La Minatitlan durante le prove in mare nel Golfo di Genova, luglio 1941 (Fondazione Ansaldo) |
Motonave cisterna di
7651 (o 7599) tsl e 10.500 tpl, lunga 132,25 o 141,4 metri, larga 19,15 e
pescante 7,80-8, con velocità di 12 nodi (propulsa da un motore diesel FIAT LS
606 da 2800 HP). Faceva parte di un gruppo di tre moderne navi cisterna (Minatitlan, Panuco, Poza Rica)
ordinate nel 1939 ai cantieri Ansaldo dalla Petróleos Mexicanos (Pemex), la
compagnia petrolifera di Stato del Messico, e confiscate dal Governo italiano
nel 1941.
All’epoca della
perdita, la Minatitlan risultava
ancora di proprietà della Società Ansaldo di Genova, e non era stata ancora
immatricolata; armata per conto dello Stato italiano, era stata affidata in
gestione alla Società Anonima Cooperativa di Navigazione Garibaldi, con sede a
Genova (compagnia incaricata tra l’altro della gestione di buona parte del
naviglio ausiliario della Regia Marina, nonché di altre navi mercantili di
proprietà dello Stato).
È sovente menzionata
erroneamente come “Minatitland”.
Breve e parziale cronologia.
10 maggio 1939
Impostata nei
cantieri Gio. Ansaldo & Co. di Sestri Ponente per conto della società
Petróleos Mexicanos (numero di costruzione 337).
La Minatitlán fa parte di un gruppo di tre
petroliere gemelle (le altre due sono Pánuco
e Poza Rica, numeri di costruzione
336 e 335) ordinate all’Ansaldo nel 1939 dalla Petróleos Mexicanos (Pemex), la
compagnia petrolifera di Stato fondata in Messico nel 1938 in seguito alla
nazionalizzazione dell’industria petrolifera messicana, precedentemente
controllata da compagnie britanniche, statunitensi ed olandesi. Tutte e tre le
nuove motocisterne sono state battezzate con nomi di città petrolifere
messicane (Minatitlán, città dello stato di Veracruz che oggi conta 150.000
abitanti, è sede della prima e più grande raffineria dell’America Latina).
La decisione di
nazionalizzare le risorse petrolifere nazionali, nel 1938, ha posto il Messico
in una situazione decisamente contraddittoria: uno dei Paesi più apertamente
antifascisti del mondo (il Messico di Lázaro Cárdenas è stato uno dei pochi
Paesi ad appoggiare apertamente la fazione repubblicana nella guerra civile
spagnola, fornendo ai repubblicani armi, munizioni ed appoggio diplomatico –
mentre Francia, Regno Unito e Stati Uniti restano sostanzialmente a guardare,
senza fornire alcun aiuto concreto alla causa repubblicana – e poi accogliendo
decine di migliaia di esuli dopo la sconfitta della Repubblica) si è ritrovato
ad avere come principali clienti l’Italia fascista e la Germania nazista,
proprio quelle nazioni che nella guerra civile spagnola erano state dall’altra
parte della barricata. Ciò è accaduto perché le compagnie petrolifere
anglosassoni (specialmente quelle britanniche), che con la nazionalizzazione si
sono viste espropriare gli impianti e attrezzature petrolifere che possedevano
in Messico, hanno lanciato un vero e proprio boicottaggio organizzato ai danni
della Pemex, chiudendo il mercato britannico e quelli di altri Paesi Europei
(mentre gli Stati Uniti si sono mantenuti su posizioni più moderate, non
volendo inimicarsi un vicino) al petrolio messicano, sperando che la Pemex
sarebbe crollata per mancanza di clienti; il Regno Unito è giunto al punto di
interrompere le relazioni diplomatiche con il Messico, e diverse compagnie
britanniche hanno lanciato una violenta campagna stampa per esortare il
pubblico a boicottare in generale tutti i prodotti messicani. Il risultato è
stato il dimezzamento delle esportazioni di petrolio messicano, un
deprezzamento del peso messicano ed un aumento dei prezzi nel Paese del 20 %.
In queste condizioni, era abbastanza ovvio che al Messico non restasse che
vendere il proprio petrolio ad altri “reietti” internazionali, Paesi anch’essi
nemici del Regno Unito sebbene per motivi del tutto differenti: Italia e
Germania, che alla fine degli anni Trenta diventano così i principali clienti
della Pemex. Principale tramite negli accordi tra Italia, Germania e Messico è
il petroliere statunitense William Rhodes Davis, vicino alla Germania nazista,
titolare della società Davis & Co.
Il 22 marzo 1939 il
Ministro delle Infrastrutture e Comunicazioni del Messico, Francisco Múgica, ha
concluso con le autorità italiane, con la mediazione di Davis, un accordo che
prevede la fornitura all’Italia, nei successivi due anni, di petrolio messicano
per un valore complessivo di tre milioni e mezzo di dollari dell’epoca;
l’accordo prevede che il pagamento da parte dell’industria italiana non avvenga
per mezzo di denaro, bensì attraverso la costruzione delle tre petroliere per
la Pemex, la cui consegna è prevista per il 1940, da parte dei cantieri Ansaldo
di Genova (altra fonte, però, afferma che il contratto di costruzione delle tre
navi tra la Pemex e l’Ansaldo fu stipulato il 28 ottobre 1938, non nel marzo
1939; altra ancora parla dell’autunno del 1939, ma ciò è impossibile, dato che
le navi furono impostate già nel maggio di quell’anno). Alla sua nascita,
infatti, la compagnia petrolifera messicana non disponeva che di quattro navi
cisterna, del tutto insufficienti rispetto alle sue esigenze, ed il
boicottaggio imposto dalle compagnie petrolifere britanniche scoraggia anche i
piccoli armatori di navi cisterna dal noleggiare le loro navi alla Pemex: la
società ha bisogno di una flotta propria. L’accordo con l’Italia prevede la
costruzione di tre motonavi cisterna di ultima generazione, in grado di
raggiungere una velocità superiore ai 10 nodi, del valore di 1.300.000 dollari
ciascuna.
Minatitlán, Pánuco e Poza Rica vengono impostate lo stesso
giorno, anche se poi la loro costruzione procederà a ritmi diversi (la Minatitlan sarà l’ultima delle tre ad
entrare in servizio). Lo stato di progressione e la qualità del lavoro vengono
controllati periodicamente da ufficiali della Marina Militare messicana.
Secondo una fonte, i lavori di costruzione delle tre motocisterne avrebbero
subito notevoli rallentamenti a causa della priorità data ai lavori sulle
corazzate Littorio ed Impero, anch’esse in costruzione presso
i cantieri Ansaldo; tuttavia il libro "Mexico between Hitler and Roosevelt"
di Friedrich Engelbert Schuler afferma invece che un ispettore messicano
recatosi in Italia tra il dicembre 1939 ed il gennaio 1940 avrebbe telegrafato
da Genova che «i cantieri in Italia… continuano
a lavorare sulle navi cisterna come se la guerra in Europa non fosse stata
dichiarata».
Minatitlan e Panuco in costruzione in una foto del 15 gennaio 1940 (Fondazione Ansaldo) |
Sopra e
sotto, Minatitlan, Panuco e Poza Rica in tre foto datate 20 marzo 1940 (Fondazione Ansaldo)
10 giugno 1940
L’Italia entra nella
seconda guerra mondiale. Lo stato di guerra così sorto tra il Regno Unito, la
cui flotta controlla gli oceani, e l’Italia stravolge gli accordi esistenti tra
Italia e Messico: non sarà tra l’altro possibile trasferire le petroliere, una
volta complete (per il momento, nessuna delle tre è stata ultimata, anche se la
Poza Rica è già stata varata),
dall’Italia al Messico se non con il consenso britannico, che ben difficilmente
arriverà. Da parte sua, il Governo messicano avvia dei contatti presso quello
britannico per ottenere la garanzia di salvacondotto per il viaggio di
trasferimento in Messico delle navi cisterna, viaggio che dovrà avvenire con
equipaggi reclutati tra marittimi di Paesi neutrali.
Alcune
altre immagini di Minatitlan, Panuco e Poza Rica in costruzione nel 1940 (Fondazione Ansaldo):
Dicembre 1940
Un promemoria datato
29 dicembre 1940 accenna che la Minatitlan,
ancora sullo scalo, sarà pronta in quattro mesi (Panuco e Poza Rica sono
già state varate da tempo ed ormai a fine allestimento) e riassume così le
caratteristiche delle tre motocisterne: «navi
cisterna di 10.000 tonnellate [di portata], con velocità di miglia 12,5, compartimentazione bene studiata. Sono
state pagate a mezzo di petrolio messicano fornito all’AGIP, la quale ha
versato il contante all’Ansaldo. L’operazione fu eseguita per evitare esiti di
valuta pregiata». Il promemoria fa poi il punto della situazione,
menzionando che «in vista dell’avvenuto
pagamento, della premura dimostrata dal governo messicano di entrare in
possesso delle navi e per non perdere in avvenire commesse del genere per i
nostri cantieri a vantaggio di quelli nord-americani nostri concorrenti» si
è deciso di consegnare la prima delle tre navi (la Poza Rica) alla Pemex, a patto che la consegna avvenga a Genova
(come del resto stabilito nel contratto), che l’equipaggio sia messicano o comunque
neutrale e che il Governo messicano dia formale assicurazione di aver ottenuto
dal Regno Unito la garanzia di libero passaggio della nave. Tuttavia,
nonostante l’esistenza di una Commissione messicana impegnata nel tentare di
soddisfare tali clausole, finora non è stato ancora ottenuto nulla in
proposito; «nel frattempo la ditta [Ansaldo]
sostiene spese di assicurazione,
sorveglianza, manutenzione ecc., che costituiscono già un nuovo credito verso i
proprietari messicani delle navi». Il documento prosegue poi: «Nuova situazione: nel momento presente non
vi sarebbe interesse alcuno per noi di procedere alla consegna delle tre navi
al Messico. Per conseguire il risultato [di non consegnare le petroliere], si potrebbe o tirare per le lunghe le
trattative di consegna, liquidazione dei crediti, ecc., oppure ricorrere alle
facoltà conferite allo stato italiano dalla vigente legge di guerra, in base
alla quale si possono requisire le navi neutrali esistenti nei nostri porti».
Politicamente le relazioni Italia-Messico sono corrette («malgrado che il governo messicano sia a tinta rossa»), mentre il
Governo messicano viene giudicato dall’estensore del promemoria come «di principio anti Stati Uniti» ed in
pessime relazioni col Regno Unito per via dell’esproprio degli impianti delle
compagnie petrolifere britanniche avvenuto nel 1938; «questa situazione fa nascere l’ipotesi che le navi da noi costruire
potrebbero essere sequestrate dalle autorità britanniche a titolo di rivalsa
dei crediti insoluti derivanti dalla nota questione del petrolio. La
requisizione delle tre navi messicane è naturalmente da studiarsi in base ai
nostri bisogni e dell’utile impiego che noi potremmo fare di tali navi,
progettate e costruite per il trasporto di combustibile (…) Secondo comunicazioni avute dal Direttore
Generale dell’Ansaldo, al momento attuale il Messico penserebbe di far partire
le navi per la Francia. Noi potremmo in questo caso preavvisare che le coste
francesi sono tuttora dichiarate da noi pericolose perché sono sospese le
ostilità ma non è sospesa la guerra e quindi vige il nostro veto di avvicinarsi
oltre le 30 miglia dalla costa francese senza incorrere in pericoli. Se
malgrado questo avvertimento, le navi dirigessero egualmente verso i porti
francesi, potrebbero essere da noi attaccate ed affondate in pieno diritto
entro la suddetta fascia di 30 miglia. Se, viceversa, le navi uscendo da Genova
fossero dirette a porti neutrali, ad esempio della Spagna, non potrebbe agirsi
giuridicamente per prevenirle». Si prospetta la possibilità, in caso di
requisizione delle tre motocisterne da parte italiana, di proporre al Governo
messicano, a titolo di indennizzo, di utilizzare per le sue esigenze parte
delle otto navi cisterna italiane internate in porti messicani dallo scoppio
della guerra, per un tonnellaggio complessivo pari a quello delle tre
motocisterne dell’Ansaldo, con il vincolo però di usarle soltanto «per i rifornimenti del Sud America e non del
Nord America».
Minatitlan, Panuco e Poza Rica in costruzione nei cantieri
Ansaldo, in una foto del 2 febbraio 1941 (Fondazione Ansaldo)
20 marzo 1941
Varo della Minatitlan nei cantieri Gio. Ansaldo &
Co. di Sestri Ponente.
La Minatitlan pronta al varo (Fondazione
Ansaldo)
Il varo (Fondazione Ansaldo) |
La nave appena varata (Fondazione Ansaldo) |
Aprile 1941
A inizio aprile (per
altra fonte, invece, il 30 aprile), dinanzi all’impossibilità, determinata
dallo stato di guerra, di consegnare le tre petroliere al Messico nonché in
considerazione della necessità di disporre di moderne e veloci navi cisterna
per il trasporto di carburante in Africa Settentrionale (buona parte della
flotta petrolifera italiana è rimasta bloccata oltremare all’atto della
dichiarazione di guerra), il Governo italiano decide di confiscare Minatitlan, Panuco e Poza Rica. Le
tre navi, i cui nomi non vengono cambiati, vengono date in gestione alla
Cooperativa Garibaldi di Genova.
Più o meno
contemporaneamente (1° aprile) il Governo messicano, seguendo la condotta degli
Stati Uniti – che il 30 marzo hanno confiscato tutto il naviglio mercantile
dell’Asse presente nei loro porti –, confisca le otto petroliere italiane che
si trovavano internate in porti messicani dal giugno 1940, e successivamente le
integra nella flotta Pemex. (Non è molto chiaro se sia stato prima il governo
italiano a confiscare le navi messicane, o viceversa). A tre delle otto
cisterne ex italiane verranno assegnati proprio i nomi delle tre navi in
costruzione dall’Ansaldo e confiscate dall’Italia: la pirocisterna Tuscania (appartenente all’armature
Pittaluga di Genova) diverrà infatti Minatitlán,
mentre i nomi di Pánuco e Poza Rica verranno assegnati
rispettivamente alle ex Giorgio Fassio
e Fede.
