Il San Giovanni Battista quando si chiamava Ingoma (da www.benjidog.co.uk) |
Piroscafo da carico
di 5628 tsl e 3523 tsn, lungo 122,07 metri, largo 15,88 e pescante 7,8, con
velocità di 12 nodi (originariamente 14 nodi). Appartenente alla Compagnia
Ligure di Navigazione (avente sede a Genova) ed iscritto con matricola 2182 al
Compartimento Marittimo di Genova.
Breve e parziale cronologia.
22 aprile 1913
Varato nei cantieri David
& William Henderson & Co. Ltd. di Meadowside, Partick (Glasgow) come
piroscafo misto Ingoma (numero di
costruzione 483).
3 luglio 1913
L’Ingoma compie le prove in mare nel Firth
of Clyde. Durante il collaudo, il piroscafo riesce a mantenere senza difficoltà
una velocità media di circa 15 nodi, e sia i costruttori che gli armatori si
ritengono pienamente soddisfatti dei risultati. In serata, l’Ingoma imbarca a Gourock un folto gruppo
di ospiti degli armatori, che porta in crociera nelle acque attorno a
Middlesborough. Anche durante questa breve crociera, il “comportamento” della
nave risulta pienamente soddisfacente.
Luglio 1913
Completato come Ingoma per la Harrison-Rennie Line/Charente
Steamship Company Ltd. (Thomas & James Harrison) di Liverpool, come nave
mista a un’elica per trasporto di merci e passeggeri. Come nave passeggeri, può
trasportare 114 o 120 passeggeri, tutti in sistemazioni di prima classe (comprese
alcune cabine specificamente progettate per famiglie), e dispone di un grande
salone da pranzo ed ampi spazi di passeggiata, nonché una radio, un buon numero
di scialuppe e tutte le più moderne dotazioni di sicurezza; lo scafo è diviso
da otto paratie stagne che arrivano fino al ponte superiore (è ancora viva, nel
pubblico, la memoria della tragedia del Titanic,
avvenuta un anno prima). Come nave da carico, dispone di spazio isolato nelle
stive per il trasporto di merci deperibili.
Registrato a
Liverpool dal 28 giugno 1913, nominativo di chiamata JCNL (dal 1920 GMQY),
stazza lorda e netta 5686 tsl e 3566 tsn, portata lorda 6850 o 6910 tpl.
È una delle poche
navi della Harrison Line a discostarsi dalla tradizione della compagnia di
battezzare le proprie navi con nomi di "mestieri"/"professioni"/"figure"
(es. Author, Actor, Architect, Centurion, Diplomat, Dictator, Explorer, Gladiator, Matador, Professor, Senator, Tactician, Warrior, etc.). L’“ingoma” è un tamburo
tradizionale, rivestito in pelle animale, utilizzato per danze tribali
africane.
Si tratta infatti di un
nome ereditato dalla Rennie Line di Aberdeen, acquistata dalla Harrison Line
nel 1911, che battezzava le sue navi con nomi inizianti per "In" e/o
tratti dalla lingua Zulu. Dopo aver rilevato la Rennie Line e la sua flotta di
sette navi, la Harrison Line ne mantiene in vita il nome per un decennio
creando la Harrison-Rennie Line, con cui esercita i collegamenti di linea dal
Regno Unito al Sudafrica. Le navi costruite per la “nuova” compagnia ricevono
anch’esse nomi che iniziano per "In": l’Ingoma è appunto la seconda ad essere costruita per la
Harrison-Rennie Line, nonché l’unica nave passeggeri ad essere ordinata per
tale compagnia. Come tale, viene dipinta inizialmente nei colori della Rennie
Line, scafo grigio e fumaiolo marrone chiaro, anziché in quelli della Harrison
Line (scafo nero, fumaiolo nero con una banda bianca grande attraversata da una
banda rossa più sottile).
L’Ingoma in una cartolina della Harrison Line (da www.clydeships.co.uk) |
Agosto 1913
L’Ingoma compie il suo viaggio inaugurale
da Middlesborough a Capetown e Natal. Nei primi anni di servizio, il piroscafo
navigherà sulla rotta Londra-Sudafrica.
1914-1915
In servizio sulla
linea Inghilterra (Londra)-Tenerife-Sudafrica (Durban, Capetown, Port Elizabeth,
East London)-Mozambico (Chinde, Beira, Delagoa Bay). È comandante dell’Ingoma il capitano P. F. W. Blake.
13 marzo 1914
Si verifica a bordo
dell’Ingoma, in arrivo a Delagoa Bay,
un caso di febbre enterica; il malato viene sbarcato ed ospedalizzato
all’arrivo in porto.
5 agosto 1914
All’indomani della
dichiarazione di guerra del Regno Unito alla Germania, l’Ingoma imbarca a Capetown le truppe ed i quadrupedi del 10th
Royal Hussars Regiment (tenente colonnello R. W. R. Barnes), del quale è stato
disposto l’immediato rientro nel Regno Unito.
19 settembre 1914
Dopo un viaggio di
sei settimane, l’Ingoma arriva a
Southampton, dove sbarca il 10th Royal Hussars.
1° ottobre 1914
Poche settimane dopo
lo scoppio della prima guerra mondiale, l’Ingoma
lascia La Valletta (Malta) diretto in India, navigando senza scorta.
9 ottobre 1914
L’Ingoma salpa da Southampton in convoglio
con i piroscafi Assaye, Alnwick Castle, Braemar Castle, Cawdor Castle, Dunluce Castle, Kenilworth
Castle, Kelvingrove, Ultonia, Thongwa, Nevasa e Galeka, scortati
dall’incrociatore corazzato francese Dupleix.
Nove delle dodici navi (tutte tranne l’Ingoma,
il Thongwa ed il Kelvingrove) trasportano truppe territoriali dirette in India:
dinanzi alla gravità della situazione in Francia, infatti, i comandi britannici
hanno deciso di rimpatriare tutti i reparti dell’Esercito regolare (Regular
Army) di stanza in India per avviarli al fronte occidentale, sostituendoli
oltremare con battaglioni territoriali di minor valore. Il convoglio di cui fa
parte l’Ingoma è il primo dei
convogli che trasportano in India quese truppe territoriali.
9 novembre 1914
Il convoglio arriva a
Bombay dopo un mese di navigazione. Durante il viaggio le navi non sono
riuscite a mantenere una velocità superiore ai 10 nodi, il che vanifica i piani
dell’Ammiragliato britannico per un sistema di convogli di truppe territoriali
che partano ad intervalli di 16 giorni, in modo da consentire alle unità
assegnate alla scorta dei convogli che trasportano da Bombay ad Aden truppe
indiane (inviate in Medio Oriente ed anche in Francia) rifornirsi e ripartire
subito scortando, da Aden a Bombay, dei convogli con truppe territoriali in
arrivo dal Regno Unito, per poi ripartire per Aden scortando un altro convoglio
con truppe indiane subito dopo l’arrivo a Bombay del convoglio “territoriale”.
Per poter mantenere il previsto intervallo di 16 nodi, è necessario che il
convoglio con truppe territoriali mantenga una velocità di 12,5 nodi tra Aden e
Bombay: i 10 nodi del primo convoglio di questo tipo non sono sufficienti, e
mostrano l’irrealizzabilità del progetto. Proprio il 9 novembre, tuttavia,
l’incrociatore tedesco Emden – che
opera nell’Oceano Indiano come “nave cOrsara”
– viene intercettato e distrutto dall’incrociatore australiano Sydney, eliminando la principale minaccia
al traffico mercantile in Oceano Indiano.
19 novembre 1914
L’Ingoma lascia Bombay insieme ad altri 25
piroscafi (Assaye, Alnwick Castle, Bankura, Braemar Castle, City of Birmingham, City of
Exeter, City of Lahore, City of Poona, Craftsman, Dunluce Castle,
Euryalus, Gloucester Castle, Havildar, Huntsman, Kelvingrove, Kenilworth Castle, Malda, Manora, Rajah, Ranee, Risaldar, Sumatra, Tactician, Ultonia e Urlana), scortati ancora dal Dupleix, formando il gruppo "Q"
del settimo convoglio in partenza dall’India con truppe indiane per il Medio
Oriente. Si tratta di uno degli ultimi convogli organizzati in Oceano Indiano,
nonché di uno dei più grandi. In mare aperto, il gruppo "Q" si unisce
ad un altro gruppo, l’"R", formato da sette piroscafi (Arankola, Baroda, Barpeta, Cocanada, Devanha, Galeha e Nevasa) partiti da Karachi il 20
novembre con la scorta dell’incrociatore ausiliario HMS Dufferin. Dopo la riunione, il convoglio prosegue con la scorta del
solo Dupleix, mentre il Dufferin ritorna a Bombay. Ad Aden il Dupleix viene sostituito
dall’incrociatore ausiliario Northbrook.
(foto tratta dalla Harrison Line Newsletter N. 40 del settembre 1983) |
2 dicembre 1914
Il convoglio arriva a
Suez.
Gennaio 1915
In servizio postale
da Londra per la Rhodesia, Katanga, Nyassaland, Africa Orientale Portoghese.
(Da un documento del 1915, l’Ingoma
risulterebbe appartenente alla Charente Steamship Company Limited ma in
gestione a Godfrey H. Cole di Liverpool).
1915
Requisito ed
impiegato fino al 1917 come trasporto truppe HMT (His Majesty’s Troopship) Ingoma.
