancia con gli altri 22
naufraghi, molti dei quali feriti; in tutto sono morti 19 dei 42 uomini che
componevano l’equipaggio del piroscafo. Secondo quanto raccontato da un
giornale britannico nei giorni seguenti, un vecchio marinaio dello Shakespear, non volendo essere soccorso
dal Cappellini, avrebbe cercato di
tranciare il cavo di rimorchio a colpi d’accetta; fermato dagli altri
naufraghi, si sarebbe tuffato in mare, per poi ad annegare.
Durante la navigazione il cavo di rimorchio si spezza e la scialuppa
viene persa di vista, finendo con lo sfasciarsi per via del mare agitato. Il Cappellini torna indietro per cercarla e
la trova dopo due ore in stato di affondamento, con gli occupanti impegnati a
sgottare per restare a galla; recupera allora i 22 naufraghi, ospitandoli in
coperta e nella falsatorre e portandoli fino all’arcipelago di Capo Verde per
poi sbarcarli, dopo un giorno e mezzo di navigazione (e 120 miglia percorse), nella
baia di Palmeira, sull’Isola del Sale. Uno dei naufraghi dello Shakespear, l’anziano carpentiere Gustav
Arthur Blamander, morirà il 21 gennaio di bronchite e ferite causate dalla
lunga permanenza nella scialuppa.
Tutti i naufraghi dello Shakespear,
ascoltati dalla commissione d’inchiesta istituita a Londra per la perdita della
nave, ricorderanno l’umanità mostrata dal comandante del Cappellini, preoccupatosi anche per i feriti tra l’equipaggio del
piroscafo.
Lo Shakespear in fiamme fotografato da bordo del Cappellini (Coll. Attilio Ghezzi, via www.betasom.it) |
Lo Shakespear in affondamento (Achille Rastelli/Erminio Bagnasco, via www.regiamarina.net) |
La notizia dell’affondamento dello Shakespear sull’edizione del 15 gennaio 1941 del giornale “The Press” di Christchurch (da www.paperspast.natlib.govt.nz) |
10-12 gennaio 1941
Il Cappellini esplora le
acque delle Isole di Capo Verde.
13 gennaio 1941
Arriva al largo di Freetown.
14 gennaio 1941
Il Cappellini avvista ed attacca
il piroscafo britannico Eumaeus, di
7472 tsl, con rotta sud: carico di truppe e merci varie, è in navigazione da
Liverpool, da dov’è salpata il 29 dicembre, a Capetown (da dove poi dovrà
proseguire per Singapore), al comando del capitano John Edwin Watson. A bordo
ci sono 337 tra soldati e membri dell’equipaggio (altra fonte parla di 90
membri dell’equipaggio e 400 soldati).
Dapprima il sommergibile lancia due siluri, che vengono però schivati
dalla nave britannica; questa reagisce poi con i propri cannoni, inquadrando il
Cappellini con i suoi tiri. Anche il Cappellini apre il fuoco coi due cannoni,
da circa 1800 metri di distanza (altra fonte indica la distanza iniziale in
3600-3700 metri): inizia così un cruento combattimento in superficie che si
protrarrà per oltre due ore. L’Eumaeus
aumenta la velocità al massimo e volge la poppa al sommergibile, per ridurre al
minimo il bersaglio offerto, ma viene colpito quattro volte a poppa ed in
plancia.
Il piroscafo britannico Eumaeus (da www.wrecksite.eu) |
Nonostante il Cappellini si
muova alla massima velocità, l’Eumaeus
mantiene senza difficoltà la distanza di tiro, intorno ai 1500 metri: molti
colpi scoppiano vicino al Cappellini,
proiettando numerose schegge in coperta e ferendo i serventi dei cannoni.
Pur costituendo un bersaglio piuttosto ristretto, l’Eumaeus viene colpito sia in plancia sia
nella zona in cui si trovano i suoi cannoni; le mitragliere del Cappellini, da una distanza di soli
600-700 metri, dirigono il loro tiro in modo da colpire continuamente i
serventi delle artiglierie della nave nemica.
Alle 9.30 un’avaria alle norie Calzoni di rifornimento del deposito
munizioni costringe il Cappellini a
cessare il fuoco per qualche minuto; in attesa che il guasto sia riparato, i
proiettili vengono portati ai cannoni attraverso il portello della torretta.
Alle 9.40 il cannone da 100 mm di poppa non torna più in batteria, perché ha
perso quasi tutta la glicerina contenuta nel cilindro freno; il Cappellini continua a sparare col
cannone di prua e colpisce l’Eumaeus
al centro, vedendo poco dopo la nave rallentare e perdere molto vapore, che
Todaro interpreta come segnale che il piroscafo è stato colpito in un punto
vitale.
Ciononostante, l’Eumaeus
continua a fare fuoco con due cannoni situati a poppa ed un terzo cannone,
probabilmente contraereo, collocato nei pressi della plancia (l’armamento dell’Eumaeus, secondo le fonti britanniche,
consisteva in un cannone da 102 mm e due da 76 mm).
Alle 9.50 ed alle 9.55 due granate dell’Eumaeus colpiscono la torretta del Cappellini, ferendo i serventi delle mitragliere e troncando la
gamba sinistra del tenente del Genio Navale Danilo Stiepovich, che aveva da
poco rimpazzato alla mitragliera prodiera un mitragliere ferito: sentendo di
stare per morire, Stiepovich chiede e ottiene di non essere portato
sottocoperta, per poter assistere all’affondamento della nave nemica. Morirà
poco dopo la fine del combattimento; alla sua memoria sarà conferita la
Medaglia d’Oro al Valor Militare, con motivazione: “Imbarcato su di un sommergibile atlantico, durante aspro e lungo combattimento
contro un incrociatore ausiliario, prendeva volontariamente il posto di un
puntatore di mitragliera ferito. Gravemente mutilato dallo scoppio di una
granata nemica, rifiutava ogni soccorso per non distogliere dal suo compito il
personale impegnato nel combattimento e chiedeva soltanto di poter assistere
all'affondamento della nave avversaria. Ultimata vittoriosamente l'azione,
mentre l'unità era fatta segno a violento attacco aereo, continuava ad incitare
l'equipaggio e spirava serenamente dopo lunghe sofferenze sopportate
stoicamente. Magnifico esempio di altissime virtù militari. Oceano Atlantico,
14 gennaio 1941”.
Un cannoniere, Antonio Pietro Mulargia, viene ferito alla testa; si
scrolla il sangue dalla fronte con una manata, come se fosse sudore, e rimane
al suo posto, continuando a combattere. Todaro lo vede e gli dice: "Da
questo momento sei autorizzato a darmi del tu. E sarai l'unico che potrà dirmi,
tu, comandante".
Il tenente del Genio Navale Danilo Stiepovich (da www.movm.it) |
Il foro aperto dalla cannonata che uccise Danilo Stiepovich (Coll. Attilio Ghezzi, via www.betasom.it) |
Alle 10.05, dopo aver ridotto ulteriormente le distanze, il Cappellini riesce ad immobilizzare
definitivamente l’Eumaeus; il cannone
prodiero è caldissimo a causa dell’elevato ritmo di tiro, che deve quindi
essere diminuito. In tutto, il piroscafo britannico è stato colpito da 40 colpi
di cannone, oltre che da innumerevoli proiettili di mitragliera; è in fiamme e
sbandato sulla dritta. A questo punto, il comandante Watson ordina di
abbandonare la nave: ma le scialuppe non ci sono più, spazzate via dal tiro dei
cannoni durante lo scontro, così gli uomini devono saltare in acqua.
Alle 10.09, da circa 700 metri di distanza, il Cappellini lancia un siluro contro la nave britannica, che ha già
iniziato ad affondare, colpendola sotto l’albero prodiero ed accelerandone così
l’affondamento.
Proprio in quel momento, un gran numero di uomini emerge dall’interno
dell’Eumaeus per gettarsi in mare: il
comandante Todaro, sovrastimandone di molto il numero in circa 3000 (sono in
realtà un decimo), capisce che la nave nemica era un trasporto truppe e che la
sua prolungata resistenza era dovuta al fatto che le perdite subite dai
serventi di cannoni e mitragliere (che hanno sparato sino all’esaurimento delle
munizioni) hanno potuto sempre essere rimpiazzate da altri soldati imbarcati.
Alle 10.15, infine, l’Eumaeus
si rovescia ed affonda nel punto 08°55’ N e 15°03’ O (o 09°00’ N e 15°19’ O; a
118 miglia per 285° da Capo Sierra Leone, a sud di Capo Verde e 126 miglia ad
est-nord-est di Freetown). Todaro annota nel rapporto di fine missione,
sull’identità dell’avversario: «Si tratta dell’incrociatore ausiliario [in
realtà non un vero incrociatore ausiliario, bensì un piroscafo armato] Eumaeus di 7472 BRT. a turbina – a due
ponti – lunghezza 460 piedi». Al Cappellini
ci sono voluti 105 colpi di cannone per averne ragione.
Oltre alla morte del tenente Stiepovich, il Cappellini ha dovuto lamentare anche nove tra cannonieri e
mitraglieri feriti nel combattimento.
La scena che si presenta all’equipaggio del Cappellini è drammatica: i naufraghi sono in acqua, aggrappati ai
rottami, un mare che pullula di squali, le imbarcazioni di salvataggio sono state
sventrate dal tiro durante il combattimento. Questa volta non ci sono tentativi
di soccorso: il Cappellini ha
intercettato le richieste d’aiuto lanciate dall’Eumaeus, e Todaro sa che i segnali di soccorso sono stati raccolti
dalla base navale di Freetown già da un paio d’ore.
Il Cappellini si allontana
quindi a tutta forza per far perdere le proprie tracce ed attendere poi nelle
vicinanze. E proprio mentre si allontana, come temuto, sopraggiunge un
idrovolante britannico Supermarine Walrus (appartenente alla portaidrovolanti
britannica Albatross, stanziata a
Freetown proprio per la lotta antisommergibili): il malfunzionamento di una
valvola di allagamento impedisce al sommergibile d’immergersi tempestivamente,
e due bombe sganciate dall’idrovolante esplodono molto vicine allo scafo,
causando seri danni ai motori principali ed ausiliari (compresi gli
accumulatori) ed alle casse di assetto, nonché vie d’acqua nello scafo e
l’interruzione dell’erogazione di energia elettrica. (Secondo una versione,
forse erronea, il sommergibile rimane immerso per un giorno ed una notte per
eludere la caccia nemica).
Il Walrus lancia anche dei canotti di salvataggio per i naufraghi dell’Eumaeus, che verranno soccorsi alcune
ore dopo dai pescherecci antisommergibili britannici Spaniare e Bengali, che
li sbarcheranno a Freetown; in tutto vi saranno 315 sopravvissuti, molti dei
quali feriti (alcuni di essi moriranno in seguito, portando il totale delle
vittime, a seconda delle fonti, a 27 o 32).
Riparazioni provvisorie a bordo del Cappellini, in navigazione verso le Canarie (da “Costituzione e attività operativa di Betasom nel 1939-1940” di Francesco Mattesini, su www.academia.edu) |
Dopo aver effettuato alcune riparazioni d’emergenza, il Cappellini è costretto a rifugiarsi nel
porto di La Luz, nell’isola di Gran Canaria, dove giunge il 20 gennaio, dopo
aver navigato in superficie di notte ed in immersione di giorno. Qui viene sbarcato
un ferito grave e sono effettuate le prime riparazioni, con la compiacenza
delle autorità spagnole, che concedono al sommergibile una settimana giorni per
compiere le riparazioni: d’altra parte, ciò risulta compatibile con la
convenzione dell’Aja, che permette una settimana di sosta in un porto neutrale
ad un’unità di un Paese belligerante che sia danneggiata.
Più complesso è il problema del rifornimento di carburante: l’addetto
navale italiano a Madrid avverte le autorità italiane che tale operazione non
può essere svolta apertamente, perché potrebbe provocare rappresaglie da parte
britanniche. Il Cappellini riceve
allora 79 tonnellate di carburante cedute dalla nave cisterna tedesca Charlotte Schliemann, che si trova a Las
Palmas, sotto la copertura di un permesso d’importazione di 200 tonnellate
richieste dalla compagnia spagnola CEPSA. Comunicando per mezzo della Marina
spagnola, l’addetto navale italiano a Madrid informa il Cappellini della concentrazione di forze navali britanniche nei
pressi di La Luz e della necessità di completare le riparazioni al più presto:
ed infatti i lavori, anziché nei sette giorni concessi dalle autorità spagnole,
verranno completati in soli tre giorni.
Il Cappellini a La Luz il 20 gennaio 1941 (g.c. STORIA militare) |
23-24 gennaio 1941
Durante la notte, molto piovosa, il Cappellini
lascia La Luz diretto a Bordeaux (secondo una versione, eludendo cinque navi
britanniche inviate ad attenderlo fuori dal porto).
27 gennaio 1941
Il sommergibile britannico Tribune
(tenente di vascello Robert Galliano Norfolk) viene informato che il Cappellini sta rientrando a Bordeaux e
cerca di intercettarlo, ma senza successo.
30 gennaio 1941
Il Cappellini giunge a
Pauillac (Bordeaux) dopo aver percorso in tutto 7600 miglia nautiche.
I seri danni subiti nell’attacco aereo richiederanno due mesi di lavori
di riparazione (il Cappellini è così
uno dei primi sommergibili ad usufruire del piccolo cantiere realizzato nella
base di Betasom).
Il comportamento aggressivo mostrato da Todaro durante la missione
viene molto apprezzato sia dal comandante di Betasom, ammiraglio Angelo Parona,
che dal comandante della flotta subacquea tedesca, ammiraglio Karl Dönitz,
anche se quest’ultimo commenta, forse notando la tendenza a combattere col
cannone in superficie (accettando elevati rischi di danni e perdite) piuttosto
che con i siluri, che a Todaro sarebbe meglio “dare il comando di una
cannoniera”. Parona, pur riconoscendo il valore mostrato da Todaro e dal suo
equipaggio, disporrà che i sommergibili impegnino combattimento in superficie
con le artiglierie in pieno giorno, pratica troppo pericolosa (come dimostrato
dalle quattro vittime e dai molti feriti tra l’equipaggio del Cappellini), ed ordinerà anche di
evitare il soccorso alle imbarcazioni di naufraghi, ritenendo tale gesto
umanitario troppo rischioso per i sommergibili.