La Minatitlan in fase di allestimento
presso l’Officina Allestimento Navi di Genova Sampierdarena (Fondazione
Ansaldo)
12 luglio 1941
Completata ed
immediatamente data in gestione, il giorno stesso della sua consegna, alla S.
A. Cooperativa di Navigazione Garibaldi (con sede a Genova), senza essere
iscritta nel ruolo del naviglio ausiliario dello Stato.
16 agosto 1941
La Minatitlan salpa da Napoli per Tripoli
alle 00.30, in convoglio con i piroscafi Nicolò Odero, Maddalena
Odero e Caffaro e le
motonavi Giulia e Marin Sanudo. Scortano il convoglio,
denominato «Odero» (o, dalle fonti tedesche, 40. Seetransport Staffel), i
cacciatorpediniere Euro, Dardo e Freccia (caposcorta, capitano di fregata Giorgio Ghè) e le torpediniere Procione e Pegaso. Il mare è leggermente mosso.
Alle 10.13 il
sommergibile olandese O 23 (tenente
di vascello Gerardus Bernardus Michael Van Erkel), preavvisato già alle nove
dall’avvistamento di due bombardieri bimotori a cinque miglia per 100°, avvista
il convoglio, che procede con rotta 212° a dieci nodi di velocità, a dieci
miglia di distanza, su rilevamento 057°. Il comandante olandese stima la
composizione del convoglio in almeno sei mercantili e quattro
cacciatorpediniere, e vede due aerei sul suo cielo; manovra per attaccare il
convoglio ed alle 11.03, nel punto 39°35’ N e 13°18’ E (a 74 miglia per 211°,
cioè a sudovest, di Capri), lancia due siluri da cinque miglia di distanza, per
poi scendere subito a 40 metri. Nessuna delle armi colpisce, e le scie vengono
avvistate da un idrovolante CANT Z. 501 della 182a Squadriglia di
scorta al convoglio, che lancia due bombe di profondità sul punto in cui
presumibilmente si trova il sommergibile; alle 11.15 il Freccia lancia l’allarme.
Secondo il rapporto
dell’O 23, undici minuti dopo il
lancio dei siluri alcune unità della scorta si portano al contrattacco e
lanciano, fino alle 13.30, un centinaio di bombe di profondità. L’O 23 evita danni scendendo a 95
metri; terminata la caccia, alcune unità continuano a lanciare una carica di
profondità ogni venti minuti sino alle 19.30.
Nel tardo
pomeriggio/sera si aggrega alla scorta anche la torpediniera Giuseppe Sirtori, partita da Palermo
alle 16.
17 agosto 1941
Nel tardo pomeriggio
il convoglio, mentre procede a 9 nodi a sud di Pantelleria, viene avvistato da
ricognitori nemici.
Alle 20.45 (o 20.47),
17 minuti dopo che la scorta aerea ha lasciato le navi per rientrare alle basi,
il convoglio viene attaccato a sudest di Malta da aerosiluranti britannici: due
sezioni di due aerei ciascuna (Fairey Swordfish dell’830th Squadron
della Fleet Air Arm), provenienti dai fianchi, appaiono ai lati del convoglio,
defilando lungo i mercantili e sganciando i loro siluri da poca distanza. Le
navi della scorta reagiscono con opportune manovre, l’apertura del fuoco (sia
con le artiglierie che con le mitragliere) e l’emissione di cortine nebbiogene
per coprire i piroscafi.
Tre dei quattro
siluri sganciati mancano il bersaglio, grazie anche all’azione della scorta (e
soprattutto all’emissione di cortine fumogene, che disorientano gli ultimi
aerei ad attaccare), ma uno colpisce il Maddalena Odero, immobilizzandolo. Il piroscafo danneggiato
dev’essere preso a rimorchio della Pegaso,
assistito dalla Sirtori; viene
portato fino in un’insenatura sulla costa di Lampedusa, ma qui il piroscafo,
colpito ancora da bombe d’aereo, esplode e trascina nella sua fine anche la
cannoniera Maggiore Macchi della
Guardia di Finanza, inviata a prestargli assistenza.
Il resto del
convoglio prosegue per Tripoli.
Sulla base
dell’esperienza di questo attacco aereo il caposcorta scriverà nel suo
rapporto, a proposito del comportamento dei mercantili: «Alcuni dei piroscafi si sono troppo allontanati dalla direttrice di
marcia. Questo inconveniente, oltre a rendere più difficile il riordinamento
della formazion dopo l’attacco, diminuisce molto la possibilità di protezione
da parte delle unità di scorta (…) Ritengo
sia assolutamente necessario dotare ciascun piroscafo di un radiosegnalatore
per eventuali segnali di emergenza durante allarmi o per eventuali notturni
intesi ad ordinare manovre per le quali non convenga impiegare la radio
principale (…) e la segnalazione
luminosa diventa troppo lunga e troppo pericolosa per avvistamenti».
19 agosto 1941
Verso le 15.30 il
sommergibile britannico P 32 (tenente
di vascello David Anthony Bail Abdy), in agguato a quota periscopica fuori
Tripoli, avvista il convoglio «Odero» in posizione 33°02’ N e 13°10’ E, ad
est-nord-est della città libica. Apprezzata la composizione del convoglio come
quattro mercantili di medie dimensioni che procedono in linea di fila,
sorvolati da un aereo e senza navi di scorta in vista (evidentemente non notate
da Abdy), il comandante britannico inizia la manovra d’attacco prendendo di
mira la nave di coda, una nave cisterna stimata in circa 6000 tsl: cioè proprio
la Minatitlan. Il P 32 scende a 15 metri e si
avvicina ad elevata velocità; ma verso le 15.40, mentre sta tornando a quota
periscopica, il sommergibile viene scosso da un’esplosione a dieci metri di
profondità ed affonda, adagiandosi sul fondale a 60 metri. La metà anteriore
del sommergibile si allaga immediatamente, mentre i compartimenti
centro-poppieri rimangono inizialmente asciutti: la rapida diffusione di gas di
cloro, però, rende subito difficile la sopravvivenza per gli uomini
intrappolati nel P 32.
L’esplosione viene
notata anche dalle navi del convoglio italiano, ormai in arrivo a Tripoli. Un
MAS inviato sul posto dalla base libica recupera due sopravvissuti (gli unici
superstiti su 34 membri dell’equipaggio), che sono fuoriusciti dal relitto del
sommergibile attraverso il portello della torretta: uno dei due è il comandante
Abdy. Un terzo membro dell’equipaggio è annegato nel tentativo di fuoriuscire,
mentre di parecchi altri uomini del P
32, che hanno tentato la fuoriuscita dal portello d’emergenza del locale
motori, non si saprà più nulla.
Sul momento si
ritiene che il P 32 sia
saltato sulle mine dei campi minati posti a difesa del porto, mentre un
successivo esame del relitto mostrerà che probabilmente il battello è rimasto
vittima dell’esplosione accidentale di uno dei suoi stessi siluri.
Il convoglio giunge a
Tripoli alle 17.30.
29 agosto 1941
Alle 18.30 la Minatitlan lascia Tripoli insieme alle
motonavi Giulia e Marin Sanudo, ai piroscafi Caffaro e Nicolò Odero ed al dragamine ausiliario DM 6 Eritrea, con la scorta dei cacciatorpediniere Alfredo Oriani (caposcorta) ed Euro ed alle torpediniere Orsa, Calliope e Pegaso.
31 agosto 1941
Orsa e Marin Sanudo, separatesi dal convoglio,
raggiungono Trapani alle 11.45.
1° settembre 1941
Il resto del
convoglio giunge a Napoli alle 12.30.
17 settembre 1941
La Minatitlan lascia Napoli alle
cinque del mattino facendo parte del convoglio lento «Caterina» (che forma
insieme al piroscafo Caterina ed
alle motonavi Marin Sanudo e Col di Lana), diretto a Tripoli e
scortato dai cacciatorpediniere Euro, Freccia (caposcorta, capitano di fregata
Giorgio Ghè), Folgore e Dardo. Si tratta del terzo convoglio di
navi da carico del mese diretto in Libia; segue la rotta di ponente.
I mercantili del
convoglio «Caterina» sono i primi bastimenti da carico, nella guerra dei
convogli libici, ad essere muniti di radiosegnalatori per le comunicazioni
radio con le altre unità della formazione; un significativo progresso
nell’organizzazione dei convogli (nel corso della navigazione, infatti, le
comunicazioni tra mercantili e navi scorta si svolgeranno regolarmente e con
facilità, come riferito dal caposcorta nel suo rapporto).
18 settembre 1941
Alle quattro del
mattino il convoglio, mentre naviga sulle rotte interne di Favignana, viene
attaccato da aerosiluranti britannici a tre miglia da Marsala. Le navi della
scorta, come al solito, cercano di nascondere i mercantili con cortine
nebbiogene ed aprono il fuoco con l’armamento contraereo (anche i mercantili lo
fanno, ma il caposcorta Ghè lamenterà nel suo rapporto che, mentre il tiro
contraereo delle navi scorta è efficace, «i
piroscafi di solito hanno eseguito un disordinato tiro di sbarramento che molte
volte era diretto verso le unità di scorta»); data la vicinanza della
costa, anche le batterie di terra sparano contro gli aerei. Uno degli
attaccanti viene abbattuto, ma un siluro colpisce la Col di Lana, che viene rimorchiata a Trapani dai
rimorchiatori Liguria e Montecristo, scortati dal Dardo.
In serata, il
convoglio viene nuovamente attaccato da aerosiluranti, decollati a Malta dopo
il tramonto; questa volta, però, le abbondanti cortine nebbiogene emesse dalle
navi scorta riescono a frustrare l’attacco.
19 settembre 1941
In mattinata si
unisce alla scorta il cacciatorpediniere Vincenzo Gioberti, proveniente da Tripoli. Qui il convoglio
giunge alle 12.30 (o 17.30).
30 settembre 1941
Minatitlan, Caterina e Marin Sanudo lasciano Tripoli alle 16
per tornare in Italia, scortati dai cacciatorpediniere Alpino (caposcorta), Oriani,
Fulmine e Strale. Il convoglio è denominato "H".
Alcuni giorni prima,
i decrittatori britannici di “ULTRA” avevano intercettato dei messaggi dai
quali risultava che Minatitlan, Caterina e Marin Sanudo avrebbero dovuto lasciare Tripoli per Napoli il 26
settembre, e che uno dei cacciatorpediniere della scorta avrebbe rimorchiato a
Napoli la torpediniera Circe.
Evidentemente il viaggio è stato poi rimandato di qualche giorno, il che ha
reso inutili queste decrittazioni.
2 ottobre 1941
All’1.19, in
posizione 37°53’ N e 12°05’ E (a sud di Marettimo), il sommergibile britannico Utmost (capitano di corvetta Richard
Douglas Cayley) avvista il convoglio di cui fa parte la Minatitlan a 6 miglia di distanza, su rilevamento 130°, con rotta
stimata 330°. Pur giudicando le condizioni molto sfavorevoli per un attacco,
Cayley tenta ugualmente e lancia un singolo siluro contro un mercantile
valutato in 2000 tsl; sarebbe in realtà sua intenzione lanciarne tre, ma dopo
il lancio del primo l’Utmost viene
localizzato dall’Oriani, che lancia
un razzo Very verde nella sua direzione. Il sommergibile, pertanto, interrompe
l’attacco e s’immerge immediatamente, venendo poi sottoposto dall’Oriani, precipitatosi contro di esso, a
caccia col lancio di 22 bombe di profondità (nessuna delle quali esplode vicino
all’Utmost, che così non subisce
danni). Il siluro lanciato non colpisce nulla.
3 ottobre 1941
Il convoglio arriva a
Napoli alle due.
A Genova Sampierdarena nel 1941 (Archivio Ansaldo, via Giorgio Parodi e www.naviearmatori.net) |
Convoglio “Duisburg”
Alle cinque del mattino
del 7 novembre 1941 la Minatitlan, al
comando del capitano di lungo corso Guido Incagliati, salpò da Napoli diretta a
Tripoli con un carico di 8946 tonnellate di carburante (6692 tonnellate di
carburante per le forze armate italiane in Africa Settentrionale e 2254
tonnellate di benzina per la Luftwaffe). L’equipaggio della petroliera era
composto da 58 uomini, tra civili e militari.
La Minatitlan viaggiava in convoglio con la
motonave Maria (capitano di
lungo corso Angelo Pogliani), il piroscafo italiano Sagitta (capitano di lungo corso Domenico Ingegneri) ed i
piroscafi tedeschi Duisburg
(capitano di lungo corso Arno
Ostermeier, capoconvoglio) e San
Marco (capitano di lungo corso Paul Ossemberg): il convoglio era
ufficialmente denominato «Beta», ma era destinato a diventare famoso col nome
di convoglio "Duisburg". I Comandi tedeschi, da parte loro, lo
conoscevano come 51. Seetransportstaffel. Scortavano i cinque mercantili i
cacciatorpediniere Maestrale (caposcorta,
capitano di vascello Ugo Bisciani), Euro (capitano
di corvetta Giuseppe Cigala Fulgosi) e Fulmine (capitano
di corvetta Mario Milano).
