L’Iride (g.c. Marcello Risolo via www.naviearmatori.net) |
Sommergibile
di piccola crociera della classe Perla (dislocamento di 680 tonnellate in
superficie, 844 in immersione).
Durante
la seconda guerra mondiale effettuò sette missioni (4 offensive e 3 di
trasferimento), percorrendo in tutto 2435 miglia in superficie e 480 in
immersione, e trascorrendo 23 giorni in mare.
Breve e parziale cronologia.
3 settembre 1935
Impostazione
nei cantieri Odero Terni Orlando del Muggiano (La Spezia).
Inizialmente
il nome assegnato è Iris.
2 luglio 1936
Poche
settimane prima del varo, il nome del sommergibile viene modificato in Iride.
30 luglio 1936
Varo
nei cantieri Odero Terni Orlando del Muggiano.
L’Iride appena varato (Naval History and Heritage Command) |
L’Iride (secondo da destra nella foto
sopra, secondo da sinistra nella foto sotto) insieme ai gemelli Ambra, Onice e Malachite in
allestimento al Muggiano (sopra, da “Odero Terni Orlando 1939”, via Dante
Flore; sotto, da “Gli squali dell’Adriatico” di Alessandro Turrini, entrambi
via www.naviearmatori.net)
6 novembre 1936
Entrata
in servizio.
Assegnato
alla XII Squadriglia Sommergibili, con base a La Spezia.
1937
Nella
prima metà dell’anno, l’Iride svolge
crociere addestrative nel Dodecaneso e nel Mediterraneo centrale, facendo scalo
a Tobruk.
Una foto scattata dall’Iride durante l’attraversamento del Canale di Corinto (g.c. Martina Carannante, via www.ponzaracconta.it) |
15 giugno 1937
Assume
il comando dell’Iride il tenente di
vascello Junio Valerio Borghese (al suo primo comando), al comando del quale il
sommergibile partecipa clandestinamente alla guerra civile spagnola.
I
sommergibili italiani sono impiegati in massa, in questo conflitto, in appoggio
alla fazione nazionalista capeggiata da Francisco Franco: la loro attività consiste
nell’ostacolare l’invio di rifornimenti alla Spagna repubblicana, attaccando le
navi spagnole repubblicane ed anche quelle di Paesi terzi (soprattutto
sovietiche) che trasportano rifornimenti in porti repubblicani. Dal momento che
non vi è formale stato di guerra tra l’Italia e la Repubblica spagnola, questa
attività è illegale e “piratesca”, di conseguenza clandestina: i sommergibili
come l’Iride vengono privati di ogni
segno che possa rivelarne la nazionalità, a partire dal nome sulla prua e dalle
lettere distintive, e sono soggetti a regole d’ingaggio particolarmente
restrittive, dovendo in ogni modo evitare di rivelare la loro appartenenza alla
Marina italiana o di silurare accidentalmente navi neutrali, il che
rischierebbe di scatenare qualche incidente internazionale.
Junio Valerio Borghese, comandante dell’Iride durante la guerra di Spagna (da www.betasom.it) |
24 agosto 1937
Al
comando del tenente di vascello Junio Valerio Borghese, l’Iride parte da Napoli per la sua prima missione in acque spagnole,
in appoggio alle forze franchiste.
26 agosto 1937
Arrivato
in Sardegna, l’Iride prosegue verso
la Spagna, diretto nella zona assegnata per il pattugliamento, al largo di Capo
Noa (tra Ibiza e Capo Sant’Antonio).
Nei
giorni successivi il sommergibile inizia otto manovre d’attacco contro
altrettante navi, completandone però soltanto due.
28 agosto 1937
Avvistato
in serata, nel Canale di Ibiza, un piroscafo che naviga verso Valencia a luci
oscurate ed alla velocità stimata di cinque nodi, seguendo la costa vicino a
Capo Sant’Antonio, alle 23.15 l’Iride
(tenente di vascello Junio Valerio Borghese), stando in superficie, gli lancia
contro due siluri da soli 800 metri di distanza; entrambe le armi mancano il
bersaglio, ed una di esse viene vista esplodere lontano da esso.
Alle
00.15 l’Iride lancia allora altri due
siluri da distanza ancora più ridotta, appena 600 metri: ma uno di essi,
apparentemente difettoso, accosta e devia dalla sua rotta, mentre l’altro passa
sotto la poppa del mercantile senza scoppiare.
Il
bastimento attaccato è il piroscafo britannico Carpio, di 1847 tsl, il cui comandante vede un siluro passare poco
a poppavia della sua nave. La posizione indicata dal comandante del Carpio è 38°55’ N e 00°20’ E.
Il
comandante Borghese ritiene erroneamente di non essere stato scoperto, e
riferisce alla base che la zona in cui si trova è densamente trafficata e del
tutto priva di sorveglianza.
31 agosto 1937
In
serata, l’Iride emerge molto sotto
costa, al fine di compiere un agguato notturno vicino alla riva (i mercantili
impegnati nel contrabbando a favore dei repubblicani, infatti, navigano a luci
spente rasentando la costa) ed intanto di ricaricare le batterie.
Alle
20.45, in acque internazionali a sud di Valencia ed al largo di Capo
Sant’Antonio (tra il Golfo di Valencia ed Ibiza; per altra fonte al largo di
Alicante o di Almería), mentre l’Iride
ha da poco iniziato la ricarica delle batterie, l’ufficiale di guardia in
plancia avvista all’orizzonte una sagoma indistinta, verso nord. La nave
sconosciuta sembra manovrare per passare a poche centinaia di metri da Capo
Sant’Antonio; data la sua elevata velocità, a bordo si capisce subito trattarsi
di una nave da guerra, che viene poi stimato abbia rotta sudest. Il comandante
Borghese mette subito la prua su di essa, decide di avvicinarsi in superficie
alla velocità di cinque nodi per attaccare e, una volta giunto a 700 metri di
distanza, consulta il manuale di identificazione, concludendo che si tratta di
un’unità della classe “Sanchez Barzcaitegui” (cioè Churruca) della Marina
spagnola repubblicana.
Alle
20.52, pertanto, l’Iride, sempre rimanendo
in superficie (per altra fonte, probabilmente erronea, avrebbe invece eseguito
un’immersione rapida subito dopo l’avvistamento, per poi attaccare), lancia
contro il lato sinistro dell’unità avvistata un siluro da 450 mm, da 700 metri
di distanza, in posizione 38°46’ N e 00°30’ E.
In
realtà, il cacciatorpediniere attaccato non è spagnolo, bensì il britannico Havock (capitano di corvetta Rafe Edward
Courage), partito da Valencia alle sei di quella sera e diretto a Gibilterra alla
velocità di circa 15 nodi nell’ambito di una delle missioni di pattugliamento
ordinate per garantire il rispetto, da parte dei Paesi neutrali, dei patti di
non intervento nella guerra civile spagnola. La classe H, cui l’Havock appartiene, ha una sagoma che
presenta in effetti una certa rassomiglianza con quella della classe Churruca,
specialmente quando il buio impedisce di distinguere i particolari.
Al
momento dell’attacco da parte dell’Iride,
l’Havock ha appena finito di
accostare verso sud – alle 22 secondo l’orario britannico, con differenza di
fuso orario rispetto a quello italiano – per doppiare Capo Sant’Antonio; il
cacciatorpediniere ha appena finito di assumere la nuova rotta quando una
vedetta sulla sua poppa avvista la scia di un siluro in avvicinamento da
sinistra. L’arma, che appare regolata per una profondità di circa tre metri,
manca l’Havock di pochissimo,
passandogli appena qualche metro a poppavia (per altra fonte, probabilmente
erronea, l’Havock avrebbe evitato il
siluro accostando immediatamente verso sinistra ed assumendo così una rotta
parallela alla sua); subito la vedetta informa il comandante Courage, che
ordina immediatamente di accostare di 180° a sinistra (in direzione dell’Iride), in modo da risalire la scia del
siluro, nonché di aumentare la velocità, accendere il proiettore ed iniziare la
ricerca con l’ASDIC (sonar), precedentemente non presidiato. Una volta
portatosi sulla scia del siluro, con rotta con essa coincidente, l’equipaggio
dell’Havock percepisce uno scossone
verso poppavia, simile a quello prodotto da un’esplosione subacquea. Il
cacciatorpediniere compie un’altra accostata di 180° a sinistra, così assumendo
rotta sud, e dopo un paio di minuti ottiene un contatto sonar. Più o meno nello
stesso momento, il proiettore dell’Havock
illumina l’Iride, distante appena 350-360
metri ed in fase di immersione rapida: il sommergibile si trova a proravia
sinistra dell’Havock, con
un’inclinazione sulla dritta compresa tra 020° e 050°, ed il cacciatorpediniere
si dirige verso di esso, ma questi riesce ad immergersi in tempo. Courage
ritiene che il sommergibile sia venuto accidentalmente in superficie a causa di
una perdita di assetto; nel punto in cui si è immerso, viene avvistata una
chiazza di nafta, che il comandante britannico ritiene inizialmente possa avere
a che fare con la concussione sentita poco prima (ma successivamente cambierà
idea a questo riguardo, ritenendo invece che possa trattarsi di una perdita
verificata mentre il battello stava ricaricando le batterie in superficie).
In
realtà, l’Iride si sta immergendo
proprio in quel momento: subito dopo il lancio, infatti, il comandante Borghese
ha ordinato l’immersione rapida, che però è stata ritardata di alcuni secondi
dall’inceppamento del portello esterno della torretta. Ritenendo che il
cacciatorpediniere attaccato lancerà bombe di profondità regolate per
profondità diverse, ma comunque non superiori a 75 metri, Borghese decide di
scendere a profondità maggiore; l’Iride
inizia una vera e propria “picchiata” verso il fondale, che si riesce ad
arrestare soltanto alla profondità di ben 150 metri, molto oltre la quota di
collaudo dell’Iride. Il tenente di
vascello Teucle Meneghini, all’epoca comandante in seconda dell’Iride, avrebbe in seguito ricordato nel
suo libro "Cento sommergibili non sono tornati": «…Inaspettatamente, però, il
cacciatorpediniere iniziò una violenta accostaa sulla dritta (…) e nello stesso tempo accese un proiettore
che diresse contro il sommergibile illuminandolo a giorno. Rapida immersione!
(…) La reazione del caccia fu immediata e
le prime bombe picchiarono assai vicino allo scafo determinando i primi guai
nell’interno del sommergibile. Ben presto altre unità vennero a dar man forte
all’aggredito e per tutta la notte sotto il mare di Capo Sant’Antonio si
scatenò la bufera».
La
rotta e posizione del sommergibile avvistato risultano compatibili, secondo
Courage, con la posizione in cui è stato sentito lo scossone; tuttavia il
contatto ASDIC è su un rilevamento leggermente differente rispetto a quello in
cui si è verificata la fugace apparizione in superficie del battello. Courage
ritiene tuttavia meglio attaccare il contatto ASDIC piuttosto che non lanciare
le bombe di profondità in base ad una stima approssimativa; quando supera la
posizione in cui si trovava il sommergibile, tuttavia, l’Havock perde il contatto (secondo una fonte, a causa di un’avaria
del sonar stesso, ma ciò non risulta dai documenti britannici). Il
cacciatorpediniere gira allora intorno alla posizione per cercare di riottenere
il contatto, ma non ci riesce: assume allora rotta nordest e continua la
ricerca fino a raggiungere il punto massimo stimato di possibile allontanamento
del sommergibile, a circa quattro miglia, dopo di che inverte la rotta ed
inizia una nuova ricerca verso sudovest.
Soltanto
all’1.30, dopo tre ore e mezza (una fonte italiana parla invece di due ore)
dall’attacco, l’Havock riesce ad
ottenere un nuovo contatto sonar, a circa tre miglia per 210° dal punto in cui
è avvenuto il lancio del siluro. Courage ritiene con certezza quasi assoluta
che il contatto sonar sia un sommergibile, pertanto fa lanciare sulla posizione
un pacchetto di bombe di profondità. Dopo il lancio, tuttavia, non vengono
visti rottami, nafta od altri indicatori dell’affondamento o danneggiamento del
sommergibile.
È
questa, secondo alcune fonti, la prima occasione in cui il sonar sia stato
impiegato per dare la caccia ad un sommergibile in un contesto “di guerra”. La
reazione dell’Havock dopo il lancio
del siluro non è stata fulminea (secondo una versione, perché a bordo si era
increduli sull’attacco appena subito, pensando che probabilmente non si fosse
davvero trattato di un siluro), al punto che il comandante delle forze navali
britanniche dislocate nelle acque spagnole con funzioni anticontrabbando,
contrammiraglio James Somerville, ha fatto comunicare per radio al comandante
Courage dall’incrociatore Galatea –
sua nave ammiraglia – di muoversi a dare la caccia all’attaccante, “con la
massima energia (…) per rimediare alla vostra sconcertante mancanza di
iniziativa” («pursue the hunt with the
utmost energy, and try and make up for your astounding lack of initiative»).
Il Galatea si trova in navigazione da Palma
di Maiorca a Valencia, ed è stato informato dell’accaduto dall’Havock circa mezz’ora dopo il tentato
siluramento (22.30 per l’orario britannico: in quel momento l’incrociatore si
trova in posizione 39°25’ N e 01°50’ E). Ricevuta la notizia, Somerville
aumenta la velocità a 25 nodi ed assume una rotta che lo porti ad avvicinarsi
all’Havock, al quale intanto ordina
di proseguire la caccia ed attaccare il sommergibile. Alle 22.49 (ora
britannica) Somerville ordina al cacciatorpediniere Active, che si trova a Palma, di uscire in mare il prima possibile,
assumere velocità 27 nodi e raggiungere il Galatea;
cinque minuti dopo ordina ad altri due cacciatorpediniere della 2nd
Destroyer Flotilla (cui l’Havock
appartiene), l’Hereward (in
navigazione da Gibilterra a Valencia) e l’Hotspur
(che si trova a Barcellona), di unirsi anch’essi al Galatea il prima possibile. Alle 23.07 (ora britannica) Somerville
informa il Comando in capo britannico del Mediterraneo, l’Ammiragliato e tutte
le navi e le autorità navali britanniche del Mediterraneo occidentale che l’Havock è stato attaccato, che il Galatea sta dando la caccia al
sommergibile e che Active, Hereward e Hotspur hanno da lui ricevuto ordine di portarsi sul posto. Alle
23.15 (ora britannica) Somerville riceve notizia dall’Havock dell’avvenuta perdita del contatto, ed ordina allora al
comandante della 2nd Destroyer Flotilla (capitano di vascello Denis
Boyd, imbarcato sul cacciatorpediniere Hardy)
ed all’incrociatore leggero Penelope
di unirsi al Galatea nella posizione
in cui si è verificato l’attacco. Anche altri cacciatorpediniere della 2nd
Destroyer Flotilla ricevono tale ordine, ma l’Hostile, che si trova a Marsiglia, non è in grado di eseguirlo
perché non si è ancora rifornito di carburante, mentre l’Hasty subirà un’avaria di macchina alle 5.15 e verrà per questo
rimandato a Gibilterra da Somerville senza aver potuto partecipare alle ricerche
(qualche fonte afferma che alla successiva caccia avrebbe partecipato anche il
cacciatorpediniere Hyperion). Alle
23.24 Somerville informa il Comando in capo britannico del Mediterraneo,
l’Ammiragliato e l’ammiraglio britannico di Gibilterra di essere intenzionato a
compiere una capillare ricerca volta a costringere qualsiasi sommergibile
localizzato in zona all’emersione. All’1.33 l’Havock informa il Galatea
di aver riottenuto un contatto sonar e di stare passando all’attacco, ed
all’1.52 di aver lanciato un pacchetto di bombe di profondità e di stare
esaminando la zona. La luce del proiettore del cacciatorpediniere è visibile da
bordo del Galatea, a proravia dritta,
sotto l’orizzonte. Alle 2.01 Somerville ordina all’Havock di comunicare la posizione dell’ultimo attacco; ricevutala,
l’ammiraglio britannico giudica che il sommergibile si sia spostato verso sud
di circa tre miglia.
Alle
2.15 il Galatea è ormai vicino all’Havock (che si trova circa 6 miglia più
ad est di quanto segnalato), il quale riferisce di non aver visto nulla nella
zona in cui ha compiuto l’attacco con bombe di profondità, e di stare cercando
di riottenere il contatto; Somerville gli ordina di continuare la ricerca in
zona e gli comunica che col Galatea
si dirigerà verso sudovest per tentare una ricerca aerea con l’idroricognitore
all’alba. L’ammiraglio britannico ritiene infatti necessario estendere le
ricerche verso sud, perché le posizioni comunicate dall’Havock mostrano che il sommergibile attaccante sta ripiegando veso
sud, oltre che perché la maggior parte delle navi da lui chiamate in rinforzo
stanno arrivando da quella parte, il che renderà più agevole iniziare una
capillare ricerca da sud a partire dalle 10.30 del mattino seguente. Somerville
ritiene inizialmente che il sommergibile che ha attaccato l’Havock appartenga alla Marina spagnola
repubblicana, siccome – avendo esso attaccato una nave con rotta sud, ed
essendoci ben poco traffico di rilievo sulle rotte da Valencia verso sud – gli
sembra possibile che l’attacco sia stato pensato deliberatamente per provocare
un incidente internazionale.
Per
dare attuazione al suo piano di ricerca, Somerville ordina ad Havock, Hereward e Hotspur di
riunirsi in un punto a 21 miglia per 102° da Capo Sant’Antonio per poi condurre
un rastrello antisom a 15 nodi, su rotta 230°; all’Active, che è sprovvisto di ASDIC, ordina di raggiungere il punto
38°25’ N e 01°19’ E entro le sei del mattino e di condurre ricerche per sei
miglia a sud ed a nord di tale posizione alla velocità di 12 nodi; con il Galatea, infine, lo stesso Somerville si
dirige nel punto 38°24.5’ N e 00°07’ E per catapultare all’alba il suo
idrovolante e condurre così una ricognizione aerea. In tal modo, l’ammiraglio
intende condurre una ricerca verso sud con tre cacciatorpediniere, a partire
dalla posizione in cui è stato perso il contatto e fino alla posizione massima
stimata che può raggiungere il sommergibile restando immerso; entro il tempo di
raggiungere tale posizione, stima Somerville, gli altri cacciatorpediniere in
arrivo da sud si saranno potuti unire alle ricerche. Al contempo, verrà
condotta una ricerca in superficie con navi ed aerei attorno a tale limite
stimato di autonomia in immersione del sommergibile, verso sud e verso est,
nell’eventualità che dopo un’iniziale immersione esso sia emerso per cercare di
allontanarsi più rapidamente in superficie. Alle 5.45 il Galatea ha raggiunto la posizione stabilita per il lancio
dell’idroricognitore, ma quest’ultimo non è ancora pronto, e può essere
catapultato soltanto alle 7.08, quando l’incrociatore si trova in posizione
38°15’ N e 00°01’ E. Alle 5.54 l’Hotspur
raggiunge l’Havock, ed insieme i due
cacciatorpediniere iniziano una ricerca alle sei del mattino; alle 6.30 si
unisce ad essi anche l’Hereward. Active e Galatea, intanto, pattugliano il “cerchio” definito dalla massima
autonomia stimata del sommergibile in immersione; alle nove del mattino il Galatea si trova in posizione 37°59’ N e
00°30’ E e le due navi, in cooperazione con l’idrovolante dell’incrociatore,
hanno coperto tutta la zona interessata, senza trovare nulla. Pertanto, Active e Galatea si dirigono verso la posizione in cui si è svolto
l’attacco, al fine di setacciare parte della zona situata all’"interno"
del “cerchio”, nonché di controllare alcune chiazze di nafta avvistate
dall’idroricognitore. Raggiunte le chiazze di nafta, viene calata una lancia
per esaminarle meglio, ma non si riesce a trovare nulla che indichi che esse
provengano da un sommergibile danneggiato. Alle 11.40 l’idroricognitore del Galatea viene nuovamente catapultato per
localizzare un’altra chiazza di nafta e di rottami, condurre l’incrociatore sul
posto e compiere un’altra ricerca verso nord su rotta parallela rispetto al
percorso seguito durante la ricerca verso sud, ma tenendosi più vicini alla
costa. Alle 11.57 Somerville ordina al Penelope
di lasciare le ricerche, assegnandogli un altro incarico.
Nonostante
il rastrello antisommergibili si protragga per tutta la notte ed il mattino
seguente, soltanto alle 12.27 del 1° settembre i cacciatorpediniere britannici
riescono ad ottenere un nuovo contatto ASDIC. A quell’ora il comandante Boyd della
2nd Destroyer Flotilla contatta Somerville riferendo che tutti i
suoi cacciatorpediniere hanno ottenuto un contatto, e dichiarandosi certo che
si tratti di un sommergibile; la posizione è a 32 miglia per 44° da Capo Palos,
compatibile con il percorso che il sommergibile che ha attaccato l’Havock avrebbe potuto seguire se avesse
cercato di ritirarsi in immersione verso sud, come ipotizzato. Alle 12.38 Somerville
ordina all’Hardy di lanciare una
singola bomba di profondità, per cercare di costringere il sommergibile ad
emergere, ma senza affondarlo. Alle 12.57, in base ad un messaggio
dell’Ammiragliato (inviato alle 12.12) ricevuto sul Galatea alle 12.35 e decifrato alle 12.45, Somerville ordina al
comandante Boyd di mantenere il contatto, ma senza intraprendere azioni
offensive. Tale decisione è motivata dal tempo trascorso dal tentato
siluramento dell’Havock, oltre
quattordici ore: a questo punto, infatti, c’è il rischio di attaccare per
sbaglio qualche sommergibile estraneo ai fatti, che potrebbe trovarsi per caso
nei pressi della zona dell’attacco senza esserne il responsabile. L’ammiraglio
Dudley Pound, comandante della Mediterranean Fleet, ha infatti comunicato a
Somerville ed all’Ammiragliato: «Assumendo
che vi siano prove concludenti che l’Havock sia stato attaccato da un
sommergibile, possono verificarsi due situazioni: Caso A. Ottenete contatto con
un sommergibile oggi, nel qual caso esso verrà seguito giorno e notte finché
non sarà costretto ad emergere ed identificato. Caso B. Qualora non si
riuscisse ad ottenere un contatto oggi. In questo caso tutto ciò che possiamo
fare è creare quanto più chiasso possibile, in primo luogo continuando ad
operare con tutte le vostre forze sia di giorno che di notte in un’area
considerevole attorno alla posizione dell’attacco, per il lasso di tempo
concesso dal[la situazione del] carburante
dei vostri cacciatorpediniere. In secondo luogo, subordinatamente alla convergenza
dell’ammiragliato [in proposito], di
cercare di determinare per esclusione la nazionalità del sommergibile. A questo
scopo bisognerebbe visitare sia Valencia che Palma ed una protesta dovrebbe
essere fatta in modo tale che sia il Governo [repubblicano] che i nazionalisti forniscano prove
ufficiali che le posizioni dei loro sommergibili fossero tali [da
garantire] che non possano essere stati
responsabili dell’attacco». In risposta a tale messaggio, l’Ammiragliato ha
comunicato a Pound: «Essendosi dimostrato
impraticabile il mantenimento di un contatto continuo [con il sommergibile
aggressore], considerate che l’incidente
dovrebbe essere considerato chiuso da un punto di vista operativo. Le azioni
proposte a Valencia e Palma non, ripeto non devono essere intraprese per il
momento».
Prima
della ricezione di quest’ordine, tuttavia, l’Hardy, in esecuzione del precedente ordine di Somerville, ha già
lanciato una bomba di profondità a circa 180 metri dalla posizione stimata del
sommergibile; poco dopo, però, il contatto viene perso, ed i cacciatorpediniere
non riescono più a ritrovarlo, pur continuando a cercare in direzione nord.
Successivamente, il comandante Boyd giungerà alla conclusione di essersi
sbagliato, e che il contatto delle 12.27 non potesse essere un sommergibile.
Alle
14.30 la 2nd Destroyer Flotilla, eccetto l’Hostile e l’Hasty, si
ricongiunge col Galatea, e Somerville
ed il comandante della flottiglia si recano a bordo dell’Havock per interrogare il comandante Courage sull’accaduto. Poi,
Somerville ordina ad Active ed Havock di rientrare a Gibilterra ed
inizia con le restanti unità un’ennesima ricerca aeronavale verso nord, con
l’intenzione di coprire un tratto di mare il più vasto possibile durante la
navigazione di rientro a Valencia, compatibilmente col carburante rimasto. Alle
19.30, tuttavia, viene ricevuto un ordine dell’ammiragliato delle 18.58, in
seguito al quale Somerville abbandona ogni ulteriore ricerca all’alba del 2
settembre, raggiungendo poi Valencia col Galatea.
(Secondo un’altra fonte britannica, invece, l’Havock avrebbe
mantenuto il contatto ASDIC e continuato a dare la caccia all’Iride per diverse
ore, lanciando una notevole quantità di bombe di profondità, con lanci
abbastanza accurati – tanto da scuotere violentemente il sommergibile – ma non
al punto da arrecargli danni. Ad esso si sarebbero poi uniti altri tre
cacciatorpediniere, Active, Hyperion e Hotspur, permettendo di espandere l’area
delle ricerche – anche se uno di essi, l’Active, era privo di ASDIC e di
conseguenza meno in grado di contribuire alla caccia –, ed il Galatea, che
avrebbe catapultato il suo idroricognitore per cercare il sommergibile in
superficie. Un marinaio britannico affermerà di aver visto delle grandi chiazze
di carburante sul mare, il che porterà a ritenere che il sommergibile sia stato
danneggiato, ma successivamente si giudicherà tale affermazione come poco affidabile.
Tuttavia, questa versione degli eventi risulta difforme dal rapporto
dell’ammiraglio Somerville, contenuto nel libro "The Mediterranean Fleet,
1930-1939 ì" di Paul G. Halpern, sul quale ci si è basati nel descrivere
gli eventi sopra illustrati).
Quanto
sopra, in base alle fonti britanniche. Secondo fonti italiane, invece, cinque cacciatorpediniere
britannici avrebbero sottoposto l’Iride
ad un’intensa e accanita caccia, protrattasi per oltre nove ore, col lancio di
numerose bombe di profondità. Le prime esplosioni di bombe di profondità
sarebbero avvenute già poco dopo la manovra d’immersione rapida, scuotendo
violentemente il sommergibile ma senza causare danni, grazie alla loro
lontananza ed al fatto che esplodono a quota maggiore – come Borghese aveva
intuito – rispetto a quella a cui è sceso l’Iride.
Durante la caccia, quando la concentrazione delle esplosioni di bombe di
profondità sulla verticale dell’Iride
aumenta, Borghese ordina al direttore di macchina di espellere una bolla d’aria
ed un po’ di nafta da un tubo lanciasiluri vuoto, in modo da far credere ai
britannici di aver danneggiato o affondato il sommergibile, mentre al contempo
l’Iride si allontana da tale punto,
eseguendo navigazione silenziosa con i motori elettrici al minimo e
l’equipaggio in completo silenzio, ogni volta che gli idrofoni rilevano rumori
dei motori dei cacciatorpediniere. Ancora dai ricordi di Teucle Meneghini: «Sull’Iride furono adottati i provvedimenti
resisi necessari mano a mano che si sviluppava l’azione dell’avversario.
Nessuno però possedeva in merito esperienza alcuna, né esistevano norme da
seguire in caso di caccia antisommergibile. (…) Per quanto riguarda, poi, le bombe di profondità, dei loro effetti e
del loro impiego, chi ne sapeva nulla! Tutti, e quindi anche i sommergibilisti,
le avevano sempre viste ben allineate e pitturate (…) sulla poppa delle siluranti, ma nessuno aveva mai provato l’emozione di
sentirsene scoppiare una, sia pure lontana, stando racchiusi nell’interno di un
sommergibile in immersione. (…) a
bordo di quello sperduto sommergibile, fu adottata una tattica contingente e
furono eseguite un certo numero di manovre che, alla prova dei fatti, dettero
un ottimo risultato. La caccia diminuì sensibilmente quando spuntò il sole e
verso mezzogiorno cessò quasi completamente…».
Rimanendo
per nove ore a 150 metri, l’Iride
riesce ad uscire dalla caccia del tutto indenne; non appena riemerge, riceve da
La Spezia l’ordine di rientrare alla base eseguendo navigazione occulta
(navigazione in superficie di notte, in immersione di giorno). Mentre il
sommergibile non ha subito danni, nei giorni successivi circoleranno storie su
dentisti napoletani occupati ad operare su sommergibilisti che hanno avuto
denti rotti per effetto del bombardamento.
Da
parte britannica, l’incapacità dell’Havock
di mantenere il contatto al sonar con il sommergibile che l’aveva attaccato
contribuirà ad incrinare la cieca fiducia fino a quel momento nutrita da molti,
all’interno della Royal Navy, nell’efficacia dell’ASDIC in un contesto bellico;
questo strumento, infatti, perde efficacia quando la nave che lo usa procede ad
alta velocità, ed ha una portata piuttosto ridotta. Molti altri ufficiali della
Marina britannica continueranno invece a mantenere tale fiducia, seguitando a
ritenere l’ASDIC uno strumento infallibile e preferendo attribuire la colpa al
comandante stesso dell’Havock,
accusato di non aver portato abbastanza a fondo il suo primo attacco. Al suo
rientro a Gibilterra, il capitano di corvetta Courage verrà infatti sottoposto
ad un’inchiesta; la commissione incaricata giudicherà che l’ufficiale,
esercendo il suo diritto di legittima difesa, avrebbe dovuto contrattaccare
senza limitazioni, almeno sulle prime, ma che poi col passare del tempo tale
diritto avrebbe gradualmente perso efficacia, sia per l’impossibilità di essere
certi che il nuovo contatto sonar fosse ancora con il sommergibile attaccante,
sia perché, anche qualora lo fosse stato, un contrattacco a questo punto
sarebbe stato più difficile da giustificare come legittima difesa. All’inizio
del 1938, inoltre, un’altra inchiesta da parte della Divisione Tattica
dell’Ammiragliato criticherà il comandante dell’Havock per essersi fatto sorprendere con l’ASDIC non presidiato e
le bombe di profondità non pronte all’uso; e per aver ostacolato, con le sue
stesse manovre evasive, il mantenimento del contatto, perché tali manovre hanno
portato la scia dell’Havock ad
interporsi più volte tra l’oscillatore dell’ASDIC ed il sommergibile.
“Scagionato” così l’ASDIC, la Divisione Tattica riterrà il comandante dell’Havock responsabile di aver compromesso,
con le sue azioni, ogni possibilità di un efficace contrattacco. La Naval
Intelligence Division interverrà nella disputa facendo presente che,
dall’intercettazione di comunicazioni italiane, risulta che il sommergibile Iride sia stato effettivamente
bombardato con cariche di profondità, anche se non sono noti i danni subiti;
ciò porterà la Divisione Tattica ad “ammorbidire” la sua critica dell’operato
di Courage, giungendo alla conclusione che, nonostante i seri errori operativi
commessi dall’Havock, la combinazione
di ASDIC e bombe di profondità sia efficace in un contesto di guerra. Nel
giugno 1938 un rapporto britannico giungerà persino a citare l’episodio dell’Havock come un esempio dell’affidabilità
dell’ASDIC.
Nel
suo rapporto all’Ammiragliato, l’ammiraglio Somerville scriverà che «i manuali, i libri di testo e le istruzioni
date alla scuola antisommergibili pongono tutti grande importanza nel riporre piena
fiducia nell’ASDIC e nell’eseguire attacchi basati su informazioni fornite
dall’ASDIC, anziché su stime ad occhio. Ciononostante, ritengo che il
comandante dell’Havock abbia mostrato mancanza di giudizio nel non cogliere
l’opportunità fornita dall’avvistamento di un sommergibile a sole 400 iarde e
nell’eseguire subito un immediato e pieno attacco con bombe di profondità, che
ritengo avrebbe affondato il sommergibile o lo avrebbe costretto ad emergere».
Poi, con una buona dose di autocritica, aggiungerà che «Ritengo che la mia stima della probabile rotta del sommergibile dopo
l’attacco fosse basata su prove insufficienti, e che sarebbe stato meglio se il
Galatea ed il suo aereo avessero operato verso nord e non verso sud in modo da
coprire, per quanto possibile, con le forze a mia disposizione, tutte le vie di
fuga».
Una
conseguenza di questo episodio sarà che dal 3 settembre i comandanti dei
cacciatorpediniere britannici attivi in acque spagnole, per ordine di
Somerville, faranno presidiare costantemente l’ASDIC durante l’attraversamento
di zone a rischio (se l’Havock
l’avesse fatto, infatti, avrebbe localizzato il sommergibile già prima che
lanciasse il siluro, mentre il fatto che nessuno fosse di guardia al sonar
aveva dato all’attaccante il vantaggio della sorpresa), e nel caso
dell’ottenimento di un contatto, questo dovrà essere mantenuto e riferito
immediatamente ai comandi superiori. Per il resto si riterrà che questo
episodio abbia confermato che le pratiche antisommergibili in uso nella Royal
Navy – che prescrivono che per dare efficacemente la caccia ad un sommergibile
sia necessaria la cooperazione di più unità – sono corrette, e che l’ASDIC sia
uno strumento efficace per l’individuazione e l’attacco ai sommergibili, sul
quale si dovrebbe fare più affidamento che non sugli apprezzamenti ad occhio.
L’incidente
dell’Havock porterà all’emanazione di
nuove regole d’ingaggio per la Mediterranean Fleet: il contrammiraglio
Somerville riceverà infatti ordine di seguire qualsiasi contatto sonar ottenuto
dalle sue navi fino alla sua emersione, in modo da poterlo identificare. (In
precedenza, già il 18 agosto, l’Ammiragliato aveva stabilito che qualsiasi
sommergibile sorpreso in un raggio di cinque miglia da un mercantile silurato
avrebbe dovuto essere sottoposto a caccia e distrutto). Somerville, da parte
sua, arriverà a prospettare delle rappresaglie in forma di bombardamenti,
nonché azioni ostili contro gli aerei (oltre ai sommergibili, infatti, anche
aerei italiani vengono clandestinamente impiegati contro il traffico mercantile
repubblicano); ma l’Ammiragliato britannico, preferendo evitare pericolose spirali,
si limiterà a protestare contro questi attacchi illegali presso il Governo
nazionalista spagnolo.
Il 4
settembre l’ammiraglio Somerville, rientrato a Palma di Maiorca con il Galatea, farà visita all’ammiraglio
Alberto Marenco di Moriondo (comandante delle forze navali italiane in Spagna,
con insegna sull’incrociatore Quarto),
per parlare dell’attacco subito dall’Havock
e di altre azioni di sommergibili “pirati” attivi in acque spagnole. Durante
l’incontro, l’ammiraglio britannico darà ad intendere di sapere perfettamente
che i sommergibili “misteriosi” sono italiani, ed affermerà che il sommergibile
aggressore dell’Havock non è stato
distrutto per deliberata volontà britannica, essendosi deciso di risparmiarlo e
di limitarsi, per quella volta, a dare un “avvertimento”. Il 6 settembre
l’ammiraglio Marenco di Moriondo riferirà a Roma, con un messaggio inviato al
Ministero della Marina, su quanto Somerville ha detto durante il colloquio: «Per quanto riguarda l’incidente del C.T. Havock,
l’ammiraglio inglese ha dichiarato che l’attacco del sommergibile è stato
condotto talmente bene da escludere a propri trattarsi di sommergibile rosso.
Il C.T. Havock avrebbe potuto senz’altro contrattaccare con successo il
sommergibile ma fortunatamente, dice l’ammiraglio, il comandante del C.T. ha
voluto prima chiedere ordini. In un secondo tempo lo stesso Galatea ed alcuni
CC.TT., hanno fatto una sistematica ricerca del sommergibile allo scopo di
riconoscerlo, e l’ammiraglio Somerville mi ha riferito che a mezzo degli
idrofoni, le sue unità hanno potuto rintracciare e seguire perfettamente il
sommergibile ed avrebbero perciò potuto affondarlo in qualsiasi istante. Ad
ogni modo questa ricerca avrebbe permesso di accertare che il sommergibile non
è fuggito verso porti rossi ed avrebbe perciò dato conferma che si trattava di
un’unità nazionalista. (…) In
conclusione, l’ammiraglio Somerville, ha voluto evidentemente farmi capire che
i due sommergibili [quello che aveva attaccato l’Havock e quello che aveva affondato la nave cisterna britannica Woodford, cioè il Diaspro] non potevano essere
rossi. Inoltre, nel parlarmi della condotta del comandante dell’Havock e delle
ricerche delle sue unità, egli ha tenuto a farmi notare la loro generosità nel
risparmiare un sommergibile che era praticamente in loro potere, ed ha perciò
voluto con molta forma, mettere il rilievo il sospetto che si trattava di
un’unità italiana. Egli ha aggiunto che, per ordine del suo governo, dovrà in
avvenire intervenire senza alcuna riserva in caso che simili attacchi a navi
inglesi potessero ripetersi».
