domenica 1 dicembre 2024

Villarperosa

La Villarperosa a Porto Marghera (g.c. Pietro Berti via www.naviearmatori.net)

Motonave da carico di 6254,96 tsl, 3620,98 tsn e 8935 tpl, lunga 120,92 metri, larga 15,79 e pescante 10,6, con velocità di crociera di 10 nodi e massima di 11,5 nodi. Di proprietà della Società Commerciale di Navigazione, avente sede a Genova; iscritta con matricola 1758 al Compartimento Marittimo di Genova, nominativo di chiamata ICNO.

Aveva sei stive della capacità complessiva di 12.607 metri cubi.


Breve e parziale cronologia.


8 ottobre 1921

Varato nello stabilimento di Piombino dalla Società Anonima Ilva Altiforni e Acciaierie d’Italia (numero di costruzione 1) come piroscafo da carico Piombino I (per altra fonte, per esteso, Piombino Primo, ma sembra probabile un errore).

Dicembre 1921

Completato come Piombino I per il Lloyd Mediterraneo, con sede a Genova (o Roma). Stazza lorda originaria 6224 o 6230 tsl, netta 4402 tsl.

La storia della costruzione del Piombino I è piuttosto insolita: la nave non viene costruita in un vero e proprio cantiere navale, bensì nelle acciaierie Ilva di Piombino, solitamente non dedite alle costruzioni navali, nelle quali per l’occasione è stato appositamente realizzato uno scalo in riva al mare. Inoltre, la nave non viene costruita per una compagnia di navigazione, ma per la stessa società Ilva.

Il Piombino I fa parte di un gruppo di piroscafi da carico alla rinfusa fatti costruire nei vari stabilimenti dell’Ilva per uso diretto da parte della medesima società: nel primo dopoguerra si registra infatti in Italia una carenza di naviglio mercantile dovuta alle perdite causate dagli U-Boote tedeschi durante il conflitto mondiale, mentre i cantieri navali sono ancora oberati dalle commesse belliche in via di completamento. Per garantire l’approvvigionamento di materie prime per i propri stabilimenti, la società Ilva ha dunque deciso di costruire da sé alcune navi da impiegare nel loro trasporto. Questi piroscafi vengono battezzati con il nome dello stabilimento che li ha costruiti (Piombino, Bagnoli etc.) seguito da un numero romano.

Prima ancora che la costruzione dei nuovi piroscafi sia ultimata, tuttavia, l’Ilva viene travolta dalla crisi postbellica che colpisce l’industria pesante italiana in seguito alla scomparsa delle commesse belliche che ne avevano alimentato una crescita smisurata. I bastimenti già ultimati od in via di completamento (solo tre: il Piombino I ed i gemelli Piombino II e Bagnoli I) vengono così subito venduti, in blocco, al Lloyd Mediterraneo di Genova, compagnia attiva soprattutto nel trasporto di merci alla rinfusa e per la quale le nuove navi dell’Ilva si rivelano quindi particolarmente adatte.

Il Piombino I pronto al varo (foto Luigi Giovannardi, dall'Archivio storico della Città di Piombino "Ivan Tognarini")

1923 o 1924

Cambia nome in Valsugana, nominativo di chiamata PKVW.

Tutte le navi del Lloyd Mediterraneo portano nomi di che iniziano per “Val”, tanto che internazionalmente la compagnia è nota come “Val Line”: contestualmente, il Piombino II diventa Valsesia ed il Bagnoli I riceve il nome di Valtellina.

1925

Acquistato dalla neonata Società Commerciale di Navigazione, con sede a Genova.

La Società Commerciale di Navigazione, avente sede legale a Torino e sede operativa a Genova, è stata fondata nel 1924 da Giovanni Agnelli, presidente della FIAT, con il duplice scopo di diversificare le attività del suo conglomerato industriale e di promuovere i motori marini prodotti dalla FIAT stessa. A questo scopo, la società acquista sei piroscafi, tra cui il Valsugana (gli altri sono Valsesia, Valtellina, Ansaldo VIII, Valdieri ed il britannico Montgomeryshire), da trasformare in motonavi sostituendone le macchine a vapore con motori diesel FIAT; insieme ai nuovi motori i sei bastimenti riceveranno nomi legati alla FIAT ed alla famiglia Agnelli.

Altra fonte data l’acquisto del Valsugana da parte della Società Commerciale di Navigazione al settembre 1924.

1926 o 1927

Ribattezzato Villarperosa (dal nome del paese torinese sede delle officine RIV, consociate della FIAT e specializzate nella produzione di cuscinetti a sfere) e rimotorizzato: le originarie turbine a vapore Franco Tosi (due, innestate su un unico asse) vengono sostituite con un motore diesel a quattro cilindri da 606 HP nominali prodotto dalla FIAT Grandi Motori di Torino. Nominativo di chiamata radio PLGX; la stazza lorda diviene di 6255 tsl, quella netta di 3621 tsn.

Quattro degli altri cinque piroscafi acquistati e rimotorizzati dalla Società Commerciale di Navigazione ricevono i nomi di Pellice, Chisone, Juventus e Riv, mentre il quinto, il Valsesia, naufragherà nel 1926 prima di poter cambiare nome ed apparato motore.

1931

Trasferita al Compartimento Marittimo di Venezia (matricola 234), ma l’anno successivo torna a quello di Genova.

1932

È comandante della Villarperosa il capitano G. Pastorino.

1934

Il nominativo di chiamata radio diventa ICNO.

21-25 aprile 1940

Nella fase conclusiva della “non belligeranza” italiana, la Villarperosa viene trattenuta a Gibilterra per cinque giorni dalle autorità di controllo britanniche per via di una differenza di 350 tonnellate tra il quantitativo di rottame di ferro indicato nella polizza di carico e quello riportato dal Navicert (certificato che attesta che una nave di un Paese neutrale non è dedita al trasporto di merci belliche per un Paese belligerante, proprio al fine di evitare visite di controllo in alto mare e dirottamenti nei porti britannici).


La Villarperosa sotto carico (da Shipsnostalgia-utente Gijsha)

Sotto la bandiera di Panama


Quando l’Italia entrò nel secondo conflitto mondiale, il 10 giugno 1940, la Villarperosa si ritrovò ad essere tra le oltre duecento navi mercantili italiane che la dichiarazione di guerra sorprese al di fuori del Mediterraneo, a migliaia di chilometri dalla madrepatria, dove non avevano alcuna speranza di fare ritorno. Più precisamente, lo scoppio della guerra sorprese la motonave, comandata dal capitano Adriano Merlano Persia, a Wilmington (Carolina del Nord), sulla costa orientale degli Stati Uniti, dove si trovava per caricare rame e rottame di ferro. Non avendo dove andare, con la Royal Navy che controllava saldamente l’Atlantico, la Villarperosa rimase a Wilmington, venendovi internata quale nave mercantile di Paese belligerante in un porto neutrale.

La nave fu ormeggiata in un’ansa del fiume Cape Fear detta Horseshoe Bend, circa un miglio e mezzo a monte di Wilmington, vicino alla Eagles Island, e vi languì inattiva per i successivi nove mesi. Durante questo periodo, divenuto evidente che la guerra non sarebbe finita presto, la Villarperosa trasbordò il suo carico di rame e ferro su una nave spagnola.


Nient’altro degno di nota accadde fino al 30 marzo 1941, quando le autorità statunitensi, pur essendo quel Paese ancora neutrale, decretarono la confisca di tutte le navi di Paesi dell’Asse (od ad essa assoggettati, come la Danimarca) che si trovavano nei porti degli Stati Uniti. In base ad ordini emessi da Washington, approvati dal presidente Franklin Delano Roosevelt, soldati e personale della Guardia Costiera statunitense, armati di fucili e mitragliatrici, abbordarono decine di bastimenti, sbarcando sotto la minaccia delle armi i loro equipaggi, che furono poi temporaneamente rinchiusi nelle carceri locali o nei centri di primo ricevimento per immigrati. Si trattò del primo caso di uso della forza armata da parte statunitense nella seconda guerra mondiale. Complessivamente vennero catturate 65 navi per un totale di 296.615 tsl: 28 erano italiane (169.031 tsl), due tedesche (8999 tsl) e 35 danesi (118.535 tsl).

Il pretesto per quest’azione fu che gli equipaggi italiani e tedeschi avessero iniziato a sabotare le loro navi, e che l’intervento militare statunitense fosse necessario per fermarli, in esecuzione delle norme dell’Espionage Act del 1917 (che tra le altre cose autorizzava il sequestro di navi straniere per impedirne il sabotaggio, anche da parte dei loro stessi equipaggi) e del proclama presidenziale del 27 giugno 1940 (che citava proprio l’Espionage Act nell’ampliare i poteri delle autorità statunitensi su tutte le navi, nazionali o straniere, presenti nelle acque degli Stati Uniti).


Proprio sulla Villarperosa sarebbe scattata la scintilla che portò la Guardia Costiera statunitense a scoprire il sabotaggio in massa delle navi italiane: il 29 marzo 1941 la motonave della “Commerciale” ricevette dall’autorità portuale l’ordine di cambiare ormeggio, ma il suo comandante richiese l’assistenza dei rimorchiatori, lamentando un’avaria. Ciò insospettì gli statunitensi, che procedettero ad un’ispezione della nave e scoprirono che il suo apparato motore era stato reso inutilizzabile a colpi di mazza. (Secondo un articolo del luglio 1941 sul "Wilmington Morning Star", la Guardia Costiera avrebbe agito in seguito ad una soffiata da parte di una fonte locale, ed alcuni siti affermano che le navi dell’Asse furono poste in “custodia protettiva” in conseguenza dei risultati di un’indagine condotta dalla Guardia Costiera circa una notizia secondo cui l’equipaggio della Villarperosa stava sabotando la nave).

Il comandante Merlano Persia ed il resto dell’equipaggio, sbarcati sotto scorta armata, vennero portati a Savannah, in Georgia, dove Merlano Persia ed altri nove uomini della Villarperosa firmarono una confessione con cui ammettevano di aver sabotato la nave, affermando di aver agito in base agli ordini di “un ammiraglio” in servizio presso l’ambasciata italiana a Washington.

Nel pomeriggio del 29 marzo la notizia del sabotaggio della Villarperosa, insieme a notizie analoghe giunte da Baltimora (dove si trovavano altri due piroscafi italiani, l’Euro ed il Pietro Campanella), venne trasmessa dal reparto informazioni della Marina statunitense al Dipartimento del Tesoro, venendo quindi portata a conoscenza del presidente Roosevelt a Port Everglades; con la sua approvazione, il personale della Guardia Costiera statunitense venne inviato ad assumere il controllo di tutte le navi italiane, tedesche e danesi presenti nel territorio statunitense, tra la tarda sera del 29 marzo e la prima mattina del 30. Questa mossa, fu poi dichiarato da funzionari governativi, aveva avuto uno scopo “puramente protettivo”, ed era stata “decisa per evitare l’ulteriore apportamento di danni che avrebbero rappresentato una minaccia per le navi americane e per il traffico che si svolgeva nei porti degli Stati Uniti”.