Il convoglio «Beta»,
che doveva essere composto complessivamente da sette navi mercantili (le altre
due si sarebbero unite ad esso a Messina), era in assoluto uno dei più grandi
convogli dell’Asse mai partiti per l’Africa Settentrionale: normalmente,
infatti, i convogli italo-tedeschi per la Libia non contavano più di tre o
quattro mercantili. La formazione di un convoglio tanto numeroso, in vista di
una pianificata offensiva italo-tedesca contro Tobruk e l’Egitto (con inizio
previsto per il 21 novembre, per la quale era necessario costituire
considerevoli riserve di carburante ed altri rifornimenti), era stata
autorizzata dal Comando Supremo il 29 ottobre, a dispetto della perplessità
della Marina. A fine ottobre il traffico con il Nordafrica era stato
temporaneamente interrotto a seguito della notizia dell’arrivo a Malta, il 21
ottobre (136° anniversario di Trafalgar, data scelta non a caso), di una
formazione navale britannica: la Forza K, composta dagli incrociatori leggeri Aurora e Penelope e dai cacciatorpediniere Lance e Lively. Questa
formazione aveva la precisa finalità di insidiare le linee di rifornimento
italo-tedesche dell’Africa Settentrionale, compiendo scorrerie notturne –
profittando della superiorità della Royal Navy rispetto alla Regia Marina nel
combattimento notturno, dovuta sia al possesso del radar che ad un migliore
addestramento alle azioni di notte – a danno dei convogli dell’Asse diretti in
Libia. Aurora e Penelope erano stati inviati direttamente dal Regno Unito
(provenivano da Scapa Flow), Lance e Lively erano invece stati distaccati
dalla Forza H di Gibilterra.
L’invio a Malta della
Forza K scaturiva da una richiesta originatasi direttamente dal primo ministro
britannico Winston Churchill, il 22 agosto 1941, per mezzo di una lettera
spedita all’Ammiragliato britannico: intervenendo in una diatriba in corso fin
da inizio luglio tra l’Ammiragliato ed il Comitato dei Capi di Stato Maggiore, nella
quale si lamentava l’insufficienza dei mezzi a disposizione della Mediterranean
Fleet per assolvere il suo compito di contrasto all’invio di rifornimenti
dall’Italia alla Libia, Churchill proponeva di dislocare a Malta una forza
leggera composta da uno o due incrociatori ed unità sottili. La risposta fu la
costituzione della Forza K.
Tra il 21 ottobre e
l’8 novembre la nuova forza britannica di base a Malta aveva già compiuto due
tentativi di scorreria notturna, ma senza successo: nelle notti del 25-26
ottobre e dell’1-2 novembre, infatti, le navi della Forza K erano uscite in
mare per intercettare rispettivamente un convoglio italiano ed una formazione
di cacciatorpediniere in missione di trasporto, ma non erano riuscite a trovare
né l’uno né l’altra ed erano rientrate a mani vuote.
La sospensione dei
traffici da parte italiana, ordinata il 22 ottobre (dopo che l’arrivo a Malta
delle navi britanniche, segnalato dallo spionaggio italiano nell’isola, era
stato confermato anche dalla ricognizione aerea) dal capo di Stato Maggiore
della Regia Marina, ammiraglio Arturo Riccardi (che aveva altresì sollecitato
un’intensificazione dei bombardamenti su Malta da parte dell’Aeronautica,
invitando al contempo il Comando Supremo a fare pressione sull’alleato tedesco
affinché i reparti aerei della Luftwaffe, ritirati dal Mediterraneo qualche
mese prima, venissero riportati in Italia), era durata pochi giorni: poi era
dovuta inevitabilmente riprendere, data la necessità di far avere nuovi rifornimenti
alle forze di Rommel, a maggior ragione in vista della già citata nuova
offensiva prevista per il 21 novembre, la cui preparazione richiedeva
rifornimenti urgenti di considerevoli quantitativi di munizioni, carburanti ed
automezzi. Per prima cosa si era ripreso ad inviare mercantili isolati o a
coppie a Bengasi; poi si era deciso l’invio del convoglio «Beta», che però
sarebbe stato mandato a Tripoli, porto molto più lontano dalla prima linea,
invece che a Bengasi: quest’ultimo porto, infatti, non era in grado di ricevere
e scaricare un convoglio tanto grande. Non era possibile inviare rapidamente in
Libia i rifornimenti previsti per la nuova offensiva utilizzando soltanto
Bengasi; c’erano per la verità anche altri porti della Cirenaica (Bardia,
Derna, Ain-el-Gazala) che per la loro posizione avrebbero potuto essere
raggiunti senza grande rischio di essere attaccati da Malta, ma le loro
capacità ricettive erano ancora più ridotte di quelle di Bengasi, ed inoltre
tali approdi erano troppo esposti agli attacchi aerei provenienti dalle basi
dell’Egitto. In tutta la Libia, soltanto Tripoli era in grado di ricevere e
scaricare i quantitativi di rifornimenti necessari per la preparazione
dell’offensiva, od anche solo per la normale “sopravvivenza” dell’armata
italo-tedesca. Pertanto, fin da inizio novembre l’ammiraglio Arturo Riccardi,
capo di Stato Maggiore della Regia Marina, si era ritrovato insistentemente
“pressato” affinché si riprendesse il prima possibile il traffico con Tripoli,
a partire dall’invio dei numerosi mercantili, tra cui due navi cisterna – Minatitlan e Conte di Misurata –, già carichi ed in attesa dell’ordine di
partenza nei porti del Sud Italia. Il 3 novembre Supermarina aveva risposto che
il convoglio richiesto sarebbe potuto essere preparato subito, a patto che gli
fosse stata fornita una scorta aerea sia diurna che notturna; ma la scorta
aerea notturna era al di fuori delle possibilità della Regia Aeronautica e
della Luftwaffe, per cui si era dovuto organizzare il convoglio «Beta»
accontentandosi della sola scorta diurna.
In origine era
previsto che il convoglio dovesse salpare da Napoli e Messina tra il 4 ed il 5
novembre, riunendosi 20 miglia a nord di Pantelleria per poi raggiungere
Tripoli la sera del 6 novembre. Di ciò Supermarina aveva informato Superaereo
il mattino del 3 novembre; il Comando Superiore dell’Aeronautica aveva impartito
le disposizioni per la scorta del convoglio con aerei da caccia, voli di
vigilanza e ricognizione, il bombardamento dei porti ed aeroporti di Malta e
l’approntamento su allarme dei reparti aerei, ma poco dopo Supermarina aveva
fatto sapere che la partenza del convoglio era rimandata per via delle avverse
condizioni meteomarine. Per la verità, più che un miglioramento del tempo i
vertici della Marina aspettavano di poter chiarire quali scorte aeree e navali
sarebbero state disponibili, ed erano ancora incerti sulla rotta da seguire
(inizialmente si era pensato di far passare il convoglio ad ovest di Malta,
seguendo la rotta del Canale di Sicilia, ma alla fine si decise invece per la
rotta ad est di Malta, tracciando un percorso molto allargato che passasse
vicino alla costa occidentale greca per tenersi lontano dal raggio d’azione
degli aerosiluranti maltesi). Si sarebbe voluto aspettare almeno una settimana,
confidando nel previsto arrivo in Sicilia dei 30 bombardieri tedeschi Ju 88 del
Kampfgruppe 606 della Luftwaffe, che il sottocapo di Stato Maggiore della
Marina, ammiraglio Luigi Sansonetti, giudicava «particolarmente adatti alla lotta su Malta». Ma non c’era tanto
tempo a disposizione: il Comando Supremo premeva perché quegli urgenti
rifornimenti venissero inviati a Tripoli al più presto, accettando «il rischio e il prezzo» che si sarebbe
dovuto pagare, come riferì per telefono l’ammiraglio Sansonetti all’ammiraglio
Angelo Iachino, comandante in capo della Squadra Navale.
Il 5 novembre il capo
di Stato Maggiore generale, Ugo Cavallero, aveva ordinato personalmente al
generale Giuseppe Santoro, sottocapo di Stato Maggiore dell’Aeronautica, di
garantire al convoglio una adeguata scorta aerea. Per parte sua Supermarina, al
fine di scongiurare eventuali attacchi da parte delle navi di superficie
britanniche che si sapeva ora avere base a Malta, assegnò al convoglio, oltre
ai soliti cacciatorpediniere della scorta diretta, anche una scorta indiretta
formata da due incrociatori pesanti, aventi armamento nettamente superiore a
quello degli incrociatori britannici di Malta: la III Divisione Navale
dell’ammiraglio Bruno Brivonesi, con Trento
e Trieste. In un primo momento si era
optato per l’VIII Divisione Navale, di base a Palermo e composta dai due grossi
incrociatori leggeri Luigi di Savoia Duca
degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi
(i più moderno e potenti incrociatori del tipo presenti nei ranghi della Regia
Marina, nettamente superiori ad Aurora
e Penelope), ma poi si era ritenuto
meglio utilizzare degli incrociatori pesanti.
L’ammiraglio
Brivonesi, che aveva già compiuto altre missioni di scorta convogli, fin dal
maggio 1941 aveva avanzato dei dubbi sulla realizzabilità e opportunità di una
scorta ravvicinata ad un convoglio da parte di grossi incrociatori: in caso di
allarme, infatti, con le improvvise accostate e dispersioni di unità che
conseguivano spesso a tali situazioni, aumentava il rischio di collisioni o di
incidenti di fuoco amico; per quanto riguardava la posizione da far assumere
gli incrociatori, Brivonesi riteneva che l’unica abbastanza soddisfacente fosse
una posizione a poppavia del convoglio, che oltre a proteggere il lato poppiero
avrebbe consentito di intervenire rapidamente in caso di attacco sia sul lato
dritto che su quello sinistro, e di manovrare tempestivamente in armonia col
convoglio. Tenere gli incrociatori a proravia del convoglio, infatti, risultava
difficile sul piano pratico e non consentiva di proteggerne né i fianchi né il
lato poppiero; tenerli su un lato sarebbe stato più semplice, avrebbe
consentito di proteggere adeguatamente soltanto quel lato, lasciando scoperto
l’altro.
Il 6 novembre,
Supermarina aveva comunicato a Superareo i particolari dell’operazione con
l’Avviso n. 7401: i mercantili Duisburg,
San Marco, Maria, Minatitlan e Sagitta sarebbero dovuti partire da
Napoli alle cinque del 7 novembre, scortati da sette cacciatorpediniere della
Squadriglia «Maestrale» (quest’ultima essendo la nave caposcorta), ed avrebbero
fatto rotta sud verso lo stretto di Messina, ove si sarebbero uniti al
convoglio altri due mercantili, Rina
Corrado e Conte di Misurata,
provenienti da Palermo con la scorta di altri tre cacciatorpediniere. I quattro
cacciatorpediniere della XIII Squadriglia si sarebbero poi uniti alla III
Divisione Navale, mentre il convoglio così formato sarebbe entrato in Mar Ionio
con la scorta degli altri sei caccia; la formazione avrebbe fatto rotta su
Tripoli e la III Divisione, partita da Messina, avrebbe fornito protezione al
convoglio con speciale attenzione a minacce provenienti da Malta. Alle 19 del
10 novembre il convoglio si sarebbe ormai trovato prossimo a Tripoli, dunque il
gruppo «Trieste» avrebbe invertito la rotta per tornare alla base, mentre i
mercantili e la scorta diretta avrebbero raggiunto Tripoli alle 17.30 dell’11
novembre. Per precauzione nel caso di intercettazioni, il messaggio non
indicava i nomi dei porti, sostituendoli con nominativi convenzionali: ad
esempio, "punto Base" per Messina, "punto Lunghezza" per
Tripoli. Per quanto riguardava la copertura aerea, gli idrovolanti della
Ricognizione Marittima di base a Messina avrebbero fornito scorta aerea
antisommergibili sia al convoglio che alla III Divisione fino al tramonto dell’8
novembre, per un raggio di 100 miglia dalle coste della Sicilia. Il 9 ed il 10
novembre, invece (durante l’avvicinamento e l’arrivo a Tripoli del convoglio),
se ne sarebbero occupati gli idrovolanti della Ricognizione Marittima di base a
Tripoli. Gli idrovolanti di Messina avrebbero poi riassunto la protezione della
III Divisione, di ritorno alla base, quando questa fosse giunta a 100 miglia
dalla costa siciliana, nella giornata dell’11 novembre.
Il convoglio avrebbe
seguito la rotta che passava ad est di Malta; complessivamente, i sette
mercantili avrebbero trasportato in Nordafrica 34.473 tonnellate di materiali
(di cui 17.281 tonnellate di carburante e 1579 di munizioni), 389 autoveicoli
(172 italiani e 217 tedeschi) e 243 uomini (145 militari italiani, 77 militari
tedeschi e 21 civili diretti in Libia).
Le prime navi del
convoglio iniziarono ad uscire dal porto di Napoli alle 2.20, ma un attacco
aereo scatenatosi su Napoli proprio mentre i bastimenti cominciavano la manovra
di partenza (il Duisburg era
stato anche illuminato e mitragliato, pur senza subire danni) ne rallentò
l’uscita, così che solo dopo le 6.30 il convoglio si formò fuori del porto, ed ebbe
inizio la navigazione verso sud. Il convoglio era seguito a distanza dalla XIII
Squadriglia Cacciatorpediniere (caposquadriglia capitano di vascello Ferrante
Capponi, del Granatiere), con Granatiere, Bersagliere, Fuciliere ed Alpino.
Prima della partenza
da Napoli, il caposcorta Bisciani aveva convocato i comandanti delle altre navi
del convoglio e della scorta per esporre loro le direttive del suo ordine di
operazioni: esse prevedevano che in caso di attacco di navi di superficie la
difesa del convoglio sarebbe spettata esclusivamente alla III Divisione Navale
(scorta a distanza), mentre i cacciatorpediniere della scorta diretta avrebbero
dovuto difendere il convoglio soltanto contro sommergibili ed aerei (il che
sarebbe stato in seguito giudicato arbitrario dalla Commissione d’Inchiesta
Speciale istituita sul convoglio "Duisburg", dato che in base alle
direttive della pubblicazione D.T. 1, alla scorta diretta spettava anche un
sostegno ravvicinato al convoglio in caso di attacco di navi di superficie,
manovrando in modo da allontanarsi con il convoglio stesso, “pur cercando di reagire fin che possono, con
le loro artiglierie”).
