Il Nuoro sotto il suo originario nome di Saint Ambroise (Coll. Edson Lucas, via www.shipsnostalgia.com) |
Piroscafo da carico
di 3705 tsl, 1825 tsn, 4700 tpl e 7200 tonnellate di dislocamento; lungo 94,6
metri, largo 14,2 e pescante 6,84-7,2, con velocità di 10,7 nodi.
Ex francese Saint Ambroise, era tra le decine di
navi mercantili francesi consegnati all’Italia ed alla Germania in conseguenza
degli accordi Laval-Kaufmann, che prevedevano la consegna all’Asse di 159
bastimenti mercantili che si trovavano nei porti mediterranei della Francia di
Vichy, in seguito alla sua occupazione da parte dell’Asse nel novembre 1942.
Dato in gestione alla
Società Anonima di Navigazione Adriatica, con sede a Venezia.
Breve e parziale cronologia.
10 ottobre 1919
Varato nei cantieri William
Gray & Co. Ltd. di West Hartlepool (South Yard) come francese Saint Ambroise (numero di costruzione
929), per la Société Navale de l’Ouest (con sede a Le Havre). Il varo avviene
alle ore 15.18; madrina è la signora R. B. Williams.
Aprile 1920
Completato come Saint Ambroise per la Société Navale de
l’Ouest.
Il Saint Ambroise fa parte di un vasto
programma di nuove costruzioni, ordinato dalla la Société Navale de l’Ouest per
rimpiazzare le perdite belliche (più di metà del tonnellaggio d’anteguerra:
41.040 tsl su 72.420 tsl) ed espandere la propria flotta: ben 118.166 tsl di
nuove navi, ordinate a cantieri francesi, belgi e britannici (ben dodici navi
sono ordinate al solo cantiere William Gray di West Hartlepool). In totale si
tratta di ben 16 nuovi piroscafi, in due serie (otto navi ciascuna) di 5000 e
7650 tpl; il Saint Ambroise fa parte
della serie di 5000 tpl, ed è la prima delle sedici nuove navi ad essere
completata.
La costruzione è
stata supervisionata dal capitano R. Puissesseau e dai fratelli William di
Middlesborough. Le stive sono state progettate specificamente per il trasporto
di botti di vino; la nave è dotata di un sistema di sollevamento delle merci
tipo Puissesseau, compreso un argano in grado di sollevare pesi di 25
tonnellate, ed è propulsa da una motrice alimentata da caldaie che possono
essere alimentate sia a nafta che a carbone.
La stazza lorda
originaria è di 3241,28 tsl, quella netta di 1905,42 tsn. Registrato a Le
Havre, nominativo di chiamata OSJI (dal 1934 FPAA).
Maggio 1920
Compie il suo primo
viaggio da Rouen all’Algeria. Durante lo scalo ad Orano, il 5 maggio, il signor
Rey, agente della Société Navale de l’Ouest in quel porto algerino, invita le
autorità locali a bordo del Saint
Ambroise per un ricevimento.
Durante il successivo
scalo ad Algeri, la Société Navale de l’Ouest invita anche qui numerose personalità
locali a visitare la nuova nave: il capitano di corvetta Ferrat, rappresentante
del governatore generale dell’Algeria; il dottor Moline, rappresentante del
prefetto; il console portoghese Ribeiro de Mendoça; il rappresentante dell’ammiraglio
comandante della Marina in Algeria, Beguet; l’ispettore generale delle strade e
dei ponti, Raby; il presidente della Camera di Commercio, Billiard; l’ispettore
capo Dalbouse, rappresentante del direttore delle dogane; l’ingegnere capo
Gauckler del servizio strade e ponti; l’ispettore principale delle dogane,
Chiariselli; l’ispettore della navigazione Cosurel; il comandante del porto di
Algeri, Canale; il tenente del porto Millot; il vicepresidente della camera di
commercio Tarting, che è anche presidente del sindacato commerciale algerino;
il vicepresidente del sindacato commerciale algerino, Crochard; il consigliere
municipale Célerier, presidente della Lega marittima; il presidente della
Federazione del commercio e dell’industria, Bossy; il tenente colonnello di
Stato Maggiore Martel; il consigliere municipale Servelle; il vicepresidente
della Lega marittima Hude; l’ispettore del Bureau Veritas Fagot; il direttore
della Banca d’Algeria Routaboul; il presidente dell’Automobile Club algerino
Divelle; Empis, della ditta Maison Burnay et Cie; Bonnefond, della ditta
Bessonneau di Angers; e diversi altri imprenditori.
20-24 agosto 1927
Il 20 agosto, durante
un viaggio da Anversa ad Algeri, il Saint
Ambroise viene investito da una tempesta che gli mette il timone fuori uso.
L’equipaggio tenta di governare la nave manualmente, ma il maltempo provoca
ulteriori avarie, ed il piroscafo si trova in una situazione molto precaria per
una ventina di ore; alla fine, il mattino del 24, il Saint Ambroise riesce a raggiungere Cherbourg con mezzi di fortuna.
2 marzo 1932
Il Saint Ambroise (al comando del capitano
Lemaître), in navigazione da Orano a Brest con un carico di botti di vino,
intercetta un S.O.S. lanciato alle 12.50 dal piroscafo spagnolo Eusebia del Valle (al comando del
capitano Leon Cortadi), in navigazione da Bilbao ad Amburgo con un carico di 6500
tonnellate di minerali, che chiede soccorso immediato riferendo di essere
fortemente sbandato a causa di una via d’acqua che ha allagato le stive in
posizione 47°55’ N e 06°17’ O (a 50 miglia da Ouessant). Il Saint Ambroise, trovandosi a sole dieci
miglia di distanza, si dirige subito verso il punto segnalato, mettendosi al
contempo in contatto con il rimorchiatore di salvataggio Iroise, diretto anch’esso sul luogo del sinistro.
Alle 14.56 il Saint Ambroise avvista l’Eusebia del Valle, che intanto ha
cessato ogni trasmissione, e ne informa anche l’Iroise; in capo ad un’ora ne trae in salvo l’intero equipaggio (31
uomini) con le proprie imbarcazioni, dopo di che il piroscafo spagnolo affonda
alle 17.15. Il Saint Ambroise, con i
naufraghi a bordo, raggiungerà Brest all’una di notte del 3 marzo.
27 luglio 1939
Durante le operazioni
di scarico del Saint Ambroise nel
porto di Algeri, un serbatoio di gas butano compresso e liquefatto facente
parte del carico, sbarcato e sistemato temporaneamente vicino all’hangar della
Camera di Commercio affittato come magazzino dalla Société Navale de l’Ouest
(nel Quai de Calais, adiacente al molo principale del porto interno di Agha),
in attesa di essere trasferito insieme ad altri serbatoi nei locali della
Société Butane, esplode improvvisamente alle 13.40 o 13.45, devastando la
banchina e scatenando un violento incendio, che subito si estende ai fusti
vuoti ed alle balle di sughero accatastate nei pressi, e quindi anche ai vicini
magazzini. Decine di portuali (che proprio in quel momento stanno riposando
all’ombra dell’hangar), funzionari della dogana e semplici passanti sono
investiti dall’esplosione o dalle fiamme: alcuni rimangono uccisi sul colpo
(non ne rimarrà altro che resti ossei calcinati), altri rimangono mortalmente
ustionati. Le fiamme si estendono rapidamente ai moli, raggiungendo anche il Saint Ambroise stesso, ormeggiato nelle
vicinanze; la prua ed il lato di dritta del piroscafo prendono fuoco.