Simile
sarà il contenuto di un altro colloquio tenutosi a bordo del Quarto, il 16 settembre, tra
l’ammiraglio Marenco di Moriondo ed comandante dell’Hardy e della 2nd Destroyer Flotilla, capitano di
vascello Boyd. Come riferito a Roma dall’ammiraglio italiano, anche stavolta,
con messaggio inviato al Ministero della Marina il 17 settembre, «La nostra conversazione è caduta sulla
ricerca del noto sommergibile sospetto, eseguita da lui e dai suoi CC.TT. Egli
mi ha affermato di non aver mai svolto una esercitazione tanto interessante, ed
ha confermato che la formazione dei CC.TT. ha potuto per dieci ore seguire il
sommergibile. Tale notizia, già datami dall’ammiraglio Somerville, mi aveva
lasciato dubbi circa la possibilità di tanta precisione ottenuta con gli
idrofoni di unità di superficie naviganti ad una certa velocità ed a breve
distanza fra di loro. Il comandante Boyd mi ha invece confermato che le sue
unità possono eseguire con precisione la ricerca sino alla velocità di 20 nodi,
ma risulterebbe adesso che le ricerche sono state svolte non a mezzo degli
idrofoni, ma con i periteri». Boyd avrebbe anche affermato di essere
giranto più volte attorno al sommergibile immerso alla velocità di 20 nodi,
lanciando bombe di profondità a distanza tale da scuotere il sommergibile, ma
senza danneggiarlo seriamente.
Tutto
ciò, però, risulta in contrasto con quanto emerge dai documenti ufficiali
britannici riportati nel libro di Halpern relativamente alla precisione
dell’ASDIC ed al (mancato) mantenimento del contatto sonar: si può ipotizzare
che Boyd e Somerville stessero mentendo per mantenere alto il prestigio della
Royal Navy e dell’ASDIC. Secondo "Il principe nero" di Massignani e
Greene, sarebbe stato in seguito alle rivelazioni di Boyd che si sarebbe
iniziato a sospettare, da parte della Marina italiana, che i britannici
disponessero di uno strumento simile al peritero, cioè l’ecogoniometro, allora
in fase di sperimentazione nella Marina italiana: difficilmente, infatti,
avrebbero potuto rintracciare così efficacemente l’Iride – navigando intanto a 20 nodi – usando soltanto gli idrofoni,
che funzionavano bene solo a bassa velocità.
L’equipaggio dell’Iride durante la guerra di Spagna, la freccia indica il marinaio Aldo Mazzella (g.c. Martina Carannante, via www.ponzaracconta.it) |
1° settembre 1937
Secondo
i libri "Junio Valerio Borghese" di Sergio Nesi e "La Marina
italiana en la Guerra de España" di José Luis Alcofar Nassaes, pubblicato
nel 1975 (quest’ultimo cita una lettera scritta da un membro dell’equipaggio
dell’Iride, del quale vengono però
rivelate soltanto le iniziali), la notte successiva all’attacco contro l’Havock, l’Iride avrebbe compiuto un secondo attacco ai danni di un altro
cacciatorpediniere, britannico (forse l’HMS Wishart)
oppure spagnolo repubblicano.
Secondo
tali racconti, l’Iride era da poco
emerso per ricaricare le batterie e cambiare l’aria dopo la lunga caccia subita
il giorno precedente, quando venne avvistato un altro cacciatorpediniere; Borghese
ordinò di immergersi nuovamente e, pur non essendo riuscito ad avvicinarsi a
sufficienza, lanciò contro il cacciatorpediniere il suo ultimo siluro (per
altra versione il lancio sarebbe avvenuto in superficie, dopo di che l’Iride s’immerse rapidamente). Il siluro
mancò il bersaglio e probabilmente non fu neanche notato dal
cacciatorpediniere, dato che non ci fu alcun contrattacco e che l’unità
avvistata si allontanò come se niente fosse. Solo dopo questo secondo attacco
l’Iride avrebbe ricevuto da Roma
(oppure dal Comando delle Baleari) l’ordine per radio di tornare subito a
Napoli, eseguendo navigazione occulta.
Nelle
fonti ufficiali, però, non vi è traccia di questo presunto secondo attacco.
3 (o 4, o 5) settembre 1937
L’Iride arriva a Napoli, così concludendo
la sua missione, ma ormai è scoppiato un incidente internazionale: Mussolini è
molto infastidito per il clamore sollevato dall’attacco contro l’Havock, ed al suo arrivo alla base, l’Iride viene fermato all’ingresso del
porto da un motoscafo che lo scorta all’estremità di un molo appartato in una
zona isolata del porto di Napoli (il molo San Vincenzo), dove viene messo in
“quarantena” molto lontano dagli altri sommergibili (rimarrà lì solo poche ore,
poi verrà inviato a Taranto per le riparazioni), con l’equipaggio confinato a
bordo, e divieto assoluto di ogni contatto con l’esterno, per evitare fughe di
notizie sull’accaduto. Addirittura, viene ordinato all’Iride di tenersi a distanza tale dal molo da non poter neanche
mettere la passerella a terra.
Borghese
viene fatto trasbordare sul motoscafo e portato a terra, dove riceve
un’accoglienza gelida. Ad attenderlo sul molo c’è il comandante del Gruppo
Sommergibili di Napoli, capitano di corvetta Primo Longobardo, che lo
accompagna fino ad un’auto sul quale salgono entrambi; la vettura parte subito
per a Roma, diretta al Ministero della Marina. Lungo la strada, Borghese viene
informato che il cacciatorpediniere che ha attaccato era il britannico Havock, e che al Ministero della Marina
“erano fuori dalla grazia di Dio ed erano
animati da fieri propositi nei suoi riguardi. Il destino dell’Iride era già
segnato: lasciare subito le acque nazionali per trasferirsi nella lontana
Tobruk onde evitare che il personale di bordo potesse essere avvicinato
facilmente da chi aveva interesse a carpire elementi utili per
l’identificazione del sommergibile «misterioso» che, oltrepassando ogni limite
di creanza, si era permesso di usare una simile scortesia… all’intoccabile
marina inglese”.
Tuttavia,
quando viene introdotto presso il Comando della Squadra Sommergibili,
l’accoglienza che gli viene riservata muta completamente, divenendo
estremamente cordiale. Secondo quanto scritto dallo stesso Borghese nelle sue
memorie, tale improvviso cambiamento di atteggiamento sarebbe da ascriversi al
ricevimento, da parte di Benito Mussolini, di un comunicato dell’Ammiragliato
britannico relativo all’attacco subito dall’Havock;
comunicato che lo stesso Mussolini, pochi minuti prima dell’arrivo di Borghese,
aveva trasmesso al capo di Stato Maggiore della Marina, con l’annotazione in
calce "Mi compiaccio. Mussolini". Il comunicato, secondo il racconto
di Borghese, recitava che “…la manovra
d’attacco e la susseguente manovra di disimpegno del sommergibile sono state
condotte in maniera tale da fare definitivamente ritenere che detto
sommergibile non appartenga né alla Marina russa né a quella “rossa”, ma ad una
Marina che ha degli ottimi comandanti e degli equipaggi molto ben addestrati”.
Foto della prua dell’Iride (g.c. Martina Carannante via www.ponzaracconta.it) |
Settembre 1937
Scoppia
la "crisi dei sommergibili fantasma": si scatenano a livello
internazionale – non solo dalla Spagna repubblicana, ma anche dal Comitato di
Non Intervento e dalla Società delle Nazioni – violente proteste per gli
attacchi illegali da parte di sommergibili italiani (ufficialmente "non
identificati", perché operano clandestinamente e senza segni di
riconoscimento, ma tutti ne intuiscono la vera identità) contro il naviglio
spagnolo repubblicano ed anche il naviglio mercantile di altri Paesi
(specialmente quello sovietico, che trasporta rifornimenti per i repubblicani).
Il tentato siluramento dell’Havock,
che i britannici hanno intuito essere stato compiuto da un sommergibile
italiano, ha contribuito ad esasperare la situazione, ed è anzi indicato talvolta
come la goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso. (Secondo una fonte, dopo
l’attacco contro l’Havock i
rappresentanti diplomatici britannici a Roma protestano per l’accaduto presso
il ministero degli esteri italiano, senza ottenere risposta. Secondo un’altra
fonte, le autorità britanniche avrebbero discretamente fatto sapere a quelle
italiane che sapevano che il sommergibile attaccante era italiano, minacciando
ritorsioni più pesanti nel caso di ulteriori attacchi. Secondo un’altra ancora,
di dubbia affidabilità, i britannici avrebbero scoperto l’identità del
sommergibile che aveva attaccato l’Havock
perché il console britannico a Palma di Maiorca ebbe modo di vedere l’Iride, gravemente danneggiato, in bacino
di carenaggio; e perché, avendo da tempo decifrato i codici in uso nella Marina
italiana, avevano intercettato la comunicazione relativa all’attacco dell’Iride. La prima affermazione è del tutto
sbagliata, dal momento che l’Iride
non fu danneggiato dall’Havock e fece
immediatamente ritorno a Napoli, senza toccare Maiorca; la seconda sembra
anch’essa poco probabile, perché mentre è vero che i decrittatori britannici
erano riusciti a decifrare svariati messaggi in codice italiani, che
confermavano al di là di ogni dubbio l’impiego clandestino dei sommergibili
italiani in appoggio degli spagnoli nazionalisti, dall’altra risulterebbe che
non fossero in grado di risalire all’identità dei singoli sommergibili. Secondo
un’altra fonte, peraltro, la creazione dell’Operational Intelligence Centre
(OIC), incaricato di rintracciare ed identificare i sommergibili “sconosciuti”
attraverso un reticolo di stazioni d’intercettazione collegate con un reparto
crittografico centrale, sarebbe stata decisa proprio dopo l’incidente Iride-Havock. Durante la guerra di Spagna l’OIC poté fare pratica che si
rivelò poi utile durante la battaglia dell’Atlantico. Secodo una fonte, l’Havock avrebbe riconosciuto la sagoma
dell’Iride come quella di un
sommergibile italiano nel breve momento in cui lo illuminò col suo proiettore,
prima che si immergesse; i già citati libri “Rapidi e invisibili” e “Il
principe nero” affermano che l’ammiraglio Somerville avrebbe dato ad intendere
all’ammiraglio Marenco di Moriondo, durante l’incontro tenuto sul Quarto il 4 settembre, di sapere che il
sommergibile era italiano perché l’attacco era stato “troppo ben condotto” per
essere stato opera di un sommergibile repubblicano, e perché dopo l’attacco il
sommergibile attaccante non si era ritirato verso un porto spagnolo, come
avrebbe fatto un battello franchista, bensì verso ovest, verso l’Italia).
In
seguito alle proteste ed alle minacce da parte del governo britannico scatenate
dall’attacco contro l’Havock,
infatti, il 4 settembre – proprio il giorno successivo al rientro in porto
dell’Iride – il ministro degli esteri
italiano, Galeazzo Ciano, ordina al capo di Stato Maggiore della Marina,
ammiraglio Domenico Cavagnari, di interrompere le operazioni navali fino a
nuovo ordine. La campagna navale italiana intrapresa da inizio agosto contro il
traffico marittimo diretto verso i porti repubblicani stava avendo un notevole
successo, essendo riuscita ad interrompere in modo pressoché totale il flusso
di rifornimenti dall’Unione Sovietica dalla Spagna repubblicana, che aveva con
ciò subito un durissimo colpo: la sua prosecuzione fino alla fine di settembre,
come richiesto insistentemente dai rappresentanti franchisti a Roma, avrebbe
potuto avere un impatto decisivo, ma il governo italiano decide di sospenderla
per evitare di esasperare ulteriormente i già tesi rapporti con il Regno Unito.
Scrive in proposito, nel suo diario, lo stesso Ciano: «Grande attività della Marina: tre siluramenti e un sequestro. Ma
l’opinione pubblica internazionale si monta. Soprattutto in Inghilterra a
seguito del lancio contro il C.T. Havock, fortunatamente non colpito. È stato
l’Iride. Siamo già in piena polemica (…) Ho dato ordine a Cavagnari di sospendere l’azione navale fino a nuovo
ordine. Ma la bufera tende a placarsi. Conde mi ha portato un telegramma di
Franco che dice che se il blocco continuerà tutto settembre sarà risolutivo. È
vero. Però adesso dobbiamo sospenderlo».
Il
segretario agli affari esteri del Regno Unito (equivalente a ministro degli
esteri), Anthony Eden, è tra i più accaniti sostenitori di un’azione decisa
contro l’Italia; ma sia il governo Chamberlain che l’Ammiragliato, ancora
fiduciosi nella politica di "appeasement" e nella possibilità di un
riavvicinamento tra l’Italia ed il Regno Unito, freneranno le pressioni di
Eden, escludendo un intervento diretto contro l’Italia. Il chiasso scatenato
dall’incidente dell’Havock, insieme
alle dichiarazioni di un Mussolini sempre più apertamente soddisfatto delle
vittorie franchiste, danno però una mano al ministro britannico, che non esita
a dare il suo appoggio ad una proposta avanzata dal Ministro degli Esteri
francese, Yvon Delbos, affinché la crisi dei “sommergibili fantasma” venga
discussa in un’apposita conferenza internazionale. Proprio l’incidente Iride-Havock è indicato da varie fonti come la scintilla che avrebbe portato
alla decisione di indire la conferenza di Nyon.
Il
10 settembre i rappresentanti di Francia, Gran Bretagna, Unione Sovietica,
Bulgaria, Jugoslavia, Egitto, Grecia, Turchia e Romania (cioè tutti i Paesi che
si affacciano sul Mediterraneo e sul Mar Nero, più il Regno Unito ed escluse
l’Italia – che, invitata, ha rifiutato di partecipare – e la Spagna) danno il
via alla conferenza di Nyon, tenuta nell’omonima località della Svizzera e
durata quattro giorni: al termine della conferenza, viene stabilito che le
Marine francese e britannica pattuglieranno le acque internazionali del
Mediterraneo con un totale di 60 cacciatorpediniere nonché forze aeree, e che
ogni sommergibile "pirata" (viene intenzionalmente evitato ogni
esplicito riferimento all’Italia) che attaccherà naviglio neutrale dovrà essere
attaccato e distrutto. Il Mediterraneo viene diviso in settori (con punto di
cesura Malta), il cui pattugliamento viene assegnato alle principali potenze
partecipanti: Francia e Regno Unito nel Mediterraneo occidentale, Unione
Sovietica in quello orientale. Il Regno Unito, in particolare, assegna al
pattugliamento contro i “pirati” ben due corazzate, due incrociatori da
battaglia, 36 cacciatorpediniere e numerosi incrociatori, appoggiati da due
navi officina, una nave appoggio, una nave ospedale e svariate altre unità
ausiliarie.
A
completamento della farsa, all’Italia, che ha rifiutato di partecipare per via dei
contrasti con l’Unione Sovietica (i sovietici, a differenza di britannici e
francesi, non hanno problemi a dichiarare che dietro i sommergibili “pirati” si
trova l’Italia: per lo stesso motivo anche la Germania, sebbene invitata, non
partecipa alla conferenza), viene offerta la possibilità di pattugliare il Mar
Tirreno (contro i propri stessi sommergibili!). Di fatto lo scopo della
conferenza di Nyon è stato proprio quello di porre un freno alla campagna
sottomarina intrapresa dall’Italia, evitando al contempo di accusare
apertamente questo Paese. La sistematicità con cui le autorità britanniche e
francesi, desiderose di non urtare Mussolini (che ancora speravano di poter
allontanare da Hitler e riavvicinare a sé) a qualsiasi costo, continuano a
parlare di “pirati sconosciuti”
quando la loro nazionalità è evidente a tutti, genera anzi non pochi commenti
ironici nell’opinione pubblica: i comici londinesi del West End cominciano a
chiamare Mussolini “lo statista sconosciuto”, mentre a Parigi il Boulevard des
Italiens (boulevard degli italiani) inizia ad essere chiamato con ironia
“Boulevard des Inconnus” (boulevard degli sconosciuti).
In
seguito al polverone internazionale ormai scatenatosi ed agli accordi di Nyon,
i comandi italiani decidono di sospendere l’offensiva subacquea in corso. La
Marina franchista, tuttavia, chiede insistentemente che la campagna riprenda o
che altri sommergibili le siano ceduti: l’intera flotta subacquea spagnola
d’anteguerra, infatti, ha aderito alla causa repubblicana, e gli unici
sommergibili in mano ai nazionalisti sono due battelli ceduti dall’Italia nel
maggio 1937, General Mola (ex Archimede) e General Sanjurjo (ex Torricelli).
I franchisti fanno dunque pressione per ottenere dall’Italia cacciatorpediniere
(altra categoria di naviglio di cui hanno grave carenza) ed altri sommergibili:
già nel luglio 1937 l’ambasciatore franchista a Roma, Pedro Garcia Conde, ha
avanzato pressanti richieste in questo senso, poi ribadite con ancor maggior
insistenza dal fratello di Francisco Franco, Nicolas Franco, recatosi in visita
a Roma in agosto, il quale ha sottolineato la necessità di un completo blocco
dei porti repubblicani, ottenendo in proposito l’adesione di Mussolini a inizio
settembre. La richiesta avanzata da Nicolas Franco riguarderebbe la cessione di
un incrociatore (il Taranto), cinque
cacciatorpediniere (Audace, Aquila, Falco, Guglielmo Pepe ed Alessandro Poerio) e due sommergibili di media crociera, ma il capo
di Stato Maggiore della Marina italiana, ammiraglio Domenico Cavagnari, si
mostra alquanto riluttante: stante le crescenti tensioni internazionali causate
proprio dalla guerra di Spagna, Cavagnari ritiene – non a torto – che sarebbe
poco saggio privarsi di unità navali, e specialmente di sommergibili. Per
giunta, l’Italia ha aderito, almeno sulla carta, agli accordi di non intervento
nella guerra civile spagnola, che tra le altre cose prevedono il divieto di
cedere navi da guerra di qualsiasi genere alle nazioni belligeranti. Nondimeno,
la richiesta franchista verrà in gran parte accolta, cedendo ai nazionalisti Aquila, Falco, Pepe e Poerio: per aggirare i divieti posti dai
patti di non intervento, il trasferimento dei cacciatorpediniere rimarrà
segreto, e le sagome delle quattro unità ex italiane verranno alterate in modo
da farle assomigliare a quella del Velasco,
unico cacciatorpediniere in servizio sotto bandiera franchista.
Per
quanto concerne i sommergibili, invece, un ulteriore problema è legato alla
penuria di sommergibilisti nei ranghi della Marina spagnola nazionalista: è già
stato difficile mettere insieme abbastanza uomini per armare gli ex Archimede e Torricelli, e l’addestramento degli equipaggi destinati ad armare
ulteriori sommergibili ceduti ai franchisti richiederebbe per lo meno qualche
mese, ritardando così di parecchio l’effettiva entrata in servizio di tali
unità, che invece servirebbe subito. Di conseguenza, si decide una soluzione di
compromesso: "prestare" alcune unità subacquee alla Marina
nazionalista spagnola. Questi sommergibili manterranno comandanti ed equipaggi
italiani (che però sostituiranno le divise italiane con quelle spagnole,
indossando le uniformi del Tercio), per supplire alla carenza di
sommergibilisti spagnoli, ma saranno temporaneamente trasferiti alla Legione
Spagnola (Legión Española, o Tercio de Extranjeros), la legione straniera
dell’Esercito spagnolo, schieratasi con i nazionalisti di Francisco Franco: in
tal modo, operando sotto bandiera spagnola, non risulterà che unità italiane
stiano combattendo dalla parte dei nazionalisti. Inoltre, a differenza che per
i cacciatorpediniere, i sommergibili verranno restituiti all’Italia al termine
del loro impiego.
Il trasferimento temporaneo riguarderà quattro sommergibili, due di grande crociera e due di piccola crociera: l’Iride è uno dei quattro battelli scelti, insieme al gemello Onice ed ai più grandi Galileo Galilei e Galileo Ferraris. Le quattro unità opereranno dall’isola di Maiorca, controllata dalle forze spagnole nazionaliste, e compiranno il viaggio di trasferimento in immersione (così occultando il trasferimento ad occhi indiscreti), con partenza da Cagliari, sostituendo la bandiera italiana con quella spagnola al loro arrivo. I nomi italiani, visibili a prua dei sommergibili, vengono cancellati prima della partenza per la Spagna.
Il trasferimento temporaneo riguarderà quattro sommergibili, due di grande crociera e due di piccola crociera: l’Iride è uno dei quattro battelli scelti, insieme al gemello Onice ed ai più grandi Galileo Galilei e Galileo Ferraris. Le quattro unità opereranno dall’isola di Maiorca, controllata dalle forze spagnole nazionaliste, e compiranno il viaggio di trasferimento in immersione (così occultando il trasferimento ad occhi indiscreti), con partenza da Cagliari, sostituendo la bandiera italiana con quella spagnola al loro arrivo. I nomi italiani, visibili a prua dei sommergibili, vengono cancellati prima della partenza per la Spagna.
L’Iride a Cagliari nell’estate del 1937 (g.c. STORIA militare) |
23 settembre 1937
Partito
da Cagliari al comando del tenente di vascello Borghese, nel pomeriggio del 23
settembre l’Iride arriva a Soller
(Maiorca), dove viene posto alle dirette dipendenze dell’ammiraglio spagnolo
Francisco Moreno (presso il quale fa funzione di ufficiale di collegamento con
la Marina italiana il capitano di corvetta Stefano Pugliese), comandante in
capo della Marina franchista. Viene ribattezzato González López (dal nome di un ufficiale sommergibilista filofranchista,
ucciso a Cartagena il 17 luglio 1936 in seguito al fallito colpo di Stato
tentato dai nazionalisti), con sigla L.
3 ("L" indica appunto "legionario" ; per altre fonti,
l’Iride avrebbe assunto dapprima
il nome di González López e poi
quello di L. 3); mantiene
tuttavia comandante (sempre il tenente di vascello Borghese), stato maggiore ed
equipaggio italiano, ma con uniformi, gradi ed insegne spagnole (formalmente
gli equipaggi risultano arruolati nel "Tercio": ad esempio, Borghese
ed il suo secondo Teucle Meneghini hanno il grado di Teniente de navío, ossia l’equivalente spagnolo del tenente di
vascello) e "consulenti" spagnoli a bordo (nel caso dell’Iride, il tenente di vascello Antonio
Calín). La convivenza con gli spagnoli, inizialmente, non è delle più
amichevoli, con incomprensioni che si riuscirà poi a superare.
Gli
altri tre sommergibili italiani trasferiti al "Tercio" vengono
ribattezzati Aguilar Tablada (Onice), General Mola II (Galilei) e General Sanjurio II (Ferraris). Tutti e quattro sono
dislocati a Soller.
Gli
accordi presi tra Marina italiana e Marina spagnola franchista prevedono che
ciascun sommergibile "legionario" effettui mediamente una missione
ogni 24 giorni, con agguati di 8 giorni; cause contingenti impediranno di
attenersi strettamente a tale decisione. I quattro sommergibili operano contro
il traffico repubblicano nelle acque dell’Andalusia e della Catalogna, insieme
ai due battelli armati da equipaggi spagnoli (General Mola e General
Sanjurjo, ex Archimede e Torricelli).
Le
regole per le missioni dei sommergibili "legionari", stabilite
dall’ammiraglio Moreno ("Norme di
massima per i sommergibili legionari", emanate il 3 ottobre 1937),
sono molto restrittive, per evitare incidenti: non attaccare nessuna nave non
spagnola repubblicana al di fuori delle acque territoriali spagnole; non
attaccare nessuna nave di bandiera straniera al di fuori delle acque territoriali;
non attaccare mai, nemmeno dentro le acque territoriali, navi britanniche,
francesi, statunitensi e giapponesi. Possono essere attaccate solo le navi
mercantili e militari battendi bandiera della Spagna repubblicana, ed altri
bersagli designati dalle autorità navali nazionaliste, sempre però entro i
rigidi limiti sopra definiti. Queste regole, ispirate dalla necessità di
impedire altri incidenti internazionali dai potenziali perniciosi risvolti
politici, peseranno fortemente sull’attività dei sommergibili, limitandone di
molto le probabilità di successo: anche perché i repubblicani fanno ormai largo
uso, per i loro traffici, di navi che battono bandiere “di comodo” britanniche
e francesi, anche abusivamente, navigando di notte a luci accese ed entro i limiti
delle acque territoriali, il che impedisce ai sommergibili “legionari” di
attaccarle senza violare le summenzionate limitazioni.
4 ottobre 1937
Verso
le otto del mattino una vedetta del cacciatorpediniere britannico Basilisk (capitano di fregata Edward
Dangerfield), in navigazione al largo di Capo Sant’Antonio (circa 55 miglia a
sud di Valencia, più o meno nelle stesse acque in cui un mese prima è stato
attaccato l’Havock) per una missione
di pattugliamento “anti-pirateria”, avvista quella che ritiene essere la scia
di un siluro passare lungo il lato di dritta della loro nave. Prima
dell’avvistamento del presunto siluro, il Basilisk
non aveva rilevato alcun contatto con il sonar; alle 9.40, dopo il presunto
avvistamento, il cacciatorpediniere si avvicina a 16 nodi a dei contatti sonar
che potrebbero indicare la presenza di un sommergibile, e lancia su di essi
delle bombe di profondità a scopo precauzionale. L’attacco non sembra produrre
risultati tangibili, ed il contatto viene perso fino alle 10.49, quando viene
nuovamente ottenuto, soltanto per essere perso nuovamente dopo qualche tempo. Ciò
avviene più volte, ed ogni volta il nuovo contatto è in una posizione
difficilmente compatibile con quelli che risultavano essere i movimenti del
sommergibile prima della perdita di contatto. Le ricerche del presunto battello
attaccante proseguiranno fino all’indomani, con l’impiego di sette
cacciatorpediniere e due idrovolanti. Il cacciatorpediniere Boreas, gemello del
Basilisk, che si trovava insieme ad
esso al momento del presunto attacco, non ha avvistato niente, né conferma il
contatto sonar, nonostante a bordo si trovi un sottufficiale esperto
nell’individuazione di sommergibili, imbarcato quale istruttore.
Questa
vicenda avrà immediata e vasta risonanza nella stampa internazionale e genererà
molta perplessità nei comandi della Royal Navy: il primo lord del mare,
ammiraglio Ernle Chatfield, è turbato dalla prospettiva che per la seconda
volta, dopo l’episodio dell’Havock,
un sommergibile sia riuscito ad attaccare un cacciatorpediniere britannico, pur
senza successo, e poi a sfuggire indenne. (Secondo una fonte, il fatto che sia
il sommergibile che ha attaccato l’Havock
sia quello – vero o presunto – che ha attaccato il Basilisk siano riusciti a fuggire danneggia non poco la reputazione
della Royal Navy nella lotta antisommergibili). Il 5 ottobre Chatfield scrive
all’ammiraglio Pound, comandante della Mediterranean Fleet: «Sono abbastanza preoccupato dall’incidente
del Basilisk di ieri, che ha ricevuto da parte della stampa la stessa
importanza del precedente incidente dell’Havock. In entrambi i casi si è
dimostrato che un sommergibile si trovava vicino ad un cacciatorpediniere ed ha
lanciato un siluro, per poi sfuggire. Ricorderai il mio telegramma (…) in cui enfatizzavo l’importanza del nostro
prestigio sia in patria che all’estero in questo ambito. C’è sempre stata una
scuola, qui, incline a gettare dubbi sulle aspettative dell’Ammiragliato
riguardo la localizzazione dei sommergibili (…)». Viene di nuovo messa in
discussione l’efficacia dell’ASDIC: l’ammiraglio Pound, da parte sua, ritiene
che probabilmente non ci fosse nessun sommergibile («sebbene abbia grande fiducia nel comandante Dangerfield, non sono
convinto che l’H.M.S. Basilisk sia stato attaccato da un sommergibile. L’H.M.S.
Boreas, l’altra nave della sezione, non ha mai confermato conferma [sic] di un contatto. Due altre navi hanno
riferito di siluri lanciati contro di loro, ma le indagini hanno provato che
non era così»), ma ammette che l’accaduto rischia di risultare ugualmente
dannoso per il prestigio della Royal Navy: se il sommergibile c’era, avrebbe
dovuto essere distrutto; se non c’era, ammetterlo significherebbe anche
ammettere che l’ASDIC è tutt’altro che infallibile. Pound propone di incrementare
il numero di cacciatorpediniere in pattugliamento nella zona di controllo
britannica, in modo da dissuadere i sommergibili da operare in quelle acque,
troppo affollate dai cacciatorpediniere («per
quanto riguarda il mantenimento del nostro prestigio (…) c’è (…) il metodo indiretto di rendere la nostra zona così malsana per i
sommergibili che essi opereranno in altre zone, con conseguenti deduzioni [tratte]
dal mondo (…) Dare la caccia ai sommergibili finché non emergono (…) e coprire la nostra zona con navi di
pattuglia ed aerei fanno tutti parte del metodo indiretto. L’attacco contro
l’H.M.S. Havock ha avuto luogo prima (…) che cominciassero i pattugliamenti di Nyon e se viene dimostrato che il
sommergibile del Basilisk era inesistente, allora non c’è niente che provi che
il metodo indiretto abbia fallito»).
Nei
giorni successivi, la stampa britannica diffonderà notizie infondate
sull’affioramento di nafta e persino sul recupero di ‘effetti personali’ (non è
chiaro da parte di chi) dopo il lancio di bombe di profondità da parte del Basilisk, mentre altri giornali
affermano che un siluro italiano inesploso sarebbe stato rinvenuto da dei
pescatori. Il giornale australiano “Northern Times”, per esempio, afferma in un
articolo del 7 ottobre che “Le prove suggeriscono
che il sommergibile che ha attaccato (…) il Basilisk (…) sia stato
affondato dalle bombe di profondità lanciate. L’equipaggio del Basilisk,
all’arrivo a Gibilterra, ha detto che una grossa quantità di carburante è
venuta in superficie. Altri racconti affermano che effetti personali sarebbero
stati recuperati dal mare nelle vicinanze del luogo in cui si è verificato
l’incidente. Pescatori sulla costa raccontano della scoperta di un siluro che
si dice essere di fabbricazione italiana”. Il giornale francese “Express du
Midi” pubblicherà il 7 ottobre una notizia secondo cui “il Ministro della Difesa Nazionale di Valencia ha fatto sapere che ieri
un siluro è stato ritrovato sulla spiaggia di Calpe, vicino ad Alicante, cioè
nella zona in cui il Basilisk è stato attaccato. Questo siluro avrebbe delle
caratteristiche che corrispondono a quelli usati nella Marina italiana. Un
siluro opportuno, trovato proprio dove serviva per poter lanciare una pesante
accusa contro l’Italia”.
La
testata tedesca “Deutsche Allgemeine-Zeitung” criticherà i cacciatorpediniere
britannici per aver “tentato di affondare,
in tempo di pace, un sommergibile che non li aveva attaccati”. Il “Der
Angriff”, pubblicato dalla sezione berlinese del partito nazista, titola a
piena pagina “Il lord del mare diffonde
una storiella da marinai” e scrive “L’irresponsabilità
con cui un funzionario con una reputazione internazionale ha diffuso notizie ed
importanti implicazioni politiche indica una spiacevole inclinazione a
sostenere qualsiasi cosa aiuti la Spagna sovietica ed i suoi consiglieri
moscoviti”.
Il
giornale “L’Impartial”, pubblicato nella Svizzera francese, giunge addirittura
a dare la colpa ai repubblicani: “Le
ricerche per trovare l’aggressore del cacciatorpediniere britannico Basilisk
non hanno dato risultati. Senza tradire alcun segreto, possiamo dire che i
servizi d’informazione della Marina francese non hanno dubbi sull’identità del
sommergibile “sconosciuto”. Si tratta di un battello della flotta governativa
spagnola [cioè, repubblicana]. L’aggressione
dell’altro ieri (…) sarebbe dovuta ad
un errore”.
Una
settimana dopo questo episodio, tuttavia, un ufficiale dell’Ammiragliato
britannico ammetterà alla stampa che, al termine di una indagine sull’accaduto,
si è raggiunta la conclusione che l’equipaggio del Basilisk potrebbe aver scambiato una focena od un delfino per un
siluro (“È vero che delle bombe di
profondità sono state lanciate quando un sommergibile ha presumibilmente
attaccato il Basilisk, ma, dopo un’indagine completa, abbiamo cambiato idea.
Non possiamo dire che ciò che sembrava un siluro lo fosse davvero. Potrebbe
essere stata una focena”). L’ammiraglio Chatfield concluderà anch’egli che
con ogni probabilità nessun sommergibile ha attaccato il Basilisk; il 9 ottobre l’Ammiragliato annuncerà ufficialmente che “in seguito ad un’indagine completa, è stato
stabilito che un attacco di sommergibile contro il cacciatorpediniere
britannico Basilisk non è stato effettuato”. La versione britannica
dell’accaduto, al termine dell’inchiesta, è che probabilmente i marinai del Basilisk abbiano scambiato la scia di un
cetaceo per quella di un siluro, e che nessun sommergibile abbia tentato di
attaccare il cacciatorpediniere. Nondimeno, anche questo episodio insegna
qualche lezione agli specialisti di lotta antisommergibili: se il sommergibile
c’era davvero, è la conferma che per essere certi di non far sfuggire un
sommergibile sia necessaria la cooperazione di più unità antisom, giacché in
caso contrario un singolo cacciatorpediniere può anche riuscire a danneggiare
l’unità subacquea nemica, ma questa potrebbe comunque essere in grado di
sfuggire. Se il sommergibile non c’era, vuol dire che occorre intensificare
l’addestramento antisom per evitare altri falsi allarmi; dopo l’episodio del Basilisk, infatti, la Royal Navy ridurrà
il numero di cacciatorpediniere dislocati oltremare per sottoporre ciascuno di
essi ad un corso di addestramento alla lotta antisommergibili. Al contempo, l’ammiraglio
Chatfield disporrà che i cacciatorpediniere operino in gruppi, così che un
sommergibile attaccante non abbia più la possibilità di sfuggire come accaduto
in passato.
Il
giornale “Il Popolo d’Italia”, organo ufficiale del partito fascista (fondato
dallo stesso Mussolini), pubblica qualche giorno dopo questo incidente un
articolo anonimo, ma attribuito a Mussolini in persona, in cui si accusa il
comandante e l’equipaggio del Basilisk
di aver creduto di essere sotto attacco da parte di un sommergibile perché in
stato di ubriachezza. Il 21 ottobre un parlamentare britannico, nonché
ufficiale della Royal Navy, il capitano di corvetta Reginald Fletcher, dichiara
durante una riunione della Camera dei Comuni, riferendosi a tale articolo: "Se qualcuno è ubriaco, so io chi è. È il
capo del governo italiano. È ubriaco di vanità, ubriaco di arroganza, ubriaco
di megalomania, ubriaco di orgoglio del potere, barcollante e, sfortunatamente,
temo che potrebbe portare con sé il popolo italiano nella rovina e nella caduta".
Nel
1968, nel libro "Los diablos del mar" (pubblicato in Spagna), Junio
Valerio Borghese si attribuirà la responsabilità dell’attacco ai danni del Basilisk, sostenendo anche di aver
subito un pesante contrattacco con bombe di profondità nel quale l’Iride avrebbe subito due morti e quattro
feriti tra l’equipaggio. La veridicità di queste affermazioni è però alquanto dubbia,
considerando le conclusioni dell’inchiesta britannica, la totale omissione, da
parte di Borghese, di qualsiasi particolare relativamente a come e quando si
sarebbe svolto il presunto attacco contro il Basilisk, la mancanza di qualsivoglia riferimento all’attacco nella
documentazione italiana e soprattutto il fatto che, a quanto risulta, il 4
ottobre 1937 l’Iride/González López si trovava ormeggiato a
Soller, da dove partì per la sua prima missione “legionaria” soltanto il 24
ottobre.
Secondo
l’ammiraglio Moreno, comandante della flotta franchista, il Basilisk sarebbe stato attaccato da un
sommergibile della Marina spagnola repubblicana (così ha scritto lo storico
Michael Alpert sulla scorta dei documenti 25-11 del Servicio Historico del
Estrado Mayor de la Armada); tuttavia dai documenti della Marina spagnola
risulta che nessun sommergibile repubblicano fosse in mare al momento del
presunto attacco contro il Basilisk
(né lo erano i due unici sommergibili dei nazionalisti, ceduti loro
dall’Italia, che in quel momento erano entrambi in Italia per lavori). Michael
Alpert, nel libro "La guerra civil española en el mar" (1987), e lo
storico spagnolo Ricardo Cerezo Martinez (nel tomo IV dell’opera "Armada
Española Siglo XX", pubblicato nel 1983) avrebbero attribuito l’attacco
contro il Basilisk all’Iride di Borghese, mentre lo storico
italiano Franco Bargoni ritiene che l’Iride
non possa aver avuto alcunché a che fare con il presunto tentato siluramento di
questo cacciatorpediniere.
24 ottobre 1937
L’Iride/González López lascia Soller per la prima missione “legionaria”, al comando del tenente di vascello Borghese e con a bordo anche il tenente di vascello Calín della Marina nazionalista spagnola. La zona d’operazioni assegnata sono le acque di Barcellona e Tarragona.
