lunedì 1 luglio 2019

Antonio Locatelli

L’Antonio Locatelli ormeggiato al Tronchetto, a Venezia (Reale Fotografia Giacomelli, via Archivio Storico Comune di Venezia e Piergiorgio Farisato/www.naviearmatori.net)

Piroscafo da carico di 5690,51 tsl, 3430,06 tsn e 8271 tpl, lungo 130,16 metri, largo 16,55 e pescante 8,26, con velocità di 10,5 nodi. Appartenente alla Società Anonima Cooperativa di Navigazione Garibaldi, con sede a Genova, ed iscritto con matricola 2223 al Compartimento Marittimo di Genova.

Breve e parziale cronologia.

22 marzo 1920
Varato nel cantiere di South San Francisco della Western Pipe & Steel Company (numero di costruzione 15) come statunitense West Camak, per lo United States Shipping Board di Washington, che ne ha ordinato la costruzione in quel cantiere il 2 febbraio 1918, insieme a nove gemelli.
L’U.S.S.B., ente governativo statunitense creato nel 1916 ed avente sede a Washington, ha lo scopo di sostenere lo sviluppo della Marina Mercantile statunitense, finalità poi trasformatasi l’anno successivo, con l’entrata in guerra degli Stati Uniti, nella gestione della flotta mercantile statunitense durante il conflitto, e nella sua espansione per soddisfare le esigenze belliche americane (e non solo) mediante acquisizioni, requisizioni e programmi di costruzione basati su progetti standardizzati, per conto dell’appositamente costituita Emergency Fleet Corporation (EFC, poi divenuta Emergency Merchant Fleet Corporation).
Il West Camak è appunto una nave standardizzata del tipo Design 1019 (“Standard Ferris Type, 8800 D.W.T. Steel Cargo Ship, Standard Design”). Le navi di questo tipo sono piroscafi da carico in acciaio rivettato, con un fumaiolo, due alberi, tre casseri ed una coppia di argani tra il fumaiolo e la plancia. Ben 45 navi tipo Design 1019 sono state ordinate dallo United States Shipping Board alla sola Western Pipe & Steel Company, che a San Francisco e dintorni ha due cantieri, uno dei quali – quello di South San Francisco, dove viene costruito il West Camak – è stato creato durante la prima guerra mondiale dalla Shaw-Batcher Company Ship Works (e rilevato subito dopo dalla Western Pipe) appositamente per soddisfare le richieste di navi da carico dello U.S.S.B.
Quasi tutte le navi tipo Design 1019 costruite dalla Western Pipe & Steel Company hanno nomi che iniziano per “West”; il West Camak fa parte di un gruppo di 18 piroscafi di questo tipo, detti anche “West Type”, ordinati dallo USSB nel 1917: per costruirli tutti, essendo il fronte a mare del cantiere piuttosto limitato, la Western Pipe fa costruire in tre mesi un bacino rettangolare per il varo laterale dei nuovi piroscafi. Questo sistema, però, non è molto indicato per navi di questo tonnellaggio, tanto che alcuni di essi riporteranno danni durante il varo. I primi otto “West Type” vengono muniti di turbine a vapore General Electric, che tuttavia si dimostrano poco affidabili, inducendo ad installare sui successivi dieci delle più tradizionali macchine a vapore a triplice espansione realizzate dalla ditta Joshua Hendy, alimentate a nafta, che permettono di raggiungere una velocità di circa undici nodi. L’equipaggio è composto da 39-45 uomini.
Anche il West Camak viene varato di lato, con macchine, caldaie, ed anche alberi e sovrastrutture già installate.
20 agosto 1920
Completato come West Camak per lo United States Shipping Board. Nominativo di chiamata KUST; “government number” 1154 della Emergency Fleet Corporation; stazza lorda originaria 5721 o 5881 tsl e 3513 tsn, portata lorda 7500 tpl. Porto di registrazione San Francisco. (Secondo altra fonte, probabilmente erronea, il West Camak sarebbe stato completato nel giugno 1920).
1921
In servizio sulla tratta Europa-costa Pacifica degli Stati Uniti, per conto della Williams Dimond Company (ma rimanendo di proprietà dello U.S.S.B.).
11 aprile 1921
Assume il comando del West Camak il capitano Clifton Curtis.

La nave quando portava il nome di West Camak (g.c. Stuart Smith via www.shipsnostalgia.com)