Proprio il comandante
del Saint Ambroise, capitano Bernard
Prizac, ed il suo direttore di macchina Deker-Liviou sono tra i primi testimoni
della tragedia: da bordo del piroscafo, assistono all’esplosione, che si
verifica tra le merci da poco scaricate dal Saint
Ambroise ed accatastate sulla banchina vicino al magazzino della Société
Navale de l’Ouest. Il tenente di vascello Leloir, a bordo del piroscafo Jean et Jacques, che si trova ormeggiato
al Quai de Sète (sul lato opposto del molo principale), dichiarerà poi che la
fiammata si è innalzata nel cielo per 40-50 metri.
Deker-Liviou, che al
momento del disastro si trova sulla plancia del Saint Ambroise, vede un’enorme lingua di fuoco espandersi su tutto
il molo, lambendo sia i magazzini che la nave nella sua interezza; si butta a
terra per non bruciare vivo, e riporta comunque ustioni (non gravi) alla mano
destra, oltre a rimetterci le sopracciglia. Meno fortunati sono coloro che si
trovano sul molo o vicino al magazzino: Prizac e Deker-Liviou vedono diverse
“torce umane” correre in mezzo all’incendio, tre delle quali si gettano nelle
acque del porto per poi non riemergerne più. Leloir, dal Jean et Jacques, vede cinque uomini buttarsi in mare avvolti dalle
fiamme.
Per evitare danni
peggiori, il comandante Prizac fa troncare gli ormeggi e manovra con il Saint Ambroise per allontanarsi dal
cuore dell’incendio; da una delle stive, che contiene fusti vuoti e 75
tonnellate di butano in bombole, si levano delle fiamme, che minacciano di
provocare nuove e più devastanti esplosioni, ed anche il lato di dritta è stato
intaccato dall’incendio.
A dare l’allarme è
l’agente di polizia Hofbacher, in servizio proprio sul molo principale:
precipitatosi al telefono del molo della Compagnie des bateaux à vapeur du
Nord, chiama i pompieri, le ambulanze, la polizia. Anche il Saint Ambroise, intanto, dà l’allarme
con i fischi della propria sirena. I portuali del molo d’Agha rimasti illesi e
gli equipaggi dei mercantili ormeggiati nella zona si precipitano per primi in
soccorso dei feriti; tra gli altri si distinguono il segretario del sindacato
Maravat, che organizza i lavoratori portuali, il caposquadra Graziani dei
gruisti della Camera di Commercio ed i suoi sottoposti, ed i marinai e
l’infermiere del Jean et Jacques,
guidati dal tenente Leloir. Durante i soccorsi un portuale, Messaoud ben
Djilali, viene ferito dalla caduta di un cornicione. Prima dell’arrivo delle
ambulanze, ogni autocarro e veicolo disponibile sul posto viene requisito per
caricare i feriti e trasportarli il prima possibile in ospedale.
Due
immagini dell’incendio di Algeri del 27 luglio 1939: nella foto sopra, scattata
verso le 14, i pompieri raffreddano con getti d’acqua i contenitori di gas
butano rimasti intatti, per evitare che esplodano a loro volta; nella foto
sotto, scattata verso le 18, il magazzino della società Cherfils e figli è
completamente avvolto dalle fiamme (da www.enterprises-coloniales.fr)
I pompieri accorrono
sul posto entro dieci minuti dall’esplosione, ma la situazione appare subito
critica: l’incendio ha già assunto dimensioni preoccupanti. Tutte le centrali
dei pompieri di Algeri mandano al porto le loro autopompe (dodici in tutto) e
le loro squadre: a guidarle sono i tenenti Cerlini e Baugeard, gli aiutanti
Colomar e Matera ed il capo meccanico Dacunto, nonché dal medico dei pompieri,
dottor Soucy. Arrivano anche le ambulanze municipali e quelle degli ospedali;
una sezione di infermieri militari; il capo dell’ufficio municipale d’igiene,
dottor Lemaire; i medici comunali Raffi, Castelli e Legendre; personale della
polizia, al comando dei commissari Maury e Préa e del comandante Bouland;
personale della 19a Legione della gendarmeria; plotoni di cacciatori
d’Africa. Successivamente accorrono anche i pompieri di Hussein-Dey, di Kouba e
di Maison-Carrée, nonché, dal mare, tre battelli antincendio del servizio
idrico municipale, al comando dei capi Michel Fragano, Corvaia e Ferro. Questi
ultimi, per ordine del capo ingegnere del servizio idrico, ing. Baudin,
dirigono il getto delle loro pompe sul Saint
Ambroise e sul molo. Arrivano anche tre rimorchiatori della società
Schiaffino, il Furet II, il Saint-Charles ed il Saint-Louis, che prendono a rimorchio il Saint Ambroise e lo allontanano dalla zona incendiata del porto; il
Saint-Louis pompa acqua nella stiva
del piroscafo in cui si è manifestato il principio d’incendio, che minaccia di
causare ulteriori esplosioni, e riesce rapidamente a soffocare le fiamme.
Insieme ai
soccorritori accorrono sul posto anche le autorità locali: il prefetto Rivière,
capo di gabinetto del governatore; il direttore generale dei lavori pubblici,
Poupet; il prefetto Chevalier, il suo capo di gabinetto Frantz; il segretario
generale della prefettura Michel; il procuratore della Repubblica Hérault; il
generale de Saint-Maurice, capo di Stato Maggiore del 19° Corpo d’Armata; il
delegato finanziario Foudil; il consigliere municipale Duquesnoy; il presidente
della Camera di Commercio Morard, il suo vice Simian, il direttore dei servizi
amministrativi della Camera di Commercio Gillet; l’ingegnere capo della città
di Algeri, Molbert; il commissario alla sicurezza generale Labat ed il
vicedirettore Burtin; il direttore del Dipartimento di sicurezza Bourette; il
direttore del porto, ingegner Renaud; il comandante del porto Bernard, il
tenente di porto Caumartin ed i loro sottoposti; il commissario di polizia del
porto, Detchessahar, ed i commissari dei quartieri vicini; numerosi armatori,
spedizionieri e trasportatori.
Si cerca di impedire
alle fiamme di intaccare anche gli altri serbatoi di butano presenti nel porto,
ma alle sei di sera il deposito noleggiato dalla Société Navale de l’Ouest è
completamente in fiamme: la temperatura è tanto elevata da far scoppiare i
vetri, deformare le intelaiature metalliche, spaccare in più punti gli spessi
muri di cemento armato. Le merci contenute nel magazzino contribuiscono ad
alimentare l’incendio: al pianterreno vi sono 1200 colli contententi le più
svariate mercanzie, compresi barili d’olio, mobili e scatole di cartone (del
valore di 7,5 milioni di franchi); al primo piano ben 12.000 tonnellate di
zucchero in casse, del valore di altri sette milioni e mezzo di franchi. La
temperatura elevatissima fa sciogliere e incendiare lo zucchero, che prende a
colare in rivoli di “lava caramellata”. Sul terrazzo dell’edificio, il
rivestimento impermeabile in plastica prende fuoco e si scioglie a sua volta.
Bruciano furiosamente
anche le merci di ogni tipo accatastate sul molo, ed i vagoni carichi di
legname parcheggiati nelle vicinanze; il forte vento da est agevola
l’espansione delle fiamme. Un altro principio d’incendio si scatena nel
magazzino della compagnia Schiaffino, situato dirimpetto a quello della Société
Navale de l’Ouest. Le merci accatastate sulla banchina ed incendiate
intralciano il lavoro dei pompieri; per sgombrare la zona, gli scaricatori di
porto fanno rotolare via centinaia di barili, mentre altri allontanano i vagoni
in fiamme e le gru semoventi della Société Auto-Traction de l'Afrique du Nord
rimuovono in fretta e furia numerosi serbatoi in acciaio contenenti gas
liquefatti e carburanti, prima che le fiamme li possano raggiungere.