L’Iride/González López lascia Soller per la prima missione “legionaria”, al comando del tenente di vascello Borghese e con a bordo anche il tenente di vascello Calín della Marina nazionalista spagnola. La zona d’operazioni assegnata sono le acque di Barcellona e Tarragona.
1° novembre 1937
Il
sommergibile rientra a Soller, ponendo fine alla sua missione. Non ha avvistato
navi.
11 novembre 1937
Lascia
Soller e rientra in Italia, raggiungendo dapprima La Maddalena e poi La Spezia,
per riparare l’idrofono, che si è guastato.
Subito
prima della partenza, il tenente di vascello Borghese viene sostituito nel
comando dell’Iride, per il viaggio in
Italia, dal capitano di corvetta Sergio Lusena (già comandante del Ferraris), per ordine dell’ammiraglio
Moreno: contemporaneamente, a Borghese viene affidato il comando del Ferraris, col quale egli compie due
missioni nel novembre e dicembre del 1937.
5 gennaio 1938
Completate
le riparazioni, l’Iride fa ritorno a
Soller al comando del capitano di corvetta Franco Baslini.
8 gennaio 1938
Il
comandante Baslini cede nuovamente il comando dell’Iride al comandante Borghese, assumendo poi a sua volta quello del Ferraris. È stato lo stesso Borghese a
chiedere di tornare al comando dell’Iride,
un sommergibile di piccola crociera, più adatto alle tattiche di attacco da lui
favorite rispetto al più grande e meno manovriero Ferraris.
14 gennaio 1938
L’Iride/González López salpa da Soller per la seconda missione “legionaria”,
sempre al comando di Borghese, questa volta da effettuarsi nel Golfo di
Valencia. Stavolta gli ordini sono meno restrittivi: dovrà attaccare qualsiasi
nave sorpresa a navigare nella sua zona d’agguato (che però è limitata entro
tre miglia dalla costa, in acque pericolosamente basse), od anche solo diretta
verso di essa.
Nei
giorni successivi, il sommergibile pattuglia le acque di Castellon de la Plana,
Valencia, Capo Oropesa e Capo Sant’Antonio, tenendosi perlopiù a quota
periscopica. Un’intera giornata viene trascorsa nelle acque tra Denia e Gandia,
un’altra in quelle tra Valencia e Sagunto: presso tutti i porti osservati viene
riscontrato un intenso traffico di navi mercantili, unitamente alla totale
assenza di unità di scorta od attività antisommergibili, ma tutte le navi
avvistate battono bandiera britannica, e quasi tutte sono in posizioni
sfavorevoli per l’attacco. Anche di notte il mare calmissimo, la luce lunare e
l’ottima visibilità rendono difficile avvicinarsi ai mercantili in superficie senza
essere visti.
17-20 gennaio 1938
Secondo
il diario del marinaio dell’Iride
Aldo Mazzella (trascritto e pubblicato dalla nipote Martina Carannante sul sito
www.ponzaracconta.it, a entrambi
vanno i ringraziamenti), il 17 gennaio 1938 l’Iride avrebbe attaccato un grosso piroscafo fortemente scortato tra
il Golfo di Malaga ed il Marocco, ritenendo di aver colpito un
cacciatorpediniere con un siluro, e sarebbe poi stato sottoposto ad
un’estenuante caccia con bombe di profondità ed anche torpedini da rimorchio protrattasi
per tre giorni, riuscendo infine ad uscirne grazie allo stratagemma del
rilascio di nafta, col quale avrebbe ingannato gli attaccanti, inducendoli a
ritenere di averlo affondato. Dopo essere scampato alla caccia, l’Iride sarebbe rientrato a Maiorca il 21
gennaio, per poi trasferirsi a La Maddalena il 25.
Di
questo episodio non si trova traccia nei testi ufficiali, che anzi indicano da
parte dell’Iride altri e differenti
attacchi nei giorni in questione, e registrano il suo rientro alla base come
avvenuto il 23 o 24 gennaio. Eppure, il resoconto di Aldo Mazzella – custodito
in un cassetto chiuso a chiave per il resto della sua vita – è datato 29
gennaio 1938: scritto cioè “a caldo”, a pochi giorni dai fatti, quando i
ricordi erano ancora freschi. Ancora una volta, un episodio della
partecipazione dell’Iride alla guerra
di Spagna sembra essere avvolto dal mistero. È possibile che la documentazione
ufficiale relativa alla missione dell’Iride
del gennaio 1938 sia stata deliberatamente falsificata, forse per nascondere un
altro episodio che avrebbe potuto causare un ennesimo incidente internazionale
(in fin dei conti, lo storico Giorgio Giorgerini adombra un sospetto simile nel
parlare dell’episodio del Basilisk)?
Ancora, è possibile che Junio Valerio Borghese, rivendicando nel 1968 di aver
attaccato il Basilisk, si riferisse
in realtà a questo attacco? Rimangono i dubbi: il diario di Aldo Mazzella è
riportato in fondo a questa pagina, mentre di seguito vi è la cronistoria della
missione del gennaio 1938 per come essa risulta dalle fonti ufficiali.
Aldo Mazzella, imbarcato sull’Iride durante la guerra di Spagna (g.c. Martina Carannante, via www.ponzaracconta.it) |
19 gennaio 1938
Al
largo di Sagunto, ad una decina di miglia dalla costa, l’Iride/González López
avvista ed attacca alle 13.20 un piroscafo di stazza stimata in 2000 tsl,
diretto a Valencia. Si tratta del piroscafo britannico Clonlara, di 1203 tsl, che avvista i due siluri lanciati dal
sommergibile e riesce ad evitarli. All’arrivo a Castellon, il 20 gennaio, il
comandante del Clonlara racconta di
essere stato attaccato da un sommergibile non identificato il giorno
precedente, a dieci miglia da Sagunto (o 10 miglia a nord di Castellon), col
lancio di un siluro che però lo ha mancato. L’episodio viene riportato dalla
stampa anglosassone.
20-21 gennaio 1938
Tenta
altri due attacchi nelle acque antistanti Valencia e Sagunto, ma i siluri non
escono dai tubi di lancio a causa di guasti.
22 gennaio 1938
Quarto
attacco da parte dell’Iride/González López: stavolta il bersaglio
dei siluri è il piroscafo britannico Lake
Geneva, avvistato in uscita da Valencia ed attaccato alle 13.01. Anche questa
volta, i due siluri lanciati non vanno a segno; il comandante del Lake Geneva, giunto in porto, racconterà
di essere stato attaccato tre miglia e mezzo a sudest di Valencia da un
sommergibile emerso che ha lanciato un siluro da appena 270 metri, e che l’arma
è passata sotto lo scafo del piroscafo senza esplodere, dopo di che il
sommergibile si è immerso ed è scomparso. La notizia di questo attacco verrà
riportata dalla stampa anglosassone – che tuttavia sembra indicarlo come
avvenuto il 15 gennaio, anziché il 22 –, e provocherà rinnovate proteste da
parte britannica; nel giugno 1938 gli attacchi subiti da Clonlara e Lake Geneva verranno menzionati in
un’interrogazione parlamentare alla Camera dei Comuni britannica (anche
l’interrogazione parlamentare in questione, peraltro, menziona l’attacco al Lake Geneva come avvenuto il 15 gennaio,
non il 22).
23 o 24 gennaio 1938
Il
sommergibile rientra a Soller, così concludendo la sua seconda ed ultima missione.
Dei quattro sommergibili “legionari”, l’Iride/González López è quello che ha compiuto
meno missioni: solo due, a fronte delle tre dell’Onice/Aguilar Tablada e
delle quattro di Galilei/Mola II e Ferraris/Sanjurjo II.
Complessivamente i quattro battelli hanno percorso, nelle loro tredici
missioni, 7127 miglia nautiche in superficie e 2687 in immersione.
Febbraio 1938
La
terza decade del gennaio 1938 vede nuove vibrate proteste da parte
dell’opinione pubblica britannica, causate dall’affondamento, da parte del General Sanjurjo, del piroscafo
britannico Endymion (21 gennaio
1938), avvenuto nella zona di controllo assegnata alla Royal Navy dagli accordi
di Nyon, nonché degli infruttuosi attacchi ai danni del piroscafo irlandese Conclava (19 gennaio), ad opera del Ferraris/Sanjurjo II, e dei britannici Clonlara
e Lake Geneva da parte proprio dell’Iride/González López.
In
seguito a ciò, il governo britannico prende duramente posizione contro quello
italiano, ritenuto – non a torto – responsabile di questa recrudescenza della guerra
sottomarina: il ministro degli esteri britannico, Anthony Eden, fa sapere che
d’ora in poi la Royal Navy si riserverà il diritto di distruggere tutti i
sommergibili sorpresi a navigare in immersione nella zona ad essa assegnata per
la sorveglianza. Questa nuova crisi induce Mussolini a decidere, a inizio
febbraio 1938, di porre fine all’impiego dei quattro sommergibili “legionari”,
disponendone il rientro in Italia.
Mussolini
vuole evitare nuovi incidenti con mercantili neutrali in un momento in cui le
trattative con il Regno Unito per un accordo sul Mediterraneo sono arrivate
alla fase conclusiva, dopo la firma del “Gentlemen’s
agreement” – che prevede l’appoggio britannico al riconoscimento della
conquista italiana dell’Etiopia presso la Società delle Nazioni, in cambio del
ritiro delle truppe italiane in Spagna – tra Galeazzo Ciano e l’ambasciatore
britannico a Roma James Eric Drummond Perth (2 gennaio 1938). Anche la Marina
franchista, dopo aver protestato contro l’annunciata decisione britannica (che
va a restringere fortemente l’impiego dei suoi due sommergibili), decide di
sospendere l’attività del General Mola
e del General Sanjurjo, per non
aggravare le tensioni a livello internazionali ed i rapporti con il Regno
Unito. Il 3 febbraio 1938 Regno Unito, Francia e la stessa Italia rilasciano
una dichiarazione congiunta che stabilisce che qualsiasi sommergibile sorpreso
in immersione ad ovest di Malta verrà distrutto.
L’Iride ha prestato servizio nel Tercio de
Extranjeros per due mesi e 19 giorni. Per il suo servizio durante la guerra di
Spagna, Borghese verrà decorato l’8 aprile 1939 di Medaglia di Bronzo al Valor
Militare ("Comandante di
sommergibile legionario ha compiuto numerose missioni di guerra sulle coste
spagnole operando contro le navi da guerra rosse e contro il traffico di
contrabbando, dimostrando elevato spirito offensivo e solide qualità
professionali. Con il sommergibile IRIDE attaccava risolutamente di notte,
stando in superficie, un cacciatorpediniere e riusciva successivamente con
calma e abilità ad eludere la ricerca e l'offesa di varie unità avversarie che
cercavano ripetutamente di colpire il sommergibile con bombe di profondità.
(Mediterraneo Occidentale, settembre 1937-febbraio 1938)"), mentre il
resto dell’equipaggio dell’Iride riceverà
la Croce di Guerra al Valor Militare.
Il
comandante del gruppo sommergibili legionari, capitano di corvetta Franco
Baslini, attribuirà l’insuccesso dei lanci compiuti dall’Iride nei vari attacchi tentati durante le missioni “legionarie” a
circostanze sfavorevoli, parere condiviso dal capitano di corvetta Stefano
Pugliese, ufficiale di collegamento italiano presso la Marina franchista. Di
diversa opinione è invece il capitano di vascello Giovanni Ferretti, capo della
Missione Navale Italiana in Spagna, che appare più critico sulle azioni di
Borghese: pur riconoscendo il suo elevato spirito offensivo («Concordo col parere del comandante Baslini,
laddove egli si esprime circa l’alto spirito offensivo con cui il comandante
Borghese ha condotto la missione»), Ferretti esprime nel suo rapporto
l’opinione che il comandante dell’Iride
abbia commesso degli errori: «Non
condivido il suo apprezzamento [di Baslini] circa le azioni compiute (…) e
circa i lanci falliti (…) Infatti: a)
nei riguardi dei due lanci effettuati: – lancio del 19 – ore 13.20 [quello
contro il Clonlara]: è imprudente, a mio giudizio, asserire che,
se il siluro non ha colpito, ciò “non deve ascriversi ad errati apprezzamenti”
etc. “ma solo a cause indipendenti dalla volontà od esperienza del comandante o
del personale”. In altre parole, con ciò si asserisce che si tratta di cattivo
funzionamento del siluro – indipendentemente dalla preparazione di esso – o di
manovra del piroscafo. Stando il fatto che il comandante ha osservato corsa regolare,
io non posso associarmi ad una osservazione così esplicita, non giustificata da
alcun elemento probatorio in contrario. E pertanto, pur non attribuendo in modo
assoluto il mancato bersaglio a errore di lancio, ritengo che con molta
probabilità si tratti di ciò. – lancio del 22 – ore 13:01 [quello contro il
Lake Geneva]: il comandante avrebbe dovuto tenere conto del poco fondale. Sono però
da attribuirsi allo stesso le attenuanti dovute alla ristrettezza della zona
costiera costituita dalle acque territoriali. b) nei riguardi dei lanci
mancati: non sono ammissibili, in un sommergibile organizzato, gli
inconvenienti lamentati: sia il mancato approntamento della bombola di lancio,
sia il non aver supplito immediatamente col lancio a mano, il mancato lancio
elettrico». A dispetto di tutto
ciò, tuttavia, anche Ferretti conclude in termini piuttosto assolutori: «6°) Non ritengo possa farsi che relativo
carico di quanto sopra al comandante Borghese (…) La complessità e la delicatezza di un insieme quale è un sommergibile,
giustificano la necessità di preparazione organica lunga nel tempo e immutata
nei suoi dettagli, la quale tanto più rende, quanto meno ha dovuto soggiacere a
quelle altre necessità di ordine più generale a cui sono dovuti, fra l’altro,
cambi, o insufficienza numerica o qualitativa di personale. Elementi
sfavorevoli che rappresentano pertanto, per un comandante, una decisiva
attenuante rispetto ad eventuali manchevolezze».
Iride, Ametista, Onice ed altri sommergibili “pirati” fotografati a Napoli nell'inverno del 1938, subito dopo il rientro da una missione clandestina in acque spagnole: sull’Ametista è ancora in corso la rimozione della pittura nera applicata per nascondere i nomi e rendere il sommergibile non identificabile (da www.defensa.com) |
1938
Rientrato
dalla Spagna, viene dislocato a La Spezia, in seno alla XIV Squadriglia Sommergibili
del I Grupsom, e torna a disimpegnare intensa attività d’addestramento, con
crociere addestrative nel Dodecaneso ed in Libia.
Al
termine della guerra civile spagnola, che si concluderà con la vittoria delle
forze falangiste di Francisco Franco, l’Iride,
insieme ai sommergibili Jalea, Topazio e Torricelli ed agli incrociatori Giovanni
delle Bande Nere e Bartolomeo
Colleoni, presenzierà a Cagliari alla sfilata dei "Legionari"
italiani di ritorno dalla Spagna.
1939
Dislocato
a Massaua, in Mar Rosso (Eritrea, Africa Orientale Italiana), insieme ai gemelli Onice e Berillo.
Rientrerà
in Italia prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, venendo assegnato
alla XIII Squadriglia Sommergibili del I Grupsom di La Spezia.
(Per
altra fonte, l’Iride sarebbe stato
dislocato a Massaua per qualche mese nel 1938, tornando in Italia nel 1939).
10 giugno 1940
All’entrata
dell’Italia nella seconda guerra mondiale, l’Iride fa parte della XIV Squadriglia Sommergibili (I Gruppo
Sommergibili), con base a La Spezia, insieme ai più grandi Argo e Velella.
14 giugno 1940
L’Iride viene fatto uscire da La Spezia
per contrastare l’attacco portato da una squadra navale francese, partita da
Tolone al comando del viceammiraglio Duplat, contro le coste liguri (Operazione
"Vado"). Gli incrociatori pesanti Foch
ed Algérie (al comando dello stesso
Émile Duplat), insieme ai cacciatorpediniere Aigle, Lion, Vauban, Tartu, Cassard e Chevalier-Paul, bombardano gli
stabilimenti industriali Vado Ligure, mentre gli incrociatori pesanti Dupleix e Colbert (contrammiraglio Edmond Derrien), insieme ai
cacciatorpediniere Albatros, Guépard, Valmy, Verdun e Vaotour, fanno lo stesso con il porto di
Genova.
Il
tiro delle unità francesi genera comunque danni materiali piuttosto contenuti,
mentre desta un certo scalpore il fatto che una squadra navale nemica tanto
consistente sia potuta giungere indisturbata fin sotto le coste della Liguria.
Il tiro delle batterie costiere italiane danneggia seriamente un
cacciatorpediniere francese, l’Albatros.
Né l’Iride né gli altri sommergibili
usciti in mare (lo Sciré, partito
anch’esso da La Spezia, più Neghelli
e Veniero che si trovano già in mare)
riescono ad intercettare le unità francesi.
Curiosa
coincidenza, uno dei quattro sommergibili francesi inviati nelle acque di
Savona è l’Iris, quasi omonimo dell’Iride (Iris è l’equivalente francese di Iride, e lo stesso Iride
si sarebbe dovuto chiamare Iris,
prima che si decidesse di italianizzarne il nome durante la costruzione).
Conclusosi
l’attacco francese, l’Iride viene
inviato in agguato al largo di Tolone.
19 giugno 1940
Non
avendo avvistato navi nemiche, l’Iride
rientra a La Spezia, così concludendo la sua prima missione di guerra.
(da www.poetsgulf.it) |
23 giugno 1940
Al
comando del tenente di vascello Francesco Brunetti, l’Iride viene inviato in agguato nel Golfo del Leone, per insidiare
il traffico marittimo tra la Francia meridionale ed il Nordafrica francese. Avvistato
un piroscafo armato con rotta verso Marsiglia, il sommergibile lo attacca col
lancio di due siluri, ma nessuno dei due va a segno.
Le
ostilità con la Francia giungeranno al termine il 24 giugno, con la firma
dell’armistizio di Villa Incisa.
10-11 luglio 1940
Inviato
in agguato a nordovest dell’Asinara in occasione dell’uscita da Gibilterra
della Forza H britannica ("I sommergibili italiani 1940-1943" afferma
che questa uscita sarebbe stata condotta per attaccare la flotta francese a
Mers-el-Kebir, ma per la verità tale attacco ebbe luogo il 3 luglio 1940).
13 luglio 1940
Il
capo di Stato Maggiore della Marina, ammiraglio Domenico Cavagnari, invia al
Comando in Capo della Squadra Sommergibili un telegramma con cui ordina che l’Iride venga sottoposto a lavori di
modifica per adattarlo al trasporto di siluri a lenta corsa (SLC, noti anche
come “maiali”) in vista dell’operazione «G.A.» contro Alessandria.
Passato
alle dipendenze dello Stato Maggiore della Marina (Supermarina) ed assegnato
alla I Flottiglia MAS, l’Iride viene pertanto
sottoposto a La Spezia a lavori di modifica per essere utilizzato come mezzo
“avvicinatore” per il trasporto di siluri a lenta corsa fin nei pressi delle
basi navali nemiche.
Varie
fonti affermano che a questo scopo sarebbe stato rimosso il cannone di coperta
da 100/47 mm, come fatto sui successivi sommergibili “avvicinatori”, ma ciò è
erroneo: in realtà, l’Iride manterrà
il suo cannone fino all’affondamento. Parimenti sbagliata è l’affermazione,
talvolta presente in qualche sito Internet, secondo cui l’Iride sarebbe stato dotato di cilindri stagni pressurizzati per il
trasporto degli SLC (poi adottati sui successivi sommergibili “avvicinatori”):
in realtà, vengono solamente installate in coperta quattro “selle”, due a
proravia e due a poppavia della torretta, sulle quali gli SLC devono essere
posizionati e poi imbragati. I lavori di modifica sarebbero stati completati a
inizio agosto 1940.
L’Iride diventa così il primo sommergibile
“avvicinatore” di siluri a lenta corsa ad essere impiegato dalla I Flottiglia
MAS (in precedenza un altro sommergibile, l’Ametista, era stato modificato per
trasportare gli SLC, ma il suo impiego era stato limitato alle prime prove ed
all’addestramento, mentre l’Iride
sarà il primo a partecipare ad una missione).
Operazione «G. A. 1»
Alle
undici del mattino del 12 agosto 1940 l’Iride,
al comando del tenente di vascello Francesco Brunetti, salpò da La Spezia alla
volta del Golfo di Bomba, in Cirenaica. Il sommergibile era stato scelto per
essere impiegato come “avvicinatore” nella prima operazione d’assalto contro un
porto nemico organizzata dalla I Flottiglia MAS (meglio nota con il nome di X
Flottiglia MAS, che assunse però solo nel marzo 1941), il celeberrimo reparto
della Regia Marina specializzato nell’impiego dei mezzi d’assalto e nelle
operazioni insidiose contro le basi navali nemiche: l’operazione «G. A. 1», il
forzamento di Alessandria d’Egitto.
Già
nella seconda metà di luglio l’ammiraglio Raffaele De Courten, all’epoca responsabile
dell’Ispettorato Armi Navali ed anche dei mezzi d’assalto, aveva annunciato
agli uomini della I Flottiglia MAS, durante una visita al loro centro
addestrativo di Bocca di Serchio, che era stato deciso di sferrare un attacco
dei mezzi d’assalto contro la Mediterranean Fleet britannica, non essendo stato
finallora possibile indebolirla con mezzi aeronavali “convenzionali”; il 10
agosto era giunto l’ordine numero 2930 di Supermarina (il Comando in capo della
Marina italiana, retto dall’ammiraglio Domenico Cavagnari) con i dettagli
dell’operazione, inviato al comandante Giorgini, con messaggio "Segreto – riservato alla persona".
L’ordine
d’operazioni, firmato dall’ammiraglio Cavagnari, era estremamente dettagliato:
«Trasferimento del Sommergibile “Iride”
da La Spezia a Menelao: il Sommergibile Iride partirà da La Spezia
il giorno 12 agosto, nelle ore antimeridiane, dirigendo per rotte costiere a
Messina, in modo da giungervi nella giornata del 14 agosto (mg. 600 circa); a
Messina dovrà rifornirsi al completo di acqua e nafta e rimanere fino
all’ordine telegrafico (trasmesso tramite Marina Messina) « proseguite missione
ore x », col quale verrà precisata l’ora di partenza per Menelao. Verosimilmente,
la partenza dell’Iride da Messina avrà luogo il giorno 16 agosto. Qualora nel
telegramma non venga data nessuna indicazione di rotta, si intende che il
Sommergibile dirigerà da Messina a Menelao (mg. 540) seguendo il percorso
Messina - Ras Aamer (estremità nord della cirenaica). La traversata
Messina-Menelao sarà fatta con navigazione occulta nelle zone prescritte da
MaricoSom, regolandola in modo da arrivare a Menelao nella mattina del 21
agosto. Trasferimento della silurante di appoggio da La Spezia a Menelao: la
silurante di appoggio di cui sarà precisato il nome, dovrà dislocarsi nel
pomeriggio del 16 agosto nel punto del Golfo di La Spezia stabilito per
effettuare durante la notte l’imbarco del personale e del materiale per la
missione. Sulla silurante prenderà imbarco il capitano di fregata Giorgini, al
quale è affidata la direzione della missione. Nelle prime ore del mattino del
17 agosto, la silurante partirà da La Spezia per Trapani seguendo rotte
dirette su massimi fondali lungo il percorso W Capraia — W Elba — E Corsica —
Trapani (mg. 410), regolando la velocità in modo da giungere a Trapani nel
pomeriggio del 18 agosto. A Trapani la silurante completerà i rifornimenti di
nafta e acqua, proseguendo subito per Tripoli (mg. 310) secondo il percorso
Trapani-Pantelleria-Kerkeflah-Tripoli (rotte costiere) richiedendo a Marina
Trapani le necessarie indicazioni sulla posizione delle zone pericolose,
regolando la velocità in modo da compiere in ore notturne il transito nella
zona Pantelleria-Kerkenah e da giungere a Tripoli nella giornata del 19
agosto. Sosta a Menelao: a Menelao sono stati predisposti due punti di ormeggio
(probabilmente boe) uno nell’ancoraggio di Menelao ed uno nella zona a ridosso
dell’isola di Machareb. J..a silurante si ormeggerà nel punto più adatto in
relazione alle condizioni metereologiche; il sommergibile si affiancherà di
massima alla silurarnte, trasbordando subito da questa i materiali. Dato il
periodo di plenilunio, sia tenuta presente l’opportunità di tonneggiarsi con
ancorotto di poppa per cautelare opportunamente le unità da attacchi di
aerosiluranti. Durante la sosta a Menelao, il sommergibile e la silurante dovranno
essere riforniti di acqua (circa 60 tonn.); in ogni eventualità, il
sommergiblle si completerà dalla silurante (fabbisogno circa 5 tonn.), la quale
si recherà poi a Tobruch per rifornirsi. Esecuzione della missione «G. A. »: salvo
contrordini, l’Iride partirà da Menelao all’alba del 23 agosto per
eseguire la missione ordinata, secondo le disposizioni particolari consegnate
al capitano di fregata Giorgini. Eventuale rientro del sommergi bile a Menelao:
nell’eventualità che il sommergibile debba rientrare per avaria o per altra
ragione, senza avere effettuato la missione, esso dirigerà a Menelao, dove
riceverà ordini per la sua ulteriore dislocazione. Qualora invece la missione
sia interrotta per ordine di Supermarina, sarà precisata la località di rientro
del sommergibile. Esplorazione aeree: Durante i trasferimenti sopra indicati e
durante la sosta a Menelao, a cura dei comandi Marina interessati saranno
effettuate ricognizioni aero-marittime intese a garantire la sicurezza delle
unità navali. Comunicazioni: Per le comunicazioni durante i trasferimenti di
cui ai parafrafi i 1° e 2° attenersi alle norme in vigore limitando le
trasmissioni r. t. a quelle assolutamente indispensabili. Le comunicazioni
durante la sosta a Menelao (par. 3°) siano fatte via filo Maina Tobruch. Per le
comunicazioni con il sommergibile durani la missione (par. 4° e 5°) saranno
emanate disposizioni nell’ord ne particolare per la missione stessa. 1) Scelta
della notte nella quale compiere l'operazione. In relazione alla necessità che
l'operazione di fuoruscita del personale del sommergibile abbia luogo in ore
senza luna/e che invece l'avvicinamento ai bersagli si effettui con luce
lunare, si stabilisce che l'operazione sia compiuta in una delle notti dello
ultimo quarto, e più precisamente entro i limiti estremi delle seguenti
giornate: 26 agosto: Ora locale Tramonto sole 18h 30m 4 ore circa di oscurità. Ora
locale Sorgere luna 23h 4m - 6 ore circa di luce lunare. Ora locale Sorgere
sole 5h 33m. 29 agosto: Ora locale Tramonto sole 18h 27m 5 ore e 30' di
oscurità. Ora locale Sorgere luna 1h 28m 4 ore circa di luce lunare. Ora locale
Sorgere sole 5h 35m. Durata del crepuscolo circa 1h 20m. In conseguenza si
stabilisce che l'operazione venga di massima effettuata nella notte fra il 26 e
il 27 agosto, prevedendo la possibilità, qualora si presentino cause impreviste
di ritardo (derivanti o da questioni inerenti alla condotta della missione da
parte del sommergibile o da movimenti delle forze navali inglesi dislocate ad
Alessandria), di compierla fino al limite massimo della notte fra il 29 ed il
30 agosto. Se il ritardo dovesse oltrepassare questo limite, l'operazione dovrà
essere interrotta e rinviata ad altra epoca. 2) Apparecchi da imbarcare sul
sommergibile e loro armamenti. Sull'Iride saranno imbarcati a Menelao,
fissandoli sulla coperta, i quattro apparecchi trasportati dalla silurante. Gli
apparecchi saranno armati come segue: apparecchio n. 1: tenente di vascello
Gino Birindelli 2° capo palombaro Damos Paccagnini. apparecchio n. 2: tenente
di vascello Alberto Franzini sergente palombaro Giovanni Lazzaroni. apparecchio
n. 3: capitano g.n. Teseo Tesei sergente palombaro Alcide Pedretti. apparecchio
n. 4: capitano g.n. Elios Toschi 2° capo palombaro Enrico Lazzari. Sull'Iride
prenderanno imbarco, oltre il personale sopramenzionato, anche le seguenti
persone: capitano di fregata Mario Giorgini — Capo della missione,
sottotenente di vascello e. Luigi de la Penne — riserva, operaio
elcttricista Pietro Biradelli (Marisub-La Spezia). 3) Rotte di trasferimento
del sommergibile da Menelao al punto di fuoruscita e ritorno. L'Iride, partendo
da Menelao all'alba del 23 agosto, dirigerà al punto di fuoruscita, effettuando
sempre navigazione occulta e seguendo i percorsi sottoindicati: a)
Menelao=punto D (lat. 41° 18',3 — long. 19° 07') rag. 350 (mg. 100 per Rv =
67°; mg. 200 per Rv= 106"; mg. 50 per Rv = 155°); cool.gif Punto D = Punto
C (lat. 41° 03',8 — long. 1-9° 23',6) mg. 20; e) Punto C= punto B (lat. 41° 09'
— long. 19° 33',6) mg.10; d) Punto B= Punto A (lat. 41°08'8 — long. 19° 54')
mg. 10; L'Iride regolerà la navigazione in modo da trovarsi sul punto D alle 4h
30m del 26 agosto e sul punto A alle 22h dello stesso giorno. Controllerà la
propria posizione con osservazione astronomica sul punto D e successivamente,
regolandosi sullo scandaglio ed eventualmente col periscopio, sui punti C (14h)
e B (18h): dovrà essere usata la massima prudenza nell'uso del periscopio,
specie se le condizioni del mare siano tali da presupporre una buona visibilità
dall'alto sul fondo chiaro del mare. La navigazione'subacquea dal punto D al
punto A dovrà essere condotta in modo che il sommergibile, giungendo sul punto
A, abbia a disposizione circa il 50% della sua autonomia subacquea, valendosi
all'uopo dei dati sperimentali ricavati nelle prove di silenziosità e degli
accertamenti effettuati sull'autonomia subacquea. Compiuta nel punto A la
fuoruscita degli uomini ed assicuratosi della regolare partenza degli
apparecchi (tempo necessario previsto circa 30 minuti), l'Iride dirigerà per
ritornare al punto D, navigando in immersione per le prime tre ore, in superficie
per carica nelle successive due ore (se possibile) ed effettuando poi
navigazione occulta. Dal punto D farà rotta, seguendo i percorsi inversi a
quelli dell'andata e sempre con navigazione occulta, per Menelao, dove riceverà
ordini da Supermarina. 4) Rotte degli apparecchi. Lasciato il
sommergibile, gli apparecchi dovranno dirigere per entrare nel porto, seguendo
di massima le seguenti rotte: Rv = 73° per lh 15m Rv = 97° per lh (prora su Mex
High LO Rv = 60" per Oh 45m (prora su testata molo Quarantena). 5) Preparazione
degli apparecchi. Testa unica da kg. 225 di tritolite con sacco di adesione.
Spolette a tempo graduate per una durata di due ore; potrà variarsi la
graduazione sul posto, qualora ciò sia consigliato dalle constatazioni fatte
sul luogo. Spolette a tempo per la carica di distruzione degli apparecchi pure
graduate a due ore. Qualora occorra distruggere un apparecchio prima di portare
a termine la missione, ciò sarà fatto regolando le spolette a dieci ore di
durata. 6) Precedenza bersagli. Corazzate e nave portaerei = bacino
galleggiante = Incrociatori. L'assegnazione particolare dei bersagli sarà fatta
dal capitano di fregata Giorgirii in relazione alle ultime fotografie, delle
quali potrà avere comunicazione a Menelao a cura dell'ammiraglio Brivonesi,
Comandante Superiore in Libia. 7) Norme relative agli equipaggi degli
apparecchi. I componenti gli equipaggi degli apparecchi porteranno, sotto la
tenuta di gomma da sommozzatore, la tenuta di lavoro regolamentare (tuta) con
galloni in cotone: saranno disarmati. Dovranno essere muniti della tessera regolamentare
di riconoscimento. Cercheranno di distruggere l'apparecchio in prossimità di
una delle navi da guerra francesi, a bordo della quale saliranno
successivamente. Dichiareranno in ogni caso di essere ufficiali della Marina
italiana in servizio effettivo permanente, rifiutando di rispondere a domande
circa l'azione compiuta. 8) Ricognizioni aree sulla base nemica. A partire
dal mattino del giorno 20 saranno disposte a cura di Supermarina ricognizioni
aeree giornaliere sulla base nemica, intese a dare tutte le notizie riguardanti
la presenza e la disposizione all'ormeggio delle navi in porto. Tali notizie
saranno comunicate al capitano di fregata Giorgini a cura di Marilibia-Bengasi
finché il sommergibile sarà a Menelao: successivamente a cura di Supermarina,
durante la navigazione da Menelao al punto di fuoruscita. 9) Comunicazioni.
Le norme relative al servizio delle comunicazioni saranno ispirate al codice
speciale G che sarà impiegato durante la missione dalla partenza del
sommergibile da Menelao fino al suo ritorno colà. 10) Documenti segreti. L'Iride
non dovrà portare con sé, nel corso della missione da Menelao, nessun documento
segreto, all'infuori di quelli relativi alle comunicazioni di cui al paragrafo
9" del presente ordine. 11) Piano ormeggi. Il piano degli ormeggi
nella base nemica, al quale sarà fatta riferimento nelle eventuali
comunicazioni al sommergibile da parte di Supermarina, è quello all'allegato 2».
«G.
A. 1» avrebbe rappresentato il “battesimo del fuoco” per la futura X MAS, che
non aveva potuto intervenire subito dopo lo scoppio della guerra perché non
ancora operativamente pronta: Junio Valerio Borghese, poi divenuto comandante
della X Flottiglia MAS, in uno dei suoi scritti postbellici avrebbe anzi
accusato l’ammiraglio De Courten di aver ordinato prematuramente l’attacco,
quando ancora uomini e mezzi non avevano raggiunto un adeguato grado di preparazione,
insistendo sull’esigenza strategica di indebolire la Mediterranean Fleet e
nonostante il parere contrario dell’allora comandante della I Flottiglia MAS,
capitano di fregata Mario Giorgini. Quest’ultimo, convocato a Roma per
discutere l’operazione, avrebbe dichiarato di ritenere sconsigliabile un’azione
immediata perché i mezzi non erano ancora pronti. L’addestramento del personale
aveva infatti già raggiunto un buon livello, mentre a lasciare a desiderare
erano soprattutto i “maiali”: non essendo ancora iniziata la produzione su
larga scala degli SLC perfezionati della seconda serie, si decise di usare i
prototipi che venivano impiegati per l’addestramento, per quanto fossero vecchi
e afflitti da frequenti avarie. Vennero scelti i quattro in migliori condizioni:
sottoposti ad accurata revisione all’Arsenale di La Spezia, furono pronti a
fine luglio. Vennero giudicati in stato d’efficienza "buono, ma non
perfetto", permanendo dei problemi alle pompe assetto.
Non
solo Borghese, ma anche vari storici hanno a posteriori considerato la
decisione di lanciare così presto l’operazione «G. A. 1» come prematura e
“intempestiva”: la storia ufficiale della Marina afferma che con questo attacco
insidioso, Supermarina cercava di ottenere il successo clamoroso che in due
mesi di guerra aeronavale “convenzionale” non si era ancora riusciti a
cogliere.
Alessandria,
sede della Mediterranean Fleet, avrebbe dovuto essere attaccata da quattro
«siluri a lenta corsa» (SLC, noti anche come “maiali”) trasportati fino al loro
obiettivo proprio dall’Iride: come
luogo per la preparazione della missione era stato scelto il Golfo di Bomba, 130
miglia ad ovest di Tobruk e 70 miglia ad est di Derna, dove il sommergibile
avrebbe imbarcato gli SLC, i loro operatori ed il relativo materiale subacqueo,
trasportati fin lì dalla torpediniera Calipso
(tenente di vascello Giuseppe Zambardi). Si era deciso di fare così, invece che
imbarcare i “maiali” sull’Iride
direttamente a La Spezia, per evitare che i siluri a lenta corsa potessero
rimanere danneggiati qualora il sommergibile, nel corso della lunga navigazione
di trasferimento da La Spezia alla Cirenaica, si fosse dovuto immergere ad
elevata profondità.
