La Tabarca (Coll. Giorgio Spazzapan, via “Il Tirreno”) |
Motonave da carico di
616,17 tsl e 349 tsn, lunga 51,8-55,66 metri, larga 9,10 e pescante 3,2-4,41,
con velocità di 9-10 o 13 nodi. Appartenente alla Società di Navigazione Tito
Campanella, con sede a Genova, ed iscritta con matricola 1558 al Compartimento
Marittimo di Genova; nominativo di chiamata IUPW.
Breve e parziale cronologia.
1918
Impostata nel Garvel
Shipyard della George Brown & Co. di Greenock come
cannoniera/pattugliatore/sloop Kilbeggan
(numero di cantiere 118), per la Royal Navy. È stata ordinata nel luglio 1917.
23 settembre 1918
Varata nel Garvel
Shipyard della George Brown & Co. di Greenock come
cannoniera/pattugliatore/sloop Kilbeggan,
per la Royal Navy.
Marzo 1919
Completata per la
Royal Navy come HMS Kilbeggan,
‘Admiralty Number’ 4004.
Caratteristiche
originarie: lunghezza 55,47 metri, larghezza 9,17, pescaggio 4,77, dislocamento
895 tonnellate, stazza lorda 630 tsl e netta 284 tsn. Propulsa da una macchina
a vapore McKie & Baxter da 3 cilindri, 94 NHP e 700 IHP, alimentata da una
sola caldaia e con una singola elica, velocità 10 nodi. Armata con un cannone
da 102 mm e 12 bombe di profondità.
Si tratta di una
cannoniera/sloop/nave da pattugliamento della classe ‘Kil’, navi scorta
ausiliarie per la lotta antisommergibili la cui costruzione è stata decisa
dalla Royal Navy a metà del 1917 (nell’ambito dell’“Emergency War Programme”),
con l’intento di disporre di navi scorta dotate di maggior velocità, autonomia
e tenuta del mare rispetto ai pescherecci antisommergibili. A partire dal
luglio 1917 l’Ammiragliato britannico ha ordinato a sei cantieri navali del
Regno Unito, specializzati nella costruzione di peschereci oceanici (trawlers), un totale di 85 unità della
nuova classe, inizialmente classificate “pescherecci antisom veloci” (fast
trawlers) e poi, dal 18 gennaio 1918, “cannoniere da pattugliamento” (patrol gunboats). Nel novembre 1917
l’Ammiragliato ha approvato il finanziamento per la costruzione di 85 navi di
questo tipo, disponendo che esse abbiano la priorità rispetto alla costruzione
dei pescherecci antisom delle classi Strath, Castle e Mersey, un eguale numero
dei quali viene per questo cancellato in modo da “fare spazio” nei cantieri
designati (ad esempio, la costruzione di 16 ‘Castle’ ordinati ai cantieri
Smith's Dock viene cancellata e rimpiazzata da un ordine per la costruzione di
altrettante ‘Kil’). Nel marzo 1918 una revisione nelle priorità porterà alla
cancellazione degli ordini relativi a 30 cannoniere classe ‘Kil’, mentre altre
54 verranno completate, sedici delle quali – compresa la Kilbeggan – a guerra già finita. Tutte le navi della classe portano
nomi di villaggi della Scozia e dell’Irlanda che iniziano con “Kil”.
Caratteristica delle
cannoniere tipo ‘Kil’ è l’aspetto da “barchette di carta”, con doppia
sovrastruttura della plancia, verso prua e verso poppa, un unico fumaiolo
centrale e soprattutto una poppa che ha forma analoga alla prua, piuttosto
spigolosa: scopo di questa bizzarra configurazione è di ingannare i
sommergibilisti tedeschi, che dovrebbero faticare a distinguere la prua dalla
poppa ed a determinare la rotta della nave da grande distanza. In aggiunta a
ciò, molte vengono verniciate con colorazione mimetica “dazzle”; sono dotate di
idrofono, di un cannone da 102 mm e di sei o più bombe di profondità. La
costruzione di ciascuna nave richiede circa sei mesi.
Le cannoniere ‘Kil’
completate, parte delle quali attrezzate come dragamine, vengono tutte
assegnate alla "Auxiliary Patrol". Parte di quelle ultimate dopo la
fine delle ostilità vengono completate già senza armamento (non è il caso della
Kilbeggan, della quale esiste una
foto che mostra chiaramente il cannone da 102 mm) e vengono immediatamente
poste in riserva e messe in vendita dall’Ammiragliato (sulla Sale List) perché ormai superflue,
essendo venuta meno la minaccia subacquea tedesca.
1919
La Kilbeggan viene assegnata al servizio di
protezione dei pescherecci (Fisheries
Protection Service) come "Fishery Protection Vessel", insieme
alle gemelle Kilclogher, Kilfree, Kilmalcolm e Kilclief.
14 febbraio 1920
Dopo essere stata privata
dell’armamento e radiata dai quadri della Royal Navy, la Kilbeggan viene venduta insieme a dieci gemelle all’armatore Ryan
Burleston di Newcastle e trasformata in piroscafo da carico. Ribattezzata Lucker e registrata a
Newcastle-upon-Tyne a partire dal 24 luglio 1920, viene affidata in gestione,
come le altre gemelle trasformate, alla Joplin & Hull (per altra fonte
Robinson, Brown & Joplin) di Newcastle, che a sua volta ha acquistato
direttamente altre tre navi ex ‘Kil’.
In totale, ben 48
delle 54 cannoniere della classe ‘Kil’ vengono trasformate in navi mercantili e
vendute ad armatori privati in data 14 febbraio 1920. Molte di queste subiscono
modifiche alla prua (che viene “raddrizzata”) ed un allungamento dello scafo,
che ne aumentano la stazza lorda di circa 200 tsl. Sul Lucker vengono ricavate tre stive per una capienza complessiva di
3600 metri cubi.
1922
Venduto all’armatore
Johannes Ick GmbH di Amburgo e ribattezzato Humus.
1925
Venduto alla Nordiche
Handels & Reederei di Amburgo e ribattezzato Falkental.
1925
Venduto all’armatore
Vito Quargnali di Trieste e ribattezzato Candia.
1927
Venduto all’armatore
M. M. Gunalachi di Trieste, senza cambiare nome.
1929
Acquistato dalla
Società Anonima Tito Campanella (dal 1934 Tito Campanella Società di
Navigazione), con sede a Genova, che lo rimotorizza (con un motore diesel
Sulzer a due tempi e quattro cilindri da 94 NHP e 400 CV) trasformandolo in una
motonave, e lo ribattezza Tabarca.
1938
È comandante della Tabarca il capitano Antonio Malfatti, di
Livorno.
9 novembre 1940
Requisita a
Sant’Antioco dalla Regia Marina.
23 gennaio 1941
Iscritta nel ruolo
del naviglio ausiliario dello Stato come nave oneraria, a partire dalle ore 12,
con sigla C 20. Adibita al trasporto di quadrupedi (per altra fonte sarebbe
stata classificata proprio come nave trasporto quadrupedi).
28 febbraio 1941
La Tabarca, il piroscafo Armando e la motonave Assiria, scortati dalla torpediniera Centauro, salpano da Napoli alle 17.45,
diretti a Tripoli.
3 marzo 1941
Il convoglietto
raggiunge Tripoli alle 15.45 (o 13.45).
12 marzo 1941
La Tabarca lascia Tripoli alle 7.30, da
sola e senza scorta, e si reca a Ras Aali.
14 marzo 1941
Fa ritorno a Tripoli,
arrivandovi in mattinata.
8 giugno 1941
La Tabarca, insieme al piroscafo Milano avente a rimorchio il
motopeschereccio Nuova Eleonora, salpa da Tripoli alle 15 per
raggiungere Trapani, con la scorta della cannoniera Maggiore Macchi.
9 giugno 1941
Alle 13.45 il
sommergibile britannico Urge (tenente
di vascello Edward Philip Tomkinson) avvista a 6 miglia di distanza per 283°,
una ventina di miglia a nordovest di Lampedusa un convoglio apprezzato come
formato da tre navi mercantili ed un peschereccio d’altura. In realtà si
tratta, probabilmente, del convoglio formato da Tabarca, Milano, Nuova Eleonora e Maggiore Macchi. Il convoglio procede su rotta 140° a circa undici
nodi; l’Urge inizia una manovra di
attacco ed alle 14.33, in posizione 35°39’ N e 12°11’ E, lancia un siluro da
soli 365 metri contro la seconda delle tre navi della colonna (forse il Milano). Il siluro manca il bersaglio,
al pari di altri due lanciati alle 14.35 contro la terza nave (forse proprio la
Tabarca), da una distanza di 460
metri.
Le navi italiane
proseguono senza contrattaccare e senza, apparentemente, accorgersi
dell’attacco.
13 giugno 1941
Il convoglio
raggiunge indenne Trapani alle 10.
1° settembre 1941
Radiata dal ruolo del
naviglio ausiliario dello Stato, categoria navi onerarie, dalle ore 00.00.
1° ottobre 1941
La Tabarca trasporta un carico di materiali
vari da Brindisi a Valona, navigando senza scorta.
6 ottobre 1941
Compie un viaggio da
Patrasso a Rodi, scortata dal cacciatorpediniere Francesco Crispi.
15 ottobre 1941
Compie un viaggio dal
Pireo a Lero, di nuovo scortata dal Crispi.
30 marzo 1942
La Tabarca si trasferisce dal Pireo a Lero
sotto la scorta della torpediniera Calatafimi.
19 aprile 1942
Compie un viaggio dal
Pireo a Rodi, da sola e senza scorta.
27 aprile 1942
La Tabarca si trasferisce da Suda al Pireo,
insieme al piroscafetto Porto di Roma,
con la scorta della torpediniera Libra
e della cannoniera Mario Sonzini.
15 maggio 1942
La Tabarca, insieme alle motonavi italiane Città di Agrigento, Città di Alessandria e Città di Savona, al piroscafo italiano Tagliamento ed al piroscafo tedesco Santa Fe, compie un viaggio dal Pireo a
Suda con la scorta dell’incrociatore ausiliario Brindisi, delle torpediniere Sirio e Calatafimi e di due motovedette
tedesche.
Giugno 1942
Assegnata alla Forza
Navale Speciale per trasportare parte del corpo di sbarco destinato alla
pianificata, ma mai attuata, invasione di Malta (Operazione "C. 3").