Il Saint Ambroise rompe gli ormeggi per allontanarsi dall’incendio, il lato di dritta è già stato attaccato dalle fiamme (da www.enterprises-coloniales.fr) |
26 feriti vengono
ricoverati presso l’ospedale civile di Mustapha, altri 18 presso quello di Parnet
a Hussein-Dey; molti muoiono per le ustioni nelle ore e nei giorni seguenti.
Nel disastro
rimangono uccise 25 persone (nove delle quali verranno dichiarate disperse) ed
altre 39 rimangono ferite, 23 delle quali in modo molto grave. I danni
materiali sono stimati in 15-20 milioni di franchi, compresi i sette milioni di
franchi di zucchero che era immagazzinato nel deposito distrutto dall’incendio.
Il vicepresidente del
consiglio francese Camille Chautemps ed il ministro dell’Interno Albert Sarraut
invieranno un telegramma di condoglianze al governatore generale dell’Algeria,
Georges Le Beau. Quest’ultimo ordinerà l’elargizione di una somma di 15.000
franchi alle famiglie delle vittime; altri 20.000 franchi verranno forniti
dalla Camera di Commercio di Algeri, ed altre migliaia da donatori privati.
Nei giorni seguenti una
commissione investigativa, composta dal giudice istruttore Zamouth, dal
sostituto procuratore Lieutaud, dal cancelliere Greffier e dall’interprete
Colas (nonché il comandante d’artiglieria Martin, l’ingegnere chimico René
Gille e l’ingegner Bédier in qualità di esperti), accompagnata dal commissario
Monjo (comandante la prima brigata di polizia mobile), provvede ad interrogare
i testimoni, tra cui gli ufficiali e l’equipaggio del Saint Ambroise. Verrà determinato che il disastro è stato causato
dall’esplosione del serbatoio n. 514.176, un contenitore cilindrico in acciaio del
peso lordo di 1600 kg (1232 kg per altra fonte), contentente una tonnellata di
gas butano compresso e liquefatto (23 ettolitri): durante il lasso di tempo in
cui il serbatoio è stato esposto al sole vicino al molo dopo essere stato
scaricato dal Saint Ambroise, il
butano si è surriscaldato ed è in parte evaporato, fino a che l’enorme
pressione interna ha causato il cedimento del contenitore. In condizioni
normali, il contenitore non avrebbe dovuto cedere; ma secondo una
testimonianza, il serbatoio incriminato era rimasto danneggiato durante le
operazioni di sbarco del carico, con conseguenti lievi perdite di butano,
notizia che sarebbe stata nota alle autorità portuali già dalle otto del
mattino. L’ufficio doganale, informato della perdita, aveva rilasciato
un’autorizzazione eccezionale agli spedizionieri affinché provvedessero a
rimuovere al più presto il pericoloso serbatoio, senza stare a completare le
formalità di sbarco; ma questi non erano riusciti a trovare, durante la
mattina, una gru semovente per provvedere a spostare il serbatoio, essendo
tutte già impegnate nelle operazioni di scarico.
Il serbatoio esploso all'origine del disastro (da www.enterprises-coloniales.fr) |
Secondo un’altra
versione, invece, un funzionario della Maison Butane aveva notato per primo la
perdita di butano liquido dal contenitore, ed aveva pertanto chiesto ai
doganieri il permesso di rimuovere il cilindro; permesso inizialmente rifiutato
per ragioni burocratiche (l’impossibilità di sdoganare un solo serbatoio) e
successivamente rilasciato quando ormai era giunta l’ora della pausa pranzo, il
che ha reso impossibile lo spostamento immediato del contenitore (mancando
anche i mezzi per provvedervi).
3 gennaio 1940
Il Saint Ambroise parte da Brest per
Casablanca insieme al convoglio 19 BS, formato da altri dodici mercantili
francesi (Ain el Turk, André Moyrand, Dunkerquois, Fauzon, Guilvinec, Magdalena, Nanceen, Nicole Schiaffino, Paul Emile Javary, Roubaisien,
Stanasfalt, Tabarka) scortati dall’avviso-dragamine Commandant Rivière e dalle navi scorta ausiliarie Vikings, La Bônoise e La Sétoise.
10 gennaio 1940
Arriva a Casablanca.
26 gennaio 1940
Il Saint Ambroise parte da Orano con il
convoglio 7 R, che comprende anche i mercantili francesi Mexphalte, Roubaisien e Rouennais ed i britannici Dorine e Melpomene.
27 gennaio 1940
Il convoglio 7 R si
unisce in mare al convoglio KS. 59 (mercantile britannico Bellerock, mercantili francesi Bourges
e Massis), partito da Casablanca lo
stesso 27 e diretto a Brest.
1° febbraio 1940
Arriva a Brest.
7 aprile 1940
Parte da Brest con il
convoglio 38 BS, che oltre al Saint
Ambroise comprende altri nove mercantili francesi (Chateauroux, Charles Schiaffino, Douaisien, Dunkerquois, Fort Archambault,
Marchel Schiaffino, Ophelie, Roubaisien, Tabarka) ed uno greco (Nicolaos
Filinis) scortati dal
cacciatorpediniere L’Adroit e
dall’avviso-dragamine Chevreuil.
13 aprile 1940
Arriva a Casablanca.
23 aprile 1940
Parte da Orano con il
convoglio 21 R, che oltre al Saint
Ambroise comprende i mercantili francesi Artesien, Ange Schiaffino,
Cambronne, Jean et Jacques, Nicole
Schiaffino, Petrophalt, Roubaisien e Strasbourgeois ed i britannici British
Ambassador, Forbin, Pellicula e Poseidon.
24 aprile 1940
Il convoglio 21 R si
unisce in mare aperto al convoglio KS. 91 (mercantili francesi Albi, Champagne, Vivagel e Mechanicien Principal Carvin, mercantili
greci Mount Ithome e Pancration, mercantile norvegese Hadrian), partito da Casablanca lo
stesso 24 aprile e diretto a Brest.
30 aprile 1940
Arriva a Brest.
21 maggio 1940
Parte da Brest con il
convoglio 45 B, composto oltre che dal Saint
Ambroise dai mercantili francesi Bacchus,
Dunkerquois, Formose, Madali, Marcel Schiaffino, Melpomene, Saint-Yves, Tabarka e Vivagel, dai
britannici Flimston, Kildale ed Imperial Valley, dal greco Alexandra
e dal polacco Stalowa Wola. La scorta
è composta dall’avviso-dragamine L’Impéteuse
e dal pattugliatore ausiliario Boréal.
6 giugno 1940
Parte da Orano con il
convoglio 27 R, composto, oltre che dal Saint
Ambroise, dai mercantili francesi Dauphine,
Gravelines, Jean et Jacques, Lieutenant
de la Tour, Marcel Schiaffino, Monique, Rhea e Tabarka e dal
norvegese Davanger.
7 giugno 1940
Il convoglio 27 R si
unisce in alto mare al convoglio K. 3 (mercantili francesi Lorrain, Solon e Lieutenant St. Loubert Bie, mercantili
britannici Benedick e Birgitte, mercantile olandese Beursplein, mercantile greco Kolchis), partito lo stesso 7 da Casablanca
e diretto a Brest.
14 giugno 1940
Arriva a Brest.
18 giugno 1940
Parte da Brest con il
convoglio 51 B, che comprende oltre al Saint
Ambroise altri tredici mercantili, tutti francesi (Astree, Artesien, Bougaroni, Cap-Pinede, Dauphine, Grand-Quevilly, Guilvinec, Lorraine, Port-de-Bouc, Rhone, Roubaisien, Sahel, Saint Basile), scortati dagli avvisi-dragamine Élan, Commandant Rivière
e L’Impéteuse.
24 giugno 1940
Arriva a Casablanca.