Il comandante Salvatore Todaro (a sinistra) a bordo del Cappellini (Coll. Attilio Ghezzi, via www.betasom.it) |
16 aprile 1941
Salpa da Bordeaux al comando del capitano di corvetta Salvatore Todaro.
18 aprile 1941
Il Cappellini va a formare
uno sbarramento di sommergibili a ponente dell’Irlanda, insieme ai sommergibili
italiani Leonardo Da Vinci, Alessandro Malaspina e Luigi Torelli ed ai tedeschi U 73, U 101 e U 110.
Alba sull’oceano, vista da bordo del Cappellini (Coll. Attilio Ghezzi, via www.betasom.it. Attilio Ghezzi, sottocapo silurista, nato a Milano il 22 maggio 1922 ed arruolatosi volontario in Marina nel gennaio 1940, fu imbarcato sul Cappellini dal 10 aprile 1941 al 10 aprile 1943). |
21 aprile 1941
Il Cappellini, nonostante una
seria avaria ad un motore diesel, attacca alle 6.40 due grossi trasporti
truppe, scortati da tre cacciatorpediniere, in posizione 53°42’ N e 17°55’ O (al
largo della Scozia): lancia tre siluri, poi deve immergersi per scampare alla
reazione della scorta, che dapprima tenta di speronarlo, poi lo cannoneggia ed
infine lo bombarda con cariche di profondità. Sul Cappellini si ritiene erroneamente di avere affondato un piroscafo
(viene avvertito uno scoppio, attribuito ad un siluro andato a segno),
identificato come “tipo Accra”.
9 maggio 1941
Un ricognitore tedesco Focke-Wulf FW 200 “Condor” avvista un convoglio
a ponente dell’Islanda e ne comunica la posizione a Cappellini e Torelli, ma
la posizione è sbagliata di un centinaio di miglia.
Preparativi per una nuova missione sul Cappellini a Bordeaux (Coll. Attilio Ghezzi, via www.betasom.it) |
11 maggio 1941
Lascia il settore d’operazioni per rientrare alla base.
14 maggio 1941
Il Cappellini incontra il
veliero Notre Dame du Châtelet, della
Francia di Vichy, in navigazione da Saint-Malo (Francia) verso i Grandi Banchi;
non lo attacca (essendo la Francia di Vichy un regime collaborazionista
asservito all’Asse), ma lo fotografa e ne segnala la posizione (47°52’ N e
13°56’ O). Il giorno seguente il veliero verrà affondato a cannonate dal
sommergibile tedesco U 43, che lo
sospetta, erroneamente, di segnalare ai britannici la posizione degli U-Boote.
17 (o 20) maggio
1941
Rientra a Bordeaux.
Il Cappellini nella Gironda al rientro da una missione, nella primavera del 1941 (g.c. STORIA militare) |
29 giugno 1941
Salpa per una nuova missione nella zona ad ovest dello stretto di Gibilterra
(ancora al comando di Todaro), ma è costretto a rientrare alla base in seguito
ad una serie di avarie.
6 luglio 1941
Arriva a Bordeaux.
14 agosto 1941
Sempre al comando di Todaro, il Cappellini
lascia a Bordeaux per una nuova missione a ponente delle Azzorre.
29 settembre 1941
Rientra a Bordeaux, concludendo la missione.
Mentre il sommergibile entra in arsenale, il comandante Todaro deve lasciare
il Cappellini per motivi di salute
(riuscirà poi a tornare a combattere, entrando a far parte della X Flottiglia
MAS, trovando la morte in Mediterraneo nel dicembre 1942), e viene sostituito al comando del sommergibile dal tenente di vascello
Aldo Lenzi.
Consegna di decorazioni agli ufficiali del Cappellini da parte del capitano di vascello Romolo Polacchini, nuovo comandante di Betasom: in primo piano il comandante in seconda, tenente di vascello Athos Fraternale, dietro il quale si riconosce il comandante Todaro. Fraternale, “tenente” del Cappellini dal luglio 1939 all’aprile 1941, ebbe successivamente il comando del Morosini, gemello del Cappellini, con il quale divenne uno dei principali “assi” di Betasom (da www.academia.edu/Francesco Mattesini) |
12 novembre 1941
Al comando del tenente di vascello Aldo Lenzi, il Cappellini salpa da Bordeaux per un’altra missione ad ovest delle
Azzorre (per altra fonte, a sud/sudest delle Azzorre). In questa missione verrà
sperimentato un nuovo sistema di rastrellamento a “cuneo”, formato da Cappellini, Da Vinci e Morosini: i
tre sommergibili sono posizionati a 40 miglia l’uno dall’altro, ed il
sommergibile al vertice “centrale” procede in una posizione più avanzata di 120
miglia rispetto ai primi due. I tre battelli devono operare in stretta
collaborazione; segnalato un contatto, esso dovrà essere attaccato dal
sommergibile più vicino. Il 2 dicembre, tuttavia, il Da Vinci sarà costretto al rientro da un’avaria, così vanificando
il sistema di ricerca.
2 dicembre 1941
Il Cappellini attacca il
mercantile Miguel de Larrinaga col
lancio di cinque siluri, alle 00.30, in posizione 35°34’ N e 29°52’ O. Secondo
fonti italiane la nave sarebbe stata colpita da due siluri, riportando gravi
danni (per una versione, sarebbe stata lasciata in stato di affondamento), ma
da fonti britanniche risulta che in realtà non fu colpita e raggiunse indenne
Freetown il 14 dicembre.
21 o 29 dicembre
1941
Torna a Bordeaux. Essendo in precarie condizioni, dovrà trascorrere
alcuni mesi in arsenale.
Il Cappellini (a sinistra) e l’Alpino Bagnolini ormeggiati a Bordeaux nel 1941 (g.c. STORIA militare) |
Inizio 1942
Il comando del Cappellini
passa al tenente di vascello Marco Revedin.
27 aprile 1942
Al comando del tenente di vascello Marco Revedin, il Cappellini parte da Bordeaux per una
missione nell’Atlantico centro-meridionale. Deve portarsi al largo di Capo San
Rocco (Brasile) per insidiare le rotte commerciali che collegano il Sud America
all’Africa.
11 maggio 1942
Durante la navigazione verso la zona d’agguato, il Cappellini avvista un convoglio di nove navi in posizione 33° N e
26°48’ O. Due delle unità della scorta (cacciatorpediniere, per una fonte)
bombardano pesantemente il sommergibile con bombe di profondità; nonostante
alcuni danni, il Cappellini può
comunque proseguire la missione.
18 maggio 1942
Tra le 20.30 e le 21 il Cappellini
avvista ed attacca, in posizione 03°28’ N e 32°15’ O, la motonave svedese Tisnaren, di 5747 tsl, unità sbandata
del convoglio OS. 27 (in navigazione dall’Inghilterra all’Africa Occidentale),
in navigazione da Liverpool a Rio de Janeiro con un carico di scotch whiskey.
La nave appartiene ad una nazione neutrale e reca una grande bandiera
svedese verniciata sulle murate a centro nave, ma di notte procede
completamente oscurata, contrariamente alle prescrizioni delle convenzioni
internazionali (in base alle quali le navi neutrali devono navigare illuminate,
di notte, per essere riconoscibili), il che non la rende identificabile come
neutrale.
Il Cappellini attacca il
piroscafo con il lancio di siluri, uno dei quali va a segno, colpendo il Tisnaren a centro nave, sul lato
sinistro. Subito dopo, il sommergibile apre il fuoco con cannoni e mitragliere,
crivellando le sovrastrutture del Tisnaren
e distruggendo parte dell’aletta di plancia con un colpo ben piazzato.
Approfittando di una pausa nel fuoco, il comandante del Tisnaren, capitano Gunnar Runsten, ordina l’abbandono della nave,
che si è appruata notevolmente e sta sbandando sempre di più: la maggior parte
delle 40 persone imbarcate prendono posto sulle due scialuppe di dritta, quelle
meno esposte al tiro del Cappellini
(che continua a cannoneggiare e mitragliare il Tisnaren per parecchio tempo dopo il siluramento, probabilmente per
accelerarne l’affondamento), ed abbandonano la nave. Rimangono però a bordo del
Tisnaren nove persone (il comandante
Runsten, il primo macchinista, il capo steward, il carpentiere, un inserviente
indiano e quattro passeggeri, tre uomini e una donna), che dopo un po’ cercano
di calare un’altra scialuppa; intanto il Cappellini
continua a sparare sul Tisnaren, ed
un proiettile che colpisce la nave distrugge anche il fondo della scialuppa,
facendola affondare. Gli occupanti riescono tuttavia a trasferirsi su un’altra
scialuppa ed allontanarsi dalla nave.
Poco dopo, l’ultimo colpo di cannone sparato dal Cappellini incendia il carico del Tisnaren; a questo punto, il sommergibile si allontana.
Dato che la scialuppa sta imbarcando acqua, il comandante Runsten torna
a bordo del Tisnaren per verificare
l’entità dei danni ed ammainare un’altra lancia: la nave ha una grossa falla
sul lato sinistro, nella stiva numero 2, i cui portelloni sono scardinati;
molta acqua entra da una seconda falla, allagando la sala macchine; la nave è
fortemente appoppata, e tutta la zona poppiera è in fiamme. Viene calata
l’ultima scialuppa, ma presenta anch’essa dei fori nello scafo; il problema
viene risolto turando i fori con dei pezzi di porchetta, che sortiscono
l’effetto desiderato.
Circa un’ora dopo il suo definitivo abbandono, il Tisnaren affonda in fiamme in posizione 03°00’ N e 33°00’ O (o
03°38’ N e 32°01’ O; a 600 miglia da Fortaleza, in Brasile). L’orario indicato
dalle fonti italiane sono le 00.31 del 19 maggio.
Tutti i 41 tra passeggeri e membri dell’equipaggio del Tisnaren vengono soccorsi da una nave di
passaggio, il piroscafo statunitense Black
Hawk, dopo poche ore; non vi sono vittime.
Il sommergibile in bacino di carenaggio (da www.u-boote.fr) |
24 maggio 1942
Nelle prime ore del 24, in posizione 03°59’ S e 35°01’ O, il Cappellini avvista una formazione navale
che risulta troppo lontana per poter tentare un attacco. Si tratta
probabilmente dell’incrociatore statunitense Milwaukee e del cacciatorpediniere Moffett.
27 maggio 1942
Mentre pattuglia la rotta percorsa dalle navi provenienti da Oporto e
dirette a Natal (Brasile), cercando un piroscafo segnalato dall’Archimede, il Cappellini viene avvistato e bombardato da un idrovolante
statunitense PBY Catalina di base a Natal (altra fonte parla di un B-25
statunitense).
Raggiunti i limiti dell’autonomia, inizia la navigazione di rientro.
Il Cappellini dopo la riduzione della falsatorre e delle camicie dei periscopi (Francesco Mattesin/www.academia.edu) |
31 maggio 1942
In serata il Cappellini
avvista la cisterna militare britannica Dinsdale,
di 8250 tsl (e 17.486 tonnellate di dislocamento), in navigazione isolata da
Città del Capo a Trinidad con un carico di benzina (per altra fonte, in zavorra
da Freetown a Trinidad).
Dopo un lungo inseguimento notturno, il Cappellini deve lanciare in tutto sei siluri per affondarla,
quattro dei quali andati a segno; la Dinsdale
affonda alle 2.30 del 1° giugno (per altra fonte, alle 6.12), in posizione
00°45’ S e 29°50’ O (o 01°00’ S e 30°15’ O; a sud-sud-ovest di St. Paul’s
Rocks, 600 miglia a levante di Natal e 615 miglia a nordest di Recife). Muoiono
nell’affondamento cinque dei 57 membri dell’equipaggio britannico (44 dei
naufraghi, tra cui il comandante, verranno soccorsi dal piroscafo spagnolo Monte Orduna, mentre gli altri otto
verranno portati negli Stati Uniti).
La Dinsdale era stata completata
l’11 aprile 1942, e stava compiendo il suo viaggio inaugurale quando è stata
attaccata ed affondata dal Cappellini.
19 giugno 1942
Rientra a Le Verdon (Bordeaux).
Il Cappellini rientra a Bordeaux nel giugno 1942 (Archivio Centrale dello Stato). |
21 agosto 1942
Il Cappellini (tenente di
vascello Marco Revedin) lascia Bordeaux per una nuova missione, diretto al largo
di Freetown.
10 settembre 1942
Arriva nel settore assegnato, al largo di Freetown.
13 settembre 1942
In mattinata il Cappellini,
che si trova a nordest dell’isola di Ascensione, riceve da Bordeaux un
messaggio che recita: “Betasom a Cappellini:
dirigere con massima urgenza quadratino 0971 – STOP – altre unità alleate si
dirigono stessa zona”. La zona indicata si trova 240 miglia a nord/nordest
dell’isola di Ascensione, in posizione 05°05’ S e 11°28’ O.