20 settembre 1921
In navigazione al largo del Canale di Panama, il West Camak avvista alle 14.20, in posizione 11°13’ N e 77°29’ O, un pennone rizzato del diametro di circa 60 centimetri, che sporge dall’acqua per un’eguale altezza. Dieci minuti dopo viene avvistato un rottame che sembra essere parte di una chiglia, lungo dodici metri. Il piroscafo segnala entrambi gli avvistamenti, essendo tali rottami pericolosi per la navigazione.
9 ottobre 1921
Alle 00.12, al largo di Corsewall Point (all’imbocco del Firth of Clyde, vicino all’isola di Ailsa Craig ed alla città di Stanraer nonché al largo della penisola dei Rhinns of Galloway, nel Wigtownshire/Ayrshire, costa sudoccidentale della Scozia), navigando nella fitta nebbia nel Canale del Nord tra Blackhead e Corsewall, il West Camak – proveniente dall’America (è partito da Portland a fine agosto, carico di 7760 tonnellate di grano e merci varie, facendo scalo in diversi porti della costa occidentale statunitense prima di attraversare l’Atlantico con destinazione finale Liverpool e Londra) e diretto a Glasgow al comando del capitano Clifton Curtis – avvista improvvisamente una luce bianca a proravia dritta, ad una distanza di soli 365 metri: si tratta del piccolo piroscafo passeggeri britannico Rowan (impiegato nei collegamenti tra la Scozia e l’Irlanda, è partito a mezzogiorno dell’8 da Glasgow diretto a Dublino con 128 tonnellate di merci varie, posta e 75 passeggeri, facendo scali intermedi a Greenock, la sera dell’8, e Belfast), che sta navigando senza suonare la sirena da nebbia. Il Rowan, che proviene da Greenock e si sta avvicinando al faro di Corsewall, ha rotta verso sudovest/sud, mentre il West Camak ha rotta nord (l’angolo tra le due rotte verrà poi stimato come di circa 28 gradi); il West Camak, che già da qualche tempo si trova immerso nella nebbia, sta navigando a soli 3-4 nodi suonando la sua sirena da nebbia ad intervalli di un minuto, mentre il Rowan, da poco entrato nella zona nebbiosa, sta procedendo a tutta velocità – 13 nodi – senza emettere alcun segnale sonoro.
Inizialmente, ritenendo che la luce bianca avvistata appartenga ad un’installazione di terra sulla costa, il comandante del West Camak ordina al timoniere Brannan di virare con tutta la barra a dritta, ma dopo appena tre secondi vede una luce rossa (che indica che davanti a sé ha il lato sinistro di una nave) a ridotta distanza, a proravia dritta: rendendosi conto di aver commesso un errore, impartisce immediatamente un contrordine, quello di virare con tutta la barra a sinistra e di mettere le macchine indietro tutta. La virata viene segnalata con un fischio. L’ordine ed il contrordine si susseguono a così ridotto intervallo di tempo (3 secondi) che il West Camak non fa neppure in tempo ad iniziare a deviare dalla rotta verso dritta, prima che venga ordinato di virare a sinistra. Ma la distanza tra le due navi è già troppo ridotta: da bordo del Rowan le luci del West Camak (luce verde e luce di testa d’albero; poco dopo scompare la luce verde ed appare quella rossa, il che indica che l’altra nave sta virando a sinistra, come in effetti sta facendo) vengono avvistate, verso proravia sinistra, soltanto quando ormai la collisione è imminente, a distanza non superiore ai trecento metri. Il comandante del piroscafo britannico ordina di virare con tutta la barra a sinistra, lasciando le macchine avanti tutta, e poi di virare con tutta la barra a dritta pochi secondi prima della collisione, ordine quest’ultimo dato non per evitare l’impatto – ormai inevitabile – ma per distanziare la poppa dall’altra nave e minimizzare così la violenza dell’urto. Circa 40 secondi dopo l’avvistamento della luce bianca da parte del West Camak, la prua della nave americana, la cui velocità è stata ridotta a circa due nodi dalle manovre ordinate dal capitano Curtis, sperona la poppa estrema di quella britannica sul lato sinistro, appena 4-6 metri prima della sua estremità poppiera, con un urto obliquo (il West Camak urta il Rowan con il dritto di prora ed il lato sinistro della prua).
Nonostante tutto, il peggio sembra evitato: le due navi si disincastrano immediatamente; il West Camak riporta danni relativamente contenuti, ed anche il Rowan rimane danneggiato in modo non troppo grave: c’è solo un leggero sbandamento sulla dritta, e la nave non sembra imbarcare acqua, anche se si ritrova immobilizzata ed ingovernabile in quanto l’impatto, pur senza causare danni fatali, ha messo fuori uso od asportato l’elica ed il timone, troncando le trasmissioni di quest’ultimo. A bordo del Rowan si ritiene di poter raggiungere, a rimorchio, il porto più vicino, ma viene comunque deciso di trasferire i passeggeri, per maggior sicurezza, sul West Camak, le cui condizioni non destano preoccupazione (subito dopo l’impatto, la nave americana ha fermato le macchine e si è trattienuta sul posto, con il gavone di prua allagato, cercando di restare vicina al Rowan). I passeggeri vengono pertanto fatti uscire in coperta e l’equipaggio si prepara ad ammainare le scialuppe, mentre il West Camak viene contattato per richiederne l’assistenza; su domanda del comandante del Rowan, capitano Donald Brown, anche il piroscafo statunitense mette a mare le proprie lance per partecipare al trasbordo dei passeggeri. Al contempo, il West Camak lancia anch’esso via radio una richiesta di aiuto.
Paradossalmente, è proprio l’arrivo dei primi soccorritori a trasformare in tragedia un incidente fino a quel momento privo di conseguenze davvero gravi. Dopo la collisione, infatti, il Rowan ha anche lanciato un SOS, affermando di stare affondando, ed il piroscafo britannico Clan Malcolm (capitano Harris), in navigazione nelle vicinanze (diretto a Liverpool e da lì in Sudafrica, è uscito da Glasgow proprio nella scia del Rowan), lo riceve e si precipita sul posto: con irruenza tale che quando, all’improvviso, trova dinanzi a sé il danneggiato Rowan (che persiste nel non suonare la sirena da nebbia: da bordo, il Clan Malcolm viene visto spuntare dalla nebbia ad appena mezzo miglio di distanza, diretto a tutta forza contro il Rowan), non può fare niente per evitarlo, e così finisce con lo speronarlo a sua volta, a centro nave – sul lato di dritta, all’altezza della plancia – e con violenza molto maggiore rispetto al West Camak, aprendo un enorme squarcio nello scafo della sventurata nave passeggeri. Questa seconda collisione, verificatasi al massimo una decina di minuti dopo il precedente scontro con il West Camak, provoca danni enormemente più gravi della prima: questa volta i danni sono fatali (secondo qualche fonte il Rowan sarebbe stato addirittura “tagliato in due” dal ben più grande Clan Malcolm, che l’ha investito a circa 8 nodi di velocità), il Rowan affonda nel giro di appena un minuto o due, senza neanche il tempo di mettere a mare le lance.