Nei piani dello
sbarco, elaborati nel maggio 1942, le truppe destinate allo sbarco dovranno
essere trasportate fin davanti alle coste maltesi da dieci trasporti truppe (Francesco Crispi, Milano, Rosandra, Italia, Viminale, Quirinale, Aventino, Donizetti, Calino e Città di Tunisi, ciascuno dei quali può
trasportare tra gli 800 e i 1400 soldati); dopo di che i soldati verranno
trasbordati sulle unità di una eterogenea flottiglia che provvederà a sbarcarli
sulle coste di Malta. La Tabarca è
appunto una delle unità assegnate a questa flottiglia, insieme ai piroscafetti
costieri Capitano Sauro e Principessa Mafalda, a 65 motozattere da
sbarco tipo MZ (costruite sui piani delle MFP tedesche progettate per
l’invasione del Regno Unito: possono trasportare e sbarcare fino a tre carri
armati e 100 uomini equipaggiati ciascuna), 100 "motolancie" (in
realtà veri e propri mezzi da sbarco: possono sbarcare 30 uomini ciascuno) tipo
ML (solo 9 delle quali, però, effettivamente costruite), 24 vaporetti requisiti
della laguna di Venezia (ognuno dei quali può trasportare e sbarcare 75
uomini), due piccole motonavi anch’esse della laguna di Venezia (Altino ed Aquileia, capacità 400 uomini cadauna), tre posamine (Durazzo, Buccari, Pelagosa,
che possono ciascuno trasportare 500 uomini), quattro motocisterne-navi da
sbarco (Sesia, Scrivia, Tirso, Garigliano,
ciascuna delle quali può trasportare e sbarcare due batterie da 75 mm e
veicoli), due traghetti ferroviari dello stretto di Messina (Aspromonte e Messina, in grado di trasportare
ciascuno 4-8 carri armati e mille tonnellate di materiali) e 50 motovelieri
requisiti (24 trabaccoli, 14 golette, due brigantini goletta, 6 navicelli, due
cutter e due motovelieri di altro tipo: capacità media 300 uomini). Parte di
queste unità (le MZ, le ML, le motocisterne-navi da sbarco) sono unità
costruite appositamente come unità da sbarco, altre (specie i vaporetti ed i
motovelieri) sono mezzi piuttosto di fortuna, ottenuti convertendo alla meglio
una quantità di imbarcazioni assai eterogenee. Tabarca, Capitano Sauro e
Principessa Mafalda, che formano il
gruppo dei "piroscafi piccoli" (PFP), dovrebbero trasportare e
sbarcare 400 uomini ciascuno. Allo scopo vengono muniti di "bottazzi"
in legno a protezione delle murate, in modo da poter sbarcare le truppe anche
su rive rocciose, nonché di scale per facilitare lo sbarco.
(Altra fonte afferma
invece che Tabarca, Capitano Sauro e Principessa Mafalda avrebbero fatto parte del naviglio incaricato
di trasportare le truppe fino a Malta, insieme ad Aquileia, Aspromonte, Messina, Buccari, Durazzo e Pelagosa, oltre ai dieci grossi
trasporti truppe sopra citati. Lo sbarco sarebbe stato invece effettuato da 37
motozattere MZ italiane e 34 MFP tedesche, 42 motolance ML italiane, 12 pontoni
Siebel tedeschi, 24 mezzi da sbarco italiani "MF" ricavati da grossi
motoscafi civili e 81 "Sturmboote" tedesche, motolancie d’assalto con
velocità di 30 nodi e capienza di sei uomini. Avrebbero altresì fatto parte
della flotta d’invasione Tirso, Sesia, Scrivia e Garigliano,
altri due traghetti, altre tre navi cisterna per acqua, due navi cisterna per
carburante di piccole dimensioni, sette piroscafetti da trasporto, due navi
ospedale, 10 rimorchiatori, 25 motolance e 30 motovelieri adattati).
All’interno della
Forza Navale Speciale, alla Tabarca
viene assegnata la sigla 861 (a ciascuna unità della F.N.S. viene assegnato
come sigla un numero compreso tra 701 e 949: da 701 a 800 per le motozattere,
da 900 a 949 per i motovelieri, da 801 a 863 le unità di altro tipo fra le
quali la Tabarca).
Le truppe da sbarco
assommano in tutto a 65.000 uomini, dei quali 32.000 appartengono al XXX Corpo
d’Armata (prima ondata: Divisioni Fanteria "Friuli",
"Livorno" e "Superga" e X Raggruppamento Corazzato), 26.000
al XVI Corpo d’Armata (seconda ondata: Divisioni Fanteria "Napoli" e
"Assietta") e 7000 al Comando Truppe Speciali (2000 fanti di Marina
del Reggimento "San Marco", 4000 camicie nere del Gruppo Battaglioni
Camicie Nere da Sbarco, 500 elementi delle forze speciali italiane e 500
tedeschi). In aggiunta a questi 65.000 uomini, che verranno sbarcati dal mare,
altri 29.000 uomini (italiani della Divisione Paracadutisti "Folgore"
e della Divisione Aviotrasportabile "La Spezia", e tedeschi della 7.
FliegerDivision) dovranno giungere sull’isola mediante aviosbarchi.
Lo sbarco verrà
appoggiato dalle unità della Forza Navale Speciale al comando degli ammiragli
Vittorio Tur (comandante in capo della stessa F.N.S.) e Luigi Biancheri: i
vecchi incrociatori leggeri Bari e Taranto, 15 cacciatorpediniere delle
Squadriglie III, IV, VII, VIII e XVI, una ventina di torpediniere e 20-30 tra
motosiluranti, MAS e VAS.
L’invasione di Malta
sarà tuttavia rimandata e poi accantonata in vista della spettacolare –
all’apparenza – avanzata delle forze italo-tedesche in Egitto, seguita alla
battaglia di Ain el Gazala, che illude gli alti comandi dell’Asse che presto
Alessandria e il Cairo saranno prese, rendendo superflua la conquista di Malta.
L’operazione "C. 3" verrà così cancellata il 27 luglio 1942, anche se
buona parte della Forza Navale Speciale, tra cui anche la Tabarca, sarà comunque utilizzata per
un’operazione di sbarco (ma senza incontrare resistenza) diversi mesi dopo, con
l’occupazione della Corsica nel novembre 1942. La Forza Navale Speciale verrà
poi formalmente sciolta il 5 gennaio 1943.
3 agosto 1942
Nuovamente iscritta
nel ruolo del naviglio ausiliario dello Stato, sempre come nave oneraria, dalle
ore 00.00. Ancora impiegata come nave trasporto bestiame, con la sigla C 20.
11 novembre 1942
Truppe italiane
sbarcano in Corsica nell’ambito dell’operazione "Anton",
l’occupazione italo-tedesca della Francia di Vichy decisa in seguito agli
sbarchi angloamericani nel Nordafrica francese (operazione "Torch",
avvenuta tre giorni prima) ed al passaggio agli Alleati delle truppe di Vichy
ivi stanziate. L’iniziale corpo di occupazione italiano in Corsica conta 30.000
uomini, forza che verrà progressivamente aumentata fino a 85.000 elementi,
appartenenti alle Divisioni Fanteria "Friuli" e "Cremona",
al Raggruppamento Speciale Granatieri, al 10° Raggruppamento Celere
Bersaglieri, al Reggimento "San Marco" della Marina, al XXIX e XXVI
Battaglione Carabinieri, alla 90a Legione Camicie Nere d’Assalto,
alla 225a e 226a Divisione Costiera. La Regia Marina
istituisce nuovi Comandi Marina a Bastia, Ajaccio e Bonifacio-Portovecchio, con
un totale di un centinaio di ufficiali e 2000 tra sottufficiali e marinai.
Lo sbarco e
l’occupazione della Corsica avvengono in modo del tutto incruento; le esigue
truppe di Vichy non oppongono resistenza. A trasportare e sbarcare le truppe
italiane nei porti corsi sono le navi della Forza Navale Speciale, che possono
così mettere a frutto il lungo addestramento effettuato per la prevista
invasione di Malta, anche se questo sbarco non presenta nessuna delle
difficoltà contemplate da quell’operazione, a partire da un’opposizione armata.
Nelle settimane
successive la Tabarca, come altre navi
della F.N.S., continuerà a trasportare truppe in Corsica.
14 novembre 1942
La Tabarca parte da Livorno, insieme ai
piroscafi Derna, Andrea Sgarallino, Principessa
Mafalda e Capitano Sauro,
all’incrociatore ausiliario Filippo
Grimani, alle navi cisterna e da sbarco Tirso,
Sesia e Garigliano ed alle motonavi lagunari Altino ed Aquileia, per
trasportare truppe in Corsica. La scorta del convoglio è costituita dal
cacciatorpediniere Antonio Pigafetta
(capitano di vascello Rodolfo Del Minio), dai cacciasommergibili ausiliari AS 121 Regina Elena e AS 122 Zagabria e dalla torpediniera Generale Marcello Prestinari.
15 novembre 1942
Il convoglio giunge a
Bastia dopo una navigazione tranquilla.
La Tabarca nel suo aspetto originale di cannoniera della Royal Navy, con il nome di Kilbeggan (da www.forums.clydemaritime.co.uk) |
L’affondamento
Nel pomeriggio del 30
novembre 1942, dopo una serie di ordini e contrordini che avevano rimandato
varie volte la partenza nei giorni precedenti, la Tabarca imbarcò a Livorno un contingente di oltre duecento militari
diretti in Corsica (216, secondo un articolo di Moreno Ceppatelli sulla rivista
"Mondo Sommerso"), dopo di che prese il mare diretta a Bastia, in
convoglio con altri due piroscafi di modesto tonnellaggio, Capitano Sauro e Principessa
Mafalda, e con il ben più grande piroscafo Città di Trieste. Complessivamente i quattro trasporti avevano a
bordo, probabilmente, poco meno di 1500 uomini. La scorta del convoglio era
costituita dall’anziana torpediniera Giacinto
Carini (tenente di vascello Antonio Pucci, caposcorta), dal posamine Crotone e dal cacciasommergibili
ausiliario AS 121 Regina Elena.
I militari imbarcati
sulla Tabarca erano divisi in due
gruppi: uno di 124 militari destinati a Marina Bastia, ed un altro di 85 uomini
destinati a Marina Bonifacio. Nella quasi totalità si trattava di personale
della Regia Marina (quasi tutti sottufficiali e marinai, con due soli ufficiali
del Corpo Reali Equipaggi Marittimi), assegnato ai nuovi Comandi Marina appena
istituiti nella Corsica occupata solo tre settimane prima; soltanto due
ufficiali, il tenente Umberto Bonaccorsi ed il capitano Mario Lazzari, appartenevano
all’Esercito. Molti dei marinai provenivano da Venezia, dove erano rimasti per
qualche tempo in attesa di nuova destinazione.
L’equipaggio della Tabarca, normalmente composto da 31
uomini, contava in quel viaggio 28 tra ufficiali e marinai, giacché in quel
momento due membri dell’equipaggio si trovavano in licenza, mentre un terzo era
ricoverato in ospedale. (Da ciò risulterebbe che in totale si trovassero a
bordo 237 uomini, mentre altre fonti parlano di un totale di 241 uomini
imbarcati).