Settembre 1915
L’Ingoma compie un viaggio di linea con
passeggeri da Londra a Beira (Rhodesia), Capetown, Durban e Delagoa Bay
(Mozambico).
30 gennaio 1916
L’Ingoma, in navigazione nel Mediterraneo,
viene attaccato a cannonate da un U-Boot tedesco, ma riesce a respingerlo con
il tiro delle sue artiglierie difensive.
4 marzo 1916
Trasporta truppe in
Egitto.
18-25 marzo 1916
L’Ingoma trasporta da Alessandria d’Egitto
(da dove parte alle 15 del 19) a Marsiglia il 20° Battaglione Fanteria
Australiano (5a Brigata Australiana, 2a Divisione Australiana,
parte del 1st ANZAC Corps), diretto al fronte occidentale. Il
viaggio viene compiuto viaggiando singolarmente, con la scorta di
cacciatorpediniere o sloop per parte del viaggio; l’Ingoma è armato con un cannone sulla poppa, per difendersi da
eventuali attacchi di sommergibili. Nelle ore diurne, i soldati vengono
disposti di guardia sui ponti superiori, con indosso giubbotti salvagente, per
avvistare e segnalare tempestivamente qualsiasi traccia di periscopi. Di notte,
i giubbotti salvagente servono da cuscini; tutte le luci esterne della nave
vengono spente. Durante il viaggio i soldati australiani vengono vaccinati
contro la tubercolosi, sottoposti ad un esame per verificare che non abbiano
malattie veneree, e sottoposti a disinfestazione dei vestiti per evitare la
diffusione del tifo (si teme soprattutto che possano portare sul fronte
occidentale malattie ivi assenti, contratte durante il periodo trascorso in
Medio Oriente).
Nei primi due giorni
il mare è piuttosto mosso, facendo rollare parecchio l’Ingoma e provocando mal di mare generalizzato tra le truppe, mentre
nei giorni successivi il tempo migliora, e la nave procede ad una velocità
media di 12 nodi. Il 23 marzo l’Ingoma
passa al largo di Pantelleria e riceve una segnalazione di avvistamento di un
U-Boot da parte del piroscafo passeggeri britannico Minneapolis, seguito dall’SOS della stessa nave, che si trova sotto
attacco: colpito dall’U 35, infatti,
il Minneapolis (in navigazione da
Marsiglia ad Alessandria) affonda a 195 miglia da Malta, nello stesso punto in
cui l’Ingoma era passato il mattino
precedente. Più tardi, l’Ingoma
riceve un altro messaggio radio che segnala l’avvistamento di un sommergibile
al largo della Valletta. Alle 16.30 del 23 viene avvistato Capo Bon. Il 24
marzo viene avvistata la Sardegna.
La nave giunge a
Marsiglia alle 11 del 25 marzo, e dopo poche ore gli uomini del battaglione,
accolti entusiasticamente dalla popolazione locale, vengono avviati alla
stazione e caricati sui treni che li porteranno al fronte.
6 aprile 1916
L’Ingoma parte da Ismailia trasportando la
1a Compagnia del Canterbury Infantry Battalion, diretta in Francia;
fa poi scalo a Port Said, dove imbarca la 1a Compagnia del New
Zealand Machine Gun Corps. Le mitragliatrici di quest’ultimo reparto, durante
la traversata, vanno a rinforzare temporaneamente l’armamento difensivo dell’Ingoma, da impiegarsi per respingere eventuali
attacchi di U-Boot: le diverse armi vengono disposte in posizioni attentamente
selezionate in vari punti della nave, e sono continuamente presidiate, così
che, in caso di avvistamento di sommergibile, quante più mitragliere possibile
possano immediatamente aprire il fuoco su di esso. Comunque, il temuto incontro
con un U-Boot non si verifica, nonostante le voci che circolano a bordo sulla
presenza di sommergibili tedeschi nelle vicinanze, e l’unico inconveniente
della traversata consiste nel tempo pessimo incontrato nel Golfo del Leone, che
rende molto scomodo e faticoso il compito dei mitraglieri di guardia in
funzione antisommergibili.
10 (?) aprile 1916
Arriva a Marsiglia e
sbarca le truppe.
Aprile 1916
L’Ingoma trasporta da Port Said a
Marsiglia 452 tra ufficiali e soldati del 1° Battaglione del Wellington
Regiment, facente parte della Divisione Neozelandese, diretti in Francia per
combattere sul fronte occidentale.
1° luglio 1916
L’Ingoma imbarca a Suez il battaglione di
fanteria indiana denominato 57th Wilde’s Rifles, in corso di
trasferimento in Africa Orientale per combattere contro le forze tedesche, dopo
di che parte in serata. A bordo ha 11 ufficiali britannici (tra cui il tenente
colonnello T. J. Williams, comandante del battaglione, ed i quattro comandanti
di compagnia), 21 ufficiali indiani, 843 tra sottufficiali e soldati indiani e
40 portatori.
3 luglio 1916
L’Ingoma arriva ad Aden alle 11, dopo una
traversata del Mar Rosso tormentata dal caldo ma senza molti casi di malattia;
nell’avvicinarsi ad Aden il comandante del piroscafo, che non conosce la zona,
imbocca per errore l’insenatura sbagliata, creando a bordo “un certo allarme ed
abbattimento”, ma se ne rende conto ben presto e riesce a raggiungere Aden
nonostante la nebbia. Alle 18 l’Ingoma
riparte per Mombasa.
12 luglio 1916
Dopo aver doppiato
Capo Guardafui in condizioni di tempo pessimo, l’Ingoma raggiunge Mombasa, ancorandosi nel porto di Killindini. Il
giorno stesso vengono sbarcate la 1a e 3a Compagnia,
mentre la 2a e 4a Compagnia ed il comando di battaglione
sbarcheranno l’indomani.
L’Ingoma, carico di truppe, al largo dell’Africa Orientale durante la prima guerra mondiale (Bristol Archives) |
24 settembre 1916
Arriva a Zanzibar.
30 settembre 1916
Parte da
Dar-es-Salaam.
4-7 ottobre 1916
L’Ingoma trasporta da Dar-es-Salaam a
Kilwa Kisiwani (Tanzania), dove arriva il 6, il 1° Battaglione del 2°
Reggimento King’s African Rifles, impegnato nella campagna dell’Africa
Orientale contro le forze tedesche.
9 ottobre 1916
Lascia Kilwa Kisiwani.
15 ottobre 1916
Arriva a
Dar-es-Salaam.
21 ottobre 1916
Parte da
Dar-es-Salaam.
6 novembre 1916
Arriva a
Dar-es-Salaam.
10 novembre 1916
Riparte da
Dar-es-Salaam.
15 novembre 1916
Arriva a
Dar-es-Salaam.
17-19 novembre 1916
L’Ingoma trasporta da Dar-es-Salaam a
Kilwa Kisiwani gli uomini del Gold Coast Regiment, sempre nell’ambito della
campagna dell’Africa Orientale. Il viaggio è breve, ma la nave è sovraccarica
fino all’orlo di truppe del Gold Coast Regiment, dai loro portatori e dai
complementi destinati ad altri reparti.
21 novembre 1916
Lascia Kilwa
Kisiwani.
28 novembre 1916
Arriva a Kilwa
Kisiwani e vi sbarca truppe.
5 dicembre 1916
Riparte da Kilwa
Kisiwani.
26 febbraio 1917
L’Ingoma imbarca a Capetown le truppe del
25th Field Garrison Battalion, Middlesex Regiment (colonnello John
Ward), dirette in Estremo Oriente e reduci dal quasi affondamento del piroscafo
Tyndareus, sul quale erano
originariamente imbarcate, il quale dieci giorni prima ha urtato una mina al
largo della costa sudafricana ed ha a stento raggiunto il porto. Alle 18 la
nave, affollata di truppe, lascia Capetown.
2 marzo 1917
L’Ingoma arriva a Durban alle 7,
sbarcandovi le truppe del Middlesex Regiment, che effettuano una parata e si
trattengono in città per due giorni.
4 marzo 1917
Alle 7 l’Ingoma lascia Durban diretto a
Singapore. Per parecchi giorni il mare è piatto come una tavola.
12 marzo 1917
Attraversamento
dell’Equatore.
Un giorno, in seguito
all’avvistamento di fumo all’orizzonte lungo la propria rotta, l’Ingoma devia dalla rotta e si allontana
a tutta forza: si teme un incontro con “navi cOrsare” tedesche come l’incrociatore Emden, che anni prima aveva infestato quelle acque seminando lo
scompiglio tra il naviglio mercantile che vi transitava. Gira voce che ce ne
sia in giro un altro. Lasciatosi alle spalle il fumo misterioso, comunque, l’Ingoma ritorna ben presto sulla rotta
normale.
17 marzo 1917
Viene sepolto in mare
un soldato della compagnia "C" del Middlesex Regiment, H. Quickenden,
deceduto a bordo per malattia due giorni prima.
22 marzo 1917
Giunto nello stretto
di Malacca (dove viene investito in pieno da un tifone, rollando e
beccheggiando violentemente fino ad averlo superato), l’Ingoma viene investito da un monsone e fermato dal
cacciatorpediniere HMS Fame, in servizio
di pattugliamento.
24 marzo 1917
Arriva a Singapore e
sbarca le compagnie "A" e "D" del Middlesex Regiment, dopo
di che prosegue per Hong Kong.