In effetti gli equipaggi delle navi dell’Asse avevano davvero iniziato a sabotare le loro navi, ma non senza motivo: obbedivano ad una direttiva impartita dall’ammiraglio Alberto Lais, addetto navale italiano presso l’ambasciata di Washington. Era lui l’ammiraglio di cui parlavano il comandante Merlano Persia e gli altri uomini della Villarperosa nella loro confessione. Nel gennaio 1941 Lais era venuto a conoscenza dei piani del Dipartimento della Difesa statunitense, in cooperazione con la British Security Co-ordination (organizzazione stabilita in territorio statunitense dai servizi segreti britannici), per impadronirsi dei mercantili italiani presenti nei porti del Paese ed utilizzarli, con bandiera statunitense, per trasportare materiale bellico dall’America al Regno Unito (od anche, secondo un’altra versione, per consegnarli direttamente al Regno Unito, che aveva disperatamente bisogno di navi mercantili, dinanzi al crescendo delle perdite inflitte dagli U-Boote tedeschi); aveva esposto quanto aveva scoperto durante una riunione indetta da Ascanio Colonna, ambasciatore italiano negli USA. Dopo aver ottenuto le necessarie autorizzazioni da Roma, Lais aveva studiato un piano per rendere le navi inutilizzabili (per un lungo periodo di tempo) prima della cattura, senza che le autorità statunitensi se ne accorgessero; il lavoro di distruzione si sarebbe concentrato esclusivamente sugli apparati motori, da rendere inservibili nel modo più silenzioso possibile (quindi rinunciando all’uso di esplosivi), mediante la fiamma ossidrica. Gli ordini precisavano che le navi non dovevano in alcun caso essere incendiate od affondate, per evitare di recare danno alle strutture portuali, alle proprietà od ai cittadini statunitensi, non essendovi uno stato di guerra tra le due nazioni: l’opera di distruzione doveva essere esclusivamente “interna”.


Gli equipaggi di 26 dei 28 mercantili italiani che si trovavano nei porti statunitensi riuscirono ad eseguire gli ordini dell’ammiraglio Lais e sabotarono le loro navi per evitare che cadessero intatte in mano americana: tutti e 26 i bastimenti sabotati avrebbero richiesto lunghi lavori di riparazione in cantiere prima di poter tornare a navigare. Un articolo del "New York Times" dell’11 febbraio 1942 menzionò che molte delle navi catturate erano state sabotate tanto abilmente che era stato impossibile scoprire la vera entità dei danni inflitti fino a quando non erano uscite una prima volta in mare aperto («many of the seized German and Italian ships were so deftly sabotaged that it was impossible to discover all of the damage until they took a pounding at sea»). Un giornale della Francia libera affermò che un’ispezione preliminare avesse rivelato che almeno venti delle navi italiane erano state rese “quasi inutilizzabili”, mentre un successivo articolo della rivista statunitense "Life" riferì che le navi italiane erano sì danneggiate, ma risultavano tutte riparabili (il che rispondeva al vero; "Life", però, seguendo la mai del tutto sopita – ed anzi amplificata ad arte, durante quella guerra, dalla propaganda Alleata – idea anglosassone che gli italiani fossero generalmente degli incapaci ed i tedeschi ben più competenti, si soffermò ad affermare malignamente che gli italiani avessero così «pasticciato» il sabotaggio, «non avendo più successo che in Albania ed Africa», mentre l’equipaggio della cisterna tedesca Pauline Friedrich, con «abituale efficienza germanica», aveva reso la sua nave del tutto inutilizzabile, tanto da rendere improbabile una sua riparazione. Vale qui la pena di puntualizzare che a dispetto di siffatte affermazioni la Pauline Friedrich, proprio come le navi italiane, venne poi riparata e rimessa in servizio dagli americani come Ormondale…).

Un funzionario del governo statunitense, Herbert Gaston, dichiarò che il sabotaggio delle navi appariva concertato e simultaneo, e parlò di “sabotaggio su larga scala”. Alcuni dei comandanti italiani non sembrarono per nulla sorpresi quando gli uomini della Guardia Costiera salirono sulle loro navi per sequestrarle, come se se lo aspettassero; uno affermò che l’azione statunitense equivaleva ad un atto di guerra. Con l’eccezione del piroscafo Confidenza, ormeggiato a Jacksonville, non ci fu resistenza da parte dei marittimi italiani, che in generale obbedirono prontamente agli ordini loro impartiti dal personale della Guardia Costiera (né diversamente sarebbe potuto accadere, visto che gli italiani erano civili senz’armi mentre i militari statunitensi erano saliti a bordo armi alla mano). Insieme ai militari armati, erano saliti sulle navi anche marinai della Guardia Costiera per tenere in efficienza le pompe e provvedere alla manutenzione delle unità.

In totale ben 850 marittimi italiani e 63 tedeschi (altra fonte parla di 775 italiani e 100 tedeschi), presi inizialmente in custodia dalla Guardia Costiera ed affidati ai rispettivi capitani di porto dopo essere stati sbarcati dalle loro navi, vennero formalmente colpiti da mandati d’arresto con l’accusa di aver violato le leggi statunitensi sull’immigrazione, essendo rimasti nei porti oltre il limite massimo di 60 giorni fissato dalle leggi americane per i marittimi stranieri. Portavoce della tesoreria statunitense spiegarono che gli equipaggi italiani erano stati sbarcati perché era impossibile piazzare abbastanza guardie su ciascuna nave per poter tener d’occhio ogni parte di ogni nave più l’intero equipaggio.


I costi di riparazione per 16 delle navi sabotate variarono dai 60.000 ai 550.000 dollari dell’epoca per bastimento. Sulla Villarperosa, secondo un comunicato stampa diramato il 31 marzo 1941 dal Dipartimento del Tesoro statunitense, era stata distrutta una pompa di circolazione, mentre per il resto "non è stato finora scoperto nessun altro danno apparente"; ma un articolo del luglio 1941 del “Wilmington Morning Star” scriveva invece che il motore della motonave era stato completamente distrutto. In effetti, se si considerano le continue avarie che piagarono la nave per il resto della sua breve vita (come si vedrà più oltre), i danni causati dall’equipaggio dovettero essere ben più seri del sabotaggio di una pompa di circolazione. (Secondo quanto il tenente colonnello Richard Bowden Jones, della sezione di Wilmington dell’associazione United States Merchant Marine Veterans of World War II, ha scritto sul sito armed-guard.com, l’equipaggio della Villarperosa avrebbe aperto le valvole di presa a mare per tentare di autoaffondare la nave, senza riuscirci a causa della scarsa profondità del fiume Cape Fear nel punto in cui la nave era ormeggiata, così che questa si limitò ad adagiarsi con lo scafo sul fango del fondale rimanendo emersa, venendo rimessa in condizioni di galleggiabilità nel giro di poche ore. Tuttavia, per sua stessa ammissione Bowden Jones si era affidato alla sua memoria nel descrivere questi fatti, e nessuna fonte dell’epoca parla di un tentativo di autoaffondamento, che avrebbe anche contrastato con le disposizioni dell’ammiraglio Lais. Sembra dunque probabile che Bowden Jones ricordasse male).


I rappresentanti diplomatici dell’Italia e della Germania inviarono immediatamente lettere di protesta al segretario di Stato americano Cordell Hull, denunciando l’illegalità della cattura delle navi, e pretendendo il loro rilascio; la stampa dell’Asse pubblicò articoli di fuoco, parlando di “pirateria” e di “selvaggio West”. Le autorità statunitensi replicarono che il sabotaggio delle navi aveva messo in pericolo la sicurezza dei porti americani e la libertà di navigazione (secondo una fonte venne anche affermato, a titolo di giustificazione per il sequestro, che il sabotaggio della Villarperosa avrebbe avuto lo scopo di bloccare il porto di Wilmington), e che pertanto la confisca era stata necessaria e giustificata in base all’Espionage Act; inoltre, il sabotaggio di una nave da parte del suo equipaggio nelle acque degli Stati Uniti era considerato reato dalla legge statunitense, pertanto – secondo il punto di vista americano – non vi sarebbe stata alcuna illegalità nel confiscarle, ed anzi sarebbe stato preciso dovere delle autorità statunitensi impedire che gli equipaggi potessero recare ai bastimenti ulteriore danno. Le richieste di rilascio vennero rispedite al mittente.

L’ammiraglio Lais, ritenuto – a ragione – responsabile di aver ordinato il sabotaggio, venne dichiarato persona non gradita ed immediatamente espulso dagli Stati Uniti. Al momento di lasciare l’America, Lais lamentò l’utilizzo della parola “sabotaggio” da parte della stampa statunitense, ribadì – come dichiarato da uno dei comandanti – che le navi erano state sabotate per evitare che venissero usate per trasportare nel Regno Unito bombe destinate ad essere usate contro l’Italia, e dichiarò che i comandanti dei bastimenti italiani avevano «semplicemente seguito quel giuramento di onore e dovere scritto nel 1813 sulla bandiera del vostro valoroso commodoro Perry con le splendide parole “Non abbandonare la nave”». (La nave spagnola che riportava Lais in Italia venne dirottata alle Bermuda dai britannici, intenzionati a catturare l’ammiraglio, ma dopo una settimana di proteste da parte dell’ambasciata d’Italia a Washington – essendo Lais ancora coperto dall’immunità diplomatica – venne lasciato libero di ripartire).

La cattura delle navi destò reazioni diverse anche all’interno dell’ambiente politico statunitense. Il senatore Walter F. George, presidente del comitato relazioni estere nel senato statunitense, dichiarò che se marinai olandesi, norvegesi, svedesi o di qualsiasi altra nazione avessero tentato di sabotare le loro navi la Guardia Costiera sarebbe intervenuta analogamente a quanto fatto per le navi italiane; aggiunse che in base ad una legge della prima guerra mondiale una nave sabotata dal suo equipaggio in un porto americano poteva essere considerata come “persa”/“rinunciata” dalla sua nazione originaria, pertanto gli Stati Uniti se ne sarebbero potuti appropriare se lo avessero desiderato, ma che riteneva che ciò non sarebbe accaduto. Il segretario del tesoro Henry Morgenthau spiegò che la Guardia Costiera aveva pieni poteri per effetto della legge della prima guerra mondiale, e che il presidente poteva ordinare di prendere in “custodia protettiva” le navi straniere in porti statunitensi, e che poteva anche dichiarare che la nazione straniera proprietaria di un bastimento avesse rinunciato alla sua proprietà, in favore degli Stati Uniti, se il suo comandante aveva volontariamente consentito che questo fosse danneggiato. Il senatore Burton K. Wheeler, convinto neutralista e tra i maggiori avversari della politica filobritannica dell’amministrazione Roosevelt, dichiarò invece “Non abbiamo diritto legale di sequestrare quelle navi. Questo è un altro atto di guerra”. In alcuni circoli americani, discutendo sui motivi del sabotaggio, si ipotizzò – correttamente – che le navi fossero state danneggiate per prevenire un qualsiasi sviluppo che avrebbe potuto vedere le navi finire in mano britannica. In effetti, in passato portavoce britannici avevano apertamente espresso la speranza che gli Stati Uniti avrebbero sequestrato le navi italiane, tedesche e danesi presenti nei porti statunitensi.