17 luglio 1941
Il Saint Ambroise parte da Casablanca
insieme ai mercantili Gabon e Montesquieu, scortati dal
cacciatorpediniere L’Adroit
(convoglio K 94).
Novembre 1942
Dopo gli sbarchi
angloamericani nel Nordafrica francese (operazione Torch, 8 novembre 1942) e il
passaggio agli Alleati, dopo un’iniziale reazione, delle truppe francesi di
Vichy ivi stanziate, le forze italo-tedesche lanciano l’Operazione
"Anton" (10-11 novembre 1942), procedendo all’occupazione della
Francia meridionale e della Corsica, fino a quel momento controllate dal regime
francese collaborazionista di Vichy.
Anche la flotta
mercantile francese nel Mediterraneo, concentrata nei porti di Marsiglia e
Berre, cade al completo in mani italo-tedesche (non così quella militare, che
si autoaffonda in massa a Tolone il 27 novembre). Il 20 novembre la Germania
pretende che tutti i mercantili francesi disponibili vengano messi a sua
disposizione per essere impiegati per le esigenze belliche delle forze
tedesche; già il giorno seguente, ad ogni modo, 900 militari tedeschi vengono
inviati a Marsiglia per sorvegliare le navi francesi, a bordo delle quali sono
mandate delle guardie armate, preparandosi ad impadronirsene con la forza nel
caso la Francia dovesse rifiutarne la concessione.
Il presidente del
consiglio di Vichy, il collaborazionista Pierre Laval, accetta verbalmente ed
il 22 novembre 1942, in una lettera ad Hitler, informa quest’ultimo che 158
bastimenti mercantili francesi (112 navi da carico, 31 navi passeggeri e 16
navi cisterna), per quasi 650.000 tsl complessive, verranno messi a
disposizione della Germania. Il 1° dicembre 1942 si tiene a Roma un incontro
tra Karl Kaufmann ("Gauleiter" nazista di Amburgo e commissario del
Reich alla Marina Mercantile), il gerarca nazista Hermann Göring, il
feldmaresciallo Erwin Rommel, il maresciallo Albert Kesselring (comandante
delle forze tedesche nel Mediterraneo), l’ammiraglio Arturo Riccardi (capo di
Stato Maggiore della Regia Marina) ed il generale Ugo Cavallero (capo di Stato
Maggiore generale delle forze armate italiane), nel quale viene decisa la
spartizione tra Italia e Germania dei mercantili francesi: 83 andranno
all’Italia e 75 alla Germania. Per la flotta mercantile italiana, duramente
colpita dalla guerra, queste 83 navi sono una notevole boccata d’ossigeno, e
permetteranno, a caro prezzo, il mantenimento dei collegamenti con la Tunisia.
L’accordo formale,
detto accordo Laval-Kaufmann (dal nome di Laval e del firmatario da parte
tedesca, Karl Kaufmann), verrà firmato a Parigi il 23 gennaio 1943; in base a
tale impegno, il governo francese mette a disposizione dell’Asse un quarto
della flotta mercantile francese del 1939. In base all’articolo 4 dell’accordo,
le navi francesi devono essere in buone condizioni d’efficienza e pienamente
equipaggiate; in cambio, il governo tedesco s’impegna a pagare alla Francia un
indennizzo, eccezion fatta che per i viaggi verso il Nordafrica. Laval vorrebbe
che le navi mantenessero bandiera ed equipaggio francese, ma la proposta viene
rifiutata; vi è diffidenza verso i marinai francesi (specie dato il
comportamento delle forze di Vichy nel Nordafrica francese) e, d’altro canto,
sono ben pochi i marittimi francesi che desiderino navigare per conto
dell’Asse.
Quando l’accordo
viene firmato, comunque, la maggior parte dei mercantili francesi ha già
lasciato la Francia per l’Italia, Saint
Ambroise compreso.
9 dicembre 1942
Confiscato dalle
forze tedesche in un porto francese e consegnato al Governo italiano.
Dicembre 1942
Giunge in Italia e
viene ribattezzato Nuoro.
26 dicembre 1942
Consegnato alle ore
16 alla Società Anonima di Navigazione Adriatica, con sede a Venezia,
incaricata della sua gestione. (Altre fonti affermano invece che sarebbe stato
dato in gestione alla Società Anonima di Navigazione Italia, con sede a Genova,
ma sembra probabile un errore). Iscritto con matricola 2F al Compartimento
Marittimo di Venezia.
Non viene requisito
dalla Regia Marina, né iscritto nel ruolo del naviglio ausiliario dello Stato;
riceve il nome in codice "Nube".
6 marzo 1943
Il Nuoro viene incluso in un convoglio
(motonave italiana Ines Corrado,
piroscafi tedeschi Henri Estier e Balzac) che dovrebbe partire da Napoli per Tunisi alle 2.30 del 6
marzo, ma la partenza del Nuoro viene
successivamente annullata, mentre il resto del convoglio parte come previsto
(sarà completamente distrutto, in parte dagli attacchi aerei, in parte dai
campi minati). Varie decrittazioni britanniche di messaggi italiani, attuate
dall’organizzazione “ULTRA”, menzionano infatti il Nuoro in relazione a questo convoglio, sia il 6 marzo («l’Ines Corrado, il Balzac, l’Henri Estier e
il Nuoro provenienti da Napoli dovevano giungere a Tunisi il pomeriggio del
giorno 7») che il 7 marzo («Ines
Corrado, Henri Estier, Balzac, la petroliera Devoli e probabilmente il Nuoro
sono partiti da Napoli alle 03.00 del giorno 6. Il convoglio passerà vicino a
Trapani nel cui porto sarà distaccato il Devoli. (…) Nessuna menzione del porto di arrivo del Nuoro»).
Un’altra immagine del Nuoro come Saint Ambroise (sullo sfondo; in primo piano il piroscafo francese Cristina Rueda in riparazione) (Hartlepool Library Service, via www.hhtandn.org) |
L’affondamento
Alle otto di sera del
29 marzo 1943 il Nuoro, al comando
del capitano di lungo corso Angelini, partì da Pozzuoli per il suo primo
viaggio verso la Tunisia, con destinazione Biserta.
A bordo si trovavano
115 anime ed un carico di rifornimenti per le truppe italo-tedesche che
combattevano in Tunisia: 850 tonnellate di provviste, 650 tonnellate di
munizioni, 70 tonnellate di merci varie, 60 veicoli e quattro pezzi
d’artiglieria. L’equipaggio civile era composto da 33 uomini, mentre quello
militare, che contava in tutto 35 elementi, era decisamente eterogeneo: tre
ufficiali, tutti italiani (il regio commissario, il commissario militare ed un
sottotenente del Regio Esercito, incaricato della direzione del tiro); quattro
marinai della Regia Marina, addetti alle segnalazioni; tre carabinieri; ventuno
artiglieri del Regio Esercito, addetti alle mitragliere contraeree; quattro
soldati tedeschi, addetti al pallone aerostatico di sbarramento.
Ai 68 civili e
militari dell’equipaggio si aggiungevano inoltre 47 militari di passaggio
diretti in Nordafrica: in parte erano militari italiani del 38° Autoreparto, in
parte soldati tedeschi.
Per difendersi dagli
attacchi aerei, il Nuoro era armato
con quattro mitragliere da 20 mm; inoltre, per quel solo viaggio, erano state
aggiunte anche due mitragliere contraeree di tipo tedesco, che vennero piazzate
a poppa. C’era infine una difesa passiva, costituita dal già citato pallone
aerostatico di sbarramento, che avrebbe dovuto intralciare la manovra di
eventuali aerei attaccanti.
La traversata doveva
avvenire con un convoglio lento (9 nodi) denominato «GG», insieme ai piroscafi Crema e Benevento; un quarto piroscafo, il Chieti, avrebbe inoltre fatto parte del convoglio fino a Palermo.