31 marzo 1917
Arriva ad Hong Kong
alle 19, sbarcando le compagnie "B" e "C" del Middlesex
Regiment. Riparte poi il 7 aprile, a mezzogiorno, per il viaggio di ritorno.
“The Mag”, la rivista
del Middlesex Regiment, pubblica in questo periodo più di qualche filastrocca
ironica relativa al viaggio sull’Ingoma,
nave paragonata, per il suo affollamento, promiscuità ed igiene non proprio
ottimale (non pochi versi sono dedicati alle variegate specie di insetti e
altri invertebrati che prosperano a bordo, dagli alloggi destinati alla truppa
fino alle pietanze, che ne sono invariabilmente “arricchite”), ad uno “zoo galleggiante”
ed anche all’arca di Noè, che non sarebbe stata altro che una mal riuscita
imitazione del “vecchio Ingoma”.
Aprile 1917
L’Ingoma lascia l’Estremo Oriente
trasportando il 4° Battalion, Shropshire Light Infantry, di ritorno in
Inghilterra.
23 maggio 1917
Arriva a Durban in
convoglio con i piroscafi Helenus ed Agapenor, scortati dall’incrociatore
ausiliario Princess (che ha rilevato
nella scorta, il 16 maggio, l’incrociatore leggero Gloucester).
31 maggio 1917
Consegna un
prigioniero sotto scorta a Capetown.
10 giugno 1917
L’Ingoma parte da Durban con truppe
dirette in Africa Orientale, tra cui personale della 1st Hull Heavy
Battery, Royal Garrison Artillery. Nei giorni seguenti la nave, sovraccarica di
truppe, naviga in condizioni di mare molto mosso.
16 giugno 1917
Arriva a
Dar-es-Salaam, nel cui porto entra il giorno seguente, sbarcandovi parte delle
truppe.
21 giugno 1917
Arriva a Kilwa
Kisiwani.
22 giugno 1917
L’Ingoma lascia Kilwa Kisiwani e raggiunge
Dar-es-Salaam, dove imbarca l’ex sultano di Zanzibar Khalid bin Barghash
Al-Busaid, catturato quattro mesi prima dalle truppe britanniche nel delta del
Rufuji. L’ex sultano è un vecchio nemico dei britannici: il suo dominio su
Zanzibar, iniziato il 25 agosto 1896 dopo l’improvvisa morte del cugino (forse
avvelenato proprio da lui), era durato appena due giorni, in quanto i
britannici, rifiutando di riconoscere la sua posizione (la sua persona non era
gradita al Regno Unito, che in base ad un trattato del 1866 aveva diritto di
veto sulla nomina del sultano di Zanzibar e che preferiva a lui il cugino Hamud
bin Muhammed, più favorevole agli interessi britannici), gli avevano inviato un
ultimatum intimandogli di lasciare il palazzo reale e di ritirare le proprie
truppe. Al suo rifiuto, la squadra navale britannica presente nel porto aveva
cannoneggiato il palazzo reale ed inviato contro di lui un migliaio di uomini,
costringendolo alla fuga: un conflitto (“guerra anglo-zanzibariana”) durato
appena una quarantina di minuti, e considerato come la guerra più breve della
storia.
Dopo la sua
sconfitta, Khalid bin Barghash Al-Busaid si era rifugiato nel locale consolato
tedesco ed era poi riuscito a fuggire in Africa Orientale Tedesca, dove aveva
ottenuto asilo politico fino al 1916; invasa l’Africa Orientale Tedesca dalle
truppe britanniche durante la prima guerra mondiale, era stato costretto alla
fuga sino alla sua cattura, avvenuta in Tanzania nel febbraio 1917. Per lui, i
britannici hanno deciso l’esilio a Sant’Elena, la stessa isola in cui Napoleone
aveva trascorso i suoi ultimi anni: l’Ingoma
lo porta però soltanto fino a Durban, dove l’ex sultano ed il suo seguito
vengono trasbordati sul piroscafo Berwick
Castle, che li porterà fino alla loro destinazione finale.
13 luglio 1917
Arriva a Zanzibar e
riparte il giorno stesso.
15 luglio 1917
Parte da Kilwa Kisiwani.
Parte da Kilwa Kisiwani.
L’Ingoma a Durban nel luglio del 1917 (National Library of Scotland) |
27 luglio 1917
Dopo un lungo
viaggio, con scali intermedi a Colombo, Capetown e Freetown, l’Ingoma arriva a Plymouth con le truppe
del Shropshire Light Infantry.
Lo stesso giorno, l’Ingoma riparte alla volta di Durban,
dove imbarcherà altre truppe britanniche (compreso personale del Royal Army
Medical Corps e del 10th South African Horse), da trasportare a
Dar-es-Salaam.
28 agosto 1917
Arriva a
Dar-es-Salaam.
2 settembre 1917
L’Ingoma imbarca a Kilwa Kisiwani le
truppe del 57th Wilde’s Rifles (ora ridotto a 10 ufficiali
britannici, 9 ufficiali indiani e 206 sottufficiali e soldati indiani), lo
stesso reparto che oltre un anno prima aveva trasportato dall’Egitto all’Africa
Orientale.
3 settembre 1917
L’Ingoma arriva a Dar-es-Salaam alle 7,
sbarcandovi gli uomini del 57th Wilde’s Rifles.
4 settembre 1917
Lascia Dar-es-Salaam.
21 settembre 1917
Imbarca a Durban parte
del "Fourth Reinforcement Draft" del 25th Battalion Royal
Fusiliers.
28 settembre 1917
Sbarca le truppe a
Dar-es-Salaam.
1° ottobre 1917
Arriva a Kilwa
Kisiwani.
2 ottobre 1917
Riparte da Kilwa
Kisiwani.
24 ottobre 1917
Arriva a Kilwa
Kisiwani.
25 ottobre 1917
Riparte da Kilwa Kisiwani.
Riparte da Kilwa Kisiwani.
29 ottobre 1917
Arriva a Kilwa
Kisiwani.
15 novembre 1917
Alle 17 l’Ingoma parte da Durban con a bordo
truppe, compreso personale del 3/4th King's African Rifles da
trasportare a Mombasa.
16 novembre 1917
Seguendo la costa,
con forte vento e scrosci, passa al largo di Delagoa Bay. Nei giorni seguenti
continua a seguire la costa africana.
19 novembre 1917
Arriva a Beira
(Mozambico), dove si trattiene per quattro giorni.
22 novembre 1917
Imbarca in mattinata,
a Beira 400, ascari al servizio dell’esecito tedesco, catturati dai britannici
nel Nyasaland, e 300 soldati dei King’s African Rifles.
23 novembre 1917
Riparte da Beira.
28 novembre 1917
Arriva a Kilindini,
porto di Mombasa, all’una del pomeriggio.
29 novembre 1917
Sbarca parte delle
truppe dei King’s African Rifles, poi prosegue per Dar-es-Salaam, dove deve portare
gli ascari prigionieri.
12 dicembre 1917
L’Ingoma salpa da Dar-es-Salaam
trasportando le truppe del 25th Royal Fusiliers, dell’8th
South African Infantry e della 259th Machine Gun Company, di ritorno
in Sudafrica dopo una campagna in Africa Orientale.
19 dicembre 1917
Arriva a Durban e
sbarca le truppe.
31 dicembre 1917
L’Ingoma arriva a Kilwa Kisiwani con il
nuovo equipaggio destinato a dare il cambio a quello del monitore britannico
Mersey.
1° gennaio 1918
Parte da Kilwa
Kisiwani.
5 gennaio 1918
Arriva a Zanzibar.
9 gennaio 1918
Arriva a Kilwa
Kisiwani.
12 gennaio 1918
Imbarca a Kilwa
Kisiwani 5 ufficiali e 306 tra sottufficiali e marinai dell’incrociatore
protetto HMS Challenger, sul quale si
sta compiendo un avvicendamento dell’equipaggio.
14 gennaio 1918
Lascia Kilwa Kisiwani
con gli uomini del Challenger.
12 marzo 1918
Arriva ad Ekapapa
(Tanzania).
13 marzo 1918
Riparte da Ekapapa.
Riparte da Ekapapa.
14 marzo 1918
Arriva a Port Amelia.
15 marzo 1918
Lascia Port Amelia.
28 marzo 1918
Arriva a Lindi.
29 marzo 1918
Riparte da Lindi.
7 aprile 1918
Arriva a Zanzibar e
riparte in giornata.
9 aprile 1918
Arriva a Lindi e
riparte in giornata.
Aprile 1918
Trasporta diverse
centinaia di soldati da Durban all’Africa Orientale.
26 aprile 1918
Arriva a Port Amelia
(Mozambico).
27 aprile 1918
Riparte da Port Amelia.
Riparte da Port Amelia.
21 maggio 1918
Arriva a Port Amelia,
per poi ripartire il giorno seguente.
12 agosto 1918
Arriva in Mozambico.
15 agosto 1918
Riparte.
14 settembre 1918
Arriva a Port Amelia.
6 ottobre 1918
Arriva a Port Amelia.
7 ottobre 1918
Lascia Port Amelia.
12 ottobre 1918
Ritorna a Port Amelia
e poi riparte.
20 ottobre 1918
Parte da Zanzibar con
a bordo l’equipaggio della cannoniera HMS Thistle,
appena avvicendato.
29 ottobre 1918
Ritorna a Zanzibar.