Comandante della nave
era il quarantaseienne viareggino Livio Vassalle, militarizzato con il grado di
sottotenente del C.R.E.M., che appena pochi giorni prima aveva rimpiazzato il
parigrado Antonio Malfatti (51 anni, da Livorno, anch’egli militarizzato),
comandante della Tabarca dall’inizio
della guerra, il quale – per sua fortuna, come mostrarono i fatti – si era
fratturato un piede a causa della caduta di un pennone.
Il sottocapo
cannoniere Angelo Ferretti, astigiano, 23 anni, facente parte del contingente
diretto a Marina Bonifacio, avrebbe in seguito ricordato che prima della
partenza era stato detto ai marinai diretti in Corsica che il viaggio sarebbe
stato tranquillo; la rotta percorsa dalle navi era sicura, i “passeggeri” non
si sarebbero dovuti allarmare se avessero sentito delle esplosioni: si trattava
soltanto di bombe di profondità lanciate dalla scorta a scopo precauzionale,
contro eventuali sommergibili nemici che si trovassero nei paraggi.
Le navi del convoglio
iniziarono ad uscire dal porto di Livorno nel tardo pomeriggio del 30 novembre;
l’ultima ad uscire fu la caposcorta Carini,
che salpò dal Molo Mediceo alle 20.30 e raggiunse le altre unità, che
l’aspettavano poco fuori dal porto, per procedere alla formazione del
convoglio. Quest’operazione, da compiere ovviamente con le navi oscurate (come
sempre in tempo di guerra), si rivelò alquanto laboriosa: alle 21.25 la Carini si portò a dritta della rotta di
sicurezza per cercare di localizzare le altre navi, ma faticò parecchio a
vederle, perché le loro sagome si confondevano con quelle della costa e per
giunta la scarsa visibilità peggiorava la situazione. Alle 21.28, comunque, la
torpediniera riuscì ad avvistare il resto del convoglio, ed il caposcorta Pucci
diede ordine di accelerare e portarsi in formazione.
Lasciata Livorno, le sette
navi fecero rotta verso sud, seguendo la rotta di sicurezza che, per aggirare i
campi minati, passava al largo delle secche di Vada (frazione di Rosignano
Marittimo, non lontano da Livorno). Fino al giorno precedente era stato in
vigore un divieto di navigazione nelle acque a sud di quelle secche, nelle
quali si ritenevano esistere dei campi minati; proprio il 29 novembre,
tuttavia, si era conclusa un’operazione di dragaggio sistematico condotta dai
dragamine della III Flottiglia inviati da Maridipart La Spezia (il comandante
di quella flottiglia aveva personalmente diretto l’operazione) nella fascia
delimitata dai meridiani 10°23’ N e 10°25’ N e dai paralleli 43°16’ E e 43°18’
E. In seguito a questo intervento, le acque a sud delle secche di Vada erano
state ritenute libere, ed il divieto di navigazione era stato revocato.
Alle 21.34 il
convoglio iniziò la navigazione su rotta 144°; alle 22.55 il caposcorta ordinò
di accostare per 229° per passare ad ovest delle secche di Vada.
Sulla Tabarca Angelo Ferretti, per niente
rassicurato dalle parole ascoltate prima della partenza, prese le sue
precauzioni: mentre la maggior parte dei marinai si sistemava nelle stive per
la notte, lui ed altri preferirono risalire sul ponte di coperta, dove rimase
con il giubbotto salvagente e le scarpe slacciate (per poterle togliere più
rapidamente in caso di affondamento: in acqua, infatti, sarebbero state un
intralcio). Un altro marinaio che preferì restarsene in coperta fu il sergente
triestino Celestino Colautti: a dispetto del maltempo, che faceva rollare e
beccheggiare fortemente la nave e provocava mal di mare a non pochi degli
uomini imbarcati (ma non a lui, che già da anni solcava i mari su corazzate e
cacciatorpediniere), questi si sistemò sul ponte in prossimità della plancia, accovacciandosi
su un mucchio di cime vicino all’osteriggio prodiero della sala macchine, con
indosso abiti pesanti e sopra di essi il salvagente, oltre ad una coperta per
tenersi al caldo. (Questo, secondo il ricordo di Colautti in un racconto che
fece nel 2009; in una lettera del gennaio 1943, invece, Colautti affermava di
essere inizialmente sceso nella stiva insieme agli altri marinai diretti in
Corsica, e di essere poi salito in coperta a prendere un po’ d’aria “non so per quale presentimento”; subito
dopo avvenne il disastro). Nonostante tutto, regnava l’allegria tra i marinai
diretti in Corsica; per loro si prospettava un periodo di relativa
tranquillità.
La Tabarca era la seconda nave della
formazione, preceduta dal Principessa
Mafalda. Via via che le navi proseguivano, la visibilità andava
progressivamente peggiorando a causa della formazione di foschia; entro le
23.10 la formazione del convoglio si era piuttosto frammentata, con nell’ordine
Principessa Mafalda, Tabarca e Capitano Sauro (la presenza di quest’ultimo, però, sembra
stranamente essere omessa da alcuni documenti) che formavano un gruppo in
posizione più avanzata, Crotone e Città di Trieste più arretrati, ed
ancora più indietro il Regina Elena,
rimasto isolato. La Carini accelerò
per portarsi in testa alla formazione; avvistò nel buio un fanale azzurro che
segnalava "Regina Elena",
ma non riusciva a vedere la nave.
Alle 23.20 il Principessa Mafalda, che di fatto
conduceva la navigazione, accostò per 180°, ed alle 23.33 fece lo stesso anche
la Tabarca, che lo seguiva. La Carini le raggiunse ed assunse rotta
parallela ad esse, navigando sul loro fianco a circa 600 metri di distanza;
l’ulteriore peggioramento della visibilità aveva frattanto fatto perdere di
vista, oltre al Regina Elena, anche Crotone e Città di Trieste, che d’altra parte stavano ancora navigando su
rotta 229°, non avendo ancora accostato.
Alle 23.44 la Tabarca effettuò un’ampia accostata
sulla dritta, tanto brusca da costringere la Carini ad una frettolosa contromanovra per non entrare in
collisione; la torpediniera segnalò la propria presenza con tre lampi luminosi.
Alle 23.48 il gruppo di testa del convoglio era così disposto: la Carini si trovava sulla dritta dei
mercantili, a circa 1500 metri di distanza, tra il Principessa Mafalda e la Tabarca;
il Principessa Mafalda stava
accostando per 136°; la Tabarca era
rimasta leggermente spostata sulla sinistra rispetto alla rotta seguita
dall’unità di testa.
Alle 23.54 del 30
novembre (secondo il rapporto del caposcorta Pucci, redatto il 2 dicembre 1942;
il superstite Celestino Colautti indica un orario simile, le 23.56, mentre i
resoconti di testimoni imbarcati su altre navi del convoglio, il messaggio a
mano n. 15446 di Supermarina per Maripers scritto il 1° dicembre ed il volume "Navi
mercantili perdute" dell’USMM parlano invece delle 00.45 del 1° dicembre),
mentre il convoglio doppiava il faro di Vada, poco a sud delle omonime secche, la
Tabarca virò improvvisamente a dritta
– così riferì il comandante del Capitano
Sauro, che al momento del disastro la seguiva nella formazione – e subito
dopo fu scossa da un’improvvisa esplosione a prua, sul lato sinistro. Da bordo
della Carini venne sentito lo scoppio
e vista un’alta colonna di fumo levarsi a proravia della Tabarca, dal cui fumaiolo fuoriuscirono vistose scintille; poi la
piccola motonave fu inghiottita dalle acque del Mar Ligure.
Il fuochista Agostino
De Pani, imbarcato sul Capitano Sauro,
avrebbe raccontato molti anni dopo che al momento del disastro si trovava in
coperta, esattamente sotto la plancia, avendo appena terminato il suo turno di
guardia in sala caldaie ed essendo salito in coperta per respirare un po’
d’aria fresca. D’un tratto aveva sentito il comandante fare un’esclamazione di
sconcerto, in dialetto triestino, rivolta alla Tabarca, che stava uscendo dalla rotta; subito dopo la motonave era
scomparsa in un’alta colonna di acqua e di fumo, e quando questa si fu
dissipata, della Tabarca non c’era
più traccia.
Dopo l’esplosione, infatti,
la Tabarca sbandò bruscamente su un
fianco ed affondò in pochi minuti, portando con sé la grande maggioranza degli
uomini che si trovavano a bordo: gran parte del personale imbarcato, data l’ora
tarda, si trovava ammassato sottocoperta per dormire, e non ebbe scampo.
Angelo Ferretti si
trovava in coperta al momento del disastro: dopo l’esplosione si gettò in acqua
insieme ad un altro marinaio, ma quest’ultimo morì cozzando contro una lamiera,
mentre Ferretti si ferì ad un piede contro la stessa lamiera, prima
dell’impatto con l’acqua. Riuscì comunque a nuotare, e si allontanò di un
centinaio di metri, forse 150, dalla nave in affondamento: quando si girò a
guardare, la Tabarca era già scomparsa.
Anche Celestino
Colautti, dopo l’esplosione, aveva gettato via la coperta e si era tuffato in
acqua; quando riemerse fece in tempo a vedere la Tabarca che affondava, priva della prua. Trovò subito un palo che
galleggiava, e vi si aggrappò; poi iniziarono ad arrivare parecchi altri
naufraghi, che fecero lo stesso, finché il palo fu appesantito a tal punto da
non tenere più a galla nessuno.
Francesco Romeo,
marinaio cannoniere assegnato a Marina Bonifacio, era anch’egli in coperta al
momento dell’esplosione: d’improvviso si sentì lanciare in aria, verso dritta,
ed “atterrò” in acqua. Il motorista navale Nicola Rotondo, assegnato a Marina
Bonifacio, ed il cuoco militarizzato Eugenio Virtude, dell’equipaggio, si
ritrovarono in acqua senza neanche capire come fosse successo.
La storia più
straordinaria è probabilmente quella del sottotenente CREM militarizzato Athos
Alibertini, da La Spezia, direttore di macchina della Tabarca. Al momento del disastro, Alibertini si trovava in sala
macchine, nelle viscere della nave, una vera trappola mortale in caso di
repentino affondamento quale fu quello della Tabarca: ciononostante, l’ufficiale riuscì incredibilmente a salire
in coperta prima che la nave affondasse. Tentò anche di ammainare una
scialuppa, ma la nave affondò sotto i suoi piedi prima che potesse completare
quest’operazione, e lui si ritrovò in acqua. Alibertini raccontò in seguito di
aver visto per una decina di minuti, mentre si trovava in mare, la sagoma di un
sommergibile emerso che incrociava poco lontano; credette che la Tabarca fosse stata silurata da questo
sommergibile. Anche Francesco Romeo vide a circa 400 metri di distanza quello
che credette essere un sommergibile. In realtà, probabilmente, si trattò di
un’illusione ottica; non risulta che sommergibili Alleati si trovassero in
zona. Forse quella che videro Alibertini e Romeo, scambiandola nel buio per un
sommergibile, era la Carini intenta
nel suo pendolamento alla ricerca di superstiti.