L’Iride, infatti, non era ancora munito
dei contenitori cilindrici pressurizzati per il trasporto degli SLC che
sarebbero poi divenuti caratteristica distintiva dei successivi sommergibili
“avvicinatori” della X MAS (Gondar, Ambra e Scirè): il metodo di trasporto utilizzato sull’Iride era molto più rudimentale, consistendo semplicemente in due
coppie di selle collocate in coperta, due a proravia della torretta e due a
poppavia, sulle quali gli SLC sarebbero stati sistemati e poi assicurati con
drizze. Questo sistema limitava la profondità massima d’immersione dell’Iride a trenta metri, pena in caso
contrario il danneggiamento degli SLC a causa della pressione (ed a questa
profondità massima si sarebbe dovuta svolgere anche la navigazione da Bomba ad
Alessandria, rendendo il sommergibile più vulnerabile all’avvistamento
dall’aria); i contenitori cilindrici adottati in seguito, invece, avrebbero
triplicato la profondità alla quale i battelli “avvicinatori” potevano scendere
senza che la pressione potesse rappresentare un problema per i “maiali”, al
sicuro dentro i loro contenitori pressurizzati. (Secondo una fonte di incerta
affidabilità, anche l’Iride avrebbe
dovuto essere dotato di tali contenitori cilindrici, ma questi non poterono
essere installati perché non erano stati completati in tempo dai cantieri di La
Spezia).
Una
volta imbarcati incursori e “maiali”, l’Iride
sarebbe dovuto partire dal Golfo di Bomba nel pomeriggio del 22 agosto,
regolando rotta e velocità in modo da giungere la sera del 25 in un punto
situato a quattro miglia dalla rete esterna posta a protezione del porto di
Alessandria dalle offese subacquee. Qui avrebbe rilasciato gli SLC.
Gli
incursori scelti per il forzamento di Alessandria erano otto, due per ciascun
“maiale”, tra i migliori della Flottiglia: i capitani del Genio Navale Teseo
Tesei ed Elios Toschi, gli inventori del "siluro a lenta corsa"; i
tenenti di vascello Gino Birindelli ed Alberto Franzini; i secondi capi
palombari Enrico Lazzari e Damos Paccagnini; i sergenti palombari Giovanni
Lazzaroni ed Alcide Pedretti. Le coppie sarebbero state così formate:
Birindelli (pilota) e Paccagnini (gregario) per il primo SLC; Franzini (pilota)
e Lazzaroni (gregario) per il secondo; Tesei (pilota) e Pedretti (gregario) per
il terzo; Toschi (pilota) e Lazzari (gregario) per il quarto. Vi era poi un
nono operatore, il sottotenente di vascello di complemento Luigi Durand de la
Penne, di riserva per il caso che uno degli altri otto fosse stato
impossibilitato a partecipare per qualche imprevisto dell’ultimo minuto; ed
infine l’elettricista Pietro Biradelli di Marisub La Spezia (altra fonte invece
menziona Biradelli come riserva, insieme a De la Penne, ma sembra probabile un
errore) e lo stesso comandante della I Flottiglia MAS, il capitano di fregata
Mario Giorgini, che avrebbe diretto personalmente l’operazione imbarcandosi
sull’Iride insieme agli incursori. Molti
di quei nomi – Tesei, Toschi, Birindelli, De la Penne, Pedretti – erano
destinati ad entrare nella leggenda della X Flottiglia MAS.
Tesei
e Toschi, quali inventori degli SLC, erano stati prescelti per l’operazione in
accordo con lo Stato Maggiore della Marina; gli altri incursori, dato che tutto
il personale della Flottiglia si era offerto volontario per l’operazione, erano
stati sorteggiati estraendo dei bigliettini con i nomi dal cappello del
comandante Giorgini.
Alcide Pedretti (USMM) |
Damos Paccagnini (da www.anaim.it) |
Elios Toschi (da www.anaim.it) |
Enrico Lazzari accanto ad uno scafandro per alte profondità, a bordo della nave salvataggio Titano (da www.hdsitalia.org) |
Gino Birindelli (USMM) |
Luigi Durand de la Penne (da www.amirel.it) |
Teseo Tesei (da www.secolo-trentino.com) |
L’attacco
ad Alessandria era previsto per la notte tra il 26 ed il 27 agosto (altre fonti
parlano invece della notte tra il 25 ed il 26), con possibilità se necessario –
ad esempio, per partenza della flotta nemica – di rinviarla al massimo fino
alla notte tra il 29 ed il 30 (dopo la quale sarebbero venute meno le
condizioni favorevoli di luce lunare); il 20 agosto il capo di Stato Maggiore
della Marina, ammiraglio Domenico Cavagnari (che aveva ordinato l’attacco
contro Alessandria), aveva informato il maresciallo Pietro Badoglio, capo di
Stato Maggiore generale, dell’operazione in corso, richiedendo una ricognizione
aerea su Alessandria. La richiesta era stata soddisfatta, e lo stesso mattino
del 20 agosto ricognitori della Regia Aeronautica avevano sorvolato il porto
egiziano, confermando che la flotta britannica vi si trovava alla fonda.
L’ordine particolare per la missione G.A.
(n. 3055 S.R.P./Sup), emanato da Supermarina il 10 agosto 1940, stabiliva che
bersagli prioritari degli SLC sarebbero dovute essere le tre corazzate e la
portaerei che avevano base ad Alessandria; bersaglio secondario,
nell’impossibilità di colpire quello primario, il grande bacino galleggiante di
Alessandria, utilizzato per i lavori sulle navi maggiori; bersaglio terziario,
gli incrociatori presenti nel porto. Veniva altresì disposto che: «I componenti degli equipaggi degli
apparecchi porteranno, sotto la tenuta di gomma da sommozzatore, la tenuta da
lavoro regolamentare (tuta) con galloni in cotone: saranno disarmati. Dovranno
essere muniti della tessera regolamentare di riconoscimento. Cercheranno di
distruggere l’apparecchio in prossimità di una delle navi da guerra francesi, a
bordo delle quali saliranno successivamente. Dichiarando in ogni caso di essere
ufficiali della marina Italiana in servizio effettivo permanente, rifiutando di
rispondere a domande circa l’azione compiuta». Gli ordini di partenza erano
stati impartiti all’Iride da
Supermarina per tramite di Marina La Spezia e del Gruppo Sommergibili di La
Spezia.
Il
Golfo di Bomba era una vasta rada aperta verso nordest, caratterizzata da due
insenature: una a nordovest e l’altra, detta baia di Menelao, a sudest. Quest’ultima
– che deve il suo nome alla tradizione secondo cui in tale baia il mitico re
omerico Menelao, di ritorno dalla guerra di Troia, sarebbe riparato dopo la
tempesta che aveva spazzato via quasi tutta la sua flotta – era l’unica delle
due ad avere fondali abbastanza profondi da consentirvi l’ingresso e l’ormeggio
di navi; la piccola isola di El Maràcheb, situata immediatamente ad est di
essa, garantiva inoltre un certo riparo dai venti e dal mare mosso. Nella parte
settentrionale del Golfo di Bomba, vicino alla foce dello Uadi et-Tmimi,
sorgeva invece un idroscalo (molto spartano: non vi erano che una baracca
adibita a mensa, alcune tende) che fungeva da base della 143a
Squadriglia da Ricognizione Marittima della Regia Aeronautica, detta anche
“Squadriglia Menelao” ed equipaggiata con gli obsoleti idrovolanti CANT Z. 501.
Poco più ad ovest dell’idroscalo esisteva una pista di terra battuta, usata per
il decollo e l’atterraggio di caccia. Le difese si limitavano ad alcune
mitragliere contraeree. Erano queste le uniche installazioni militari italiane
nel Golfo di Bomba: e per giunta, l’idroscalo era pochissimo utilizzato, perché
gli idrovolanti della 143a Squadriglia, in considerazione
dell’eccessiva esposizione della baia agli attacchi aeronavali nemici e delle
scarse possibilità di difesa, erano in realtà decentrati presso altre località,
limitando l’uso dell’idroscalo al solo rifornimento ed alla sosta di
idrovolanti in corso di trasferimento. Raramente le navi da guerra italiane si
facevano vedere in quelle acque: non solo non esisteva nessuna sorta di pontile
od attrezzatura pontuale, ma nemmeno qualche boa o corpo morto cui ormeggiarsi;
una nave che avesse voluto sostare nel golfo avrebbe dovuto dare fondo
all’ancora, ormeggio alquanto insicuro per via dell’esposizione del golfo ai
venti di primo e secondo quadrante ed alle libecciate da sudest. Assistenza,
neanche a parlarne. In compenso, proprio perché poco frequentato da unità
italiane, anche i ricognitori britannici vi si avventuravano solo
saltuariamente.
Già
durante la fase di pianificazione, qualche obiezione era stata sollevata alla
scelta del Golfo di Bomba come luogo in cui concentrare le navi destinate
all’operazione: se da una parte offriva il vantaggio di essere più vicino
all’obiettivo rispetto a Bengasi – Tobruk, porto ancor più vicino al confine
egiziano rispetto al Golfo di Bomba, fu probabilmente escluso perché
eccessivamente esposto agli attacchi aerei, anche se d’altra parte avrebbe
almeno avuto il vantaggio di una miglior difesa contraerea –, dall’altra
occorreva tenere conto che si trattava di un ancoraggio raramente usato (oltre
che pochissimo difeso contro le offese aeree: c’erano soltanto un paio di
mitragliere da 13,2 mm), e che la presenza di più navi da guerra italiane in
quel luogo, se rilevata dalla ricognizione nemica, avrebbe potuto insospettire
i britannici. Il comandante Giorgini aveva fatto presente che quel golfo della
Cirenaica risultava notevolmente esposto alle incursioni degli aerei britannici
(la pista avanzata di Sidi el Barrani distava solo 280 km, cioè poco più di
un’ora di volo per un aerosilurante Swordfish), venendo spesso sorvolato da
bombardieri e ricognitori, e che la presenza delle navi italiane in quel luogo
poco frequentato, se scoperta, avrebbe destato l’attenzione del nemico: un
attacco avrebbe potuto sorprendere le unità durante la delicata fase del
trasferimento degli SLC dalla Calipso
all’Iride, operazione che avrebbe
impegnato entrambi gli equipaggi e che, comprendendo anche le prove di assetto
del sommergibile e le prove degli SLC (dapprima in affioramento e poi a
maggiore profondità), si sarebbe dovuta giocoforza svolgere nelle ore di luce.
In
luogo di Bomba, Giorgini aveva suggerito di lanciare l’attacco da un’isola del
Dodecaneso (il che avrebbe comportato il lato negativo di una maggiore
lunghezza della navigazione di avvicinamento occulto dell’Iride verso Alessandria), ma non era stato ascoltato. Qualche fonte
afferma che anche lo stesso comandante Brunetti dell’Iride fosse poco convinto dal luogo scelto per il trasferimento
degli SLC sul suo sommergibile, ritenendolo anch’egli esposto agli attacchi
aerei (e cercando per questo di completare il trasferimento il più rapidamente
possibile, in modo da poter lasciare presto quel luogo giudicato pericoloso).
La stessa storia ufficiale della Marina, nel dopoguerra, ha riconosciuto
l’errore della scelta del Golfo di Bomba come base di partenza dell’operazione,
giudicandolo la principale causa del suo fallimento.
Secondo
qualche fonte, destava perplessità anche l’invio sul luogo del posamine
ausiliario – ex motonave mista – Monte
Gargano, nave dall’aspetto relativamente “tozzo”, con alto bordo libero e
voluminose sovrastrutture oltre che recentemente verniciata con la colorazione
grigio cenerino chiaro delle navi da guerra, che avrebbe potuto essere
avvistata più facilmente rispetto ad Iride
e Calipso: a posteriori si è detto
che la Calipso avrebbe potuto
rifornirsi di nafta a Tobruk, distante neanche 50 miglia, oppure a Bengasi
durante la navigazione di rientro, e che dunque la presenza stessa della Monte Gargano non sarebbe stata
necessaria. Franco Prosperini ed altri autori ritengono un errore l’invio a
Bomba della Monte Gargano; secondo il
libro "Il principe nero" di Alessandro Massignani e Jack Greene, fu
proprio la presenza della nave ausiliaria in quella baia deserta a preoccupare
il comandante Brunetti.
Ultima
nota dolente dell’operazione fu la totale assenza di velivoli della Regia
Aeronautica a protezione delle navi destinate a «G. A. 1» durante la sosta nel
Golfo di Bomba. L’ordine di operazione stabiliva giustamente che «Durante i trasferimenti e durante la sosta a
Menelao, a cura dei Comandi Marina interessati saranno effettuate ricognizioni
aero-marittime intese a garantire la sicurezza delle unità navali». Meglio
ancora, oltre alla sorveglianza aerea dei cieli del golfo sarebbe stato
opportuno prevedere dei pattugliamenti offensivi con aerei da caccia che
coprissero tutte le ore diurne di permanenza delle navi a Bomba. Ma ogni
proposito in tal senso rimase lettera morta: durante l’intero lasso di tempo
trascorso nel Golfo di Bomba, le navi italiane non avvistarono un singolo
velivolo italiano, né da caccia né da ricognizione.
Seguendo
le rotte costiere, l’Iride raggiunse
Messina alle 19 del 14 agosto e vi si rifornì di carburante, dopo di che rimase
in attesa dell’ordine di proseguire per la Libia, ordine che giunse alle undici
del 16 agosto con teledispaccio cifrato di Supermarina. Lasciata Messina alle
quattro di quel pomeriggio, l’Iride
seguì le rotte costiere fino a Capo Spartivento, dopo di che, alle 20.30,
accostò assumendo una rotta diretta verso il Golfo di Bomba, dove giunse la
mattina del 21 agosto 1940, andandosi ad ormeggiare nella Baia di Menelao (non
lontano da Ain el-Gazala), tra la costa e l’isola di el-Maràcheb, dove
l’Ufficio Porto di Marina Tobruk aveva appositamente predisposto tre corpi
morti. Per ordine di Supermarina, scaturito dalla segnalazione della presenza
di mine britanniche lungo le coste della Cirenaica, la rotta di avvicinamento
alla baia di Menelao aveva dovuto essere modificata: invece di seguire le rotte
costiere della Cirenaica come inizialmente prescritto (atterrando a Ras Aamer e
poi seguendo la costa fino alla baia di Menelao), il sommergibile adottò una
rotta che lo mantenesse in acque profonde a sufficienza da garantire l’assenza
di mine. Il trasferimento da Messina al Golfo di Bomba avvenne con navigazione
occulta, senza che si verificasse nulla di anomalo.
Nella
baia di Menelao l’Iride trovò anche
la Calipso, giunta da La Spezia con i
“maiali”, il materiale subacqueo e gli uomini assegnati all’operazione (che
aveva imbarcato la sera del 16 a Bocca di Serchio, il centro d’addestramento
della I Flottiglia MAS), e la nave ausiliaria Monte Gargano. Quest’ultima, partita da Bengasi il 18 agosto, era
già arrivata da qualche tempo, al pari di alcuni pescherecci requisiti, mentre
la Calipso, salpata da La Spezia il
17, arrivò quasi contemporaneamente all’Iride:
sommergibile e torpediniera giunsero entrambi nella baia tra le 8.15 e le nove
di mattina (per altra fonte, verso le dieci) del 21 agosto.
Avvistata
la Calipso già alle 6.45 del 21
agosto, a poppavia dritta, l’Iride si
avvicinò ad essa ed alle nove del mattino, per ordine di Giorgini, le si
affiancò sul lato di dritta; poco dopo, presi i primi accordi per il trasbordo
del materiale della I Flottiglia MAS, il sommergibile si spostò circa 250 metri
ad est della torpediniera, dove diede fondo. Poi, un motoveliero inviato
dall’ammiraglio Bruno Brivonesi, comandante militare marittimo della Libia,
recatosi sul posto a bordo della Monte
Gargano per sovrintendere ai preparativi, indicò ad Iride e Calipso dove si
dovevano ormeggiare; alle 11.30 l’Iride
salpò di nuovo l’ancora e si spostò nuovamente, portandosi nell’ancoraggio di
el Maracheb, dove diede fondo circa trecento metri a nord della Calipso.
Uniche
altre navi presenti nel Golfo di Bomba, ma molto più a nord, erano un
piroscafetto utilizzato per il rifornimento dell’idroscalo e dell’aeroporto di
el Tmimi (che in quel momento si trovava alla fonda) e tre motovelieri
utilizzati per trasportare a terra il carico di tale piroscafetto. Queste
piccole unità non avevano, ovviamente, niente a che fare con l’operazione «G.A.
1».
Il
mattino stesso del 21 agosto, l’Iride si
affiancò alla Calipso, e i
comandanti Brunetti dell’Iride,
Zambardi della Calipso e Giorgini
della I Flottiglia MAS si recarono con il battellino sulla Monte Gargano, dove parteciparono ad una
riunione con l’ammiraglio Brivonesi riguardante il trasferimento degli SLC
dalla Calipso all’Iride e le prove in mare per controllare
la sistemazione degli SLC sulle selle. Venne così deciso, onde permettere agli
equipaggi di Iride e Calipso di riposarsi – oltre che
per avere il tempo per concordare con il comando dell’Aeronautica della Libia
le ricognizioni da effettuare su Alessandria nei giorni seguenti, e per
informarsi sui risultati della ricognizione aerea effettuata sul porto egiziano
quella mattina (a quest’ultimo scopo, venne deciso l’immediato invio di
un’autovettura presso il quartier generale del maresciallo Rodolfo Graziani,
comandante in capo delle forze italiane in Libia: si ebbe così conferma che la
Mediterranean Fleet era in porto; per altra fonte il messaggio di conferma
arrivò direttamente da Roma) –, che tali operazioni sarebbero state eseguite il
mattino successivo. Furono concordate le modalità dell’ormeggio e del trasbordo
dei mezzi sull’Iride, e venne
stabilito che, una volta completata questa operazione, il sommergibile avrebbe
compiuto una breve uscita in mare aperto ed un’immersione a trenta metri per
verificare il funzionamento e la tenuta degli SLC.
Meno
rassicurante fu il racconto, da parte di Zambardi e Giorgini, dell’incontro
della Calipso con un sommergibile
emerso avvenuto durante la notte precedente (alle 3.15, all’altezza di Ras
Hilal, durante la navigazione da Bengasi a Bomba): loro avevano creduto che si
trattasse dell’Iride, che sapevano dover
atterrare a Ras Aamer, e per questo non l’avevano attaccato, ma Brunetti spiegò
che per ordini superiori il suo battello aveva seguito una rotta diversa da
quella inizialmente stabilita, e che pertanto l’Iride non poteva essersi trovato nella posizione in cui era stato
avvistato il sommergibile sconosciuto. La Calipso
aveva dunque incontrato, senza rendersene conto, un sommergibile britannico: anche
questo venne comunicato a Marilibia ed all’Aeronautica, affinché si provvedesse
a dargli la caccia, inviando un ufficiale della Calipso all’idroscalo di Menelao.
Terminata
la riunione, il comandante Giorgini andò di persona dapprima a Cirene e poi a
Derna, dove si accordò con il Comando Superiore dell’Aeronautica della Libia in
merito alle ricognizioni aeree da effettuare l’indomani su Alessandria per
confermare la presenza e dislocazione della flotta britannica in porto.
L’ammiraglio Bruno Brivonesi (al centro), comandante di Marilibia (da un saggio di Francesco Mattesini pubblicato sul sito della Società Italiana di Storia Militare) |
Nel
primo pomeriggio di quel 21 agosto, intanto, sei bombardieri Bristol Blenheim del
55th Squadron RAF (Franco Prosperini parla invece del 211st
Group della Desert Air Force) effettuarono un bombardamento dell’aeroporto di
Tmimi e dell’idroscalo di Menelao, non lontano dall’omonima baia. Questa
incursione non aveva niente a che fare con l’operazione «G.A. 1», ma durante il
volo di rientro alla base di Dakheila, poco dopo l’una del pomeriggio, i
bombardieri britannici notarono quell’insolita concentrazione di unità navali nel
Golfo di Bomba: tre dei Blenheim si staccarono dalla formazione e compirono un
sorvolo a distanza di el Maràcheb e delle navi italiane, senza attaccarle, per
poi virare a sinistra ed allontanarsi, riunendosi al resto della formazione.
Arrivati
alla base, gli equipaggi dei Blenheim riferirono ai loro comandi di aver
avvistato un sommergibile ed una torpediniera in quelle acque solitamente
deserte. Dato che il Golfo di Bomba non era normalmente frequentato dal
naviglio italiano, e mai prima d’ora vi erano state viste così tante navi
italiane, i comandi britannici s’insospettirono, e decisero di vederci chiaro.
I timori di Giorgini e Brunetti si erano avverati.
Alle
sette del mattino del 22 agosto un idroricognitore britannico Short Sunderland del
230th Squadron della Royal Air Force, decollato all’alba
dall’idroscalo di Port Said per condurre una ricognizione sulla baia di Menelao
al fine di verificare quanto riferito dai Blenheim, giunse sul cielo delle navi
italiane e le sorvolò lungamente, venendo fatto oggetto del rabbioso tiro delle
loro artiglierie contraeree, che non riuscirono tuttavia a colpirlo. Raccolte
tutte le informazioni necessarie, l’idrovolante si allontanò indisturbato verso
est, rientrando regolarmente alla base. Ma prima ancora di rientrare, già verso
le otto del mattino, il Sunderland convalidò per radio la notizia della
presenza di navi nella baia, anzi giunse addirittura a riferire che vi si trovassero
alla fonda cinque navi: un “cacciatorpediniere” (era la Calipso), due sommergibili (anziché uno), una nave appoggio (la Monte Gargano) ed una (inesistente) nave
cisterna (forse si trattava del piroscafetto già citato), oltre ad alcuni
motovelieri. Vennero anche comunicate dettagliate informazioni sulla posizione
di ciascuno dei bersagli.
Era
la conferma che i comandi britannici aspettavano: alle 10.38 tre aerosiluranti britannici
Fairey Swordfish, appartenenti all’824th Squadron della Fleet
Air Arm, decollarono dall’aeroporto di Sidi Barrani per attaccare le unità
presenti nella baia di Menelao.
L’824th
Squadron della Fleet Air Arm faceva normalmente parte del gruppo di volo della
portaerei HMS Eagle, ma il Comando
delle forze aeree britanniche nel Deserto Occidentale (Air Officer Commanding, Western Desert) aveva chiesto ed ottenuto
che tre dei suoi Swordfish venissero distaccati presso la base terrestre di
Maaten Bagush, un centinaio di miglia ad ovest di Alessandria e circa 200
miglia ad est di Tobruk (nonché circa 250 miglia ad est del Golfo di Bomba ed a
120 miglia dalla base principale di Dakheila), al fine di avere una squadriglia
pronta ad attaccare nel caso dell’avvistamento di naviglio italiano lungo la
costa della Cirenaica (secondo un articolo di Franco Prosperini, questa
decisione venne presa a inizio agosto dal comandante della Mediterranean Fleet,
ammiraglio Andrew Browne Cunningham, in accordo con il comandante delle forze
aeree britanniche nel Medio Oriente, maresciallo dell’aria Arthur M. Longmore,
per insidiare il traffico di cabotaggio libico italiano). Allo scopo i tre
aerei erano stati subordinati operativamente al comandante del 202nd
Group della Royal Air Force, generale di brigata aerea (Air Commodore) Raymond Collinshaw, che era anche comandante delle
forze aeree britanniche nell’Egitto e nel Deserto Occidentale e che a Maaten
Bagush aveva il suo quartier generale (in base all’accordo tra Cunningham e
Longmore, Collinshaw poteva impiegare i tre Swordfish secondo propria
discrezione).
Era
infatti proprio da Maaten Bagush che i tre Swordfish erano inizialmente
decollati, nelle prime ore del mattino del 22 agosto, su ordine del generale
Collinshaw, non appena era stato ricevuto il rapporto del Sunderland. Siccome
però questa base distava troppo dall’obiettivo, avevano fatto scalo intermedio
a Sidi Barrani (distante 150 o 180 miglia dal Golfo di Bomba) per rifornirsi di
carburante, prima di ripartire verso la loro destinazione. Anche così, avevano
dovuto montare dei serbatoi supplementari.
Dopo
il decollo da Sidi Barrani, i tre aerosiluranti si allontanarono dalla costa
per una cinquantina di miglia (per altra fonte una trentina), in modo da
attaccare dalla direzione del mare, dopo di che poi volarono parallelamente
alla costa libica fino alle 11.30 quando, giunti all’altezza del Golfo di
Bomba, virarono in direzione dell’imbocco della baia di Menelao. Il cielo era
sereno, con copertura limitata a 1/8, il mare era calmo e la visibilità
perfetta; la pressione era in lieve calo e soffiava un debole venticello da
sudest.
Alle
nove del mattino, l’Iride si era
affiancato alla Calipso per dare
inizio al trasferimento sul sommergibile degli SLC e di cinque casse con
indumenti per subacquei, autorespiratori speciali ed altro materiale subacqueo,
operazione che venne completata verso le 11.20. (Secondo una fonte, inoltre, in
questo frangente il sommergibile si rifornì di nafta, mentre l’ammiraglio
Brivonesi invitò gli uomini della I Flottiglia MAS a bordo della Monte Gargano per tenere un brindisi di
augurio al successo della loro impresa).
Il capitano
di fregata Giorgini ordinò poi al comandante Brunetti di compiere un’immersione
di due ore a 30 metri di profondità, durante la quale l’Iride avrebbe effettuato una prova di rilascio degli SLC per
verificare che tutto funzionasse a dovere e che la tenuta stagna dei “maiali”
reggesse l’immersione a trenta metri. Per compiere questa prova, vennero
trasbordati sull’Iride anche tre
degli incursori (Birindelli, Pedretti e Lazzaroni) e l’operaio
elettricista Biradelli, mentre il resto del personale della I Flottiglia MAS
avrebbe atteso il termine della prova a bordo della Monte Gargano.
Il
sommergibile mise dunque in moto il motore diesel di dritta, lasciò
l’ancoraggio ed iniziò a manovrare per allontanarsi dall’isola di El Maràcheb
e, mentre la Calipso si
riforniva di nafta dalla Monte
Gargano e poi si ormeggiava poi circa centro metri a sinistra di quest’ultima.
Prima
di immergersi a trenta metri, per compiere la prova di rilascio, era necessario
che gli SLC venissero collocati sulle apposite “selle”, nella posizione in cui
si sarebbero dovuti trovare durante la navigazione verso Alessandria, ed
opportunamente rizzati; per facilitare questa operazione, l’Iride doveva portarsi in affioramento
con il ponte di coperta circa un metro sott’acqua, così che la spinta degli SLC
avrebbe agevolato il loro spostamento. A tale scopo, l’Iride si portò su un fondale giudicato adeguato, di circa
quattordici metri, restando al contempo a ridosso della costa – a circa un
miglio e mezzo per 85° da Ras Megara, cioè al traverso di quella località –, in
modo da rimanere in acque calme (altro presupposto necessario, giacché in caso
contrario i “maiali” avrebbero potuto venire sbattuti l’uno contro l’altro e
restare danneggiati). Giunto nella posizione desiderata, il sommergibile fermò
il motore diesel ed allagò parzialmente il doppio fondo numero 1 – essendo la
cassa emersione impiegata in quel momento come serbatoio di nafta –, in modo da
far scendere la coperta circa un metro sotto la superficie del mare.
Su
tutte le navi, le vedette erano ai loro posti, le armi pronte, gli uomini ai
posti di combattimento. A bordo dell’Iride,
per maggior sicurezza contro l’eventualità di attacchi aerei, le mitragliere
contraeree non vennero smontate in preparazione dell’immersione, bensì tenute
presidiate e pronte all’uso, con i caricatori inseriti e due cassette di
munizioni in torretta. Il nostromo vigilava presso il portello della torretta,
mentre il comandante Brunetti, il tenente di vascello Birindelli e l’ufficiale
di rotta, tenente di vascello Fernando Ubaldelli, sorvegliavano il cielo dalla
plancia.
Alle
11.56 scattò l’allarme aereo: fu proprio l’Iride a
lanciarlo, avendo avvistato per primo una formazione di tre aerei che volavano con
rotta ovest a quota bassissima – trenta o quaranta metri – a circa 10° a
proravia dritta, a circa 3,5 km di distanza, provenendo dal mare. Si trattava,
naturalmente, dei tre Swordfish dell’824th Squadron.
In
quel momento il sommergibile era in affioramento, col ponte di coperta coperto
da circa un metro d’acqua; i due SLC sulle selle di prua erano già stati
sistemati e rizzati, mentre era in corso tale lavoro sui due “maiali” da
sistemare sulle selle di poppa.
La
profondità, in quel punto, era troppo scarsa per tentare un’immersione rapida:
rendendosene conto, il comandante Brunetti ordinò di armare il cannone e le
mitragliere, mettere i motori elettrici avanti tutta (quelli diesel non erano
ingranati, essendo in fase d’immersione, e non c’era tempo per ingranarli),
chiudere tutti gli sfoghi d’aria (tranne gli estremi a prua e a poppa) e
chiudere le porte stagne (secondo una fonte, venne chiusa tutta la portelleria
interna ed esterna; ma in realtà almeno il portello della torretta fu lasciato
aperto).
Gli
aerei, scesi da 30 a soli 10 metri di quota, compirono una virata a sinistra e
passarono all’attacco, avvicinandosi alle unità italiane in una formazione a "V",
con l’aereo centrale (capo formazione) in posizione leggermente arretrata
rispetto agli altri due. Lo Swordfish del capo formazione, capitano Oliver ("Ollie")
Patch dei Royal Marines (con a bordo quale navigatore il guardiamarina Gordon
J. Woodley della Royal Naval Reserve), scelse l’Iride come bersaglio; i due gregari puntarono su Calipso e Monte Gargano, e la formazione si allargò sui lati, fino a che i
tre Swordfish non furono distanziati di circa 180 metri l’uno dall’altro.
Secondo
un racconto britannico, l’Iride, al momento
dell’attacco, "sembrava intento
nella ricarica delle batterie" (non sapendo degli SLC, un pilota di
aereo poteva in effetti trarre questa impressione nel vedere un sommergibile in
affioramento) e "l’equipaggio aveva
evidentemente approfittato del suo momento in porto per rimettersi al passo con
il bucato, visto che un festone di vestiti stesi ad asciugare decorava il filo antireti
del sommergibile a prua e a poppa (…) Non
appena videro i tre aerei britannici, i marinai italiani che stavano poltrendo sul
ponte del sommergibile corsero alle loro mitragliere ed aprirono il fuoco".
Circa la biancheria stesa ad asciugare, i piloti britannici presero
probabilmente un abbaglio.
Da
bordo del suo battello, il comandante Brunetti vide i tre aerei, arrivati all’altezza
della prua dell’Iride (che al momento
dell’attacco era rivolta verso nord), accostare di 90 gradi a sinistra,
puntando proprio sulla sua unità: quando le distanze furono calate a 1500
metri, due degli Swordfish si spostarono sulla sinistra dell’Iride, ed uno sulla dritta. Brunetti si
mise personalmente al timone verticale ed accostò a sinistra, mettendo la prua
sull’aereo centrale per tentare di rendergli più difficile il lancio; intanto
ordinò di aprire il fuoco con tutte le mitragliere contro gli aerei laterali.
L’idea era di impedire all’aerosilurante centrale di lanciare efficacemente,
continuando a rivolgergli la prua, mentre il fuoco delle mitragliere avrebbe
dovuto tenere a distanza gli altri due, e magari anche colpirli.
L’Iride aprì immediatamente un rabbioso
fuoco contraereo, e lo stesso fecero Calipso
e Monte Gargano (da parte sua, il
capitano Patch zigzagò bruscamente col suo aereo per confondere la mira ai
mitraglieri italiani). Il cannone del sommergibile venne preparato anch’esso al
fuoco, ma non fece in tempo a sparare; tutto si svolse troppo in fretta perché
potesse entrare in azione. Il comandante Brunetti non toglieva gli occhi dai
tre biplani avversari, cercando di capire quale dei tre avrebbe lanciato contro
l’Iride, e tenendosi pronto a
manovrare per schivarne il siluro.
Tutto
inutile: a mezzogiorno esatto, dopo aver compiuto una lieve accostata a
sinistra per allargare il beta (l’angolo d’impatto del siluro), lo Swordfish
del capitano Patch sganciò il suo siluro da appena 270 metri di distanza (altre
fonti parlano variabilmente di 150, 200 o 400 metri), da una decina di metri di
quota, con un’angolazione di 3°-4° a proravia sinistra dell’Iride. Al contempo, gli altri due aerei
sfilarono di controbordo a circa 400 metri di distanza, volando anch’essi ad
una decina di metri, mitragliando la coperta del sommergibile italiano (a
sparare erano i navigatori, che fungevano anche da mitraglieri di coda: il
sergente Alfred Marsh ed il sottotenente di vascello Frederick Stovin-Bradford).
Non appena vide il lancio del siluro, il comandante Brunetti cercò di accostare
a sinistra per evitarlo, ma la distanza era troppo ridotta, e l’Iride troppo poco manovrabile, per
consentire una manovra efficace: dopo una brevissima corsa – Brunetti stimò che
fosse trascorsa una decina di secondi dal lancio – l’arma colpì il sommergibile
a prua, vicino alla torretta, con un beta di 0 gradi.
Spezzato
in due dall’esplosione del siluro, l’Iride
affondò di prua in pochi attimi. Il capitano Elios Toschi, che assisté da bordo
della Monte Gargano, scrisse in
seguito: "Vedemmo una grande nuvola
giallastra, poi più nulla". Dall’altra parte il tenente di vascello John
W. G. Wellham, pilota di uno degli aerosiluranti, descrisse così l’affondamento
del sommergibile nel suo rapporto: "Ci
avvicinammo al bersaglio in formazione a “V” aperta, da nordovest, ad
un’altezza di 30 piedi [9 metri]. La
prima nave che giunse a portata di tiro era un sommergibile che in apparenza
stava ricaricando le batterie in superficie, a circa 4 miglia dalla costa.
Osservai il capitano Patch prepararsi per l’attacco a quel battello, quindi mi
staccai dal resto della formazione e superai il sommergibile sul mio lato di
dritta. [Il sommergibile] stava
sparando con delle mitragliere binate, una a proravia ed una a poppavia della
torretta. Dalla dimensione dei proiettili, sembravano essere [mitragliere] da 5 pollici [12,7 mm]. Il sergente Marsh aprì il fuoco con la sua
mitragliatrice Lewis. Pochi secondi più tardi, il sommergibile saltò in aria e
rimase a galla solo una piccola parte della poppa".
Al
momento del siluramento, quattordici uomini si trovavano in coperta sull’Iride: il comandante Brunetti, altri
nove uomini dell’equipaggio (l’ufficiale di rotta Ubaldelli, il secondo capo
radiotelegrafista Michele Antinoro, il sottocapo silurista Luigi Medici, il
sottocapo cannoniere Tommaso Epifani, il marinaio cannoniere Flavio Toracca, il
sergente nocchiere Giribaldi, il sottocapo furiere Verzelletti, il silurista
Bottazzo ed il cannoniere Cozzolini) e quattro operatori della I Flottiglia MAS
(Gino Birindelli, Alcide Pedretti, Giovanni Lazzaroni e l’operaio Pietro
Biradelli). Due dei serventi del cannone, il marinaio cannoniere Toracca ed il
secondo capo radiotelegrafista Antinoro, furono uccisi dalle raffiche di
mitragliatrice sparate da uno dei due Swordfish gregari (Brunetti scrisse nel
suo rapporto che "sono stati visti
affiorare per pochi istanti alla superficie del mare e quindi affondare subito
certamente colpiti dal fuoco delle mitragliere degli aerei"), mentre
gli altri dodici uomini, tra cui Brunetti ed i quattro operatori della I
Flottiglia MAS, furono gettati in mare dall’esplosione del siluro, alcuni
feriti, altri illesi. Trentasei tra ufficiali, sottufficiali e marinai
affondarono con l’Iride.
Il
comandante Brunetti sentì l’esplosione del siluro, dopo di che si ritrovò in
mare, leggermente ferito ed interamente ricoperto di nafta. L’Iride era già scomparso, affondando di
prua: ne affiorava ancora soltanto qualche metro della poppa estrema, con ben
visibili i cappelli dei tubi lanciasiluri e parte del timone verticale, ma dopo
circa cinque minuti anche quella parte sprofondò sotto la superficie. Brunetti
e Birindelli presero subito in mano la situazione: radunarono i naufraghi
attorno a sé, chiesero se qualcuno necessitasse di aiuto, sostennero i feriti
(tra i quali vi era l’ufficiale di rotta Ubaldelli), dissero a tutti di restare
calmi in attesa dell’arrivo dei soccorsi, che sarebbero arrivati di lì a
pochissimo.
Un
marinaio dell’Iride, Gianni Tedeschi,
avrebbe ricordato così, a decenni di distanza, il momento dell’affondamento: "L’ordine di immersione rapida fu inutile,
l’aereo aveva ormai puntato il muso sul battello e sganciato il siluro che con
un tonfo impattò l’acqua. Attimi, secondi, minuti? Il siluro ci colpì a prora,
io mi trovavo a poppa, insieme agli altri fui scaraventato in mare. Frastornato
e intontito ma fortunato per essere tutto intero, vidi l’Iride andare giù.
(…) L’acqua era tiepida, il giubbotto
salvagente mi teneva a galla (…) Ci
demmo la voce e mi feci coraggio, “Qualcuno verrà…” mi dissi. E infatti fui
raccolto dalla torpediniera Calipso (…)".