30 ottobre 1918
Riparte da Zanzibar.
Riparte da Zanzibar.
16 dicembre 1918
Arriva a
Dar-es-Salaam. Successivamente riparte.
20 dicembre 1918
Arriva a
Dar-es-Salaam.
L’Ingoma in un’immagine forse risalente al tempo di guerra (da www.clydesite.co.uk) |
23 dicembre 1918
Il tenente Geoffrey
Hutton Wilson muore a bordo dell’Ingoma,
al largo di Dar-es-Salaam (diretto in Inghilterra), di malaria cerebrale, e
viene sepolto in mare.
1918-1921
Finita la guerra, l’Ingoma torna in servizio passeggeri regolare
sulla linea Londra-Sudafrica-Mozambico.
14 giugno 1919
Un passeggero dell’Ingoma, dopo la partenza da Durban,
muore a bordo di tubercolosi polmonare e viene sepolto in mare. Ma non è questa
malattia a preoccupare in questo periodo: è l’influenza “spagnola”, che sta
mietendo milioni di vittime in tutto il mondo. Al suo arrivo in Europa, l’Ingoma avrà a bordo ben 260 tra
passeggeri e membri dell’equipaggio infetti dal terribile contagio; dieci
muoiono a bordo durante il viaggio. La nave viene dirottata a Rotterdam per
sbarcare i malati.
26 marzo 1920
Il direttore di
macchina dell’Ingoma, James Michie,
viene fatto comandante della "divisione civile" dell’Ordine
dell’Impero Britannico, in riconoscimento del suo servizio di guerra.
Maggio 1921
La Harrison line
decide di abbandonare il servizio passeggeri verso il Sudafrica e di sopprimere
la Harrison-Rennie Line; l’Ingoma
viene trasferito alla linea passeggeri Londra-Indie Occidentali della Harrison
Line.
5 maggio 1921
Nottetempo, mentre l’Ingoma si trova in navigazione ad un
centinaio di miglia da Falmouth durante un viaggio da Londra alle Indie
Occidentali, scoppia un incendio a bordo. Non essendo possibile domare le
fiamme con i mezzi disponibili a bordo, il comandante dell’Ingoma dirige a tutta forza verso Falmouth, senza informare i
passeggeri – che stanno dormendo – dell’incendio, per evitare di scatenare il
panico; fa però preparare le scialuppe all’ammaino, nel caso si rendesse
necessario abbandonare la nave. Il piroscafo in fiamme raggiunge Falmouth, dove
l’incendio viene spento senza che si abbiano a lamentare feriti tra gli 88
passeggeri e l’equipaggio.
1921-1937
Per oltre quindici
anni, l’Ingoma presta servizio regolare
sulla linea Londra-Indie Occidentali (Barbados-Grenada-Trinidad)-Demerara
(Georgetown), con andata e ritorno in 6 settimane. Occasionalmente fa scalo
anche a St. Vincent, St. Kitts, Nevis, Dominica, Montserrat, St. Lucia, Lonaru
ed Antigua. In ogni viaggio trasporta un centinaio di passeggeri, posta e circa
cinquemila tonnellate di merci; il prezzo del biglietto è di 32-40 sterline per
la sola andata, e 75-80 sterline per l’andata e ritorno, compresi tre giorni a
terra nel Park Hotel di Georgetown. I passeggeri hanno a loro disposizione una
libreria ed una sala musica, e vengono organizzati balli, cacce al tesoro,
giochi di carte, giochi “da ponte” ed altri svaghi.
L’Ingoma si alterna su tale linea con un
altro piroscafo misto, l’Inanda, di
caratteristiche e aspetto molto simili ma di dodici anni più recente (è stato
costruito nel 1925, ricevendo anch’esso un nome derivato in linea con la
tradizione della ormai scomparsa Rennie Line).
Tra un viaggio e
l’altro, il piroscafo trascorre due settimane al West India Dock.
Solitamente, l’Ingoma parte da Londra e scende subito
verso sud, fin “sotto” Santa Maria nelle Azzorre, per raggiungere acque più
tranquille e tempo migliore, onde evitare troppo mal di mare ai passeggeri. Poi
si fa rotta per Antigua, dove vengono sbarcati i primi passeggeri e merci
destinate in quelle isole, e poi si prosegue per Barbados, St. Vincent,
Grenada, Trinidad ed infine Demerara, nella Guyana britannica. Durante gli
scali nelle isole caraibiche, prive di vere e proprie strutture portuali,
partecipano allo scaricamento della nave all’ancora sia i membri
dell’equipaggio sia lavoratori locali, reclutati da appaltatori del posto: si
lavora senza sosta giorno e notte. Solo nell’ultima tappa del viaggio, sul
fiume Demerara, esistono delle banchine.
L’Ingoma negli anni Venti (Coll. Mauro Millefiorini via www.naviearmatori.net) |
9 settembre 1923
L’Ingoma lascia Southampton trasportano la
squadra di cricket delle Indie Occidentali, che ritorna dopo aver partecipato all’annuale
campionato di cricket in Inghilterra.
21 settembre 1923
Arriva a Barbados, dove
sbarca i giocatori di cricket.
Maggio 1924
Compie un viaggio da
Calcutta a Londra, con scali intermedi a Demerara, Barbados e Trinidad.
Dicembre 1924
Altro viaggio da
Calcutta a Londra, con scali intermedi a Demerara, Grenada e Trinidad.
Aprile 1925
Viaggio da Calcutta a
Londra, con scali intermedi a Demerara, Barbados, Grenada e Trinidad.
Novembre 1925
Altro viaggio da
Calcutta a Londra, con scali intermedi a Demerara, Grenada e Trinidad.
23 febbraio 1926
L’Ingoma parte da Demerara trasportando la
squadra di calcio della Guiana britannica, diretta oltremare per un campionato.
Settembre 1926
Viaggio da Calcutta a
Londra, con scali intermedi a Demerara, Barbados, Grenada, St. Vincent e St.
Lucia.
7 novembre 1926
L’Ingoma trasporta a Saint Kitt e Nevis,
nei Caraibi, una targa bronzea commemorativa degli uomini dell’arcipelago
caduti nella prima guerra mondiale. La targa viene però rifiutata per via
dell’iscrizione che cita solo “St. Kitts” anziché “St. Kitts/St. Christopher
and Nevis”, ed al suo posto ne viene ordinata una nuova.
Novembre 1927
Viaggio da Calcutta a
Londra, con scali intermedi a Demerara, Trinidad, Barbados, Grenada e Dominica.
Novembre 1928
Viaggio da Calcutta a
Londra, con scali intermedi a Demerara, Trinidad, Barbados e Grenada.
15 gennaio 1929
Durante un viaggio
dal Demerara all’Inghilterra, sbarca a Barbados un passeggero infetto da
erisipela.
2 febbraio 1929
Al termine del
viaggio, sbarca a Greenwich un marinaio affetto da tubercolosi polmonare.
1932
Durante uno scalo a
Grenada, una squadra composta da membri dell’equipaggio dell’Ingoma gioca, e perde per 98 “runs”, una
partita a cricket contro una squadra composta da ufficiali e marinai
dell’incrociatore leggero HMS Dauntless.
2-23 dicembre 1932
Tra i passeggeri
dell’Ingoma, durante un viaggio da
Tilbury ai Caraibi (Antigua, Barbados, Trinidad, Georgetown), vi è lo scrittore
britannico Evelyn Arthur John Waugh, che trae una pessima impressione dell’Ingoma, “vecchio e infestato dagli insetti… [sembrava] un postale irlandese con i ponti di seconda classe rimossi per lasciare
un ponte libero per sistemarvi due tori da competizione, un cavallo da corsa,
un paio di foxhounds e qualche gallina”. Il riscaldamento non funziona,
problema piuttosto serio in inverno, e scricchiola rumorosamente “come un paio di stivali nuovi”.
Locandina della Harrison Line ritraente l’Ingoma ed il gemello Inanda (da Maritime Timetable Images) |
26 gennaio 1936
L’Ingoma sbarca ad Antigua il nuovo
governatore delle Isole Sottovento Britanniche, Gordon James Lethem, insieme
alla moglie ed alla figlia. Tra i passeggeri c’è anche il "sottosegretario
di stato permanente" britannico, John Maffey, in visita nelle Indie
Occidentali (non può sbarcare ad Antigua per via di un violento attacco di
febbre, e scenderà a terra nel successivo scalo di Trinidad).
Ottobre 1937
Siccome la Harrison
Line ha deciso di rimpiazzarlo sulla linea delle Indie Occidentali con una nave
di nuova costruzione, l’Inkosi, l’Ingoma viene venduto alla Compagnia
Ligure di Navigazione, con sede a Genova, e ribattezzato San Giovanni Battista (buona parte dei piroscafi di questa
compagnia portano nomi di santi). Registrato a Genova.
Il San Giovanni Battista con la livrea della Compagnia Ligure di Navigazione (da www.marina-mercantile-italiana.com) |
29 agosto 1940
Il San Giovanni Battista ed il piroscafo
cisterna Marangona, scortati dalla
torpediniera Sirio, salpano da
Palermo alle 7 per raggiungere Tripoli.
31 agosto 1940
Il convoglietto
giunge a Tripoli alle 23.30.
6 settembre 1940
San Giovanni Battista, Marangona
e la piccola motonave Amba Alagi
lasciano Tripoli per Bengasi alle 17, scortati dalla torpediniera Rosolino Pilo.