Alle nove del
mattino, giunto il convoglio nelle acque della Sicilia, Maestrale, Euro e Fulmine ricevettero
ordine dal Comando in Capo del Dipartimento Militare Marittimo di Napoli di
lasciare il convoglio ed entrare a Messina (dove diressero a 17 nodi) per
rifornirsi, venendo sostituiti nella scorta diretta dalla XIII Squadriglia. Nelle
prime ore dell’8 novembre Maestrale, Euro e Fulmine, una volta rifornitisi, lasciarono Messina e tornarono ad
assumere la loro posizione di scorta, mentre fu il turno della XIII Squadriglia
di entrare a Messina per rifornirsi di acqua e nafta.
Alle 3.30 uscirono da
Messina le altre navi che dovevano far parte del convoglio «Beta»: il
piroscafo Rina Corrado (capitano
di lungo corso Guglielmo Schettini) e la pirocisterna Conte di Misurata (capitano di lungo corso Mario Penco),
scortati dai cacciatorpediniere Grecale (capitano
di fregata Giovanni Di Gropello), Libeccio (capitano
di fregata Corrado Tagliamonte) ed Alfredo
Oriani (capitano di fregata Vittorio Chinigò).
La riunione tra i due
gruppi del convoglio – dei quali il primo, che comprendeva la Minatitlan, aveva già superato lo
stretto – avvenne alle 4.30 dell’8 novembre, a sud dello stretto di Messina; si
formò un unico convoglio di sette mercantili scortati da Maestrale, Libeccio, Grecale, Oriani, Fulmine ed Euro,
mentre i quattro cacciatorpediniere della XIII Squadriglia, dopo essersi
riforniti a Messina, si unirono alla III Divisione (incrociatori pesanti Trento e Trieste, nave di bandiera dell’ammiraglio di divisione Bruno
Brivonesi), uscita in mare alle 12.35 per fornire scorta indiretta al
convoglio.
Durante la mattina
vennero avvistati da diverse navi alcuni aerei nemici diretti verso ovest: andavano
ad attaccare un altro convoglio diretto in Libia, il convoglio "Pegaso".
Alle 16.45, con
l’arrivo della III Divisione (che raggiunse il convoglio in posizione 37°40’ N
e 15°57’ E, a 19 miglia per 155° da Capo dell’Armi, e si posizionò a poppavia
dello stesso) la formazione poteva dirsi completa.
Il convoglio procedeva
su tre colonne: la Minatitlan
procedeva in testa alla colonna sinistra, preceduta dall’Euro e seguita dalla Maria,
dietro la quale procedeva a sua volta il Grecale;
la colonna di dritta era composta da San
Marco e Conte di Misurata, preceduti
dal Maestrale e seguiti
dall’Oriani; quella centrale era composta
da Duisburg, Sagitta e Rina Corrado. Il Fulmine era
posizionato a dritta della terza colonna, il Libeccio a sinistra della prima colonna. Le navi procedevano ad
otto nodi di velocità.
Vi era anche, fin
dalla partenza da Napoli e Messina – ma solo di giorno –, una scorta aerea per
la quale erano stati mobilitati in tutto 64 aerei (58 dell’Armata Aerea e 6
idrovolanti antisommergibili), mantenendo sempre otto velivoli costantemente in
volo sul cielo del convoglio. Sul Maestrale,
per coordinare l’attività di tale scorta aerea, era stato imbarcato il tenente
pilota Paolo Manfredi della Regia Aeronautica.
Dalle 7.30 fino alle
17.30, sul cielo del convoglio e della III Divisione si alternarono dieci
idrovolanti CANT Z. 506 della Ricognizione Marittima, due bombardieri Savoia
Marchetti SM. 79 "Sparviero" e ben 66 caccia (34 Macchi MC 200 del
54° Stormo della Regia Aeronautica, due FIAT CR. 42 del medesimo stormo, 22 CR.
42 del 23° Gruppo e otto Messerschmitt Bf 110 della 9° Squadriglia del 3°
Gruppo del 26° Stormo da Caccia della Luftwaffe). I caccia si alternavano sul
convoglio in numero di quattro per volta: una coppia ad alta quota per
contrastare eventuali attacchi di bombardieri, e una coppia a 1000 metri di
quota per contrastare attacchi a volo radente e di aerosiluranti.
Tre coppie di SM. 79
decollarono dalla Sicilia ed effettuarono ricognizione marittima verso sudest;
altri aerei dell’Aeronautica della Sicilia erano incaricati di effettuare
missioni di ricognizione e bombardamento sul porto della Valletta.
Ad ulteriore
protezione del convoglio, Supermarina aveva inviato nelle acque di Malta i
sommergibili Delfino, Corallo e Luigi Settembrini, con compiti esplorativi ed offensivi nei
confronti di unità britanniche in partenza dall’isola.
L’incrociatore
pesante Gorizia (anch’esso
appartenente alla III Divisione) ed i cacciatorpediniere Carabiniere e Corazziere della XII Squadriglia erano
a Messina, pronti a muovere in due ore qualora se ne fosse manifestata la
necessità.
La Minatitlan (sopra, al centro; sotto, a
sinistra) in alcune fotografie scattate da bordo dell’Euro nella giornata dell’8 novembre 1941. Si tratta verosimilmente
delle ultime immagini della Minatitlan
prima dell’attacco britannico al convoglio “Duisburg” (da un saggio di
Francesco Mattesini sul sito della Società Italiana di Storia Militare)
Una volta in franchia
dello stretto di Messina (la riunione avvenne subito dopo il suo superamento da
parte del primo gruppo di navi), il convoglio mise la prua verso est (rotta
90°), per imboccare la rotta che passava ad est di Malta, al largo della costa
occidentale greca – rotta più lunga ma anche più sicura, perché avrebbe
consentito di restare fuori dal raggio d’azione degli aerosiluranti di Malta,
stimato in 190 miglia –, nonché per ingannare i britannici circa la
destinazione del convoglio, facendo credere che questa fosse un porto della
Grecia oppure Bengasi. (La formazione compì le accostate prestabilite con un
anticipo di circa un’ora e mezza rispetto a quanto disposto da Supermarina, ma
ciò ebbe l’effetto positivo di far passare il convoglio a distanza da Malta
ancora superiore rispetto a quanto stabilito).
Durante la
navigazione verso est, inoltre, le unità effettuarono diverse accostate verso
ovest per confondere le idee ad eventuali ricognitori circa la loro rotte; ciò
non bastò tuttavia ad impedire che, nel pomeriggio dell’8 novembre – alle
16.45, poco prima del tramonto, secondo il resoconto italiano; già alle 13.55,
secondo quello britannico – il convoglio (ma non la III Divisione) venisse
comunque localizzato, in posizione 37°38’ N e 17°16’ E (o 37°53’ N e 16°56’ E; 40
o 45 miglia ad est di Capo Spartivento Calabro, parecchio ad est di Malta), da
un ricognitore Martin Maryland del 69th Reconnaissance Squadron
della Royal Air Force, decollato da Luqa (Malta) e pilotato personalmente dal
tenente colonnello John Noel Dowland, comandante del 69th
Reconnaissance Squadron. L’idrovolante stava rientrando a Malta quando avvistò
il convoglio.
In quel momento,
aerei italiani e tedeschi si trovavano ancora sul cielo del convoglio; le navi
della scorta – e più precisamente l’Euro,
che lo segnalò subito al Maestrale con
il messaggio ad ultracorte «Aerei in
vista Rb 200 – quota superiore quota 3.000», e poi anche a tutte le altre
navi ed a Supermarina con un segnale di scoperta via radio lanciato all’aria –
avvistarono il ricognitore da 5000 metri di distanza e fecero segnali luminosi
alla scorta aerea – con cui non fu possibile comunicare via radio – per
richiedere che attaccasse il velivolo nemico; al contempo il Duisburg, mercantile capoconvoglio, alzò
a riva i palloni di avvistamento aereo, ma gli aerei della scorta non fecero
nulla (per altra fonte, invece, le segnalazioni previste per avvisare gli aerei
della presenza del ricognitore non vennero effettuate, “per grave disservizio”).
Il Maryland si
trattenne in vista del convoglio solo il tempo strettamente necessario a
rilevarne gli elementi del moto, che comunicò prontamente a Malta alle ore 14
(«Un convoglio di 6 navi mercantili e 4
cacciatorpediniere diretto verso levante, nel punto 40 miglia per 95° da Capo
Spartivento», anche se la velocità, nella realtà 9 nodi, era sovrastimata
in 10-12 nodi). Il messaggio inviato a Malta dal Maryland venne intercettato
anche a Roma, ma fu decifrato soltanto in seguito. Oltre a sovrastimare la
velocità, il ricognitore aveva leggermente sottostimato il numero di navi nel
convoglio (specie di cacciatorpediniere) e non aveva minimamente notato la III
Divisione, che seguiva a distanza, mentre aveva apprezzato con estrema
accuratezza la rotta e posizione del convoglio.
Contrariamente a
molte altre occasioni, e nonostante quanto riferito da diverse fonti
secondarie, il servizio di intercettazione e decrittazione britannico “ULTRA”
non ebbe alcun ruolo nelle vicende del convoglio «Beta»: vennero infatti
intercettati soltanto tre messaggi molto vaghi, dei quali il primo – risalente
alle 13.10 del 7 novembre – poté essere decifrato solo alle 20.49 dell’8
novembre, risultando essere un radiocifrato in cui il Ministero della Marina
chiedeva al Comando Marina di Salonicco di inoltrare al X Corpo Aereo Tedesco
la richiesta di compiere alcuni voli di ricognizione nel Mediterraneo orientale
a protezione del convoglio «Beta». Il secondo messaggio intercettato, sempre
dal Ministero della Marina a Salonicco, era delle 20 dell’8 novembre e
recitava: "A protezione di attacchi
provenienti da Alessandria contro l’importante convoglio diretto a Tripoli, si
richiede al X Fliegerkorps tedesco di tenere pronte tutte le disponibili unità
per i giorni 9 e 10". Il terzo ed ultimo, in cui ancora una volta si
parlava di grosso convoglio diretto a Tripoli che sarebbe stato in mare il 9-10
novembre, per il quale si chiedeva la copertura del X Fliegerkorps, fu
decrittato dalla Special Liaison Unit di “ULTRA” al Cairo alle 00.34 del 9
novembre, cioè pochi minuti prima che la Forza K aprisse il fuoco contro il
convoglio. Tutti e tre i messaggi erano troppo vaghi per poter organizzare
un’intercettazione, non contenendo alcuna informazione su porti e orari di
partenza o di arrivo, rotta e velocità del convoglio; ma soprattutto, il primo
ad essere decrittato lo fu soltanto quando già da tre ore la Forza K era
partita per intercettare il convoglio “Duisburg”, basandosi sulle sole
informazioni dei ricognitori.
L’orientamento verso
est della rotta del convoglio (che virò verso sud solo più tardi) non ingannò i
comandi britannici: un convoglio tanto grande non poteva essere diretto né in
Grecia né a Bengasi, porto dalle capacità ricettive insufficienti ad accogliere
sette mercantili. L’unica destinazione plausibile era Tripoli, e le navi
italiane avrebbero cercato di raggiungerla tenendosi al di fuori del raggio
della portata degli aerosiluranti: il che permise ai britannici di intuire che
il convoglio sarebbe dovuto passare circa 200 miglia ad est di Malta, per poi
puntare verso sud dopo il tramonto per raggiungere un porto della Libia, sempre
seguendo una rotta che lo tenesse al di fuori del raggio degli aerosiluranti di
Malta.
Alle 17.30, di
conseguenza, salpò da Malta la Forza K britannica, formata dagli incrociatori
leggeri Aurora (capitano di
vascello William Gladstone Agnew, comandante della Forza K) e Penelope (capitano di vascello
Angus Dacres Nicholl) e dai cacciatorpediniere Lance (capitano di corvetta Ralph William Frank Northcott)
e Lively (capitano di
corvetta William Frederick Eyre Hussey), con il compito di intercettare il
convoglio segnalato. La partenza della Forza K fu tanto fulminea che il
comandante del Penelope,
capitano di vascello Nicholl, dovette raggiungere la sua nave con
un’imbarcazione, in quanto l’incrociatore stava già manovrando per uscire dal
porto. Lasciatesi Malta alle spalle, le navi britanniche assunsero rotta 064° (verso
est-nord-est) e velocità 28 nodi, in modo da intercettare il convoglio alle due
della notte seguente. La ricerca delle navi dell’Asse sarebbe avvenuta lungo la
presumibile rotta che il convoglio avrebbe seguito per tenersi al di fuori
della portata degli aerosiluranti di Malta.
La ricognizione aerea
italiana (due CANT Z. 1007 dell’Aeronautica dell’Egeo) e tedesca (due Junkers
Ju 88 del X Fliegerkorps) non avvistò le navi britanniche.
Anche un bombardiere
Wellington munito di radar (del 211st Squadron della RAF) ed
otto aerosiluranti Fairey Swordfish (dell’830th Squadron della
Fleet Air Arm, di base a Hal Far) decollarono da Malta per rintracciare il
convoglio nel tardo pomeriggio (il primo per seguirlo e mantenere il contatto
con esso, guidando sul posto la Forza K; i secondi per attaccarlo), ma non riuscirono
a trovarlo: il Wellington per malfunzionamento della radio e del radar, gli
Swordfish perché il convoglio seguiva appunto una rotta che lo teneva al di
fuori del loro raggio d’azione.