La prima collisione ha prodotto parecchia confusione sul Rowan, ed i passeggeri si sono appena calmati quando è avvenuta la seconda collisione: dopo l’urto, a bordo del piroscafo britannico dilaga il caos totale; i passeggeri corrono in tutte le direzioni, e si cerca confusamente di calare le scialuppe, la maggior parte delle quali finiscono con l’affondare ugualmente con la nave. Un ufficiale, che al momento della seconda collisione si trova sul ponte di passeggiata del Rowan, salta a bordo del Clan Malcolm, atterrandovi senza un graffio; altri passeggeri rimangono invece feriti, alcuni mortalmente. Unica fortuna è che dopo la prima collisione tutti i passeggeri del Rowan, che data l’ora tarda si trovavano nelle loro cabine, si sono precipitati in coperta ed hanno indossato i giubbotti salvagente, venendo preparati dall’equipaggio all’eventuale abbandono della nave (la seconda collisione è avvenuta proprio mentre l’equipaggio stava distribuendo i salvagente e preparando le scialuppe all’ammaino); questa circostanza ha contribuito ad evitare che il bilancio fosse molto più pesante.
I naufraghi, aggrappatisi a zattere e rottami per tenersi a galla, sono tratti in salvo dagli stessi West Camak e Clan Malcolm, che dopo la collisione calano le loro lance e setacciano con difficoltà, nel buio e nella nebbia, le fredde acque del Mare d’Irlanda, nonché dal cacciatorpediniere britannico Wrestler (distante 18 miglia al momento del disastro, e precipitatosi sul posto in seguito alla reazione dell’SOS: grazie ai suoi proiettori riesce a rintracciare parecchi naufraghi nonostante il buio; diversi suoi marinai si tuffano in acqua per soccorrere le persone in mare), dal piroscafo britannico Woodcock e da diverse piccole imbarcazioni partite a questo scopo dalla costa scozzese. Il West Camak recupera un ventina di naufraghi, il Clan Malcolm 26 (compresi quelli direttamente saltati a bordo dal Rowan), il Wrestler 17, oltre a due cadaveri. In tutto vengono salvate 81 persone, due delle quali (il musicista afroamericano Peter Robinson ed il sottotenente Robert James Thomson dell’Esercito britannico) muoiono poco dopo il salvataggio.
Il West Camak, con a bordo il gruppo di naufraghi recuperati (tra cui diversi feriti ed un gruppo di bambini i cui genitori risultano dispersi), raggiunge Glasgow con i propri mezzi il mattino dello stesso 9 ottobre. Nonostante la sua prua sia accartocciata ed il gavone di prua completamente allagato, il carico è intatto; poco dopo l’arrivo in porto, la nave viene sottoposta ad un’ispezione generale per verificare l’entità dei danni.
Tra le 110 persone imbarcate sul Rowan (35 membri dell’equipaggio e 75 passeggeri), muoiono undici membri dell’equipaggio, tra cui il comandante Brown, e 25 passeggeri, mentre non ci sono vittime sul West Camak (che ha a bordo un equipaggio di 45 uomini) e sul Clan Malcolm, nessuno dei quali ha subito danni gravi. Tra le vittime del disastro ci sono anche nove membri della Southern Syncopated Orchestra (una delle prime orchestre americane ad “esportare” il jazz in Europa), una trentina dei cui musicisti si trovavano a bordo del Rowan (al termine di un ingaggio di due mesi al Lyric Theatre di Glasgow, erano diretti a Dublino per esibirsi al locale Scala Theatre: il Rowan si era trattenuto a Greenock più del previsto, partendone alle 19.20, proprio per imbarcarli) con strumenti e spartiti, perduti nel naufragio. Una delle vittime è il batterista della Southern Syncopated Orchestra, Peter Robinson, spirato dopo il salvataggio, un'altra il musicista Frank Bates. Tra i naufraghi recuperati dal West Camak ci sono dieci membri dell’orchestra: J. S. Boucher, W. Gordon, J. Cruz, F. Ession, S. A. Parker, A. Ofori, J. H. W. Harris, G. Blake, C. Martins e l’impresario dell’orchestra, H. Lewis. Si distingue nei soccorsi il “leader” della Southern Syncopated Orchestra, Egbert K. Thompson, che dopo essere riemerso sfuggendo al risucchio della nave in affondamento ha issato su di una zattera numerosi altri naufraghi, alcuni dei quali feriti o privi di conoscenza.
Tra le altre vittime del disastro vi sono anche Lily Bolton, moglie dell’attore e cantante scozzese Will Fyffe, e tre membri del Sinn Fein, il partito indipendentista irlandese, di ritorno da una conferenza a Londra.
Gli armatori del West Camak e del Rowan si faranno reciprocamente causa per l’accaduto, ciascuno incolpando l’altro per la prima collisione. Lo United States Shipping Board, in particolare, pretende dalla Laird Line – proprietaria del Rowan – il pagamento di un risarcimento di 8000 sterline per i danni subiti dal West Camak, ritenendo che la responsabilità sia interamente del Rowan, colpevole di aver navigato nella nebbia a velocità eccessiva, senza suonare la sirena come prescritto, con servizio di vedetta insufficiente od inesistente, e di non aver fermato e messo indietro tutta le sue macchine dopo l’avvistamento del West Camak. Anche la manovra di accostata a sinistra del Rowan viene criticata, affermando che avrebbe avuto l’effetto di “gettare” la poppa sinistra del Rowan contro la prua del West Camak. La Laird Line, da parte sua, sostiene che il Rowan stesse navigando a tre quarti della velocità, e senza suonare la sirena, perché nella zona in cui si trovava c’era soltanto un po’ di foschia, e che il West Camak sia sbucato a forte velocità, e senza suonare la sirena, da un banco di nebbia la cui presenza non era stata notata dal Rowan. Parimenti, e rispecchiando le accuse della controparte, la Laird Line sostiene anche che il West Camak abbia accostato   dritta nel momento sbagliato e non abbia tempestivamente fermato e messo a marcia indietro le macchine. Pertanto, chiede dallo U.S.S.B. un risarcimento di 11.000 sterline (equivalente al danno stimato causato dalla prima collisione, mentre alla Clan Line, proprietaria del Clan Malcolm, viene chiesto un risarcimento di 100.000 sterline per la perdita della nave).