8 settembre 1940
Il convoglio
raggiunge Bengasi alle 20.
4 ottobre 1940
Il San Giovanni Battista, la nave cisterna Utilitas ed i piroscafi da carico Prospero e Ravenna lasciano Bengasi per Tripoli alle 17.30, scortati dalla
torpediniera Giuseppe Sirtori.
7 ottobre 1940
Il convoglio arriva a
Tripoli alle 18.
14 ottobre 1940
Il San Giovanni Battista ed il piroscafo Motia lasciano Tripoli per Palermo alle
16, scortati dalla torpediniera Circe.
16 ottobre 1940
I due piroscafi e la
torpediniera arrivano a Palermo alle 17.
6 gennaio 1941
Il San Giovanni Battista parte da Palermo
alle 24, diretto a Tripoli, senza scorta.
7 gennaio 1941
In mattinata il San Giovanni Battista s’incaglia vicino
a Capo San Vito.
10 gennaio 1941
Disincagliatosi dopo
tre giorni di sforzi, ritorna a Palermo durante la notte.
16 novembre 1941
Requisito a Genova
dalla Regia Marina, senza essere iscritto nel ruolo del naviglio ausiliario
dello Stato.
12 gennaio 1942
Il San Giovanni Battista parte da Napoli
per Tripoli alle otto di sera, scortato dal cacciatorpediniere Freccia (caposcorta) e dalla
torpediniera Generale Achille Papa.
Quest’ultima lascia la scorta del convoglio a Trapani; successivamente, a
Pantelleria, si aggrega alla scorta la torpediniera Calliope.
17 gennaio 1942
San Giovanni Battista e scorta arrivano a Tripoli alle 14.30.
Il San Giovanni Battista nel 1935, quando ancora si chiamava Ingoma (foto Vicari P. A., via Museo del Mare di Stoccolma) |
Aerosiluramento e autoaffondamento
Alle sei di sera del
30 gennaio 1942 il San Giovanni Battista, al comando del capitano di lungo corso Angelo Marletta, lasciò Tripoli per rientrare a Napoli, con a bordo 126 tra membri
dell’equipaggio e personale di passaggio. La scorta era costituita dalle
torpediniere Orsa (caposcorta) e Calliope.
Alcune ore dopo la
partenza, il convoglietto venne avvistato da ricognitori nemici, che ne
riportarono la composizione come un mercantile di 8000 tsl ed un
cacciatorpediniere; in seguito a tale segnalazione, quattro aerosiluranti
Fairey Albacore dell’828th Squadron della Fleet Air Arm decollarono
dalla base maltese di Hal Far per attaccarlo.
(Secondo "World
War II Sea War", di Don Kindell e Gordon Smith, Vol. 5, l’attacco sarebbe
stato invece effettuato da quattro Fairey Swordfish dell’830th
Squadron, anch’essi decollati da Hal Far, uno dei quali – pilotato dal tenente
di vascello John Roland Ogilvy Stevenson e con il sottotenente di vascello John
Francis Wilson come osservatore – non fece ritorno dalla missione; Stevenson e
Wilson vennero dichiarati dispersi. Gli Swordfish rivendicarono un siluro a
segno su un mercantile ed attaccarono anche il cacciatorpediniere che lo
scortava, senza accertare il risultato. Secondo www.maltagc70.wordpress.com,
però, l’attacco degli Swordfish che costò la vita a Stevenson e Wilson avvenne
nella notte tra il 29 ed il 30 gennaio, cioè la notte precedente a quella
dell’attacco in cui fu silurato il San
Giovanni Battista, che in quel momento si trovava ancora in porto. Anche la
Commonwealth War Graves Commission ed il sito www.naval-history.com, gestito dagli
stessi Kindell e Smith, registrano la morte dei due aviatori come avvenuta il
30 gennaio, anziché il 31. Da www.maltagc70.wordpress.com
risulta inoltre che l’attacco degli Albacore dell’828th Squadron
avvenne nella notte tra il 30 ed il 31 gennaio, pertanto fu questa l’incursione
che portò al siluramento del piroscafo).
Secondo James
Sadkovich, l'attacco contro il San
Giovanni Battista fu lanciato sulla scorta di intercettazioni di messaggi
italiani da parte dell’organizzazione britannica “ULTRA”; Alberto Santoni, nel
suo libro "Il vero traditore" dedicato al ruolo di “ULTRA” nella guerra
aeronavale in Mediterraneo, non menziona il San
Giovanni Battista tra le vittime dei decrittatori britannici, ma cita un
dispaccio di “ULTRA” datato 27 gennaio 1942 nel quale si elencava il San Giovanni Battista tra i piroscafi
che erano «in attesa di lasciare presto Tripoli per l'Italia».
Comunque fosse
andata, gli aerosiluranti britannici rintracciarono il piccolo convoglio alle
quattro del mattino del 31 gennaio 1942, in posizione 33°47',5 N e 12°17' E (al
largo di Zuara, ad una novantina di miglia dalla costa africana), ed andarono
all’attacco: su tre siluri lanciati dagli Albacore, tutti contro l’unica nave
mercantile – la cui stazza viene variabilmente indicata, dalle fonti britanniche,
come 4000 oppure 8000 tsl –, uno andò a segno, colpendo alle 4.40 il San Giovanni Battista a centro nave, sul lato di dritta, in corrispondenza della sala
caldaie. Gli Albacore si allontanarono poi indenni e diressero per il rientro a
Malta, riferendo al loro ritorno di aver lasciato il loro bersaglio
immobilizzato e sbandato sulla sinistra.
Lo scoppio del siluro tranciò il tubo collettore del vapore, che invase la sala macchine uccidendo gran parte del personale di macchina che si trovava di guardia in quel
momento; la nave rimase immobilizzata e sbandò sulla dritta, e le sue condizioni apparvero subito gravissime,
tanto da indurre la maggior parte degli uomini imbarcati ad abbandonarla in
fretta e furia. La fretta e la confusione con cui avvenne l'abbandono della
nave ebbero purtroppo tragiche conseguenze: una delle scialuppe si capovolse,
gettando i suoi occupanti nel mare gelido; il comandante della Calliope, non riuscendo a localizzare i
naufraghi isolati nel buio ancora pesto di quell’ora antelucana, si concentrò
su quelli che erano aggrappati alla scialuppa capovolta, e quando la torpediniera
ebbe finito di salvare gli uomini aggrappati alla lancia, non riuscì più a
ritrovare i naufraghi isolati e dispersi nel mare, che soccombettero all’ipotermia.
Alla fine la Calliope riuscì a
salvare poco più della metà degli uomini imbarcati sul San Giovanni Battista: soltanto 72 uomini; i morti e i dispersi di
quella funesta giornata furono 54, tra quelli uccisi dall'esplosione del siluro
in sala caldaie e quelli scomparsi in mare dopo il rovesciamento della lancia.
Su 55 uomini che componevano l'equipaggio civile, soltanto in 26 vennero tratti in salvo, uno dei quali, il fuochista Rocco Ronzitto, morì in seguito per le ferite nell'ospedale militare della Busetta, a Tripoli. I corpi dei fuochisti Antonio Uda e Carmelo Aneri vennero rinvenuti a bordo del San Giovanni Battista, mentre altri 27 marittimi vennero dichiarati scomparsi in mare.
Le vittime tra l'equipaggio civile:
(si ringraziano Carlo Di Nitto e Michele Strazzeri)
Carmelo Aneri, fuochista, da Messina
Giovanni Armenia, marinaio, da Pozzallo
Vito Bonanno, marittimo, da Trapani
Vincenzo Cardone, panettiere, da Torre del
Greco
Giorgio Caruso, carbonaio, da San Giorgio a
Cremano
Carlo Casanova, marittimo, da Ferrara
Placido Castro, marinaio, da Riposto
Giuseppe Catuogno, marittimo, da Torre del Greco
Matteo Conti, nostromo, da Riposto
Francesco (o Raffaele) Cugliara, capo fuochista, da Cagliari
Francesco De Caria, fuochista, da Pizzo
Calabro
Tullio Fabbri, ufficiale radiotelegrafista, da
Genova
Bernardino Fiume, ufficiale di macchina, da
Monopoli
Giuseppe Forni, fuochista, da Genova
Gaspare Gambuzza, carbonaio, da Pozzallo
Luigi Garofalo, carbonaio, da Pozzallo
Oscar Gattoli, ufficiale di macchina, da Rio
Marina
Francesco Iaccarino, cuoco, da Sorrento
Francesco Iacomino (o Iacomini), carbonaio, da Resina
Sebastiano Incigneri, pennese, da Riposto
Roberto Massa, ufficiale di coperta, da Genova
Francesco Mazzella, marinaio, da Procida
Giuseppe Montefusco, fuochista, da Barano
Stefano Pacini, ufficiale di coperta, da Rio
Marina
Salvatore Patella, fuochista, da Torre del
Greco
Rocco Ronzitti (o Ronzitto), fuochista, da Termoli
Giuseppe Sannino, giovanotto, da Resina
Nazzareno Tamboli, cambusiere, da Senigallia
Giuseppe Tizzamini (o Tizzanini), fuochista, da Castel San
Niccolò
Antonio Uda, fuochista, da Alghero
Stefano
Vitale, direttore di macchina del San
Giovanni Battista all’epoca del siluramento. Sotto, le decorazioni ricevute
nel corso delle due guerre mondiali (per g.c. della nipote Stefania Vitale)
Il coltello usato da Stefano Vitale per aprire la scatola dei razzi di segnalazione dopo ore trascorse in mare in seguito al siluramento (si ringrazia la nipote Stefania Vitale) |
Nonostante i gravi
danni, il San Giovanni Battista non
affondò; la Calliope riuscì a
prenderlo a rimorchio e cercò di riportarlo a Tripoli, assistita dal
cacciatorpediniere Antonio Da Noli
(giunto sul posto a mezzogiorno del 31), ma il 2 febbraio, mentre era in corso
la difficile operazione in condizioni di mare avverso, il cavo di rimorchio si
spezzò, ed il piroscafo finì con l’arenarsi due miglia ad ovest di Tagiura. (Questo
secondo "Navi mercantili perdute"; secondo "La difesa del
traffico con l’Africa Settentrionale" la Calliope, assistita dal Da Noli, avrebbe direttamente rimorchiato il
San Giovanni Battista a Tagiura,
arrivandovi alle 18 del 2 febbraio).