Niente di tutto ciò era
a conoscenza delle navi del convoglio «Beta», che proseguirono regolarmente per
la loro rotta. Il tempo era buono: mare calmo, nubi leggere e vento debole,
forza 3. La scorta aerea venne ritirata al tramonto.
Tra le 18 e le 18.30,
mentre la III Divisione Navale e la XIII Squadriglia Cacciatorpediniere zigzagavano
sulla sinistra del convoglio, quest’ultimo manovrò per passare dalla formazione
su tre colonne a quella su due colonne, distanziate di 1000-1500 metri. La
nuova formazione era così composta: a dritta, nell’ordine, Minatitlan (in testa alla colonna), Maria e Sagitta; a sinistra, nell’ordine, Duisburg, San Marco e Conte di Misurata, mentre il Rina Corrado procedeva più a
poppavia degli altri sei mercantili, in posizione centrale rispetto alle due
colonne. Tutt’intorno la scorta diretta: Maestrale in testa al convoglio, Grecale in coda, Libeccio seguito
dall’Oriani sul lato sinistro,
ed Euro seguito dal Fulmine sul lato destro.
Fino alle 19.30 il
convoglio seguì rotta 090°, poi accostò per 122°, ed alle 19.55 per 161°,
sempre per tenersi al di fuori del raggio d’azione degli aerosiluranti.
Alle 20.45 la III
Divisione si portò a poppa del convoglio, e tra le 22 e le 24 le navi di
Brivonesi risalirono il convoglio sino a portarsi a 30° di prora a dritta
del Maestrale (distante da
loro 4 km); poi, a mezzanotte, invertirono la rotta a un tempo per defilare di
controbordo al convoglio. L’ammiraglio italiano aveva pianificato i movimenti
della sua Divisione e la velocità da tenere in modo da tenersi in contatto col
convoglio, mantenendo al tempo stesso una sufficiente libertà di manovra, lungo
le spezzate da percorrere, per ridurre il pericolo di attacchi di sommergibili
avversari contro i suoi incrociatori. La velocità che la III Divisione avrebbe
dovuto tenere, secondo gli ordini di Supermarina, sarebbe stata di 16 nodi; ma
con una tale velocità gli incrociatori, per mantenersi in vista del convoglio
che procedeva a soli 9 nodi, avrebbero dovuto compiere accostate esageratamente
ampie, oppure allontanarsi troppo dal convoglio in ogni accostata. D’altra
parte, una velocità di 9 nodi non avrebbe consentito a Trento e Trieste di
mantenere un’adeguata manovrabilità; pertanto Brivonesi era giunto ad una
soluzione di compromesso, facendo assumere alla III Divisione una velocità di
12 nodi e tenendosi nella scia del convoglio, manovrando periodicamente per
risalire il convoglio sul lato di dritta (quello rivolto verso Malta e dunque
ritenuto più esposto) fino all’unità capofila, indi accostare di controbordo e
tornare in scia al convoglio, per poi replicare tale manovra di pendolamento.
In tal modo, le navi di Brivonesi si sarebbero interposte tra i trasporti e la
probabile direzione di provenienza di un attacco navale britannico.
Intanto, la Forza K
navigava verso la sua ignara preda: avendo inizialmente assunto rotta verso
est, la formazione britannica virò verso sudest subito dopo il tramonto, ed
attraversò, senza essere avvistata, la zona d’agguato del Settembrini. Le unità britanniche erano disposte in linea di fila,
con l’Aurora in testa seguito
nell’ordine da Lance, Penelope e Lively, distanziati tra loro di 750
metri.
Agnew aveva già da
tempo preparato e discusso con i comandanti dipendenti un piano d’azione in
caso di attacco ad un convoglio: le navi britanniche sarebbero rimaste in linea
di fila, per evitare problemi di riconoscimento e per poter lanciare
liberamente siluri; prima di attaccare dei mercantili, la Forza K avrebbe neutralizzato
le navi di scorta presenti sul lato attaccato; nel caso altre unità di scorta fossero
apparse durante l’attacco ai mercantili, esse sarebbero immediatamente divenute
bersaglio prioritario; l’Aurora (capofila)
avrebbe mantenuto ogni nave di scorta bene di prora fino ad averla posta fuori
uso. Così facendo, le navi britanniche avrebbero potuto sfruttare al massimo la
loro potenza di fuoco contro il convoglio, e minimizzare il rischio di un
attacco silurante. Agnew sottolineò l’importanza di colpire subito i bersagli,
fin dalle prime salve, e distribuire il tiro in modo da non lasciar scampo a
nessuna delle unità avversarie.
Alle 00.39 del 9 novembre
le vedette sulla plancia dell’Aurora
avvistarono un gruppo di navi oscurate aventi rotta approssimata 170° (verso
sud), a nove miglia di distanza, su rilevamento 30°: era il convoglio “Duisburg”.
Il radar non ebbe alcun ruolo di rilievo nell’individuazione del convoglio: le
navi italiane vennero avvistate otticamente dalla Forza K, col solo uso di
binocoli, perché illuminate dalla luce lunare, mentre il radar fu poi impiegato
nel puntamento dei cannoni durante il combattimento. Secondo il rapporto britannico,
in quel momento le navi italiane si trovavano in posizione 36°55’ N e 17°58’ E
(135 miglia a sud di Siracusa, 100 miglia ad est-sud-est di Capo Spartivento e
180 miglia ad est di Malta), a cinque miglia per 30° dalla Forza K (per altra
fonte, a 7 miglia per 30° dall’Aurora,
autore dell’avvistamento); la documentazione italiana indica invece il punto
dell’attacco come 37°00’ N e 18°10’ E, a circa 120 miglia dalle coste della
Calabria ("Navi mercantili perdute" indica la posizione come 37°08’ N
e 18°09’ E, circa 120 miglia a sudest di Punta Stilo o 130 miglia a sudovest
della Calabria). Secondo Agnew, la visibilità notturna era ottimale per
un’intercettazione, la luna splendente e luminosa (su rilevamento 100°, con
un’elevazione di 45°), e le condizioni perfette per un’intercettazione (vento
forza 3 da nord-nord-ovest, nubi leggere e calma di mare); nel suo rapporto, il
caposcorta Bisciani registrò brezza moderata verso sud-est, nuvolaglia leggera
e luna scoperta, con «orizzonte ottimo nel secondo quadrante, buono nel terzo,
fosco nel quarto». Secondo Brivonesi, la visibilità era buona quando la luna
era libera, e scarsa quando le nubi la coprivano.
(Secondo "Struggle
for the Middle Sea" di Vince O’Hara, poco ci era mancato che le navi
dell’Asse scampassero, anche questa volta, all’intercettazione: le unità della
Forza K erano infatti giunte quasi al punto in cui avrebbero dovuto
interrompere le ricerche e tornare indietro per raggiunti limiti di autonomia,
e Agnew scrisse in seguito che aveva quasi abbandonato le speranze di trovare
il convoglio segnalato dal Maryland, quando all’improvviso apparvero
nell’oscurità le sagome delle navi nemiche. Questo sembra però in contrasto con
quanto riferito da altre fonti, tra cui la storia ufficiale dell’USMM, secondo
cui invece l’incontro con il convoglio italiano avvenne un’ora prima del
previsto, dato che Agnew si aspettava di incontrarlo intorno alle due di notte:
invece, le navi dell’Asse avevano seguito una rotta più ad ovest di quella
stimata dai britannici, e la Forza K riuscì a trovarle senza neanche bisogno di
dispiegarsi in catena di ricerca. Questo era, peraltro, il modus operandi
generalmente seguito dalle unità britanniche: mentre nella nella Marina
italiana la ricerca di formazioni nemiche si compiva distendendo le proprie
navi “a rastrello” in linea di fronte o di rilevamento, i britannici compivano
andavano in cerca di convogli mantenendo le proprie formazioni compatte, in
linea di fila).
Il convoglio italo-tedesco
avanzava su rotta 161° alla velocità di 9 nodi, nella formazione su due colonne
assunta alle 18.30; la Minatitlan
procedeva circa 1300 metri a poppavia del Maestrale, che si trovava in testa alla formazione italiana. La
III Divisione, quale scorta indiretta, seguiva il convoglio a quattro chilometri
a poppavia dritta (ossia verso ovest, ritenuta la più probabile direzione di
provenienza di un attacco: Malta, infatti, era a dritta rispetto al convoglio),
zigzagando alla velocità di dodici nodi. Mezz’ora prima, le navi di Brivonesi
avevano raggiunto il punto più settentrionale nel loro pendolamento, ultimando
l’accostata per defilare di controbordo al convoglio; ora avevano accostato per
assumere rotta parallela al convoglio e ripetere il pendolamento, verso sud.
Qualcuna delle unità
della scorta diretta, grazie alla luna piena, avvistò anche la Forza K, 3-5 km
a poppavia, ma ritenne trattarsi della III Divisione. Il Bersagliere, che avvistò le navi
britanniche meno di un minuto prima che aprissero il fuoco, fu l’unico a capire
che si trattava di navi nemiche, ed a lanciare immediatamente il segnale di
scoperta, ma era già troppo tardi; il segnale fu ricevuto da Maestrale e Trieste proprio mentre la Forza K
iniziava a sparare.
Anziché attaccare
subito il convoglio, il comandante Agnew manovrò flemmaticamente per portarsi
nella posizione più favorevole all’attacco, di poppa al convoglio (dove in
genere la sorveglianza risultava più debole) e con la luna di fronte,
approfittando del fatto che nessuna nave italiana sembrasse accorgersi della
sua presenza.
La Forza K ridusse la
velocità da 28 a 20 nodi ed accostò a sinistra per 350°, quindi aggirò il
convoglio con una manovra che richiese 17 minuti, attraversandone la scia e
portandosi a poppavia dritta rispetto ad esso, di modo che i bersagli si stagliassero
contro la chiara luce lunare. Alle 00.50 l’Aurora,
trovandosi quasi al traverso di un cacciatorpediniere italiano che procedeva in
coda al convoglio (probabilmente il Grecale),
puntò dritto su di esso, accostando a dritta su rotta est/nordest; Agnew
apprezzò la composizione del convoglio in otto grossi mercantili e quattro
cacciatorpediniere. Aveva ormai deciso cosa fare: avrebbe attaccato il
convoglio da poppa e poi ne avrebbe “risalito” la formazione, distruggendo
sistematicamente i mercantili dopo aver neutralizzato la scorta sul lato
attaccato. I bersagli vennero identificati e scelti dai puntatori, i cannoni
puntati e preparati ad aprire il fuoco a colpo sicuro. L’Aurora puntò l’armamento principale, asservito al radar di
scoperta navale tipo 284, sui cacciatorpediniere della scorta, ed i cannoni da
100 mm di sinistra, asserviti al radar tipo 290 ed alla centrale di tiro poppiera,
sui mercantili.
Alle 00.52 la Forza K
avvistò su rilevamento 330° (verso sinistra) la III Divisione, della cui presenza
nessuno, da parte britannica, aveva fino a quel momento avuto sentore; ma ciò
non modificò le intenzioni di Agnew, il quale poco dopo concluse che le due
“navi maggiori” (che erano, in effetti, il Trento ed il Trieste,
che in quel momento si trovavano un poco di prua rispetto al traverso sinistro
dell’Aurora: il Trieste distava tre miglia e mezzo, il Bersagliere meno di tre) ed i cacciatorpediniere che le accompagnavano,
oscurate e distanti sei miglia, dovessero essere degli altri mercantili con la
loro scorta (tanto che a cose fatte, i britannici ritennero erroneamente di
aver affondato dieci mercantili invece che sette, credendo di aver attaccato "otto mercantili e quattro cacciatorpediniere
nemici, seguiti da un secondo convoglio di due cacciatorpediniere e due
mercantili"). Alle 00.56 il Lively stimò
che il convoglio avesse rotta 150° e velocità 8 nodi; in base ai dati del suo
radar, il Maestrale (che al
momento dell’attacco si trovava al traverso a poppavia della Forza K, a sud
della stessa) distava 10.060 metri, i mercantili che lo seguivano 8230 metri.
Solo alle 00.57 la
Forza K, giunta circa 5 km a sudest del convoglio, aprì il fuoco sulle ignare
navi italiane da una distanza di 5200 metri, orientando il tiro con l’ausilio
dei radar tipo 284 e defilando lungo il fianco dei mercantili. Sempre per
agevolare il tiro, le navi britanniche lanciarono dei bengala illuminanti a
quote comprese tra i 600 ed i 1000 metri.
Il tiro britannico si
abbatté per primo sui cacciatorpediniere che proteggevano il lato più vicino
alla Forza K: Fulmine, Euro e Grecale. Il primo e l’ultimo vennero ripetutamente centrati prima
di poter avere il tempo per imbastire una reazione efficace: il Fulmine affondò dopo pochi minuti,
il Grecale rimase alla
deriva con danni gravissimi e decine di morti e di feriti gravi, completamente
fuori combattimento. L’Euro scampò
invece alla strage iniziale (venne anch’esso colpito, ma i danni non risultarono
gravi), e tentò di coprire i mercantili con una cortina fumogena, imitato
da Maestrale e Libeccio.
Subito dopo l’Aurora, il cui primo bersaglio era stato
il Grecale (che venne
immobilizzato e incendiato dalle prime tre salve, dopo di che l’Aurora spostò il tiro sul Maestrale, contro il quale stava già
sparando il Penelope),
anche Lance e Penelope aprono il fuoco:
quest’ultimo tirò prima su un piroscafo e poi sul Maestrale, che accostò per 80° (verso sinistra, aggirando la testa
del convoglio: Bisciani ritenne che l’unica possibilità di attacco consistesse
nel portarsi in posizione prodiera rispetto alle navi nemiche, accostando a
sinistra), accelerò a 20 nodi ed emise cortine fumogene, seguito dal
convoglio. Euro e Libeccio manovrarono anch’essi
aumentando la velocità, per tentare di occultare le navi di testa del convoglio
con cortine fumogene.