L’apertura del processo all’equipaggio della Villarperosa sul “Wilmington Morning Star” del 22 aprile 1941 (da www.chronichlingamerica.loc.gov)

Il 21 aprile 1941 un gran giurì federale, “agendo sulla base di prove fornite dalla Guardia Costiera, dall’agenzia delle dogane e dall’FBI”, rinviò a giudizio il comandante Merlano Persia ed altri nove membri dell’equipaggio della Villarperosa per il sabotaggio della nave. Notificato dell’incriminazione dei dieci marittimi alle 16.15 del 21 aprile, il giudice Isaac Melson Meekins della corte federale distrettuale di Wilson (Carolina del Nord) dispose immediatamente che gli imputati comparissero davanti alla corte alle nove del mattino seguente. Il procuratore distrettuale della North Carolina orientale, J. O. Carr, annunciò ai giornali che il governo era intenzionato a procedere immediatamente con il procedimento penale nei confronti dei marittimi italiani, e che a meno che la difesa non avesse presentato mozione per il rinvio, il processo sarebbe iniziato già l’indomani mattina.

Il processo contro gli uomini della Villarperosa costituì la prima causa intentata negli Stati Uniti dal 1917 contro cittadini di un Paese straniero per il sabotaggio di una nave battente bandiera straniera. Il procuratore generale degli Stati Uniti, Robert Houghwout Jackson (destinato qualche anno dopo a ricoprire il ruolo di procuratore capo nel processo di Norimberga), che aveva ordinato l’arresto loro e di centinaia di altri cittadini italiani e tedeschi sospettati di essere potenziali agenti dell’Asse, chiese pene severe: sette anni di carcere per gli ufficiali, cinque per i marinai.

L’8 maggio 1941 il giudice Meekins emise una sentenza di colpevolezza per tutti gli imputati; il comandante Merlano Persia ed il direttore di macchina della Villarperosa vennero condannati a tre anni di reclusione, gli altri otto uomini ad un anno e mezzo, da scontarsi in un penitenziario federale. I dieci uomini della Villarperosa furono i primi ad essere processati per i fatti del marzo 1941, nei mesi seguenti avrebbero subito analoga sorte altri 397 marittimi italiani e dieci tedeschi, in una ventina di processi.

Dopo la condanna, i dieci marittimi della Villarperosa vennero rinchiusi nella Wilson County Jail di Wilson, dove risultavano trovarsi nel novembre 1941 secondo un documento inviato dai delegati pontifici di Washington al Vaticano, dove giunse il 5 febbraio 1942. Proprio nel febbraio 1942 veniva varata in Italia la nuova motonave Sestriere, destinata proprio a sostituire la perduta Villarperosa nella flotta della Società Commerciale di Navigazione; simbolicamente, come madrina della nuova nave venne scelta la moglie del comandante Merlano Persia.


Notizia sul “Wilmington Morning Star” del 12 luglio 1941 (da www.newspapers.digitalnc.org)

Nel dicembre 1941 il capitano Merlano Persia, insieme a diversi altri comandanti e componenti degli equipaggi della Villarperosa e dei piroscafi Euro e Pietro Campanella, aveva intanto fatto ricorso in appello contro la condanna (caso «Bersio et al. v. United States»: “Bersio” è il modo in cui i funzionari statunitensi avevano storpiato il cognome “Persia”) presso la corte d’appello del quarto circuito (U.S. Court of Appeals for the Fourth Circuit), facendosi rappresentare dagli avvocati Homer Leslie Loomis, Charles Ruzicka, Hilary W. Gans e Joseph T. Brennan. Pubblico ministero era Bernard J. Flynn; il caso venne giudicato dai giudici Parker, Soper e Dobie. Ricorrendo in appello, Merlano Persia e gli altri asserivano che l’accusa di sabotaggio in base all’Espionage Act non fosse valida perché il sabotaggio non era stato attuato con l’intento di compromettere la sicurezza della nave, bensì con il consenso dell’armatore ed allo scopo di immobilizzarla ed impedirne l’utilizzo da parte di una nazione nemica.

La sezione 1 del III titolo dell’Espionage Act, per la cui violazione Merlano Persia e tanti altri erano stati condannati, affermava che “chiunque incendiasse una nave di registro straniero, od una nave di registro americano avente il diritto di svolgere commercio con nazioni straniere, (…) od il suo carico, o che manomettesse la forza motrice o gli strumenti di navigazione di tale bastimento, o compisse qualsiasi altro atto contro o su tale nave all’interno della giurisdizione degli Stati Uniti (…) con l’intento di mettere a repentaglio la sicurezza della nave, o del suo carico, o di persone [che si trovano] a bordo, sia che l’intento sia che il danno o pericolo abbia luogo all’interno della giurisdizione degli Stati Uniti, o dopo che la nave ne sarà partita; o chiunque tentasse o cospirasse per fare un qualsiasi atto del genere con siffatto intento, sarà multato fino ad un massimo di 10.000 dollari od incarcerato fino ad un massimo di 20 anni, o entrambe le cose”. I marittimi italiani contestavano la condanna per quattro motivi: in primo luogo, non ritenevano che l’Espionage Act si potesse applicare al loro specifico caso; in secondo luogo, che gli atti d’accusa fossero insufficienti perché non si occupavano della proprietà della nave; poi, che le prove fossero insufficienti perché non dimostravano intenti criminali e specialmente quelli (di mettere a repentaglio la sicurezza della nave, del carico o dei passeggeri) previsti dall’Espionage Act; ed infine che, se l’Espionage Act era stato interpretato appositamente per “coprire” il sabotaggio commesso dagli italiani, ciò andava a violare il diritto ad un giusto processo (due process clause) previsto dal quinto emendamento della costituzione degli Stati Uniti.

La corte statunitense, com’era prevedibile, respinse una per una tutte le obiezioni avanzate da Merlano Persia e dagli altri, con sentenza emessa il 26 dicembre. Sul primo punto, i giudici americani ribadirono di ritenere chiaro che l’Espionage Act, approvato durante la Grande Guerra e pensato per tutelare i commerci tra Stati Uniti ed estero e le navi utilizzabili in tali commerci, fosse pensato proprio per vietare e punire comportamenti come quelli di cui erano stati protagonisti i marittimi italiani: “…è perfettamente chiaro che la sezione 1 del titolo III (…) si applica a qualsiasi persona che dovesse manomettere la forza motrice di qualsiasi «nave di registro straniero» (…) «con l’intento di mettere a repentaglio la sicurezza della nave, o del suo carico»”. La difesa aveva fatto notare che la legge parlava solo di navi impiegate in commerci con l’estero, mentre la Villarperosa non stava svolgendo commerci del genere, dato che era fermo all’ormeggio fin dall’inizio della guerra; ma i giudici ritennero che essendo questi una nave di registro straniero che era giunta negli Stati Uniti per svolgere commercio con Paesi stranieri, dovesse considerarsi come una nave impiegata nel commercio con l’estero, “e se anche così non fosse (…) le parole sella sezione tutelano le navi «di registro straniero» senza riferirsi al fatto che siano impiegate nel commercio con l’estero o meno”. Il fatto che il sabotaggio fosse stato compiuto col consenso dell’armatore, aggiunsero, non cambiava la situazione, perché scopo dell’Espionage Act non era di tutelare gli armatori contro atti delittuosi da parte di terzi, bensì di tutelare le navi stesse, quali strumenti utilizzabili nel vitale commercio con l’estero degli Stati Uniti, da danni causati da chiunque; “chiunque”, com’era scritto nella legge, includeva non solo ufficiali e marinai, ma anche gli armatori stessi. Obiezione forse “cavillosa” era che la parola “manomettere” (tamper) implicasse un’azione da parte di soggetti che non vantassero alcun diritto circa le navi, e fu puntualmente respinta, i giudici ritenendo che riguardasse qualsiasi interferenza impropria contro i macchinari delle navi. Con quanto detto in merito agli armatori, la corte aveva liquidato anche la seconda obiezione (gli atti d’accusa non si erano occupati della proprietà delle navi), dato che il sabotaggio non rappresentava un crimine in quanto commesso contro gli armatori, bensì per via del danno arrecato a strumenti (le navi) per il commercio con l’estero. Non era necessario occuparsi della proprietà.

Sul terzo punto, i giudici affermarono che se gli imputati avevano commesso le azioni vietate dall’Espionage Act, non erano necessarie ulteriori prove di dolo od intenzione di commettere un crimine; il punto principale era di ritenere se vi fossero prove che l’intenzione dei condannati fosse di ledere o mettere in pericolo la sicurezza della nave. I giudici ritennero che, non avendo senso parlare di “ledere la sicurezza” di un oggetto come una nave, l’Espionage Act punisse sia chi avesse leso (danneggiato in qualsiasi modo) alla nave, sia chi ne avesse messo a repentaglio la sicurezza; dunque il danneggiamento dell’apparato motore ricadeva negli atti puniti da quella legge. Ed in ogni caso, anche in caso di diversa interpretazione delle parole, il danneggiamento dell’apparato motore non poteva essere avvenuto senza compromettere o “ledere” alla sicurezza del bastimento come strumento di commercio. Obiezione della difesa era che, essendo le navi ormeggiate in porto, la semplice immobilizzazione dei loro motori non avesse leso alla loro sicurezza, e che siffatto intento non si potesse dunque presumere da quelle azioni; ma secondo i giudici “è manifesto che la distruzione dei macchinari che rendeva le navi non più in grado di muoversi ne compromettesse fino a un certo punto la sicurezza, anche se ormeggiate al molo”. Inoltre, “le navi sono fatte per solcare i mari, non per marcire all’ormeggio; e qualsiasi distruzione che renda per esse pericoloso svolgere la loro funzione essenziale potrebbe essere propriamente considerata come una compromissione della loro sicurezza”.

Il quarto punto fu liquidato ribadendo che l’Espionage Act puniva qualsiasi manomissione dei macchinari di una nave di registro straniero od impegnata nel commercio con l’estero, allo scopo di danneggiare il bastimento o di comprometterne la sicurezza.


Mentre il comandante e gli altri nove membri dell’equipaggio direttamente coinvolti nel sabotaggio rimanevano in carcere, il resto dell’equipaggio della Villarperosa, come quelli delle altre navi, venne inviato nel campo d’internamento di Fort Missoula, nel Montana. Si trattava di una installazione militare che nel 1941 era stata trasferita sotto il controllo del Dipartimento Immigrazione e Naturalizzazione (Department of Immigration and Naturalization) degli Stati Uniti per essere impiegato come centro detenzione per stranieri (Alien Detention Center). Il campo d’internamento di Fort Missoula era specificamente dedicato all’internamento di civili italiani: in 1200, complessivamente, vi finirono nel corso della guerra. In maggioranza gli “ospiti” di Fort Missoula erano costituiti proprio dai marittimi delle 28 navi confiscate nel marzo 1941, ma c’erano anche operai che avevano lavorato al padiglione italiano dell’Esposizione universale di New York del 1939-1940 e non erano potuti rientrare in Italia, nonché altri cittadini italiani che si trovavano negli Stati Uniti per vari motivi allo scoppio delle ostilità.