Celestino Colautti
scrisse poi che c’erano parecchi uomini in acqua con lui; in tutto, erano
probabilmente alcune decine gli uomini che erano riusciti a gettarsi in mare
prima che la Tabarca affondasse.
Dopo l’affondamento
della Tabarca, la Carini accostò a dritta di 14°, in modo
da portarsi più al largo, e ridusse la velocità a cinque nodi; temendo che
potessero esserci altre mine (non a torto: la lista delle navi saltate su mine
nel tentativo di soccorrere altre unità che ne avevano urtate è tragicamente
lunga), non si avvicinò al punto in cui era affondata la piccola motonave,
limitandosi invece a pendolare a bassa velocità per tentare di avvistare
naufraghi o rottami. Fece così per un’ora, senza riuscire ad avvistare
alcunché; poi, alle 00.55, non avendo avvistato neanche un naufrago, il
caposcorta Pucci decise di lasciare la zona e riunirsi al convoglio, che intanto
aveva proseguito per la sua rotta. Aumentata la velocità, all’1.05 la Carini raggiunse il resto del convoglio,
che arrivò indenne a Bastia alle 9.12 del 1° dicembre. (Su una di queste navi,
il Capitano Sauro, c’era anche un “miracolato”:
un radiotelegrafista facente parte del personale di una stazione
radiotelegrafica diretta a Bastia, imbarcatasi sulla Tabarca per il trasferimento in Corsica, era stato infatti
momentaneamente distaccato sul Capitano
Sauro perché quest’ultimo si trovava privo, in quel viaggio, di
radiotelegrafista. Questo militare era arrivato sul Capitano Sauro piuttosto infastidito per la forzata separazione dai
suoi compagni: e invece questo imprevisto gli aveva salvato la vita, fu l’unico
superstite del suo reparto).
La conseguenza fu che
nessuno si fermò a raccogliere i naufraghi della Tabarca, che rimasero così per tutta la notte nell’acqua gelida di
inizio dicembre. Gli uomini in mare si cercavano al buio, gridando i nomi dei
compagni, ma l’ipotermia uccise a poco a poco la maggior parte di coloro che
erano sopravvissuti all’affondamento. Angelo Ferretti, dopo un paio d’ore, si
tolse il giubbotto salvagente: si era inzuppato, non galleggiava più, ormai era
inutile se non anche d’intralcio. Raggiunto un cavalletto di legno, vi si
arrampicò; trovo un sottufficiale suo superiore cui disse “Capo, ho freddo”, ma la risposta fu “Figlio mio e che ce posso fa’”. Poi lo perse di vista.
Prima di lasciare la
zona dell’affondamento, la Carini
aveva informato Marina Livorno dell’accaduto mediante un marconigramma, ed in
seguito a tale notizia il Comando Marina di Livorno si attivò per organizzare i
soccorsi. Alle 3.25 del 1° dicembre partirono da Livorno a questo scopo il MAS 556, il cacciasommergibili
ausiliario AS 109 Sant’Alfonso ed il rimorchiatore Italia Nuova; all’alba uscì in mare
anche il posamine ausiliario Elbano
Gasperi.
I soccorsi raggiunsero
il luogo dell’affondamento soltanto all’alba: il MAS 556 (il più veloce tra i mezzi di soccorso ed anche il più
adatto, perché grazie al suo ridottissimo pescaggio poteva entrare in acque
minate con minor rischio) arrivò per primo, ma ormai era troppo tardi per la
maggior parte dei naufraghi. Sul luogo in cui la Tabarca era affondata poche ore prima galleggiavano decine di
cadaveri, ed un numero ancor maggiore di zaini neri da Marina, che i marinai in
trasferimento in Corsica avevano con sé. Soltanto otto uomini erano ancora vivi
in quella distesa di morte: otto, su quasi 250 che si erano trovati a bordo
della Tabarca.
Esausti,
semiassiderati, sporchi di olio, i sopravvissuti vennero issati a bordo delle
unità soccorritrici, ricevettero delle coperte, furono condotti in sala caldaie
per scaldarsi. Poi iniziò il recupero delle salme, compito svolto anch’esso
principalmente dal MAS 556.
Tra i sopravvissuti
era Angelo Ferretti: un marinaio su una delle unità soccorritrici lo avvistò in
mezzo ai rottami e gli lanciò una cima, con cui fu tirato a bordo.
Anche Celestino
Colautti era ancora vivo; era l’unico superstite tra i naufraghi aggrappati al
suo palo, tutti gli altri avevano ceduto al freddo, uno dopo l’altro, nel corso
della notte. Giudicò di aver passato in acqua nove o dieci ore. A un certo
punto, sentito un rumore simile a quello di un aereo, guardò il cielo ma non
vide nulla; poi lo sentì ancora, più forte, e girò la testa. Vide allora
un’imbarcazione – probabilmente il MAS
556 – che si stava avvicinando; da bordo gli vennero lanciate delle corde,
che Colautti si affrettò a legarsi attorno alla vita, e con le quali venne
issato a bordo. Subito i soccorritori gli tagliarono i vestiti fradici di acqua
gelida e glieli tolsero, poi lo avvolsero in delle coperte.
I naufraghi furono
sbarcati a Livorno e condotti in un ospedale militare, dove nei primi giorni,
raccontò Angelo Ferretti, non fu data loro acqua per lavarsi “perchè temevano che alla vista dell'acqua in
alcuni potesse provocare uno shock”. Ferretti, che pure sapeva nuotare, non
sarebbe mai più entrato in acqua per il resto della sua vita.
Quando lasciarono
l’ospedale, gli otto sopravvissuti, accompagnati da una crocerossina, si
recarono al santuario della Madonna del Montenero, a Livorno, dove è lasciarono
un ex voto.
Celestino Colautti
trascorse venti giorni in ospedale, ed altri quaranta in licenza di
convalescenza (durante la quale venne nuovamente ricoverato all’ospedale di
Trieste per alcune complicazioni); poi fu rimandato a Venezia e da lì di nuovo
a Livorno, dove venne imbarcato su un’altra nave diretta in Corsica. Questa
volta la traversata andò a buon fine; ma Colautti dovette riattraversare, dopo
pochi mesi, quelle stesse acque che avevano inghiottito più di duecento suoi
compagni e nelle quali lui stesso per poco non aveva perso la vita.
Dei 237 o 241 uomini
imbarcati sulla Tabarca, i morti
furono 229 o 233. L’esplosione che aveva provocato la catastrofe venne
attribuita ad una mina, presumibilmente uno dei 140 ordigni (metà ad urto, metà
magnetici) posati il 24 agosto 1941 a sud di Livorno, proprio sulle secche di
Vada, dal posamine veloce britannico Manxman
nel corso dell’operazione britannica «Mincemeat». In quell’occasione, il Manxman aveva agito camuffato da
cacciatorpediniere francese classe Léopard, attraversando lo stretto di
Gibilterra nella notte del 22 agosto e posando nella notte tra il 23 ed il 24
una doppia fila di mine in posizione 43°19’ N e 10°12’ E, a ponente del faro di
Vada. Su quelle mine era già saltato, il 23 settembre 1941, il dragamine
ausiliario Carmelo Noli. Tale
sbarramento, per la verità, risulterebbe essere stato dragato tra l’agosto ed
il novembre 1941 da dragamine italiani (proprio durante quell’operazione si era
perso il Carmelo Noli); è però anche
vero che i rapporti italiani parlano del dragaggio di 80 ordigni (59 magnetici
e 21 ad urto), non di 140, e dunque non sembra inverosimile che una parte delle
mine possa essere sfuggita all’operazione di dragaggio, e che su una di esse sia
andata a capitare la Tabarca. Il
luogo dell’affondamento distava poco più di tre miglia dall’estremità del campo
minato posato dal Manxman, ragion per
cui l’ipotesi più probabile sembra quella di una mina alla deriva, che avesse
rotto gli ormeggi, proveniente da quello sbarramento. Il punto in cui avvenne
il disastro si trovava al di fuori della zona bonificata nei giorni precedenti
dalle unità del 3° Gruppo Dragaggio, più a nord rispetto ad essa.
È stata avanzata
anche l’ipotesi del siluramento (sostenuta, tra i superstiti, da Athos
Alibertini, Francesco Romeo, Idio Pensieri e Celestino Colautti, dei quali i
primi due affermarono anche, come detto, di aver visto un sommergibile), ma nel
periodo compreso tra il 21 novembre ed il 5 dicembre 1942 non risulta esservi
stato alcun attacco da parte di sommergibili Alleati nella zona di mare in cui
affondò la Tabarca.
Dei 28 uomini
dell’equipaggio, si salvarono soltanto il sottotenente CREM militarizzato Athos
Alibertini, direttore di macchina della Tabarca,
ed il marinaio militarizzato (cuoco in tempo di pace) Eugenio Virtude; undici
salme vennero recuperate ed identificate, quattordici uomini furono dichiarati
dispersi. Tra questi ultimi era anche il comandante Vassalle: la sua morte
presunta sarebbe stata formalmente riconosciuta soltanto nel 1953.
Del contingente
destinato a Marina Bonifacio, i sopravvissuti furono quattro: il sottocapo
cannoniere artificiere Angelo Ferretti ed i marinai Francesco Romeo, Lido
Pensieri e Sebastiano Cifali. Undici furono i corpi recuperati ed identificati,
settanta i dispersi.
Del contingente
destinato a Marina Bastia, unico superstite fu il nocchiere Nicola Rotondo; 23
salme vennero recuperate ed identificate, 94 furono dichiarati dispersi.
L’ottavo
sopravvissuto era il sergente cannoniere armaiolo Celestino Colautti, del quale
non è chiaro il reparto cui apparteneva.
In tutto, soltanto 51
corpi poterono essere recuperati; furono portati a Livorno, dove vennero loro
tributate onoranze solenni. La tragedia della Tabarca destò molta impressione nella città labronica, ma a poco a
poco anche questo ricordo sarebbe svanito, sepolto da altri lutti e distruzioni
che una guerra sempre più devastante avrebbe continuato a seminare a Livorno e
nel suo mare.
Le salme di alcune
altre vittime furono portate dal mare fino in Sardegna e in Costa Azzurra, dove
vennero ritrovate parecchi giorni dopo il disastro. I corpi del marinaio
nocchiere Vincenzo Altieri e del sergente nocchiere Emanuele Brenna furono
rivenuti sulle spiagge della Costa Azzurra, dove vennero sepolti; quelli dei
marinai Luigi Bertucci ed Antonio Cavallaro furono trovati sulle spiagge della
Sardegna. Riposano oggi nel cimitero di Oristano.