Per ordine del Maestrale, che aveva ordinato alle unità
della scorta di radunarsi intorno a lui, i superstiti cacciatorpediniere della
scorta diretta emisero cortine fumogene per nascondere i mercantili, poi assunsero
rotta verso est ed incrementano la velocità. Nella generale confusione, il caposcorta
Bisciani ritenne erroneamente che l’attacco provenisse dal lato sinistro del
convoglio (in realtà ad essere sotto attacco era il lato destro), e che le navi
sul lato destro fossero quelle della III Divisione (mentre era la Forza K).
Poco dopo, il Maestrale stesso fu
colpito dal tiro britannico, subendo danni leggeri ma anche l’abbattimento
dell’aereo della radio, il che gli impedì di comunicare con il resto della
scorta e del convoglio.
I cacciatorpediniere della
scorta diretta che si trovavano sul lato orientale del convoglio (Libeccio ed Oriani) si ritrovarono così disorientati
e senza ordini; per la loro posizione, non avevano neanche compreso – per lo
meno nei primi minuti, quelli decisivi – quale fosse il tipo di attacco
lanciato contro il convoglio. Si limitarono ad emettere fumo. Alcuni ritennero
che le navi fossero sotto attacco aereo, e non da parte di altre navi di
superficie: questa fu anche l’impressione che ebbero sulle prime i comandanti
di diversi mercantili; questa convinzione – cui contribuì anche l’impiego di
bengala da parte britannica per illuminare meglio i bersagli – si spinse a tal
punto che alcuni dei mercantili aprirono un fitto e disordinato fuoco con le
mitragliere in tutte le direzioni, sparando praticamente a caso contro aerei
che non esistevano. Come se non bastasse, alcune delle mitragliere dei
mercantili, credendo di trovarsi sotto attacco da parte di aerosiluranti (che
conducevano i loro attacchi volando a bassa quota), tiravano basso, e finirono
col colpire col loro tiro l’agonizzante Fulmine,
provocando ulteriori perdite tra il già decimato equipaggio del
cacciatorpediniere. Altro effetto pernicioso della convinzione di trovarsi
sotto attacco aereo, anziché navale, fu che i mercantili non tentarono di
disperdersi e fuggire (o anche solo di dare la poppa alle navi britanniche), il
che avrebbe quanto meno reso più difficile alla Forza K il compito di
rintracciarlo e distruggerli. Disperdere il convoglio sotto un attacco aereo,
infatti, avrebbe reso i mercantili più vulnerabili, privandoli della protezione
delle armi contraeree dei cacciatorpediniere ed impedendo il tiro concentrato
delle armi contraeree di tutte le navi; mentre in un attacco da parte di navi
di superficie, mantenere intatta la formazione serviva solo a facilitare il
compito degli aggressori.
Intanto, all’1.18, l’Euro andò al contrattacco
silurante, unica unità della scorta ad abbozzare un effettivo tentativo di
reazione; il suo comandante, tuttavia, ebbe il dubbio di stare attaccando le
navi della III Divisione (anche per via degli ordini impartiti dal caposcorta),
così rinunciò a lanciare i siluri ed abbandonò il contrattacco, accostando a
sinistra per riunirsi a Maestrale, Libeccio ed Oriani, che dirigevano verso est
inquadrati dal tiro delle artiglierie della Forza K.
I mercantili, nel
vano tentativo di sfuggire alla Forza K (proveniente da ovest, cioè da dritta),
misero la prua verso est (verso sinistra); molti comandanti continuavano a non
rendersi conto di cosa esattamente stesse accadendo, alcuni virarono verso est
perché si erano resi conto che l’attacco proveniva da ovest, altri
semplicemente per imitazione di manovra dei primi, altri ancora perché così
facendo potevano rifugiarsi nelle cortine fumogene stese dai
cacciatorpediniere. Ma non servì a niente. Anche il Maestrale, per motivo difficilmente spiegabile (il relativo volume
dell’U.S.M.M. così giudica tale manovra del caposcorta: "Forse d’istinto più che in base ad un
ragionamento"), dopo aver trasmesso l’ordine di coprire i mercantili
con cortine nebbiogene (l’ultimo impartito prima dell’abbattimento dell’aereo
radio) mise la prua in tale direzione, inquadrato dalle salve nemiche. Oriani e Libeccio, in mancanza di ordini, seguirono loro caposcorta per imitazione
di manovra, continuando ad avvolgere i mercantili in inutili cortine nebbiogene
(più tardi, alzata un’antenna radio di fortuna, fu il Maestrale stesso ad ordinare ai cacciatorpediniere superstiti
di seguirlo verso est). L’Euro, unico
altro cacciatorpediniere rimasto in efficienza, fece come loro. Il comandante
Bisciani avrebbe poi scritto così nel suo rapporto: «Ritengo [all’1.17 circa] che
nulla sia più possibile per la salvezza del convoglio, e penso che,
occultandoli, potrò riunire i Ct, dei quali due sono in vista con rotta presso
a poco parallela alla mia, per una successiva azione» che però non si
materializzò mai.
In tal modo, eccetto
che per l’abortito tentativo iniziale dell’Euro,
nessuna unità della scorta tentò di contrattaccare attivamente le navi nemiche,
a differenza di quanto accadde di solito in simili circostanze; la successiva
azione della Forza K contro i mercantili incontrò così ben poco contrasto.
L’operato della scorta diretta del convoglio "Duisburg" e del
caposcorta Bisciani sarebbe stato poi giudicato sfavorevolmente dall’ammiraglio
Wladimiro Pini, comandante del Dipartimento Militare Marittimo del Basso
Tirreno, e dagli alti comandi della Regia Marina.
Neutralizzata la parte
della scorta diretta sul lato attaccato, mentre il resto di quest’ultima
brancolava nel buio, alle 00.59 l’Aurora accostò
a dritta (verso sud, assumendo rotta parallela a quella del convoglio) e guidò
la Forza K in una manovra avvolgente attorno al convoglio, una sorta di volta
tonda nella quale aggirò i mercantili da ovest verso est, risalendo il lato
destro del convoglio e facendo sistematicamente fuoco su ognuno dei mercantili
con tutte le armi di bordo, da circa 1800 metri di distanza, finché questo
s’incendiava od esplodeva. Il tiro preciso, celere e ravvicinato delle unità
britanniche – l’ammiraglio Brivonesi stimò che sparassero con ritmo inferiore
ai dieci secondi: in ogni caso tirarono con una tale intensità da
surriscaldarsi fino a provocare lo scioglimento ed il distacco della vernice –
demolì, una dopo l’altra, tutte le navi del convoglio: siccome tutte avevano
carburante e/o munizioni tra il loro carico, ognuna di esse prendeva fuoco od
era scossa da esplosioni non appena veniva colpita. Come riferito nei loro
rapporti dai comandanti di Euro e Grecale, i più vicini al lato attaccato,
già pochi minuti dopo l’una i mercantili più poppieri del convoglio erano
trasformati in roghi; entro l’1.10 tutti e sette erano in preda alle fiamme.
Oltre che con i pezzi
da 152 degli incrociatori (che “fornirono eccellenti prestazioni”, come annotò
Agnew nel suo rapporto), con i pezzi secondari da 102 mm degli stessi e quelli
principali da 120 dei cacciatorpediniere, le navi della Forza K spararono sui
loro bersagli anche con le micidiali mitragliere quadrinate da 40 mm, note come
“pom-pom”. Il tiro venne eseguito da distanze comprese tra i 2000 ed i 4000
metri. Venne anche lanciato qualche siluro, tre dall’Aurora ed almeno uno dal Lance.
Primi ad essere
colpiti furono Maria e Sagitta, i più vicini alla zona di
provenienza della Forza K (questi due mercantili, insieme alla Minatitlan che li precedeva, formavano
la colonna destra del convoglio), poi anche gli altri, uno dopo l’altro. Nessun
trasporto fu in grado di sfuggire, data la bassa velocità massima sviluppabile;
le cortine fumogene non servirono a nulla, né servì il violento e confuso fuoco
di mitragliere che molti dei mercantili – alcuni dei quali credevano ancora di
avere a che fare con un attacco di aerosiluranti – aprirono disordinatamente.
Molte delle navi, continuando a non capire se fossero sotto attacco navale od
aereo, non tentarono nemmeno di diradarsi e fuggire: Agnew scrisse poi che “sembrava
che le navi mercantili stessero aspettando il loro turno per essere distrutte”.
Il Lance colpì ripetutamente Maria e Sagitta (oltre al Fulmine),
mentre il Lively, che aprì il
fuoco per ultimo (all’una di notte), colpì il Duisburg con sei salve, incendiandolo. L’Aurora cannoneggiò ed incendiò il Rina Corrado, quindi mitragliò il già danneggiato Fulmine, che venne poi finito dal Penelope. Il Conte di Misurata tentò di dare la poppa al fuoco nemico per
allontanarsi, ma venne a sua volta colpito ed incendiato dall’Aurora (tra l’1.10 e l’1.15, secondo la
ricostruzione di Francesco Mattesini). E fu sempre l’Aurora, dopo aver ridotto il Conte
di Misurata ad un relitto in affondamento, ad aprire il fuoco sulla Minatitlan da una distanza di circa 2750
metri (poco dopo l’1.15, secondo Mattesini). Il tiro dell’incrociatore, diretto
con l’aiuto del radar tipo 284, non mancò di ottenere rapidi e ripetuti centri
anche su questa nave; all’1.04 il Lance
lanciò un siluro contro la petroliera, ritenendo di averla colpita. Dopo aver
cannoneggiato la Minatitlan, anche l’Aurora lanciò tre siluri contro
altrettanti mercantili, giudicando di averne colpiti due.
Tra tutte le navi del
convoglio, fu proprio alla Minatitlan
che toccò la sorte peggiore: carica com’era di novemila tonnellate di carburante
(tra cui oltre duemila di infiammabilissima benzina avio), la sventurata motocisterna
prese fuoco dopo i primi colpi, venendo immediatamente avvolta dalle fiamme da
prua a poppa.
L’incendio fu così
repentino e catastrofico da non lasciare scampo quasi a nessuno: dei 58 uomini
dell’equipaggio, soltanto in sei riuscirono a salvarsi. Persero la vita 38
membri dell’equipaggio civile, compreso il comandante Incagliati, e 14
militari, compreso il regio commissario, capitano del Genio Navale Direzione
Macchine di complemento Rosario Toscano (40 anni, da Acireale).
La Minatitlan in fiamme il mattino del 9
novembre 1941 (sopra: g.c. STORIA militare; sotto: da “Navi mercantili perdute”
di Rolando Notarangelo e Gian Paolo Pagano, USMM, Roma 1997)
All’1.25 l’Aurora accostò a sinistra, di prora
al convoglio (aggirandone la testa), per tagliargli la rotta ed assicurarsi che
nessun mercantile potese sfuggire, indi “ridiscese” il convoglio lungo il suo
lato sinistro ed all’1.45 diresse verso ovest per girargli intorno: tutti i
mercantili erano ormai avvolti dalle fiamme. Alle 2.06, completata la propria
opera di distruzione ed essendo ormai a corto di munizioni (il Penelope, ad esempio, aveva sparato 259
colpi da 152 mm e 111 da 120 mm nel giro di un’ora; l’Aurora, 279 colpi da 152 e 73 da 120; il Lance, 434 colpi da 120, mentre mancano dati sul Lively), la Forza K passò a poppavia di
ciò che restava del convoglio, accelerò a 25 nodi e diresse verso ovest per
rientrare a Malta, dove giunse alle 13.05 di quello stesso giorno, senza aver
subito alcun danno (eccetto uno lievissimo, un foro da scheggia, al fumaiolo
del Lively), eludendo anche un
attacco da parte di quattro aerosiluranti italiani.
Deludente la reazione
della III Divisione: avvistate, all’1.01, le vampe dei cannoni della Forza K
che aprivano il fuoco sul convoglio, le navi di Brivonesi accostarono a dritta,
su rotta 240°, poi a sinistra; il Trieste aprì
il fuoco all’1.03 ed il Trento due
minuti dopo, da grandissima distanza (8 km). Mentre manovravano per impegnare
le navi della Forza K, i due incrociatori italiani dovettero assistere alla
mattanza del convoglio che avrebbero dovuto proteggere: Brivonesi scrisse poi
che “Il tiro del nemico aveva un ritmo
celere, e salve ben raggruppate che si potevano osservare seguendo le codette
luminose dei proiettili. Se non alla prima, alla seconda salva un piroscafo era
già in fiamme ed illuminava vividamente gli altri piroscafi contigui. Gli
incendi degli altri piroscafi si sono seguiti con una rapidità inimmaginabile,
tanto che alle 01.07, ossia sette minuti dopo dell’inizio dell’azione, tutti i
piroscafi erano in fiamme. (…) quando
il TRIESTE ha fatto partire la sua prima salva (alle ore 01.03) non meno di due
piroscafi erano già stati colpiti ed incendiati e quando anche il TRENTO ha
potuto iniziare il tiro (alle ore 01.05) quasi tutti i piroscafi erano già in
fiamme; essi bruciavano tutti alle ore 01.07”. Brivonesi giudicò che tale
risultato dipendesse dall’“ausilio
prezioso fornito dagli strumenti radiotelegrafici di cui esso dispone, del
munizionamento perfettamente adatto e dei congegni di tiro che esso impiega
certamente nelle azioni notturne, ed anche dalla estrema infiammabilità del
carico di tutti i piroscafi che costituivano il convoglio DUISBURG”.
All’1.08 la III
Divisione assunse rotta 180°; pur potendo raggiungere velocità superiori ai 30
nodi, Brivonesi mantenne inspiegabilmente la velocità delle sue navi a 15-16
nodi (la Forza K procedeva a 20 nodi), aumentandoli a 18 solo all’1.12, ed a 24
all’1.18. Intanto la Forza K aggirava il convoglio e ne completava la
distruzione, coprendosi proprio con le cortine fumogene stese in precedenza
dagli stessi cacciatorpediniere italiani per nascondere i mercantili.