La delegazione pontificia a Washington, ed in particolare monsignor Egidio Vagnozzi, intercedettero nel frattempo presso le autorità statunitensi affinché anche i marittimi condannati ed incarcerati per sabotaggio (326, complessivamente) potessero essere trasferiti a Fort Missoula (dove le condizioni erano nettamente migliori rispetto alle carceri), dove già si trovavano i loro colleghi non condannati, come semplici internati anziché detenuti; tali pressioni ebbero infine successo, e tra luglio 1942 e gennaio 1943 anche i marittimi incarcerati raggiunsero Fort Missoula: il primo gruppo di dodici arrivò nel campo il 20 luglio 1942, altri sette il 26 settembre, 182 il 5 ottobre 1942 ed i restanti 125 tra la fine del 1942 e l’inizio del 1943.


Una relazione del comitato internazionale della Croce Rossa, alcuni membri del quale visitarono il campo tra il 28 ed il 30 ottobre 1942, tracciava la seguente descrizione delle condizioni di vita a Fort Missoula: il campo era situato a circa 1000 metri sul livello del mare, in una vallata la cui produzione agricola ed industriale consisteva principalmente nello zucchero; vi erano internati complessivamente 1143 italiani e 29 giapponesi. Fiduciario del campo era il capitano Paolo Saglietto, già comandante del piroscafo San Giuseppe, che fungeva da collegamento tra gli internati e gli ufficiali statunitensi al comando del campo (Saglietto sarebbe rimasto negli Stati Uniti anche dopo la guerra, sposando una donna americana e fondando nel 1947 una compagnia di navigazione a Baltimora; nel 1966 sarebbe stato insignito dall’Italia del cavalierato per l’Ordine al Merito della Repubblica Italiana, per il suo contributo ai buoni rapporti tra Italia e Stati Uniti). Gli internati erano alloggiati in baracche di legno dotate di impianti di riscaldamento, acqua corrente sia calda che fredda, stanze con uno o due letti per gli ufficiali e spaziosi dormitori per la “bassa forza”, nonché stanze di soggiorno ben areate ed impianti igienici in ottime condizioni. Le baracche occupavano uno spazio di circa un chilometro, recintato con filo di ferro.

Fuori dal recinto sorgeva un moderno edificio adibito ad ospedale, con stanze per i degenti da dodici letti ciascuna, una sezione d’isolamento, una sala chirurgica ed un gabinetto dentistico; ai malati era fornito lo stesso vitto del dottore e degli impiegati statunitensi del campo. L’ospedale era diretto da un medico statunitense, assistito da due infermieri e da un medico italiano; due volte a settimana, inoltre, un dentista faceva visita al campo, operando gratuitamente sugli internati che ne abbisognavano, grazie ad un contratto stipulato con la direzione del campo. Nelle cucine del campo, che occupavano un altro grande edifico in legno, lavoravano un cuoco italiano e 20 tra aiuto cuochi, inservienti e camerieri scelti tra gli internati che, a bordo delle navi, facevano parte del personale di cucina e di camera; la mensa equipaggi conteneva otto ordini di tavoli, e gli internati andavano a ritirare i piatti da un bancone che separava tale locale dalla cucina. Per gli ufficiali, invece, c’era una mensa a parte, più piccola, ed erano serviti dai camerieri di bordo. Le provviste fornite, per dichiarazione unanime degli internati, erano di ottima qualità, con razioni giornaliere uguali a quelle fornite ai militari statunitensi. Anche la fornitura di abiti e calzature era adeguata, mentre destava parecchie lamentele il servizio postale: nell’ottobre 1942 628 internati non avevano ricevuto alcuna lettera dall’Italia da almeno tre mesi, e parecchi di essi da tempi molto più lunghi (10, 12, anche 15 mesi).

Su iniziativa del capitano Saglietto, all’interno del campo venne realizzata una scuola che teneva corsi delle materie più svariate (alcune delle quali, per ovvi motivi, di carattere marittimo): italiano, inglese, tedesco, spagnolo, francese, matematica, navigazione, motori marini, legislazione marittima, disegno e geometria. Complessivamente, 968 dei 1143 internati seguivano uno o più corsi.

Due volte a settimana venivano proiettati nel campo film di produzione statunitense; con i mezzi messi a disposizione dal campo, inoltre, gli internati formarono due orchestre ed un gruppo artistico di prosa, organizzando concerti e rappresentazioni sia a beneficio degli internati che degli abitanti della vicina cittadina. Altri ammazzavano il tempo giocando a bocce o a golf; qualcuno dipingeva. I materiali per dipingere erano stati procurati grazie all’aiuto di una ragazza di Missoula, Margery Ann Walker Van Nice, studentessa di arte all’Università del Montana e conoscitrice della “scena artistica” del luogo. Quest’ultima contattò alcuni artisti della zona, che donarono agli internati tele, pennelli, colori ad olio e per acquerelli. Un prete internato, padre Bruno, celebrava la messa ogni domenica e si occupava dell’assistenza religiosa.

I servizi del campo includevano anche una grande lavanderia (disponibile gratuitamente agli internati, dotata di apparecchi a vapore ed azionata da motori elettrici), una biblioteca (con 4000 libri in italiano e diverse centinaia di libri in inglese e francese), un campo da calcio realizzato dagli internati, tavoli di ping pong ed una cantina-spaccio (in cui erano in vendita a prezzi ragionevoli sigari, sigarette, articoli di cancelleria, oggetti di toeletta, generi alimentari come formaggio e sardine ed altro ancora).

Gli internati erano impiegati nel lavoro principalmente nelle aziende agricole della zona di Missoula (coltivazione di barbabietole), divisi in gruppi variabili da 20 a 50 uomini per ogni fattoria (essendo ogni tenuta molto grande); altri ancora vennero impiegati in industrie della zona o nella lotta contro gli incendi boschivi. I contratti per l’impiego degli internati prevedevano un regolare salario, in base alla legislazione statunitense. Internamente al campo, attività fiorente era la realizzazione di modellini di navi: essi venivano poi messi in vendita, ed i ricavi andavano per i nove decimi a chi li aveva realizzati e per un decimo ad un fondo comune.

Una nota curiosa che emerge dal rapporto della Croce Rossa è che il 28 ottobre 1942, ventesimo anniversario della marcia su Roma, le autorità (statunitensi) del campo non solo permisero agli internati di celebrare la ricorrenza – all’epoca festività in Italia – decorando la sala delle feste con fasci e ritratti di Vittorio Emanuele III e di Benito Mussolini, ma giunsero persino a fornire delle camicie nere agli internati per i festeggiamenti (!). Per trattamento e condizioni di vita, scrisse anni dopo uno degli ex internati, Fort Missoula (noto presso gli italiani anche come “Fort Bella Vista”) era forse il miglior campo d’internamento degli Stati Uniti; i problemi più sentiti erano la forzata lontananza da casa e la mancanza di donne.

I delegati della C.R.I. interrogarono anche numerosi marittimi provenienti dalle carceri federali e comunali, i quali dichiararono unanimemente che il trattamento in prigione era stato pessimo; anche il cibo era scadente, e bisognava pagare per averne di migliore.

I marittimi italiani rimasero internati a Fort Missoula fino al 1944, quando vennero rilasciati in seguito alla nuova situazione di co-belligeranza tra Italia ed Alleati seguita all’armistizio di Cassibile. Alcuni di loro sarebbero tornati nel dopoguerra stabilendosi negli Stati Uniti, qualcuno proprio a Missoula.


Quanto alla Villarperosa, a fine maggio 1941 la nave, armata da un equipaggio scelto di uomini della Guardia Costiera statunitense, venne trasferita – a rimorchio, essendo il motore ancora fuori uso – da Wilmington a New York per le riparazioni.

Il 6 giugno 1941 le autorità statunitensi approvarono lo Ship Requisition Act, che permetteva alla Guardia Costiera di confiscare le 84 navi straniere di grandi dimensioni che giacevano “volontariamente inattive” nei porti degli Stati Uniti per il loro impiego nello sforzo bellico.

L’11 luglio il segretario del Tesoro statunitense, Henry Morgenthau, impartì agli esattori doganali di porto (collectors of customs) un ordine formale per il sequestro della Villarperosa – che si trovava in quel momento a New York – e di altre quattordici navi italiane, nonché di una tedesca, in conseguenza della loro violazione dell’Espionage Act del 1917, dopo aver ottenuto assicurazione dal Dipartimento di Giustizia che vi fosse "probabile causa" per la confisca delle navi ed il loro trasferimento agli Stati Uniti senza compensazione, stanti i sabotaggi commessi dai loro equipaggi mentre i bastimenti si trovavano inattivi nei porti statunitensi. Lo stesso 11 luglio l’ambasciata britannica a Washington annunciò che il governo britannico avrebbe rinunciato ai suoi "diritti di belligerante" e che non avrebbe sequestrato nessuna delle navi dell’Asse requisite dagli Stati Uniti, in vista dell’impiego che questi bastimenti avrebbero avuto.

L’ordine di sequestro costituiva un necessario passaggio preliminare per il procedimento giudiziario di confisca delle navi. In seguito all’ordine di confisca, la responsabilità della Villarperosa e delle altre navi, divenute proprietà del governo statunitense, passò dalla Guardia Costiera ai locali esattori doganali di porto.