Inizia così una difficile missione di soccorso: il piroscafo britannico
Laconia, in navigazione da Capetown
(dov’era giunto proveniente da Suez) al Canada, è stato infatti silurato e
affondato dal sommergibile tedesco U 156
(capitano di corvetta Werner Hartenstein) al largo dell’isola di Ascensione. Delle
2741 persone a bordo, ben 1809 erano prigionieri di guerra italiani (gli altri
erano 463 uomini di equipaggio, 286 militari britannici, 80 donne e bambini e
103 militari polacchi di guardia ai prigionieri), catturati in Egitto durante
la prima battaglia di El Alamein: solo 415 di essi sopravvivranno. Degli altri,
moltissimi sono morti negli scoppi dei siluri od intrappolati nelle stive, in
cui sono stati lasciati rinchiusi mentre la nave affondava; molti altri sono
stati uccisi a colpi di fucile e baionetta dalle guardie polacche e dai
militari britannici imbarcati sul Laconia,
decisi ad impedire loro d’imbarcarsi sulle scialuppe (alcuni sono giunti a
mozzare a colpi d’accetta le mani degli italiani che si aggrappano alle
imbarcazioni). Gli italiani scampati, già debilitati dalla prigionia, sono in
massima parte in acqua o aggrappati a rottami, in un mare infestato dagli
squali, che mietono sempre più vittime.
Resosi conto di aver involontariamente provocato una strage di alleati
italiani, il comandante dell’U 156 ha
chiesto a unità sia Alleate che dell’Asse di partecipare alle operazioni di
soccorso dei naufraghi, sia italiani che britannici e polacchi, promettendo di
non attaccare le navi Alleate che parteciperanno ai soccorsi.
In risposta all’appello, sono stati inviati sul posto il Cappellini (per ordine del
contrammiraglio Romolo Polacchini, comandante di Betasom, informato
dell’accaduto dal suo omologo tedesco Karl Dönitz, che gli ha chiesto di
inviare uno dei suoi sommergibili a partecipare ai soccorsi: il sommergibile di
Revedin si trova relativamente “vicino” alla zona dell’affondamento), i sommergibili
tedeschi U 506 e U 507 e tre unità della Francia di Vichy, l’incrociatore Gloire e gli avvisi Dumont d’Urville ed Annamite.
Il Cappellini ha ordine di
cercare e soccorrere i naufraghi italiani; alle 10.10 del 13 settembre assume
rotta e velocità atte a giungere nella zona dell’affondamento. Più tardi
vengono comunicate anche le istruzioni relative ai segnali di riconoscimento da
usare per l’incontro con le unità francesi e tedesche.
Il Cappellini ed il gemello Barbarigo nel bassin à flot di Bordeaux (Coll. Attilio Ghezzi, via www.betasom.it) |
14 settembre 1942
Durante la notte il Cappellini
attraversa l’Equatore.
15 settembre 1942
Naviga verso sud per tutto il giorno, senza avvistare nulla.
16 settembre 1942
Dopo tre giorni di navigazione ad una velocità media di 12 nodi, il Cappellini giunge in mattinata sul luogo
di affondamento del Laconia.
Alle 8.28, in posizione 04°08’ S e 11°58’ O, viene avvistata una prima
scialuppa di salvataggio, in buone condizioni e ben equipaggiata (alza una vela
rossa): a bordo vi sono una cinquantina di marinai e soldati, tutti britannici.
Hanno adeguate scorte di cibo, una bussola ed anche una piccola radio
trasmittente; chiedono solo un po’ d’acqua, ed indicano dove si potranno
trovare altri naufraghi.
Il Cappellini prosegue, ed
alle 10.32, in posizione 04°20’ S e 11°57’ O, avvista una seconda lancia di
salvataggio, anch’essa ben equipaggiata, con a bordo 41 uomini, 18 donne e 25
bambini, tutti britannici. Vedendo il sommergibile avvicinarsi, i naufraghi si
mostrano terrorizzati e mostrano la croce rossa; le donne sollevano i bambini
sopra le loro teste, piangono e chiedono pietà, credendo che il sommergibile
intenda aprire il fuoco sui naufraghi. Revedin li rassicura ed invita donne e
bambini a trasbordare sul Cappellini,
ma l’offerta viene respinta; i britannici chiedono invece cibo e acqua. Il
sommergibile provvede a rifornirli di quanto richiesto (viveri caldi, qualche
bottiglia di vino, cioccolato e sigarette; secondo il naufrago britannico
Claude Jones, “Barilotti di acqua, fiaschi di Chianti, scatole di biscotti e
sigarette vennero porte dal sommergibile”), poi prosegue verso sud alla ricerca
degli italiani, mentre gli occupanti della scialuppa salutano al grido “Hurrah
for Italy” e “See you when the war is over”.
Alle 11.30 viene ricevuto sul Cappellini
un messaggio inviato da Bordeaux, che riferisce che gli altri sommergibili
hanno dato notizia di un attacco avvenuto ai danni di uno di essi (l’U 156: si veda più sotto), ordina
pertanto di tenersi pronti all’immersione per agire contro il nemico, e dispone
inoltre di trasferire i naufraghi sulle imbarcazioni ad eccezione di donne,
bambini ed italiani, per poi dirigere per il sotto-quadratino 56 del quadratino
0971, dove consegnare gli altri naufraghi alle navi francesi, trattenendo i
britannici come prigionieri. Il messaggio si conclude raccomandando massima
vigilanza contro attacchi di aerei e sommergibili nemici.
Alle 16.35, in posizione 04°47’ S e 12°05’ O, vengono avvistate altre
quattro imbarcazioni, due delle quali semisommerse, ed altri naufraghi in acqua:
si vedono in mare corpi dilaniati dagli squali, ed altri privi delle mani. Si
sentono richieste di aiuto in tutti i dialetti della Penisola; un soldato
italiano su un canotto, ormai in preda alla follia, ride e giocherella con
l’acqua, e getta via ridendo una cima che gli viene lanciata dal Cappellini. Molti uomini, molto
malridotti, sono aggrappati alle falchette delle lance, alcuni gridano, altri
sembrano inebetiti.
Il Cappellini recupera ed
ospita a bordo tutti gli italiani, tranne uno che, dando evidenti segni di
follia, si sottrae al salvataggio. In tutto vengono recuperati 49 superstiti
italiani, che sono ospitati sottocoperta; vengono tratti in salvo anche 14 britannici
(tra cui due ufficiali) e cinque polacchi raccolti in acqua, che vengono invece
sistemati in coperta.
Alcuni dei naufraghi raccolti raccontano di essere già stati
recuperati, in precedenza, da un sommergibile tedesco che aveva preso a
rimorchio cinque lance, ma che quest’ultimo era stato attaccato da un aereo,
che aveva distrutto una scialuppa e danneggiato alcune altre, ed aveva così
dovuto liberarsi dei naufraghi che aveva recuperato ed immergersi, trattenendo
a bordo soltanto un ufficiale medico italiano in precarie condizioni mentali.
Il sommergibile di cui i naufraghi parlano è l’U 156: proprio quel mattino, infatti (poco dopo le 11.25), nonostante
l’appello radio lanciato qualche giorno prima e l’esposizione in coperta di un
drappo bianco con una croce rossa, l’affondatore del Laconia è stato attaccato con bombe da un bombardiere statunitense
Consolidated B-24 “Liberator”, che lo ha costretto ad immergersi in fretta e
furia abbandonando i naufraghi.
Non è, questa, la sola cosa che raccontano i sopravvissuti agli uomini
del Cappellini: oltre a descrivere
gli attacchi degli squali, che hanno sbranato molti degli uomini che si
trovavano in acqua, gli italiani raccontano delle guardie polacche che
sparavano nelle stive e infilzavano con la baionetta chi si avvicinava alle
grate, delle mani mozzate a colpi d’ascia a chi si aggrappava alle scialuppe,
fino ad arrossare l’acqua del mare. Gli ex prigionieri sono emaciati per la
denutrizione patita durante la navigazione, e molti di essi sono feriti. Il
caporale Dino Monti riferisce che “Quelli che erano più vicini alla grata,
appena i morti e i feriti stramazzavano a terra, ne prendevano subito il posto.
La grata si torceva, si piegava sotto la loro pressione. E intanto ridevano
come pazzi. Urlavano, gridavano, bestemmiavano. Io mi sono addossato alla
parete, cercando di non vedere, di non sentire. Molti tentavano di uccidersi
battendo la testa contro le pareti. Alla fine i nostri sforzi centuplicati dal
terrore, dall’esasperazione, dalla follia collettiva ebbero ragione della
grata. Calpestando i caduti ci lanciammo verso le scale. Nel buio completo
urtavamo contro portelli chiusi, porte bloccate o così deformate
dall’esplosione che era impossibile aprirle. Qualche scala cedette per il
sovraccarico. Alcuni erano così affamati, che invece di pensare a salvarsi si
aggiravano per la nave in cerca di cibo. Fui letteralmente trasportato da
questa massa sempre più folle. Ci precipitammo verso le scialuppe, ma fummo
respinti a colpi di calcio di fucile. Allora mi tolsi le scarpe e mi tuffai”.
Il Cappellini rimane fermo in
mezzo alle lance, aspettando che arrivino le navi francesi sulle quali dovranno
essere trasbordati i naufraghi. Secondo una fonte, durante la notte il
sommergibile rolla così fortemente che molti dei naufraghi sistemati in coperta
cadono nuovamente in mare. Alcuni scompaiono (secondo una versione,
inizialmente erano stati recuperati molti più di 19 naufraghi britannici e
polacchi, ammassati in coperta a poppavia della torretta perché sottocoperta
non c’era più spazio; ma molti vennero portati via dalle onde durante la notte,
fino a che ne rimasero soltanto 19).
Il tenente di vascello Marco Revedin (da Uboat.net) |
17 settembre 1942
Durante il mattino, ai naufraghi superstiti vengono offerte zuppe
calde, biscotti e sigarette.
Alle 7.10 muore a bordo del Cappellini
uno dei naufraghi italiani, il soldato infermiere Vincenzo Ruggiero,
venticinquenne, del 960° Ospedale da Campo (il comandante Revedin, probabilmente
fraintendendo quanto gli è stato riferito dagli altri superstiti, registra la
morte di «uno dei naufraghi italiani non identificabile conosciuto dagli altri
naufraghi come “Vincenzo o Ruggiero l’infermiere”»). Viene sepolto in mare con
gli onori militari.
Esattamente cinque ore più tardi spira sul Cappellini un secondo naufrago, il brigadiere Giovanni Volch della
Regia Guardia di Finanza, ventinovenne. Anche a lui viene tributata la
sepoltura in mare con gli onori militari.
Alle 15.59, dato che le navi francesi continuano a non arrivare, il Cappellini si pone alla loro ricerca,
dopo aver trasbordato sulle lance i naufraghi britannici (tranne i due
ufficiali, trattenuti a bordo come prigionieri) ed aver rifornito le
imbarcazioni di viveri ed acqua. (Per altra versione il sommergibile, non
trovando le navi francesi, chiede ordini per radio; dato che ha mancato
l’incontro con le unità di Vichy, viene organizzato un nuovo incontro con il Dumont d’Urville).
Durante la notte viene avvistata una nave illuminata, che però non
risponde ai segnali effettuati col proiettore, e non risulta raggiungibile.
18 settembre 1942
Alle 3.40 Revedin stima di essere giunto nella zona dove dovrebbero
essere le navi francesi, e si mette a cercarle.
Alle 8.25 viene fatto il punto: risulta che il Cappellini si trovi 50 miglia più ad ovest della zona, quindi si
dirige verso la posizione nella quali gli è stato comunicato che si trovano le
navi francesi. Qui il sommergibile arriva alle 17, ma di nuovo non trova nulla.
20 settembre 1942
Alle 9.48, in posizione 02°09’ S e 13°09’ O (a nordest dell’Isola di
Ascensione), viene finalmente avvistato l’avviso francese il Dumont d’Urville; il Cappellini vi trasborda 41 dei 47
italiani che ha a bordo, trattenendo a bordo 6 italiani in grado di fornire
notizie utili ed i due ufficiali prigionieri (il tenente di vascello britannico
A. E. Boyeetta ed il tenente pilota neozelandese F. Penman). I naufraghi
vengono trasbordati in due gruppi, ognuno dei quali al comando di un graduato
cui sono forniti 5000 franchi ed un elenco dei nomi e degli indirizzi; Revedin
fornisce inoltre al comandante del Dumont
d’Urville una lettera con le posizioni delle lance avvistate dal Cappellini. Il trasbordo richiede in
tutto due ore.
Alle 12.23, mentre si allontana dalla zona dell’incontro, il
sommergibile avvista su alfa 40° una nave da guerra, con beta 20° a dritta e
rotta 110°; si immerge. Riemerge alle 15.01, in posizione 02°04’ S e 13°21’ O,
ma subito avvista, nuovamente, l’alberatura di una nave da guerra: torna perciò
ad immergersi, per poi riemergere alle 18.44.
A questo punto il Cappellini
dirige verso la zona assegnata dall’ordine di operazione (per altra fonte, fa
rotta verso Bordeaux, avendo consumato molto carburante).
In tutto, le vittime del Laconia
sono 1658: 1394 di esse sono prigionieri italiani.
Durante la navigazione verso Bordeaux, viene avvistato un piroscafo
britannico, che non può però essere attaccato a causa di un’avaria ai motori
diesel.
17 ottobre 1942
Il Cappellini rientra a
Bordeaux. Segue un periodo di lavori di manutenzione, durante i quali viene
anche installato un apparato tedesco “Metox” per la rilevazione delle emissioni
radar.
Il Cappellini in bacino a Betasom (Coll. Attilio Ghezzi via www.betasom.it) |
26 dicembre 1942
Ancora al comando di Revedin, il Cappellini
parte da La Pallice per quella che sarà la sua ultima missione offensiva.
28 dicembre 1942
Elude l’attacco di un sommergibile nemico.
10 gennaio 1943
Raggiunge il settore d’agguato, a nordovest delle Isole di Capo Verde.
Non trovandovi traffico, si dirige verso le costes settentrionali del Brasile (Natal,
Rio de Janeiro, costa nordoccidentale del Brasile). Nemmeno qui trova navi
nemiche, e la situazione non cambia quando sposta la sua ricerca nelle Antille
francesi.
Un’altra immagine del Cappellini (da www.combinedfleet.com) |
8 febbraio 1943
Inizia la navigazione di rientro.