Per via delle
rispettive manovre, la III Divisione e la Forza K si ritrovarono a girare
intorno al convoglio, scambiandosi inconsapevolmente di posizione (la III
Divisione a sudovest del convoglio, la Forza K a nordest); il risultato fu che
la Forza K, girando attorno ai mercantili, mantenne sempre il convoglio tra sé
e gli incrociatori di Brivonesi (senza neanche volerlo, dato che Agnew non si
era minimamente accorto della presenza di incrociatori italiani), il che
intralciò non poco il tiro di questi ultimi: tra i cannonieri di Brivonesi ed i
loro bersagli s’interponevano i mercantili incendiati ed il fumo generato da
questi incendi.
Per quel che
riguardava i quattro cacciatorpediniere della XIII Squadriglia, il Bersagliere, prima unità in assoluto ad
avvistare il nemico, si era avvicinato alla Forza K facendo fuoco coi propri
pezzi da 120, ma aveva ripiegato verso est dopo essere stato bersagliato dal
tiro del Penelope; il Granatiere non sparò per la difficoltà
di individuare i bersagli, troppo lontani, e per non farsi localizzare dal
nemico, indi virò a dritta allontanandosi dalla III Divisione e finendo col
passare in mezzo ai mercantili incendiati; Fuciliere
ed Alpino, in seguito all’accostata,
erano rimasti a poppavia degli incrociatori di Brivonesi e non riuscirono
neanche ad avvistare le unità della Forza K.
All’1.25, essendo la
distanza divenuta ormai eccessiva (alzo 17 km), la III Divisione cessò il
fuoco: a quell’ora il convoglio "Duisburg" non esisteva ormai più. All’1.26
le navi della Forza K risultavano completamente nascoste dal fumo dei
mercantili in fiamme. Gli incrociatori di Brivonesi avevano sparato 207 colpi
da 203 mm e 82 da 100 mm, senza metterne uno solo a segno. All’1.29
l’ammiraglio fece assumere alle sue navi rotta nord e velocità 24 nodi per
intercettare le unità britanniche che, aggirando verso nord i resti del convoglio,
dirigevano verso Malta, ma l’incontro non avvenne in quanto Brivonesi,
informato da Supermarina del possibile pericolo di un attacco di aerosiluranti,
credette di trovarsi nel raggio d’azione di una portaerei britannica: pertanto,
all’1.35 – siccome le sagome dei suoi incrociatori, profilandosi contro gli
incendi dei mercantili, sarebbero state particolarmente vistose per gli aerei
ed anche eventuali sommergibili nemici – assunse rotta nordovest,
allontanandosi dal luogo dello scontro e dalla Forza K.
All’1.41 Maestrale, Libeccio, Euro ed Oriani assunsero rotta 90° (verso
est), che seguirono per un po’ a 30 nodi di velocità, mentre il caposcorta
Bisciani attendeva che giungesse qualche ordine o notizia sugli accadimenti in
corso.
(Secondo una fonte, i
quattro cacciatorpediniere si ritirarono una decina di miglia ad est del
convoglio per riorganizzarsi, poi andarono al contrattacco, guidati dal Maestrale, aprendo il fuoco con le
proprie artiglierie, ma astenendosi dal lanciare siluri per evitare di colpire
i mercantili, che si trovavano al di là della Forza K. Le quattro unità di
Bisciani seguitarono poi a fare fumo ed ad impegnare le navi britanniche ogni
volta che queste divenivano visibili, senza però riuscire a concludere nulla.
Niente di tutto ciò, però, risulta dall’approfondita ricostruzione dello
scontro fatta dallo storico Francesco Mattesini).
All’1.44 l’ammiraglio
Brivonesi ordinò a Bisciani di tornare presso i mercantili per recuperarne i
naufraghi; alle due di notte i cacciatorpediniere, tutti spostatisi verso est
seguendo il caposcorta (ormai distavano ben 17 miglia da quel che restava del
convoglio), invertirono finalmente la rotta per riavvicinarsi al convoglio,
procedendo a 18 nodi. Raggiunsero i relitti in fiamme alle tre di notte. Non vi
era a galla un solo piroscafo che risultasse salvabile; alcuni erano già
affondati, altri lo fecero più tardi. La Minatitlan era ancora a galla: senza accennare ad andare a fondo,
continuò a bruciare furiosamente per tutta la notte, illuminando la scena del
disastro con il suo rogo.
Tre
immagini della Minatitlan in fiamme scattate
da una sezione di bombardieri Savoia Marchetti SM. 79 del 10° Stormo da
Bombardamento Terrestre, provenienti dalla Sicilia, che la sorvolarono il
mattino del 9 novembre (prima e seconda foto: da un saggio di Francesco
Mattesini su www.academia.edu; terza
foto: g.c. STORIA militare)
Poco dopo le tre di
notte, i quattro cacciatorpediniere iniziarono a recuperare centinaia di
naufraghi dal mare cosparso di nafta e rottami; l’operazione di soccorso, cui
molto più tardi si unirono anche Fuciliere,
Bersagliere ed Alpino della XIII Squadriglia, proseguì per tutta la mattinata del
9 novembre. Intanto, il malconcio Grecale arrancava
verso nord; alle quattro del mattino rimase definitivamente immobilizzato, per
cui l’Oriani venne inviato a
prenderlo a rimorchio per portarlo a Crotone.
Dalle 7.30 iniziarono
a sopraggiungere anche gli aerei: nel corso della giornata, si alternarono sui
cieli delle navi superstiti numerosi caccia Messerschmitt Bf 110 del 26° Stormo
da Caccia della Luftwaffe, dieci SM. 79 del 10° Stormo Bombardieri della Regia
Aeronautica e 22 caccia italiani tra CR. 42 e Reggiane Re 2000 del 23° Gruppo
Autonomo e Macchi Mc 200 del 7° Gruppo del 54° Stormo. Tali velivoli esercitavano
vigilanza sia antiaerea sia antisommergibili.
La III Divisione
Navale, invertita la rotta, tornò anch’essa sul luogo dove il convoglio era
stato distrutto, giungendovi alle 9.20 ed unendosi ai superstiti
cacciatorpediniere della scorta diretta in posizione 37°02’ N e 18°03’ E.
L’ultimo, amarissimo
boccone di quella tremenda giornata la Marina italiana lo dovette inghiottire
alle 6.40, quando il sommergibile britannico Upholder (capitano di corvetta Malcolm David Wanklyn), attirato sul
posto dagli stessi ricognitori che avevano guidato la Forza K – durante la
notte era stato visto navigare in superficie, tra le navi incendiate, dai
naufraghi di alcuni dei mercantili –, silurò il Libeccio che stava rimettendo in moto dopo aver recuperato un
gruppo di 150 naufraghi, in gran parte appartenenti al Fulmine. Privato della poppa, il Libeccio colò a picco alle 11.18, dopo un breve quanto penoso
tentativo di rimorchio da parte dell’Euro;
la maggior parte dell’equipaggio poté essere salvato, ma molti naufraghi erano
stati uccisi dallo scoppio del siluro, che aveva colpito proprio i locali in
cui erano stati portati per i primi soccorsi.
Ai cacciatorpediniere
della scorta diretta si unirono, per il soccorso ai naufraghi, anche i
cacciatorpediniere Nicoloso Da Recco,
Antoniotto Usodimare e Vincenzo Gioberti, usciti da Trapani, e
le navi ospedale Virgilio, fatta
appositamente uscire da Augusta ed arrivata alle 16.30, ed Arno, dirottata sul posto durante la
navigazione da Bengasi all’Italia e giunta sul posto poco dopo le undici del
mattino (proprio a quell’ora, venne avvistata da bordo la grande nube di fumo
nero dell’incendio della Minatitlan).
Le due navi ospedale continuarono ad ispezionare la zona del disastro fino
all’alba del 10 novembre.
Sia l’Arno che la Virgilio giunsero sul posto facendosi guidare, nell’ultimo tratto
della navigazione, dalla densa nube di fumo dell’incendio della Minatitlan, che ancora galleggiava:
ultima unità del convoglio ancora a galla, la petroliera continuò a galleggiare
in preda alle fiamme per tutto il mattino del 9 novembre, venendo fotografata a
più riprese sia dalle unità impegnate nei soccorsi che dagli aerei di
passaggio. Queste drammatiche immagini sarebbero diventate il simbolo della
tragedia del convoglio “Duisburg”.
Infine, anche il
relitto carbonizzato della motocisterna scivolò per sempre sotto le onde,
portando con sé i resti del suo sfortunato equipaggio. (Secondo Erminio
Bagnasco nel libro "Navi e marinai italiani nella seconda guerra mondiale",
invece, il relitto galleggiante della Minatitlan
venne finito a cannonate da uno dei cacciatorpediniere italiani impegnati nel
salvataggio dei naufraghi). Nessuno dei testi che trattano la vicenda del
convoglio “Duisburg” indica esattamente a che ora questo avvenne: ma siccome
anche la Virgilio, giunta sul posto
alle 16.40, menzionò nel suo rapporto di aver avvistato la Minatitlan in fiamme, si può presumere che la petroliera rimase a
galla anche per buona parte del pomeriggio, colando a picco soltanto nel tardo
pomeriggio od in serata.
Tra gli aerei che
sorvolarono il teatro della tragedia era anche l’idrovolante CANT Z. 506 della
186a Squadriglia Ricognizione Marittima (di base ad Augusta) sul
quale si trovava come osservatore il guardiamarina Alfonso Di Nitto. Questi
descrisse così le operazioni di ricerca nel suo diario: «9 NOVEMBRE – Domenica. Non ceno – Questa mattina in missione speciale
con 506 per ricerca naufraghi convoglio 7 piroscafi sdrumati dagli
inglesi. Alle 08.30 in Lat. = 37 ° 10′ Long. = 17° 40′ avvisto due CC.TT. OR – GR a
lento moto rotta NW. Alle 9 in Lat. = 37° 10′ –
Long. = 17° 50′ avvisto la 3a. divisione con rotta 130. Alle
9.10 in Lat. = 37° 10′ Long- = 18° 10′ 1
piroscafo 1 cisterna in fiamme, 3 CC.TT. uno dei quali Libeccio alle 11.30
affonda. In zona molti naufraghi che segnalo ai CC.TT. Alle 11 una nave
ospedale in Lat. = 36° 50′ Long. = 17° 50′ (Arno)
alla quale indico la zona sulla quale poi dirige. 10 NOVEMBRE – Lunedì. Questa
mattina in volo con 506 per ricerca naufraghi nella zona nota. Arrivo ad
avvistare Cefalonia e Zante. Mi viene il desiderio di andare ad ammarare ad
Argostoli a trovare Vincenzo! Arrivato in zona avvisto un naufrago a mg. 8 per
290° dalla cisterna [che
era la Minatitlan]. Lo segnalo e gli lancio una cassetta
viveri con fumate. Nel pomeriggio viene salvato. 11 NOVEMBRE – Martedì. In volo
per la solita ricerca naufraghi. App. n° 1-170 S.T. Colli 1° pilota –
Zona di relitti e nafta molto più vasta – Non avvisto naufraghi. Alle 10.35 in
Lat. = 37° 20′
Long. = 18° 05′ avvisto 1 Blenheim a sinistra a quota 300 col
quale sostengo combattimento per 20 minuti. Il velivolo nemico esegue tre
passaggi 2 in prua ed uno laterale – Nessun colpo a bordo. Mitragliera da 12.7
inceppata poi ultimi 5 m. disimpegno. Nemico sicuramente colpito –
Probabilmente abbattuto». Lo
stesso Alfonso Di Nitto sarebbe scomparso in mare poco più di un mese dopo, il
18 dicembre 1941, con tutto l’equipaggio del suo idrovolante.
Altre due
foto aeree della Minatitlan in fiamme
il mattino del 9 novembre (sopra: dal citato saggio di Francesco Mattesini;
sotto: g.c. STORIA militare)
In tutto vennero
tratti in salvo 764 naufraghi delle nove navi affondate: 401 dal Maestrale, 189 dall’Euro, 48 dall’Oriani, 35
dall’Alpino, 34 dalla Virgilio, 21 dall’Arno, 20 dal Fuciliere,
undici dal Bersagliere.
Una lancia del Rina Corrado con 13 superstiti,
evidentemente sfuggita alle ricerche, raggiunse Valona, in Albania, dopo
quattro giorni di navigazione.
Soltanto 6 di questi
764 sopravvissuti appartenevano all’equipaggio della Minatitlan.