Il 30 ottobre 1941 la United States Maritime Commission, in adempimento della sezione I della legge del 6 giugno 1941 (che conferiva la presidenza degli Stati Uniti a requisire qualsiasi nave mercantile straniera che giacesse inutilizzata in acque statunitensi per adempiere alle necessità della difesa nazionale durante il perdurare dello stato di emergenza nazionale dichiarato l’8 settembre 1939) e dell’ordine esecutivo numero 8771 del presidente degli Stati Uniti, emanato nella medesima data (con cui si dichiarava che le navi mercantili straniere che giacevano inutilizzare nelle acque degli Stati Uniti erano necessarie alla difesa nazionale e si autorizzava la U. S. Maritime Commission a prenderne possesso ed utilizzarle), dichiarò l’immediata acquisizione della Villarperosa necessaria alla difesa nazionale, e ne prese possesso dalle ore 12.00 del 31 ottobre 1941 insieme a tutto il materiale, mobilio, provviste, carburante, parti di ricambio ed attrezzature di bordo. L’eventuale carico presente a bordo sarebbe stato sbarcato ed immagazzinato a spesa della U. S. Maritime Commission. Il seguente avviso venne affisso a bordo della nave e trasmesso al segretario della Tesoreria degli Stati Uniti ed ai proprietari della nave: "Notifica di presa di possesso della SS Villarperosa (d’ora in poi chiamata la Nave) – Al proprietario od ai proprietari della Nave (ed a tutte le persone interessate) – Signori: in applicazione delle disposizioni della Legge approvata il 6 giugno 1941, Public Law 101 del 77° Congresso, e d’autorità del Presidente, la United States Maritime Commission ha preso possesso e diritto d’uso della summenzionata Nave, comprese tutte le attrezzature, gli indumenti, il mobilio, le parti di ricambio e l’equipaggiamento, nonché tutte le provviste e riserve, comprese il carburante, a bordo della nave, con effetto dalle ore 12:00, mezzogiorno, del 31 ottobre 1941, ora standard orientale, in base ai temini e condizioni della presa di possesso, utilizzo e disposizione della Nave, una copia delle quali verrà prontamente fornita. Come indicato nella risoluzione della Commissione da parte di cui sono stati assunti i diritti di possesso ed utilizzo, questa presa di possesso non pone alcun pregiudizio su diritti degli Stati Uniti relativamente ad un sequestro esecutivo o provvedimento di confisca contro tale nave, disposto finora o d’ora in poi. La compensazione per questo sequestro verrà determinata e pagata in base alle disposizioni della predetta legge. Data: 30 ottobre 1941. United States Commission, da W. C. Peet, segretario". Già il 14 agosto 1941 l’avvocato Loomis, per conto della Società Commerciale di Navigazione, aveva presentato un’istanza contro la decisione del governo statunitense di impossessarsi della nave, ma senza successo.

La causa per il sequestro della Villarperosa venne discussa presso la corte distrettuale di New York nel gennaio 1942; rappresentava la Società Commerciale di Navigazione l’avvocato Homer L. Loomis di New York, mentre il governo statunitense era rappresentato dal procuratore Harold M. Kennedy e dai suoi assistenti Hyman H. Goldstein, J. Frank Staley, Harold B. Finn e Sydney J. Kaplan. La legge statunitense prevedeva infatti che affinché la United States Maritime Commission potesse prendere possesso della nave la locale corte distrettuale dovesse ordinare al locale U. S. Marshal ed al responsabile delle dogane di adempiere alla notifica emessa dalla United States Maritime Commission il 30 ottobre 1941 in base alla legge del 6 giugno 1941; inoltre, la corte doveva autorizzare il Marshal a nominare il responsabile della nave quale vice Marshal speciale, ed ordinargli di consegnare la nave alla U. S. Maritime Commission per procedere alla requisizione. Tale vice Marshal speciale (od un suo sostituto) sarebbe rimasto formalmente “in possesso” della nave per conto del governo degli Stati Uniti, e l’avrebbe nuovamente presa in consegna al termine del periodo di requisizione.

La giustificazione per il provvedimento era indicata nella violazione della sezione 3 dell’Espionage Act del 15 giugno 1917, avendo "il trentesimo giorno di marzo del 1941, ed in precedenza, il proprietario, agente, comandante, persona al comando, o membri dell’equipaggio della Nave in questione, SS Villarperosa, all’interno delle acque territoriali degli Stati Uniti, con la conoscenza del proprietario, comandante, od altra persona al comando della nave, volontariamente causato o permesso il danneggiamento o distruzione della predetta nave, delle sue macchine, delle sue caldaie, dei suoi macchinari, attrezzature, vestiario, mobilio ed equipaggiamento e volontariamente permesso a tale nave di essere usato come punto di ritrovo per persona o persone che cospiravano tra loro o si preparavano a commettere reati contro gli Stati Uniti, contrari alle leggi degli Stati Uniti (…) ed ai diritti ed obbligazioni degli Stati Uniti in base alla legge delle nazioni, ed in frode degli Stati Uniti, sottoponendo la nave, le sue macchine, caldaie, macchinari, attrezzature, vestiario, mobilio ed equipaggiamento a sequestro e confisca a beneficio degli Stati Uniti". Dal momento che i procedimenti giudiziari per la confisca ed i relativi appelli avrebbero richiesto un anno, mentre la Villarperosa e le altre navi erano necessarie subito per la difesa nazionale, la U. S. Maritime Commission ne aveva requisito l’utilizzo in base alla legge del 6 giugno 1941 ed all’ordine esecutivo emesso in pari data.

Con sentenza emessa il 31 gennaio 1942 dal giudice distrettuale Grover Morris Moscowitz la corte distrettuale di New York, come aveva già fatto con altre navi italiane, accettò la richiesta della United States Maritime Commission, ordinando al Marshal ed al responsabile delle dogane di dare esecuzione alla notifica di sequestro emessa dalla Maritime Commission ed autorizzandolo a nominare un responsabile per la custodia della nave come vice Marshal speciale, il quale avrebbe provveduto a consegnare il bastimento alla Maritime Commission per la requisizione. Venne inoltre stabilito che questo provvedimento, che non riguardava la confisca della nave (inerente il cambiamento della sua proprietà) ma solo la sua presa di possesso e l’utilizzo ai fini della difesa nazionale, non avrebbe in alcun modo interferito con il parallelo procedimento giudiziario per la confisca; quand’anche quest’ultimo avesse portato al rigetto dell’istanza di confisca, ciò non avrebbe comportato l’immediata restituzione della nave ai suoi armatori originari. Al contempo, i diritti della Società Commerciale di Navigazione sarebbero stati tutelati, in attesa che venisse presa una decisione in merito alla confisca, ma venne altresì deciso che la Società Commerciale non avesse alcun diritto ad una compensazione economica per la requisizione ed impiego della nave da parte statunitense, essendo appartenente a cittadini di una nazione straniera e nemica (l’11 dicembre 1941, infatti, l’Italia aveva dichiarato guerra agli Stati Uniti).


Il 22 luglio 1942 Leo T. Crowley, Alien Property Custodian (custode, cioè, dei beni di proprietà di cittadini appartenenti a nazioni nemiche degli Stati Uniti), si dichiarò subentrato agli armatori italiani e tedeschi in ogni diritto, titolo ed interesse sulle navi sequestrate, riservandosi di utilizzarle, liquidarle o venderle per conto degli Stati Uniti.

La sentenza di confisca della Villarperosa venne emessa dal giudice Marcus Beach Campbell della Corte Distrettuale del Distretto Orientale di New York il 18 novembre 1942, insieme a quella relativa al piroscafo San Leonardo. A rappresentare il governo statunitense (nelle persone di George A. McNulty, responsabile dell’Alien Property Unit, e di Albert Parker, della War Division del Dipartimento di Giustizia) era l’avvocato Harold M. Kennedy, mentre a rappresentare gli armatori italiani era sempre Homer Loomis. L’Alien Property Custodian chiese alla corte di sostituirlo agli armatori delle due navi, privandoli di ogni diritto, titolo ed interesse su di esse; il giudice Campbell gli assegnò il diritto di possesso e disposizione delle navi ed anche quello di ricevere un’eventuale compensazione economica per il loro utilizzo, ma senza escludere in maniera definitiva gli armatori italiani dai loro diritti.


La confisca della Villarperosa non scontentò soltanto gli armatori italiani. Nel mese di marzo del 1941, prima della cattura della motonave, un commerciante di Wilmington, tale O. E. DuRant, aveva venduto al comandante Merlano Persia carbone, viveri ed altre provviste (viene da chiedersi a cosa servisse il carbone su una motonave: a meno che non fosse destinato al riscaldamento), e con la confisca del bastimento da parte delle autorità si ritrovò ad essere defraudato del pagamento, non ancora versato. Fece allora causa al governo statunitense, facendosi rappresentare dagli avvocati R. D. Stone e John W. Oast, presso la divisione di Wilmington della corte distrettuale del North Carolina, nel tentativo di farsi rimborsare il valore della merce fornita e mai pagata, quantificato in 358,62 dollari dell’epoca. La causa, intentata il 7 aprile 1941, si protrasse fino al 14 ottobre 1943, quando la richiesta di DuRant venne respinta perché il governo degli Stati Uniti non poteva essere querelato in una corte distrettuale senza l’esplicito assenso del Congresso, che non era stato fornito, e perché nel prendere possesso della Villarperosa le autorità statunitensi non si erano assunte la responsabilità di pagare debiti contratti dalla nave prima della confisca. Non è dato sapere se DuRant sia mai riuscito a riavere i suoi soldi dalla Società Commerciale di Navigazione.


Ad ogni modo, prima ancora che tutte queste lungaggini giuridiche giungessero a termine, il 31 ottobre 1941 la Villarperosa venne trasferita alla United States Maritime Commission, che a sua volta la consegnò alla War Shipping Administration. Ribattezzata Colin (nominativo di chiamata radio HPZD), la nave venne registrata a Panama, pur restando di proprietà del Governo statunitense (e precisamente della U. S. Maritime Commission): questo perché la bandiera panamense permetteva di aggirare le regole sui requisiti di sicurezza, sull’età delle navi e sulla composizione degli equipaggi che vigevano invece per le navi registrate sotto la bandiera degli Stati Uniti.

Una volta ultimate le riparazioni dei danni causati dal sabotaggio, il 15 gennaio 1942 la Colin venne consegnata nel porto di New York dalla War Shipping Administration alla Lykes Brothers Steamship Company di New Orleans, cui la nave venne affidata in gestione in base ad un accordo «General Agency Agreement». (Per altra fonte la Villarperosa sarebbe stata formalmente confiscata il 6 giugno 1941, in base ad un ordine esecutivo del presidente degli Stati Uniti, venendo trasferita alla United States Maritime Commission e registrata sotto bandiera panamense con il nuovo nome di Colin già nel giugno 1941; sarebbe passata alla War Shipping Administration solo nell’ottobre 1943. I Lloyd’s Registers del 1941 danno la Colin come di proprietà della U. S. Maritime Commission e registrata a Panama).


Come la maggior parte dei mercantili dei Paesi belligeranti, la Colin fu dotata di un armamento difensivo: un vecchio cannoncino da 76/50 mm, installato a poppa, e quattro moderne mitragliere contraeree da 20 mm, armate da quindici uomini della U. S. Navy Armed Guard al comando del guardiamarina Simon R. Navickas.