Mentre il Nuoro partì da Pozzuoli, le altre navi
salparono da Napoli alle 19.30 di quella sera, ad eccezione del Benevento, temporaneamente trattenuto in
porto da alcune non gravi avarie che ritardarono la sua partenza all’1.30 del
30 marzo. La partenza del convoglio era stata originariamente programmata per
il 27 marzo, ma era stata più volte rinviata a causa del maltempo.
Lasciata Pozzuoli, il
Nuoro si aggregò al resto del
convoglio all’altezza di Capo Miseno.
La scorta del
convoglio era formata da due torpediniere della classe Spica, la Cigno (caposcorta, capitano di
corvetta Carlo Maccaferri) e la Cassiopea (capitano
di corvetta Virginio Nasta), e da due cacciasommergibili tedeschi, l’UJ 2203 e l’UJ 2210. Comandante superiore in mare era il capitano di vascello
Francesco Camicia, imbarcato sulla Cigno.
Una terza torpediniera della stessa classe, la Clio (capitano di corvetta Carlo Brambilla), rimase a Napoli
con l’incarico di scortare il Benevento quando
questo fosse potuto partire.
Le prime venti ore di
navigazione trascorsero senza che si avesse a registrare alcun avvenimento di
rilievo. Alle quattro del pomeriggio del 30 marzo si aggregò al convoglio anche
la moderna corvetta Cicogna (tenente
di vascello Augusto Migliorini), partita da Trapani, che poco dopo se ne separò
insieme al Chieti, la cui
destinazione, a differenza delle altre navi, era Palermo; la Cicogna era stata inviata appunto a
‘prelevare’ il Chieti ed
accompagnarlo nel capoluogo siciliano. Scortato il Chieti fino al porto siciliano, dove giunse alle 23.35 dello
stesso 30 marzo (e dove il piroscafo venne affondato due settimane più tardi da
un bombardamento aereo), la Cicogna riprese
subito il mare per tornare ad unirsi al convoglio.
Quest’ultimo,
intanto, aveva raggiunto Trapani all’1.45 di notte del 31 marzo, sostando in
quella rada fino alle tre di notte per aspettare il Benevento. Secondo quanto scritto dal comandante Angelini nel suo
rapporto, anzi, le navi raggiunsero Trapani già verso le 22 del 30 marzo: a
quell’ora il Nuoro, giunto in
prossimità della rada di Trapani, ricevette ordine dalla Cigno di dirigere verso lo scoglio Formica e mettervisi alla fonda;
dopo un’ora il convoglio rimise in moto per raggiungere l’ancoraggio, manovra
che fu portata a termine verso l’una di notte del 31 marzo.
Alle tre di notte un
rimorchiatore militare si avvicinò e consegnò gli ordini per la prosecuzione
della traversata; alle 3.30 arrivò l’ordine di ripartire subito e fare rotta su
Biserta, pertanto il convoglio si riformò e lasciò Trapani per iniziare
l’attraversamento del Canale di Sicilia.
Alle 6.30 del 31
marzo, al largo di Trapani e poco ad ovest delle Isole Egadi, raggiunse il
convoglio anche il ritardatario Benevento,
scortato dalla Clio e dal
cacciasommergibili tedesco UJ 2207;
queste ultime andarono a rinforzare la scorta del convoglio, che dieci minuti
più tardi fu raggiunto anche dalla Cicogna.
Alle 14.43 del 30 marzo Benevento e Clio avevano evitato con la manovra
due siluri lanciati dal sommergibile britannico Tribune (tenente di vascello Stewart Armstrong Porter), una
cinquantina di miglia a nord di Ustica.
Così riunito, il
convoglio «GG» puntò infine su Biserta, con i piroscafi in linea di fronte. La
scorta era di tutto rispetto: per proteggere tre piroscafi, erano state
mobilitate tre torpediniere, una modernissima corvetta e tre
cacciasommergibili, oltre ad una poderosa scorta aerea con velivoli da caccia
sia italiani che tedeschi. Caposcorta era sempre la Cigno.
Tutti e tre i
piroscafi del convoglio «GG» (come pure il Chieti) erano navi ex francesi, consegnate all’Italia in seguito
all’occupazione della Francia meridionale; tutti e tre erano al loro primo
viaggio verso la Tunisia; nessuno sarebbe mai arrivato a Biserta.
I comandi britannici
erano al corrente del viaggio di questo convoglio già da giorni: la prima
intercettazione da parte dei decrittatori di “ULTRA” di una comunicazione
relativa alla partenza per l’Africa di quelle navi risaliva al 27 marzo, quando
avevano decifrato un messaggio dal quale risultava che i mercantili Nuoro, Crema, Benevento, Capua e Caterina Costa erano
«attesi a breve scadenza in Tunisia,
provenienti dall’Italia». Il 28 marzo gli specialisti di “ULTRA” avevano
decrittato un’altra comunicazione che aveva rivelato che «Benevento, Nuoro e Crema avrebbero dovuto lasciare Napoli il giorno 27
per la Tunisia, tempo permettendo», e l’indomani un’altra ancora da cui era
risultato che «Sono attesi i seguenti
arrivi, sempre condizionati dallo stato del tempo: a Tunisi il giorno 31 verso
le 23.00 Crema, Nuoro e Benevento». Il 31 marzo, infine, un’ultima
intercettazione aveva permesso ad “ULTRA” di apprendere che «Crema, Nuoro e Benevento hanno lasciato
Napoli alle 22.00 del giorno 29. Essi doppieranno l’isola di Marettimo alle
6.30 del 31 e procederanno per Biserta». Le forze aeronavali britanniche si
erano organizzate di conseguenza.
Alle dieci del
mattino del 31 marzo la Cigno
comunicò a tutte le navi del convoglio che era stato avvistato un ricognitore
nemico; più o meno a quell’ora il convoglio «GG» raggiunse e superò un altro
convoglio diretto in Tunisia, l’«SS» (partito da Napoli alle 18 del 29 marzo e
diretto a Biserta), formato dai piroscafo Aquila,
Giacomo C. e Charles Le Borgne (quest’ultimo tedesco) e dalla nave cisterna Bivona, scortati dal cacciatorpediniere Lubiana, dalla torpediniera di scorta Tifone, dalla torpediniera Giuseppe Dezza e dai cacciasommergibili
tedeschi UJ 2205 e UJ 2208.
Alle 13.52 venne
segnalato a tutte le navi del convoglio «GG» l’avvistamento in quota di
bombardieri avversari. In quel momento il convoglio si trovava una decina di
miglia ad est del Banco di Skerki; otto bombardieri bimotori, identificati da
parte italiana come dei Lockheed Hudson, apparvero volando ad una quota
compresa tra i 2500 ed i 3000 metri, scortati da quattro o cinque caccia
Lockheed P-38 “Lightning”. Sia i piroscafi che le navi scorta aprirono subito
un rabbioso tiro contraereo con le loro mitragliere; nessuno dei velivoli
attaccanti, tuttavia, venne colpito. I bombardieri sganciarono le bombe;
sebbene il lancio risultasse centrato, nessuno degli ordigni andò a segno, ed
il convoglio proseguì indenne. Numerose bombe caddero in mare a 50-100 metri dagli
scafi del Nuoro e del Benevento, senza causare danni.