Subito
dopo il siluramento dell’Iride, mentre
l’aereo del capitano Patch virava bruscamente compiendo un “giro della morte”
ed iniziando il volo di ritorno alla base, gli altri due Swordfish superarono
il sommergibile in affondamento, passandogli a dritta e a sinistra, ed
attaccarono le navi: uno dei due (pilotato dal tenente di vascello Norman Addison
Fyers Cheeseman) fu indotto dal violento fuoco contraereo della Calipso a lanciare il suo siluro da un
migliaio di metri, mancando il bersaglio (il siluro passò a poppa della Calipso e finì contro la costa);
l’altro, invece, centrò la Monte Gargano,
che si rovesciò su un fianco ed affondò rapidamente. Non vi furono vittime tra
l’equipaggio della Monte Gargano,
mentre sulla Calipso, investita dalle
schegge generate dall’esplosione del siluro che aveva colpito la vicinissima
nave ausiliaria, due uomini rimasero uccisi ed alcuni altri feriti (mentre la
nave in sé riportò solo danni leggeri). L’attacco era durato in tutto sette
minuti.
Da
parte italiana si rivendicò il grave danneggiamento, da parte della Calipso, dello Swordfish che l’aveva
attaccata, che il personale dell’aeroporto di Ain el-Gazala asserì
successivamente di aver visto precipitare in fiamme; anche i mitraglieri dell’Iride ritennero di aver colpito due
degli Swordfish, prima che il sommergibile venisse silurato. In base alle fonti
britanniche, tuttavia, risulta che nessun aereo sia andato perduto, e che
l’unico danneggiato fosse stato quello che aveva affondato la Monte Gargano, pilotato dal tenente di
vascello John Walter George Wellham (che riportò intenso ed accurato tiro
contraereo da parte della torpediniera), colpito quando era a 2740 metri di
distanza da un proiettile da 13,2 mm sparato dalla Calipso, che lo ferì ad un piede. Tutti e tre gli Swordfish
atterrarono a Sidi Barrani alle tre di quel pomeriggio, dopo un volo di
complessive 366 miglia, anche se venne poi rilevato che l’aereo del tenente di
vascello Wellham era stato reso inservibile a causa di un proiettile che lo
aveva raggiunto nell’estensione del longherone principale. Nondimeno, rileva la
storia ufficiale britannica, "questi
danni erano sorprendentemente ridotti tenendo conto del fatto che tutti e tre
gli apparecchi, quando [si trovavano] a
quattro miglia dai loro bersagli, erano scesi a 30 piedi [dieci metri] sul livello del mare ed avevano dovuto
volare attraverso uno sbarramento di fuoco contraereo da parte di cannoni,
pom-pom [mitragliere pesanti a più canne] e numerose mitragliere".
Concluso
l’attacco, unica nave ancora galleggiante era la Calipso: alle 12.06 la torpediniera, sulla quale era trasbordato il
capitano di fregata Giorgini, mollò gli ormeggi e si diresse a tutta forza verso
il punto in cui era affondato l’Iride,
giungendovi dieci minuti più tardi ed iniziando a recuperare i dodici superstiti
che annaspavano nella nafta (Brunetti, Birindelli, Ubaldelli, Lazzaroni,
Pedretti, Biradelli, Bottazzo, Cozzolini, Epifani, Giribaldi, Medici e
Verzelletti). Dopo appena un paio di minuti, tuttavia, la Calipso interruppe il salvataggio e mise nuovamente in moto in
seguito all’avvistamento – avvenuto alla distanza di circa 5 km – di un aereo
non identificato che, provenendo dal mare volando a bassa quota, si avvicinava
all’imboccatura della baia, puntando apparentemente proprio su di essa: i
cannonieri della torpediniera, comprensibilmente coi nervi ancora a fior di
pelle per l’attacco appena subito, aprirono il fuoco senza neanche tentare di
effettuare i segnali di riconoscimento, credendo che si trattasse di un altro
aereo britannico venuto a completare l’opera. Il velivolo fu colpito e si
allontanò, lasciando dietro di sé una scia di fumo: in realtà, non era britannico
ma italiano, e stava eseguendo una normale manovra di avvicinamento ad una
vicina base aerea. Per fortuna, nonostante i danni, l’aereo riuscì ad atterrare
come previsto.
Messo
in fuga l’aereo, la Calipso tornò sul
luogo dell’affondamento dell’Iride e
completò il salvataggio dei naufraghi, dopo di che lanciò un segnale nel punto
in cui l’Iride era appena affondato,
contrassegnato da nafta e bolle d’aria che continuavano a salire alla
superficie. Poi tornò all’ancoraggio di el Maracheb, dove diede fondo alle
13.20, accanto al relitto della Monte
Gargano, venendo poco dopo raggiunta da un peschereccio che aveva recuperato
l’ammiraglio Brivonesi e l’intero equipaggio della Monte Gargano, nonché gli altri incursori – tra cui Tesei, Toschi e
De la Penne – che si trovavano a bordo di quest’ultima al momento
dell’affondamento. Non vi erano state vittime tra gli uomini imbarcati sulla Monte Gargano. I naufraghi feriti
vennero trasbordati sul peschereccio per essere portati a terra.
Dato
che l’Iride era adagiato ad una
profondità piuttosto ridotta, compresa tra i sedici ed i venti metri, si pensò
che forse qualcuno dei suoi compartimenti interni poteva essere rimasto intatto
e asciutto: potevano esserci dei sopravvissuti all’interno del sommergibile. L’equipaggiamento
subacqueo – tra cui gli indispensabili autorespiratori – era però affondato con
l’Iride.
Con
l’autorizzazione dell’ammiraglio Brivonesi, il comandante Giorgini diramò le
disposizioni per organizzare i primi soccorsi: il tenente di vascello
Birindelli ed il palombaro Paccagnini si sarebbero precipitati a Tobruk via
terra, con un autoveicolo, per chiedere e prelevare materiale da palombaro e da
sommozzatore; contemporaneamente, la Calipso
si sarebbe dovuta anch’essa recare a Tobruk per prelevare autorespiratori ed
altro personale e materiale necessario alle operazioni di soccorso, del quale
si provvide tempestivamente a fare richiesta a quella base. Uno degli
incursori, il tenente di vascello Franzini, venne imbarcato sulla Calipso per sostituirne il comandante in
seconda, sottotenente di vascello Antonino La Rosa, rimasto ucciso
dall’esplosione del siluro che aveva colpito la Monte Gargano. Sul luogo dell’affondamento dell’Iride venne inviato un peschereccio (con
a rimorchio delle lance), requisito ed impiegato come dragamine ausiliario, che
ebbe il compito di fungere da battello appoggio per gli uomini della I
Flottiglia MAS i quali, nell’attesa del ritorno della Calipso, avrebbero tentato di stabilire un contatto con eventuali
superstiti intrappolati all’interno del sommergibile, immergendosi senza
autorespiratori. Il peschereccio avrebbe dovuto altresì portare aiuto a
qualsiasi superstite che fosse eventualmente riuscito ad uscire dal
sommergibile affondato. Su di esso furono imbarcati il comandante Brunetti, i
capitani Tesei e Toschi, il sottotenente di vascello Durand de la Penne ed il secondo
capo palombaro Lazzari. A partire dalle 14.30, gli incursori iniziarono ad
immergersi a più riprese sul relitto dell’Iride:
immersioni effettuate senza le attrezzature necessarie, in apnea, scendendo a
quote progressivamente più basse fino a giungere ad avvistare il relitto. Teseo
Tesei, capace di resistere senz’aria per quattro minuti, effettuò tre
immersioni in quelle condizioni prima di riuscire, finalmente, ad avvistare il
relitto.
Poi
scese sul relitto anche Elios Toschi: nella sua prima immersione, questi
constatò che l’Iride giaceva su un
fondale sabbioso ed appariva spezzato in due all’altezza della camera di
manovra e del quadrato ufficiali, tra la torretta ed il cannone; il troncone
prodiero era adagiato sul fianco sinistro con un’angolazione di 90 gradi. Dal
portello di prua l’aria sfuggiva continuamente in grande quantità, il che
indicava che l’interno si stava rapidamente allagando, senza lasciare scampo a
chiunque vi si trovasse intrappolato (ammesso che ci fosse qualcuno ancora
vivo); usciva aria anche dal portello della torretta, che fu trovato aperto, mentre
nel portello a poppa estrema la fuoriuscita di aria era molto più lenta e
contenuta. Quando i subacquei, più tardi, esplorarono la camera di manovra per
vedere se fosse possibile raggiungere la poppa passando attraversa di essa,
trovarono all’interno i corpi degli uomini che vi si trovavano al momento del
siluramento: il portello aperto aveva fatto sì che il locale si allagasse in
pochissimo tempo, ma al contempo gli uomini all’interno non avevano potuto
uscire attraverso il portello perché una cassetta di munizioni per mitragliera
si era incastrata nella scaletta tanto saldamente da rendere impossibile la sua
rimozione dal basso.
Elios Toschi in uniforme (dal libro “La mia avventura con Teseo Tesei” dello stesso Toschi) |
Venne
fissato un primo cavo di collegamento sulla prua dell’Iride, a quattordici metri di profondità, ma i colpi battuti in
corrispondenza dell’estremità prodiera della camera lancio siluri di prua
durante questa operazione rimasero senza risposta.
Teseo
Tesei, sceso a sua volta sul relitto, agganciò un gavitello alla torretta
(fissandovi con un cavo d’acciaio il grippiale che la Calipso aveva lasciato come segnale), per agevolare la discesa dei
subacquei sul relitto, e ne approfittò anche per recuperare la bandiera di
combattimento dell’Iride, rimasta a
fluttuare a mezz’acqua. Poi fu il turno di Luigi Durand de la Penne, che fece
due immersioni in apnea, seguendo il cavo del gavitello messo da Tesei. Il mare
era calmo, l’acqua molto chiara facilitava l’avvistamento del relitto da parte
dei subacquei che vi s’immergevano.
Da
Tobruk iniziarono gradualmente ad arrivare aiuti: per prima cosa un’automobile
inviata dal contrammiraglio Massimiliano Vietina, comandante del Settore Militare
Marittimo di Tobruk, con a bordo il capitano di fregata Ugo Siviero, comandante
del Gruppo Sommergibili di Tobruk, che recava dieci autorespiratori da
sommergibile, una bombola d’ossigeno ed una cassetta di attrezzi per gli
autorespiratori. Quando Birindelli raggiunse Tobruk, Vietina inizialmente lo
trattenne, poi gli consegnò materiale da palombaro, manichette per prese d'aria
e soccorso e tastiere per manovre aria con motocompressore e lo rispedì a Bomba
insieme ad un palombaro civile di Marina Tobruk, Germano Gobbi, ed al sergente
palombaro Giuseppe Morbelli. Quando giunse sul posto il primo materiale, il
comandante Giorgini s’imbarcò sul peschereccio Nuova Eleonora e si portò sulla verticale del relitto dell’Iride, arrivandovi alle 17.50.
Alle
18, finalmente muniti di autorespiratori e bombole di ossigeno, Tesei, Pedretti,
Toschi, Birindelli (lui stesso reduce dall’affondamento di poche ore prima), De
la Penne, Lazzari, Franzini e Paccagnini iniziarono ad immergersi a più riprese
sui due tronconi del relitto, battendo con dei pezzi di ferro sullo scafo in
corrispondenza di ciascun compartimento, per capire se vi fossero dei
sopravvissuti.
Germano Gobbi in tenuta da palombaro (da www.hdsitalia.org) |
Da
prua e dal centro non giunse che silenzio; ma dalla camera di lancio siluri
poppiera, alle 18.25, Tesei – immersosi con un autorespiratore di salvataggio
Davis – ottenne finalmente una risposta: colpi battuti dall’interno, contro il
lato di dritta del compartimento. C’erano davvero degli uomini ancora in vita
nell’Iride affondato: la camera di
lancio poppiera era rimasta asciutta, ed al suo interno erano intrappolati nove
uomini (le diverse versioni dell’accaduto sembrano divergere, in realtà, sul
numero di questi superstiti: altre fonti parlano di dieci o dodici uomini, ma
si ritiene qui più affidabile il numero indicato nel suo rapporto dal capitano
Toschi, e cioè nove uomini). Tesei poté anzi udire anche delle voci; risalì in
superficie e diede la notizia agli altri soccorritori, dopo di che tre degli
incursori, tra cui Toschi, ridiscesero immediatamente sul relitto e si misero
in contatto con i superstiti, battendo dei colpi contro lo scafo in
corrispondenza della camera di lancio. Subito giunsero forti colpi battuti in
risposta, e dopo pochi attimi i subacquei poterono sentire distintamente anche le
voci degli uomini intrappolati: con loro stupore, nonostante due centimetri di
acciaio e l’acqua del mare li separassero dai soccorritori, era possibile
comprendere ogni parola senza difficoltà, come se anche loro si trovassero
all’interno del compartimento.
Da
quello che i subacquei poterono capire, gli uomini all’interno del relitto
stavano discutendo tra di loro sul da farsi. Toschi ebbe l’idea di tentare di
rispondere, levandosi dalla bocca il boccaglio di gomma e lasciandolo libero all’interno
della maschera: chiamò per nome uno dei sottufficiali, e dall’interno questi
rispose prontamente. Toschi e gli altri uomini della I Flottiglia MAS iniziarono
così a parlare con i superstiti, chiedendo loro quanti fossero, quale fosse la
situazione all’interno del compartimento, e perché non tentassero di uscire
attraverso l’apposito portello di emergenza. Le risposte a queste domande non
tardarono ad arrivare.
I
nove sopravvissuti spiegarono di trovarsi quasi al buio, essendo rimaste in
funzione solamente le deboli luci di emergenza, e che l’aria all’interno del
locale era già molto viziata, non sarebbe bastata ancora per molto (secondo le
memorie di Elios Toschi, i superstiti dissero anche che c’era una leggera
contaminazione da cloro dell’aria); l’acqua all’interno del compartimento era
al di sopra del livello del pagliolo. Adiacente al locale che conteneva i
superstiti c’era una garitta per la fuoriuscita di emergenza, pensata per
permettere a superstiti intrappolati nel sommergibile affondato di uscire a due
a due, ma gli uomini dell’Iride
spiegarono ai loro soccorritori che mentre il portello per l’accesso alla
garitta era apribile, il controportello verticale per la fuoriuscita era
inutilizzabile, perché deformato dall’esplosione del siluro. Avevano già
provato ad uscire da quella parte, ma inutilmente.
L’unica,
piccola fortuna, se così si può dire, di questi uomini era che al lavoro per
salvarli c’erano alcuni dei migliori subacquei che esistessero in Italia, e
probabilmente al mondo: gli uomini della I Flottiglia MAS.
In
attesa dell’arrivo di aiuti, uno dei subacquei raccomandò agli uomini
intrappolati di stare calmi e fermi, altrimenti l’aria si sarebbe esaurita più
in fretta: “Ragazzi, cercate di dormire.
Risparmiate ossigeno”. Vennero dati anche altri consigni volti a
migliorare, per quanto possibile, la situazione degli uomini all’interno mentre
si organizzavano i soccorsi.
Arrivata
a Tobruk, la Calipso imbarcò gli
uomini e le attrezzature, poi si precipitò nuovamente nella baia di Menalao,
dove il suo arrivo permise di far procedere più speditamente i soccorsi. Occorreva
rimuovere il portello incastrato: De la Penne, immersosi con un
autorespiratore, agganciò il portello con dei cavi che vennero poi messi in
trazione dal peschereccio-dragamine, nel tentativo di scardinarlo, ma furono
invece i cavi a spezzarsi. Sopraggiunse da Tobruk un pontone di salvataggio,
con a bordo il maggiore del Genio Navale Michele Giordano – che assunse la
coordinazione dei soccorsi – ed una pompa d’aria; per prolungare la
sopravvivenza dei naufraghi, il palombaro Germano Gobbi collegò al
compartimento in cui si trovavano una manichetta, con le quali si iniziò a
pompare all’interno aria pulita. Per impedire sempre più abbondanti ingressi di
acqua nel locale, la pressione interna venne gradualmente aumentata.
Gobbi,
Morbelli, Tesei e De la Penne lavorarono alacremente per tutta la sera e la
notte per liberare il portello danneggiato dai rottami metallici che lo
bloccavano, a colpi di mazza, martello e scalpello: lavoro vieppiù estenuante
in quanto eseguito in immersione, a diciotto metri di profondità, e con la
necessità di tornare in superficie ogni venti minuti per cambiare
l’autorespiratore, la cui autonomia massima era appunto di 20 minuti.
Nonostante fosse agosto, faceva freddo a diciotto metri di profondità: i
subacquei dovevano immergersi senza le loro mute, essendo queste affondate con
l’Iride; erano quasi nudi.
Durante
la serata, alcuni degli uomini intrappolati nell’Iride iniziarono a dare segni di agitazione, che in qualche caso
sembrava ormai sfiorare l’instabilità mentale: i subacquei cercarono di
calmarli e li ammonirono a non intraprendere iniziative avventate, ma non tutti
stavano ad ascoltare. Nel corso della notte due sottufficiali, facendosi
prendere dal panico, disattesero le raccomandazioni ricevute dai soccorritori, che
li avevano avvertiti di non usare la garitta di fuoriuscita: dopo aver preso
con sé tutti gli autorespiratori Davis disponibili, i due entrarono nella
garitta e la allagarono, tentando di uscire, ma non riuscirono ad aprire il
portello, né a tornare indietro. Rimasero in trappola, annegarono nella garitta.
Toschi ed altri subacquei, che si trovavano in quel momento sul relitto,
avevano inutilmente cercato di convincerli a desistere: dopo che i due
sottufficiali furono entrati nella garitta ed ebbero iniziato ad allagarla, i
soccorritori all’esterno non ne sentirono più le voci, segno della tragedia che
si era consumata.
Dopo
una interruzione notturna imposta dal buio – tempo che non venne comunque
passato a riposare, ma a pianificare e dibattere del modo più appropriato per
salvare i naufraghi – i lavori ripresero alle sei del mattino del 23 agosto. Alle
dieci il portello incastrato era finalmente libero dai rottami e da tutte le
componenti che lo collegavano allo scafo: a questo punto, Germano Gobbi
agganciò altri cavi al portello, per ripetere il tentativo di scardinarlo
fallito il giorno precedente. Il peschereccio (altra fonte parla di un
rimorchiatore appositamente inviato sul posto, l’Egadi) tirò a tutta forza i nuovi cavi assicurati al portello, che
questa volta venne finalmente scardinato. Compiuta questa operazione, Gino
Birindelli – primo a entrare nella garitta – fu accolto da uno spettacolo
agghiacciante: i corpi dei due sottufficiali annegati la notte precedente,
rimasti all’interno della garitta.
Le
due salme furono estratte e portate in superficie da Birindelli, poi Toschi e
De la Penne dissero ai sette uomini rimasti all’interno che era giunto il
momento di uscire: a questo scopo, dovevano allagare il locale in cui si
trovavano, aprendo la porta stagna che lo metteva in comunicazione con la
garitta ed il controportello della garitta. Ma i sette marinai risposero che
non potevano uscire, perché i due sottufficiali morti durante la notte avevano
preso con sé tutte le maschere Davis presenti nel locale.
Il
tempo stringeva: i superstiti nel locale avevano iniziato a percepire delle
esalazioni di cloro, ed alcuni di essi mostravano ormai di aver perso il pieno
controllo di sé. I subacquei provarono a mettere degli autorespiratori nella
parte superiore della garitta per farli avere agli uomini intrappolati, ma non
era possibile manovrare il controportello – scardinato e fuori asse – dall’interno
per prenderli, dunque anche questo tentativo fu inutile. Ad un certo punto andò
anche in avaria il compressore col quale si stava pompando aria nel
sommergibile: fu necessario proseguire con la sola pompa a mano.
Fu
il maggiore Giordano ad avere l’idea risolutiva: creare all’interno del relitto
una pressione uniforme a quella esterna – tra 1,5 e 2 atmosfere – allagando
parzialmente il locale rimasto asciutto, e pompando al contempo aria nella
garitta e nel locale, per evitarne il completo allagamento; a questo scopo, gli
uomini all’interno dovevano aprire la valvola ed il portello interno e lasciare
che il locale si riempisse d’acqua fino a lasciare soltanto una sacca d’aria
contro il soffitto, rimanendo con le sole teste fuor d’acqua. Poi, uno ad uno,
gli uomini intrappolati sarebbero dovuti entrare nella garitta e salire in
superficie.
Era
una manovra molto rischiosa: la possibilità che l’acqua, semplicemente,
inondasse tutto il locale senza lasciare alcuna sacca d’aria, annegando tutti
quelli che vi si trovavano, era tutt’altro che remota. I subacquei esaminarono
a fondo la posizione del relitto, la sua stabilità, il suo sbandamento e la
profondità, per decidere se la manovra fosse realizzabile con un sufficiente
margine di successo. D’altra parte, non c’erano alternative. I soccorritori
spiegarono agli uomini intrappolati quello che dovevano fare: un uomo avrebbe
dovuto aprire la porta stagna della camera di lancio molto lentamente, per
evitare che l’acqua irrompesse nello scafo tutta d’un colpo, con una forza tale
da spazzare via gli uomini e magari fare anche sbandare ulteriormente il
relitto, impedendo la formazione della sacca d’aria; gli altri uomini si
sarebbero dovuti radunare in fondo al locale, dove si sarebbe formata la sacca.
Spiegarono quali posizioni avrebbero dovuto assumere, le manovre da eseguire ed
ogni altro dettaglio, cercando di essere il più convincenti ed incoraggianti
possibile. Gli uomini dentro ascoltarono in silenzio; quando i soccorritori
chiesero loro se avessero capito tutto, sottolineando che dovevano agire molto
in fretta, ci fu qualche istante di silenzio che parve interminabile, poi una
singola voce rispose "Sì, signore".
Ma queste
istruzioni, che potevano sembrare pazzesche (in fin dei conti, si trattava pur
sempre di permettere ad una cascata di acqua di riversarsi all’interno del compartimento
ed allagarlo quasi completamente), furono accolte con diffidenza e sconcerto da
quegli uomini esausti e spaventati: qualcuno si convinse che i soccorritori
volessero deliberatamente farli annegare, per liberarsi di loro. Alla fine, i
subacquei tagliarono corto, dicendo ai marinai dell’Iride che se non avessero fatto entro mezz’ora quello che veniva
loro ordinato, li avrebbero abbandonati per davvero.
Raccontò,
molti anni dopo, De la Penne: "Non
c’era verso di farli uscire: qualcuno piangeva, altri bestemmiavano,
preferivano morire all’asciutto. Così demmo loro un ultimatum: se entro venti
minuti non iniziavano a uscire, avremmo abbandonato le operazioni di
salvataggio. La torpediniera Calipso era rientrata da Tobruk con altri
autorespiratori ma io avevo seguitato a sommozzare in apnea per star vicino
all’equipaggio che sott’acqua sentivo parlare e gridare. Noi operatori eravamo
sfiniti e preoccupati per una possibile nuova possibile incursione inglese. Il
sole stava tramontando e rientrammo in acqua sulla verticale del sommergibile
che vedevamo in trasparenza sotto di noi".
Alla
fine, gli uomini intrappolati nella camera di lancio AD si persuasero a fare
come richiesto. Fu un sottocapo ad aprire il portello che collegava il locale
alla garitta, il cui orlo superiore era poco più basso dell’acqua che aveva
progressivamente allagato il locale; l’apertura del portello provocò la
fuoriuscita di una grande bolla d’aria, che salì d’improvviso in superficie,
investendo in pieno i subacquei che vi si trovavano. La garitta di fuoriuscita
venne così completamente allagata.
Poi,
i sette sopravvissuti iniziarono a risalire in apnea; gli uomini della I
Flottiglia MAS avevano loro spiegato che dovevano vuotare i polmoni prima
d’immergersi per entrare nella garitta, ed espirare lentamente via via che
salivano in superficie: l’aria nei polmoni, infatti, dilatandosi durante la
risalita per effetto della riduzione della pressione, avrebbe provocato gravi
lesioni interne, che sarebbero potute anche risultare fatali. De la Penne,
rimasto accanto al boccaporto esterno, aiutò i marinai ad uscire ed a risalire
“a pallone” veso la superficie, seguendo con le mani la sagola di guida. Tutti
riuscirono a raggiungere la superficie, dove arrivarono in maggior parte
svenuti. Uno degli ultimi a riemergere, il sottocapo silurista Luigi Santillo,
spiegò però ai soccorritori che un altro marinaio, l’elettricista ventenne
Luigi Sgariglia, era troppo spaventato per uscire, ed era rimasto all’interno
del relitto. Non sapeva nuotare, non voleva saperne di uscire: preferiva morire
lì dove si trovava. Luigi Durand de la Penne tornò allora ad immergersi sull’Iride per salvare questo ultimo
sopravvissuto: penetrato nel compartimento, dove la poca aria rimasta era ormai
quasi irrespirabile, gli diede un autorespiratore che aveva appositamente
portato con sé e cercò di convincerlo ad uscire, ma lo stato di panico dell’esausto
marinaio gli fece esaurire tutta l’aria dell’autorespiratore in pochissimo
tempo. A questo punto, De la Penne decise di privarsi del suo stesso
autorespiratore per darlo al marinaio: lui avrebbe cercato di risalire senza.
Il marinaio si diresse verso la garitta, ma al buio smarrì la strada, e poco
dopo ritornò da De la Penne dicendo che non riusciva a trovare l’uscita: l’incursore
decise allora di accompagnarlo personalmente sott’acqua fino alla porta stagna,
aiutandolo ad entrare nella garitta. Anche l’ultimo superstite dell’Iride poté così rivedere la luce del
sole. De la Penne avrebbe così raccontato questo ultimo, fortunoso salvataggio,
a decenni di distanza: "Faceva un
freddo cane e io ero stanchissimo e con poco ossigeno nel mio respiratore, ma
tant’è… Forse senza pensare che correvo il rischio di dividere la sorte di quel
mio marinaio dentro quel maledetto sarcofago d’acciaio, mi infilai a testa
un giù nel buio della garrita. Riemersi poco dopo nei pochi centimetri d’aria
che erano rimasti contro il soffitto. Vista la paura e l’estremo stato di
agitazione del giovane, gli cedetti il mio respiratore, ma anche così non riuscii
a persuaderlo a mettere la testa sott’acqua e imboccare il portello per
risalire con me. Il poveretto stava consumando anche tutto l’ossigeno che
rimaneva nella bombola. E allora persi la pazienza, ero incazzato e stanco, gli
mollai un pugno in testa e dopo avergli serrato il boccaglio tra i denti, lo
spinsi sott’acqua dentro la garitta: Vai con Dio! Era come un corpo morto… A
fatica lo spinsi su e poi lo feci uscire dal boccaporto di coperta tirandolo
per i capelli. I polmoni mi scoppiavano, ma tirandomi su con forza attaccato
alla sagola riuscii a fargli superare quella decina di metri fino in superficie".
(Questo in un racconto fatto a molti anni di distanza, mentre nel rapporto
dell’epoca – probabilmente più affidabile, essendo i suoi ricordi più freschi –
De la Penne scrisse di aver accompagnato Sgariglia fino alla garitta e di
averlo fatto entrare, dopo di che il marinaio salì in superficie da solo; De la
Penne rientrò nella camera di lancio per prendere il respiro prima di tentare
la risalita – essendo rimasto privo di respiratore, sarebbe dovuto risalire in
apnea – ed attendere qualche minuto per essere certo che la garitta fosse
vuota. Solo a questo punto nuotò nuovamente sott’acqua fino alla porta stagna,
entrò con qualche difficoltà nella garitta e risalì in superficie, da solo e
per ultimo, quando ormai i compagni sul peschereccio-battello appoggio già
iniziavano a temere che il suo atto di generosità gli fosse costato la vita).
Dei
sette uomini che erano risaliti in superficie, due morirono poco dopo per
embolia traumatica ed emorragia interna, nonostante i tentativi di respirazione
artificiale praticati dai subacquei e gli sforzi dei medici per salvarli
(questo secondo le fonti più affidabili; qualche altra fonte parla di otto
superstiti che avrebbero raggiunto la superficie, dei quali due oppure tre
sarebbero morti).
Furono
dunque cinque gli uomini salvati dal relitto dell’Iride grazie agli sforzi dei soccorritori; contando anche quelli
che erano in coperta al momento dell’attacco, e che erano stati gettati in
mare, erano sopravvissuti 13 uomini dell’equipaggio, tra cui due ufficiali, mentre
in 33 avevano perso la vita: tre ufficiali (tra cui il comandante in seconda
Agostino Angeloni ed il direttore di macchina Diego Mistruzzi), sei sottufficiali
e 24 tra sottocapi e marinai.
Le vittime tra l’equipaggio
dell’Iride:
Agostino Angeloni, tenente di
vascello (comandante in seconda), da Genova (disperso)
Michele Antinoro, secondo
capo radiotelegrafista, da Castelvetrano (deceduto)
Leone Bagnariol, sottocapo
segnalatore, da Chions (disperso)
Roberto Battelli, sottocapo
motorista, da Torino (disperso)
Ernesto Cambiaghi, marinaio
fuochista, da Cologno Monzese (disperso)
Giovanni Capella, marinaio
elettricista, da Venasca (disperso)
Ugo Cislaghi, sottocapo
radiotelegrafista, da Milano (deceduto)
Sergio Conte, sottocapo
motorista, da Genova (deceduto)
Mario Dalle Piane, sottocapo
radiotelegrafista, da Milano (disperso)
Vitantonio De Gregorio,
secondo capo meccanico, da Grottaglie (deceduto)
Luigi Devoto, capo meccanico
di prima classe, da Sarzana (disperso)
Ciro Esposito, marinaio
fuochista, da Napoli (disperso)
Fernando Fantoni, sottocapo
fuochista, da Ancona (disperso)
Gerardo Gaborin, marinaio
silurista, da Rosà (deceduto)
Michele Lazzaro, marinaio, da
Vittoria (disperso)
Ettore Lorenzi, marinaio
elettricista, da Genova (deceduto)
Federico Maddoli, capo
segnalatore di terza classe, da Perugia (disperso)
Diego Mistruzzi, tenente del
Genio Navale (direttore di macchina), da Udine (disperso)
Pericle Pavesi, marinaio
radiotelegrafista, da Viadana (disperso)
Gennaro Prisco, marinaio
elettricista, da Napoli (disperso)
Giuseppe Putignano, capo
elettricista di seconda classe, da Casoria (deceduto)
Attilio Quaglia, marinaio
silurista, da Bareggio (disperso)
Giuseppe Riggio, secondo capo
silurista, da Palermo (disperso)
Ferruccio Riva, secondo capo
meccanico, da Brasiliano (disperso)
Attilio Ronchetti, marinaio
motorista, da Lipomo (disperso)
Alfio Sgariglia, sottocapo
elettricista, da Lapedona (deceduto)
Alfonso Sollecito, marinaio,
da Siracusa (disperso)
Remo Spatola, marinaio
silurista, da Bisaccia (disperso)
Ernesto Tesoriero, marinaio,
da Lipari (disperso)
Flavio Toracca, marinaio
cannoniere, da La Spezia (disperso)
Alessandro Troise, marinaio,
da Napoli (disperso)
Pasquale Versace, sergente
furiere, da Verruzzano (deceduto)
Pietro Vicari, sottotenente
di vascello, da Palermo (disperso)
(*) Alcuni elenchi
dei caduti dell’Iride, presenti su Internet, elencano tra le vittime anche il
capo di seconda classe Luigi Epifani ed il sottocapo Ersilio Lazzari. Epifani,
tuttavia, risulterebbe in realtà essere scomparso in Atlantico nel maggio 1943
nell’affondamento del sommergibile Leonardo Da Vinci, mentre l’Albo dei caduti
e dispersi della Marina Militare nella seconda guerra mondiale non contiene il
nome di Ersilio Lazzari (vi figura invece un sottocapo dal nome di Egidio
Lazzari, che risulta deceduto il 9 febbraio 1943 nell’affondamento del
sommergibile Malachite).
Il capo elettricista Giuseppe Putignano, morto sull’Iride (g.c. Giovanni Pinna) |
Tra
i cinque uomini soccorsi dalla camera di lancio poppiera e sopravvissuti alla
risalita vi erano il sottocapo silurista Luigi Santillo ed il secondo capo
elettricista Vittorio Vaccà. Non è stato finora possibile rintracciare i nomi
degli altri tre sopravvissuti, né quelli di coloro che morirono dopo la risalita.
L’Albo d’Oro dei caduti e dispersi della Marina Militare nella seconda guerra
mondiale elenca il sottocapo motorista Sergio Conte, il secondo capo meccanico
Vitantonio De Gregorio ed il marinaio silurista Gerardo Gaborin come deceduti
il 23 agosto 1940, mentre per gli altri trenta caduti e dispersi dell’Iride la data di morte è indicata come
il 22 agosto: ciò potrebbe significare che furono questi tre uomini a non
sopravvivere alla risalita. Non è del tutto chiara la sorte dell’elettricista
Luigi Sgariglia, salvato da Durand de la Penne: tra le vittime dell’Iride compare infatti il nome del
sottocapo elettricista Alfio Sgariglia, di 20 anni. Il cognome, l’età e la
specialità coincidono con quelle del marinaio salvato da De la Penne, mentre
differiscono il nome e la provenienza (Alfio Sgariglia era originario di
Lapedona nelle Marche, mentre Luigi Sgariglia viene menzionato come
“napoletano”).
Completato
il salvataggio dei superstiti, i soccorritori poterono finalmente avere un
momento di respiro. Dopo aver trascorso una notte a riposare a Derna, il mattino
del 24 agosto gli uomini della I Flottiglia MAS s’immersero per un’ultima volta
sul relitto dell’Iride, al fine di
recuperare i quattro siluri a lenta corsa. Il mare adesso era peggiorato, ma
non a tal punto da impedire il recupero: i quattro “maiali”, danneggiati ma
riparabili, vennero tutti riportati in superficie, rimorchiati a terra e poi
imbarcati sulla Calipso, giunta da
Bengasi dove si era recata dopo il salvataggio dei sopravvissuti. Vennero recuperate
anche le mitragliere del sommergibile, ancora utilizzabili; poi si procedé a
sigillare i portelli del relitto, affinché nessuno violasse quella che era
diventata la tomba di 27 uomini.
Lo
stesso 24 agosto la Calipso, con a
bordo il materiale recuperato, i sopravvissuti dell’Iride e gli uomini della I Flottiglia MAS, lasciò per sempre il
Golfo di Bomba e fece rotta per Tripoli, dove compì una breve sosta per poi
proseguire alla volta di La Spezia, dove vennero sbarcati incursori e SLC. Il
primo tentativo di attaccare la Mediterranean Fleet nel suo “covo” era così
finito in tragedia.
Per
il loro ruolo nei soccorsi agli uomini intrappolati nel relitto dell’Iride, vennero decorati con la Medaglia
d’Argento al Valor Militare il capitano del Genio Navale Teseo Tesei (che fu
inoltre promosso a maggiore), il cui lavoro ininterrotto per ventiquattr’ore,
con continue immersioni per portare soccorso agli uomini intrappolati, finì
coll’incidere negativamente sulla sua salute; il tenente di vascello Gino
Birindelli, che si era immerso cinque volte consecutive per riportare in
superficie uno dei marinai intrappolati; il tenente di vascello Luigi Durand de
la Penne (che inoltre, da ufficiale di complemento, venne passato in servizio
permanente effettivo); il capitano del Genio Navale Elios Toschi; il tenente di
vascello Alberto Franzini; il secondo capo palombaro Damos Paccagnini. I
sergenti palombari Alcide Pedretti, Damos Paccagnini e Giuseppe Morbelli ricevettero
la Medaglia di Bronzo al Valor Militare. Il palombaro civile Germano Gobbi
venne anch’egli decorato con la Medaglia di Bronzo al Valor Militare (quello di
palombaro era un mestiere pericoloso, in guerra come in pace: pochi mesi dopo
il salvataggio dei naufraghi dell’Iride,
Gobbi dovette rientrare in Italia perché colpito da una grave embolia;
ripresosi e tornato a lavorare, sarebbe morto tragicamente nel 1949, in un
incidente durante la demolizione del relitto di un cacciatorpediniere affondato
nelle acque di Anzio).
Il
capitano di fregata Ugo Siviero, il maggiore del Genio Navale Michele Giordano,
il primo capitano del Genio Navale Alessandro Ricci ed il sottotenente medico
Dario Dell’Amore furono decorati con la Croce di Guerra al Valor Militare per
il loro contributo nelle operazioni di soccorso.
Anche
il sottocapo silurista Luigi Santillo ed il secondo capo elettricista Vittorio
Vaccà, due dei cinque sopravvissuti della camera di lancio poppiera dell’Iride, vennero decorati con la Medaglia
di Bronzo al Valor Militare per il contegno mantenuto nelle 26 ore trascorse
nella “bara di ferro” adagiata in fondo al mare: mantenendo calma e sangue
freddo, avevano tranquillizzato e incoraggiato i compagni ed eseguito con
capacità e diligenza le manovre ordinate dai soccorritori per l’allagamento del
compartimento, così contribuendo alla salvezza di tutti. (Dopo l’affondamento
dell’Iride, il capo elettricista Vittorio
Vaccà fu assegnato a compiti addestrativi sui vecchi sommergibili tipo H fino
al 1942, quando fu trasferito in Mar Nero, dove fu imbarcato sui sommergibili
tascabili tipo CB; tornato in Italia nella primavera del 1943, dopo
l’armistizio aderì alla Repubblica Sociale Italiana, entrando nel reparto mezzi
d’assalto della X Flottiglia MAS di Junio Valerio Borghese, il vecchio
comandante dell’Iride, sotto il quale
aveva forse avuto già modo di prestare servizio alla fine degli anni Trenta.