In sede giudiziaria, la versione della Laird Line verrà completamente confutata; il primo processo attribuirà tutte le responsabilità al Rowan, mentre in secondo grado si riterrà che la colpa sia per due terzi del Rowan e per un terzo del West Camak. Emerge anche che durante la giornata dell’8 ottobre, nonostante la nebbia, il West Camak aveva navigando perlopiù a velocità sostenuta, limitandosi a rallentare di tanto in tanto per effettuare scandagliamento; solo alle 23.15, quando l’ultimo scandagliamento aveva rivelato sotto lo scafo una profondità di soli 31 metri, contro i 256 della precedente misurazione, effettuata un’ora prima (il che rivelava che ora la costa era vicina, e dunque era meglio essere più prudenti e ridurre la velocità al minimo, come infatti si era fatto). Anche il comandante Curtis, pertanto, è responsabile di negligenza, anche se questa non ha avuto impatto sulla successiva collisione. Da parte del Rowan, l’affermazione che la nave non si trovasse in presenza di nebbia è confutata dal fatto che il faro di Corsewall stesse suonando la sirena da nebbia fin dalle 20.35 della sera precedente, nonché dal mancato avvistamento, da bordo del Rowan, del faro di Killantringan (che a sua volta stava suonando il segnale di nebbia fin dalle 20.20), il che avrebbe dovuto far capire al comandante Brown che doveva esserci della nebbia verso Corsewall Point, e lo avrebbe dovuto indurre a ridurre la velocità, mentre era proseguito a tutta forza. Oggetto di critica è anche la manovra intrapresa dal Rowan per evitare la collisione; la cosa giusta da fare, diranno gli esperti, sarebbe stato fermare le macchine e metterle indietro tutta subito dopo aver avvistato la luce di testa d’albero, e poi, dopo aver avvistato la luce rossa del West Camak, virare con tutta la barra a sinistra. Invece, il Rowan non ha ridotto la velocità fino al momento della collisione.
I rappresentanti della Clan Line, proprietaria del Clan Malcolm, cercano anch’essi di addossare la colpa dell’affondamento al West Camak, sostenendo che il Rowan avesse riportato già nella prima collisione danni così gravi che sarebbe affondato in ogni caso, anche senza il secondo speronamento; ma questa tesi viene respinta dagli inquirenti, i quali rilevano che dalle testimonianze del personale di macchina del Rowan non risulta che nei minuti successivi alla collisione si sia vista acqua entrare nella zona colpita. Inoltre, dato che la collisione ha messo fuori uso l’elica del Rowan, e dall’esame di un’ammaccatura sul dritto di prua del West Camak, appare probabile che l’impatto sia avvenuto in corrispondenza del tunnel dell’elica, al termine del quale si trovava una paratia stagna che dopo la collisione era stata chiusa, così limitando l’eventuale allagamento al solo tunnel dell’elica.
Mentre tutti sono d’accordo nel ritenere che la responsabilità della collisione fosse soprattutto del Rowan, colpevole di non aver suonato la sirena – come è invece obbligatorio, in caso di nebbia, per legge – e per giunta di stare navigando a tutta velocità nella nebbia, vi è discussione se parte della colpa ricada anche sul West Camak. Il piroscafo statunitense, al momento della collisione, stava navigando con cautela, a bassa velocità e suonando la sirena da nebbia, proprio come avrebbe dovuto; oggetto del contendere sono i due ordini e contrordini impartiti prima della collisione. Come ricostruito dalle testimonianze, poco prima della collisione il comandante del West Camak si trovava in plancia, quando improvvisamente la vedetta aveva suonato tre volte la campana, il che indicava che c’era qualcosa a proravia, ed al contempo il comandante aveva avvistato una luce bianca (la luce di testa d’albero del Rowan) mezzo punto a proravia dritta, ad una distanza stimata di 365 metri. Subito il comandante del West Camak aveva ordinato “tutta la barra a dritta”, ma tre secondi dopo, avendo avvistato una luce rossa, aveva ordinato “tutta la barra a sinistra, fermare le macchine e metterle a marcia indietro”. Quest’ordine, ritenuto unanimemente quello corretto, aveva seguito il primo a così ridotta distanza di tempo che la nave non aveva ancora iniziato la virata a dritta precedentemente ordinata. Parimenti corretta è giudicata la manovra ordinata all’ultimo momento dal comandante del Rowan. La Laird Line sostiene che l’ordine errato impartito inizialmente dal comandante statunitense, ed il ritardo di tre secondi nel dare l’ordine giusto, abbiano contribuito alla collisione; ma nel terzo ed ultimo processo, questa visione verrà respinta. L’ordine sbagliato (virare a dritta) non ha avuto il tempo di essere eseguito, e non ha dunque influito sulla collisione; i tre secondi passati prima dell’ordine giusto (virare a sinistra e mettere le macchine indietro tutta), secondo gli armatori del Rowan, sarebbero bastati per evitare del tutto la collisione se l’ordine corretto fosse stato dato all’istante, considerato che lo speronamento è avvenuto proprio negli ultimi metri della poppa del Rowan. I giudici riterranno che questo potrebbe essere anche vero, ma che non è possibile che un comandante possa all’istante comprendere la situazione e decidere l’ordine giusto: è necessario almeno qualche secondo per ragionare; e se proprio quei tre secondi avrebbero fatto la differenza, la colpa di aver costretto il comandante del West Camak a dover decidere in un intervallo di tempo così assurdamente ristretto è di nuovo del Rowan, che stava navigando nella nebbia a velocità eccessiva. Ne deriverà anzi la ‘agony rule’, che recita: “non spetta a coloro che hanno creato il pericolo in una situazione di essere minuziosamente critici di ciò che è stato fatto da coloro che essi hanno coinvolto nel pericolo per loro colpa”.
1933
Acquistato dalla Lykes Brothers – Ripley Steam Ship Company Inc. di Corpus Christi e registrato a Corpus Christi, in Texas, senza cambiare nome.
Durante la prima guerra mondiale, la Lykes Brothers aveva già gestito numerosi piroscafi dello United States Shipping Board, attraverso contratto di noleggio: nel 1933 la società acquista all’asta ben 52 bastimenti dello U.S.S.B., tra cui il West Camak.
12 gennaio 1936
Nella baia di Braakman, nei Paesi Bassi, il West Camak, in navigazione sulla Schelda occidentale diretto a Gand, viene speronato dal piroscafo tedesco Planet, proveniente da Anversa con merci e passeggeri, riportando una grossa falla sul lato sinistro. Per evitarne l’affondamento, il West Camak va volontariamente ad incagliarsi sui vicini bassifondali sabbiosi, nei pressi della città olandese di Terneuzen. Il Planet, anch’esso danneggiato, si ancora nei pressi; rimorchiatori e navi per recuperi inviate da Terneuzen raggiungono il West Camak e gli forniscono assistenza, aiutando nel pompaggio dell’acqua imbarcata. Non ci sono feriti.
Successivamente disincagliato e riparato.