Primo ufficiale radio della Colin fu l’allora ventenne Earnal Spurgeon Campbell, appena uscito dalla scuola per radiotelegrafisti della Marina Mercantile di Gallups Island (Boston), che vi prese imbarco a New York nel marzo 1942. Campbell avrebbe così ricordato la sua prima nave nelle sue memorie (“Waves Astern: A Memoir of World War II and the Cold War”), pubblicate 61 anni più tardi: “Quando rivolsi il mio primo sguardo alla mia nave, pensai che ci dovesse essere un errore. Il fumaiolo era a poppa come [su] una petroliera, e batteva bandiera panamense. Ma il nome era chiaramente visibile come MV Colin. (…) La Colin era una nave italiana che si trovava in un porto statunitense all’inizio della guerra, così era stata confiscata dal nostro governo. Questa nave era propulsa da un motore diesel (chiamata MV come Motor Vessel, motonave), mentre la maggior parte erano piroscafi, designati SS (Steam Ship). Era stata registrata a Panama perché non rispettava le regole statunitensi sulla sicurezza, e per altre ragioni. Non avevo idea del perché motore e fumaiolo fossero a poppa come [su] una petroliera e non a centro nave come sulle altre navi da carico. (…) Il capitano Blank, come la mia memoria annebbiata ha ribattezzato quel piacevole uomo londinese, aveva lasciato una nave britannica per la paga extra che avrebbe ricevuto assumendo il comando di un eterogeneo equipaggio di varie nazionalità su questa stana nave. Sembrava che la MV Colin fosse piena di sorprese. Il capitano mi raccontò del precedente equipaggio italiano, che aveva espresso la sua lealtà a Mussolini nella sua decisione di unirsi ad Hitler danneggiando il motore della nave. Una pesante incudine era stata issata sopra la sala macchine e lasciata cadere. Non erano disponibili dei pezzi di ricambio perfettamente corrispondenti, e l’equipaggio manutentore stava ancora cercando di adattare e modificare le componenti in modo che il diesel partisse e magari anche funzionasse con un po’ di affidabilità. (…) La mia prima occhiata al locale radio causò ancor maggiore preoccupazione. Niente era come gli apparati radio (…) che eravamo stati addestrati ad usare a Gallups. Invece vidi la targhetta italiana “Marconi” su strumentazioni configurate in modo tale da dare pochi indizi sul loro utilizzo. Cercai frettolosamente un libro d’istruzioni su una mensola e sbattei le palpebre. Non una parola in una lingua che capissi. Era italiano. (…) Quella sera, nella mensa ufficiali, incontrai diversi degli ufficiali di bordo ed ebbi un nuovo shock. Molti erano stranieri; tutti piuttosto in là con gli anni (…) La nave era carica di materiale militare destinato alle tormentate truppe britanniche che stavano disperatamente resistendo la rapida avanzata in Egitto del generale tedesco Erwin Rommel. (…) Il primo di aprile sembrava un giorno appropriato per rimettere questa nave dallo strano aspetto in un oceano in gran parte controllato dai sommergibili nazisti”. Le riparazioni all’apparato motore sabotato non dovevano essere state effettuate nel migliore dei modi, e la nave era continuamente afflitta da problemi di macchina: per generare una pressione sufficiente ad azionare il motore principale il personale di macchina doveva avviare un’ora prima un piccolo motore diesel ausiliario, ma a volte questo non partiva e bisognava ricominciare da capo. Il giorno della prima uscita della Colin da New York, ci vollero tre ore di tentativi prima di riuscire finalmente a mettere in moto. Ricordò poi Campbell: “Mentre passavamo la Statua della Libertà ed il celebre profilo dei grattacieli di New York, provavo un profondo senso di orgoglio per la nostra nazione. Poi vidi la nostra strana bandiera panamense che sventolava a poppa di questa carretta con il suo disomogeneo equipaggio. Dovetti pensare che non era questa la mia scelta su come servire il mio Paese e magari anche iniziare una carriera”.

Il periodo in cui la Colin iniziò il suo servizio per gli Stati Uniti, la primavera del 1942, coincise con una delle fasi più drammatiche della battaglia dell’Atlantico: quello che i comandanti degli U-Boote tedeschi chiamarono “secondo periodo felice” (il primo era stato nel periodo compreso tra l’estate 1940 e l’inverno successivo), ma che ai marinai Alleati lasciò un ricordo ben diverso. Era in pieno svolgimento l’offensiva subacquea tedesca contro l’abbondante ed indifeso traffico marittimo che si svolgeva lungo la costa orientale degli Stati Uniti: la Marina statunitense era stata colta impreparata dall’entrata in guerra, le difese costiere ed antisommergibili erano carenti e le unità di scorta disponibili in Atlantico bastavano appena per proteggere i convogli verso l’Europa, lasciando pressoché scoperto il ricco traffico costiero; i sommergibili tedeschi potevano impunemente affondare le loro prede a poche miglia dalla costa americana, ed in pochi mesi affondarono centinaia di navi, subendo per contro perdite minime.

La Colin non tardò ad imbattersi nei segni di questa catastrofe. Mentre navigava verso sud lungo la costa del New Jersey, la motonave s’imbatté fin dal primo giorno nei relitti semiaffondati delle navi silurate dagli U-Boote nelle acque costiere; il secondo giorno Earnal Spurgeon Campbell intercettò il suo primo SOS, proveniente da una nave non molto più a sud, e poche ore dopo la Colin assisté direttamente all’affondamento di un’altra nave da parte di un U-Boot. Avvicinatasi alle lance con i naufraghi, offrì loro assistenza, ma l’offerta venne respinta, essendo già in arrivo un’unità militare che li avrebbe raccolti. Alcune ore più tardi, il motore della Colin s’inceppò e la nave rimase immobilizzata in mezzo al mare, un bersaglio inerme alla mercé di qualsiasi U-Boot che si trovasse nei paraggi; per fortuna non ce ne dovevano essere, e dopo due ore di fatiche da parte del personale di macchina, la motonave riuscì a rimettere in moto.

Nei successivi quattro giorni, mentre la Colin procedeva verso Jacksonville in Florida, questo problema si ripeté decine di volte; Spurgeon Campbell avrebbe poi ricordato che “passavamo più tempo fermi che in moto”. Nello stesso periodo la motonave vide una dozzina di altre navi venire attaccate od affondate dai sommergibili, e fu un mezzo miracolo se non fece la stessa fine, tanto più considerato il tempo passato alla deriva per le continue avarie. Qualcuno dell’equipaggio ipotizzò che gli U-Boote risparmiassero la nave per via della bandiera panamense, ma altre navi che battevano quella bandiera erano state affondate. Altri pensavano che le continue fermate e ripartenze della motonave, dovute alle avarie, avessero insospettito i comandanti tedeschi, inducendoli a ritenere che la Colin fosse una nave civetta (un finto mercantile con armi nascoste, pensato per indurre i sommergibili ad avvicinarsi in emersione per attaccarli a sorpresa a distanza ravvicinata) e che si fermasse ogni tanto proprio nel tentativo di attrarre qualche U-Boot.

Giunta davanti a Jacksonville, la Colin s’imbatté in una scialuppa carica di naufraghi, che rifiutarono di essere presi a bordo, chiedendo però di trasmettere il loro SOS. La richiesta non venne soddisfatta per non infrangere il silenzio radio, ma all’arrivo in porto vennero allertate le autorità, che provvidero al loro salvataggio.

Dopo essersi rifornita di provviste e parti di ricambio necessarie a Jacksonville, la Colin ripartì per Guantanamo, ed anche durante quella traversata continuò a fermarsi e ripartire a più riprese per le continue avarie. A Guantanamo il personale di macchina tentò di aggiustare il motore, ma quando la Colin lasciò Cuba riprese la solita routine: “ancora fermarsi e ripartire, ma più che altro fermarsi”, tanto che Spurgeon Campbell desiderò che la nave avesse delle vele, “ci avremmo messo di meno”. Giunti a 500 miglia da riva, “quel dannato [motore] diesel morì”, ed una volta che divenne chiaro che l’avaria non era riparabile con i mezzi di bordo, a Spurgeon Campbell non rimase che mettersi in contatto con la stazione radio di Trinidad, chiedendo assistenza. Dopo due giorni e mezzo di ansiosa attesa, arrivò un piccolo rimorchiatore, che prese a rimorchio la Colin e la portò a Trinidad, dove giunse una settimana più tardi.


Dalla cronologia dell’Arnold Hague Ports Database risulta che il 21 aprile 1942 la Colin lasciò New York, ma il giorno successivo vi fece ritorno (probabilmente per un’avaria, viste le memorie di Earnal Spurgeon Campbell), per poi lasciare definitivamente la Grande Mela il 27 aprile. Giunta ad Hampton Roads, in Virginia, ne ripartì il 29 aprile in navigazione isolata e giunse a Trinidad il 21 maggio. Qui rimase ferma per oltre quattro mesi, mentre si cercava di riparare una volta per tutte il motore (in questo lasso di tempo, secondo Earnal Spurgeon Campbell, il materiale militare diretto in Egitto venne trasbordato su un’altra nave, essendosi la Colin mostrata troppo inaffidabile per il difficile viaggio attraverso l’Atlantico ed attorno all’Africa, mentre al suo posto venne imbarcato un carico di bauxite da trasportare a Mobile). Il 3 ottobre 1942 salpò da Trinidad con il convoglio TAG. 10 (composto da 17 mercantili statunitensi, 9 britannici, 5 panamensi, 4 olandesi e 4 norvegesi, scortati dal cacciatorpediniere USS Upshur, dalla cannoniera USS Spry, dai cacciasommergibili PC 481 e PC 574 e dai dragamine YMS 24 e YMS 56, tutti statunitensi), arrivando a Guantanamo cinque giorni dopo, per poi lasciare la località cubana l’11 ottobre con il convoglio GK. 709 (9 mercantili statunitensi, tre panamensi, due britannici, due honduregni, uno olandese, uno norvegese, uno jugoslavo), insieme al quale arrivò a Key West tre giorni più tardi. Lo stesso 14 ottobre ripartì da Key West con il convoglio KP. 411 (Key West-Pilottown; 7 mercantili statunitensi, tre panamensi, due britannici, uno honduregno, uno messicano, uno jugoslavo), insieme al quale arrivò a Mobile il 17 ottobre per poi ripartire il girono stesso, sempre con quel convoglio.


L’8 dicembre 1942 la gestione della Colin, che si trovava ancora a Mobile, venne trasferita dalla Lykes Brothers alla A. L. Burbank & Company Limited di New York, sembre in base ad un «General Agency Agreement». Tornata a Key West, il 21 dicembre 1942 partì da quel porto insieme al convoglio KG. 617 (7 mercantili statunitensi, uno panamense, uno olandese), con cui arrivò a Guantanamo il giorno di Natale. Trascorse le festività natalizie a Cuba, la Colin ripartì da Guantanamo il 13 gennaio 1943 con il convoglio GN. 35 (6 mercantili britannici, 5 statunitensi, due olandesi, uno panamense, uno honduregno), arrivando a New York il 21 gennaio. Ripartì poi da New York il 14 marzo navigando da sola, diretta ad Hampton Roads; qui giunta il 15 marzo, ne ripartì nove giorni dopo, sempre in navigazione isolata, per fare ritorno a New York, dove arrivò il 25. Il 12 aprile 1943 lasciò New York con il convoglio NG. 355 (9 mercantili statunitensi, 5 britannici, 4 panamensi, due sovietici, due brasiliani, due olandesi, uno norvegese, uno svedese), diretta ancora una volta a Guantanamo; qui arrivò dopo una settimana per poi ripartire il 20 aprile alla volta di San Juan di Porto Rico, dove giunse il 23 aprile e da dove ripartì il 6 maggio. Tornata a Guantanamo, il 14 maggio salpò per New York con il convoglio GN. 59 (16 mercantili statunitensi comprese le cisterne militari Pumper e Patoka ed il trasporto militare Aquila, 5 mercantili panamensi, tre norvegesi, uno britannico, uno polacco), arrivando nella grande città il 22 maggio e rimanendovi fino al 20 giugno, quando salpò diretta verso sud con il convoglio NK. 548 (sette mercantili statunitensi e quattro panamensi), che arrivò a Key West il 27 giugno. Lo stesso giorno ripartì da Key West per l’Avana, dove giunse il 28 giugno e da dove ripartì il 4 luglio per rientrare a Key West, arrivandovi il giorno seguente (la traversata da e per Cuba avvenne in navigazione isolata).