Capo Vaccà sopravvisse alla guerra e continuò a navigare anche in tempo di
pace, come marittimo della Maria Mercantile; rimasto tra gli ultimi superstiti
dell’Iride, morì nel 1995, all’età di
86 anni).
Il
comandante Brunetti ricevette la Medaglia d’Argento al Valor Militare per il
suo comportamento durante l’attacco, dopo l’affondamento e durante i soccorsi;
analoga decorazione fu conferita all’ufficiale di rotta Fernando Ubaldelli,
mentre il sottocapo silurista Luigi Medici, l’operaio elettricista Pietro
Biradelli (della I Flottiglia MAS) ed il sottocapo cannoniere Tommaso Epifani
furono decorati, per il comportamento tenuto durante l’attacco aereo, con la
Medaglia di Bronzo al Valor Militare.
Tra
i caduti dell’Iride, furono decorati
di Medaglia d’Argento al Valor Militare, alla memoria, il comandante in seconda
tenente di vascello Agostino Angeloni ed il direttore di macchina tenente del
Genio Navale Diego Mistruzzi, mentre la Medaglia di Bronzo al Valor Militare fu
decretata alla memoria del sottotenente di vascello Pietro Vicari e del capo
meccanico di prima classe Luigi Devoto.
Per
aver affondato l’Iride, il capitano
Oliver Patch venne insignito del Distinguished Service Order, mentre il suo
navigatore, Gordon Woodley, venne decorato con la Distinguished Service Cross.
Analoga decorazione fu conferita anche a Wellham, Cheeseman ed al navigatore di
Cheeseman, sottotenente di vascello Frederick Stovin-Bradford, mentre il sergente
Alfred Marsh, navigatore di Wellham, ricevette la Distinguished Service Medal. Patch,
che come Wellham partecipò anche al famoso attacco contro Taranto dell’11-12
novembre 1940, sarebbe sopravvissuto alla guerra, ed avrebbe in seguito
incontrato anche due superstiti dell’Iride:
solo allora scoprì dal loro racconto ("È
stata una fortuna per i vostri che lei abbia affondato il nostro sommergibile:
altrimenti avremmo probabilmente affondato tutte le vostre corazzate")
il vero scopo della presenza dell’Iride
nel Golfo di Bomba, e l’entità della minaccia contro la Mediterranean Fleet che
aveva inconsapevolmente sventato.
Il
successo di questo attacco, così come di altre incursioni di Swordfish ai danni
della base navale di Tobruk (dov’erano stati affondati o gravemente danneggiati,
in due attacchi, otto tra piroscafi e cacciatorpediniere italiani nel corso del
luglio del 1940), confermò la fiducia che l’ammiraglio Andrew Browne
Cunningham, comandante della Mediterranean Fleet, riponeva nell’aerosilurante
come strumento per attaccare la flotta nemica in porto. Cunningham definì
l’incursione sul Golfo di Bomba "brillantemente
concepita e valorosamente eseguita (…) lo
slancio, l’iniziativa e la cooperazione mostrata dalla sezione coinvolta erano
tipici dello spirito che animava le squadriglie della Fleet Air Arm della
H.M.S. Eagle sotto la stimolante guida del loro comandante".
Da
parte britannica, questo indiscutibile successo venne “amplificato” dagli
ottimistici apprezzamenti dei piloti degli Swordfish: questi si attribuirono,
infatti, l’affondamento di quattro navi con tre siluri, vale a dire ben due
sommergibili, un cacciatorpediniere ed una nave ausiliaria (in quanto due delle
navi sarebbero state ormeggiate in coppia ed affondate con un unico siluro). Il
“cacciatorpediniere” era la Calipso,
che era stata investita dall’esplosione del siluro che aveva colpito la
vicinissima Monte Gargano: vedendo
entrambe le navi scomparire nella colonna d’acqua generata dall’esplosione, i
piloti britannici avevano ritenuto che fossero affondate entrambe, mentre in
realtà la Calipso non aveva subito
che danni leggeri. Venne anche ritenuto erroneamente che un secondo
sommergibile fosse ormeggiato accanto al “cacciatorpediniere”, e che fosse
stato coinvolto nell’esplosione del siluro, affondando a sua volta (secondo
un’altra versione, i piloti affermarono che torpediniera, sommergibile e nave
appoggio fossero ormeggiati insieme, fianco contro fianco, e che entrambi i
siluri sarebbero andati a segno, "sinking
whole bloody lot"). La sovrastima dei risultati conseguiti era
comunque una “patologia” comune di un po’ tutti i piloti in quell’epoca,
italiani compresi, e ampiamente scusabile; meno comprensibile è che qualche
libro di autori britannici, come anche la riedizione della pubblicazione
ufficiale "The Royal Navy and the Mediterranean: Vol. I: September 1939 –
October 1940" a cura di David Brown, pubblicata nel 2002 (e dunque quando
era ampiamente possibile il confronto con la documentazione italiana), insista
nell’affermare che in questo attacco siano state affondate quattro unità
italiane. Il citato "The Royal Navy and the Mediterranean" arriva ad
affermare che “la ricognizione
fotografica confermò l’affondamento di tutte e quattro le unità” (il che
sarebbe stato ben difficile, dal momento che, in aggiunta al fatto che due sole
unità erano affondate, soltanto il relitto della Monte Gargano era visibile dalla superficie) e che un inesistente “rapporto radio” italiano avrebbe ammesso
“la perdita di quattro navi da guerra
causata da una preponderante forza di aerosiluranti e motosiluranti”.
Significativo il fatto che in un volume ricco di note, l’accenno a questo “rapporto radio” non sia corredato da
alcuna nota che indichi la fonte di tale affermazione e di questo comodo quanto
inesistente messaggio. Gli autori, notando come dalle fonti italiane risulti
unicamente la perdita di Iride e Monte Gargano, non sembrano per questo
prendere in considerazione la possibilità di un apprezzamento errato dei
risultati dell’attacco da parte britannica, arrivano piuttosto ad ipotizzare
che “sembra possibile… che il secondo
sommergibile ed il cacciatorpediniere siano stati successivamente recuperati”.
Un articoletto di Mark Horan, analogamente, afferma che le rivendicazioni dei
piloti sull’affondamento di quattro navi con tre siluri vennero inizialmente
accolte con diffidenza, ma che foto scattate l’indomani dalla ricognizione
confermarono che tutte le navi erano state colpite, “anche se apparentemente il cacciatorpediniere ed il sommergibile erano
soltanto incagliati”. Forse un ricognitore poco attento o troppo ottimista
avrebbe potuto scambiare la sanissima Calipso
per una nave incagliata, più difficile sarebbe stato vedere un sommergibile
incagliato quando esso non esisteva per niente. Similmente, vari siti in lingua
inglese affermano ancora oggi che Patch, Wellham e Cheeseman avrebbero
affondato quattro navi, e persino, assurdamente, che da parte italiana sarebbe
stata ammessa la perdita di due sommergibili e due navi di superficie.
La
tragedia dell’Iride non mancò di
destare critiche, all’interno di Supermarina, in merito alla pianificazione
dell’operazione: critiche che coinvolsero anche la stessa I Flottiglia MAS,
piuttosto ingiustamente, visto che il comandante Giorgini aveva giustamente
obiettato alla scelta del Golfo di Bomba come punto di partenza, ma non era
stato ascoltato e non aveva potuto fare altro che eseguire gli ordini ricevuti.
Dall’accaduto
Supermarina trasse, se non altro, la conclusione che future operazioni
d’assalto non dovevano utilizzare come base di partenza in luogo così esposto
all’osservazione aerea ed agli attacchi nemici, quale era il Golfo di Bomba. Infatti
per l’operazione «G.A. 2», il secondo tentativo di attacco contro Alessandria,
tutti gli scali intermedi vennero soppressi: il sommergibile Gondar, designato quale “avvicinatore”
per quella missione, grazie all’impiego di contenitori cilindrici pressurizzati
poté imbarcare gli SLC direttamente a La Spezia per portarli fino ad
Alessandria senza problemi legati alla profondità in immersione, così
eliminando la necessità di navi appoggio e di soste intermedie, che era
risultata fatale per l’Iride. Unico
scalo dopo la partenza da La Spezia fu Messina, dove vennero imbarcati gli
incursori della Flottiglia; poi il sommergibile puntò direttamente su
Alessandria.
Il
comando del Gondar, per quella
missione, fu affidato proprio al tenente di vascello Brunetti, l’ormai ex
comandante del perduto Iride: era
stato lui stesso a chiedere e ottenere il comando del nuovo sommergibile “avvicinatore”,
volendo portare a termine la missione iniziata per vendicare il suo battello
affondato ed i suoi uomini uccisi nel primo tentativo. Ma neanche «G.A. 2» andò
a buon fine. La Mediterranean Fleet lasciò Alessandria – per coprire l’invio a
Malta di alcune navi con rifornimenti – proprio il giorno in cui si sarebbe
dovuto svolgere l’attacco, svuotando così il porto dei bersagli prescelti; il Gondar ricevette allora ordine di
invertire la rotta e dirigere su Tobruk, ma durante la navigazione venne individuato
da forze aeronavali britanniche, bombardato con cariche di profondità sino a
subire danni irreparabili, costretto ad emergere ed autoaffondato. Il
comandante Brunetti venne fatto prigioniero, ed insieme a lui anche altri
reduci dell’operazione «G.A. 1» imbarcatisi per il secondo tentativo: Elios
Toschi, Mario Giorgini, Giovanni Lazzaroni, Alberto Franzini.
Sarebbe
trascorso ancora un anno e tre mesi prima che i “maiali” della X Flottiglia
MAS, condotti tra gli altri dal tenente di vascello Luigi Durand de la Penne (poi
decorato, per quest’azione, con la Medaglia d’Oro al Valor Militare) ed
“avvicinati” dal sommergibile Scirè
(comandato da Junio Valerio Borghese, il vecchio comandante dell’Iride dei tempi della Guerra di Spagna),
riuscissero infine a forzare la base di Alessandria, colpendovi duramente le
corazzate Queen Elizabeth e Valiant e lasciando la Mediterranean
Fleet priva di navi da battaglia per lungo tempo.
Degli
altri incursori della I Flottiglia MAS che avevano partecipato all’operazione
«G.A. 1» ed al salvataggio dei superstiti dell’Iride, Teseo Tesei e Alcide Pedretti morirono in azione il 26
luglio 1941, durante il fallito assalto contro il porto di La Valletta (Malta).
Furono entrambi decorati di Medaglia d’Oro, alla memoria.
Gino
Birindelli e Damos Paccagnini furono catturati il 30 ottobre 1940 durante un
infruttuoso attacco con gli SLC contro la base di Gibilterra; Birindelli,
anch’egli decorato di Medaglia d’Oro al Valor Militare, nel dopoguerra proseguì
la carriera in Marina fino a diventare ammiraglio di squadra, comandante in
capo della Squadra Navale italiana e comandante delle forze navali NATO nel Sud
Europa.
Enrico
Ario Lazzari venne decorato di Medaglia d’Argento al Valor Militare per aver
partecipato, l’8 maggio 1943, ad un attacco di SLC contro Gibilterra nel quale
vennero affondate tre navi mercantili. Sopravvisse alla guerra.
Secondo
alcune fonti, il relitto dell’Iride
venne ulteriormente e deliberatamente danneggiato col lancio di bombe di
profondità, in modo da renderlo del tutto irrecuperabile ad un nemico che
avesse occupato la zona. Mancano ulteriori notizie sulla sua sorte, ma sembra
probabile che i resti dello sfortunato sommergibile giacciano tutt’ora sul
fondale del Golfo di Bomba, adagiati su un fianco a 18-20 metri di profondità,
nel punto 32°10’ N e 24°30’ E.
La
bandiera di combattimento dell’Iride,
recuperata da Teseo Tesei, è oggi conservata al Sacrario delle Bandiere al
Vittoriano, a Roma.
Il cofanetto contenente la bandiera di combattimento dell’Iride, oggi conservato presso il Sacrario delle Bandiere (da www.marina.difesa.it) |
La
motivazione della Medaglia d’Argento al Valor Militare conferita ai capitani
del Genio Navale Teseo Tesei, nato a Marina di Campo (Livorno) il 3 gennaio
1909, ed Elios Toschi, nato ad Ancona il 25 aprile 1908:
"Imbarcato di passaggio sopra di una nave
appoggio attaccata col siluro e con le mitragliatrici da aerei siluranti nemici
a bassissima quota, che riuscivano ad affondare l'unità, dimostrava sprezzo del
pericolo ed ardimento. Partecipava poi alle azioni dirette al salvataggio dei
superstiti rinchiusi all'interno di un sommergibile, silurato ed affondato
nello stesso tempo, affrontando per più di 24 ore i più gravi pericoli e le più
ardue difficoltà, noncurante della propria incolumità, raggiungendo il suo intento.
Dava così prova delle più
alte e nobili virtù militari di sangue freddo, coraggio e di generoso altruismo.
(Golfo di Bomba, 22-24 agosto
1940)."
La
motivazione della Medaglia d’Argento al Valor Militare conferita al tenente di
vascello Luigi Durand de la Penne, nato a Genova l’11 febbraio 1914:
"Imbarcato di passaggio sopra una nave
appoggio, attaccata col siluro a bassissima quota da aerei nemici, che
riuscivano ad affondare l'unità dimostrava sprezzo del pericolo ed ardimento.
Partecipava poi alle operazioni di salvataggio dirette ai superstiti rinchiusi
nell'interno di un sommergibile, silurato ed affondato nello stesso tempo,
affrontando per più di 24 ore i più gravi pericoli e le più ardue difficoltà
noncurante della propria incolumità
raggiungendo il suo intento. Poiché l'ultimo superstite non sapendo
nuotare, non osava uscire da solo dal locale nel quale era rifugiato, penetrava
nell'interno del sommergibile per portargli un respiratore e per aiutarlo nella
fuoriuscita: avendo poi il naufrago messo fuori uso il respiratore portatogli
gli cedeva il proprio e riusciva a condurlo a salvamento. Dava così prova delle
più alte e nobili virtù di freddo coraggio, di generoso altruismo e di
dedizione al dovere spinta fino agli estremi limiti.
(Golfo di Bomba, 22-24 agosto
1940, Zona di Guerra, 31 agosto 1940)."
La
motivazione della Medaglia d’Argento al Valor Militare conferita al tenente di
vascello Gino Birindelli, nato a Pescia (Pistoia) il 19 gennaio 1911:
"Imbarcato di passaggio sopra sommergibile in
missione di guerra, attaccato col siluro e con le mitragliere da aerei
siluranti nemici a bassissima quota, che riuscivano ad affondare l'unità
dimostrava sprezzo del pericolo ed ardimento. Partecipava poi alle operazioni
dirette al salvataggio dei superstiti rinchiusi nell'interno del sommergibile,
affrontando per più di 24 ore i più gravi pericoli e le più ardue difficoltà,
noncurante della propria incolumità, raggiungendo il suo intento. Dava così
prova delle più alte e nobili virtù di freddo coraggio e di generoso
altruismo". (Golfo di Bomba, 22-24 agosto 1940 - Zona di guerra, 31 agosto
1940)."
Gino Birindelli (da www.vintagepanerai.com) |
La
motivazione della Medaglia d’Argento al Valor Militare conferita al tenente di
vascello Alberto Franzini, nato a Reggio Emilia il 29 giugno 1910, ed al
secondo capo palombaro Damos Paccagnini, nato a Montalcino (Siena) l’8 aprile
1913:
"Imbarcato di passaggio sopra una nave
appoggio attaccata col siluro e con le mitragliatrici da aerei siluranti nemici
a bassissima quota, che riuscivano ad affondare l'unità, dimostrava sprezzo del
pericolo ed ardimento. Partecipava poi alle operazioni dirette al salvataggio
dei superstiti rinchiusi all'interno di un sommergibile, silurato ed affondato
nello stesso tempo, affrontando per più di 24 ore i più gravi pericoli e le più
ardue difficoltà, noncurante della propria incolumità, raggiungendo il suo
intento. Dava così prova delle più alte e nobili virtù militari di sangue
freddo, coraggio e di generoso altruismo.
(Golfo di Bomba, 22-24 agosto
1940 - Zona di guerra 31 agosto 1940)."
La
motivazione della Medaglia d’Argento al Valor Militare conferita alla memoria
del tenente di vascello Agostino Angeloni, nato a Genova il 28 febbraio 1909:
"Ufficiale in 2a di un sommergibile
improvvisamente attaccato col siluro e con le mitragliatrici da aerei siluranti
nemici a bassissima quota, pur conscio del gravissimo pericolo che sovrastava
l'unità, provvedeva nell'interno del sommergibile alla rapidissima e precisa
esecuzione di tutte le manovre ordinate nell'estremo tentativo di sventare la
mortale minaccia, e sacrificava eroicamente la sua vita, dimostrando fino
all'ultimo momento le più elette virtù di sangue freddo, sprezzo del pericolo e
sentimento del dovere.
(Golfo di Bomba, 22 agosto
1940)."
La
motivazione della Medaglia d’Argento al Valor Militare conferita al tenente di
vascello Francesco Brunetti, nato a La Spezia il 20 novembre 1909:
"Comandante di un sommergibile
improvvisamente attaccato col siluro e con le mitragliatrici da tre aerei
siluranti nemici a bassissima quota, prendeva con sangue freddo e con chiara
visione della situazione tutti i provvedimenti difensivi ed offensivi del caso,
aprendo il fuoco contro il nemico e cercando arditamente di sventare in ogni
modo l'incombente minaccia. Colpita da siluro l'unità al suo comando, che
affondava rapidamente, sebbene ferito, invitava i superstiti lanciati in mare
con lui dalla violenta esplosione a mantenersi calmi in attesa dell'arrivo dei
soccorsi. Non appena sopraggiunta una torpediniera, partecipava
instancabilmente alle operazioni di salvataggio dei superstiti rinchiusi
nell'interno del sommergibile, raggiungendo il suo intento.
(Golfo di Bomba, 22 -24
agosto 1940)."
La
motivazione della Medaglia d’Argento al Valor Militare conferita alla memoria
del tenente del Genio Navale Diego Mistruzzi, nato ad Udine l’11 dicembre 1915:
"Capo servizio del Genio Navale di sommergibile,
partecipava a una difficile missione di guerra pur essendo in precarie
condizioni di salute: durante un improvviso attacco col siluro e con le
mitragliatrici effettuato da aerei siluranti nemici a bassa quota, pur conscio
del gravissimo pericolo che sovrastava all'unità, provvedeva nell'interno del
sommergibile alla rapida e precisa esecuzione di tutte le manovre ordinate nell’estremo
tentativo di sventare la mortale minaccia, e sacrificava eroicamente la sua
vita, dimostrando fino all'ultimo momento le più elette virtù di sangue freddo,
sprezzo del pericolo e sentimento del dovere.
(Golfo di Bomba, 22 agosto
1940)."
La
motivazione della Medaglia d’Argento al Valor Militare conferita al
sottotenente di vascello Fernando Ubaldelli, nato a Rieti il 23 marzo 1914:
"Ufficiale di rotta di sommergibile
improvvisamente attaccato a bassissima quota col siluro e con le mitragliatrici
da aerei siluranti che riuscivano a colpire ed affondare l'unità, provvedeva
con mirabile sangue freddo e con ardimento a dirigere il tiro delle
mitragliatrici di bordo contro i velivoli avversari, noncurante della reazione
di fuoco del nemico e del siluro che stava per raggiungere il segno, e
continuava a far sparare le armi ad avvenuto scoppio del siluro.
(Golfo di Bomba, 22 agosto
1940)."
La
motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita al palombaro
civile Germano Gobbi, nato a Voghera (Pavia) nel 1913:
"In condizioni difficoltose, di giorno e di
notte, nonostante le offese aeree del nemico, si prodigava instancabilmente
alle operazioni di salvataggio di un sommergibile affondato, riuscendo a dare
l’aria di soccorso al personale sinistrato ancora vivente all’interno del
sommergibile stesso; cooperava con esito felice, all’apertura di un portello
d’accesso incatastatosi.
(Golfo di Bomba, 22-23 agosto
1940)."
La
motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita al secondo
capo elettricista Vittorio Vaccà, nato a La Spezia il 27 aprile 1909, ed al
sottocapo silurista Luigi Santillo:
"Imbarcato su un sommergibile colpito col
siluro ed affondato nel corso di un improvviso attacco di aerosiluranti nemici
a bassissima quota, e rimasto chiuso per più di 26 ore insieme con altro personale
nella camera di lancio poppiera del sommergibile, conservava sempre in difficilissime,
pericolose condizioni ambientali calma esemplare e grande sangue freddo,
incoraggiando i compagni con la parola e con l'esempio ed eseguendo con
ardimento e perizia tutte le manovre, che, in coordinazione con i soccorsi
dall'esterno, si concludevano con il salvataggio del personale superstite.
(Golfo di Bomba, 22-24 agosto
1940)."
La
motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita al sottocapo
silurista Luigi Medici, nato a Clusone (Bergamo) il 2 gennaio 1918, ed al sottocapo
cannoniere puntatore scelto Tommaso Epifani:
"Imbarcato su un sommergibile e destinato
alle mitragliere, durante l'azione che ha preceduto ed accompagnato il
siluramento dell'unità da parte di aerei siluranti nemici a bassissima quota,
noncurante della violenta azione di mitragliamento eseguita contemporaneamente
dai velivoli avversari, ha continuato senza interruzione a far fuoco con la
propria arma, con la massima calma e precisione, fino a che non fu gettato in
mare dallo scoppio del siluro.
(Golfo di Bomba, 22 agosto
1940)."
La
motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita alla memoria
del sottotenente di vascello Pietro Vicari, nato a Palermo il 25 marzo 1907:
"Imbarcato su un sommergibile improvvisamente
attaccato col siluro e con le mitragliatrici da aerei siluranti nemici a
bassissima quota, pur conscio del pericolo in cui si trovava l'unità,
coadiuvava con coraggio e con sprezzo del pericolo l'ufficiale in 2a nella
rapida ed esatta esecuzione delle manovre ordinate, sacrificando la sua vita
nel tentativo di sventare la mortale minaccia nemica.
(Golfo di Bomba, 22 agosto
1940)."
La
motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita alla memoria
del capo meccanico di prima classe Luigi Devoto, nato a Sarzana (La Spezia) il
6 febbraio 1898:
"Imbarcato su sommergibile improvvisamente
attaccato col siluro e con le mitragliatrici da aerei siluranti nemici a
bassissima quota, pur conscio del pericolo in cui si trovava l'unità,
coadiuvava con coraggio e con sprezzo del pericolo il Capo Servizio Genio
Navale nella rapida e precisa esecuzione delle manovre ordinate, sacrificando
la sua vita nel tentativo di sventare la mortale minaccia nemica.
(Golfo di Bomba, 22 agosto
1940)."
La
motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita al sergente
palombaro Giuseppe Morbelli, nato a Rivalta Bormida (Alessandria) il 9 agosto
1914:
"In condizioni difficoltose, di giorno e di
notte, nonostante le offese aeree del nemico, si prodigava instancabilmente
alle operazioni di salvataggio di un sommergibile affondato, riuscendo a dare
soccorso al personale sinistrato ancora vivente nell'interno del sommergibile
stesso; cooperava, con esito felice, all'apertura di un portello d'accesso
incastratosi.
(Golfo di Bomba, 22-23 agosto
1940)."
La
motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita ai sergenti
palombari Alcide Pedretti, nato a Fivizzano (Massa-Carrara) il 17 giugno 1913,
e Giovanni Lazzaroni, nato a Rovato (Brescia) il 6 settembre 1914, ed all’operaio
elettricista Pietro Biradelli:
"Imbarcato di passaggio, in missione di
guerra, su un sommergibile che veniva attaccato col siluro e con le
mitragliatrici da aerei siluranti nemici a bassissima quota e che veniva
affondato, dimostrava sprezzo del pericolo ed ardimento.
(Golfo di Bomba, 22 agosto
1940)."
La
motivazione della Croce di Guerra al Valor Militare conferita al sergente
palombaro Giuseppe Morbelli (da Rivalta Bormida) ed al palombaro civile Germano
Gobbi (da Voghera):
"In condizioni difficoltose, di giorno e di
notte, nonostante le offese aeree del nemico, si prodigava instancabilmente
alle operazioni di salvataggio di un sommergibile affondato, riuscendo a dare
l'aria di soccorso al personale sinistrato ancora vivente nell'interno del sommergibile
stesso; cooperava, con esito felice, all'apertura di un portello d'accesso
incatastatosi.
(Golfo di Bomba, 22-23 agosto
1940)."
La
motivazione della Croce di Guerra al Valor Militare conferita al capitano di
fregata Ugo Siviero, da Mignano (Napoli):
"Con perizia, instancabilità e sprezzo del
pericolo, cooperava validamente alle operazioni pel salvataggio del personale
di un sommergibile sinistrato, nonostante le offese aeree nemiche.
(Golfo di Bomba, 22-23 agosto
1940)."
La
motivazione della Croce di Guerra al Valor Militare conferita al maggiore del
Genio Navale Michele Giordano, da Avellino:
"Con perizia, instancabilità e sprezzo del
pericolo, diresse le operazioni tecniche pel salvataggio di un sommergibile
sinistrato nella rada di Ain el Gazala, portando a felice compimento l'opera
sua, nonostante le offese aeree nemiche.
(Golfo di Bomba, 22-23 agosto
1940)."
La
motivazione della Croce di Guerra al Valor Militare conferita al primo capitano
del Genio Navale Alessandro Ricci, da Pietrasanta (Lucca):
"Con perizia, instancabilità e sprezzo del
pericolo, cooperava alle operazioni pel salvataggio del personale di un
sommergibile sinistrato nella rada di Ain el Gazala, nonostante le offese aeree
del nemico.
(Golfo di Bomba, 22-23 agosto
1940)."
La
motivazione della Croce di Guerra al Valor Militare conferita al sottotenente medico
Dario Dell'Amore, da Pesaro:
"Con mansione di Capo Servizio sanitario
durante il salvataggio dei superstiti di un sommergibile sinistrato, si prodigava
instancabilmente al soccorso dei naufraghi con molta perizia e sprezzo del
pericolo, nonostante le offese aeree nemiche.
(Golfo di Bomba, 22-23 agosto
1940)."
Il
trasferimento dell’Iride da La Spezia
al Golfo di Bomba nel rapporto redatto il 27 agosto 1940 dal comandante
Brunetti (fonte USMM, da www.xmasgrupsom.com):
"In seguito ad ordini ricevuti da Supermarina
tramite Marina La Spezia e Grupsom La Spezia, alle ore 11.00 del giorno 12
agosto 1940 il sommergibile Iride ha mollato gli ormeggi ed ha lasciato La
Spezia per trasferirsi a Messina. La navigazione è stata regolarmente compiuta
seguendo le rotte costiere prescritte. Nulla da segnalare. L'unità è giunta a
Messina alle ore 19.00 circa del giorno 14; si è rifornita al completo ed è
rimasta pronta all'ordine. Alle ore 11.00 del 16 agosto ho ricevuto da
Super-marina un teledispaccio cifrato che mi ordinava di proseguire la
missione, alle ore 16.00 dello stesso giorno e di seguire rotte su alti fondali
per evitare mine nemiche ancorate lungo le rotte costiere della Cirenaica.
Presi accordi con Marina Messina, alle ore 16.00 del 16 agosto ho mollato gli
ormeggi ed ho seguito rotte coséere fino a Capo Spartivento.
Invece di atterrare su Ras Aamer e seguire le rotte costiere fino alla Baia di Menelao, in seguito all'informazione avuta circa le mine nemiche,' alle ore 20.30 del 16 agosto, giunto all'altezza di Capo Spartivento, accosto su rotta diretta per il Golfo di Bomba. Durante tutto il trasferimento seguo navigazione occulta. Nulla da segnalare durante la navigazione che si è svolta in maniera del tutto regolare. All'alba del giorno 21, controllata la posizione con osservazioni astronomiche, dirigo per il posto di ormeggio assegnatomi nella Baia di Menelao. Alle ore 06,45 avvisto di poppa a dritta la torpediniera Calipso.
Alle ore 09.00 circa, dietro ordine della torpediniera già ormeggiata al corpo morto, mi affianco sul lato dritto; poco dopo cambio di ormeggio e dò fondo all'ancora 250 m. a levante del Calipso. Verso le ore 11.30, salpo l'ancora e vado a dar fondo nell'ancoraggio di Maracheb a circa 300 m. per nord della torpediniera".
Invece di atterrare su Ras Aamer e seguire le rotte costiere fino alla Baia di Menelao, in seguito all'informazione avuta circa le mine nemiche,' alle ore 20.30 del 16 agosto, giunto all'altezza di Capo Spartivento, accosto su rotta diretta per il Golfo di Bomba. Durante tutto il trasferimento seguo navigazione occulta. Nulla da segnalare durante la navigazione che si è svolta in maniera del tutto regolare. All'alba del giorno 21, controllata la posizione con osservazioni astronomiche, dirigo per il posto di ormeggio assegnatomi nella Baia di Menelao. Alle ore 06,45 avvisto di poppa a dritta la torpediniera Calipso.
Alle ore 09.00 circa, dietro ordine della torpediniera già ormeggiata al corpo morto, mi affianco sul lato dritto; poco dopo cambio di ormeggio e dò fondo all'ancora 250 m. a levante del Calipso. Verso le ore 11.30, salpo l'ancora e vado a dar fondo nell'ancoraggio di Maracheb a circa 300 m. per nord della torpediniera".
L’affondamento
dell’Iride nel rapporto del
comandante Brunetti (fonte USMM, da www.xmasgrupsom.com):
"Il giorno 22 agosto, alle ore 11.20 circa,
dopo aver eseguito il trasbordo dalla torpediniera al sommergibile dei 4
apparecchi semoventi e di 5 casse contenenti vestiti da sommozzatori,
autorespiratori speciali e materiale vario, in seguito all'ordine ricevuto dal
comandante Giorgini, metto in moto il motore termico di dritta e dirigo per
uscire dall'ancoraggio di Maracheb per eseguire una immersione di 2 ore a
trenta metri di profondità per la prova degli apparecchi.
A questo scopo avevano pure preso imbarco sulla unità il tenente di vascello Gino Birindelli, i sergenti palombari Lazzaroni e Pedretti e l'operaio Biradelii. Prima di eseguire l'immersione a 30 m. gli apparecchi dovevano essere sistemati nella loro esatta posizione sulle selle e rizzati. Occorreva quindi portarsi col sommergibile in affioramento con la coperta circa 1 metro sott'acqua onde poter spostare gli apparecchi sollevati dalla loro stessa spinta. Occorreva anche calma di mare perché gli apparecchi non si urtassero tra di loro e non riportassero danni.
Giunto quindi su un fondale sufficiente (m. 14) e ancora a ridosso della costa (punto approssimato mg. 1,5 per 85° da Ras Megara), fermo il termico e mi porto in affioramento allagando parzialmente anche il doppio fondo 1 (la cassa emersione era adibita a carico di nafta) per mettere la coperta sott'acqua.
Per ragioni precauzionali avevo tenuto montate le mitragliere con caricatore a posto, gli armamenti e due cassette di caricatori in torretta, il nostromo presso il portello della torretta, l'ufficiale di rotta in plancia col tenente di vascello Birindelli ed il sottoscritto per l'esplorazione del cielo. Verso le ore 12,00, quando già i due apparecchi .di prora erano stati sistemati e rizzati, viene avvistata a circa 10° di prora a dritta alla distanza di circa 3.500 m. una formazione di 3 aerei, rotta ponente, quota bassissima (30-40 metri).
Intuendo trattarsi di aerei nemici e ritenuto inutile immergermi data la poca profondità, ho dato immediatamente i seguenti ordini:
« Armamento del cannone e delle mitragliere a posto ».
« Pari avanti tutta e quindi massima forza » (motori elettrici perché i termini erano sgranati).
« Chiudi gli sfoghi d'aria per tutto » (ad eccezione degli estremi davanti ed addietro).
« Chiudere le porte stagne ».
Nel frattempo la formazione nemica, giunta all'altezza della prora, aveva accostato di 90° a sinistra puntando decisamente sul sommergibile. A circa 1.500 metri due aerei siluranti si sono spostati sulla sinistra dell'unità, uno sulla dritta. Mi sono messo personalmente al timone verticale ed ho accostato a sinistra mettendo la prua sull'aereo centrale ed ho fatto aprire il fuoco con le mitragliere di dritta e di sinistra sugli aerei provenienti da quella direzione. Con questa manovra speravo di impedire il lancio all'aereo centrale per la posizione stessa nella quale costantemente lo tenevo; a quelli laterali cercando di allontanarli o colpirli col fuoco delle mitragliere. Contemporaneamente sorvegliavo attentamente tutti e tre gli aerei per vedere quale di essi avrebbe effettuato il lancio per tentare di evitare il siluro con la manovra.
L'aereo centrale ha tentato una sola volta di accostare per allargare il Beta; giunto a 200 metri circa ha lanciato il siluro trovandosi a circa 10 m. di quota ed a 3 a 4 gradi di prora a sinistra del sommergibile. Gli altri due aerei sono sfilati di controbordo ad una distanza di circa 400 metri, quota 10 metri circa, mitragliando il sommergibile all'altezza della coperta. Appena avvenuto il lancio del siluro, da me esattamente veduto, ho tentato di accostare sulla sinistra per evitarne l'urto; ma data la brevissima distanza di lancio e la scarsa manovrabilità del sommergibile, il tentativo di manovra è risultato vano ed il siluro ha colpito la unità esattamente di prora su di un Beta di 0°. La scia del siluro è stata sempre rettilinea, cioè il siluro non era angolato. Dallo istante del lancio a quello dello scoppio, sono trascorsi circa 10 secondi. Data la rapidità dell'azione, il cannone del sommergibile non ha avuto il tempo di aprire il fuoco.
Dopo lo scoppio violentissimo, mi sono trovato in mare, completamente coperto di nafta. Il sommergibile era affondato immediatamente fortemente appruato. Non rimaneva fuori acqua che qualche metro dell'estrema poppa; si distinguevano i cappelli dei tubi di lancio ed una parte del timone verticale. Dopo circa 5 minuti anche la poppa è scomparsa sott'acqua.
Il tenente di vascello Birindelli ed il sottoscritto hanno chiesto ai naufraghi che si trovavano in mare (12 persone) se avessero bisogno di aiuto ed hanno loro raccomandato di mantenersi calmi in attesa dell'arrivo dei soccorsi.
Poco dopo, infatti, sopraggiungeva la torpediniera Calipso che ha preso a bordo il personale superstite e precisamente: tenente di vascello Birindelli, sergenti palombari Pedretti e Lazzaroni e l'operaio Biradelli della spedizione; tenente di vascello Brunetti, sottotenente di vascello Ubaldelli, sergente nocchiere Giribaldi, sottocapo silurista Medici, sottocapo cannoniere Epifani, silurista Bottazzo, cannoniere Cozzolini e sottocapo furiere Verzelletti del sommergibile.
Del personale del sommergibile che si trovava in plancia ed in coperta al momento dello scoppio, mancavano due persone: il 2° capo R. T. Michele Antinoro e il cannoniere Torracca (facenti parte dell'armamento del pezzo). Sono stati visti affiorare per pochi istanti alla superficie del mare e quindi affondare subito certamente colpiti dal fuoco delle mitragliere degli aerei".
A questo scopo avevano pure preso imbarco sulla unità il tenente di vascello Gino Birindelli, i sergenti palombari Lazzaroni e Pedretti e l'operaio Biradelii. Prima di eseguire l'immersione a 30 m. gli apparecchi dovevano essere sistemati nella loro esatta posizione sulle selle e rizzati. Occorreva quindi portarsi col sommergibile in affioramento con la coperta circa 1 metro sott'acqua onde poter spostare gli apparecchi sollevati dalla loro stessa spinta. Occorreva anche calma di mare perché gli apparecchi non si urtassero tra di loro e non riportassero danni.
Giunto quindi su un fondale sufficiente (m. 14) e ancora a ridosso della costa (punto approssimato mg. 1,5 per 85° da Ras Megara), fermo il termico e mi porto in affioramento allagando parzialmente anche il doppio fondo 1 (la cassa emersione era adibita a carico di nafta) per mettere la coperta sott'acqua.
Per ragioni precauzionali avevo tenuto montate le mitragliere con caricatore a posto, gli armamenti e due cassette di caricatori in torretta, il nostromo presso il portello della torretta, l'ufficiale di rotta in plancia col tenente di vascello Birindelli ed il sottoscritto per l'esplorazione del cielo. Verso le ore 12,00, quando già i due apparecchi .di prora erano stati sistemati e rizzati, viene avvistata a circa 10° di prora a dritta alla distanza di circa 3.500 m. una formazione di 3 aerei, rotta ponente, quota bassissima (30-40 metri).