Le vittime:
Giuseppe Aiello, marinaio, disperso (Marina
Bonifacio)
Angelo Alfieri, marinaio nocchiere, disperso
(Marina Bastia)
Vincenzo Altieri, marinaio nocchiere, deceduto
(Marina Bastia)
Giuseppe Amodeo, marinaio nocchiere, disperso
(Marina Bastia)
Alfredo Andorlini, sottocapo fuochista
conduttore di macchina, disperso (Marina Bastia)
Aldo Andrian, cannoniere puntatore scelto,
disperso (Marina Bonifacio)
Giovanni Angelotti, marinaio carpentiere,
disperso (Marina Bonifacio)
Guglielmo Apreda, marinaio furiere, disperso (Marina
Bastia)
Luigi Arcella, marinaio motorista navale,
disperso (Marina Bastia)
Nicola Arena, sottocapo cannoniere ordinario,
disperso (Marina Bonifacio)
Luigi Ascione, cannoniere puntatore, disperso
(Marina Bonifacio)
Eugenio Balbo, marinaio segnalatore, deceduto
(Marina Bastia)
Aldo Ballarin, marinaio, disperso (Marina
Bonifacio)
Giuseppe Balsamo, cannoniere ordinario,
disperso (Marina Bonifacio)
Enzo Bano, marinaio, disperso (Marina Bastia)
Francesco Paolo Barbaro, cannoniere ordinario,
disperso (Marina Bonifacio)
Achille Barbatti, marinaio torpediniere,
disperso (Marina Bastia)
Domenico Barresi, sottocapo segnalatore,
disperso (Marina Bastia)
Sebastiano Bartolotta, marinaio, disperso
(Marina Bonifacio)
Pietro Bartucci, sottocapo radiotelegrafista,
disperso (Marina Bastia)
Francesco Basile, cannoniere ordinario,
disperso (Marina Bonifacio)
Paolo Bastione, capo nocchiere di seconda
classe, disperso (Marina Bastia)
Giovanni Bauducco, sottocapo elettricista,
disperso (Marina Bastia)
Orfeo Bellan, marinaio nocchiere, disperso
(Marina Bastia)
Vittorio Bernabò, sottocapo infermiere,
disperso (Marina Bastia)
Luigi Bertucci, cannoniere puntatore scelto, deceduto
(Marina Bonifacio)
Alessio Bogliolo, marinaio elettricista,
disperso (Marina Bastia)
Giuseppe Bologna, sergente cannoniere
ordinario, disperso (Marina Bonifacio)
Umberto Bonaccorsi, tenente d’artiglieria del
Regio Esercito, deceduto (Marina Bonifacio)
Stefano Bonfanti, marinaio, disperso (Marina
Bastia)
Giovanni Bonfatto, marinaio segnalatore,
deceduto (Marina Bastia)
Clemente Bongiovanni, capo furiere di terza
classe, disperso (Marina Bastia)
Renato Bora, cannoniere ordinario, deceduto
(Marina Bonifacio)
Armando Bottiglieri, marinaio fuochista,
disperso (equipaggio)
Emanuele Brenna, sergente nocchiere, deceduto
(Marina Bastia)
Giovanni Brugora, cannoniere puntatore,
disperso (Marina Bonifacio)
Giobatta Cabona, marinaio segnalatore,
disperso (Marina Bastia)
Gioacchino Calabria, marinaio fuochista,
deceduto (equipaggio)
Pantaleo Camassa, marinaio nocchiere, disperso
(Marina Bastia)
Enrico Campodonico, secondo capo elettricista,
disperso (Marina Bonifacio)
Vincenzo Carannante, marinaio fuochista,
disperso (equipaggio)
Roberto Caratella, marinaio, disperso (Marina
Bonifacio)
Vinicio Caressa, secondo capo torpediniere,
disperso (Marina Bastia)
Antonio Cavallaro, marinaio nocchiere,
deceduto (Marina Bastia)
Ignazio Castagna, motorista navale, disperso
(Marina Bastia)
Pietro Castelliti, sottocapo cannoniere
armaiolo, disperso (Marina Bastia)
Giuseppe Catanzaro, cannoniere puntatore
scelto, disperso (Marina Bonifacio)
Umberto Catuogno, secondo capo segnalatore,
disperso (Marina Bastia)
Giacinto Cervesato, cannoniere ordinario,
disperso (Marina Bastia)
Luigi Chierici, sergente cannoniere ordinario,
disperso (Marina Bastia)
Giovanni Chinaglia, secondo capo portuale,
deceduto (Marina Bastia)
Francesco Colaianni, marinaio, deceduto
(equipaggio)
Luigi Colombo, motorista navale, disperso
(Marina Bastia)
Pasquale Comunale, marinaio, disperso (Marina
Bastia)
Natale Conte, marinaio nocchiere, disperso
(Marina Bastia)
Pierino Coppa, cannoniere ordinario, disperso
(Marina Bonifacio)
Ariodante Costa, sottocapo cannoniere
armaiolo, disperso (Marina Bastia)
Giorgio Cotti, trombettiere, disperso (Marina
Bastia)
Pasquale Crea, marinaio nocchiere, disperso
(Marina Bastia)
Gennaro Criscito, marinaio elettricista,
disperso (Marina Bonifacio)
Angelo D’Alessandro, sottocapo cannoniere
ordinario, deceduto (Marina Bonifacio)
Giuseppe Damele, sergente nocchiere, deceduto
(equipaggio)
Domenico D’Arrigo, marinaio, disperso (Marina
Bonifacio)
Paolo Antonio D’Atri, marinaio motorista,
disperso (Marina Bonifacio)
Salvatore Della Ragione, marinaio segnalatore,
deceduto (Marina Bastia)
Vito Del Re, marinaio militarizzato, disperso
(equipaggio)
Raffaele De Martino, marinaio, deceduto
(Marina Bastia)
Vincenzo De Martino, marinaio elettricista,
disperso (Marina Bastia)
Pasquale De Marzo, marinaio nocchiere,
disperso (Marina Bastia)
Giovanni De Matteis, marinaio, disperso
(Marina Bastia)
Teodoro Desiderato, sottocapo cannoniere
armaiolo, disperso (Marina Bonifacio)
Giuseppe Devetti, marinaio, deceduto (Marina
Bastia)
Giovanni Di Campli, marinaio, disperso (Marina
Bonifacio)
Umberto Di Capua, secondo capo cannoniere
armaiolo, disperso (Marina Bastia)
Umberto Di Coscio, marinaio elettricista,
disperso (Marina Bastia)
Mario Di Giovanni, secondo capo motorista
navale, disperso (Marina Bastia)
Saverio Di Iorio, marinaio nocchiere, deceduto
(Marina Bastia)
Giuseppe Di Maio, marinaio, deceduto (Marina
Bastia)
Antonio Di Pietrantonio, marinaio fuochista
ordinario, disperso (Marina Bastia)
Eleuterio Di Rosario, marinaio
radiotelegrafista, disperso (Marina Bastia)
Mario Di Vita, motorista navale, disperso
(Marina Bastia)
Giovanni Domicolo, sottocapo
radiotelegrafista, disperso (Marina Bastia)
Antonino Duca, marinaio, disperso (Marina
Bonifacio)
Luigi Durante, marinaio nocchiere, disperso
(Marina Bastia)
Mario Ecatenzi, sottocapo segnalatore,
disperso (Marina Bastia)
Aldo Fabbri, sottocapo segnalatore, disperso
(Marina Bastia)
Vittorio Fabris, marinaio radiotelegrafista,
disperso (Marina Bastia)
Stanko Fabulich, marinaio, disperso (Marina
Bastia)
Emilio Fainello, marinaio, disperso (Marina
Bonifacio)
Antonino Falenca, marinaio, disperso (Marina
Bonifacio)
Giovanni Fedrigo, cannoniere ordinario,
deceduto (equipaggio)
Aldo Ferrarini, marinaio radiotelegrafista,
deceduto (equipaggio)
Ilio Ferrazza, cannoniere ordinario, disperso
(equipaggio)
Lorenzo Finazzi, marinaio, deceduto (Marina
Bonifacio)
Salvatore Finocchiaro, marinaio, disperso
(Marina Bonifacio)
Francesco Fiore, marinaio nocchiere, disperso
(Marina Bastia)
Girolamo Fischietti, marinaio, disperso
(Marina Bastia)
Giuseppe Fleri, cannoniere ordinario, deceduto
(Marina Bonifacio)
Raimondo Follien, cannoniere puntatore scelto,
disperso (Marina Bonifacio)
Ezio Forno, secondo capo elettricista,
disperso (Marina Bonifacio)
Donato Fortunato, cannoniere armaiolo,
disperso (equipaggio)
Giuseppe Fragomeni, sottocapo motorista
navale, disperso (Marina Bastia)
Luigi Galbusera, furiere segretario, disperso
(Marina Bastia)
Pietro Galli, marinaio torpediniere, disperso
(Marina Bastia)
Luigi Gasperi, sottotenente C.R.E.M., deceduto
(Marina Bastia)
Alberto Gatti, marinaio, disperso (Marina
Bonifacio)
Corrado Gianolla, marinaio elettricista,
disperso (Marina Bastia)
Nicola Gigante, marinaio, disperso (Marina
Bastia)
Ivo Gimelli, sottocapo furiere segretario,
disperso (Marina Bastia)
Donato Grassi, sottocapo cannoniere puntatore
scelto, deceduto (Marina Bonifacio)
Camillo Grazioli, cannoniere ordinario,
disperso (Marina Bonifacio)
Oliviero Grillantini, marinaio, disperso
(Marina Bonifacio)
Ottavio Guicciardi, cannoniere ordinario,
disperso (Marina Bonifacio)
Francesco Iacovazzi, sottocapo cannoniere
puntatore, disperso (Marina Bonifacio)
Giuseppe Imperiale, cannoniere puntatore
scelto, disperso (Marina Bonifacio)
Colenda Iveglia, marinaio nocchiere, disperso
(Marina Bastia)
Domenico La Martina, marinaio nocchiere,
disperso (Marina Bastia)
Angelo La Mesa, marinaio, disperso (Marina
Bonifacio)
Pietro Lavenia, marinaio, deceduto (Marina
Bonifacio)
Antonio Laviosa, sottocapo elettricista,
disperso (Marina Bastia)
Mario Lazzari, capitano del Regio Esercito,
disperso (Marina Bonifacio)
Giovanni Lazzarich, marinaio nocchiere,
deceduto (Marina Bastia)
Aldo Lazzeri, secondo capo elettricista,
disperso (Marina Bastia)
Gaetano Leotta, sottocapo nocchiere, disperso
(equipaggio)
Gaetano Lisco, marinaio, disperso (Marina
Bastia)
Livio Livi, sergente furiere, disperso (Marina
Bastia)
Bruno Locori, marinaio fuochista, deceduto
(Marina Bastia)
Carlo Lovrin, marinaio, deceduto (Marina
Bastia)
Pietro Luperi, cannoniere puntatore
mitragliere, deceduto (equipaggio)
Antonio Manchino, marinaio, disperso (Marina
Bonifacio)
Antonio Mandile, cannoniere puntatore scelto,
disperso (Marina Bonifacio)
Achille Attilio Mariani, marinaio segnalatore,
deceduto (Marina Bastia)
Sante Massa, sottocapo elettricista, deceduto
(Marina Bonifacio)
Giovanni Mattioli, marinaio furiere, disperso
(Marina Bastia)