Lì rimase per qualche
tempo; in seguito, si riuscì a disincagliarlo ed a rimorchiarlo fino a Tripoli,
dove poi rimase immobilizzato fino al gennaio 1943.
Nel mentre, la
campagna nordafricana proseguiva: l’offensiva italo-tedesca del maggio-giugno
1942, che aveva portato alla riconquista di Tobruk ed all’avanzata fino a un
centinaio di chilometri da Alessandria d’Egitto, si era arrestata per sempre
nelle sabbie di El Alamein. Dopo mesi di preparazione, il 23 ottobre ottobre
1942 le truppe dell’VIII Armata britannica del generale Bernard Law Montgomery
avevano scatenato contro le forze dell’Asse in Egitto la loro controffensiva,
passata alla storia come seconda (o terza, a seconda dei punti di vista)
battaglia di El Alamein, punto di svolta della guerra in Africa. Dopo una
settimana di accaniti combattimenti, l’Armata corazzata italo-tedesca, ormai
dimezzata, aveva iniziato un’interminabile ritirata, prima verso la
Tripolitania e poi verso la Tunisia; le truppe del Commonwealth in rapida
avanzata conquistarono Tobruk il 13 novembre, Derna il 15 e Bengasi il 20. Dopo
una breve “pausa” segnata dall’ultimo tentativo di resistenza italo-tedesca in
terra libica, la battaglia di El Agheila (11-18 dicembre 1942), i britannici
conquistarono Sirte il 25 dicembre e si affacciarono alle porte della
Tripolitania.
La difesa di Tripoli
era ormai giudicata inutile ed impossibile: i resti delle forze di Rommel
proseguirono nel loro ripiegamento verso la Tunisia, mentre la capitale della
Libia venne abbandonata al suo destino, senza alcun tentativo di difesa. A
partire dalla metà del gennaio 1943 le navi in grado di muovere, cariche di
materiali di sgombero, salparono per l’Italia o per la Tunisia, isolate od in
piccoli convogli. Lasciarono così Tripoli due torpediniere, quattro navi
mercantili di grandi dimensioni, nove tra piccoli piroscafi e motovelieri,
dieci rimorchiatori, due cacciasommergibili, undici dragamine, tre motozattere,
una nave ospedale ed una barca pompa. Solo metà riuscì a passare: le altre
vennero falcidiate da navi, aerei e sommergibili avversari, che i comandi
britannici avevano concentrato sulle rotte di accesso a Tripoli nella giusta
previsione che le navi italiane là rimaste avrebbero tentato di fuggire prima
che fosse troppo tardi. Andarono a fondo due navi mercantili di grandi
dimensioni, cinque tra piccoli piroscafi e motovelieri, quattro rimorchiatori,
un cacciasommergibili, nove dragamine ed una barca pompa, ed insieme ad esse
più di 600 uomini.
Non tutte le navi
presenti a Tripoli in quei drammatici giorni, però, erano in grado di prendere
il mare per evitare la cattura: otto navi mercantili, per complessive 41.000
tsl, erano state danneggiate dai bombardamenti aerei in porto oppure – come nel
caso del San Giovanni Battista –
erano state rimorchiate a Tripoli dopo essere state bombardate o silurate in
mare aperto, e si trovavano pertanto immobilizzate a causa dei danni subiti.
Dovendosi tali navi considerare in ogni caso perdute, negli ultimi giorni dello
sgombero di Tripoli si procedette a rimorchiarle all’imboccatura del porto e ad
autoaffondarle davanti ed attraverso il suo ingresso, in modo da ostruirne
l’accesso e rendere il porto almeno temporaneamente inutilizzabile per i
britannici. Analogamente, al medesimo fine, vennero autoaffondati 34
galleggianti portuali (bettoline, chiatte, pontoni, maone) che non era
possibile rimorchiare in Tunisia od in Italia.
Fu dunque questa la
sorte del San Giovanni Battista: il 19
gennaio 1943 il piroscafo fu portato all’imboccatura del porto di Tripoli ed
ivi autoaffondato con cariche esplosive, onde ostruire l’accesso al porto. Finirono
così anche il piroscafo italiano Marocchino,
le motonavi italiane Giulia ed Agostino Bertani, il piroscafo tedesco Galilea, la grossa goletta in cemento Perseveranza (già da tempo ridotta a
deposito galleggiante); fuori del porto vennero minati e fatti saltare la nave
ospedale Tevere (semiaffondata in
acque basse ormai da due anni), la motonave Marco
Foscarini (incagliata e ridotta ad un relitto bruciato fin dal maggio 1941)
ed il sommergibile Santorre Santarosa
(silurato da motosiluranti britanniche pochi giorni prima mentre si trovava incagliato),
mentre all’interno del porto venne ulteriormente sabotato, per renderlo del
tutto inutilizzabile, il relitto della motonave Assiria, affondata fin dall’aprile 1941. Lo stesso fu fatto con la
piccola pirocisterna Mirabello del Parco,
requisita come unità per pilotaggio e vigilanza foranea e semiaffondata dal
novembre precedente. Si autoaffondarono anche il piroscafetto Bellaman, il rimorchiatore militare Porto Ercole ed i motovelieri Cesare Augusto, Regina delle Vittorie, Venere,
San Ciro e San Giuseppe.
I britannici sapevano
da qualche tempo dei preparativi in atto per l’ostruzione del porto di Tripoli:
i loro servizi segreti avevano segnalato che le truppe dell’Asse, preparandosi
ad abbandonare Tripoli, stavano facendo i preparativi per la distruzione del
porto; alcune navi mercantili stavano caricando materiali pesanti e voluminosi,
mentre nelle stive venivano piazzate delle cariche esplosive, chiaro segnale
dell’intenzione di autoaffondarle come ostruzioni. Di conseguenza, era stato
organizzato un tentativo d’impedirlo: l’operazione "Welcome". Questa
aveva avuto origine da una richiesta urgente avanzata dal comandante della
Mediterranean Fleet, ammiraglio Henry Harwood, al comandante della 10a
Flottiglia Sommergibili di Malta, capitano di vascello George Simpson: preoccupato
dall’eventualità dell’inutilizzazione del porto di Tripoli – che sarebbe stato
vitale per alimentare l’ulteriore avanzata dell’VIII Armata: senza di esso, il
raggio delle successive operazioni terrestri sarebbe stato fortemente limitato
–, Harwood aveva chiesto se Simpson, con i mezzi a sua disposizione, potesse
essere in grado di distruggere le navi destinate a bloccare l’accesso del porto
prima che potessero essere portate in posizione. Era stata dunque pianificata
un’azione insidiosa che prevedeva l’impiego degli “chariots”: siluri pilotati
derivati dai siluri a lenta cOrsa
italiani usati dalla X Flottiglia MAS per le incursioni nei porti nemici, dei
quali qualche esemplare – perdutosi per avaria meccanica – era stato recuperato
intatto a Gibilterra, studiato e “copiato”. Due “chariots”, denominati XII e XIII, sarebbero stati portati dal sommergibile HMS Thunderbolt (capitano di corvetta Cecil
Bernard Crouch) fin davanti al porto di Tripoli, dopo di che vi sarebbero
penetrati ed avrebbero collocato delle cariche esplosive sugli scafi delle navi
destinate ad ostruire l’ingresso del porto, affondandole prima che potessero
essere rimorchiate all’imboccatura ed impedendo così il loro utilizzo per tale
scopo. Bersaglio di questa operazione erano proprio il San Giovanni Battista e la motonave Giulia. Simpson confessò in seguito che l’idea di un attacco del
genere non gli piaceva per niente: l’operazione presentava troppi rischi; le
acque attorno a Tripoli erano estesamente minate e pattugliate da mezzi
antisommergibili, e si era prossimi al plenilunio, il che avrebbe reso più
visibile sia il mezzo “avvicinatore” sia gli “chariots”. Ma l’importanza di
impedire l’inutilizzazione di Tripoli prevaleva su tali considerazioni.