Intuendo trattarsi di aerei nemici e ritenuto inutile immergermi data la poca profondità, ho dato immediatamente i seguenti ordini:
« Armamento del cannone e delle mitragliere a posto ».
« Pari avanti tutta e quindi massima forza » (motori elettrici perché i termini erano sgranati).
« Chiudi gli sfoghi d'aria per tutto » (ad eccezione degli estremi davanti ed addietro).
« Chiudere le porte stagne ».
Nel frattempo la formazione nemica, giunta all'altezza della prora, aveva accostato di 90° a sinistra puntando decisamente sul sommergibile. A circa 1.500 metri due aerei siluranti si sono spostati sulla sinistra dell'unità, uno sulla dritta. Mi sono messo personalmente al timone verticale ed ho accostato a sinistra mettendo la prua sull'aereo centrale ed ho fatto aprire il fuoco con le mitragliere di dritta e di sinistra sugli aerei provenienti da quella direzione. Con questa manovra speravo di impedire il lancio all'aereo centrale per la posizione stessa nella quale costantemente lo tenevo; a quelli laterali cercando di allontanarli o colpirli col fuoco delle mitragliere. Contemporaneamente sorvegliavo attentamente tutti e tre gli aerei per vedere quale di essi avrebbe effettuato il lancio per tentare di evitare il siluro con la manovra.
L'aereo centrale ha tentato una sola volta di accostare per allargare il Beta; giunto a 200 metri circa ha lanciato il siluro trovandosi a circa 10 m. di quota ed a 3 a 4 gradi di prora a sinistra del sommergibile. Gli altri due aerei sono sfilati di controbordo ad una distanza di circa 400 metri, quota 10 metri circa, mitragliando il sommergibile all'altezza della coperta. Appena avvenuto il lancio del siluro, da me esattamente veduto, ho tentato di accostare sulla sinistra per evitarne l'urto; ma data la brevissima distanza di lancio e la scarsa manovrabilità del sommergibile, il tentativo di manovra è risultato vano ed il siluro ha colpito la unità esattamente di prora su di un Beta di 0°. La scia del siluro è stata sempre rettilinea, cioè il siluro non era angolato. Dallo istante del lancio a quello dello scoppio, sono trascorsi circa 10 secondi. Data la rapidità dell'azione, il cannone del sommergibile non ha avuto il tempo di aprire il fuoco.
Dopo lo scoppio violentissimo, mi sono trovato in mare, completamente coperto di nafta. Il sommergibile era affondato immediatamente fortemente appruato. Non rimaneva fuori acqua che qualche metro dell'estrema poppa; si distinguevano i cappelli dei tubi di lancio ed una parte del timone verticale. Dopo circa 5 minuti anche la poppa è scomparsa sott'acqua.
Il tenente di vascello Birindelli ed il sottoscritto hanno chiesto ai naufraghi che si trovavano in mare (12 persone) se avessero bisogno di aiuto ed hanno loro raccomandato di mantenersi calmi in attesa dell'arrivo dei soccorsi.
Poco dopo, infatti, sopraggiungeva la torpediniera Calipso che ha preso a bordo il personale superstite e precisamente: tenente di vascello Birindelli, sergenti palombari Pedretti e Lazzaroni e l'operaio Biradelli della spedizione; tenente di vascello Brunetti, sottotenente di vascello Ubaldelli, sergente nocchiere Giribaldi, sottocapo silurista Medici, sottocapo cannoniere Epifani, silurista Bottazzo, cannoniere Cozzolini e sottocapo furiere Verzelletti del sommergibile.
Del personale del sommergibile che si trovava in plancia ed in coperta al momento dello scoppio, mancavano due persone: il 2° capo R. T. Michele Antinoro e il cannoniere Torracca (facenti parte dell'armamento del pezzo). Sono stati visti affiorare per pochi istanti alla superficie del mare e quindi affondare subito certamente colpiti dal fuoco delle mitragliere degli aerei".
L’affondamento
dell’Iride ed i soccorsi nel rapporto
redatto il 27 agosto 1940 dal capitano di fregata Mario Giorgini (fonte USMM,
da www.xmasgrupsom.com):
"22 agosto 1940, ore 11.56 circa - Allarme
aereo - Una pattuglia di tre aerosiluranti attacca il sommergibile. Il Calipso
col cannone di prora inizia il fuoco. Il sommergibile pare che accosti
leggermente a sinistra per mettere la prora sugli aerei e inizia il fuoco con
le mitragliere.
Ore 12.00 - II sommergibile è colpito da siluro; per brevi istanti se ne vede emergere la poppa. L'aereo che ha lanciato si allontana. L'aereo di sinistra della pattuglia accosta dirigendo verso il Monte Gargano su un Beta di 20° circa.
Quello di sinistra fa un largo giro per attaccare il Calipso sulla sinistra. Il Monte Gargano inizia il fuoco col cannone di prora ed il Calipso mette in azione anche le mitragliere, sparando con quella di prora a sinistra contro l'aereo di prora e con le mitragliere del centro contro quello di sinistra. Non può utilizzare le mitragliere di prora a dritta perché impedito dal Monte Gargano. L'aereo che attacca quest'ultimo risulta centrato dalla mitragliera di prora a sinistra del Calipso. Lancia a circa 1.000 metri di distanza su un Beta compreso fra i 10 e i 20°, quindi accosta a sinistra per allontanarsi. Pare colpito ed ostacolato nella manovra. Il campo di Ain el Gazala ha in seguito segnalato di averlo visto cadere in fiamme. La mitragliera di prora a sinistra del Calipso concentra il fuoco sull'aereo di sinistra che pure risulta sicuramente centrato. L'aereo lancia da circa 1.300 metri con impatto 80° circa e si. allontana. Dalla veranda esterna del Monte Gargano seguo distintamente la scia del primo siluro: ha un impatto piccolissimo tanto che in un primo tempo credo che non colpisca. Grido al personale della motonave di ripararsi sul lato sinistro.
Ore 12.03 circa - Il siluro colpisce il Gargano immediatamente a proravia della plancia.
Ore 12.06 - Mi imbarco sulla torpediniera e dirigo a tutta forza sul punto dove è affondato il sommergibile. Il siluro lanciato dall'aereo di sinistra, di cui si vede chiaramente la scia, non compie tutto il percorso perché probabilmente colpito da colpi di mitragliera prima dello sgancio, e affonda a circa 400 metri dal bersaglio.
Ore 12.16 - Giungo sul punto dove è affondato il sommergibile e inizio il ricupero dei naufraghi.
Ore 12.18 - Allarme aereo - Sospendo il ricupero e faccio mettere in moto aprendo il fuoco contro un aereo che dirige contro di noi da bassa quota, proveniente dal mare, distante circa 5.000 metri. L'aereo accosta in fuori e si allontana. Torno sul sommergibile e ricupero gli ultimi superstiti (complessivamente dodici fra cui il comandante). Lancio un segnale sul sommergibile e rientro a Maracheb.
Ore 13.20 - Alla fonda a Maracheb in prossimità del Monte Gargano che risulta appoggiato sul fondo alquanto sbandato a sinistra. Attracca al nostro bordo un peschereccio con l'ammiraglio Brivonesi. Sbarco il personale recuperato che risulta ferito.
Non avendo sul posto alcun mezzo di respirazione subacquea (i nostri essendo stati già trasbordati sull'Iride), autorizzato dallo ammiraglio:
1° - invio la torpediniera a Tobruch per rifornirsi lasciando a bordo il tenente di vascello Franzini per coadiuvare il comandante essendo deceduto l'ufficiale di 2* di bordo sottotenente di vascello La Rosa durante il siluramento del Gargano;
2° - mando un peschereccio con lance a rimorchio sul sommergibile con ordine di stabilire collegamenti sicuri e prestare soccorso a personale che eventualmente riuscisse a fuoriuscire dal sommergibile stesso. Con tale mezzo invio il tenente di vascello Brunetti, i capitani del g. n. Tesei e Toschi, il sottotenente di vascello De la Penne ed il palombaro Lazzari.
3° - Con automezzo invio il tenente di vascello Birindelli col palombaro Paccagnini a Tobruch per richiedere e portare materiale da palombaro e da sommozzatore.
Ore 14.30.
Portatisi sopra il sommergibile, a varie riprese gli ufficiali si sono tuffati, privi di maschere, stabilendo un primo collegamento con la prora del sommergibile a circa 14 metri di profondità, quindi un secondo con cavo di acciaio con la torretta sul gavitello del grippiale lasciato quale segnale dalla torpediniera (metri 6). Nel collegare la prua sono stati battuti colpi alla estremità prodiera della camera di lancio senza però ottenere risposta. Viene recuperata la bandiera del sommergibile. Da queste prime ricognizioni si constata:
1) - Una continua e forte fuoriuscita d'aria in corrispondenza del portello di prora;
2) - Fuoriuscita d'aria dal portello della torretta riscontrato aperto;
3) - Sommergibile fortemente sbandato a sinistra;
4) - Leggera fuoruscita d'aria da poppa estrema.
Da Tobruch l'ammiraglio Vietina invia una prima macchina col comandante Siviere (capo gruppo dei sommergibili di Tobruch) con 10 autorespiratori regolamentari da sommergibile, una bombola di ossigeno, una cassetta attrezzi autorespiratori; trattiene ed invia successivamente il tenente di vascello Birindelli con materiale da palombaro normale, manicheite per prese d'aria e soccorso, tastiere per manovre aria con motocompressore. Invia inoltre il palombaro borghese Gobbi di Marina Tobruch ed il sergente palombaro Morbelli.
All'arrivo del primo materiale mi imbarco sul motopeschereccio Nuova Eleonora (Molfetta) e mi porto sul sommergibile, dove giungo alle 17,50.
Ore 18 00 si iniziano le operazioni di ricognizione. Gli operatori si immergono sempre a corpo nudo con autorespiratori".
Ore 12.00 - II sommergibile è colpito da siluro; per brevi istanti se ne vede emergere la poppa. L'aereo che ha lanciato si allontana. L'aereo di sinistra della pattuglia accosta dirigendo verso il Monte Gargano su un Beta di 20° circa.
Quello di sinistra fa un largo giro per attaccare il Calipso sulla sinistra. Il Monte Gargano inizia il fuoco col cannone di prora ed il Calipso mette in azione anche le mitragliere, sparando con quella di prora a sinistra contro l'aereo di prora e con le mitragliere del centro contro quello di sinistra. Non può utilizzare le mitragliere di prora a dritta perché impedito dal Monte Gargano. L'aereo che attacca quest'ultimo risulta centrato dalla mitragliera di prora a sinistra del Calipso. Lancia a circa 1.000 metri di distanza su un Beta compreso fra i 10 e i 20°, quindi accosta a sinistra per allontanarsi. Pare colpito ed ostacolato nella manovra. Il campo di Ain el Gazala ha in seguito segnalato di averlo visto cadere in fiamme. La mitragliera di prora a sinistra del Calipso concentra il fuoco sull'aereo di sinistra che pure risulta sicuramente centrato. L'aereo lancia da circa 1.300 metri con impatto 80° circa e si. allontana. Dalla veranda esterna del Monte Gargano seguo distintamente la scia del primo siluro: ha un impatto piccolissimo tanto che in un primo tempo credo che non colpisca. Grido al personale della motonave di ripararsi sul lato sinistro.
Ore 12.03 circa - Il siluro colpisce il Gargano immediatamente a proravia della plancia.
Ore 12.06 - Mi imbarco sulla torpediniera e dirigo a tutta forza sul punto dove è affondato il sommergibile. Il siluro lanciato dall'aereo di sinistra, di cui si vede chiaramente la scia, non compie tutto il percorso perché probabilmente colpito da colpi di mitragliera prima dello sgancio, e affonda a circa 400 metri dal bersaglio.
Ore 12.16 - Giungo sul punto dove è affondato il sommergibile e inizio il ricupero dei naufraghi.
Ore 12.18 - Allarme aereo - Sospendo il ricupero e faccio mettere in moto aprendo il fuoco contro un aereo che dirige contro di noi da bassa quota, proveniente dal mare, distante circa 5.000 metri. L'aereo accosta in fuori e si allontana. Torno sul sommergibile e ricupero gli ultimi superstiti (complessivamente dodici fra cui il comandante). Lancio un segnale sul sommergibile e rientro a Maracheb.
Ore 13.20 - Alla fonda a Maracheb in prossimità del Monte Gargano che risulta appoggiato sul fondo alquanto sbandato a sinistra. Attracca al nostro bordo un peschereccio con l'ammiraglio Brivonesi. Sbarco il personale recuperato che risulta ferito.
Non avendo sul posto alcun mezzo di respirazione subacquea (i nostri essendo stati già trasbordati sull'Iride), autorizzato dallo ammiraglio:
1° - invio la torpediniera a Tobruch per rifornirsi lasciando a bordo il tenente di vascello Franzini per coadiuvare il comandante essendo deceduto l'ufficiale di 2* di bordo sottotenente di vascello La Rosa durante il siluramento del Gargano;
2° - mando un peschereccio con lance a rimorchio sul sommergibile con ordine di stabilire collegamenti sicuri e prestare soccorso a personale che eventualmente riuscisse a fuoriuscire dal sommergibile stesso. Con tale mezzo invio il tenente di vascello Brunetti, i capitani del g. n. Tesei e Toschi, il sottotenente di vascello De la Penne ed il palombaro Lazzari.
3° - Con automezzo invio il tenente di vascello Birindelli col palombaro Paccagnini a Tobruch per richiedere e portare materiale da palombaro e da sommozzatore.
Ore 14.30.
Portatisi sopra il sommergibile, a varie riprese gli ufficiali si sono tuffati, privi di maschere, stabilendo un primo collegamento con la prora del sommergibile a circa 14 metri di profondità, quindi un secondo con cavo di acciaio con la torretta sul gavitello del grippiale lasciato quale segnale dalla torpediniera (metri 6). Nel collegare la prua sono stati battuti colpi alla estremità prodiera della camera di lancio senza però ottenere risposta. Viene recuperata la bandiera del sommergibile. Da queste prime ricognizioni si constata:
1) - Una continua e forte fuoriuscita d'aria in corrispondenza del portello di prora;
2) - Fuoriuscita d'aria dal portello della torretta riscontrato aperto;
3) - Sommergibile fortemente sbandato a sinistra;
4) - Leggera fuoruscita d'aria da poppa estrema.
Da Tobruch l'ammiraglio Vietina invia una prima macchina col comandante Siviere (capo gruppo dei sommergibili di Tobruch) con 10 autorespiratori regolamentari da sommergibile, una bombola di ossigeno, una cassetta attrezzi autorespiratori; trattiene ed invia successivamente il tenente di vascello Birindelli con materiale da palombaro normale, manicheite per prese d'aria e soccorso, tastiere per manovre aria con motocompressore. Invia inoltre il palombaro borghese Gobbi di Marina Tobruch ed il sergente palombaro Morbelli.
All'arrivo del primo materiale mi imbarco sul motopeschereccio Nuova Eleonora (Molfetta) e mi porto sul sommergibile, dove giungo alle 17,50.
Ore 18 00 si iniziano le operazioni di ricognizione. Gli operatori si immergono sempre a corpo nudo con autorespiratori".
Il
salvataggio dei sopravvissuti dell’Iride
nella relazione redatta a fine guerra dal capitano del Genio Navale Elios
Toschi (fonte USMM, da www.xmasgrupsom.com):
"Appena giunti i respiratori da Tobruch
iniziammo le immersioni sullo scafo allo scopo di vedere se vi erano superstiti
e se era possibile recuperare il materiale spedizionario. L'Iride giaceva su un
fondale fra i 18 e i 20 metri quasi completamente appoggiato su un fianco;
appariva spezzato in due all'altezza del cannone e il portello centrale era
aperto. La bandiera, al suo posto, fluttuava lentamente nel mare. Raggiunto lo
scafo, battemmo con ferri sulle lamiere dei vari compartimenti per accertare se
all'interno vi fossero ancora uomini vivi Sempre silenzio: raggiunto però il
locale lancio A. D. sentimmo battere chiaramente dei colpi. Poco dopo, con nostro
stupore, percepimmo distintamente alcune voci discutere, potendo comprendere
perfettamente ogni parola. Erano i naufraghi che parlavano fra loro. Tentammo
subito di parlare con i superstiti togliendoci il boccaglio di gomma onde poter
parlare lasciandolo libero entro la maschera. Le risposte alle nostre domande ,
giungevano chiare e precise. Potemmo così facilmente comunicare con i naufraghi
durante tutto il salvataggio. La situazione dei nove uomini (fra cui due
sottufficiali) all'interno, era tutt'altro che rosea. Già quasi circondati
dalle tenebre, potendo disporre solo delle deboli luci di sicurezza con l'acqua
all'interno fin sopra il pagliolo e l'aria molto viziata, avevano la via di
uscita sbarrata dal portello, bloccato perché deformato dall'esplosione.
Raccomandata la calma agli uomini, tutta la nostra attenzione si concentrava
sul portello nell'intento di smontarlo il più sollecitamente possibile. La
tenace lotta subacquea contro il portello durava tutta la notte e il mattino
seguente. Frattanto un palombaro con scafandro normale giunto da Tobruch (il
palombaro Gobbi di Marina Tobruch) dava man forte. Con la sua pompa potevamo
anche rifornire i naufraghi d'aria, dopo aver fissato le manichette allo scafo.
La pressione dell'aria veniva via via aumentata onde evitare sempre maggiori
entrate d'acqua nel locale. Durante la notte i due sottufficiali, contro il
nostro avviso, perduto il controllo di se stessi, tentavano l'uscita e morivano
nell'interno della garitta. Verso le dieci del mattino successivo, il portello
era già liberato da tutte le strutture meccaniche che lo collegavano allo
scafo. Poco dopo, collegandolo con un cavo di acciaio al motopeschereccio,
veniva finalmente strappato dal suo seggio. Davamo quindi istruzioni ai
naufraghi sulla manovra da eseguire e sulle precauzioni da prendere per
l'allagamento diretto del locale poiché, data la posizione fortemente inclinata
del sommergibile e l'asportazione del portello, non era possibile eseguire
altra manovra. I superstiti, dopo qualche comprensibile esitazione, aprivano
infine la porta di comunicazione fra il locale e la garitta. Una grossa bolla
d'aria saliva alla superficie; poi, si ristabiliva l'equilibrio nell'interno
dello scafo. Nei pochi momenti che seguirono, i naufraghi, tuffandosi nell'interno
passarono attraverso la porta stagna per salire rapidamente alla superficie.
Dei sette superstiti (esclusi i due sottufficiali morti nella garitta) due
decedevano successivamente in seguito ad emorragie interne ed a fenomeni di
embolia. Continuando il lavoro di salvataggio, ricuperammo gli apparecchi e le
mitragliere. Prima di abbandonare definitivamente lo scafo sommerso, potemmo
riprendere anche le bandiere”.
Un
estratto dal rapporto del tenente di vascello Luigi Durand de la Penne (da www.anaim.it):
"...Il sommergibile si era rapidamente immerso e
si poteva notare. La Torpediniera mollava subito gli ormeggi, mentre il "Monte
Gargano" si appruava e sbandava sulla dritta. Giunti in zona ove era
affondato il sommergibile, si provvide al recupero dei naufraghi, mettendo un
segnale sul punto dove si vedeva la fuoriuscita d'aria e di nafta. (...) Dopo molti tentativi, facendo immersioni
senza alcun apparecchio di respirazione, si riusciva a stabilire il collegamento
stesso (…) Iniziai il lavoro di
recupero assieme agli altri operatori. Il lavoro era molto faticoso causa il
freddo sopratutto durante la notte, perché le immersioni erano fatte a corpo
nudo, e per il continuo dover risalire a galla per cambiare i respiratori che
avevano un'autonomia di 20 minuti. (...) Erano circa le 1600 quando, battendo con un martello lungo lo scafo
riuscivo ad avere risposta dall'interno del sommergibile,con la notizia che
erano nel compartimento dodici persone senza alcun Ufficiale. Comunicai quindi
che si sarebbe messo in pressione il locale tramite mediante la pompa (...)
Gli uomini potevano restare, tra
fuoriuscita di una persona e quelle successive, ad attendere nella campana
d'aria che si doveva formare. (...) Aperta
la porta stagna dall'interno, manovra che si notò a galla causa la forte
quantità d'aria che uscendo dal locale veniva in superficie, si vide affiorare
la prima persona che era uscita dal locale e successivamente le altre. (...)
Il giorno successivo venivano recuperati
gli SLC che non risultarono eccessivamente danneggiati".
Diario
di Aldo Mazzella, marinaio dell’Iride,
relativo al misterioso episodio del 17-20 gennaio 1938 (si ringraziano la
nipote Martina Carannante ed il sito www.ponzaracconta.it):
"Diario
d’una missione. La mia Odissea di circa 72 ore faccia a faccia con la morte
Eravamo in missione segreta
da parecchi giorni, nella zona da vigilare tra il Marocco e il Golfo di Malaga
che si trova ancora in mano ai Rossi. La nostra base di partenza fu Cagliari,
con 20 giorni di missione segreta per il Generalissimo Franco e a termine di
essa dobbiamo sostare alcuni giorni a Palma di Maiorca, la maggiore delle isole
Baleari, per poi ritornare in patria. Per i preparativi della parata navale che
si dovrà svolgere a Napoli. Siamo al 17 gennaio (giovedì) 1938 già in missione
nella zona assegnata da tre giorni. Nulla di anormale, tutto andava bene; solo
la vita disagiata da ogni privazione e di penitenza, che tormentava i nostri
fisici. Son tre giorni che non vedevamo la luce del sole. I nostri volti
barbuti e sporchi da non vedersi quasi più il colore della pelle; avevamo
l’aspetto di un branco di scimmie sapienti. Solo il morale restava alto, con
tanto sacrificio. Lo possono comprendere solo i sommergibilisti, la vita di
bordo che la svolgevano secondo le norme disciplinari; ogn’uno col suo turno di
guardia al proprio posto di manovra assegnato, tutti vigili e attenti, agli
ordini del comandante. Ogn’uno guarda il suo apparecchio e manovra secondo gli
ordini impartiti. Non ci sono distrazioni, non si può fumare, non si può
chiacchierare e neanche dare ordini con voce grave, né fare rumore qualsiasi
con le scarpe sui paioli ed infine bisogna resistere a qualunque bisogno corporale
se non si sta a quota da poterli fare. Si sta in agguato, silenziosi e
vigili, solo gli occhi sfolgorano di una sola volontà di vita e di patimento,
l’aria racchiusa nelle camere all’interno del sommergibile non circola; tra il
calore delle lampadine e quelle delle attività degli argani che lavorano e la
temperatura degli uomini, l’aria diventa afosa e insopportabile di un caldo
infernale, con il passar del tempo l’ossigeno va consumandosi, lasciando il
posto all’anidride carbonica, la respirazione diventa pesante e frequente, gli
occhi bruciano di continuo per il sudore che cala dalla fronte e si ha una
stonatezza che porta alla sonnolenza che non si riesce a soddisfare. Questo
sonno è dovuto dalla mancanza di ossigeno unito al continuo sibillio e ronzio
dagli apparecchi elettrici in funzione, che forma una cantilena senza fine.
Ogni uomo, è davanti al suo apparecchio, fermo al suo posto, tutto è silenzio,
solo la guardia franca dorme con il sonno di piombo nell’aria stagnante. Si
nota un’ansia straordinaria, tutti levano lo sguardo di continuo verso
l’orologio che è situato in alto, sopra la porta a stagno della camera di
manovra. Che cosa ci attende? Cosa si brama con tanta ansietà? Forse si aspetta
il cambio della guardia, per mangiare o per qualche altro bisogno, NO! Si
contano le ore, i minuti e i secondi, ed ogni secondo sembra lungo un secolo.
Sono trascorse appena otto ore, dacchè siamo immersi dalle quattro di stamane,
siamo appena a mezzogiorno. Mancano ancora altre ore di fondo. Dio come sono
lunghe! Con questo caldo, siamo in pieno inverno e siamo nudi e inzuppati di
sudore, anche il battello sottomarino dalle sue pareti suda grosse gocce
d’acqua che di tanto in tanto cadono sul mio dorso e su quello degli altri. È
mezzogiorno, si mangia, c’è un po’ di movimento per tutto l’interno del
battello, si ritirano le gamelle per il pranzo, son viveri di guerra, tutta
roba in scatola e gallettine per pane. Si mangia allegramente, fermi davanti al
proprio posto di manovra e dopo il cambio della guardia. L’ansia di guardare
l’orologio è sempre la stessa, uffa queste ore come passano lentamente!! Si
ricambia nuovamente la guardia. Siamo alle ore diciotto della giornata, l’aria
è molto peggiorata, puzza e ha uno strano odore di alito di trentadue persone che
respirano. I respiri diventano rapidi come se si avesse un’asma; l’ossigeno
richiesto dai polmoni non è più sufficiente per una respirazione regolare, il
sudore che cola ci dà una sete indiavolata, ma l’acqua è così calda che ci
disgusta e poi essa non si deve sciupare, neppure una goccia e nel limite
ristrettissimo che ci bagnamo solo le labbra, nell’arco di una giornata solo un
bicchiere ci viene versato. Finalmente l’orologio marca le ore diciannove di
sera, quando il comandante dal suo posto di comando e di osservazione chiama
l’idrofonista. Il comandante chiede: – Odi niente? L’idrofonista risponde:
– Nulla.
Il comandante impartisce
l’ordine: – A quota periscopica 50, a mare cassa zavorra avanti. Le
stesse parole si sentono ripetere come un eco da colui che è al posto di
manovra, per dire che ha ricevuto l’ordine: 50 a mano dalla cassa zavorra
a dietro. Un’altra voce si sente ripetere: – Timone orizzontale a
venti in alto; macchina avanti adagio; macchina ferma, alza periscopio –
Un leggero scatto e un sibillio fa capire che è il piroscopio si sta alzando.
Timone orizzontale a 0, si avverte che il battello che era leggermente
inclinato si riaddrizza. Dopo una breve esplorazione del periscopio e ancora
qualche ordine s’odono tanti rumori confusi di pompe di assesto in
funzionamento. Il rumore assordante del turbo soffiante, il ronzio di altre
macchine e apparecchi in moto. Un leggero dondolio ci dice che il battello è in
superficie. Ancora altri comandi: – Aprite il portello della torretta;
guardia al timone e chi in vedetta in torretta. Capo Devoto voi che siete di
guardia fate fare la pulizia in tutti i locali; il signor Teruzzi fate mettere
i motori termici in moto e ricaricate gli accumulatori.
Così terminato di dare gli
ultimi ordini, il comandante, zoppicando leggermente (da essere poco visibile)
per una sua gamba offesa e dagli occhi azzurri, il Tenente di Vascello Signor
Valerio Dei Principi Borghese, si piglia il cappotto e il cannocchiale e risale
in torretta. Giù nei locali gli uomini si “risvegliano”, mettono in ordine e
fanno la pulizia al battello, c’è chi chiude le valvole di allagamento dei
doppi fondi, chi gli sfoghi d’aria, chi scopa, chi pulisce altre cose. In
coperta c’è chi lava le gammelle, chi fa i propri bisogni corporali, man mano che
la gente si sbriga escono dalle viscere del battello. In coperta si fuma una
sigaretta, osservando il mare calmissimo e il cielo leggermente illuminato da
un tantino di luna e da qualche stella. A breve la coperta si riempie di uomini
ed ogn’uno eleva uno sguardo al cielo come a voler dare il suo saluto e poi al
mare; le mani frugano in tasca ed accendono una sigaretta.
Ehi! Dopo 15 ore di fondo si
respira un po’ di aria fresca. Ringrazio Dio e mi meraviglio come mai siamo
emersi un’ora prima dei giorni scorsi, forse per caricare gli accumulatori,
intanto i motori termici sono in moto per eseguire il caricamento; così siamo
fermi in superficie chiacchierando, discutendo e fumando diverse sigarette in
una sola ripresa.
– Oggi ti lamentavi del
caldo ed ora ti lagni del freddo” dice uno di noi – Si può sapere che
razza di pesce sei?
– Caro amico – è la
risposta – ricordati che nella vita non si è mai contenti del proprio. Per
esempio tu in 15 ore di fondo non hai fumato nemmeno una cicca ed ora in 5 min.
ne hai accese tre. L’amico risponde: – Domani avremo altre 15
ore di fondo in cui non posso fumare, da ora fino alle quattro di domani fumerò
tutto quelle che mi rimangono! E così tutti sdraiati in coperta ogn’uno
raccontava una delle sue, respirando a pieni polmoni per incamerare di
ossigeno che durante la giornata andava svanendo, come per fare uno provvista
anche per il prossimo giorno. Mentre stavamo così fermi con il battello e noi
quasi tutti sdraiati in coperta a guardare un po’ di luna che era ormai tramontata,
solo le stelle luccicavano e potevano essere le nove di sera. All’improvviso la
guardia di vedetta segnalò una luce, tutti ci rivolgemmo nella direzione
indicata, il comandante puntò il suo cannocchiale. Dopo una breve osservazione
disse che si trattava di un piroscafo illuminato a festa: – In questi
paraggi? Eh, non mi fregate! Ordinò subito di andare tutti ai propri posti
per una rapida immersione e che i portelli di poppa e di prua fossero chiusi e
alla macchina di staccare la carica degli accumulatori e di mettere avanti a
tutta forza. Poi chiamò il capo silurista Roia, gli disse di preparare i tubi
di lancio N° 1 e N° 2 e di avvertirlo appena pronto.
– Tutti gli uomini che
scendano giù! Anche tu timoniere Giribaldi! Mettiti al timone. Intanto il
sommergibile filava velocemente incontro al piroscafo, ci avvicinammo in un
colpo d’occhio.
L’ufficiale in seconda
Sign.re Manfredi, giù nella camera di manovra attaccato al portavoce della
plancia diretto dal comandante, riceveva delle cifre e faceva dei calcoli
(piroscafo illuminato a festa direzione 230° velocità 12 miglia, stazza
approssimativamente circa 10.000 tonnellate, scortato da otto caccia
torpediniere, 4 avanti e 4 di dietro, tutti e otto si dirigono a Malaga; forse
carico di materiale bellico). Nostra posizione: 6 miglia su fianco destro del
piroscafo.
La notte ci favorisce, è
abbastanza buia. Ci accostiamo il più vicino possibile e se tutto procede bene,
a 500 m faremo il lancio.
– “Fate in modo che giù sia
tutto pronto per il lancio e per la rapida immersione” – Tutto è pronto, solo
il capo silurista attende l’angolazione che deve dare ai siluri. Siamo a due
miglia sempre sulla destra del piroscafo, la nostra velocità è di 14,8
miglia/orarie, quella del piroscafo è costante 12 miglia. È carico di soldati,
si vedono che passeggiano e scherzano su in coperta.
Data al silurista
l’angolazione, stiamo a 700 m, sempre sulla dritta del piroscafo, la nostra
prua è diretta sulla sua prua e forma un angolo retto, appena al centro faremo
il lancio.
– “State pronti!” – si
attende tutto con ansia; all’improvviso si sente uno scatto in camera lancio
avanti, poi un secondo, i siluri sono stati lanciati ad un intervallo di pochi
secondi che sembrano ore, si ode una forte esplosione. Attendevamo la seconda,
invece la sirena ci chiama all’interno del sommergibile, per la rapida
immersione. Tutto si muove e si manovra, i motori temici si fermano, si chiude
il valvolone per lo scappamento dei gas combusti all’esterno, si chiude il
portello della torretta, si aprono tutti i kingston di allagamento
dei doppi fondi e le casse di zavorra avanti e indietro quelle di compensa e
della rapida immersione. Si aprono tutti gli sfoghi d’aria per l’allagamento di
tutte le casse e doppi fondi, si chiudono i tombini e si piegano i timoni
orizzontali, si attaccano i motori elettrici e il battello svuota, si odono
cigolii e sbuffa come una grande bestia, e poi sprofonda nell’abisso marino.
Con una velocità notevole; basti pensare che tutta questa manovra avviene con
una celerità tale che in 30 sec dal segnale della sirena con la rapida
immersione, ci troviamo a 90 m di profondità. Ogni uno di noi aspettava l’esito
della nostra vittoria, ma ben presto vediamo che il comandante è nero di umore,
e comanda subito di stare fermi con le macchine e di mantenere i timoni
orizzontali per evitare il più piccolo rumore. Poi chiama l’idrofonista e lo
pone in ascolto e subito dopo l’ufficiale in seconda rilegge tutte le cifre del
portavoce prende un lapis e rifà nuovamente i calcoli, ad uno ad uno.
– “Qualcosa di anormale c’è”
– pensavamo noi. Poi fece chiamare il capo silurista Roia. Ci fu tra il
comandante e il capo una discussione a bassa voce; solo il timoniere, che era
lì vicino seppe dirci alcune cose: che il comandante era arrabbiatissimo e dava
la colpa al capo Roia per la sua lentezza e quindi qualcosa non era andato
bene.
Il comandante si chiedeva se
tutte le manovre fossero state giuste e come era stato possibile che il primo
siluro fosse passato per la prua del piroscafo e il secondo per la poppa,
andando a colpire la prua di un caccia: “Spiegatelo voi Capo!”. Il capo non
seppe dare alcuna spiegazione; allora il comandante nel congedare il Capo gli
disse, con voce forte che tutti udirono: – “Capo Roia, potete andare e pregate
Dio che ce la caveremo, altrimenti ci rivedremo davanti ad una commissione
esaminatrice!”. Poi si rivolse all’idrofonista per capire i movimenti in
superficie dei caccia e quest’ultimo riferì che uno si muoveva in direzione
libeccio, un altro verso levante, ma cambiando pur sempre direzione; gli ultimi
due erano fermi a ponente per capire la loro direzione. Il comandante si
raccomandò all’idrofonista di riferirgli tutto quello che sentiva e prese in
mano le redini della situazione. Regnava in noi un’angoscia, il silenzio era
profondo, l’orologio segnava appena le ore ventidue. Poveri noi siamo stati
appena due ore e mezza in superficie a respirare aria pura, ed ora siamo
nuovamente in fondo al mare, forse saremo cacciati come un cinghiale.
Dopo parecchio tempo l’idrofonista
segnala un’altra macchina in moto, di potenza superiore alle altre che si
dirigeva verso scirocco, pensammo ad un ulteriore caccia in soccorso a quello
colpito dal nostro siluro, forse lo sta rimorchiando, infatti man mano che il
tempo passava, l’idrofonista segnalava il moto propulsore sempre più debole in
direzione scirocco. Sono solo i quattro caccia che ci spiano. Due ci spiano
fermi e due si muovono per rintracciare la nostra posizione. Noi giù in fondo
al mare rinchiusi nelle viscere del mostro marino “Iride” siamo tutti
silenziosi, il più piccolo rumore può svelare la nostra precisa posizione e ci
può essere fatale. Noi siamo inoffensivi: uno contro quattro. Sempre nella
stessa condizione non possiamo stare, siamo in una zona molto profonda e non ci
possiamo posare sul fondo del mare. Bisogna mantenere una quota regolare
altrimenti la pressione ci schiaccia. Sempre sul timone orizzontale non
possiamo rimanere fermi nell’acqua, il battello man mano perde e riprende quota
e bisogna attivare la pompa per darci l’equilibrio d’assetto, o dare qualche
colpo d’elica, nei momenti opportuni, quando i manometri indicano una
profondità eccessiva o insufficiente alla difesa.
I manometri ci segnano una
profondità rilevante e non possiamo stare a lungo così, all’intervallo di tempo
alcuni colpi di elica ci sono serviti a darci quota così il comandante ordina
di attaccare i motori elettrici e ai timonieri orizzontali di dare altre
inclinazioni, infatti si nota subito che il battello s’impinna, ubbidisce ai comandi
e risale a quota. Ma durante questa manovra, per quanto di breve durata, il
nemico che è di sopra man mano va individuandoci attraverso i suoi idrofoni, e
tutta la zona circostante a noi è in continuo ascolto e esplorazione, da parte
dei quattro caccia nemici; noi ignoriamo chi siano come essi ignorano noi.
Una sola supposizione ci fa
credere che siano inglesi: perché il caccia colpito e il suo soccorritore si
sono diretti verso scirocco cioè nella direzione di Gibilterra.
Si osservano i manometri che scendono
man mano l’elica gira segnala 75-60-55-50-45-40 fino a trenta metri di
profondità. Cessa ogni rullio o cigolio di motori elettrici in moto o di altri
apparecchi. Nuovamente sui timoni manovrati man mano si cerca di mantenere il
più possibile l’equilibrio del battello tra gli abissi marini. La caccia su noi
si accanisce da parte del nemico, ma riescono a scoprire la nostra vera
posizione; essi ci hanno avvertiti ed avvertono ogni nostro movimento, ma poi
con il nostro silenzio perdono ogni traccia. Qualche bomba si era sentita, ma
molto lontano da noi, forse una manovra per stanarci e per sondare meglio la
nostra posizione.