Giuseppe Melcarne, cannoniere puntatore
mitragliere, deceduto (equipaggio)
Omero Menichetti, secondo capo S.D.T.,
disperso (Marina Bonifacio)
Giuseppe Minardi, marinaio, disperso (Marina
Bonifacio)
Giuseppe Miotto, sottocapo cannoniere
armaiolo, disperso (Marina Bonifacio)
Luigi Mocco, marinaio silurista, disperso
(Marina Bastia)
Domenico Mondo, marinaio, disperso (Marina
Bonifacio)
Donato Morgino, cannoniere ordinario, disperso
(equipaggio)
Aldo Morosini, sottocapo cannoniere armaiolo,
disperso (Marina Bonifacio)
Natale Nastasi, marinaio segnalatore, deceduto
(equipaggio)
Domenico Neri, marinaio, disperso (Marina
Bastia)
Santo Orlando, cannoniere puntatore scelto,
disperso (Marina Bonifacio)
Giovanni Oselladore, marinaio, disperso
(Marina Bastia)
Guido Ottonello, cannoniere puntatore scelto,
disperso (Marina Bonifacio)
Alessandro Paganini, cannoniere, disperso
(equipaggio)
Sebastiano Palumbo, marinaio furiere, disperso
(Marina Bastia)
Carlo Paolillo, cannoniere ordinario, disperso
(Marina Bonifacio)
Giuseppe Paternò, cannoniere puntatore scelto,
disperso (Marina Bonifacio)
Domenico Pecunia, capo radiotelegrafista di
prima classe, disperso (Marina Bastia)
Domenico Pegna, marinaio, disperso (Marina
Bastia)
Giuseppe Penne, secondo capo
radiotelegrafista, disperso (Marina Bastia)
Marino Penzo, marinaio, disperso (Marina
Bonifacio)
Raffaele Percoco, secondo capo segnalatore,
disperso (Marina Bastia)
Camillo Perla, marinaio nocchiere, disperso
(Marina Bastia)
Mario Peroni, marinaio, disperso (Marina
Bonifacio)
Vincenzo Perri, sottocapo cannoniere puntatore
scelto, deceduto (Marina Bonifacio)
Mario Persiani, marinaio, disperso (Marina
Bastia)
Antonio Pietrocola, secondo capo furiere,
deceduto (Marina Bastia)
Giuseppe Piraino, marinaio, disperso (Marina
Bastia)
Silvano Potocar, marinaio fuochista, disperso
(Marina Bonifacio)
Paolo Pozzi, marinaio, disperso (Marina
Bonifacio)
Nicola Previti, marinaio, disperso (Marina
Bonifacio)
Angelo Privitera, marinaio, disperso (Marina
Bonifacio)
Giuseppe Raimondi, capo segnalatore di terza
classe, disperso (Marina Bastia)
Rosario Rando, sottonocchiere, disperso
(Marina Bastia)
Romolo Raitieri, secondo capo segnalatore,
disperso (Marina Bastia)
Tommaso Restuccia, marinaio, disperso (Marina
Bonifacio)
Basilio Rinaldi, marinaio, disperso (Marina
Bonifacio)
Giovanni Ritacco, marinaio, disperso (Marina
Bastia)
Omero Riva, sergente elettricista, disperso
(Marina Bastia)
Amerigo Rombai, secondo capo palombaro,
deceduto (Marina Bastia)
Aldo Ronchi, sottocapo elettricista, deceduto
(Marina Bonifacio)
Rosario Russo, marinaio, disperso (Marina
Bonifacio)
Simone Russo, capo cannoniere di terza classe,
deceduto (Marina Bonifacio)
Nicolò Ruvio, marinaio fuochista, deceduto
(Marina Bastia)
Francesco Sabella, capo segnalatore di prima
classe, disperso (Marina Bastia)
Domenico Salemi, marinaio nocchiere, deceduto
(Marina Bastia)
Cesare Saleri, marinaio, deceduto (Marina
Bonifacio)
Serafino Sandionigi, sergente cannoniere,
deceduto (Marina Bastia)
Natale Santoro, marinaio, disperso (Marina
Bonifacio)
Giacinto Santorsola, sottonocchiere, deceduto
(equipaggio)
Ernesto Sarchese, sottocapo furiere
segretario, disperso (Marina Bastia)
Giovanni Savarese, marinaio nocchiere,
deceduto (Marina Bastia)
Carduccio Scalabrini, sergente cannoniere
puntatore mitragliere, disperso (Marina Bastia)
Francesco Sciarini, cannoniere puntatore
scelto, disperso (equipaggio)
Aurelio Scognamiglio, marinaio motorista
navale, disperso (Marina Bastia)
Mariano Scorcelli, sergente nocchiere,
disperso (Marina Bastia)
Arcangelo Scotto di Clemente, marinaio,
deceduto (Marina Bastia)
Orazio Scuto, marinaio, disperso (Marina
Bonifacio)
Riccardo Semeia, marinaio, disperso (Marina
Bastia)
Mario Serafini, marinaio fuochista, disperso
(equipaggio)
Vincenzo Siciliano, sottocapo furiere,
disperso (Marina Bastia)
Rinaldo Silvi, marinaio, disperso (equipaggio)
Nicola Simoni, marinaio, disperso (Marina
Bonifacio)
Giulio Simonini, capo meccanico di seconda
classe militarizzato, deceduto (equipaggio)
Gino Sommovigo, marinaio elettricista,
disperso (Marina Bonifacio)
Silvano Stabile, capo radiotelegrafista di
terza classe, deceduto (Marina Bastia)
Biagio Strano, cannoniere ordinario, disperso
(Marina Bonifacio)
Giacomo Tarabbia, sergente cannoniere,
disperso (equipaggio)
Carmelo Termine, marinaio, disperso (Marina
Bonifacio)
Francesco Ternullo, sottocapo nocchiere,
disperso (equipaggio)
Alfredo Tizzoni, marinaio torpediniere,
disperso (Marina Bastia)
Roberto Todero, sottotenente C.R.E.M.,
disperso (Marina Bastia)
Alfredo Torielli, marinaio segnalatore,
deceduto (Marina Bastia)
Giuseppe Tosin, sottocapo S.D.T., disperso
(Marina Bonifacio)
Giancaterino Trevisano, marinaio, disperso
(Marina Bonifacio)
Raffaele Trillo, marinaio, deceduto
(equipaggio)
Francesco Tringali, marinaio, disperso (Marina
Bonifacio)
Luigi Trivellini, marinaio, disperso (Marina
Bonifacio)
Vittorio Tumminello, marinaio, disperso
(Marina Bastia)
Livio Vassalle, sottotenente C.R.E.M.
militarizzato (comandante), disperso (equipaggio)
Pietro Venuti, cannoniere puntatore scelto,
disperso (Marina Bonifacio)
Francesco Verderame, marinaio S.D.T., disperso
(Marina Bonifacio)
Giovanni Vianello, marinaio, disperso (Marina
Bonifacio)
Marcello Vidulich, marinaio nocchiere,
deceduto (Marina Bastia)
Francesco Vigezzi, marinaio torpediniere,
disperso (Marina Bastia)
Amperio Villani, sottocapo cannoniere
armaiolo, deceduto (Marina Bonifacio)
Vittorio Vio, sottocapo segnalatore, disperso
(Marina Bastia)
Cesare Vivani, secondo capo furiere, disperso
(Marina Bastia)
Mario Zane, marinaio nocchiere, disperso
(Marina Bastia)
Sebastiano Zivillica, marinaio, disperso
(Marina Bonifacio)
Tra le tante vittime
vi fu il sottocapo S.D.T. Giuseppe (“Beppino”) Tosin, di Bassano del Grappa,
ventunenne: primogenito di cinque figli, non aveva ancora diciassette anni
quando il 3 settembre 1938 si era arruolato volontario in Marina, per aiutare
economicamente la famiglia. Per quattro anni aveva prestato servizio sul
cacciatorpediniere Nicolò Zeno e
sull’incrociatore pesante Bolzano,
poi era stato destinato a Marina Bonifacio, imbarcandosi sulla Tabarca per raggiungere la nuova
destinazione. Il 30 novembre, prima di partire da Livorno, aveva spedito ai
genitori un conciso biglietto, non avendo idea che sarebbe stato l’ultimo:
"Livorno, 30 novembre 1942. Oggi
parto e attendete mie nuove che vi giungeranno presto. Cari saluti e bacioni a
tutti Beppino". Otto giorni prima, il 22 novembre, aveva scritto a
casa da Livorno "Sono sempre in
attesa di andarmene a quel bel paese. Morale Altissimo e Coraggio più che mai
grande. Attendete mie notizie. Non scrivetemi". I genitori ebbero la
notizia della sua morte (anzi, della sua scomparsa, dato che come per
tantissimi altri il suo corpo non venne mai trovato) pochi giorni prima di
Natale – il padre aveva appena ucciso un maiale per il pranzo natalizio –,
quando si presentarono alla loro porta il messo comunale di Bassano ed il
parroco del paese. La madre Amelia si sarebbe rinchiusa in camera a piangere
per quaranta giorni. Cercando notizie su cosa fosse successo, i Tosin
riuscirono ad entrare in contatto con un’abitante di Livorno, tale signora
Tina, che il 29 dicembre scrisse alla persona che faceva da tramite con la
famiglia Tosin: “…Subito nel pomeriggio
mi sono recata, sia al porto m. Capitaneria, indi al Comando Marina per aver
quelle notizie che mi chiedevi circa il Tosin. Purtroppo, sia in un posto, sia
nell'altro non mi hanno dato nessunissima speranza alla quale poterci
appigliare. Il Comando Marina , dal quale il povero Tosin dipendeva mi ha detto
chiaro e netto che ogni speranza dev'essere abbandonata per il modo in cui è
avvenuto il sinistro. Di 260, sei solo sono i superstiti che si sono trovati in
acqua dopo che la nave è saltata in aria. Non possono comunicare ufficialmente
la morte, perchè non han potuto recuperare il cadavere, avendone potuto
recuperare soltanto una cinquantina. E' stato un fatto questo, che ha molto
impressionato la città di Livorno la quale ha tributato onoranze solenni alle
salme. Quando ti ho scritto che non l'avevo veduto, avevo il presentimento che
qualche cosa gli fosse accaduto. Mi dispiace immensamente di non averti potuto
dare notizie che dessero adito a qualche speranza, e soprattutto mi dispiace
per la povera famiglia e soprattutto per la sua mamma. Dei sei superstiti
nessuno più si trova a Livorno. Difficilmente questi lo conoscevano essendo
imbarcati non tutti dello stesso gruppo, ma presi un pò qua un pò là ed anche
loro ben poco saprebbero dire, così mi disse quello con cui ho parlato e che mi
fece vedere il registro con i nominativi”.