24 febbraio 1943
Mentre procede in superficie al largo delle Azzorre, viene attaccato da
un idrovolante Catalina, che sgancia un grappolo di bombe prima che la manovra
d’immersione rapida possa essere effettuata.
Secondo una fonte vi sono danni e perdite tra l’equipaggio, mentre per
altra versione le conseguenze non sono gravi.
4 marzo 1943
Termina la missione, rientrando a Bordeaux.
Il Cappellini in navigazione ad alta velocità con entrambi i motori diesel, durante una missione in Atlantico (g.c. STORIA militare) |
L’Impero del Sole
Col procedere della guerra, la Germania andò progressivamente esaurendo
le scorte di alcune importanti materie prime, quali la gomma, lo stagno, il
tungsteno ed il molibdeno: occorreva importarle da altre parti del mondo. Chi
nell’Asse ne possedeva in abbondanza era l’Impero Giapponese, nei vasti
territori da esso controllati in Estremo Oriente: il problema stava nel farle
arrivare in Europa. Inizialmente si impiegarono per questo scopo delle navi
mercantili violatrici di blocco, tedesche ed anche qualche italiana, che
compivano lunghe e solitarie traversate oceaniche tra i due continenti; ma le
forze aeronavali Alleate davano loro una caccia spietata, ed il sempre maggior
numero di missioni che terminavano con la perdita della nave portarono i
comandi tedeschi a considerare l’utilizzo di uno strumento meno “visibile”: il
sommergibile.
Il rovescio della medaglia sarebbe stata una capacità di carico enormemente
ridotta rispetto ai mercantili violatori di blocco (una singola nave da carico
di dimensioni medie o medio-grandi poteva trasportare il carico di qualche
decina di sommergibili), ma si valutò che l’idea meritasse comunque attenzione,
garantendo maggiori probabilità dell’effettiva consegna del carico. Meglio
poche merci giunte a destinazione, che tante finite in fondo al mare.
I piani dettagliati per queste operazioni furono concordati tra i
comandi tedeschi e nipponici nel marzo-aprile del 1943: si sarebbero impiegati
dei sommergibili di un migliaio di tonnellate di dislocamento, che avrebbero
dovuto effettuare almeno due viaggi ciascuno all’anno, trasportando ogni volta
150 tonnellate di carico. All’andata il carico sarebbe consistito in piombo,
mercurio, alluminio, barre di acciai speciali e soprattutto tecnologia militare
tedesca destinata alle forze giapponesi (tra l’altro, radar, siluri a ricerca
acustica, macchine cifranti ENIGMA); al ritorno, le materie prime provenienti
dall’Estremo Oriente.
Fin da subito, i comandi tedeschi adocchiarono i sommergibili italiani,
grossi e voluminosi, come i candidati ideali per queste missioni di trasporto:
già l’8 febbraio 1943 il comandante in capo delle forze subacquee tedesche,
grande ammiraglio Karl Dönitz, suggerì ad Hitler di adibire a queste missioni i
sommergibili italiani che ancora erano a Bordeaux, riscuotendone l’immediata
approvazione. Rispetto ai sommergibili tedeschi, indispensabili per la guerra
al traffico in Atlantico, i sommergibili italiani erano ritenuti più idonei per
compiti di trasporto, essendo più grandi e risultando facilmente adattabili,
mentre per gli stessi motivi (che peraltro comportavano maggiori tempi
d’immersione) erano meno adatti alla guerra al traffico.
Alla Regia Marina fu quindi proposto uno scambio: accettare di
trasformare i battelli di Betasom in sommergibili da trasporto, da impiegarsi
con bandiera ed equipaggi italiani ma per conto della Germania, in cambio della
cessione da parte tedesca di un corrispondente numero di moderni U-Boote del
tipo VII C, coi quali proseguire le operazioni contro il traffico mercantile
Alleato in Atlantico. L’offerta, presentata lo stesso 8 febbraio al capitano di
vascello Enzo Grossi, comandante di Betasom (per altra fonte, sarebbe stato
Grossi ad avere l’idea e proporla a Dönitz), fu accettata dai comandi italiani.
Su proposta della Seekriegsleitung, l’operazione fu denominata «Adler»;
i sommergibili italiani coinvolti mutarono il loro nome in codice da «I»
(«Ida», che portavano dall’ottobre 1940) ad «Adler», cioè Aquila, seguito da un
numero romano. Al Cappellini fu
assegnato il nominativo di «Aquila III».
Partendo dalla Francia, i sommergibili avrebbero dovuto raggiungere
Singapore («Betavela»), porto munito di adeguate attrezzature per il raddobbo e
di un bacino di carenaggio, impiegabile anche per il carico e lo scarico;
all’andata i sommergibili non avrebbero fatto rifornimento in mare, poiché,
essendo il carico più leggero rispetto a quello da imbarcare al ritorno,
avrebbero potuto imbarcare scorte supplementari di nafta nei doppifondi. Al
ritorno, invece, i doppifondi sarebbero serviti per sistemarvi un carico di
gomma, quindi era previsto un rifornimento in mare ad almeno 3000 miglia dalla
base di partenza. In ogni circostanza bisognava evitare l’azione offensiva
(impossibile, d’altra parte, perché i tubi lanciasiluri sarebbero stati
rimossi) e non bisognava farsi avvistare.
I battelli scelti per questa operazione vennero sottoposti a radicali
lavori di trasformazione in sommergibili di trasporto, effettuati con i mezzi
disponibili a Bordeaux, sotto la sapiente direzione del maggiore del Genio
Naval Giulio Fenu.
Per massimizzare la capacità di carico e l’autonomia, l’armamento venne
praticamente azzerato: furono sbarcate le artiglierie e “tagliati” i tubi
lanciasiluri (per fare spazio per il carico: non potendo essere eliminati del
tutto, le strutture esterne vennero tagliate in corrispondenza delle paratie
delle casse di zavorra, e vennero rimosse le paratie interne a filo della cassa
d’assetto), mentre i depositi di munizioni vennero convertiti in stive di
carico o depositi di combustibile supplementari. Furono lasciate soltanto le
mitragliere contraeree (una mitragliera binata C/38 da 20/65 mm), per
difendersi da eventuali attacchi aerei lungo la rotta. Furono sacrificati alle
esigenze del carico anche il periscopio d’attacco, alcuni elementi delle
batterie e persino una delle latrine; gli equipaggi, non essendo più necessari
molti cannonieri e siluristi, vennero ridotti da circa 50 uomini a 35. Gli
equipaggi assegnati ai sommergibili per questa missione risultarono però
piuttosto raccogliticci, composti da personale disomogeneo e non affiatato,
raccolto frettolosamente tra quello disponibile a Betasom. Sul Cappellini, sottoposto a lavori che si
protrassero da marzo a maggio del 1943, fu ricavato uno spazio di carico
sufficiente a stivare 100 o 160 tonnellate di materiali (per altra fonte,
probabilmente erronea, 50 tonnellate di munizioni e 80 tonnellate di
carburante).
Il Cappellini, insieme a Tazzoli e Giuliani, fu tra i primi sommergibili ad ultimare i lavori di
trasformazione, a fine aprile 1943. Partirono tutti nel mese di maggio: il Cappellini fu in assoluto il primo
sommergibile “Aquila” a partire per l’Estremo Oriente, l’11 maggio 1943, al
comando del capitano di corvetta Walter Auconi. Questi era ritenuto uno dei
migliori ufficiali sommergibilisti disponibili.
Il carico del Cappellini
consisteva in 95 tonnellate di acciai speciali, alluminio in lingotti,
munizioni (compresi proiettili da 20 mm e siluri destinati agli U-Boote
tedeschi del “Monsun Gruppe”, attivi nel Pacifico e nell’Oceano Indiano),
componenti elettroniche per radar e parti di ricambio; altre fonti parlano di
160 tonnellate di mercurio, alluminio, acciaio per saldatura, 800 mitragliere
MG 151 da 20 mm, munizioni, prototipi di bombe, congegni di puntamento per
bombardieri, cuscinetti a sfera e progetti di carri armati, il tutto destinato
all’industria bellica giapponese.
A bordo del Cappellini, oltre
al carico ed all’equipaggio, si trovavano anche otto operai militarizzati ed il
capitano del Genio Navale Matteo Silvestro, incaricato di organizzare la base
italiana per i sommergibili impegnati nel traffico tra l’Europa e l’Estremo
Oriente. Dato che i comandi tedeschi accettavano soltanto militari nell’area,
il comandante di Betasom, capitano di vascello Enzo Grossi, fece passare gli
otto operai militarizzati come degli effettivi.
A causa del sovraccarico di merci e carburante, il Cappellini lasciò Bordeaux con un una riserva di spinta di appena il
3,5 % del dislocamento totale (contro il 20-25 % abituale), tanto che, anche in
emersione, soltanto la prua estrema e la torretta fuoriuscivano dall’acqua. Soltanto
la cassa di manovra prodiera e la cassa di immersione potevano essere
utilizzate per le manovrre di emersione. Anche un’avaria di poco conto, in
quelle condizioni, avrebbe potuto significare la fine per il sommergibile, che
non sarebbe più potuto riemergere.
D’altro canto, anche la manovra d’immersione rapida risultava ritardata
di molto (80 secondi, in luogo dei 50 precedentemente necessari), a causa del
marcato appoppamento (circa 7°) assunto dal Cappellini:
occorreva più tempo per assumere i 5° di appruamento ottimali per permettere l’immersione
rapida. Il comandante Auconi ovviò a questo problema mediante l’immersione
rapida di poppa, a marcia indietro.
Altro inconveniente causato dal sovraccarico era il fatto che ponte di
coperta e scarichi dei motori diesel si trovassero sott’acqua: se un motore
diesel si fosse fermato di colpo, l’acqua di mare, per prevalenza di pressione,
avrebbe immediatamente raggiunto i motori diesel, causando avarie gravissime.
Per scongiurare questo pericolo, qualche membro dell’equipaggio dovette tenersi
sempre accanto alla manovra di chiusura del valvolone interno, pronto a
chiuderlo.
Il lunghissimo viaggio transoceanico fu costellato di difficoltà e
pericoli: dapprima, nel Golfo di Biscaglia e nell’Atlantico centrale, il Cappellini fu ripetutamente attaccato da
aerei nemici, cui si sottrasse con l’immersione rapida “a marcia indietro”;
poi, al largo di Lisbona, eluse la caccia da parte di naviglio leggero. Dopo
questi primi inconvenienti il viaggio trascorse relativamente tranquillo;
furono superate le Canarie e Capo Verde, si passò ad ovest dell’Isola di
Ascensione e di Sant’Elena e si fece rotta per Città del Capo. In queste
tempestose acque il sommergibile arrivò il 13 giugno; il maltempo ed i consumi
imprevisti di carburante (fin dalla partenza, il direttore di macchina notò che
erano superiori al previsto) costrinsero il Cappellini
a viaggiare vicino alla costa sudafricana, aumentando il rischio di essere
avvistato, per limitare il consumo di nafta. Comunque, riuscì a tenersi a 40
miglia dalla costa.
Una volta in Oceano Indiano, però, le condizioni meteomarine
peggiorarono sensibilmente. Fu incontrato mare di poppa di eccezionale
violenza; durante la navigazione verso il Madagascar, nella terza settimana di
giugno, il Cappellini fu
continuamente spazzato e sommerso da gigantesche onde – alte fino a quindici
metri – che distrussero il pagliolato della coperta di poppa ed il tubo di
scarico di dritta; i marinai dovettero cercare di effettuare delle provvisorie
riparazioni legandosi a cime, con indosso le cerate, per non essere trascinati
in mare.
Dopo quasi due mesi di viaggio e 13.000 miglia percorse, con i serbatoi
ormai quasi vuoti, l’8 luglio 1943 il Cappellini
approdò a Sabang (isola di Weh); il giorno seguente, dopo essersi rifornito di
carburante, salpò per Singapore scortato dalla nave coloniale Eritrea (capitano di fregata Marino
Iannucci), rifugiatasi in Giappone due anni prima, dopo la caduta dell’Africa
Orientale Italiana.
Il Cappellini giunse a
Singapore dopo tre giorni di navigazione, approdando dapprima a Keppel Harbour
e poi nella zona dell’arsenale, tra l’isola e Johore (località all’estremità
meridionale della penisola di Malacca), dove scaricò il materiale destinato al
Giappone ed iniziò subito a caricare gomma (110 tonnellate) e stagno per la
Germania. Si provvide anche alle riparazioni dei danni causati in giugno dal
mare mosso nella zona dei “Quaranta Ruggenti” e dal doppiaggio del Capo di
Buona Speranza.
Intanto, a migliaia di chilometri di distanza, la guerra dell’Italia si
avviava verso la sconfitta: due giorni dopo la partenza del Cappellini da Bordeaux, le forze
italiane in Tunisia si erano arrese (quelle tedesche erano capitolate già il 9
maggio), segnando la fine della campagna nordafricana; il 10 luglio, mentre il Cappellini si trasferiva da Sabang a
Singapore, gli Alleati sbarcavano in Sicilia. Il 25 luglio Mussolini venne
deposto e sostituito dal maresciallo Pietro Badoglio: questo sovvertimento
insospettì di molto tedeschi e giapponesi, che fiutarono una prossima uscita
dell’Italia dal conflitto. A Singapore, questo significò un (intenzionale)
ritardo nell’approntamento del Cappellini
per il viaggio di ritorno: il comandante tedesco a Singapore, capitano di
corvetta Werner Von Zatorski, ed il suo corrispettivo giapponese Hara, cercarono
con varie scuse di trattenere in porto i sommergibili italiani (non solo il Cappellini, ma anche Torelli e Giuliani, che erano frattanto giunti in Estremo Oriente), in attesa
che la posizione dell’Italia si chiarisse. Dapprima vennero ritardate le
operazioni di carico e manutenzione delle unità, poi vennero addotte quali
scuse per ritardare la partenza delle importanti operazioni aeronavali in corso
a nord di Sumatra. Hara, su suggerimento dei suoi superiori e di Von Zatorski,
intendeva trattenere i sommergibili fino al momento della resa italiana, per
poi impadronirsene.