In realtà, i
bombardieri attaccanti non erano dei Lockheed Hudson, bensì dei North American
B-25 “Mitchell” (anch’essi bimotori, e di aspetto somigliante a quello degli
Hudson) del 321st Bomb Group dell’USAAF. I bombardieri di
questo reparto avevano già compiuto un primo “rastrello antinave” durante il
mattino, quando un gruppo di “Mitchell” era decollato alle 7.45 con la scorta
di caccia P-38 “Lightning” del 1st Fighter Group. Gli aerei
avevano però incontrato maltempo e non avevano trovato niente, interrompendo
pertanto la missione e rientrando alla base. Gli aerei che attaccarono il
convoglio alle 13.52 erano invece decollati alle 13.45 (12.45 secondo le fonti
statunitensi, che mostrano una differenza di un’ora rispetto a quelle italiane,
evidentemente dovuta a differenze nel fuso orario); inizialmente la formazione
era composta da quattordici B-25 del 321st Bomb Group, scortati
da 25 caccia P-38 del 1st Fighter Group, ma sei bombardieri e
tredici caccia erano tornati indietro poco più tardi.
Il resto degli aerei
aveva invece avvistato il convoglio «GG» alle 12.55 (fonti statunitensi, con la
già menzionata differenza di fuso orario), una quindicina di miglia a nord di
Capo Bon, stimandone la composizione in due grossi mercantili
(probabilmente Nuoro e Benevento) ed altre quattro navi. Gli
equipaggi statunitensi ritennero erroneamente di aver colpito con una bomba uno
dei grossi mercantili, e di aver mancato di poco (“near miss”) un altro
mercantile di piccole dimensioni (probabilmente il Crema, il più piccolo dei tre piroscafi). Sebbene il caposcorta
Camicia avesse affermato nel suo rapporto che «gli aerei da caccia nazionali e alleati [tedeschi] non hanno avuto contatti con aerei nemici»
perché al momento dell’attacco stavano volando a bassa quota, in realtà i
“contatti” ci furono eccome: i piloti degli aerei americani riferirono di
essere stati attaccati da un totale di sei caccia Messerschmitt Bf 109, tre
Focke-Wulf Fw 190 e due Messerschmitt Bf 110. I mitraglieri dei B-25
rivendicarono il danneggiamento di un caccia tedesco ed il probabile
abbattimento di un altro; da parte tedesca, i piloti dei Messerschmitt del
7./Jagdgeschwader 53 ritennero erroneamente di aver abbattuto tre B-25 (uno
alle 14.25, dal sottotenente Karl Vockelmann, 25 km a nordovest di Capo Bon;
uno alla stessa ora, dal sottotenente Walter Hicke, 30 km a nordovest di Capo
Bon; uno alle 14.27, dal sergente Günter Seeger, 35 km a nordovest di Capo
Bon). In realtà nessun aereo, né statunitense né tedesco, andò perduto in
questo scontro.
Alle 14.24 le navi
del convoglio avvistarono l’anziana torpediniera Enrico Cosenz (capitano
di corvetta Emanuele Campagnoli), distaccata alle 11.25 di quel mattino dal
caposcorta del convoglio «RR» (motonavi Belluno e Pierre
Claude, in navigazione da Napoli a Tunisi con la scorta delle
torpediniere Fortunale, Antares e Sagittario e di due cacciasommergibili tedeschi), che
precedeva il «GG» di una quarantina di miglia, con il compito di rafforzare
ulteriormente la scorta di quest’ultimo. Raggiunto il convoglio, la Cosenz funse inoltre da unità
pilota sulla rotta di Zembretta; alle 15.45 i piroscafi ricevettero l’ordine di
modificare la formazione, passando dalla linea di fronte alla linea di fila, e
subito dopo vennero informate di un nuovo avvistamento di velivoli avversari.
Alle 15.57, infatti,
quando le navi si trovavano già in linea di fila per imboccare la rotta
obbligata di Zembretta, si verificò un nuovo poderoso attacco, da parte di un
totale di 31 tra bombardieri ed aerosiluranti angloamericani. Ciò secondo le
stime italiane; da parte statunitense risulta che questo attacco fu portato da
una formazione di quindici bombardieri B-25 Mitchell del 321st Bomb
Group, al loro terzo ed ultimo “rastrello antinave” della giornata, scortati da
venticinque caccia P-38 del 95th Squadron
dell’82nd Fighter Group. Gli aerei erano decollati alle 13.45 (12.45 per
le fonti statunitensi); uno dei B-25 e tre dei P-38 erano però dovuti rientrare
alla base poco dopo il decollo. Gli altri avevano avvistato un convoglio al
largo di Zembra verso le 15.50 (14.50 per le fonti statunitensi), apprezzandone
la composizione come quattro cacciatorpediniere, un trasporto, un pontone
Siebel e quattro chiatte, e poco lontano una nave scorta e quattro grossi
mercantili, uno dei quali a rimorchio. In realtà, le navi avvistate erano
quelle del convoglio «GG».
La scorta aerea
italo-tedesca reagì prontamente: un singolo bombardiere Junkers Ju 88 del
II./Kampfgeschwader 76 riuscì ad attirare su di sé l’attenzione di diverse
squadriglie di P-38, portandoli lontano dai bombardieri; i piloti dell’82nd Fighter
Group si ritrovarono sotto attacco da parte di un totale di dieci Messerschmitt
Bf 109, uno Ju 88 ed alcuni caccia italiani (numero e tipo non specificato).
Gli aerei dell’Asse scompaginarono la formazione dei bombardieri, costringendo
molti di essi a scaricare le loro bombe in mare ed a ritirarsi senza attaccare;
i restanti B-25 attaccarono in due gruppi, dei quali uno effettuò il suo attacco
da appena 30 metri di quota, secondo la tattica dello “skip bombing” (nel quale
le bombe venivano sganciate dal bombardiere a bassissima quota ed a ridotta
distanza dalla nave attaccata, in modo tale da rimbalzare sulla superficie
dell’acqua, come un sasso tirato a “rimbalzello”, e colpissero la nave), mentre
l’altro sganciò le bombe da alta quota, circa 2440 metri.
Secondo il rapporto
del caposcorta Camicia, i velivoli avversari attaccarono il convoglio in tre
ondate, in rapida successione: la prima era composta da otto bombardieri
Mitchell (di nuovo erroneamente identificati, da parte italiana, come degli
Hudson), scortati da caccia “Lightning”, che sganciarono parecchie bombe da
circa 2500 metri di quota, senza colpire niente; la seconda era formata da otto
bombardieri e quattro aerosiluranti, che attaccarono dalla direzione del sole
(ovest, cioè dal lato di dritta del convoglio) e sganciarono svariate bombe e
qualche siluro, di nuovo senza colpire nulla.
Fu la terza ed ultima
ondata, che seguì la seconda a brevissimo intervallo, a fare il danno: sei
bombardieri e cinque aerosiluranti attaccarono il convoglio da entrambi i lati.
Secondo il rapporto del caposcorta Camicia, il tiro contraereo delle navi
riuscì ad abbattere due dei velivoli attaccanti (secondo quanto riferito allo
Stato Maggiore della Kriegsmarine dagli ufficiali tedeschi di collegamento
presso Supermarina, invece, le navi dell’Asse avrebbero rivendicato il
probabile abbattimento di ben sei aerei, uno da un cacciasommergibili tedesco e
gli altri cinque dalle unità italiane), mentre un terzo, un quadrimotore, fu
abbattuto dai caccia della Luftwaffe di scorta aerea, che però subirono a loro
volta la perdita di due dei loro aerei nei duelli combattuti sul cielo del
convoglio.
Durante la battaglia
aerea combattuta sul cielo del convoglio, i piloti dei P-38 statunitensi
rivendicarono l’abbattimento di uno Ju 88 e di un Messerschmitt Bf 109
(rispettivamente da parte dei sottotenenti Marion Moore e Ralph C. Embrey,
entrambi una ventina di miglia a nord-nord-est di Cap Zembra), mentre i
mitraglieri dei B-25 (tre del 445th Bomb Squadron ed uno del
448th) ritennero di aver certamente abbattuto tre Messerschmitt Bf
109 ed un Focke-Wulf Fw 90, di aver probabilmente abbattuto un altro Bf 109 e
di averne danneggiati altri tre.