Anche il capo
segnalatore di prima classe Francesco Sabella, 44 anni (era probabilmente uno
dei più “anziani” tra i passeggeri della Tabarca),
da Casalcalenda, prima d’imbarcarsi per la Corsica aveva scritto una cartolina
alla moglie Adele: in chiusura, aveva scherzosamente promesso "scriverò quanto prima appena troverò
Napoleone"…
Un altro dei dispersi
era il cannoniere armaiolo Donato Fortunato, ventisette anni, da Bari: il 12
dicembre la madre Marina scriveva direttamente a papa Pio XII, chiedendo se
potesse intercedere per farle avere notizie. Anche i genitori di Giuseppe Tosin
scrissero al Vaticano: il 18 gennaio 1943 le autorità pontificie risposero che
"La Segreteria di Stato di Sua
Santità ha ricevuto la richiesta di notizie e si pregia assicurare che ha
iniziato subito le pratiche del caso. Non mancherà di comunicare con ogni
premura la eventuale risposta facendo tuttavia osservare che le presenti
circostanze rendono piuttosto lungo e difficile lo svolgimento di tali pratiche".
Ancora un altro
disperso era il marinaio Giovanni Vianello, da Pellestrina: pescatore, era
stato arruolato all’età di 19 anni neanche due mesi prima, era in Marina da una
cinquantina di giorni.
L’elenco
del personale imbarcato sulla Tabarca
(Ufficio Storico della Marina Militare, via Antonio Salce):
Ai morti della Tabarca non fu concesso nemmeno di
riposare in pace: nel dopoguerra l’Italia aveva fame di metallo per la
ricostruzione dopo le distruzioni causate dal conflitto, il relitto della
motonave giaceva a profondità abbastanza bassa da renderne agevole la
demolizione, il rispetto per i morti passò in secondo piano. La carcassa della Tabarca venne dilaniata dalle cariche
esplosive piazzate dai palombari della ditta Neri di Livorno (autorizzata dalla
Marina a procedere alla demolizione), il relitto fu fatto a pezzi ed ingenti
quantità di metallo furono recuperate ed inviate nelle fonderie. Il palombaro
livornese che entrò nello scafo sommerso per collocare le cariche esplosive si
trovò dinanzi ad un enorme ammasso di teschi ed ossa, i resti dei duecento
uomini che la Tabarca aveva portato
con sé nella tragica notte del 1° dicembre 1942. Quei resti – salvo alcuni che
all’inizio dei lavori sarebbero stati recuperati insieme ai rottami e sepolti
in una fossa comune – vennero lasciati
sul fondale; quando i lavori di recupero furono terminati, una bettolina
scaricò su di essi un carico di sabbia e ghiaia, per coprirli. Scrive in un articolo
il subacqueo Marco Mazzotta: “In porto
dicevano che quando il palombaro capo finì il lavoro, una bettolina scaricò
pietosamente, proprio in quel punto, un carico di ghiaia. Era infatti un
relitto pieno zeppo di cadaveri. Fuoriuscivano a frotte ogni volta che si
scoperchiava un nuovo locale e l’ultima parte fu lasciata anche per dare una
sorta di decorosa sepoltura a quella povera gente. Ma quanti erano? Non era
stato possibile recuperarli. Erano troppi anche per contarli! Ci voleva troppo
tempo e il tempo in questi lavori è da sempre tiranno. E poi chi erano? Che mai
era successo in quel posto? Nessuno li aveva mai reclamati. Sembravano marinai,
marinai italiani a giudicare dalle dotazioni, ma questo era tutto quello che si
sapeva. Alcuni resti, inizialmente, furono portati indietro insieme ai rottami
e probabilmente furono inumati in fossa comune, constatata l’impossibilità di
dare un nome e un cognome. Ma non c’era più voglia né di morti, né di guerra e
il lavoro doveva procedere spedito. Così si fece la cosa più semplice. Si fece
sparire quella tragedia sconosciuta e di cui, come ogni cosa di guerra a quel
tempo, nessuno voleva che se ne parlasse mai più. C’era solo voglia di vita di
vivere e di rinascere (…) Ora,
dissoltisi anche i poveri corpi, consumati dal tempo e dal mare, rimaneva come
unica loro vestigia una impressionante distesa di suole di stivali e fibbie di
giberna, residui non biodegradabili delle loro divise, ultimi muti testimoni
della tragedia, rimasti lì perché il mare proprio non ce la faceva a
distruggerli e nemmeno il più infimo predatore di relitti voleva portare con sé”.
Ciononostante, a
causa del mare che ha progressivamente smosso la ghiaia, ancor oggi accade che
delle ossa affiorino al di sopra della sabbia e della ghiaia, insieme a
piastrine di riconoscimento, armi, fibbie, giberne, fucili, baionette, maschere
antigas, monetine, rasoi con scatole di lamette, altri oggetti
dell’equipaggiamento dei militari, molti dei quali, a causa della facilità
dell’immersione sul relitto, sono stati saccheggiati da subacquei privi di
rispetto (taluni sono arrivati persino a recuperare delle ossa umane, esibite
quasi come trofei). In passato bossoli, proiettili, frammenti di armi e di
ogive rimanevano talvolta impigliati nelle reti dei pescatori. La presenza, tra
i resti della nave, di alcune biciclette portò il relitto ad essere conosciuto
per qualche tempo come “il relitto dei bersaglieri”, sebbene in realtà non vi
fosse neanche un bersagliere tra le truppe a bordo.
Tra le piastrine di
riconoscimento recuperate dal relitto vi sono quelle appartenenti al marinaio
nocchiere Giovanni Lazzarich, di 20 anni, da Laurana; al sottocapo elettricista
Giovanni Bauducco, 25 anni, da Genova Sampierdarena; al motorista navale Luigi
Colombo, 23 anni, da Arluno; al marinaio elettricista Umberto Di Coscio, 24
anni, da Trieste. Tutti dichiarati dispersi nell’affondamento. Le piastrine di
riconoscimento di Giovanni Bauduccio, Luigi Colombo ed Umberto Di Coscio,
recuperate nel 1997 dal subacqueo Sauro Gennai (che le aveva notate nella
sabbia all’interno del relitto nel corso di due distinte immersioni), sono
state da questi consegnate alle rispettive famiglie, grazie all’aiuto dello
storico Moreno Ceppatelli, di Maripers Ufficio Matricola al Ministero del
Tesoro, sezione pensioni di guerra, della Presidenza dell'Associazione
Nazionale Marinai d'Italia e della Direzione del Personale Militare della
Marina (retta all’epoca dall’ammiraglio Paolo Giardini). La famiglia di Luigi
Colombo seppe soltanto allora, a più di sessant’anni dalla sua morte, il nome
della nave su cui egli aveva perso la vita (anche le famiglie Bauducco e Di
Coscio, del resto, non sapevano molto di più di quanto riferito settant’anni
prima dal telegramma della Marina che le informava che in data 1° dicembre 1942
il loro congiunto era stato disperso per fatto di guerra, senza specificare il
come ed il dove). Da una nipote dello sfortunato marinaio, Moreno Ceppatelli
apprese un aneddoto quasi surreale: “…poco
tempo prima era morta la mamma di Luigi Colombo. In uno degli ultimi giorni
della sua vita, raccontò alla figlia una mattina, di aver sognato che era stata
ritrovata la nave dove era morto il suo Luigi. Da calcoli che facemmo, il sogno
di questa signora coincideva con il periodo in cui Sauro Gennai prelevò la
piastrina dal relitto”. Ad Arluno, la restituzione della piastrina venne
celebrata con una messa, ed ebbe anche notevole risonanza sulla stampa locale.
I resti semidistrutti
della Tabarca, spezzata in tre parti,
giacciono su fondale sabbioso un miglio a sud del faro di Vada, a profondità
compresa tra i 20 e i 27 metri, a 5,5-5,9 miglia da Marina di Cecina. Dopo i
lavori di demolizione del dopoguerra, soltanto poche lamiere irriconoscibili
rimangono dello scafo, ad eccezione della prua, che è ancora relativamente
intatta per una lunghezza di circa otto metri, adagiata sul fianco sinistro.
Poco oltre il troncone prodiero una grossa lamiera, sul lato sinistro, si leva
dal fondale per circa cinque metri; alcune altre lamiere sono sparpagliate sul
fondale attorno al relitto. La parte inferiore dello scafo, con i resti delle
vittime, rimane semisepolta dallo strato di sabbia e ghiaia appositamente
gettatovi. Gronghi, corvine e murene abitano oggi il relitto, la cui
identificazione all’ecoscandaglio risulta molto difficoltosa (per via della
sagoma “bassa”, risultato dei lavori di demolizione), avendo un’eco non
dissimile da quella degli speroni rocciosi che caratterizzano il fondale in
quelle acque. La scarsa profondità e la poca distanza dalla costa lo rendono
molto frequentato da subacquei anche dilettanti, di cui non tutti, come detto,
sembrano osservare il rispetto che sarebbe doveroso nell’immergersi su quello
che di fatto è un cimitero di guerra.