Quanto all’equipaggio del Cappellini,
la notizia della caduta del regime venne accolta con giubilo dagli uomini, ma
non dal comandante Auconi, il quale, convinto fascista, aveva ripreso i marinai
che raccontavano barzellette contro il regime e dopo il 25 luglio si era
espresso duramente nei confronti di Vittorio Emanuele III e di Badoglio.
Secondo una fonte, Auconi avviò delle trattative con i giapponesi, nelle quali
assicurò che, comunque fossero andate le cose in Italia, il Cappellini avrebbe proseguito nella
guerra a fianco dell’Asse.
Il capitano di corvetta Walter Auconi, ultimo comandante del Cappellini prima della cattura (da Uboat.net) |
Il comandante Iannucci dell’Eritrea,
che aveva ordinato di accelerare il carico di Cappellini e Giuliani (anche
in quantità maggiore del previsto), prelevò delle cariche esplosive dalla
dotazione della sua nave e le distribuì ai tre sommergibili per permettere loro
di autoaffondarsi, nell’eventualità di un armistizio tra Italia ed Alleati e di
un tentativo giapponese di impadronirsi dei battelli; ma non diede loro
ulteriori delucidazioni ed istruzioni.
Il 21 agosto il Cappellini,
accompagnato dall’Eritrea, lasciò
Singapore diretto a Sabang, per iniziare la traversata di ritorno verso
l’Europa. A bordo aveva 156 tonnellate di carico tra gomma (92 o 110 tonnellate,
a secoda delle fonti), stagno (44 tonnellate) e volframio (altra fonte parla di
gomma, zinco, tungsteno, chinino, oppio e spezie, nonché pane in contenitori
stagni).
Il 23 agosto, tuttavia, le due unità ricevettero ordine di tornare
indietro, causa la presenza di un sommergibile avversario. Poco dopo giunse
anche un messaggio dell’ammiraglio Carlo Balsamo, addetto navale italiano a
Tokyo (il quale però non ricopriva la carica di Comandante Superiore Navale in
Estremo Oriente, che spettava invece al capitano di vascello Giuseppe Prelli),
che ordinava a Cappellini ed Eritrea di rientrare per partire più
avanti insieme al Giuliani: Iannucci,
però, rifiutò tale ordine e proseguì per Sabang, dove le due unità arrivarono
il 24 agosto. Prima di ripartire, il 27 agosto, per Singapore (dove avrebbe
dovuto assumere la scorta del Torelli
sullo stesso tragitto), Iannucci consegnò al Cappellini viveri per dieci giorni ed una lancia per favorire le
manovre dei sommergibili in arrivo. Consigliò inoltre ad Auconi, stante
l’incerta situazione italiana, di portarsi, qualora necessario, in un punto del
porto dove i fondali erano profondi 30 metri, per poter salpare – se possibile
– in immersione.
Per parte loro, tedeschi e giapponesi intendevano concentrare a
Singapore tutti e tre i sommergibili, per rendere più agevole la loro cattura;
il 3 settembre, pertanto (mentre, all’insaputa di tutti, si firmava a Cassibile
l’armistizio tra l’Italia e gli Alleati), Von Zatorsky e Hara ordinarono a
Iannucci di riportare il Cappellini a
Singapore: il motivo addotto era che il sommergibile intralciava, nel piccolo
porto di Sabang, la manovra di numerose navi nipponiche che avrebbero dovuto
prendere parte a delle importanti operazioni a nord di Sumatra. Iannucci
telegrafò allora all’ammiraglio Balsamo, domandando di richiedere a Tokyo
l’autorizzazione a far partire insieme Cappellini
e Giuliani, che si sarebbero poi
riuniti nell’Oceano Indiano ed avrebbero proseguito insieme verso Bordeaux. La
riposta negativa rivelò a Iannucci la piena gravità della situazione; il
comandante dell’Eritrea ottenne
solamente l’autorizzazione a salpare per recarsi a Sabang ed assumere la scorta
del Cappellini, da accompagnare a
Singapore.
L’annuncio dell’armistizio tra l’Italia e gli Alleati raggiunse le
unità italiane in Estremo Oriente alle due antimeridiane dell’8 settembre 1943,
ora locale.
Il Cappellini si trovava in
quel momento ormeggiato a Sabang, pronto a partire per l’Europa, bloccato solo
dall’ostruzionismo giapponese delle settimane precedenti.
A bordo del sommergibile, oltre all’equipaggio ed al carico, c’erano
anche due ufficiali della Regia Marina addetti ai servizi della base dei
sommergibili, provenienti dalla Cina ed imbarcati di passaggio per tornare in
Europa: il capitano di corvetta Ettore Rabajoli (di tre anni più anziano del
comandante Auconi) ed il maggiore del Genio Navale Simeoni.
La radio del sommergibile aveva problemi di ricezione, ma nella notte
tra l’8 ed il 9 settembre captò egualmente un messaggio dell’Eritrea (che si trovava in navigazione
tra Singapore e Sabang e che riuscì ad eludere la caccia da parte delle unità
giapponesi, raggiungendo il porto di Colombo), che riferiva: «Supermarina
ordina raggiungere un porto inglese aut neutrale aut affondare». Nulla si
diceva sul fatto che era stato firmato un armistizio tra l’Italia e gli
Alleati. Questa notizia giunse a Sabang solo verso le cinque del mattino del 9
settembre; nel frattempo, però, il Cappellini
intercettò altri pezzi di comunicazioni radio dalle quali si poté capire che
l’Italia aveva firmato un armistizio. (In realtà, le testimonianze sono
discordanti circa quale messaggio sia giunto per primo: quello dell’Eritrea, o le frammentarie comunicazioni
sull’armistizio). Uno dei messaggi era in lingua inglese, ma sembrava trasmesso
da una stazione italiana. Il messaggio dell’Eritrea
era giunto con un codice sbagliato, del sommergibile Da Vinci (affondato mesi prima con tutto l’equipaggio); doveva
essere stato un errore di un telegrafista in precedenza imbarcato su tale
sommergibile. Auconi ordinò al suo telegrafista di chiedere conferma all’Eritrea; quest’ultima, però, non
rispose, per non essere intercettata e localizzata dalle forze giapponesi che
già le davano la caccia. Sul sommergibile si captarono invece radiogiornali e
comunicati stampa.
L’equipaggio del Cappellini era
sconcertato e confuso, ma era possibile capire una cosa: l’Italia non era più
alleata di Germania e Giappone.
In precedenza, Auconi e Iannucci avevano esaminato la possibilità di
raggiungere il porto di Lourenço Marques, nella colonia portoghese (e dunque
neutrale) del Mozambico; adesso, pertanto, Auconi prese provvedimenti per
mettere in atto tale piano: fece chiamare a bordo gli ufficiali, che
risiedevano in alloggiamenti a circa un chilometro di distanza dall’ormeggio
del Cappellini, per preparare la
partenza.
La fuga per Lourenço Marques, però, risultò presto inattuabile: due
cacciatorpediniere giapponesi, con gli equipaggi ai posti di combattimento e
pronti a fare fuoco, bloccavano l’uscita del porto (secondo il direttore di
macchina De Simone, i cacciatorpediniere non bloccavano del tutto l’uscita del
porto, ma c’erano anche altre unità che avrebbero ostacolato le manovre del Cappellini). Poco lontano dal molo (che
era lungo una ventina di metri e terminava su una spiaggia) era ormeggiato un
mercantile con a bordo delle sentinelle armate, che tenevano le loro armi
puntate sul sommergibile italiano.
Auconi cercò di ingannare i nipponici, comunicando di voler uscire in
mare per delle esercitazioni, ma da parte giapponese fu risposto che la manovra
era vietata, per la presenza di navi nemiche e perché si doveva attendere
l’arrivo dell’Eritrea.
Alle 8 il comandante del Cappellini
riunì gli ufficiali per un consiglio di guerra; dato che sotto la chiglia
c’erano appena trenta centimetri d’acqua, si decise di non tentare
l’autoaffondamento (che, a detta di De Simone, sarebbe stato rapidamente
attuabile, perché dall’8 settembre gli allagamenti erano stati lasciati sempre
aperti, e sarebbe bastato manovrare gli sfoghi d’aria per affondare il
sommergibile), che in quelle condizioni sarebbe risultato pressoché inutile.
Per i motivi sopra citati, si escluse anche il forzamento dell’uscita.
Auconi deliberò infine di mandare al Comando giapponese la seguente
lettera: "In questo momento mi giunge la notizia che l’Italia è stata
costretta dall’irresistibile pressione nemica ad abbandonare la lotta. Debbo
pertanto da questo momento dichiarare la mia non belligeranza nei riguardi
delle nazioni alleate [Germania e Giappone] e chiedo trattamento analogo a
quello fatto dagli inglesi alle navi francesi ad Alessandria d’Egitto. Mi
asterrò dal fare atti ostili contro chiunque e terrò il carico che ho a bordo a
disposizione dei legittimi proprietari: però qualsiasi azione da parte di
chiunque intendesse portare offesa alla mia bandiera o ad impadronirsi del
sommergibile al mio comando troverà me e il mio equipaggio decisi alle estreme
conseguenze". La lettera, tradotta in inglese dal maggiore Simeoni, venne
portata al Comandante nipponico, ammiraglio Kumeichi Hiraoka, da Simeoni e dal
capitano di corvetta Rabajoli.
Secondo quanto riferì in seguito il capo elettricista Lanna, dopo le
undici del mattino giunse l’ordine che si poteva sabotare il sommergibile, ma
girava voce che il comandante giapponese a Sabang avesse affermato che, in caso
di sabotaggio, l’intero equipaggio sarebbe stato fucilato.
L’ammiraglio Hiraoka fu infastidito dalla lettera inviata da Auconi,
che mandò a chiamare immediatamente, intimandogli di sbarcare con tutto
l’equipaggio. Auconi replicò che sarebbe rimasto a bordo del Cappellini e che lo avrebbe fatto
saltare se la situazione fosse precipitata, e Hiraoka acconsentì allora a
lasciare l’equipaggio internato a bordo in forma temporanea, con trattamento
analogo a quello riservato dai britannici agli equipaggi delle navi francesi ad
Alessandria d’Egitto nel 1940, in seguito alla resa della Francia. Impose però
ad Auconi di sbarcare 150 tonnellate di nafta (cioè quasi tutta la riserva
disponibile) e distruggere le strumentazioni radio; il comandante italiano fece
come concordato, provvedendo inoltre – di sua iniziativa – a distruggere
l’archivio segreto. A scanso di equivoci, predispose il sommergibile contro
eventuali colpi di mano da parte giapponese (uno fu tentato già durante il colloquio
tra Auconi ed Hiraoka, e venne fermato appena in tempo da quest’ultimo).
Sentinelle giapponesi furono poste agli ormeggi, e venne comunicato che
ogni tentativo di sabotaggio sarebbe stato represso con la fucilazione
dell’intero equipaggio, a partire dal comandante.
Il 12 settembre, il comando giapponese ordinò che il Cappellini tornasse a Singapore, per
sbarcare il carico e riconsegnarlo ai tedeschi; il comandante Auconi replicò
che non si sarebbe mosso senza prima una garanzia scritta che lo stato di “non
belligeranza” della sua unità sarebbe stato riconosciuto anche a Singapore.
Dopo lunghe e difficili trattative, Hiraoka accondiscese e stese una
dichiarazione scritta in otto punti con cui dava il suo sostegno a tale
decisione, a livello di “accordo tra gentiluomini”.
Il 13 settembre, il Cappellini
salpò da Sabang per Singapore scortato da un cacciatorpediniere giapponese; su
quest’ultimo, già il giorno precedente, erano stati fatti salire come ostaggi
Simeoni e Rabajoli (che già l’11 settembre erano stati imbarcati come ostaggi
su un incrociatore presente in porto, salvo esserne sbarcati la sera stessa a
seguito della partenza della nave per un’inutile caccia all’Eritrea), mentre sul Cappellini si erano imbarcati un
ufficiale sommergibilista nipponico, un interprete e tre segnalatori per le
comunicazioni radio. L’ufficiale giapponese provvide subito a far sparire i
volantini della trasmissione ai timoni orizzontali, per evitare che il
sommergibile potesse tentare d’immergersi e fuggire; rimase poi in camera di
manovra per tutta la durata del viaggio.
L’equipaggio manteneva la calma, vedendo che Auconi aveva ancora la
situazione sotto controllo.
Secondo una versione, si era pensato anche di andare a Penang, sede di
una base di sommergibili tedeschi, nella speranza che questi ultimi fossero
meno diffidenti: fino al 16 settembre, però – stando ai rapporti successivi –
nessuno intendeva collaborare con l’Asse. Secondo quanto sostenuto in seguito
da alcuni ufficiali rimasti poi fedeli al re ed imprigionati dai giapponesi, tra
cui il tenente di vascello Bruti Liberati (un ufficiale stanziato in Cina e poi
internato insieme agli ufficiali del Giuliani),
Auconi avrebbe trattato il trasferimento a Penang, promettendo di consegnare il
sommergibile ai tedeschi, ma i nipponici lo avrebbero tratto in inganno,
portando invece il Cappellini a
Singapore; Bruti Liberati ed altri ufficiali sostennero di aver sentito un
giovane ufficiale del Cappellini,
subito dopo l’arrivo a Singapore, esclamare “I giapponesi ci hanno fregati!”.
(Secondo gli ufficiali di Giuliani
e Torelli, che rimasero invece fedeli
al giuramento prestato al re e vennero imprigionati dai nipponici, Auconi,
Rabajoli e Simeoni erano tutti fascisti convinti, specie Auconi, che – secondo
il comandante Tei del Giuliani – già
in colloqui prima dell’armistizio aveva affermato che, se l’Italia si fosse
arresa, avrebbe continuato a combattere insieme ai tedeschi. La commissione
d’inchiesta valutò però questo giudizio come “di parte”, ed accettò la versione
di Auconi. Secondo gli ufficiali, Auconi e Simeoni erano entrambi di fede
fascista, mentre l’atteggiamento di Rabajoli era più ambiguo).