"Welcome"
aveva preso il via il 17 gennaio, quando il Thunderbolt
era salpato da Malta diretto a Tripoli; alle 21 del giorno seguente il
sommergibile era emerso al largo della città libica, in posizione 33°04’ N e
12°56’ E. La messa a mare dei “chariots” era prevista per le 21.30, ma quando
il Thunderbolt era emerso il suo
comandante si era reso conto che, a causa di errori nella navigazione
(provocati in larga parte dall’impossibilità di orientarsi con le stelle), il
sommergibile si trovava più al largo di quanto sarebbe dovuto essere. Crouch
aveva pertanto deciso di proseguire in superficie, il più a lungo possibile,
per ridurre la distanza dalla riva; in questa fase, alle 21.59, mentre gli
“chariots” ed i loro operatori venivano preparati, era stata avvistata su
rilevamento rosso 45° una sagoma scura, identificata come una motosilurante
italiana in uscita dal porto, che si era fermata ad un paio di miglia dal
sommergibile emerso. La nuova arrivata non aveva notato il Thunderbolt, che alle 22.08 aveva messo a mare i due “chariots” a
sette miglia per 315° dal faro di Tripoli, proprio mentre la città era
sottoposta ad un’incursione aerea da parte della RAF (che aveva così sia funto
da diversivo per l’azione degli “chariots”, sia aiutato i loro operatori, con i
bagliori del bombardamento, a meglio individuare l’ingresso del porto, che fu
ulteriormente evidenziato dal lancio di alcuni bengala rossi da parte degli
aerei).
La messa in mare dei
mezzi d’assalto aveva richiesto venti minuti; poi, alle 23.04, il Thunderbolt era tornato ad immergersi ed
aveva lasciato la zona, dirigendo per il rientro a Malta, dov’era arrivato il
20 gennaio.
I due “chariots”
avevano dunque iniziato il loro avvicinamento al porto, perdendosi
immediatamente di vista, ma il “chariot” XII
(sottotenente di vascello Geoffrey S. W. Larkin, sergente cuoco Conrad Berey),
quello destinato al San Giovanni Battista,
non era nemmeno riuscito ad avvicinarsi alla sua vittima. Inizialmente il
siluro pilotato si era diretto verso il porto a tutta velocità, restando in
superficie; Larkin, infatti, intendeva raggiungere nonostante tutto l’ingresso
del porto prima che i bengala si spegnessero, entro l’orario prestabilito (le 24),
cercando al contempo di non farsi avvistare dalla motosilurante. Dopo circa
mezz’ora il “chariot” aveva incontrato una piccola formazione composta da un’altra
motosilurante, un peschereccio ed una chiatta; per non farsi vedere, Larkin e
Berey avevano deciso d’immergersi, ma a questo punto si erano accorti che i
timoni orizzontali del loro mezzo erano danneggiati – era forse successo
durante il rilascio dal Thunderbolt –
e che pertanto non potevano immergersi, se non temporaneamente, e
faticosamente, con l’uso delle pompe. Il “chariot” aveva proseguito ancora per
un’ora, ma tutti i tentativi di manovrarlo con i timoni danneggiati si erano
rivelati inutili, ed alla fine Larkin era giunto alla conclusione che il mezzo
fosse manovrabile soltanto in superficie. Con il “chariot” in quelle
condizioni, i due operatori avevano poche possibilità di entrare nel porto
senza essere visti (e la loro scoperta, scatenando l’allarme generale, avrebbe
rischiato di compromettere la missione dell’altro “chariot”) e nessuna di
portarsi sotto lo scafo del loro bersaglio per piazzare le cariche esplosive:
non era rimasto loro altro da fare che autoaffondare il “chariot” vicino alla
riva, cosa che fecero alle 2.30 di quella notte, innescando la carica di
autodistruzione affinché esplodesse il mattino seguente.
Giunti a terra, Larkin
e Berey avevano passato tre giorni ad eludere sentinelle e reparti italiani e
tedeschi, finché una notte erano stati sorpresi nel sonno e catturati da una
colonna motorizzata dell’Afrika Korps che aveva scelto per accamparsi lo stesso
posto in cui loro si erano rannicchiati per dormire. Dopo neanche due giorni,
approfittando della scarsa vigilanza, i due incursori erano riusciti a fuggire
(saltando giù da un camion mentre le loro guardie stavano dormendo), dopo di
che avevano trovato ospitalità nella fattoria di un colono italiano fino
all’arrivo dell’VIII Armata, avvenuto di lì a poco.
Quanto all’altro “chariot”,
il XIII (sottotenente di vascello Henry
Leslie Harvey Stevens, capo motorista Stanley Buxton), questo aveva impiegato
circa cinque ore, viaggiando a velocità non superiore ai tre nodi, per
raggiungere il faro situato lungo il frangiflutti che separava il porto di
Tripoli dal mare aperto; qui arrivato alle 3.30, il mezzo d’assalto era entrato
nell’avamporto, dove apparivano ben visibili il molo esterno del porto e la
sagoma della nave assegnata come bersaglio a Stevens e Buxton, ma non l’entrata
del porto. Buxton, la cui muta aveva subito uno strappo durante l’uscita dal
sommergibile, iniziava a risentire dell’ipotermia, a tal punto da dover
chiedere a Stevens di restare in superficie, dove meno acqua fredda entrava
nella sua muta. Subito dopo che il “chariot” si era riportato in affioramento, Stevens
e Buxton avevano sentito due forti esplosioni proprio davanti a loro, quasi
simultanee: alla luce dei bagliori delle esplosioni, i due incursori avevano
potuto vedere che queste provenivano dalle stive prodiere e poppiere di una
nave che si trovava a soli 140 metri da loro, e la cui sagoma sembrava
“continuare” quella del molo esterno del porto. Una nave (per altra fonte, due)
era appena stata autoaffondata all’imboccatura del porto, la cui ostruzione era
dunque cominciata (è possibile che si trattasse proprio del San Giovanni Battista: secondo il libro "Burdened
but Unruffled" di James Gregan, era proprio questo piroscafo l’obiettivo
principale di Stevens e Buxton, che se lo videro affondare sotto il naso mentre
si avvicinavano per attaccarlo). La zona del porto era squassata da ripetute
esplosioni, le demolizioni operate dai genieri dell’Asse per rendere il porto
inservibile prima di abbandonarlo, facendo saltare tutto il possibile.
I due incursori avevano
comunque proseguito nella loro missione; penetrati nel porto, avevano raggiunto
la Giulia ed avevano piazzato le loro
cariche esplosive sul suo scafo (altra fonte afferma che Stevens e Buxton
attaccarono un mercantile di piccole dimensioni che rappresentava il loro
bersaglio secondario, altre ancora – compreso il citato "Burdened but
Unruffled" – che proprio la Giulia
fosse il loro bersaglio secondario, mentre il San Giovanni Battista era quello primario), ma la carica principale
non era esplosa, e così la motonave, forse danneggiata dallo scoppio delle cariche minori (ma
neanche questo è certo), era rimasta a galla, ed aveva potuto essere utilizzata
per ostruire l’accesso del porto. Buxton e Stevens avevano raggiunto la riva
dopo aver autoaffondato il loro “chariot” e gettato in acqua il loro
equipaggiamento da subacquei, ma nel tentativo di allontanarsi da Tripoli,
erano inavvertitamente entrati in un accampamento militare italiano, venendo
circondati e catturati (avevano cercato di farsi passare per tedeschi, esibendo
documenti falsi appositamente forniti, ma il sergente italiano di guardia
parlava il tedesco meglio di loro, e li aveva facilmente smascherati). A
differenza dei loro compagni, Buxton e Stevens non riuscirono a fuggire, e
rimasero prigionieri in Italia fino all’armistizio. L’operazione si era così
risolta in un completo fallimento.
Il 23 gennaio 1943,
le truppe dell’VIII Armata britannica entrarono a Tripoli. Nel suo libro "The
War at Sea 1939-1945" (la storia ufficiale delle operazioni della Royal
Navy bella seconda guerra mondiale), lo storico britannico Stephen Wentworth
Roskill scrisse: «Nonostante tutto quello
che avevamo potuto fare [per cercare di impedirlo], il nemico riuscì a distruggere le strutture portuali molto
meticolosamente, ed a bloccare completamente l’ingresso con sei navi mercantili,
un pontone a biga, un frantumasassi e parecchie chiatte riempite di cemento.