Il West Camak dopo la collisione con il Planet (da www.leiden.courant.nu)

1938
Acquistato dalla Società Anonima Cooperativa di Navigazione Garibaldi, con sede a Genova, e ribattezzato Antonio Locatelli. Registrato a Genova. La stazza lorda e netta, che i Lloyd’s Registers indicano rispettivamente in 5647 tsl e 3513 tsn almeno dal 1930, divengono 5754 tsl e 3497 tsn, per poi essere cambiate l’anno seguente in 5691 tsl e 3430 tsn.
Settembre 1938
Assume il comando dell’Antonio Locatelli il capitano di lungo corso Erminio Tixi.
1° settembre 1939
Scoppia la seconda guerra mondiale, ma l’Italia rimane inizialmente “non belligerante”. Nei mesi successivi, l’Antonio Locatelli compie quattro viaggi dall’Italia al Nord Europa.
5 gennaio 1940
Il capitano Tixi cede il comando del Locatelli al capitano di lungo corso Alfredo Sanguineti.
19 febbraio 1940
Il comandante Sanguineti viene sostituito dal capitano di lungo corso Mario Rivarola. Sarà l’ultimo comandante del Locatelli.


(g.c. Alberto Minissi)

15 maggio 1940
A guerra mondiale già in corso da mesi, ma durante il periodo della “non belligeranza” italiana (destinata a finire di lì a meno di un mese), l’invasione tedesca dei Paesi Bassi e del Belgio sorprende l’Antonio Locatelli nel porto belga di Anversa. In seguito all’invasione, tutte le navi sia belghe che di Paesi stranieri lasciano il porto; entro il 15 maggio, le uniche navi che ancora si trovano ad Anversa sono il Locatelli ed altri quattro mercantili italiani.
All’alba del 15 maggio, anche il Locatelli lascia Anversa per rientrare in Italia, insieme ad altri due piroscafi italiani, il Foscolo ed il Fidelitas. Come precedentemente concordato tra i rispettivi comandanti e con le autorità consolari italiane, i tre piroscafi navigano tenendosi in vista l’uno degli altri. Al momento della partenza, Anversa si trova sotto bombardamento da parte della Luftwaffe.
A dispetto del loro status di navi neutrali (e dell’alleanza esistente tra l’Italia, seppure ancora neutrale, e la Germania), i tre bastimenti, mentre navigano lungo la Schelda, vengono cannoneggiati dall’artiglieria tedesca appostata sulla riva orientale del fiume, seppure senza risultato. Verso mezzogiorno, giunti a Vlissingen (Flessinga), in territorio olandese, i piloti vengono sostituiti ed i tre piroscafi iniziano l’attraversamento dei campi minati; ma in questa delicata fase, verso le due del pomeriggio – al largo di Zeebrugge –, vengono mitragliati da caccia tedeschi e poi bombardati da bombardieri in picchiata Junkers Ju 87, i famosi “Stuka”. Il Locatelli è il primo ad essere colpito durante questo attacco, rimanendo danneggiato, mentre peggio ancora va al Foscolo, che viene affondato.
10 giugno 1940
L’Italia entra nella seconda guerra mondiale.
Nei mesi successivi, l’Antonio Locatelli viene impiegato principalmente nei collegamenti tra l’Italia continentale e la Sardegna.
21 ottobre 1940
Requisito a Cagliari dalla Regia Marina, senza essere iscritto nel ruolo del naviglio ausiliario dello Stato. Imbarca sul Locatelli il capitano di corvetta di complemento Luigi Gallo, con funzioni di regio commissario e comandante militare affiancato al capitano Rivarola.
4 novembre 1940
Il Locatelli parte da Brindisi alle 3.49 diretto a Durazzo, con un carico di 142 veicoli, 17,3 tonnellate di carburante, quattro tonnellate di materiali vari ed 80 militari. Scortato dalla torpediniera Giacomo Medici, arriva a Durazzo alle 17.
5 novembre 1940
Lascia Durazzo alle 12.30 e si trasferisce a Valona, dove giunge alle 23, sotto la scorta della torpediniera Solferino.
 