Il 9 luglio 1943 la Colin salpò da Key West con il convoglio KN. 251 (7 mercantili statunitensi, tre britannici, due panamensi, uno messicano, uno norvegese, uno jugoslavo), arrivando a New York cinque giorni dopo, e da New York ripartì il 4 agosto per l’Avana con il piccolo convoglio NK. 557 (mercantili statunitensi Trimountain e Gulftide, britannico Columbia Star, messicano Minatitlan, più la Colin), che giunse nella capitale cubana dopo una settimana di navigazione e dopo aver perso l’unica unità di scorta, la cannoniera USS Plymouth, silurata il 5 agosto dal sommergibile tedesco U 566. Ripartita dall’Avana il 23 agosto per Antilla, navigando da sola, vi arrivò il 25 agosto e vi rimase fino al 29, quando ripartì sempre da sola per l’Avana, giungendovi il 1° settembre e proseguendo poi per Key West, che raggiunse il 3 settembre. Il 7 settembre 1943 partì da Key West per New York con il convoglio KN. 263 (16 mercantili statunitensi, uno norvegese, uno brasiliano, uno panamense), che arrivò a destinazione sei giorni dopo. Il 1° gennaio 1944 la Colin salpò da New York per Key West con il convoglio NK. 587 (quattro mercantili panamensi, tre britannici, tre statunitensi, tre norvegesi, uno jugoslavo), arrivandovi il 9 gennaio e proseguendo successivamente per New Orleans.


L’ultimo viaggio della Colin ebbe inizio a Port Sulphur, località della Louisiana poco distante da New Orleans: qui la motonave caricò 4600 tonnellate di zolfo sfuso, da portare in Europa. L’itinerario da seguire prevedeva che la Colin risalisse dapprima la costa orientale del Nordamerica, facendo scalo intermedio a New York e Boston, fino ad Halifax, dove si sarebbe unita ad un convoglio in partenza per Liverpool, sua destinazione. Lasciata dunque Port Sulphur il 18 febbraio (altra fonte data la partenza al 15 febbraio, altra ancora parla di partenza da New Orleans il 19), al comando del capitano britannico Herber E. Byng, la motonave si trasferì a Pilottown, dove si unì al convoglio HK. 195 (11 mercantili statunitensi, due panamensi, due olandesi), che lasciò quel porto Pilottown il 20 febbraio diretto a Key West. Qui arrivata tre giorni dopo, proseguì subito per New York insieme al convoglio KN. 297 (13 mercantili statunitensi, quattro panamensi, due messicani, uno britannico, uno norvegese), con cui arrivò a New York il 28 o 29 febbraio 1944; ricevute disposizioni sulla prosecuzione del viaggio, ripartì il 7 marzo da New York diretta a Boston, dove giunse tre giorni dopo (secondo il libro “Beachhead Normandy: An LCT’s Odyssey” di Tom Carter, la Colin partì da New York il 5 marzo, ma subì un’avaria di macchina durante la navigazione verso Boston) e da dove ripartì il 17 o 18 marzo con il convoglio BX. 100 (13 mercantili statunitensi, due panamensi, due britannici, uno jugoslavo) diretto ad Halifax, dove arrivò due giorni più tardi.


Il 29 marzo 1944 la Colin salpò da Halifax diretta a Liverpool con il convoglio SC. 156, composto da ben 61 navi (14 mercantili statunitensi, 11 britannici, sei norvegesi, tre panamensi, due greci, uno islandese, uno olandese, uno polacco, 14 navi da sbarco carri armati tipo LST, tre draghe dell’Esercito statunitense, più una nave soccorso britannica, quattro navi cisterna da rifornimento per le unità della scorta) scortate alla partenza da quattro unità canadesi (le corvette Sherbrooke e Trentonian ed i dragamine Portage e Transcona) che il 1° aprile vennero sostituite da cinque navi britanniche (il cacciatorpediniere Vidette, le fregate Chelmer e Goodall, le corvette Kenilworth Castle e Portchester Castle). Due giorni dopo la partenza, tuttavia, un’avaria ai motori costrinse la Colin a lasciare il convoglio e fare ritorno ad Halifax, dove giunse il 2 aprile. Riparato il guasto ed imbarcati, in aggiunta al carico di zolfo e ad un certo quantitativo di ghiaia come zavorra, 4269 o 4289 colli postali e poco materiale militare sistemato in coperto (una settantina di tonnellate in tutto, comprese 47 tonnellate di automezzi e cinque di componenti di aerei), la motonave ripartì da Halifax per Liverpool – più precisamente, la sua destinazione era Garston – con il convoglio successivo, l’SC. 157 partito il 17 aprile. (Stranamente, Uboat.net afferma che la Colin sarebbe partita da Halifax il 19 aprile, anziché il 17 come il resto del convoglio. Il sito shipwrecks.com afferma che la Colin sarebbe stata tra le navi impiegate per riportare in patria l’oro della Banca d’Inghilterra portato al sicuro in Canada nel 1940, e che avrebbe avuto a bordo fino ad una tonnellata d’oro; ma nessun’altra fonte riporta questa notizia).


Il convoglio SC. 157 era il più grande col quale la Colin si fosse trovata a navigare dall’inizio del conflitto: lo formavano 18 mercantili britannici (Athelprince, Ainslie Park, Bayano, Boston City, British Renown, British Hope, Cantal, Dunkeld, Elisabeth Dal, Empire Boswell, Empire Cougar, Empire Macalpine – una nave CAM, dotata di un aereo da caccia Hawker Hurricane con apposita catapulta per il lancio, da impiegare in caso di attacco aereo –, Empire Pibroch, Empire Severn, Empire Treasure, Fort Binder, Heyser ed Hartlepool), nove statunitensi (Exmouth, Hollywood, Meanticut, Pomona, Wolverine, West Durfee, West Keene, West Nilus e Zarembo), otto norvegesi (Arosa, Evanger, Henrik Ibsen, Maud, Mui Hock, Solsten, Veni e Vera), tre panamensi (oltre alla Colin, la Bonita e l’Olambala: quest’ultima era un’altra nave italiana catturata nel 1941, l’Antonietta), tre greci (Agios Georgios, Mimosa, Odysseus), due svedesi (Canada e Sälen), due olandesi (Hilversum e Gadila; quest’ultima era anch’essa una nave CAM), uno jugoslavo (Ivan Topic), uno polacco (Stalowa Wola) ed uno francese (Lieutenant de la Tour) nonché tredici navi da sbarco carri armati (LST 59, LST 60, LST 138, LST 139, LST 290, LST 291, LST 295, LST 516, LST 517, LST 524, LST 527, LST 535, LST 536; la LST 517 era la nave di bandiera del capitano di vascello J. D. Shaw della Marina statunitense, comandante della 17th LST Flotilla ed ufficiale di grado più elevato nel convoglio). Navigavano con il convoglio, per rifornire le navi della scorta, le navi cisterna britanniche Cardium e Cowrie, e lo accompagnava una nave salvataggio anch’essa britannica, l’Accrington; la scorta nel primo tratto della navigazione era composta da cinque unità canadesi del gruppo di scorta W 5 (Western Escort Force), le corvette Brantford, Timmins e Dundas ed i dragamine d’altura Brockville e St. Boniface (caposcorta). Capoconvoglio era il capitano di vascello Bertram William Lothian Nicholson, imbarcato sull’Empire Pibroch, mentre il comandante del Boston City assolveva le funzioni di suo vice.

Dopo la partenza da Halifax, le navi del convoglio impiegarono cinque ore a disporsi in formazione, navigando a 5,5 nodi; i mercantili si disposero su tredici colonne, tutte tranne due formate da cinque navi (in modo da non fornire un bersaglio troppo invitante ad un sommergibile che, attaccando il convoglio da un lato, volesse lanciare una salva di siluri contro la colonna più esterna), con le LST posizionate nelle ultime file. Le due navi CAM e le petroliere presero posto al centro del convoglio, mentre sui fianchi vennero posizionati i mercantili che trasportavano i carichi meno importanti. Una volta assunta la formazione, il convoglio assunse la velocità prevista per la traversata, 7,5 nodi. Le navi della scorta procedevano a proravia del convoglio di giorno, e sui fianchi di notte: di giorno, infatti, gli U-Boote erano soliti sopravanzare i convogli per poi immergersi ed attendere in agguato, mentre di notte tentavano di penetrare nella formazione procedendo in superficie. La sera stessa del 17 aprile, venne ordinato per la prima volta il posto di combattimento generale.

Il convoglio avrebbe seguito una verso est fino ad un punto poco a nord delle Azzorre, per poi puntare verso nord aggirando l’Irlanda e dividendosi nel Mar d’Irlanda in quattro gruppi che si sarebbero poi diretti verso Glasgow, Liverpool, Loch Ewe e Milford Haven.


Il tempo nei primi giorni di navigazione fu pessimo: mare mosso, pioggia, basse temperature.

A metà mattinata del 20 aprile, giunto il convoglio nel punto convenzionale definito “Western Ocean Meeting Point” al largo dei Grandi Banchi di Terranova, la scorta canadese venne rilevata da sei moderne fregate britanniche del 15th Escort Group: Inglis, Lawson, Louis, Moorsom, Mounsey e Strule (caposcorta), incaricate di proteggere il convoglio durante la traversata oceanica. Nel pomeriggio dello stesso giorno si unirono al convoglio due mercantili partiti da St. John’s (Terranova), Arosa e Fort Binder, scortati fino al punto di riunione dal dragamine canadese Red Deer.

Dopo aver cambiato scorta, il convoglio diresse verso nord prima di quanto programmato, dietro ordine del Comando della 10a Flotta statunitense, per evitare una tempesta scatenatasi lungo la rotta originaria. La nuova rotta coincideva in gran parte con quella che aveva percorso, trentaduenni prima, lo sfortunato transatlantico Titanic, e nel mattino del 21 aprile anche l’SC. 157 incontrò un iceberg, che passò in mezzo alla formazione senza fare danni. Anche il giorno successivo, prima dell’alba (alle 4.30), venne incontrato un altro iceberg, il cui avvistamento scatenò il posto di combattimento generale e l’ordine ad una delle fregate della scorta di illuminare la montagna di ghiaccio con il proiettore, per evitare che qualcuna delle navi del convoglio potesse andarvi contro.