Per riconoscere al nemico quanto gli è dovuto, furono, nelle parole
dell’ammiraglio Harwood, ‘le efficaci azioni ritardanti [combattute a terra] a
dargli tempo di effettuae efficaci e sistematiche demolizioni del porto e delle
sue strutture’». Per rimettere il porto in efficienza il prima possibile,
così da consentire l’invio a Tripoli dei rifornimenti necessari ad alimentare
la prosecuzione dell’avanzata verso ovest dell’VIII Armata, si misero subito al
lavoro squadre di personale della Royal Navy poste al comando del capitano di
vascello C. Wauchope, comandante dell’Inshore Squadron. Queste squadre
iniziarono alacremente a dragare mine, immergersi sui relitti e far saltare in
aria le navi che ostruivano l’accesso del porto. Entro il 25 gennaio venne
praticato nell’imboccatura del porto di Tripoli un passaggio sufficientemente
ampio da consentire l’ingresso di mezzi da sbarco, provenienti da Bengasi
carichi di rifornimenti; l’indomani arrivò a Tripoli il primo convoglio Alleato
formato da navi di grande tonnellaggio, che furono però costrette ad ancorarsi
fuori del porto, essendo il varco praticato nella “barriera” di relitti troppo
piccolo per permettere loro di entrare. Il 26 gennaio venne sbarcato il primo
quantitativo di rifornimenti, 370 tonnellate, ma subito dopo una violenta
tempesta danneggiò i mezzi da sbarco e ritardò i lavori di recupero e sgombero
del porto; entro il 29 gennaio, comunque, il varco nella “barriera” venne
allargato a sufficienza da permettere l’ingresso di mezzi da sbarco per carri
armati del tipo LCT (200 tonnellate di dislocamento), e l’indomani il
quantitativo di rifornimenti scaricati salì a mille tonnellate. La prima vera e
propria nave mercantile di grande tonnellaggio ad entrare nel porto di Tripoli
poté farlo il 2 febbraio 1943, nove giorni dopo la presa della città; il varco
nella “barriera” formata dai relitti semiaffondati all’imboccatura del porto
era stato allargato appena quanto bastava per permettere di passare di misura,
e la nave transitò con margini ridottissimi – sotto la chiglia aveva solo
quindici centimetri d’acqua, ed ai lati non più di trenta centimetri. I lavori
proseguirono ed il 14 febbraio, a dispetto degli attacchi aerei, poterono
essere sbarcate in un giorno 2700 tonnellate di rifornimenti; ormai il porto di
Tripoli era stato reso nuovamente utilizzabile, e venne anche organizzato un
traffico regolare di convogli da Alessandria d’Egitto a Tripoli. L’ammiraglio
Harwood commentò: “Accettando dei rischi,
siamo riusciti a rispondere alle esigenze dell’VIII Armata”. Restava
comunque parecchio lavoro da fare, come constatarono in quegli stessi giorni il
generale Harold Alexander, comandante delle forze Alleate nel Medio Oriente, ed
il primo ministro britannico Winston Churchill, che visitarono Tripoli e videro
personalmente la situazione e la difficoltà di liberare il porto dai relitti,
riparare le distruzioni provocate dalle truppe dell’Asse in ritirata (e dai
bombardamenti di ambo i contendenti) e rimettere il porto in piena efficienza.
Per la quantità di rifornimenti scaricata il 14 febbraio, Churchill inviò i
suoi complimenti. La questione del ripristino del porto di Tripoli non mancò
però di generare polemiche tra la Marina e l’Esercito britannici: il comandante
dell’VIII Armata, generale Montgomery, criticò il modo in cui l’operazione era
stata gestita dalla Royal Navy; queste lamentele raggiunsero il Cairo mentre vi
si trovava Churchill, il quale al ritorno a Londra decise in accordo con il
Primo Lord del Mare, ammiraglio Alfred Dudley Pound, di dividere il Comando
della Mediterranean Fleet in due comandi distinti: un Comando della flotta, che
fu affidato all’ammiraglio Andrew Browne Cunningham (già comandante della
Mediterranean Fleet prima di Harwood), ed un Comando dei porti e delle basi
navali, che fu affidato ad Harwood, il quale ebbe così lo specifico incarico di
sovrintendere ai rifornimenti via mare dell’VIII Armata ed all’appoggio navale
alle operazioni terrestri. Nella sua lettera ad Harwood, l’ammiraglio Pound
confessò che questa decisione era in gran parte scaturita per via della
questione di come era stato condotto il ripristino del porto di Tripoli.
Roskill commenta ancora in proposito: «In
merito alla specifica questione delle misure intraprese per riaprire il porto
di Tripoli, un esame imparziale dei fatti a questa distanza di tempo sembra
indicare che al Quartier Generale della Marina, dove l’urgenza della questione
[del ripristino di quel porto] per
l’Esercito doveva essere stata compresa, le capacità delle navi per recuperi
assegnate a questo compito non erano state studiate abbastanza in dettaglio, né
abbastanza in anticipo. Analogamente, sembra che, considerato che sapevamo con
un anticipo di parecchi giorni che il nemico stava intraprendendo misure
eccezionali per bloccare il porto, si sarebbe potuto fare di più per mandare
rapidamente sul posto quantità adeguate di esplosivi. Infine non c’è dubbio sul
fatto che, quando si iniziarono le operazioni di rimozione dei relitti, fu
compiuto un errore tecnico nell’usare cariche esplosive troppo potenti nel
tentativo di disintegrare completamente le navi usare per bloccare l’accesso
del porto, anziché cariche più piccole per sgretolare gradualmente le
ostruzioni. Ma bisogna ricordare che non avevamo in precedenza incontrato navi
autoaffondate riempite di cemento in una scala lontanamente simile a quella
usata dai tedeschi [sic] a Tripoli.
Il Primo Lord del Mare riassunse bene la
questione in una lettera all’ammiraglio Cunningham, ove diceva ‘Il lavoro vero
e proprio delle squadre recuperi a Tripoli fu molto buono ed esse vennero
elogiate, ma gli accordi ai livelli superiori lasciavano troppo al caso, il che
era piuttosto inaccettabile quando si considera cosa significava per l’Esercito
il ripristino [del porto] di Tripoli.
Sebbene sia giusto ammettere, pertanto, che certi errori vennero compiuti da
parte della Marina nelle operazioni di sgombero del porto dai relitti, sembra
nondimeno dubbioso se complessivamente abbiano causato un ritardo apprezzabile
nello scarico dei rifornimenti per l’Esercito. Le banchine del porto erano
state distrutte così meticolosamente che nessun ormeggio fu pronto fino a
qualche settimana dopo l’ingresso del primo mercantile. Mentre è vero che una
volta che le navi potevano entrare nel porto lo scarico a mezzo chiatte era
meno ritardato dal mare e dal moto ondoso, sarebbe stato in ogni caso
necessario l’impiego di chiatte. (…) Che
la successiva avanzata dell’Esercito non fu trattenuta da alcun fallimento nei
rifornimenti via mare sembra essere indicato dal fatto che in aprile il
generale Montgomery comunicò il suo apprezzamento degli sforzi della Marina al
Comandante in Capo del Levante [cioè Harwood] in questi termini – ‘Senza la consegna di carri armati, benzina ed
altri rifornimenti bellici a Tobruk, Bengasi e Tripoli, l’VIII Armata non
sarebbe mai stata in grado di lanciare l’offensiva’, e nel suo personale
racconti di questi eventi, dopo aver descritto lo stato del porto al nostro
ingresso, il generale Montgomery scrive ‘Tutte le nostre energie furono
concentrate nel renderlo di nuovo operativo, e ciò fu infatti ottenuto con
notevole velocità e dà notevole credito ai Comandi ed alle unità della Marina e
dell’Esercito coinvolte. Infine, il signor Churchill ha registrato che gli
sforzi per rifornire l’VIII Armata furono ‘coronati dalla rapida riapertura di
Tripoli’».
Un palombaro
britannico, Newse, rischiò quasi di perdere la vita, nel febbraio 1943, durante
i lavori di recupero e demolizione del San
Giovanni Battista. Per circa una settimana Newse, insieme ad un altro
palombaro, Tim Cullen, fu impegnato a lavorare su una falla situata sul lato di
dritta del piroscafo, all’altezza della stiva numero 1, tagliando il metallo
contorto e piegato verso l’esterno con un cannello acetilenico tipo Picardi. Un
giorno, saltando in acqua per risparmiarsi la discesa della scaletta lungo il
bordo della nave, a causa dell’inesperienza del suo assistente – che aveva
appena rimpiazzato il suo assistente abituale, frattanto chiamato alle armi –
Newse finì col “precipitare” direttamente fin sul fondale, con una “caduta” di
undici metri e mezzo. Grazie alle manovre attuate durante la caduta, il
palombaro riuscì a cavarsela con conseguenze relativamente lievi, ma subì ugualmente
la perforazione del timpano destro.
H. G. Skelly, un
vecchio comandante della Harrison Line che in tempi più felici aveva prestato
servizio a bordo dell’Ingoma, avrebbe
raccontato quarant’anni dopo, in un articolo pubblicato sulla rivista periodica
della Harrison Line, il dispiacere che aveva provato nell’ascoltare il racconto
di un ufficiale della Royal Navy che aveva visto la sua vecchia nave, finita a
“combattere” dall’altra parte della barricata, semidistrutta e affondata in un
porto nordafricano. Anche il suo compagno sulla linea delle Indie Occidentali,
l’Inanda, era affondato in guerra,
silurato da un U-Boot sulla rotta Trinidad-Barbados sotto il nome di Empire Explorer. Skelly concludeva
tristemente: “Non potei mai verificare
questo fatto, ma questa non era decisamente la fine che avrei voluto per loro.
Mi avevano dato gli anni più felici dei quarantasette che trascorsi in mare, e
molti altri marittimi della Harrison Line li ricordavano con affetto.
Costituivano certamente il più bel modo di andar per mare in quei giorni, od
anzi ad andar per mare in qualsiasi tempo. Ma morirono in guerra e non fecero
mai più ritorno”.
Il relitto del San Giovanni Battista venne recuperato
dai britannici soltanto per essere demolito.
Un’altra immagine della nave come Ingoma (da www.taft.com) |
Salve, ho in mio possesso il coltello col quale mio nonno, Stefano Vitale (credo fosse capo macchinista) ruppe la scatola contenente i razzi per il soccorso. Aspettò quasi 11 ore in acqua prima che arrivassero i soccorso.
RispondiEliminaSe possibile mi farebbe piacere mandarle la foto del coltello e anche del biglietto commemorativo che mio nonno ha conservato insieme ad esso.
Grazie, Stefania Vitale
Buongiorno,
Eliminami farebbe molto piacere. Può scrivermi a lorcol94@gmail.com