Uomini alla caccia dei loro
simili con mezzi differenti, intelligenza contro intelligenza, astuzia contro
astuzia, chi canterà vittoria?
Certo noi siamo cacciati e
non ci possiamo muovere, siamo offesi e non possiamo offendere, cerchiamo di
svignarcela solo con il silenzio e la nostra pazienza. Mentre essi hanno tutti
i vantaggi, anche numericamente, e la caccia non desiste. Già parecchie volte è
stata eseguita la stessa manovra di quota, ed ogni volta le bombe di profondità
si son fatte sentire, tutte ad una certa distanza da noi.
L’idrofonista segnala sempre
due caccia fermi in ascolto e due in movimento di esplorazione. Si dà un’occhiata
all’orologio e ci si rende conto che son passate sei ore che è avvenuto il
fatto: dalle ore 22:00 del 17 gennaio sono le 4:00 del mattino di giorno 18;
siamo alla stessa ora che noi c’immergevamo per stare in agguato di giorno e
fare la caccia di notte, ed ora da cacciatori siamo cacciati.
La posizione è cambiata e mi
rendo conto del comportamento umano, ma spero che i cacciatori dopo essersi
divertiti a bombardarci desisteranno e noi potremmo tornare in superficie!
Hum! …c’è da aspettare,
questa volta ci toccano 23 ore di fondo, di aria viziata, poveri noi! Pertanto
andiamo avanti così, non pensavamo al peggio che poteva venire. Le ore
passavano lentamente, le stesse manovre si ripetevano di tanto in tanto quando
il battello ce lo richiedeva. Ogni volta che cerchiamo quota, il nemico ci
ascolta. Viene incontro al nostro suono e ci saluta con due o tre esplosioni di
certi ordigni antisommergibili, qualcuno di questi è scoppiato nelle nostre
vicinanze facendoci fare qualche grado di oscillazione e leggeri sbalzi di
quota.
La caccia continua più
serrata su di noi, sul finir della giornata aumentò l’intensità, le bombe
cadono a corona circolare, alcune vicine altre lontane. Anche noi cambiamo
tattica: colpi di elica a sbalzi, e continue inversione di rotta, in rapporto a
quelli dei quattro caccia con continui planamenti verso il fondo su timoni
orizzontali, per trovarci al di fuori del raggio dei caccia e disorientarli
sulla nostra posizione.
Il nemico si accanisce e
butta giù ordigni a diverse riprese e profondità, di continuo. Il duello tra
caccia e cacciato dura fino alle ore 15:00 con la stessa intensità; poi c’è una
tregua nel lancio delle bombe, ma l’osservazione continua sempre intensa. Quale
nuova sorpresa ci aspetterà ora? Quale consiglio diabolico essi stanno a fare
su di noi? Desisteranno? Noi siamo tutti sovraeccitati dalle continue
esplosioni – alcuni scoppi proprio vicini – durante questi momenti pensavo di
dare l’anima a Dio ma dopo questa tregua cosa ci accadrà?
Questa domanda occupa il mio
cervello, il nemico continua nella sua caccia. Molti di noi sono nervosi (io lo
sento in me e osservo i miei compagni), ma con la nostra volontà si riesce a
sopraffare tutto. Bisogna essere calmi, uno scatto nervoso può farci commettere
un’imprudenza e con essa saremmo perduti tutti; e per il bene di tutti noi
bisogna essere tranquilli per trovare la strada della salvezza…
Quale salvezza? Se
questi signori, i nostri cacciatori, non ci lasciano tregua? Siamo tutti in
attesa di qualche nuova ripresa, qualche bomba isolata si fa ancora sentire di
tanto in tanto. Il caldo si fa opprimente, siamo tutti nudi, solo con le
mutandine e il sudore cola come piccoli rivoletti sui nostri dorsi, che
acquistano per effetto di questo una tale lucidità come se fossero pelli
lucidate. La respirazione è già alquanto alterata, l’aria puzza maledettamente,
si sente una puzza nauseante di aliti, di sudori, di putrefazione, di olii, di
acidi degli accumulatori e altri miscugli. Siamo alle ore 16:00, i caccia
nemici sono sempre su di noi, il sole sta per tramontare, nessuna speranza di
desistere da parte del nemico. Anzi si accentua la probabilità di essere
cacciati perché il nostro idrofonista ci segnala altre turbine… tre, poi
quattro, della stessa potenza di macchina dirigersi verso di noi, provenienti
da scirocco. I secondi caccia, ancora più spietati, freschi e spietati sono
venuti a dare il cambio ai primi tempestando il mare con ogni specie di
ordigni. Si sentono innumerevoli esplosioni in tutte le direzioni, alcuni
vicinissime.
Ci crediamo perduti, il
battello perde quota, sbanda come se fosse in superficie nel mare burrascoso,
dopo diverse e accanite manovre riuscimmo a raddrizzarlo e ad arrivare a quota
90 m di profondità. Qui si mettono le macchine avanti e si scappa in direzione
opposta al bombardamento mentre si sentono scoppi ininterrotti dietro la nostra
poppa. Risaliamo a quota quaranta metri e intraprendiamo la stessa navigazione
subacquea.
Come cessa il bombardamento
il primo caccia si ferma; l’idrofonista segnala al comandante il quale fa
subito fermare i motori. Il silenzio è assoluto. Ogni piccolo rumore è cessato;
solo i timoni manovrati a mano danno qualche leggero stridio.
Quanto durò il bombardamento?
Non saprei dirlo. E il numero delle bombe che cadevano su noi e dietro di noi
neanche so dirlo di preciso, ma approssimativamente qualche centinaio. Noi
uscimmo da una forte eccitazione nervosa e facendo valere tutta la nostra
volontà riuscimmo a tornare calmi. Allora l’unica soddisfazione è quella di
aver fregato il nemico e le nostre labbra sfiorate da un lieve sorriso come per
dire: – “Questa volta l’abbiamo scampata bella!”.
Ma il sorriso scompaiono ben
presto, il sudore e l’aria sono il continuo nostro tormento. Riprendiamo la
nostra vecchia tattica, il nemico rimasto deluso dall’esito incomincia a
spiarci passo passo. Le ore scorrono, l’aria è irrespirabile, sono trascorse 24
h siamo cacciati come belve …e non c’è tregua.
Ancora una scarica di bombe
viene a turbinare intorno a noi in senso circolare; altre planature da parte
nostra sui timoni orizzontali fino a 90 m di profondità, anche questa volta le
bombe hanno scosso molto l’Iride, ma senza provocare alcun grosso danno; solo
la radio non trasmette né riceve, l’antenna non recepisce più il segnale.
Così rimanemmo isolati da
ogni collegamento con i vivi della terra e con l’altro battello sottomarino
nostro gemello e in missione con noi, l’Onice. La lancetta dell’orologio aveva
segnato per la terza volta il dodici, siamo a mezzanotte, incomincia il nuovo
giorno con 26 ore d’immersione. Il nemico ci ascolta sempre anche se ha
rallentato glia attacchi furiosi, noi dal fondo spiamo attraverso l’idrofono i
suoi movimenti in superficie. Sono sempre uniformi intorno a noi, forse
aspettano altri rinforzi? Oppure l’alba per iniziare i loro concentrici
attacchi? Così pensavamo noi, 32 persone rinchiuse in quel fusiforme di pochi
millimetri d’acciaio che ci separa dalla massa delle acque e da ogni
collegamento con la terra. Mentre la respirazione diveniva di ora in ora sempre
più pesante e asmatica, l’aria già quasi tutta avvelenata di anidride
carbonica, la stessa puzza di aliti avvizziti, di olii bruciati, di sudore
evaporato, di putrefazione di sentine, di acidi generati dalla trasformazione
chimica degli accumulatori. Siamo quasi tutti abbattuti e snervati: che sarà di
noi in questa grossa cella marina?
Illuminati da doppie file di
lampadine elettriche sembra una notte senza fine, abbagliati come in un
laboratorio chimico, stanchi e sconfitti dal sonno, non riusciamo a dormire, il
sistema nervoso è troppo provato, ognuno di noi è abbattuto sul proprio posto
di manovra, chi vaga con gli occhi intorno come per cercare qualcosa per
potersi distrarre, chi con le dita delle mani incrociate fa girare i pollici
rimasti liberi, chi si stiracchia, chi sbadiglia…che noia! Che pena
insopportabile! Nessuno di noi aveva il pensiero della morte, eppure era lì di
fronte a noi che ci spiava. Son passate ancora quattro ore, sono le quattro del
mattino: un nuovo giorno. Che ci sarà ancora oggi? Solo la fatalità lo sa. La
respirazione aumenta il suo ritmo, incominciamo a sentirci tutti malati, sono
ormai trenta ore che non respiriamo più aria pura e il nemico non desiste dallo
spiarci. Nel frattempo il comandante ordina di aprire tutte le cassette di
Bullock, un composto di calcio e soda caustica, che messo a contatto con
l’anidride carbonica l’assorbe producendo ossigeno. Man mano che la reazione
del processo Bullock avanza s’incomincia a sentire sollievo. Quanto ossigeno ci
può rifornire questo Bullock? Nessuno pensa a questo. La respirazione
migliora, con essa ritorna la vita e le speranze si accendono in noi.
Solo i due idrofonisti,
dandosi il cambio al’ascolto, sentivano i movimenti in superficie dei caccia
mentre il comandante con il secondo sorvegliavano gli strumenti, calcolavano e
ordinavano. Dalle ore 23:00 della notte non segnalavano che soli due caccia
perché gli altri due si erano allontanati; l’alba delle ore 06:30 marcò
l’arrivo di otto caccia che si avvicinavano a noi: fra non molto incomincerà il
nuovo ballo.
Le semplici parole del
comandate, in risposta ad un capo che aveva fatto domande a riguardo, furono:
– Fate attenzione e coraggio!
Alle ore 08:00 ogni moto
propulsore è cessato, si sentono i rumori di alcuni piccole imbarcazioni, forse
qualche consiglio di guerra fra comandante dei caccia, l’orologio marca le 9:00
, si sentono altre imbarcazioni solcale il mare, poi più nulla. All’improvviso
si ode un tonfo, come un corpo caduto in acqua e le macchine di un caccia che
si avvicina adagio.
Tutti quelli della camera di
manovra videro il comandante stringere i pugni e alzare la testa balbettando
queste parole: – …Torpedine da rimorchio!. Poi chiamò il nostromo e lo
mise a timone verticale raccomandandolo di fare bene attenzione a lui e
così tutti attendemmo che cosa ci poteva fare questo nuovo ordigno. Il caccia
su di noi solca in tutte le direzioni e così il nostro comandante fa invertire
di continuo la rotta. Di nuovo la bestia uomo mette astuzia contro astuzia,
intelligenza contro intelligenza, questa macchina perfetta riceve, calcola,
trasmette.
Ci odiamo, ci combattiamo
eppure non ci siamo mai conosciuti; ma a qualunque costo essi chiedono la
nostra fine. Oh uomini, voi che godete ancora la luce diurna, forse anche
allegramente, non canterete di gloria per averci distrutto! Perché vi accanite
tanto contro di noi che da giorni non vediamo più la luce del sole e da
ottantasei ore non vediamo più neanche la luce delle stelle? Non respiriamo più
aria pura in modo da riempire i nostri polmoni quasi malati, né la brezza
marina accarezza i nostri volti… Ormai siamo impotenti alle vostre offese!
Volgiamo alla fine del nostro dialogo, voi cercate di ammazzare delle cose già
morte!
Signor cacciatore, mi sento
orgoglioso di essere su questo battello che voi avete scambiato per un
cinghiale senza denti per l’offesa. Mentre voi vi sentite come cinque leoni
alla nostra caccia…
Passa ancora un’ora. La
caccia continua sempre più stretta e accanita…
All’improvviso si sente una
cosa raspare sulla nostra dritta… Orrore, spavento, la gelida mano della morte
ci sta per ghermire. Mi sento toccare il cervello, il cuore cessa il suo
battito, una sola idea fissa e rapida come un lampo: “Siamo fritti”!
Guardo un mio compagno
Coretti situato di fronte a me e lo vedo spaventato, irriconoscibile, il suo
pallore è diventato cadaverico, gli occhi spalancati quasi da uscire dalle
orbite, i capelli arruffati si sono drizzati come spine e a respiro fermo giro
lo sguardo verso l’orologio, ma non ricordo l’ora, come per darci un addio e
chiederci aiuto. Volevo scappare, ma mi sentivo inchiodato al mio posto, ero
terrorizzato quando girai lo sguardo e vidi tutti i miei compagni della camera
di manovra con lo stesso aspetto del Coretti.
La cosa continuava a raspare
e strisciare lentamente sulla nostra fiancata di dritta nella direzione di
poppa fino a che non la sentimmo più. Il mio respiro era ancora mozzato e gli
occhi sbarrati, ma man mano che i minuti passavano, la calma ritornava. Mi
sentii passare per la schiena, a diverse riprese, dei brividi freddi che
andavano dalla testa al bacino. Più tardi chiesi ai miei compagni di bordo le
loro sensazioni, era le stesse mie. Perché tanta paura ha provato ognuno di
noi? E quell’aspetto terribile? Che cosa ci aspettavamo? Il colpo finale? Come
ci siamo sentiti toccare e raspare… l’ala della morte ha sfiorato e
carezzato i nostri volti, poi è scomparsa; con essa anche la paura.
Come mai, ci domandammo,
siamo ancora vivi? Forse è stato un sogno? No! Nessuno di noi ha sognato: quella
era la realtà. Perché il terribile ordigno non è scoppiato? Per la semplice
ragione che la torpedine da rimorchio era a quota di profondità superiore alla
nostra e così noi siamo riusciti a non saltare in acqua.
Quello che aveva toccato il
nostro fianco era il cavo di acciaio che teneva legata la torpedine con il
caccia. Mentre la torpedine passava sotto di noi sarebbe bastato un piccolo
urto e per noi e per l’Iride sarebbe stata finita.
La fatalità non volle, e noi
restammo ancora sospesi in quota sugli abissi marini. Passarono ancora
parecchie ore e la terribile torpedine da rimorchio andava in cerca di noi.
Però senza riuscire più a toccarci, fin quando fu tolto da mare; anche questo
ordigno era stato usato senza alcuna speranza per i nostri nemici.
Tutti i caccia si mettono in
movimento, noi avanziamo in direzione del loro andare; essi si fermano per
ascoltarci, noi imitiamo i loro stessi movimenti, così questo per tutto il
resto della giornata, solo qualche bomba isolata di tanto in tanto si fa sentire.
La respirazione incomincia ad appesantirsi di nuovo. Alle sette di sera
facciamo uno spuntino, un pacchetto di gallettine, una scatoletta di
marmellata ed un bicchiere di aranciata a testa. L’aranciata per me fu la cosa
più gradita delle altre che strozzano in gola, sembrò di calmarla per un
momento, ricomincia però da capo la mala respirazione, il sudore e la sete. La
tenaglia che stringe sempre più le tempie, la terribile noia, gli scatti
nervosi; la ferma volontà doveva agire su tutto questo per farmi esser calmo.
Tutto questo scombussolare sfiaccava il mio essere in modo straordinario in un
continuo soffrire.
Tutta la notte trascorse
calma, il nemico si accontentava solo di spiarci. Noi facemmo molte manovre per
cercare una sortita, ma tutti i tentativi di fuga furono vani. A mezzanotte,
dopo aver fatto ancora diversi tentativi, l’aria non era più respirabile; il
comandante diede ordine di dare ossigeno dalle bombole, l’ordine fu eseguito e
l’aria rigenerò i nostri polmoni asmatici e malati. Per la quinta volta
l’orologio marcò le dodici, e noi siamo ancora nelle stesse condizioni di
prima, anzi peggio perché le provviste di ossigeno erano intaccate.
Sono trascorse 50 ore di
immersione e dal giornale di bordo si legge così: “20 gennaio 1938 ore 00:05.
Il nemico continua a spiarci, i nostri tentativi di fuga sono falliti. A
mezzanotte abbiamo intaccato ancora le nostre riserve di ossigeno, la condotta
degli uomini è esemplare nonostante le ore di immersione, i disagi della
respirazione e i bombardamenti subiti.”
Vagammo per il fondo, poi
restando fermi in equilibrio sui timoni orizzontali per attirare in inganno il
nemico ma tutti i nostri sforzi andavano a vuoto, il nemico vegliava su di noi
e faceva buona guardia, mentre le ore scorrevano lentamente. Il nostro morale
era basso, la difficoltà respiratoria si unita al bruciore del caustico
liberato dal ‘Bullock’ che senza che ce ne avvedessimo aveva imbevuto il sudore
in cui eravamo. Provavamo alla nostra pelle continue bruciature come tizzi
ardenti che mordevano la nostra carne. Che pena! Che tormento! Forse l’inferno
dantesco e i dannati del suo ultimo girone non subirono simili torture.
Sono le sette del mattino di
un nuovo giorno, il nemico durante la notte non ci ha molestato, si è
accontentato solo di spiarci. È terribile! Essi sanno che l’aria è limitata, ci
faranno morire asfissiati. Questo nuovo giorno sarà anche senza sole e senza
aria e magari anche l’ultimo della nostra vita. L’anidride carbonica avanza e
noi la respiriamo, ma quali sono le nostre speranze? Chi ci tirerà fuori da
questo abisso in cui ci siamo inoltrati? Eppure una leggera speranza come una
stilla di luce irradia ancora i nostri cervelli quasi malati.
Eravamo condannati a morire
lentamente asfissiati… Non è meglio morire di una morte brusca e alleviare la
pena cui eravamo sottoposti. Eppure la coscienza, la speranza, le illusioni
cacciavano questa malefica idea. L’unico pensiero era quello di difenderci fino
all’ultimo respiro, ma questo lo penso adesso che lo sto scrivendo, di fatto
non pensavamo a tutto questo, né alla morte e né ad altre cose.
Il nuovo giorno viene a
salutarci con poche scariche di bombe che scoppiavano quasi tutte in nostra
vicinanza, ci accorgiamo che il nemico si addestra sul lancio delle bombe, noi
siamo più fiacchi nel fare le cose.
Alle ore 11.00 tutta la
riserva di ossigeno viene scaricata. Questa volta non si avvertì nessun
sollievo nella respirazione, era asmatica e continuò ad esserla.
A mezzogiorno ci viene
distribuito un altro pacchettino di gallettine con una scatoletta di marmellata
ed una frutta sciroppata con un altro bicchiere di aranciata. Li divorai, ma
con una lentezza straordinaria. In ogni boccone, anche piccolo, subivo un
soffocamento, i polmoni ansavano in modo molto accelerato, eppure in queste
condizioni ci difendevamo dagli attacchi del nemico.
Siamo alle ore 16.00, la
respirazione aumenta il suo ritmo; incomincio ad avvertire strane punture per
tutta la vita ad un tratto mi rendo conto che sta succedendo qualcosa. Dei
compagni di bordo danno segni di squilibrio cerebrale, devono situarli in
cuccette legandoli in alto come salami; questi non sono gli unici segni di
squilibrio… Altri componenti dell’equipaggio fanno strani movimenti e
dimostrazioni di irrequietezza; fra breve saremmo diventati tutti pazzi! L’Iride
sarà un manicomio sottomarino.
Il comandante chiese se c’era
ancora ossigeno, la risposta fu negativa, le bombole sono tutte vuote e le
valvole tutte aperte. Vidi il comandante prendere una scatola di cerini dalla
tasca, accese un primo un metro dai paioli, incominciò ad abbassare il cerino
acceso, man mano che la fiammella scendeva si rimpiccioliva; arrivato a un
palmo sopra le sue ginocchia, il cerino si spense. Ne accese un altro un po’
più alto del primo, si mantenne come un minuscolo lumicino pronto a morire,
rimise i cerini in tasca, prese una carta e una matita e fece un breve calcolo.
Si alzò e si fece sostituire dall’ufficiale in seconda; poco dopo ritornò fece
chiamare tutti coloro che non erano ai posti di manovra importanti e gli
ufficiali con i sottoufficiali. Ansimavano tutti e riflettevano sulla
convocazione del comandante.
Notai a colpo d’occhio sul
volto del capitano un pallore straordinario: i suoi occhi da celesti erano
rossi, tremava da capo a piedi, fece diverse prove di parlare, ma nessun suono
uscì articolato dalla sua bocca. Lo vedemmo mettere mano alle tempie, rimase
parecchi minuti in quella posizione come se la sua testa stesse per scoppiare;
pensai subito che si sentisse male o che stesse impazzendo anche lui. Poco dopo
sollevò la testa e il suo volto aveva riacquistato un po’ di colorito, tossì
per schiarirsi la voce, mise una mano in tasca e tirò fuori una pistola carica,
la sollevò sul tavolo e vi poggiò sopra la sua mano destra, tossì nuovamente e
si rivolse a noi:
– “Ragazzi ho da dirvi cose
abbastanza gravi, sono le ore 17:00 e i calcoli che ho fatto per le provviste
d’aria che abbiamo sono tutt’al più di altre otto ore, alle ore 01:00 di
stanotte, per l’Iride, e per noi, ogni cosa sarà finita. Come avete visto non
ci sono vie di uscita, abbiamo tentato tutto! Il nemico sa che abbiamo l’aria
limitata e solo attraverso questo mezzo può cantare la sua vittoria concludendo
la nostra terribile tortura. Io vi chiedo solo, compagni di un medesimo
destino, di rimanere calmi e di attendere la nostra fine. Volendo ci potremmo
salvare, ma andremmo a compromettere il nostro Paese. Io prima di partire da La
Spezia fui chiamato a Roma dove mi fu affidata questa missione segreta, davanti
agli uomini di governo mi assunsi la mia responsabilità e la vostra. Emergendo,
diventeremo loro prigionieri e allo stesso tempo comprometteremo la nostra
Patria, la faccia del nostro Paese, delle nostre famiglie, delle centinaia di
migliaia di nostri fratelli… Che valiamo noi, 32 vite davanti a questa tale
cifra? Noi ci sacrifichiamo per il bene della Patria, il nostro sarà il
sacrificio degli eroi, Viva l’Italia! Viva il Re! Viva il Duce!”
Così concluse il macabro
discorso in fondo al mare il comandante Valerio Dei Principi Borghese, che da
principio parlava con voce fioca e a sbalzi, poi con voce più forte interrotta
dalla difficoltà della respirazione.
Nelle nostre teste
tormentate, quelle parole calarono come piombo fuso; un pensiero fisso
torturava i nostri cervelli: “Dobbiamo morire, bisogna morire!”.
Ero al mio posto di manovra,
nudo, con solo una mutandina, sudato, con la testa fra le mani e i gomiti sulle
ginocchia, i polmoni si affaticano, la gola è arsa, mi sento malato di una
malattia senza cura e senza speranza, la sete e la fame mi tormentano da oltre
sei ore. Non ho ancora 22 anni e sono nel pieno della mia gioventù, amo la vita
perché è l’unica cosa che possiedo su questa terra; chiedo di godere la mia
parte di sole, aria e felicità che per Legge Divina per ogni creatura è un
diritto inviolabile. Amo la vita perché tutti i miei pari la amano con lo
stesso ardore e con lo stesso amore, perché io non devo amarla?
Sto qui allo stremo delle mie
forze, ridotto come un cencio; le braccia e le gambe pesano come tonnellate, la
testa non si vuole più reggere sul tronco e sul collo (…) perché non fuggiamo da questo luogo maledetto, tutto si accanisce per
la nostra distruzione? (…) …la tua
vita non vale niente di fronte alle centinaia di migliaia di vite, tu comprendi
la patria? …È per essa che bisogna morire, per salvare il suo onore; rassegnati
bello mio (…) ma che cos’è la vita?
(…) …Tu comprendi tutte queste cose degli
uomini? Ricchezza, fasto, gloria, bellezza, ambizione e potenza, qual è il loro
giusto valore? Da che mondo è mondo i domini, i principati e gli uomini che
hanno avuto potenza, dove sono essi? Sotterrati e pieni di maledizioni perché
sono stati grandi grazie al sangue versato dei propri simili (…) …i maggiori esponenti di questa società non
sono altro che un branco di lupi divoratori, che bramano i loro interessi
usando come marionette i loro simili inferiori.
Una bomba viene a turbare le
mie fantasie. Che lotta si svolgeva nel mio cervello! …Due pensieri, due esseri
di idee opposte, come due persone che litigano, ma nessuno dei due riesce ad
avere il sopravvento sull’altro, entrambi ostinati a prevalere non cedono (…) …mi debbo rassegnare a morire in questa scatola metallica, in fondo
agli abissi marini. Addio mia vita, per me non ci sono più godimenti e neanche
le gioie di questo mondo. (…) …Addio
miei cari… Perché mi avete messo alla luce in questo orribile mondo? Addio
fratelli, sorella, parenti e amici. Da qui si eleva il mio ultimo pensiero per
voi e vi mando il mio supremo bacio di separazione. La vostra attesa di vedermi
tra voi, condividendo l’allegria e il fasto di questa terra del domani, sarà
delusa; vi porterà dolore sapere che io non sarò più tra le cose di questo
mondo.
Il sudore mi cadeva dal viso,
grosse gocce mi cadevano tra i piedi. Ben presto mi avvidi che non era tutto
sudore, perché non avevo mai sudato in quella quantità; mi accorsi, invece, tra
quei tormenti di spasmi fisici e intellettuali, che io piangevo.
Il respiro asmatico mi
rendeva fortemente insensibile ai singhiozzi. Perché piangevo? Forse per i
tormenti che provava il mio organismo o per la paura di avere solo poche ore di
vita?
Forse era la disperazione,
l’impotenza a poter tentare qualunque mezzo di evasione, oppure il pensare ai
miei cari che mi inteneriva l’anima mentre le lacrime uscivano dai miei occhi.
Mi guardai intorno,
disperato, in cerca di qualche cosa… Rimasi annichilito, tutti smaniavano e
piangevano, anche essi erano creature come me e la pensavano come me; avevano
quasi tutti aspetti demoniaci, con barbe lunghe, capelli arruffati, occhi
stravolti e bocche spalancate, tra lacrime e sudore, tormenti e dolori si
cercava un punto di conforto che avesse pietà di noi. Chi tirava pugni su di sé
come per scacciare qualcosa di malefico, chi congiungeva le mani in atto di
preghiera per implorare un aiuto, un perdono; chi balbettava parole
incomprensibili.
Pensai: “Tra poco saremo
tutti pazzi”.
Mi vergognavo nel vedere le
facce smorfiose dei miei compagni, poi pensai che forse la mia doveva essere
ancora peggio; mi coprì la faccia con entrambi le mani, poggiando i gomiti
sulle ginocchia. Caddi in una specie di dormiveglia, immaginai l’Iride come un
sommergibile di morti, tutti gli uomini morti ai propri posti, che sprofondava
nell’abisso, si riempiva d’acqua… Moriva l’Iride come tutti i suoi uomini. Il
fondale diventava un grande cimitero, navi di tutti i tempi appoggiate sul
fianco riposavano lì come tutti i marinai. Non portano croci alle loro teste,
non hanno altarini, né lumini accesi, non hanno lapidi a coprirli, ma solo una
vasta distesa azzurra… (…)
Rinvenni. Mi resi conto di
aver vagato tanto con la mente fissando una lampadina con la luce accesa, tutti
i miei compagni smaniosi erano ancora lì, non eravamo ancora morti. Pensai alla
lampadina, alla luce del sole che non vediamo da tanti giorni, dove c’è sole
c’è vita. All’improvviso fui chiamato, anzi scosso dal Direttore di macchina
che mi disse: “Svegliati! Cerca di capire, non abbandonare la vita,
bisogna battersi fino all’ultimo… fino all’ultimo! Finché c’è vita c’è sempre
speranza! Vai a prendere la tua maschera di profondità e recati in camera
motori. Aspetta lì”.
Ubbidii ma non capivo a che
pro dovevo prendere la maschera. Mentre la tiravo fuori dal mio stipetto,
barcollando peggio di un ubriaco, sentivo la notizia: “Se ci riesce questo
tentativo forse saremo salvi!” aveva detto il direttore di macchina al
comandante, il quale aveva risposto: “Tentiamo tutto per la nostra
salvezza e facciamo la cosa con criterio”.
La notizia subito si propagò.
Quasi subito si ottenne un risveglio generale, la speranza tornava in noi come
uscendo da un lungo letargo.
Io tornai in me, nello stesso
momento cominciai ad avvertire tutte le mie forze. Presi la maschera e mi recai
in sala motori; lì c’erano altri due meccanici con le maschere.
Mentre il comandante fa
avanzare i motori elettrici, inizia una escursione per il fondo. Il nemico ci
seguiva dalla superficie. Dopo una breve attesa venne il signor Teruzzi che ci
diede alcune spiegazioni: Operazioni sottostanti alla macchina dopo il suo
segnale. Ci aiutò ad applicare le maschere (speciali per il fondo marino: si
componevano di un piccolo morsetto applicato al naso per chiudere bene le
narici, due tacchettini di gomma che fan presa tra gli angoli delle labbra e i
denti in modo che la bocca è la sola a respirare). La maschera chiude
ermeticamente tutto il volto, un tubo di gomma che parte dai tacchetti (che
fanno presa in bocca) va ad un mantice di gomma che viene situato attraverso
cinte intorno al torace; un altro tubicino di gomma parte dalla parte posteriore
del mantice (che fungerà da polmone artificiale) e va ad una piccola bomboletta
(carica di ossigeno, che dura circa tre ore) della capacità di un litro. Per
mettermi la maschera dovetti stare alcuni secondi senza respirare, mi sentii
venir meno, accasciandomi sulle gambe. Appena terminata l’operazione e iniziata
la respirazione dalla bomboletta avvertii un sollievo straordinario: nelle
varie esercitazione fatte, la maschera mi aveva dato sempre gran fastidio,
questa volta fu un sollievo. Così mascherati scendemmo in un locale sottostante
alla macchina, io andai diretto al “volantino” assegnato, e i miei compagni
uguale; attendemmo l’ordine che non tardò a venire. Alle prime bombe che
avvertimmo in nostra vicinanza il comandate avvertì il Direttore ed egli, a sua
volta, noi. Aprimmo subito le valvole. La nafta più leggera dell’acqua esce
dalle valvole superiori del serbatoio, l’acqua entra nelle valvole inferiori al
serbatoio, così vuotammo circa tre tonnellate di nafta incamerando
contemporaneamente acqua di mare, per mantenere l’equilibrio di assetto del
battello.
Fatta l’operazione la nafta
andò in superficie, contemporaneamente il comandante che aveva portato il
battello a quota 40 metri, lo fece tuffare giù con qualche colpo d’elica,
planando con i timoni orizzontali ad una inclinazione fino a 90-100 metri di
profondità.
Non avevamo terminato ancora
la nostra fuga sottomarina che sentimmo dietro di noi quattro forti esplosioni,
che ci diedero una scossa terribile. Poi più nulla.
Restammo tutti lì sospesi
dall’ansia nel più profondo silenzio ad attendere l’esito della nostra mossa,
che non tardò a venire. Per dieci minuti la nave di superficie aveva navigato
in tutte le direzione e poi se n’era andata. Man mano che si allontanavano
l’idrofonista li segnalava. In ognuno di noi ritornava la speranza, sentivamo
una gioia dell’anima ma non avevamo la forza per manifestarla, nemmeno
attraverso gli occhi che rimasero immutati.
Trascorse ancora circa un ora
perché i caccia si allontanassero, poi il comandante ordinò: “Quota
periscopica!”
Una leggera esplorazione
attraverso quell’occhio infine aria in tutte le casse. Un leggero dondolio
venne ad annunciarci che eravamo in superficie. Subito il nostromo si arrampicò
per la torretta e ben presto fu in alto, girò un volantino e sollevò un
coperchio. Folate d’aria fresca vennero ad accarezzare le nostre gote, le
bocche si spalancarono. Lunghe respirazioni a pieni polmoni! Solo allora mi
tolsi la maschera, che ormai mi faceva piacere, ma ora non so dire il sollievo che
provai a respirare la prima boccata d’aria pura e fresca.
Quale ristoro, quale sanità
provarono i nostri polmoni ammalati, non saprei dirlo; dico solo ci portò la
vita! (…) Ci vestimmo alla meglio e salimmo in
coperta. Il primo sguardo fu al cielo; la luna, alquanto grande, ci
rischiarava, si vedeva ancora l’ultimo bagliore del crepuscolo serale. Non
avevo mai visto o non mi era mai apparso il cielo così bello e nel salutarlo,
ringraziando l’Amore Eterno, i miei occhi si velarono di lacrime. Non le lacrime
di dolore che avevo versato giù, ma lacrime di gioia e di tenerezza. Man mano
che ognuno usciva fuori dal portello apriva le braccia come per abbracciare
tutto l’universo, con gli occhi rivolti al cielo. Ringraziavo l’Eterno. Appena
tutti furono in coperta, anche i tre uomini legati che avevano dato segni di
pazzia, il comandante chiamò l’Ufficiale di Rotta per recitare la Preghiera del
Marinaio. Tutti in riga, in coperta, il comandante tirò fuori il cartoncino con
la preghiera ed iniziò:
A Te, o grande eterno Iddio,
Signore del cielo e
dell’abisso,
cui obbediscono i venti e le
onde,
noi uomini di mare e di
guerra,
Ufficiali e Marinai d’Italia,
da questa sacra nave armata
della Patria
leviamo i cuori !
Salva ed esalta nella Tua
fede,
o gran Dio, la nostra
Nazione,
da’ giusta gloria e potenza
alla nostra Bandiera,
comanda che la tempesta e i
flutti servano a Lei,
poni sul nemico il terrore di
Lei,
fa che per sempre la cingano
in difesa petti di ferro
piu’ forti del ferro che
cinge questa nave,
a Lei per sempre dona
vittoria.
Benedici, o Signore,
le nostre case lontane, le
care genti;
benedici nella cadente notte
il riposo del popolo,
benedici noi, che per esso,
vegliamo in armi sul mare.
Benedici!”
Tutti insieme
rispondemmo: Benedici!
Dal giornale di bordo si
legge: 20 gennaio 1938: alle ore 20:30 dopo circa 72 ore d’immersione e quasi
l’asfissia, è emerso l’Iride. Il mare è leggermente mosso, nessuna nave in
vista, alla fine del combattimento ci rendiamo conto che abbiamo riportato
varie avarie. Ci accorgemmo anche che non erano proprio le 20:30, in
quanto noi calcolavamo l’ora secondo il meridiano di Roma, in effetti dovevamo
calcolarlo secondo il meridiano di Madrid visto il luogo in cui ci trovavamo.
Molto probabilmente proprio perché erano, in realtà, le 19:30, il nemico,
grazie al piccolo bagliore di luce, si era reso conto delle macchie di nafta in
superficie e convinto di averci battuti. L’idea di lanciare la nafta fu del
direttore di macchina che prese accordi con il comandante; subito fecero mettere
in movimento l’Iride per ingannare il nemico il quale subito lanciò alcune
bombe. Immediatamente lasciammo uscire la nafta dai serbatoi; il nemico
ingannato dalla vista della nafta e forse anche dai due portelli
dell’intercapedine ha creduto alla nostra fine. Per lanciare la nafta dovetti
mettere la maschera per la sola ragione che all’altezza di un metro dai paiuoli
non c’era più ossigeno; per noi che dovevamo scendere in un locale al di sotto
del livello dei paiuoli era impossibile scendere senza maschera.
Dopo parecchie ore così fermi
alla deriva, in cui mangiammo e acquistammo le forze, solo verso le 22:00
partimmo per le isole Baleari, diretti a Maiorca. Giungemmo lì verso le 15:00
del 21 gennaio; molte navi di ogni nazionalità erano ancorate lì, attendevano e
spiavano, si facevano la guerra in segreto, una contro l’altra. Noi trovammo
rifugio tra navi italiane che in serata partirono per l’Italia.
Un marinaio, facendo la spesa
prima della partenza, passando vicino ad un giornalaio lesse la notizia che portava
un giornale e lo comprò. Ecco cosa riportava il titolo: – “Un sommergibile
di nazionalità sconosciuta è stato affondato nelle acque di Malaga”.
Il 25 gennaio giungemmo alla
Maddalena, dove venne posto sotto esame il capo silurista Roia, il quale non
aveva alcuna colpa, tutto il difetto fu trovato negli apparecchi lancia siluri.
Ora siamo qui per riparare
gli apparecchi lanciasiluri, per mettere l’antenna aerea per la nuova radio e
per risistemare i due portelli dell’intercapedine.
Per ricompensa di tutti i
sacrifici e del nostro comportamento abbiamo avuto un encomio solenne da parte
del Capo Flottiglia e un pranzo speciale. E ora vivendo nella cuccagna
dell’isola della Maddalena porto a termine questo mio diario, che avevo
iniziato nella navigazione di ritorno; per non dimenticare l’Odissea di 72 ore
in compagnia con la morte, perché quasi tutto va perdendosi nella mia memoria,
e per alcuni dati precisi, ho dovuto ricorrere al giornale di bordo.
Aldo Mazzella
La Maddalena 29 Gennaio 1938".
L’Iride in una cartolina (g.c. Giuseppe Garufi via www.naviearmatori.net) |
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