Le vittime tra l’equipaggio civile della Minatitlan:
(si ringraziano Carlo Di Nitto e Michele Strazzeri)
Tommaso Abbonato, marinaio, da Trapani
Luigi Afano (od Ofano), ingrassatore, da Torre del Greco
Angelo Alloi, cameriere, da Genova
Camillo Amodio, mozzo, da Napoli
Giuseppe Annunziato, ingrassatore, da
Torre del Greco
Cesare Azzaroli, operaio meccanico, da Genova
Giovanni Cervio, operaio meccanico, da Chiavari
Antonio Colace, marinaio, da Parghelia
Carmelo D'Arrigo, marinaio, da Catania
Virgilio De Angelis (o De Michelis), operaio meccanico, da
Porto Longone
Pietro De Vicaris, ingrassatore, da Napoli
Emanuele Fresco, cambusiere, da Genova
Giobatta Ghiggini, secondo cuoco, da Lerici
Guido Incagliati, comandante, da Guspini
Angelo Lagomarsino, secondo ufficiale, da
Chiavari
Giovanangelo La Grasta, carbonaio, da Molfetta
Giuseppe Latella, marinaio, da Villa San
Giovanni
Andrea Longobardi, capo fuochista, da Torre del Greco
Domenico Lucifero, garzone di camera, da Messina
Pietro Martini Covacci, secondo ufficiale di macchina,
da Lesina
Costantino Novella, primo elettricista, da Rivarolo
Ligure
Corrado Orlando, marinaio, da Pozzallo
Giuseppe Palomba, garzone di cucina, da Torre
del Greco
Pierino Passalacqua, primo ufficiale di macchina, da Arcola
Rosario Pavone, direttore di macchina, da
Genova
Agostino Piro, primo cuoco, da Casamicciola
Teodoro Previd, primo elettricista, da Trieste
Francesco Romano, carbonaio, da Torre del
Greco
Antonio Salvemini, giovanotto di prima, da Molfetta
Giovanni Sanna, tanchista, da Silico
Giovanni Solari, primo ufficiale, da
Zoagli
Donato Sparano, fuochista, 56 anni, da Somma Vesuviana
Liberato Trichilo, garzone, da Siderno Marina
Salvatore Tronu, nostromo, da Cagliari
Francesco Ventrilla, operaio meccanico, da Catania
Arturo Vergani, secondo ufficiale di macchina, da Milano
Nicola Vuoso, mozzo, da Barano d'Ischia
Guido Zino, terzo ufficiale, da Savona
L’atto di
scomparizione dei membri dell’equipaggio civile (g.c. Michele Strazzeri)
Non è stato ad ora possibile
risalire ai nomi delle quattordici vittime dell’equipaggio militare, salvo che
per il regio commissario cap. G.N. Rosario Toscano e per tre militari di passaggio, Luigi Pasquazi, Mariano De Luca ed il caporale maggiore Guido Mascanzoni.
L’atto di scomparizione in mare di Luigi Pasquazi e Mariano De Luca, nel registro di Stato civile del Comune di Cave (Archivio di Stato di Roma via Portale Antenati, si ringrazia Riccardo Traversi) |
La distruzione del
convoglio “Duisburg” ebbe un effetto particolarmente deleterio sulla situazione
delle forze italo-tedesche in Africa Settentrionale, che si ritrovarono
indebolite e a corto di rifornimenti dinanzi all’offensiva britannica "Crusader",
iniziata il 18 novembre e conclusasi a fine dicembre, dopo alterne vicende, con
la conquista britannica dell’intera Cirenaica, per la seconda volta dall’inizio
della guerra. Le forze dell’Asse avevano dovuto abbandonare l’assedio di Tobruk
a inizio dicembre, a causa della mancanza di rifornimenti. Mussolini scrisse a
Hitler in una lettera, facendo riferimento alla distruzione del convoglio “Duisburg”:
"L’esito della battaglia fu
compromesso sul mare, non sulla terra. Gravissima fu la perdita dell’intero
convoglio di sette navi, che portavano reparti tedeschi di carri armati".
Il genero di
Mussolini e ministro degli Esteri, Galeazzo Ciano, descrisse l’accaduto nel suo
diario in termini estremamente caustici, come del resto era solito fare: «9
novembre. Dal 19 settembre non
avevamo più tentato di far passare un convoglio per la Libia [questa
affermazione non risponde a verità: tra il 19 settembre – data
dell’affondamento dei grossi trasporti truppe Neptunia ed Oceania – ed
il 9 novembre erano stati inviati in Libia oltre una dozzina di convogli]: ogni prova era stata pagata a caro prezzo
e le perdite subite dal naviglio mercantile erano salite a proporzioni tali da
dissuadere da ogni ulteriore esperimento [le perdite nei mesi di settembre
e ottobre 1941 tra i rifornimenti inviati in Libia via mare erano salite al 23
%, rispetto al 9 % del mese di agosto. Come detto, comunque, ciò non arrestò
l’invio di convogli, contrariamente a quanto affermato da Ciano, fino
all’arrivo della Forza K il 21 ottobre]. Stanotte
si è voluto nuovamente tentare: la Libia abbisogna di materiali, di armi, di
carburanti ogni giorno di più. E il convoglio di sette piroscafi è partito,
scortato da ben 10 cacciatorpediniere e due incrociatori da 10.000, perché si
sapeva che Malta ospitava da qualche tempo due navi di superficie inglesi
destinate a far da lupo nel gregge. Lo scontro è avvenuto, con risultati
inesplicabili. Tutti, dico tutti i piroscafi affondati, uno, forse due o tre
caccia perduti. Gli inglesi sono rientrati dopo aver fatto strage.
Naturalmente, oggi, i nostri vari Stati Maggiori tirano fuori il solito
immancabile e immaginario affondamento di un incrociatore inglese a mezzo di
aerosiluro; nessuno ci crede. Mussolini stamani era depresso e indignato. La
cosa avrà indubbiamente ripercussioni profonde in Italia, in Germania e
soprattutto in Libia. In queste condizioni non abbiamo proprio alcun diritto di
lamentarci se Hitler manda Kesselring a fare il Comandante del Sud. 10 Novembre. Le fotografie della
ricognizione aerea danno le quattro navi inglesi ormeggiate nel porto di Malta.
Ciò nonostante nel bollettino si è annunciato che uno degli incrociatori è
stato colpito. Pricolo lo sostiene e porta come argomento il fatto che questa
nave e andata ad ormeggiarsi vicino al bacino di ormeggio. Il che corrisponde a
dichiarare che un uomo è probabilmente un po’ morto perché è andato ad abitare
vicino al cimitero. Buffoni. Tragici buffoni che hanno condotto il paese
alla necessità odierna di accettare, anzi d’invocare l’intervento straniero per
averne protezione e difesa. Ormai, fino a quando non saranno venuti i tedeschi,
l’aviazione inglese dominerà i nostri cieli al pari dei propri. Ho domandato a
Cavallero che cosa sarà fatto all’ammiraglio responsabile. Intanto, fino a ier
sera Cavallero ne ignorava persino il nome. Gli ho ricordato che l’Italia
democratica di Ricasoli ebbe il coraggio di mettere sotto processo Persano
quando dopo Lissa telegrafò di essere rimasto padrone delle acque. L’ho detto
anche a Mussolini, che continua ad essere depresso e che giudica - a ragione -
la giornata di ieri quale la più umiliante dal principio della guerra. “Sono
ormai 18 mesi che attendo una buona notizia, che non giunge mai. Sarei fiero di
mandare anche io un telegramma come quello che Churchill ha mandato al suo
Ammiraglio, ma invano da troppo tempo ne ricerco l’occasione.” (…) 13 novembre. Alla Marina sono
scandalizzati di quanto è accaduto in Mediterraneo, ma con un Comando come
l’attuale è impossibile attendersi meglio. Bigliardi mi ha descritto le fasi
dell’incontro. Tutto sarebbe inspiegabile se non si sapesse che l’Ammiraglio
Brivonesi era stato giudicato, da Cavagnari, inidoneo al Comando».
La condotta
dell’ammiraglio Brivonesi e del capitano di vascello Bisciani, ritenuta tardiva
e poco decisa, venne duramente criticata dagli alti Comandi della Marina;
entrambi vennero rimossi dal comando, e Brivonesi fu anche deferito alla corte
marziale. Tanto l’ammiraglio Wladimiro Pini, comandante del Dipartimento
Militare Marittimo del Basso Tirreno, quando il capo di Stato Maggiore della
Marina, ammiraglio Arturo Riccardi, ed il comandante della Squadra Navale,
ammiraglio Angelo Iachino, furono molto critici verso il comportamento dei
cacciatorpediniere della scorta diretta. Contemporaneamente, i rappresentanti
della Marina tedesca in Italia (e specialmente il contrammiraglio Werner
Löwisch, addetto navale tedesco a Roma), stigmatizzarono le gravi deficienze
della Marina italiana nel combattimento notturno – dall’inadeguatezza
dell’addestramento all’arretratezza del materiale e degli strumenti ottici a
disposizione per il tiro di notte – che avevano facilitato questo successo
britannico, e che ponevano le navi italiane in così gravi condizioni di inferiorità
rispetto a quelle britanniche ogni volta che calava il buio.
La distruzione del
convoglio “Duisburg” creò un’atmosfera di nervosismo ed insicurezza presso
Supermarina, e determinò una nuova interruzione del traffico convogliato verso
Tripoli: per una decina di giorni vennero inviati in quel porto solo convogli
veloci di unità militari in missione di trasporto e qualche convoglietto di
piroscafi di modesto tonnellaggio (attorno alle 1000 tsl), mentre venne di
converso intensificato l’invio di convogli a Bengasi, porto più vicino alla
prima linea anche se in grado di ricevere meno navi, ma soprattutto
raggiungibile seguendo una rotta – partenza da Taranto o Brindisi ed eventuale
scalo intermedio a Navarino – meno esposta ad eventuali attacchi navali provenienti
da Malta.
Questi provvedimenti
però ebbero comunque l’effetto di determinare una riduzione della quantità
complessiva di rifornimenti giunti in Libia: tra perdite in mare e mancati
invii, proprio il 9 novembre Rommel scriveva al Comando Supremo della Wehrmacht
che a fine ottobre erano giunte a Bengasi solo 8093 tonnellate di rifornimenti
su 60.000 previste (dato che per la verità sembra esagerato, se si considera
che nel mese di ottobre le perdite di materiale sulle rotte della Libia furono
del 23 %, dunque il 77 % dei rifornimenti partiti era pur giunto in Libia; ma
forse l’aumento delle perdite provocò una riduzione nel flusso dei convogli e quindi
parte dei materiali non partì neanche), che un terzo dell’artiglieria e vari
reparti comunicazioni da impiegare nel previsto attacco contro Tobruk non
sarebbero arrivati prima del 20 novembre, e che su tre divisioni italiane
chieste per l’offensiva di novembre ne era arrivata soltanto una, per giunta a
ranghi incompleti. Il mese di novembre 1941 fu in effetti il più nero della
“battaglia dei convogli”: le perdite tra i carichi inviati in Libia sfiorarono
il 70 %, percentuale mai lontanamente raggiunta prima e mai più raggiunta in
seguito (in generale, anche nei mesi peggiori di fine 1942 e inizio 1943 le perdite
rimasero sempre molto al disotto del 50 %: in ventuno dei trentuno mesi della
battaglia dei convogli per la Libia, le perdite di rifornimenti in mare
rimasero al di sotto del 20 %); e per il rifornimento più importante, il
carburante, questa percentuale raggiungeva un impressionante 92 %. Pesava
molto, in questo dato, anche la perdita della Minatitlan con le sue novemila tonnellate di carburante. Il 13
novembre Rommel volò a Roma a discutere la situazione con il maresciallo
Cavallero; quest’ultimo reiterò le richieste italiane di un invio di
bombardieri della Luftwaffe per riprendere il martellamento aereo di Malta.
Il comandante della
Forza K, capitano di vascello Agnew, per parte sua descrisse così le
motivazioni del suo successo contro il convoglio “Duisburg”: «a) accuratissimo messaggio del Maryland nel
pomeriggio dell’8 novembre in seguito al quale la Forza K salpò da Malta alle
17.30; b) eccezionale fortuna della divisione navale britannica
nell’intercettare subito il suo obiettivo; c) addestramento specifico della
stessa Forza K alla ricerca e alla distruzione dei convogli nemici in ore
notturne; d) grossolana negligenza da parte della Marina italiana». Per
questa vittoria, Agnew venne insignito dell’Ordine del Bagno.
Il primo tentativo di
inviare a Tripoli un altro convoglio di mercantili di medio-grandi dimensioni
dopo il disastro del “Duisburg”, il 21 novembre 1941, fallì a causa degli
attacchi aerei e subacquei britannici, che provocarono il danneggiamento di due
incrociatori ed il rientro in porto dei mercantili; fu necessario proseguire
con espedienti di emergenza (missioni di trasporto da parte di navi da guerra,
invio di mercantili veloci isolati che avevano più probabilità di sfuggire
all’avvistamento, incremento del traffico con Bengasi) fino a metà dicembre,
quando una serie di eventi concomitanti determinarono un forte indebolimento
delle forze aeronavali britanniche nel Mediterraneo, dando così inizio ad un
periodo di rinnovata “tranquillità” per i convogli italiani.
La Forza K sarebbe rimasta
una spina nel fianco delle linee di rifornimento via mare dell’Asse fino al 18
dicembre 1941, quando, in caccia di convogli al largo di Tripoli, andò a finire
su un campo minato posato in quelle acque da unità italiane proprio per una
simile evenienza.
Il Governo italiano
(in nome e per conto di varie imprese italiane, tra cui la società Ansaldo) e
la Petróleos Mexicanos regolarono le questioni tra loro pendenti, relative alla
confisca “incrociata” delle petroliere avvenuta nell’aprile 1941, con un
accordo stipulato a Città del Messico il 10 luglio 1952 tra l’ambasciatore
d’Italia in Messico, dottor Luigi Petrucci, ed il senatore Antonio J. Bermudez,
direttore generale della Pemex. Il punto b) della clausola prima dell’accordo
recitava: «Il Governo italiano riconosce
di dovere a Petroleos Mexicanos la somma di Doll. 8.990.013,00 a titolo di
indennità per i danni subiti da tale istituzione, a conseguenza della perdita
delle navi cisterna "Panuco" e "Minatitlan" costruite
dall'Ansaldo S. A.; e a qualsiasi altro titolo relativo al contratto di
costruzione delle navi cisterna "Poza Rica", "Panuco"
e "Minatitlan"; o per fatti posteriori relativi a tali navi; in modo
che la somma menzionata rappresenti una liquidazione definitiva tra Petroleos
Mexicanos e Ansaldo S. A., per tutto cio' che concerne le tre navi cisterna menzionate».
mio secondo zio (fratello di mio nonno)era uno dei sei superstiti della Minatitlan....ricordi vividi nella sua memoria fino agli ultimi giorni di vita, avvenuta nel 1992....
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