Nel corso del 22 aprile il tempo andò peggiorando: il convoglio stava attraversando i margini della tempesta per evitare la quale era stato dirottato verso nord. All’alba del 23 aprile un cedimento delle valvole di presa a mare provocò l’allagamento della sala macchine del mercantile statunitense West Nilus; il capoconvoglio le ordinò di tornare a St. John’s navigando di conserva con un altro mercantile statunitense, il Wolverine, e qualche ora dopo si unì ad essi un terzo piroscafo statunitense, il Meanticut, che aveva assunto uno sbandamento preoccupante a causa dello spostamento del carico. Nella notte tra il 23 ed il 24 il mare andò calmandosi, ed il convoglio passò la maggior parte del 24 aprile a ricomporsi, essendo stato sparpagliato dalla tempesta su una vasta area.


Tra le navi disperse dalla tempesta c’era anche la Colin, che prima del peggioramento del tempo occupava nella formazione del convoglio il posto numero 134 o 135. All’alba del 24 aprile, l’equipaggio della nave ex italiana non vide più il resto del convoglio attorno a sé, ma soltanto un paio di navi: il comandante Byng decise allora di accelerare per ritrovare il resto della formazione, ma a quel punto la ex Villarperosa fu colta da una nuova avaria, stavolta agli organi di governo, e dovette fermare il motore per le necessarie riparazioni. (Questo susseguirsi di avarie induce a sospettare che la nave non si fosse mai del tutto ripresa dai danni causati dal sabotaggio del marzo 1941). Così facendo, la Colin perse definitivamente il contatto con il convoglio, rimanendo indietro e diventando così quella che in inglese era definita una “straggler”, una “ritardataria”: navi dei convogli che per varie ragioni – appunto avarie, perlopiù – rimanevano indietro, da sole e senza protezione, e spesso cadevano vittime degli U-Boote che seguivano i convogli.

E questa sarebbe stata precisamente la sorte della Colin.

Per le “ritardatarie” del convoglio SC. 157 era stata prevista una rotta apposita, che passava più a nord rispetto a quella seguita dal convoglio; dopo un’intera giornata di navigazione nel vano tentativo di raggiungere il convoglio, il comandante Byng dovette rassegnarsi all’evidenza che la sua nave era diventata una “ritardataria”, e si diresse verso la rotta ad esse riservata. Vennero rafforzati i turni di guardia, piazzando una vedetta presso il cannone ed ognuna delle mitragliere.

L’alba del 26 aprile salutò una giornata che si preannunciava con tempo abbastanza buono per il Nordatlantico in quel periodo dell’anno: cielo sereno, un po’ di vento, mare forza 3; la Colin procedeva verso nord, verso la rotta delle “ritardatarie”, con vento e sole al traverso a sinistra. La giornata trascorse senza storia fino alle 17.50 (ora di bordo: le 20.46 secondo l’attaccante, che seguiva l’ora di Berlino; altra fonte parla delle 15.50), quando improvvisamente la motonave venne colpita da due siluri sul lato sinistro.

A lanciarli era stato il sommergibile tedesco U 859: il mare un po’ mosso aveva mascherato le loro scie.

L'U 859, al comando del tenente di vascello Johann Jebsen, era alla sua prima missione di guerra, una missione particolarmente delicata: partito da Kiel il 4 aprile 1944, era diretto a Penang (Malesia), dall’altra parte del mondo, con un carico di 31 tonnellate di mercurio per l’industria giapponese, componenti di radar e documenti tecnici per l’alleato nipponico. Una volta arrivato a destinazione, si sarebbe dovuto unire al gruppo "Monsun", la flottiglia di U-Boote tedeschi attivi nell’Oceano Indiano a fianco della Marina giapponese, con base proprio a Penang. Gli ordini di Jebsen erano di tenere un basso profilo per completare la difficile traversata senza essere scoperto, evitando contatti superflui con unità nmiche; a questo scopo il sommergibile evitava le rotte più trafficate e rimaneva immerso quasi tutto il giorno, emergendo solo un’ora ogni 24, lasso di tempo poi ridotto ad appena un quarto d’ora. Veniva osservato il più stretto silenzio radio, usando la radio solo per ricevere messaggi ed evitando di inviare aggiornamenti sulla propria posizione. Perché Jebsen, che fino a quel momento si era rigorosamente attenuto agli ordini ricevuti, decise di mettere a repentaglio la missione attaccando la Colin (e successivamente emergendo e trasmettendo via radio un messaggio in cui comunicava alla base la sua posizione ed i dettagli dell’attacco – aveva stimato, per difetto, la stazza della sua vittima in 4000 tsl –, messaggio che fu intercettato dai decrittatori britannici di “ULTRA” che ne scoprirono così la posizione), non è dato sapere.

I due siluri colpirono pressoché contemporaneamente: il primo raggiunse la Colin presso la stiva numero 1, a prua, mentre il secondo centrò la stiva numero 6, a poppa; lo zolfo contenuto nella stiva numero 1 prese immediatamente fuoco, sprigionando un fumo acre che avvolse tutta la nave, mentre dallo squarcio nella stiva numero 6, estesosi a tutta la murata, l’acqua iniziò a riversarsi copiosa nello scafo. Le esplosioni distrussero le tubolature del vapore e quelle antincendio, misero fuori uso i motori ausiliari, fecero saltare la corrente e fecero cadere la bussola e l’aereo della radio. Il secondo cuoco cinese, colto dal panico, si gettò in mare e scomparve; sarebbe stato l’unica vittima dell’affondamento.

Mentre l’equipaggio militare preparava al tiro il cannone e le mitragliere, alcuni membri dell’equipaggio civile tentarono di rimettere in funzione la radio e trasmisero il segnale SSS (con cui una nave annunciava di essere attaccata da un sommergibile) ma non ricevettero risposta, non erano anzi nemmeno certi che qualcuno l’avesse ricevuto.

La situazione a bordo della Colin si deteriorò rapidamente, ed in capo a dieci minuti divenne evidente che la nave stava affondando: al comandante Byng non rimase che ordinare di fermare le macchine ed abbandonare la nave. I documenti segreti vennero chiusi in un sacco zavorrato, che fu gettato fuori bordo.

Mentre la nave si abbassava lentamente sull’acqua senza sbandare, i rimanenti 54 uomini dell’equipaggio – 39 marittimi civili e 15 militari addetti all’armamento difensivo – l’abbandonarono mettendo a mare due scialuppe, una piccola iole e tutte le zattere tranne una. Primi a lasciare la nave, sulle due scialuppe e sulle zattere, furono i componenti dell’equipaggio civile, dopo di che anche i militari addetti all’armamento presero posto nella iole e lasciarono alla nave. Alle 18.15 sulla Colin non c’era più nessuno, ed alle 18.30 il ponte di coperta era già al livello del mare. (Per altra fonte il comandante Byng avrebbe ordinato di abbandonare la nave alle 18.20).

Poco dopo che l’equipaggio ebbe abbandonato la nave, l'U 859 finì la Colin con un terzo siluro lanciato a centro nave, sempre sul lato sinistro. La sua esplosione spezzò in due la motonave, e quando il fumo si fu dissipato, di essa non c’era più traccia; la posizione dell’affondamento era 54°16' N e 31°58' O (o 31°59' O, per altra fonte latitudine 54.266667 e longitudine -31.966667; a sudest di Capo Farvel in Groenlandia), nel quadrante AK 6722 (un sito indica la posizione come 40°07' N e 69°24' O, ma sembra trattarsi di un errore).

Dopo l’affondamento, l'U 859 emerse e si avvicinò ai naufraghi, che lo identificarono come un tipo VII (era in realtà del ben più grande tipo IXD2). In perfetto inglese (con accento di Oxford, secondo uno dei naufraghi), un ufficiale dell’U-Boot chiese ai superstiti il nome e tonnellaggio della loro nave, dopo di che il sommergibile si allontanò verso ovest e scomparve alla vista nelle luci del tramonto.

Prima che calasse il buio, vennero passate cime tra le lance e le zattere, per evitare che il mare le disperdesse durante la notte; successivamente anche gli occupanti delle zattere e della iole vennero trasferiti sulle lance. Non c’erano feriti tra i naufraghi, quello messo peggio aveva un labbro rotto. Non rimaneva che aspettare e sperare che qualcuno avesse ricevuto il messaggio trasmesso dopo il siluramento, perché la nave era affondata lontana sia dalla rotta del convoglio che da quella delle “ritardatarie”, e non c’era quindi grande probabilità che qualche nave s’imbattesse nei naufraghi per caso.

Per fortuna dell’equipaggio della Colin, il segnale SSS era stato effettivamente ricevuto e trasmesso al comando della 10a Flotta, che aveva inviato in loro soccorso le fregate britanniche Bentley ed Affleck. Alle 14.30 del 27 aprile i 54 naufraghi della Colin vennero tutti tratti in salvo dalle due fregate, che successivamente raggiunsero il convoglio SC. 157 e trasbordarono i naufraghi sulla nave salvataggio Accrington. Sbarcati a Gourock (Scozia) il 1° maggio 1944, vennero rimpatriati sul transatlantico francese Ile de France, che giunse a New York il 18 maggio 1944.

La Colin fu l’unica nave del convoglio SC. 157 ad andare perduta: il resto del convoglio raggiunse regolarmente Liverpool il 1° maggio.


La perdita in guerra della Villarperosa non fermò le lungaggini legali sulla sua sorte. Il 21 maggio 1947 la corte distrettuale di New York, nella persona del giudice Clarence G. Galston, decretò la sostituzione dell’Alien Property Custodian, carica soppressa con la fine delle ostilità, con il procuratore generale degli Stati Uniti, Thomas Campbell Clark, per la custodia della nave. Viene da pensare che Clark avrebbe avuto un bel daffare a trovare la nave da “custodire”, visto che da più di tre anni giaceva in fondo all’Atlantico…


La Villarperosa su Wrecksite

La Villarperosa su Shipsnostalgia

La Colin su Uboat.net

La Colin su Sjohistorie

La Colin su U-Boot Archiv

La Colin su MARAD

Storia della Italnavi

Navi bloccate

Foreign Passenger and Cargo Ships Taken Over by U.S Maritime Commission during World War II

Foreign Flag Vessels Under the Control of the War Shipping Administration Lost or Damaged During World War II

Commercial Financial Chronichle, July 19, 1941

Bersio v. United States, 124 F.2d 310 (4th Cir. 1941)

Press releases, United States Department of Treasury, Volume 34

The Villarperosa

Notizia sul “Wilmington Morning Star” del 22 aprile 1941

Durant v. United States

United States v. the San Leonardo, 51 F. Supp. 107 (E.D.N.Y. 1942)

Il convoglio SC 157 su Warsailors

Official Chronology of the US Navy in World War II

U-859

Beachhead Normandy: An LCT's Odyssey

Waves Astern: A Memoir of World War II and the Cold War

Laws Relating to the Navy, Annotated ...: In Force January 1, 1945, Volume 2

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