Un’altra immagine del Locatelli (Coll. Alberto Minissi via www.trentoincina.it)

L’affondamento

Alle 22.30 dell’11 novembre 1940 l’Antonio Locatelli, al comando del capitano di lungo corso Mario Rivarola, partì scarico da Valona per rientrare a Bari.
Per questa traversata il Locatelli avrebbe dovuto navigare in convoglio con altri due piroscafi scarichi, Capo Vado e Premuda, e con la motonave passeggeri (adibita a trasporto truppe) Catalani, parimenti vuota. Il convoglio era anzi denominato proprio «Locatelli»: lo scortavano una vecchia torpediniera risalente alla prima guerra mondiale, la Nicola Fabrizi (tenente di vascello Giovanni Barbini), ed una motonave bananiera convertita in incrociatore ausiliario, la RAMB III (capitano di fregata Francesco De Angelini, caposcorta). Scorta modesta, ma coerente con il basso livello di rischio delle rotte tra Italia ed Albania, dove unica insidia era stata fino a quel momento qualche isolato sommergibile, che aveva provocato solo perdite ridotte a fronte del continuo traffico tra le due sponde dell’Adriatico.
La Fabrizi procedeva in testa al convoglio, seguita in linea di fila, nell’ordine, da LocatelliPremudaCapo Vado e Catalani, mentre il RAMB III chiudeva formazione.
Il tempo era buono, la visibilità eccezionale: la luna era già alta, e prossima al plenilunio. Il convoglio oltrepassò le ostruzioni del porto di Valona tra le 22.28 e le 22.45, giunse al traverso di Saseno, e qui imboccò la rotta di sicurezza. Alle 00.20, con il superamento dei campi minati di Valona, la rotta di sicurezza era ormai terminata; pertanto il convoglio cambiò formazione, assumendo – in considerazione dell’eccezionale chiarore lunare – quella prevista per i viaggi diurni: cioè con i mercantili ancora in linea di fila, ma le due navi di scorta sui lati, RAMB III a dritta (in posizione arretrata) e Fabrizi a sinistra (in posizione avanzata). I mercantili proseguirono su rotta diretta, mentre la scorta iniziò a zigzagare. Ebbe così inizio la navigazione nel Canale d’Otranto, alla modesta velocità di otto nodi, per quella che si pensava dovesse essere una traversata analoga alle tante già effettuate, senza particolari imprevisti.
All’1.10, circa dodici miglia ad ovest di Saseno, il convoglio accostò per 315°, mettendo la prua verso Brindisi.

Nella notte tra l’11 ed il 12 novembre 1940 la Royal Navy lanciò la famosa operazione «Judgment», parte della più vasta operazione «MB.8»: venti aerosiluranti Fairey Swordfish, decollati dalla portaerei Illustrious, attaccarono a sorpresa la base di Taranto e vi affondarono la corazzata Conte di Cavour, danneggiando inoltre seriamente le corazzate Littorio e Duilio, così dimezzando per diversi mesi il numero delle corazzate a disposizione della Regia Marina.
Quale “coda” diversiva, «Judgment» prevedeva anche una contemporanea scorreria nel Canale d’Otranto, a danno dei convogli italiani in navigazione tra l’Italia e l’Albania, che avrebbe avuto il duplice effetto di appoggiare la resistenza delle truppe elleniche (che in quel momento stavano fronteggiando l’offensiva italiana) e di impartire un colpo morale alla Marina italiana, infliggendole perdite in acque che essa riteneva protette.

Nella stessa notte dell’attacco degli aerosiluranti (la notte tra l’11 ed il 12 novembre 1940), di conseguenza, la Forza X britannica (al comando del viceammiraglio Henry Pridham-Wippell, con bandiera sull’Orion), formata dal 7th Cruiser Squadron (incrociatori leggeri OrionAjax e Sydney, quest’ultimo australiano) e dai cacciatorpediniere Nubian e Mohawk, separatisi dal grosso della Mediterranean Fleet all’una e dieci di quel pomeriggio, penetrò nel Canale d’Otranto per attaccare i convogli italiani che avesse incontrato. Gli ordini trasmessi via radio a Pridham-Wippell nella mattinata dell’11 novembre prevedevano che egli dovesse passare con le sue navi attraverso il punto 39°10’ N e 19°30’ E (a sudest di Corfù) alle 20.30 di quella sera (ora in cui si trovavano infatti 80 miglia a sudest del Canale d’Otranto), indi assumere rotta 340° e velocità 25 nodi fino alle 22.30, quando avrebbe ridotto a 20 nodi; all’una di notte del 12 novembre, una volta attraversata la probabile rotta dei convogli in navigazione tra Brindisi e Valona, e giunte al traverso di Brindisi (punto più lontano da raggiungere; per altra fonte, avrebbe dovuto navigare verso nord per un’ora dopo aver tagliato la congiungente Brindisi-Valona verso mezzanotte), le navi britanniche avrebbero invertito la rotta dirigendo per sudest, riunendosi al gruppo principale alle otto del mattino, in posizione 38°20’ N e 19°50’ E (al largo di Cefalonia). Pridham-Wippell avrebbe dovuto tenere i suoi incrociatori in linea di fila, con Orion in testa, Ajax al centro e Sydney in coda, ed i due cacciatorpediniere sui lati (Nubian a dritta, Mohawk a sinistra), a due miglia di distanza, in posizione abbastanza avanzata. Qualsiasi nave oscurata che avessero incontrato avrebbe dovuto essere considerata nemica e trattata come tale; se una delle unità britanniche avesse perso contatto con le altre, di conseguenza, si sarebbe dovuta ritirare immediatamente verso sud. Nel caso fosse stata necessaria dell’illuminazione, sarebbe stato preferibile utilizzare proiettili illuminanti, anziché proiettori.
Se la formazione avesse incontrato un mercantile isolato, l’incrociatore di coda si sarebbe dovuto separare dagli altri per occuparsene; se invece avesse incontrato un convoglio, le navi non sarebbero dovute restare rigidamente nelle rispettive posizioni, ma avrebbero manovrato in base alle esigenze, avendo però cura di restare in contatto l’una con l’altra.
Tenendo la sua formazione unita, e procedendo nella notte rischiarata dalla luce lunare, la Forza X seguì le disposizioni ricevute in base a rotta e velocità da tenere per il suo rastrello; ridotta la velocità da 25 a 20 nodi alle 22.30, assunse una rotta che la portasse al centro del Canale d’Otranto, passando una decina di miglia ad est dell’Isola di Fano. Il mare era calmo, il vento forza 1, il cielo coperto per sette decimi e la luna era al terzo quarto, a sudovest rispetto alle navi britanniche. Complessivamente, le navi della Forza X potevano contare su ben 24 cannoni da 152 mm e 16 da 120 mm: più che sufficienti ad aver ragione di qualsiasi convoglio italiano che avessero incontrato, e tanto più del convoglio «Locatelli», le cui due unità di scorta non disponevano che di quattro cannoni da 120 mm ed altrettanti da 102 mm.