In realtà, le perdite
complessive da parte tedesca ammontarono all’abbattimento di un singolo
Messerschmitt Bf 109 (il WNr 15039 del caporale Konstantin Benzien del 4./JG.
27, abbattuto da caccia nemici 20 km a nord di Zembra e rimasto ferito) e di
uno o due Junkers Ju 88 del 4./Kampfgeschwader 76 (questi ultimi andarono
perduti mentre erano impegnati in compiti di scorta convogli; uno fu abbattuto
alle 15.50, quasi certamente nel corso dei combattimenti aerei attorno al
convoglio «GG», mentre meno sicuro è il coinvolgimento dell’altro Ju 88). I
caccia tedeschi del II./Jagdgeschwader 27 e del III./Zerstörergeschwader 1
rivendicarono l’abbattimento di due P-38 e due B-25 (più precisamente, un P-38
dal sottotenente Hans Lewes del 5./JG 27, alle 15.58; un altro dal sergente
Bernard Schneider dello stesso reparto; un B-25 dal caporale Hans Reiter del
4./JG 27; un presunto Lockheed Ventura – altro bimotore simile al B-25 – dal
tenente Walter Lardy del III./ZG 1; i primi tre alle 15.58 ed il quarto alle
16, tutti 20 km a nordest di Zembra).
In effetti, le fonti
statunitensi riconoscono la perdita di due P-38 (quelli dei sottotenenti Joseph
R. Sheen jr. e Francis M. Molloy, entrambi rimasti uccisi), ad ovest di Zembra,
e di due B-25 del 448th Bomb Group, dei quali uno (il 41-13205
del tenente Charles A. McKinney, rimasto ucciso con sei uomini del suo
equipaggio) abbattuto alle 16.14 da caccia nemici, e l’altro (il 41-13209
“Trouble” del tenente Robert G. Hess, morto insieme a cinque uomini del suo
equipaggio) abbattuto alle 15.55 dal tiro contraereo delle navi.
Nonostante le perdite
inflitte agli attaccanti, questa volta un siluro – o così si ritenne da parte
italiana – andò a segno, colpendo il Nuoro sul
lato sinistro e scatenando un incendio.
Di siluro parlano le
fonti italiane; ma libro "A History of the Mediterranean Air War,
1940-1945", Vol. III "Tunisia and the End in Africa, November
1942-May 1943" non fa alcuna menzione dell’impiego di aerosiluranti in
questo attacco. Si può fare questa ipotesi: gli “aerosiluranti” di cui parlano
i rapporti italiani, probabilmente, erano in realtà i bombardieri che
attaccarono a bassa quota secondo la citata tattica dello “skip bombing”, ed i
“siluri” erano in realtà le bombe da essi sganciate. Il metodo dello “skip
bombing”, infatti, era stato introdotto nel Mediterraneo da poco tempo, e gli
equipaggi italiani probabilmente non ne erano ancora a conoscenza;
l’avvicinamento al bersaglio a bassa quota e lo sgancio dell’ordigno a ridotta
distanza erano tipici degli attacchi di aerosiluranti, e per marinai abituati a
veder piovere le bombe dall’alto, direttamente sulle loro navi, una bomba che
arrivava “di rimbalzo” contro il fianco della nave poteva essere scambiata per
un siluro, specialmente nella concitazione di un attacco, ed a maggior ragione
quando lo “skip bombing” avveniva in contemporanea con il bombardamento
“tradizionale” da parte degli altri B-25. Una fonte secondaria afferma che
il Nuoro sarebbe stato
silurato da velivoli britannici della Fleet Air Arm decollati da Malta, ma
sembra probabile un errore, non risultando che aerei britannici abbiano preso
parte a questo attacco. Sia il rapporto del comandante del Nuoro che il diario della Divisione Operazioni dello Stato Maggiore
della Kriegsmarine, infine, affermano che il piroscafo sarebbe stato colpito da
due ordigni: una bomba ed un siluro.
I piloti statunitensi
– che durante l’attacco notarono che i tre mercantili erano dotati di palloni
aerostatici di sbarramento, per ostacolare gli aerei che avessero attaccato a
bassa quota – furono estremamente ottimistici nel valutare gli effetti dei loro
attacchi: i piloti dei bombardieri che avevano attaccato con lo “skip bombing”
ritennero di aver messo tre bombe a segno su un mercantile, che era stato visto
appruato dopo l’attacco; i piloti dei B-25 che avevano sganciato le loro bombe
da 2400 metri ritennero di aver affondato un mercantile ed incendiato altri
tre, cioè uno in più del totale dei piroscafi effettivamente presenti. In
realtà, l’unica nave colpita fu il Nuoro,
che rimase probabilmente vittima dello “skip bombing”.
Da parte sua, il
comandante Angelini del Nuoro scrisse
nel suo rapporto che gli aerei nemici si avvicinarono a volo radente, facendo
fuoco con le loro mitragliatrici; il Nuoro
rispose col tiro delle proprie mitragliere, ma dopo pochi secondi il piroscafo
venne scosso da due violentissime esplosioni, a breve intervallo l’una
dall’altra. Tutti i vetri andarono in pezzi, comprese le lampadine della
plancia. Secondo Angelini, gli immediati accertamenti da parte dell’equipaggio
permisero di appurare che una delle esplosioni era stata causata da una bomba
caduta sul lato di dritta, tra lo scafo ed una delle lance di salvataggio,
mentre l’altra era stata provocata dallo scoppio di un siluro, che aveva
anch’esso colpito il Nuoro sulla
dritta, in corrispondenza della sala macchine. Il comandante del Nuoro diede l’ordine di fermare le
macchine, ma non ci fu verso di farlo giungere a destinazione: il telegrafo di
macchina, infatti, era fuori uso, ed il tubo portaordini era stato divelto
dallo spostamento d’aria. Tutte le comunicazioni tra la plancia e la sala
macchine erano così interrotte, e le motrici del Nuoro continuavano a spingere la nave in avanti, mentre dalla stiva
numero 3, interamente scoperchiata, si alzavano fumo e fiamme.
All’interno di quella
stiva si trovavano dieci vagoni di munizioni: entro breve le fiamme li
avrebbero raggiunti, e la nave sarebbe saltata in aria. Il comandante Angelini
ordinò pertanto a tutti di correre a poppa e buttarsi in acqua; egli stesso si
diresse da quella parte insieme al primo ufficiale. Arrivati a poppa, i due
ufficiali notarono uno zatterino sul tetto di un veicolo, pertanto lo
asportarono e lo buttarono in mare, dopo di che si tuffarono a loro volta, lo raggiunsero
nuotando contro la corrente, e vi si arrampicarono a bordo. Un marinaio che li
aveva seguiti, Giacalone, non riuscì a fare lo stesso: la deriva lo spinse via,
lontano dallo zatterino.
Mentre il resto del
convoglio proseguiva verso Biserta, la Cicogna
venne distaccata a prestare assistenza al piroscafo danneggiato; abbandonato
dall’equipaggio, il Nuoro saltò in
aria alle 16.34, 28 miglia a nord di Zembra (per altra fonte, 15 miglia a
nordest di Zembretta).
Il comandante
Angelini stimò che fossero passati una decina di minuti tra il momento in cui
si tuffò in mare e quello in cui il Nuoro
eruppe in un’«esplosione formidabile»
e scomparve in pochi istanti.
A raccogliere i
superstiti rimase la Cicogna: avvicinatasi
ai naufraghi, la corvetta mise a mare una piccola imbarcazione con a bordo due
marinai, che iniziarono a raccogliere gli uomini dal mare. Dal suo zatterino,
Angelini ed il primo ufficiale videro con gioia che anche il marinaio Giacalone
era stato issato a bordo dell’imbarcazione.