HMS Kilbeggan (da www.kreiser.unoforum.pro) |
L’affondamento della Tabarca nel ricordo del sopravvissuto
Celestino Colautti, registrato su nastro ed inviato nel 2006 a Bruno Tosin,
nipote di Giuseppe Tosin (dalla pagina Facebook “Nave Tabarca”):
"Io e suo zio Giuseppe eravamo a Venezia in
attesa di una partenza per altra parte. Eravamo destinati, se la guerra andava
bene, in Africa, pare addirittura ad Alessandria d'Egitto. Senonchè la guerra è
andata male in Africa e ci hanno destinato all'occupazione della Corsica. E da
Venezia ci hanno spedito a Livorno; là abbiamo trovato una nave. Non era una nave
da guerra, ma una nave da trasporto. Trasportava truppe, un pò di tutto. Faceva
viaggi dall'Italia alla Corsica. Così il 30 novembre 1942 all'imbrunire ci
siamo imbarcati. Ci siamo imbarcati già nel pomeriggio. Una nave non tanto
grande, di medio... Alla sera, verso le 8 di sera, era già scuro. Siamo
partiti. Era una serata brutta, minacciava temporale, nuvole, mare grosso. E
durante il viaggio la nave beccheggiava molto. Molte persone a bordo sono state
male. Io, avendo avuto un'esperienza abbastanza delle navi, ero imbarcato in
cacciatorpediniere, corazzate, ecc. pur essendo il tempo molto brutto, non ho
voluto mettermi sotto coperta, al riparo dalle intemperie, ma mi sono vestito
bene e ho messo il salvagente attorno alla vita e mi sono messo vicino al ponte
di comando. So che la nave beccheggiava molto molto molto; rollava,
beccheggiava, perchè il tempo era brutto. Dopo un paio di ore di navigazione,
tutto d'un colpo, era una notte molto buia, tutto d'un colpo c'è stata una
tremenda esplosione, sulla prora della nave. Nessuno sa di cosa è stata
colpita. D'una mina, un siluro, non si sa. Fatto sta che la nave subito si è
inclinata un pò su un fianco e io avevo una coperta che mi teneva un pò caldo,
visto che stavo all'aperto.
Ho tolto la coperta e mi sono gettato in mare.
Assieme a me poi ho trovato altre persone. Purtroppo la nave è andata a fondo
in pochi minuti. E' stata squarciata e portata via tutta la prora davanti; è
andata giù. Praticamente quando sono tornato a galla perchè mi ero gettato in
mare, la nave stava ancora un po’ finendo di andare sotto acqua. Io mi sono
subito aggrappato su un palo. Però questo palo non era grande. Ha cominciato a
venire 1,2,3,5 non so quanti e il palo non teneva più a galla nessuno. Per
fortuna io avevo il salvagente e mi tenevo tra il palo e il salvagente.
Purtroppo là è cominciata la tragedia. Io non ho visto quanti sono morti nello
scoppio, quanti sono morti sotto coperta che dormivano o che erano al riparo.
Non so. Io ho visto quelli che erano sopravvissuti e che stavano gridando,
pregando Iddio. E il freddo tremendo che ognuno di noi aveva per causa che
l'acqua aveva si e no 8 gradi. Insomma di suo zio non ho visto traccia. Non ho
sentito più niente di lui. Avevo altre persone, altri colleghi, altri uomini
che uno alla volta purtroppo si sono lasciati andare, non hanno resistito,
nessuno ha resistito. Fino all'ultimo che si è lasciato e sono rimasto solo
aggrappato a questo palo, con l'acqua fino al collo. E là ho passato 9/10 ore.
Dalla mezzanotte circa siamo andati a fondo, fino all'alba del giorno appresso
e verso le 9 di mattina che ha cominciato a rischiarare. In quel momento, dopo
tante ore di sofferenze tremende, di preghiere, di chiamare la mamma e aiuto al
Padreterno ho inteso un rumore come di un aeroplano. Ho alzato la testa e non
ho visto nessuno. Anch'io ormai avevo perso tutte le forze. Senonchè questo
rumore l'ho inteso più forte, ho girato la testa, ho visto che c'era
un'imbarcazione della marina. Ho saputo che era la nostra marina.
Un'imbarcazione la quale pian piano mi è venuta vicino; mi hanno gettato delle
corde che mi sono legato attorno alla vita. Mi hanno tirato su a bordo di
questa nave imbarcazione. Mi hanno subito tagliato i vestiti, mi hanno messo
delle coperte. Siamo partiti verso Livorno. Sono stato ricoverato all'ospedale.
C'è stata la trafila della convalescenza, ho fatto in ospedale 20 giorni, 40 di
convalescenza. poi sono ritornato a Venezia. Da Venezia mi hanno rispedito, la
stessa cosa; da Livorno mi hanno rispedito in Corsica. Sempre con altra nave,
sono passato di nuovo su quel mare dove ho lasciato tutti i miei compagni. E
questa è la piccola grande storia di quel periodo".
Una lettera scritta
il 31 gennaio 1943 da Celestino Corautti ai familiari di Giuseppe Tosin (dalla
pagina Facebook “Nave Tabarca”):
"Trieste 31 - 1 - 43
Egregio signore, ieri ho ricevuto la Vostra
lettera in data 28 c.m., nella quale mi chiedete notizie del vostro figliolo,
alla quale vi rispondo dandovi i dati da me conosciuti con la più pura verità.
Vostro figlio Beppino lo conoscevo molto bene perchè era con me a Venezia.
Siamo stati imbarcati assieme in quella brutta notte del 30 novembre. Voi già
conoscete la sorte di quel viaggio, dal quale naufragio ci siamo salvati
solamente otto persone. Poco prima che succedesse quel fatto, io ho parlato con
vostro figlio e altri amici di Venezia, eravamo tutti giù nella stiva e anche
abbastanza allegri, anzi vostro figlio era molto entusiasta del posto dove si
andava, non so per quale presentimento io lasciai la compagnia e mi recai in
coperta a prendere un pò d'aria, subito dopo è successo il fatto, erano le ore
23,56, due minuti dopo la nave non c'era più e io mi trovavo a mare con tanti
altri compagni. Nove ore ho lottato con il mare brutto e il freddo intenso,
quando poi mi hanno raccolto ho visto che di tanti non eravamo rimasti che otto
persone. Il giorno dopo sono andato a vedere i 52 compagni morti ripescati in
mare, ma non conoscevo nessuno. Per otto giorni ho atteso notizie se per caso
avessero raccolto altri naufraghi, niente, di vostro figlio e amici non ho
avuto più notizie. Voglio augurarmi e augurare a Voi che la sorte gli sia stata
benigna, e mi associo a Voi nel Vostro dolore e nelle Vostre speranze. Vi prego
di tenermi al corrente di qualche sua buona notizia, alla quale se pur lontano
giubilerò anch'io.
Ossequiente
Colautti Celestino, Trieste"
Altra lettera scritta
il 12 febbraio 1943 da Celestino Corautti ai familiari di Giuseppe Tosin (dalla
pagina Facebook “Nave Tabarca”):
"Distinti signori Tosin, ho ricevuto oggi la
Vostra lettera del giorno 7.2 c.m. Innanzi a tutto tengo a ringraziarvi
dell'interessamento che avete a mio riguardo, anzi ora mi trovo ricoverato
all'ospedale di Trieste in seguito a complicazioni del naufragio, ma sono cose
di poco conto. Mi chiedete se c'è ancora un filo di speranza per il Vostro
Beppino, non soltanto un filo, grande deve essere la speranza, perchè la
speranza e la fede che tiene accesa la fiaccola della vita, bisogna sempre
sperare il bene dei propri cari. Dio misericordioso potrà farvi ancora avere
buone nuove del Vostro caro, e allora dimenticheremo quella brutta notte del 30
novembre che ancora oggi assilla il mio pensiero. Mi chiedete una mia
fotografia, la quale vi invio di cuore e commosso, è un pò sgualcita ma è stato
il mare che l'ha ridotta così, quel mare che per nove ore mi ha tenuto con se,
questa fotografia è testimone della mia lotta per la vita, ha fatto la mia
stessa sorte di naufrago, ed è stata lambita dalle stesse acque. Mi farà
contento avere una foto di Beppino come voi gentilmente mi volete mandare e la
terrò cara, sperando sempre di vederlo di nuovo come allora in compagnia.
Durante il viaggio da Venezia a Livorno e in quei pochi giorni di permanenza
colà siamo stati spesso assieme e si dimostrava molto allegro, allora
ignoravamo la nostra sorte. A Livorno non si faceva niente perciò si usciva
ogni giorno e di conseguenza li ultimi giorni eravamo in bolletta, ma
ugualmente allegri. Da quello che posso dedurre io vi garantisco che vostro
figlio era assai attaccato ed affezionato a Voi, perchè molto spesso e ben
volentieri parlava della sua famiglia anzi diceva sempre che state in ansia e
avete grande pensiero per lui, questo posso dirvi, che vi ha sempre ricordati. Appena
vengo a Venezia cercherò di ottenere un permesso e di venire da voi.
Devotissimo
Colautti Celestino"
L’affondamento della Tabarca nel ricordo del superstite
Angelo Ferretti, nato ad Asti il 29 maggio 1919, attraverso le parole del
figlio Giorgio (testimonianza raccolta da Bruno Tosin nel novembre 2009, dalla
pagina Facebook “Nave Tabarca”):
"Prima di partire da Livorno gli avevano
detto di stare tranquilli, che stavano facendo una rotta di sicurezza e se
sentivano delle esplosioni, di non preoccuparsi perchè il convoglio lanciava bombe
di profondità per eventuali sommergibili in zona. Per questo motivo lui decise
di ritornare in coperta insieme ad altri. Si slacciò le scarpe e mise il
giubbotto di salvataggio; dopo circa 10/20 minuti dalla partenza ci fu
un'esplosione. Mio papà si gettò in mare insieme ad un altro e prima di toccare
l'acqua urtò con un piede una lamiera divelta dall'esplosione. Si procurò una
ferita e chi si gettò al suo fianco purtroppo morì per l'impatto con la
lamiera. Mio padre nuotò per circa 100/150 metri e poi si voltò: del Tabarca
non vi era già più traccia. Il convoglio non si fermò e loro passarono la notte
in acqua. I soccorsi arrivarono solo al mattino e trovarono solo 8 in vita;
molti erano morti per il freddo. Durante quella notte dopo un paio di ore mio
papà gettò via il giubbotto di salvataggio perchè era divenuto inutile, si era
inzuppato e non galleggiava. Al buio si cercavano urlando i nomi. Nuotando mio
papà trovò un cavalletto di legno e vi salì sopra; trovò un suo superiore e gli
disse "capo, ho freddo" e l'altro gli rispose "figlio mio e che
ce posso fa", poi non lo vide più. Al mattino quando li salvarono erano
tutti sporchi di olio; li issarono a bordo e diedero loro una coperta per
scaldarli e li portarono in sala caldaie. Furono portati all'ospedale militare
dove nei primi giorni non diedero loro mai acqua per lavarsi perchè temevano
che alla vista dell'acqua in alcuni potesse provocare uno shock. Da allora mio
papà pur sapendo nuotare non entrò mai più in acqua. So che una volta usciti
dall'ospedale una crocerossina accompagnò gli 8 sopravvissuti alla Madonna del
Montenero a Livorno dove è stato deposto un ex voto. Io non l'ho mai visto, ma
ci dovrebbe essere il volto degli 8 e se mi capita di passare da quelle parti
vado a cercarlo. (…) Mio papà avrebbe
voluto trovare gli altri 7 e dire grazie a chi quella mattina di dicembre lo
avvistò in mezzo ai resti del Tabarca e gli lanciò una cima. So che era di
Ovada ma non so il nome".
Si ringraziano Antonio Salce e
Moreno Ceppatelli.
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