Durante la traversata alcuni uomini chiesero al comandante Auconi se
non fosse il caso di tentare la fuga, ma ciò era di fatto impossibile: a bordo
c’erano solo dieci tonnellate di nafta, appena bastanti per arrivare a
Singapore, senza contare la rimozione dei volantini dei timoni orizzontali, che
impediva di immergersi. Dopo tre giorni di navigazione, il Cappellini arrivò il 16 settembre nella base militare di Seletar, a
nord di Singapore e di fronte a Johore.
Una volta in porto, Auconi venne immediatamente convocato
dall’ammiraglio Ryuichiro Enomoto, comandante della zona; qui si trovavano
anche molti altri ufficiali ed esperti giapponesi. Enomoto disse ad Auconi che
l’equipaggio doveva sbarcare e consegnare il sommergibile ai nipponici: non
solo il carico, infatti, era tedesco, ma anche il Cappellini. Dato che in cambio dei sommergibili da trasporto la
Kriegsmarine aveva ceduto alla Regia Marina altrettanti U-Boote tipo VII C, i
primi erano da considerarsi come proprietà tedesca, secondo Enomoto, il quale
aggiunse anche che i comandanti di Torelli
e Giuliani avevano consegnato i loro
sommergibili (mentiva: erano stati imprigionati insieme ai loro equipaggi).
Auconi mise in discussione questa interpretazione, e chiese che venisse
rispettato l’accordo fatto con l’ammiraglio Hiraoka. Il comandante italiano e
l’ammiraglio nipponico discussero per nove ore, ed infine giunsero ad un accordo,
in base al quale era riconosciuto al Cappellini
lo stato di “non belligeranza” e veniva concesso, per tutta la durata della
guerra, un regime d’internamento simile a quello riservato alle navi francesi
ad Alessandria dal governo britannico. L’accordo era articolato su otto punti:
il Cappellini avrebbe mantenuto
bandiera, comandante, stato maggiore ed equipaggio italiani, al completo;
l’equipaggio sarebbe stato alloggiato in un apposito accantonamento nei pressi
dell’ormeggio, ed ogni giorno una squadra di 15 uomini sarebbe potuta salire a
bordo per la manutenzione; di notte un ufficiale e tre marinai armati di
sentinella sarebbero potuti restare a bordo per fare la guardia, disimpegnando
il loro servizio in coperta ma non sulla banchina; nessun giapponese, militare
o civile, sarebbe potuto salire sul sommergibile senza prima essere autorizzato
per iscritto dal comandante dell’unità; gli italiani sarebbero stati confinati
all’interno del loro acquartieramento e sul sommergibile, e non avrebbero
potuto circolare al di fuori, mentre il loro trasporto tra sommergibile ed
accantonamento sarebbe stato effettuato con autobus forniti dal Comando
giapponese; soltanto Auconi si sarebbe potuto recare a bordo del sommergibile
per ispezioni a qualsiasi ora, giorno e notte, a sua richiesta; il carico
sarebbe stato sbarcato e consegnato ai giapponesi; ogni atto ostile ed ogni
azione di sabotaggio sarebbe stato punito con la fucilazione di tutto
l’equipaggio, senza processo.
Il comandante Auconi tornò allora sul Cappellini e lesse il testo dell’intesa all’equipaggio, poi fece
sbarcare tutti, tranne i quattro uomini incaricati di vigilare sul
sommergibile: il tenente del Genio Navale Direzione Macchine Giannone e tre
marinai. Congedandosi da Giannone, Auconi gli ordinò, in caso di colpo di mano
giapponese, di dichiarare l’illegalità di una simile azione e di opporsi
materialmente ma senza spargimento di sangue, per non aggravare la situazione.
Auconi (che aveva preso con sé la bandiera di combattimento del Cappellini) ed il resto dell’equipaggio
furono fatti salire su un automezzo che li avrebbe dovuti trasportare
nell’accantonamento previsto dall’accordo, ma presto gli uomini del Cappellini compresero di essere stati
raggirati: il veicolo li trasportò per due ore, dopo di che furono fatti
scendere e percorrere un altro lungo tratto a piedi lungo un dirupo scosceso,
fino a degli sgangherati baraccamenti situati in mezzo alla giungla e
circondati da filo spinato. Quando Auconi protestò, per risposta ebbe delle
botte.
Per due giorni gli uomini del Cappellini
vennero lasciati isolati, senza notizie e senza cibo; il terzo giorno
arrivarono il tenente Giannone ed i tre marinai lasciati di guardia, che
riferirono che i giapponesi avevano catturato il sommergibile con la forza.
Ciò che era successo era che due ufficiali ed un interprete giapponesi
erano saliti sul Cappellini con la
scusa di “vedere i bagagli dei due ufficiali di passaggio”, ed una volta a
bordo avevano aggredito gli italiani di guardia e chiamato un plotone di
soldati che, baionetta inastata sui fucili, erano accorsi sul sommergibile ed
avevano sopraffatto la guardia.
Il 20 settembre Auconi scrisse una lettera di protesta all’ammiraglio
Enomoto, accusandolo di mancanza di lealtà e facendogli notare che Italia e
Giappone non erano in guerra, ma per tutta risposta un drappello giapponese
guidato dal tenente Takahashi irruppe negli alloggi degli italiani e confiscò
tutti i documenti firmati dai giapponesi, a partire dall’impegno firmato da Enomoto
il 16 settembre.
Il 23 settembre gli uomini del Cappellini
furono trasferiti nel campo di prigionia di Sime Road, dove in breve furono
raggiunti dagli uomini di Torelli e Giuliani.
Nei giorni successivi si scoprì nel campo un marinaio radiotelegrafista
del Giuliani, Martini: questi era
stato separato dal resto dell’equipaggio del Giuliani su richiesta dello stesso comandante Tei, dopo essersi
reso protagonista di scalmanata indisciplina (tentativo di assalto alla cambusa
per procurarsi liquori, manifestazioni fasciste con alcuni altri
sottufficiali).
Per alcuni giorni l’equipaggio del Cappellini
visse in un limbo; tutte le sere si leggeva la Preghiera del Marinaio e si
concludeva al grido di “Viva il re”, ma un giorno i giapponesi comunicarono –
mentendo – che il re aveva abdicato. A questo punto, gli uomini del Cappellini credettero che l’Italia fosse
in stato di occupazione; quando fu annunciata la costituzione della Repubblica
Sociale Italiana, il 23 settembre 1943, Auconi dichiarò la sua adesione ad
essa, e tutto l’equipaggio, ufficiali compresi, aderì piuttosto spontaneamente
alla RSI, con un’unica eccezione: il sergente infermiere Olivo Fattoretto.
Il 24 settembre Auconi s’incontrò con i comandanti di Torelli e Giuliani, Tei e Gropallo, a colloquio dal generale Tsunemichi
Arimura, comandante dei campi di prigionia di Singapore e della Malesia. Tei e
Gropallo si dichiararono fedeli a Vittorio Emanuele III, mentre Auconi asserì
che, se fosse nato un governo Mussolini riconosciuto da Germania e Giappone,
lui avrebbe obbedito a quest’ultimo. Iniziò poi a parlare di politica, ma venne
redarguito dal generale Arimura, che gli ricordò che, in quanto ufficiale, non
doveva occuparsi di politica, bensì obbedire agli ordini del suo re.
Il 2 ottobre 1943, quando si recò nuovamente a colloquio col tenente
colonnello nipponico Bano, Auconi aveva già modificato la sua divisa
(rimuovendo, ad esempio, la corona dal berretto).
Tra gli equipaggi di Torelli
e Giuliani le cose andarono
diversamente: i comandanti e tutti gli ufficiali, tranne uno, rimasero fedeli
al re e vennero trattati avviati alla prigionia; sottufficial e marinai (ed
anche gli operai militarizzati della base), con pochissime eccezioni, aderirono
invece alla RSI e si misero sotto il comando di Auconi. Questi provvide, tra
l’altro, a raccogliere gli indirizzi di tutti i componenti degli equipaggi dei
sommergibili, che consegnò poi alle autorità nipponiche affinché fossero
segnalati alla Croce Rossa Internazionale.
Il 28 ottobre, anniversario della marcia su Roma, fu organizzata una
cerimonia al termine della quale gli equipaggi gridarono «Viva il duce», anche
se non eseguirono il defilamento (mancava lo spazio). Gli uomini furono
invitati a firmare una dichiarazione di lealtà al governo regio, che divideva
chi rimaneva fedele al re da chi intendeva aderire alla RSI: firmarono in tutto
soltanto 28 uomini, di cui 17 ufficiali (perlopiù di Torelli e Giuliani).
Tutti gli altri aderirono alla RSI: tra di essi, compatto, l’intero
equipaggio e gli ufficiali del Cappellini,
tranne il sergente infermiere Olivo Fattoretto.
Inizialmente i due gruppi furono trasferiti insieme in un altro campo
di transito lungo la Sime Road, una vecchia piantagione di gomma con baracche
di foglie di palma intrecciate e vitto scarso e saltuario. Dopo due mesi il
gruppo dei “badogliani” venne trasferito nel campo di prigionia di Kranji, e da
lì (sul finire del 1943) in un altro campo di prigionia lungo la Sime Road. Qui
languirono fino alla fine della guerra nelle inumane condizioni di vita che i
giapponesi riservavano ai loro prigionieri: razioni al limite della fame,
lavoro massacrante, disciplina regolata da botte e bastonate.
Diversa fu la sorte degli uomini che avevano aderito alla RSI.
Parecchi s’imbarcarono su navi mercantili tedesche presenti in Estremo
Oriente, entrando a far parte dei loro equipaggi. In undici imbarcarono sulla
nave cisterna Brake, adibita a
rifornimento di sommergibili; alle 12.10 cdl 12 marzo 1944, però, la nave – già
avvistata da un aereo alle 10.56 – fu attaccata dal cacciatorpediniere britannico
Roebuck e costretta
all’autoaffondamento, alle 13.20, in posizione 31°45’ S e 72°16’ E. Il
centinaio di superstiti, tra cui tutti gli 11 italiani, venne recuperato dal
sommergibile tedesco U 168, che li
sbarcò a Batavia dopo due settimane.
L’affondamento della Brake
segnò la fine dell’impiego di unità rifornitrici in mare; gli italiani rimasero
a lungo a Giava in stato di semiprigionia, senza che nessuno più si curasse di
loro (questo, fino a quando non furono trasferiti a Singapore e mandati nel campo
di Changi, come prigionieri).
Altri dieci italiani s’imbarcarono sul piroscafo tedesco Bogotà, che rimase bloccato in Giappone
fino alla fine del conflitto.
Altri cinque s’imbarcarono sul piroscafo Quito, anch’esso tedesco, convertito in nave appoggio sommergibili.
Il 28 aprile 1945 questa nave fu silurata ed affondata dal sommergibile
statunitense Bream al largo di
Bandjermassin (Borneo meridionale); i cinque italiani finirono in Giappone, dove
si trovavano alla fine della guerra.
Un numero ancora maggiore di italiani, 75 tra ufficiali e marinai, si
era invece imbarcato il 17 novembre 1943 (per altra fonte, il 29 ottobre), col
permesso dei giapponesi, sulle motonavi tedesche Burgenland e Weserland,
in partenza per la Francia con carichi di materiali strategici. Sulla Burgenland s’imbarcarono il comandante
Auconi, tutto lo stato maggiore del Cappellini,
un guardiamarina del Torelli e 26
marinai; sulla Weserland salirono 37
marinai.
Nessuna delle due giunse a destinazione: la Weserland fu avvistata il 2 gennaio 1944 da un idrovolante
statunitense PBY Catalina, 595 miglia a sud/sudovest dell’isola di Ascensione,
ed intercettata il giorno seguente dal cacciatorpediniere statunitense Somers. Affondata la nave nel punto
14°55’ S e 21°30’ O (a 900 miglia da Asuncion e 1200 miglia dall’Africa), il Somers ne recuperò 130 naufraghi, mentre
altri superstiti furono soccorsi il 6 gennaio da navi statunitensi e brasiliane.
Nell’affondamento della Weserland
trovò la morte un ex membro dell’equipaggio del Cappellini, il marinaio Mario Sganzerli.
Non diversa la sorte della Burgenland:
camuffata da mercantile statunitense Floridian,
lasciò Singapore il 17 novembre 1943 ed attraversò indenne l’Oceano Indiano,
doppiando il Capo di Buona Speranza ed iniziando poi la navigazione
nell’Atlantico meridionale. Il 5 gennaio 1944 fu avvistata da un idrovolante
statunitense Martin PBM-3S Mariner del VP-203, che richiamò sul posto
l’incrociatore leggero Omaha e dal
cacciatorpediniere Jouett: dopo
essere stata cannoneggiata, la nave si autoaffondò nel punto 07°29’ S e 25°37’
O (Atlantico meridionale, a 600 miglia da Pernambuco).
Tra i “passeggeri” della Burgenland,
come detto, c’erano proprio il comandante Auconi e parte degli uomini del Cappellini; insieme all’equipaggio
tedesco, si imbarcarono sulle cinque scialuppe, che non furono soccorse dalle
navi affondatrici. Le loro sorti si divisero: una lancia fu soccorsa il 7
gennaio dal cacciatorpediniere statunitense Davis,
due da altre navi statunitensi (tra cui il cacciatorpediniere Winslow) e brasiliane nei giorni
successivi, mentre le ultime due raggiunsero le coste del Brasile dopo una
lunga ed avventurosa navigazione.
Su una di queste ultime si trovavano Auconi ed il comandante tedesco
della Burgenland: questi decise di
cedere il comando delle scialuppe ad Auconi, ufficiale più anziano e di
maggiore esperienza. Per ironia della sorte, questi uomini del Cappellini si ritrovarono naufraghi non
lontano dall’isola dell’Ascensione, dove un anno e mezzo prima si erano trovati
i sopravvissuti del Laconia, che
proprio il Cappellini aveva soccorso.