Anche Angelini chiese
soccorso alla lancia della Cicogna,
ma la piccola imbarcazione, già piena di naufraghi fino al limite della
capacità, non poté prenderli a bordo: prese invece a rimorchio il loro
zatterino, intorno al quale si raccolsero altre zattere e naufraghi. Tutti
credevano che presto sarebbero stati recuperati dalla corvetta, ma li attendeva
una cocente delusione: dopo mezz’ora, infatti, videro la Cicogna avvicinarsi, pensarono per prenderli a bordo; ma giunta a
duecento metri dalle zattere, la corvetta si fermò, richiamò la lancia, ne
imbarcò gli occupanti e poi se ne andò, lasciando la lancia vuota alla deriva,
senza raccogliere gli uomini sulle zattere né comunicare loro alcunché.
Secondo il volume
USMM “La difesa del traffico con l’Africa Settentrionale dal 1° ottobre 1942
alla caduta della Tunisia”, ciò che era successo era che la Cicogna aveva dovuto interrompere le
operazioni di salvataggio perché il forte vento la stava facendo scarrocciare
verso una zona minata; confrontando questa notizia con il rapporto del
comandante Angelini, tuttavia, non è molto chiaro perché il salvataggio non
fosse proseguito a mezzo della lancia, che per giunta aveva già a rimorchio
alcune zattere i cui occupanti, inspiegabilmente, non vennero recuperati. Fatto
sta che la Cicogna, dopo aver ripescato
44 superstiti del Nuoro (compresi
diversi feriti), cioè meno della metà degli uomini che si trovavano in mare o
sulle zattere, lasciò la zona e fece rotta su Trapani, dove arrivò alle 2.15
del 1° aprile; in mare rimasero decine di altri naufraghi, abbandonati ad un
passo dalla salvezza, per i quali iniziava una terribile odissea.
Lo zatterino su cui
si trovavano il comandante Angelini ed il primo ufficiale, insieme ad altri
naufraghi, versava in condizioni tutt’altro che buone: di fabbricazione
francese, era privo di dotazioni d’emergenza, acqua compresa, e per giunta
imbarcava acqua sia perché era stato forato da colpi di mitragliatrice e da
schegge durante l’attacco aereo, sia perché durante l’imbarco delle merci a
Livorno era stato danneggiato ad un cassone d’aria.
Nel pomeriggio il
mare rimase leggermente mosso, ma verso sera cominciò a diventare via via più
agitato, fino a raggiungere nella notte forza 6-7. La situazione dei naufraghi,
in balia delle onde su quei piccoli galleggianti, divenne grave: zattere e
zatterini iniziarono a disperdersi, alcuni dei loro occupanti furono gettati in
mare. Così passarono ventiquattr’ore, l’intera giornata del 1° aprile. Il
comandante Angelini rivide anche la lancia della Cicogna, lasciata da quest’ultima a circa 600-700 metri, vuota ed
inutile.
Giunse il 2 aprile:
quel giorno il primo ufficiale spirò, “molto
probabilmente per esaurimento”, scrisse Angelini. “Pensai che di tanti, eravamo rimasti in cinque, quando mi accorsi che
anche un altro naufrago si era spento”: si trattava di un autiere,
rannicchiato, che sembrava addormentato. All’alba, tuttavia, i naufraghi si
resero conto di trovarsi ad appena otto miglia dalla costa di Pantelleria: al
contempo il vento da ponente si era disposto a greco, sospingendo la zattera
verso la costa, che era verso sud. Per favorire lo scarroccio in direzione
della terra, gli occupanti dello zatterino asportarono due doghe dal fondo del
galleggiante e vi issarono due salvagente, in modo che fungessero da vela.
Tra mezzogiorno e
l’una lo zatterino venne avvistato da un idrovolante italiano, che lo sorvolò a
più riprese; dopo mezz’ora, infine, sopraggiunsero un MAS italiano ed una
motosilurante tedesca. Fu quest’ultima a raccogliere finalmente il comandante
Angelini e gli altri occupanti della sua zattera, dopo più di quarantatrè ore
trascorse alla deriva.
La Schnellboot portò
i naufraghi a Pantelleria, dove Angelini ed i compagni vennero ricoverati nella
sezione chirurgica dell’ospedale della Regia Marina: qui si trovavano già
ricoverati altri naufraghi del Nuoro,
recuperati in precedenza, tra cui il fuochista Bosazzi ed i marinai Seppini,
Verboso e Milanese. Questi raccontarono la loro storia: dopo che Angelini aveva
ordinato di abbandonare la nave, i quattro avevano tentato di ammainare la
lancia di sinistra, ma quando l’imbarcazione aveva toccato l’acqua, con il Nuoro ancora in movimento ad elevata
velocità, aveva iniziato subito ad imbarcare acqua, mandando in tensione tutte
le manovre correnti. Ad evitare il peggio era stato il pronto intervento del
marinaio Seppini, che aveva tagliato le barbette d’accosto e la vetta prodiera
del paranco a colpi d’accetta. I quattro marittimi avevano poi vuotato la
lancia dell’acqua imbarcata ed avevano issato a bordo sette militari finiti in
mare, dopo di che le loro traversie non erano state molto diverse da quelle
della zattera del comandante Angelini, fino al salvataggio finale.
Alle 11.45 del 10
aprile i sopravvissuti dell’equipaggio civile ricoverati a Pantelleria partirono
in aereo per Castelvetrano, dove atterrarono a mezzogiorno e mezzo; raggiunsero
poi Palermo in treno, e qui si divisero, ognuno per la propria destinazione.
Secondo il già citato
volume dell’Ufficio Storico della Marina Militare, furono in tutto 50 i
naufraghi del Nuoro tratti in salvo
da unità minori inviate sul posto dopo la partenza della Cicogna. Ciò significherebbe che in totale i superstiti del Nuoro sarebbero stati 94 (44 recuperati
dalla Cicogna e 50 dalle unità
minori), mentre le vittime – dato un totale di 115 uomini imbarcati – sarebbero
state 21.
Tuttavia, secondo il
sito “Giornale Nautico Parte Prima”, basato in massima parte su documenti
dell’archivio della società Adriatica, su 33 uomini che componevano
l’equipaggio civile del Nuoro soltanto
in undici si sarebbero salvati: gli altri 22 sarebbero stati dichiarati
dispersi o deceduti. Ciò appare evidentemente in contrasto con un bilancio di
21 vittime, sia perché risulterebbe esservi stata almeno una vittima in più,
sia perché sembra difficile credere che, a fronte della morte dei due terzi
dell’equipaggio civile, non vi siano state vittime tra l’equipaggio militare ed
i militari di passaggio.
Neanche Crema e Benevento giunsero a destinazione: nelle prime ore del 1° aprile,
infatti, i due piroscafi vennero attaccati da motosiluranti britanniche, che
affondarono il Crema e danneggiarono
il Benevento tanto gravemente che
questo, dopo essere stato portato ad incagliare, venne considerato perduto.
Per altri quattro
giorni, dopo la distruzione del convoglio «GG», “ULTRA” continuò ad
intercettare e decifrare altre comunicazioni italiane dalle quali i britannici
poterono ricostruire l’accaduto; il 3 aprile i decrittatori britannici poterono
compilare un dispaccio nel quale, sulla scorta delle decrittazioni dei giorni
precedenti, riassumevano la sorte del convoglio («Il Nuoro è stato affondato da attacchi aerei a circa 25 miglia a
nord-nord-est di Zembretta alle 17.00 del 31. Il Crema è stato colato a picco
da motosiluranti britanniche a 9 miglia a sudest dell’Isola di Cani alle 23.59
del 31. Il Benevento è stato silurato nello stesso attacco ed è stato portato
ad incagliare a Capo Zebib a 8 miglia a est di Biserta»).
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