La Forza X attraversò il canale d’Otranto alle 00.40, senza che nessuno se ne accorgesse; le navi britanniche raggiunsero la congiungente Brindisi-Valona, mentre – per questioni di tempo – non poterono arrivare alla congiungente Bari-Durazzo. Restava solo mezz’ora per un’eventuale azione contro navi italiane; all’una di notte del 12 novembre il gruppo britannico raggiunse il limite settentrionale della zona da perlustrare (41°20’ N e 18°15’ E, al centro del Canale), ed invertì la rotta per tornare indietro, assumendo rotta sud-sud-est, sempre a 20 nodi. Fino a quel momento, non aveva trovato traccia di navi italiane.
All’1.15 (altra fonte, probabilmente erronea, parla dell’1.24) il Mohawk (capitano di fregata John William Musgrave Eaton), che si trovava a prora sinistra dell’Orion, avvistò delle navi oscurate su rilevamento 120°, ad una distanza di circa otto miglia: era il convoglio «Locatelli». I britannici identificarono le navi avvistate, quasi esattamente, come quattro mercantili in convoglio, in linea di fila, scortati da un cacciatorpediniere (unico errore: in realtà era il RAMB III) e da una torpediniera (la Fabrizi) disposti sui lati, che procedevano con rotta nordovest in direzione di Brindisi (secondo una fonte, il convoglio italiano, ignaro della presenza delle unità avversarie, attraversò la rotta della Forza X dirigendo verso l’Italia). In quel momento il convoglio si trovava a dodici miglia per 315° da Saseno (per altra fonte, a 16 miglia per 286°, cioè a ponente, di tale isola) ed aveva rotta nord, mentre la Forza X aveva rotta sud.
Il Mohawk accelerò a 25 nodi e lanciò il segnale d’allarme al Nubian, poi virò per 120° per avvicinarsi alle navi italiane, mentre queste ultime avvistavano a loro volta la Forza X. La prima a farlo fu la Nicola Fabrizi, all’1.18; poco dopo anche la RAMB III ed i mercantili avvistarono verso sinistra, su rilevamento polare 40°-50°, ombre scure che non tardarono a riconoscere come navi nemiche (anche perché era noto che non dovevano esserci, in quelle ore, altre navi italiane nei pressi). Non appena si resero conto che le navi apparse nel buio erano nemiche, i mercantili accostarono di 90° a dritta, in direzione opposta a quella di provenienza delle navi britanniche , mentre la Fabrizi si diresse incontro al nemico per tentare un contrattacco. Il Locatelli e gli altri trasporti assunsero rotte grosso modo parallele, dirigendo verso la costa albanese, dove cercare rifugio, per rilevamento 80°-90°.
All’1.25 (per altra fonte all’1.27) il Mohawk aprì il fuoco da 3660 metri di distanza, contro la Nicola Fabrizi; ritenne di aver messo un colpo a segno con la quarta salva, dopo di che la torpediniera ripiegò emettendo una cortina fumogena.
L’Orion aveva avvistato il convoglio contemporaneamente al Mohawk; manovrò in modo da tagliare la strada alle navi italiane, passando a proravia del convoglio, ed all’1.28 aprì a sua volta il fuoco con i pezzi da 152 mm sul terzo mercantile, il Capo Vado, sparando al contempo quattro salve da 100 mm contro la Fabrizi, da una distanza di 5850 metri, rilevamento 088°. I mercantili cercavano di fuggire, ma i proiettili illuminanti, di cui le navi britanniche fecero abbondante uso fin dall’inizio dello scontro, agevolavano di molto il tiro britannico, che fu preciso e letale. Il comandante Barbini della Fabrizi tentò di serrare le distanze ed ordinò di lanciare i siluri contro l’Orion, ma i colpi da 100 mm giunti a bordo provocarono gravi danni e troncarono anche le comunicazioni, così l’ordine di lanciare non raggiunse l’ufficiale addetto al lancio. La malconcia torpediniera, non più in grado di lanciare i suoi siluri – unica arma con cui poteva sperare di contrastare le unità nemiche con una minima possibilità di successo –, ripiegò per allontanarsi, ma il comandante Barbini, vedendo che le navi britanniche stavano concentrando tutto il tiro sui mercantili, ben illuminati dai proiettili illuminanti, decise di tentare una manovra disperata per salvare almeno qualcuno dei bastimenti del convoglio. All’1.28, pertanto, la Fabrizi virò a dritta, tornando ad avvicinarsi alle unità britanniche, aprì il fuoco con i suoi cannoni da 100 mm ed iniziò ad emettere cortine fumogene per tentare di interporsi tra gli attaccanti ed il convoglio e dare a quest’ultimo il tempo necessario a diradarsi per fuggire; ma era un tentativo vano.
Il RAMB III, che si trovava sul lato opposto del convoglio, reagì ben diversamente dalla Fabrizi: l’ex bananiera virò verso nordest insieme al convoglio e si limitò a sparare 17 salve da 120 mm verso le vampe che indicavano la posizione delle navi nemiche (le cui prime salve caddero proprio tra l’incrociatore ausiliario ed il convoglio), poi si ritirò. Il comandante De Angelini riteneva infatti – probabilmente non a torto – che, se avesse tentato di contrattaccare, la sua nave sarebbe stata affondata, senza peraltro riuscire a salvare il convoglio. (Il RAMB III giunse indenne a Bari, ma all’arrivo De Angelini fu immediatamente rimosso dal comando e processato per aver abbandonato il convoglio a lui affidato.)
Intanto, la Fabrizi perseverava testardamente nel suo valoroso tentativo di difendere il convoglio: invertì la rotta, per continuare ad interporsi tra gli attaccanti ed i mercantili da proteggere, e – benché centrata e devastata da diversi colpi, che fecero mancare a bordo anche la corrente elettrica – continuò a rispondere al fuoco con i cannoni ancora efficienti, per attirare su di sé l’attenzione delle navi nemiche. Infine, con parte dei cannoni ormai inutilizzabili, incendi a bordo, molti morti e feriti gravi tra cui lo stesso comandante Barbini, ed ormai a rischio di colare a picco, la Fabrizi si diresse verso i campi minati difensivi di Valona, cercando di farsi seguire ed attirare le navi britanniche sulle mine. Ma neanche questo ultimo tentativo ebbe fortuna.