In nove giorni Auconi e gli occupanti della sua lancia, 8 italiani e 24
tedeschi, percorsero 700 miglia a remi e con l’ausilio di una vela, fino a
giungere in vista della costa brasiliana; a quel punto, il 15 gennaio, furono raggiunti
soccorsi da una nave brasiliana, che li portò quali prigionieri di guerra
dapprima a Pernambuco (Brasile) fino al 3 marzo, e poi negli Stati Uniti. Imbarcati
su una nave, giunsero il 24 marzo a New Orleans; dapprima furono internati nel
campo di Monticello (vicino a Little Rock, in Arkansas), e poi (il 10 aprile
1944), falliti i tentativi di convincerli all’arruolamento nelle Italian
Service Units (squadre di lavoro composte da ex prigionieri ed internati
italiani, create dopo l’armistizio e poste al servizio dell’esercito
statunitense), furono trasferiti nel «Fascist Criminal Camp» di Hereford
(Texas), da dove sarebbero rimpatriati nel febbraio 1946.
Altri furono inviati in campi di prigionia situati nelle Hawaii, tornando
anche loro in Italia nel dopoguerra.
Un’altra settantina degli aderenti alla RSI, infine, rimasero a
Singapore. Una cinquantina fu adibita a lavori di manutenzione presso tale
base, mentre altri 18 italiani, costituiti da personale tecnico, furono selezionati
per integrare gli equipaggi tedeschi dei tre sommergibili catturati, ormai
incorporati nella Kriegsmarine (i tedeschi, a corto di personale, andarono a
cercare volontari tra gli italiani internati, col permessod dei giapponesi): in
quattro, tra cui il capo contabile Lo Casto ed il capo elettricista Lanna,
imbarcarono sul Cappellini, mentre su
Giuliani e Torelli ne andarono sette per ciascuna unità.
Una foto del Cappellini, forse già in Estremo Oriente e sotto controllo tedesco o giapponese (da it.wikipedia.org) |
I tre sommergibili, dopo l’internamento dei loro equipaggi, erano
passati sotto il controllo del viceammiraglio Hiraoka Kumeichi, comandante
della 9a Base di Sabang. La Marina Imperiale giapponese non era però
interessata ai sommergibili italiani, al contrario della Kriegsmarine; le tre
unità furono quindi consegnate a quest’ultima, nella quale furono incorporate
con i nomi di UIT 23 (Giuliani), UIT 24 (Cappellini) ed UIT 25 (Torelli). Il trasferimento del Cappellini alla Kriegsmarine ebbe luogo
il 22 ottobre 1943, con una cerimonia solenne a cui presenziarono l’ammiraglio
Paul Wenneker, addetto navale tedesco a Tokyo, e diversi alti ufficiali
giapponesi.
Il 6 dicembre 1943 l’ormai ex Cappellini
entrò in servizio nella Kriegsmarine con il nuovo nome di UIT 24, assegnato alla 12. Unterseebootsflottille (avente sede a
Bordeaux); ne assunse il comando il tenente di vascello Heinrich Pahls, che ne
sarebbe rimasto comandante fino al maggio 1945. Secondo alcune fonti, il
sommergibile – designato come «Frontboot
mit überwiegendem Einsatz für Transportunternehmungen», cioè “unità di
prima linea destinata principalmente al trasporto” – venne riarmato dai
tedeschi con un cannone da 105 mm, sistemato sul ponte, oltre che con
l’installazione di una mitragliera da 20 mm su una piattaforma dietro la
torretta.
Quando la Marina tedesca apprese che il sommergibile Ammiraglio Cagni, sorpreso
dall’armistizio in Oceano Indiano, aveva raggiunto Durban (Sudafrica) e che
dunque i nomi in codice «Aquila» dovevano ormai essere noti ai britannici, ai
sommergibili furono assegnati dei nuovi nominativi convenzionali, ossia
«Mercator III» (l’UIT 23 già Giuliani), «Mercator IV» (l’UIT 24 già Cappellini) e «Mercator V» (l’UIT
25 già Torelli).
La Kriegsmarine non aveva però personale sufficiente, in Estremo
Oriente, per poterli armare. C’era l’equipaggio del sommergibile U 511, donato alla Marina giapponese ed
appena giunto a Kure, ma quei 49 uomini non bastavano per armare i tre
battelli: ne sarebbero serviti almeno 35-40 per ognuno dei sommergibili. Una
parte del problema fu risulto imbarcando i naufraghi di navi tedesche affondate
in Estremo Oriente (tra di esse, la “nave corsara” Michel), nonché reclutando ed addestrando nel minor tempo possibile
civili tedeschi che si trovavano in quelle terre; inoltre, come detto, diciotto
tra sottufficiali e marinai italiani che avevano fatto parte dei loro equipaggi
vennero convinti a tornare a bordo, formando equipaggi misti italo-tedeschi
(probabilmente anche per via della scarsa familiarità dei marinai tedeschi con
i motori e le strumentazioni dei sommergibili italiani).
Per l’UIT 23 e l’UIT 24 era previsto il rientro in Europa
agli inizi del 1944. A metà gennaio i loro equipaggi consegnarono dei regali
per le loro famiglie, comprati in Giappone e non imbarcabili sui sommergibili
per mancanza di spazio, ad un violatore di blocco tedesco in procinto di
partire.
Per il rifornimento in mare (loro e di altri sommergibili in partenza
od in arrivo dalla Francia) erano previsto l’utilizzo di due navi cisterna, la Charlotte Schliemann (la stessa nave che
già aveva rifornito il Cappellini al
tempo della sua sosta forzata nelle Canarie, nel lontano gennaio 1941) e la già
citata Brake.
L’UIT 24 (da www.tsushima.su) |
Al comando del tenente di vascello Pahls, l’UIT 24 lasciò Singapore alle 2.05 del 2 febbraio 1944 diretto a
Penang, dove giunse alle nove del giorno seguente.
L’8 febbraio, alle 9.05, l’UIT 24
salpò da Penang per tornare in Francia, con a bordo un carico di materiali
strategici: 130 tonnellate di gomma, 60 di zinco in lingotti, cinque di
tungsteno, due di chinino e due di oppio (per altra fonte: 115 tonnllate di
caucciù, 55 di stagno, 10 di altri materiali tra tungsteno, oppio e chinino).
L’incontro dell’UIT 24 con la
Charlotte Schliemann, per il
rifornimento, era previsto per il 23 febbraio 1944, nel punto 31°03’ S e 55°12’
E.
La sezione d’intercettazione OP-20-G dell’Atlantic Section della U.S.
Navy, tuttavia, aveva intercettato tre messaggi relativi ai previsti
rifornimenti in mare dell’UIT 24 e di
altri sommergibili tedeschi: la Charlotte
Schliemann era giunta a Singapore il 24 dicembre 1943, proveniente dalla
Cina, ed il 13 gennaio 1944 l’Atlantic Section poté apprendere, grazie alle
decrittazioni, che la cisterna tedesca avrebbe dovuto rifornire l’UIT 24 e l’U 510, diretti in Europa, nonché quattro altri U-Boote provenienti
dalla Francia. La Charlotte Schliemann
lasciò Singapore l’8 gennaio, giunse a Batavia l’11 e ripartì poi per il primo
appuntamento, con l’U 510, che ebbe
regolarmente luogo il 26 gennaio. I decrittatori statunitensi intercettarono
anche i messaggi relativi a data ed ora di tale incontro, nonché a quelli successivi,
compreso quello con l’UIT 24;
inviarono allora le loro unità per intercettare e distruggere la rifornitrice
tedesca. Il 12 febbraio 1944, infatti, la Charlotte
Schliemann venne affondata dal cacciatorpediniere britannico Relentless in posizione 23°23’ S e
74°37’ E.
I comandi tedeschi seppero della perdita della Schliemann dopo alcuni giorni; a questo punto venne deciso
l’impiego della Brake, che era stata
inizialmente tenuta di riserva. La cisterna lasciò Singapore il 29 febbraio
1944, per rifornire l’UIT 24 ed i
sommergibili in arrivo dalla Francia. Ai sommergibili venne comunicato che il
nuovo incontro avrebbe avuto luogo il 10 marzo 1944 nel punto 34°57’ S e 63° E,
poi cambiato in 31°57’ S e 73° E per l’11 marzo, a mezzogiorno. Gli
statunitensi, però, intercettarono i messaggi in entrambe le occasioni, e si
ripeté il copione già visto per la Schliemann:
il 12 marzo, mentre era intenta nel rifornimento di tre U-Boote (non c’era,
però, l’UIT 24), la Brake venne intercettata dal
cacciatorpediniere britannico Roebuck
e costretta ad autoaffondarsi.
L’UIT 24, giunto nel punto
indicato dagli ordini ricevuti, iniziò a navigare in cerchio, attendendo
l’arrivo del segnale convenzionale della Brake,
che l’avrebbe dovuto rifornire per permettergli di proseguire il viaggio:
durante quei giorni, nei quali il tempo andò sempre peggiorando, il
sommergibile subì vari danni per via del mare avverso, compresa l’asportazione
di parte del pagliolato del ponte di coperta ed anche delle antenne radio, che
vennero rapidamente sostituite con un’antenna di fortuna. Quando giunse, via
radio, la notizia dell’affondamento della Brake,
l’UIT 24 si venne a trovare in una
situazione disperata: non solo era azzerata la possibilità di tornare in
Europa, ma a bordo non c’era neppure carburante sufficiente per tornare
indietro. Il BdU organizzò allora un rifornimento d’emergenza da parte di un
altro sommergibile tedesco, l’U 532
(capitano di fregata Otto Heinrich Junker), che si era rifornito dalla Brake poco prima che questa fosse affondata:
al sommergibile di Pahls fu ordinato di raggiungere un nuovo punto per
l’incontro, che sarebbe dovuto avvenire il 18 marzo. L’UIT 24 ci arrivò a stento, alternando i motori diesel e quelli
elettrici per centellinare fino all’ultima goccia di nafta disponibile.
L’incontro tra i due sommergibili ebbe luogo alle 15.15 del 18 marzo
1944: tra le due unità vennero passate delle manichette per l’acqua, che l’U 532 utilizzò per pompare la nafta nei
serbatoi ormai quasi vuoti dell’UIT 24.
Diversi squali si avvicinavano minacciosamente alle manichette ogni volta che
queste toccavano l’acqua, tanto che i marinai tedeschi dovettero sparare contro
di essi, uccidendone alcuni ed inducendo gli altri ad allontanarsi. Più volte
le manichette si spezzarono, e furono ogni volta faticosamente rattoppate; in
un modo o nell’altro, l’U 532 riuscì
a cedere all’UIT 24 novanta metri
cubi di nafta (40 tonnellatre).
Terminato il rifornimento, il sommergibile ex italiano dovette dirigere
per rientrare a Penang. Come se non bastasse, durante la navigazione di rientro
i motori dell’UIT 24 subirono anche
un’avaria; di ciò fu incolpato il personale tecnico italiano. A coronare il
tutto, problemi “disciplinari”: il motorista Heinz Rehse affermò pubblicamente,
in sala mensa, che secondo lui la guerra era persa, venendo redarguito dal
comandante, che lo accusò di disfattismo e minacciò di deferirlo alla corte
marziale. La vicenda, comunque, non ebbe seguito. Anche tre degli italiani
imbarcati come parte dell’equipaggio si rifiutarono di eseguire gli ordini,
tanto che all’arrivo in porto del sommergibile vennero sbarcati e nuovamente
internati. L’UIT 24 giunse a Penang il
3 aprile 1944, alle 10.05.
L’UIT 24 nel Mare Interno di Seto (Seto-Naikai), in Giappone, nell’agosto 1944 (da it.wikipedia.org) |
Nei mesi successivi, il sommergibile, al pari dell’UIT 25 (l’UIT 23 era
stato affondato dal sommergibile britannico Tally-Ho),
effettuò alcuni viaggi di trasporto di materiali tra il sudest asiatico ed il
Giappone. In seguito ad un accordo tra le autorità tedesche e quelle
giapponesi, i due “UIT” superstiti dovevano trasportare da Singapore al Giappone
cibo provenienti dalle piantagioni del Sud-Est asiatico, dove ce n’era in
abbondanza, per gli europei che si trovavano in Giappone; e dal Giappone a
Singapore rifornimenti militari per le truppe nipponiche stanziate sul
continente.
Alle 3.04 del 6 aprile il battello lasciò Penang e tornò a Singapore,
dove giunse alle 3.35 dell’8 aprile; alle 4.01 del 25 maggio lasciò Singapore con
34 tonnellate di zinco e volframio (per altra fonte questo carico fu imbarcato
a Penang e sbarcato a Singapore) e diresse per Tama, in Giappone, arrivandovi all’1.05
dell’8 giugno. Qui fu sottoposto ad un periodo di lavori in bacino nei cantieri
Mitsui (riguardanti soprattutto l’apparato motore), che durarono oltre due
mesi. Ripartì alle 3.15 del 28 agosto diretto a Kobe, dove giunse alle 00.05
del giorno seguente.
Alle 16.18 del 5 settembre 1944 il sommergibile ripartì da Kobe per
tornare a Singapore, dove arrivò alle 7 del 19 settembre, ed alle 7.07 del 28
settembre proseguì per Penang, arrivandovi alle 9.10 del 30. Proprio per
settembre 1944 era previsto un nuovo tentativo di tornare in Europa, che venne
tuttavia annullato per mancanza di carburante e di mezzi per il rifornimento.
Il 1° ottobre, frattanto, l’UIT
24 era stato formalmente trasferito dalla 12. Untersebootsflottille alla
33. Unterseebootsflottille (con sedi a Flensburg e Penang).
Alle 2.04 del 17 ottobre lasciò ancora Penang per tornare a Singapore,
dove arrivò alle 2.09 del 19 ottobre.
Alle 5.55 dell’8 gennaio 1945 il sommergibile partì da Singapore, ma
dovette invertire la rotta e rientrare alle 23.20 del 10 gennaio, a causa di
noie ai motori.
All’1.02 del 1° febbraio 1945, infine, l’ormai logoro UIT 24 (sempre al comando di Pahls, come
in tutti gli spostamenti precedenti) lasciò per sempre Singapore alla volta di
Kobe, dove arrivò il 18 febbraio alle 9.15. Qui iniziò un nuovo periodo di
lavori, che non erano ancora conclusi quando calò il sipario sulla Germania
nazista, tre mesi dopo.
Il 9 maggio 1945 la Germania, sconfitta ed invasa, si arrese senza
condizioni: restava ora soltanto il Giappone a combattere contro gli Alleati.
Il 10 maggio l’UIT 24 si trovava in
secco per lavori nel cantiere Mitsubishi (per altra fonte, Kawasaki) di Kobe,
insieme all’UIT 25; al pari delle
altre unità tedesche nel Pacifico, venne confiscato dalle autorità giapponesi.
Il 15 luglio 1945 il sommergibile entrò in servizio nella Marina
Imperiale giapponese, con il nuovo nome di I
503, inquadrato nella 6a Flotta. L’ultimo della lunga lista di
comandanti di questo sommergibile dalle molte vite fu il tenente di vascello
Hideo Hirota (o Hirota Shuzo).
Il trasferimento dell’UIT 24
alla Marina Imperiale avvenne secondo un preciso accordo, già concluso in vista
dell’ormai prossima ed inevitabile resa: anziché lasciare i porti giapponesi per
consegnarsi agli Alleati, come stabilito dai termini della resa, gli U-Boote in
Estremo Oriente sarebbero stati confiscati dalle truppe giapponesi, armi alla
mano, e gli equipaggi internati. In realtà l’uso della forza non sarebbe stato
necessario; l’invio di soldati giapponesi armati a bordo di autocarri sarebbe
stata una pura formalità, necessaria per giustificare “onorevolmente” il
passaggio dei sommergibili in mano nipponica, senza che venissero violati i
termini della resa tedesca (in quanto i sommergibili non avevano potuto essere
consegnati agli Alleati perché requisiti “con la forza” dai giapponesi). Già il
6 maggio l’ammiraglio Wenneker aveva inviato ai sommergibili tedeschi in
Estremo Oriente (UIT 24, UIT 25, U 181, U 195, U 219 e U 862) il
segnale in codice «Lübeck», stabilito per l’attivazione del piano.
Gli equipaggi tedeschi vennero dunque internati e sostituiti da
equipaggi nipponici. Le condizioni d’internamento dei tedeschi furono però ben
diverse da quelle riservate agli italiani quasi due anni prima: gli equipaggi
vennero sistemati in un piccolo ma confortevole alberghetto alla periferia di
Kobe, acquistato dalla Kriegsmarine con denaro in gran parte ottenuto dai
giapponesi quale ricompensa per i due viaggi di rifornimento effettuati dai due
“UIT”. Alcuni dei tedeschi vennero reclutati per addestrare i nuovi equipaggi
giapponesi, aiutandoli a familiarizzare con gli apparati dei due sommergibili,
a loro sconosciuti.
Alcuni italiani irriducibili (in tutto una ventina, tra UIT 24/I 503 e UIT 25/I 504) rimasero a bordo anche dopo
questo nuovo “passaggio di proprietà”, unendosi al nuovo equipaggio nipponico; uno
di essi era Raffaele “Raffaello” Sanzio, sergente motorista sul Torelli e poi sull’UIT 25, che i giapponesi trasferirono sull’I 503 nominandolo – secondo quanto da lui raccontato molti anni
dopo – direttore di macchina.
Secondo quanto raccontato da Sanzio in un’intervista rilasciata a
decenni di distanza, il 22 agosto 1945 le mitragliere Breda da 13,2 mm dell’I 503 avrebbero abbattuto a Kobe,
durante un bombardamento, un bombardiere statunitense B-25 Mitchell, ultimo
velivolo abbattuto da un’unità dell’Asse nella guerra del Pacifico (“furono proprio le mitragliere Breda da
13,2 del mio sommergibile ad abbattere, il 22 agosto 1945, l’ultimo bimotore da
bombardamento Usa. Accadde a Kobe, e siamo stati noi Italiani a tirarlo giù”).
La veridicità di questa rivendicazione è però quanto meno dubbia, se si
considera che le forze giapponesi nel Pacifico si erano arrese agli Alleati una
settimana prima, il 15 agosto 1945 (e, per puntiglio, a quell’epoca il
sommergibile non montava più delle Breda già da tempo, bensì una mitragliera
binata C/38 da 20/65 mm). Non è di per sé impossibile che l’I 503, e precisamente i suoi mitraglieri
italiani, abbiano abbattuto un B-25 durante uno dei bombardamenti di Kobe: ma
questo, per forza di cose, avvenne in data antecedente il 15 agosto 1945.
Era prevista l’assegnazione dell’I
503 alla base navale di Kure (al cui distretto navale, il 15 luglio, il
battello venne formalmente assegnato) per concorrere alla sua difesa nel caso
di un’invasione Alleata, ma in realtà il sommergibile non fu mai trasferito da
Kobe a Kure. Di fatto, l’I 503 non
prese mai parte ad operazioni navali sotto bandiera giapponese (per una fonte,
anzi, la Marina giapponese non avrebbe mai assegnato un equipaggio all’I 503, mancando il tempo per selezionare
ed addestrare il personale: ma si tratta probabilmente di un errore).
Uno degli italiani dell’I 503,
il sottocapo cremonese Giuseppe Beccari, morì nel Mar Cinese orientale in
seguito ad un mitragliamento aereo, il 16 luglio 1945.
Alla resa del Giappone, nell’agosto 1945, l’I 503 era nei cantieri Mitsubishi di Kobe, dove venne trovato e
catturato il 2 settembre dalle forze di occupazione statunitensi. Gli italiani
che si erano uniti ai giapponesi vennero inviati in campi di prigionia.
Il sergente cannoniere Francesco Moccia sarebbe deceduto in prigionia
in Giappone il 4 settembre 1947.
Verso la fine del conflitto, i 28 uomini rimasti fedeli al re e gli
altri occupanti del grande campo lungo la Sime Road vennero trasferiti nel
campo di prigionia di Changi, costituito da una distesa di baracche realizzate
attorno all’omonimo carcere. Gli italiani furono sistemati in due celle del
carcere, piene di cimici (non diversamente dalle baracche). Proprio a Changi
ritrovarono alcuni dei loro commilitoni che avevano fatto scelta opposta:
quelli della Brake, là trasferiti da
Giava.
Il 10 settembre 1945 il campo di Changi venne liberato da paracadutisti
britannici. I prigionieri erano ridotti a larve umane dagli stenti della
prigionia, alcuni quasi in fin di vita; si ripresero grazie alle cure loro
prestate dal personale medico statunitense.
Sei dei 28 italiani rimasti fedeli al re s’imbarcarono dopo poco tempo
sul piroscafo Nine-Holland, diretto
in Inghilterra; gli altri 22 vennero imbarcati in ottobre dall’Eritrea, comandata non più da Iannucci
ma dal capitano di fregata Ugo Giudice, già sommergibilista di Betasom. Giudice
parlò anche ai 36 collaborazionisti, dicendo loro che li lasciava nella
condizione di prigionieri e che potevano incolpare solo sé stessi; tuttavia
imbarcò anche due di essi per il rimpatrio. L’Eritrea, con i 26 reduci, giunse a Taranto nel febbraio 1946. Degli
“insubordinati” lasciati da Giudice in Estremo Oriente, qualcuno si stabilì in
Giappone od Indonesia, mentre la maggior parte tornò in Italia nel 1947, quando
vennero raccolti da una nave Liberty inviata dal governo italiano a recuperare
tutti i soldati italiani sbandati che ancora si trovavano in Estremo Oriente.
Raffaello Sanzio non tornò più in Italia: amareggiato dai provvedimenti
presi dal nuovo governo italiano nei confronti suoi e degli altri militari
aderenti alla R.S.I. (considerato assente ingiustificato dal settembre '43
all'agosto '45 ed in sostanza un traditore, era stato privato del grado e della
pensione), sentendosi tradito, umiliato e abbandonato per aver fatto quello che
riteneva essere il suo dovere, decise di stabilirsi in Giappone. Sposò una
donna giapponese, prese la cittadinanza nipponica ed ottenne dal governo del
Giappone il riconoscimento del grado ed anche una pensione di guerra; giunse al
punto di cambiare il proprio nome in Sanzio Kobayashi, adottando il cognome
della moglie. Dopo parecchi decenni la Marina italiana modificò il suo
atteggiamento, se è vero che nel maggio 1992 fu nominato secondo capo e
nell’aprile 1995 fu congedato in via definitiva. Pure formalità, ad ogni modo,
per un uomo che ormai si sentiva giapponese ed aveva deciso di troncare con
ogni legame con l’Italia, che riteneva indegna di essere amata per averlo
“tradito”; Raffaele Sanzio, o Raffaello Kobayashi, si spense a Yokohama all’età
di oltre novant’anni.
Nel frattempo, si era compiuto anche il destino del Cappellini, dopo tre vite sotto altrettante
bandiere.
La dichiarazione di Potsdam, rilasciata il 26 luglio 1945 da Stati
Uniti, Regno Unito e Cina, affermava tra l’altro che le forze armate giapponesi
sarebbero state completaente disarmate; dopo il 15 agosto 1945, con la resa del
Giappone, il governo degli Stati Uniti aveva dettato le linee iniziali della
politica statunitense verso il Giappone sconfitto, che stabilivano tra l’altro
che le forze aeree, navali e terrestri dell’Impero nipponico sarebbero state
disarmate e disciolte, e che le navi da guerra sarebbero state consegnate agli
Alleati e poi distrutte o demolite in base alle disposizioni del comandante
supremo Alleato. Tutti i sommergibili giapponesi, consegnati agli Alleati,
dovevano essere demoliti, affondati, o comunque distrutti.
Il 30 novembre 1945 l’I 503
venne radiato dalla Marina Imperiale nipponica.
I sommergibili ex tedeschi che erano finiti sotto bandiera giapponese
dopo il maggio 1945 (l’UIT 24, l’UIT 25 e cinque U-Boote attivi in
Estremo Oriente) vennero inclusi nel rapporto finale della commissione navale
tripartita firmato a Berlino il 6 dicembre 1945, che stabiliva che tutti i
sommergibili tedeschi non assegnati alle potenze vincitrici (“non allocati”) avrebbero
dovuto essere autoaffondati entro e non oltre il 15 febbraio 1946. L’ex UIT 24, al pari degli altri sei,
risultava “non allocato”, pertanto doveva subire tale sorte.
Mentre i quattro ex U-Boote che si erano arresi a Giava e Singapore
vennero affondati entro il febbraio 1946, l’I
503, l’I 504 ed un terzo ex
U-Boot catturato in Giappone come loro non vennero affondati entro la data
prestabilita. Questo perché il comandante delle forze navali statunitensi (e di
conseguenza il governo degli Stati Uniti) fece notare che tali battelli erano
ormai sommergibili giapponesi, e non più tedeschi, quando si erano arresi,
dunque non rientravano nella giurisdizione della commissione navale tripartita.
Comunque, la loro fine fu rimandata solo di un paio di mesi: come già
accaduto per la flotta subacquea tedesca, infatti, anche i superstiti
sommergibili nipponici vennero affondati in massa dagli Alleati nel 1946.
Il 15 aprile 1946 l’I 503
venne affondato in alti fondali da navi statunitensi dell’U.S. Task Force 96.5
nello stretto di Kii (Kii Suido), tra le isole giapponesi di Honshu e Shikoku,
in posizione 33°40’ N e 137° E (quadrante OQ 1910).
La Marina italiana radiò formalmente il Comandante Cappellini dai propri quadri il 27 dicembre 1947.
Caduti
in guerra tra l’equipaggio del Cappellini:
Giuseppe Bastoni,
marinaio fuochista, 21 anni, di Pieve S. Giacomo, caduto in combattimento in
Atlantico il 5/1/1941
Giuseppe Beccari,
sottocapo, 23 anni, da Cremona, caduto nel Mar Cinese Orientale il 16/7/1945
per mitragliamento aereo
Gino Gioia,
secondo capo furiere, 26 anni, da Venezia, disperso il 24/3/1943 (*)
Duilio Guiducci,
marinaio cannoniere, 21 anni, da Terni, caduto il 24/3/1943 (*)
Francesco Moccia,
sergente cannoniere, 26 anni, da Pratola Serra, morto in prigionia in Giappone
il 4/9/1947
Mario Sganzerli,
sottocapo, 22 anni, da Curtatone, caduto in Atlantico il 3/1/1944
nell’affondamento della nave tedesca Weserland
Danilo Stiepovich,
tenente del Genio Navale, 28 anni, da Trieste, caduto in combattimento in
Atlantico il 15/1/1941 (M.O.V.M.)
(*) L’elenco dei
caduti della Marina Militare italiana nel secondo conflitto mondiale riporta
Duilio Guiducci e Gino Gioia come morti nel Mediterraneo Centrale, il che
risulta del tutto impossibile.
Il Cappellini all’inizio della sua vita, nei cantieri OTO del Muggiano (dall’“Almanacco storico delle navi militari italiane 1861-1995” di Giorgio Giorgerini e Augusto Nani, USMM, 1996) |
Bsera. A me risulta che il comando del Cappellini Todaro lo assunse il 26 settembre 1940.
RispondiEliminaE' possibile avere nomi, gradi e ruoli dell'equipaggio del regio Sommergibile "Cappellini" che giunse a Singapore poco prima dell'8 Settembre 1943?
RispondiEliminaVe ne sarei estremamente grato.
Buongiorno, purtroppo conosco solo quelli citati nel testo.
Elimina