Intanto, l’Orion cannoneggiò pesantemente il Capo Vado, riducendolo ad un relitto in fiamme, ed all’1.33 lo colpì anche con un siluro. All’1.48 il piroscafo fu scosso da un’esplosione e venne completamente avvolto dalle fiamme, sbandando a sinistra; l’equipaggio superstite dovette abbandonare la nave. L’Orion spostò allora il tiro delle artiglierie da 152 sulla quarta nave mercantile, la Catalani, distante 4850 metri su rilevamento 063°. Anche questa venne centrata più volte, incendiata ed abbandonata dall’equipaggio, dopo di che l’Orion la colpì con un siluro (lanciato da 4570 metri, con rilevamento 012°) e la motonave iniziò ad appopparsi.
L’Ajax, che aveva avvistato il convoglio all’1.25, aprì il fuoco all’1.30 verso il “cacciatorpediniere” – in realtà il RAMB III –, che però non fu colpito e si ritirò passando a poppavia dell’Ajax, al di fuori della portata delle sue artiglierie. L’incrociatore, allora, cambiò bersaglio, incendiando uno dei mercantili; poi spostò ancora il tiro su un altro mercantile, mancandolo con un siluro ma centrandolo con due salve, dopo di che questi iniziò ad affondare.
Il Sydney (capitano di vascello John Augustine Collins), ultima nave della fila britannica, aveva avvistato cinque navi oscurate all’1.21 (altra fonte parla dell’1.25) ed aprì il fuoco da 6400 metri contro il mercantile di testa, proprio l’Antonio Locatelli (che si trovava a proravia dritta dell’incrociatore), che venne  colpito ed incendiato. (Altra fonte afferma che il Sydney aprì il fuoco da una distanza di 11 km, ma sembra trattarsi di un errore).

Dei quattro mercantili del convoglio, l’Antonio Locatelli fu il primo ad essere colpito: in seguito all’accostata a dritta del convoglio, infatti, il Locatelli si era venuto a trovare più a sinistra degli altri tre trasporti, e dunque più vicino alle navi britanniche. I primi colpi giunsero a bordo all’1.20 circa e scatenarono immediatamente dei violenti incendi a prua ed a centro nave, oltre a mettere fuori uso il timone: divenuto ingovernabile, il piroscafo proseguì senza controllo nell’accostata che aveva intrapreso. Il comandante Rivarola diede pertanto ordine di fermare le macchine, ma i telegrafi di macchina erano già andati distrutti, così l’ordine non poté essere trasmesso. Venne colpito anche il condensatore, sprigionando una nuvola di vapore che invase la sala macchine, costringendo il personale che vi si trovava a cercare scampo nella fuga verso poppa. Questo danno ebbe però un effetto positivo, perché la conseguente caduta della pressione fece finalmente fermare le macchine, rendendo così possibile l’abbandono della nave, che intanto si andava appruando e sbandando sulla dritta.
Il Locatelli fu l’unico, tra i quattro mercantili colpiti, a lanciare una richiesta di aiuto: il radiotelegrafista del Locatelli, nella successiva inchiesta, dichiarò che i suoi colleghi sulle altre tre navi non erano di guardia al momento dell’attacco. Il messaggio venne lanciato all’1.32 e ricevuto da Marina Brindisi, ma il marconista del Locatelli, nella concitazione del momento, commise un errore; utilizzò il messaggio standard previsto per gli attacchi aerei, anziché quello da attacco navale. Non poté correggersi, perché subito dopo una salva di proiettili che colpì il Locatelli sul ponte mise fuori uso sia l’apparecchio trasmittente che quello ricevente, rompendone le valvole. (La richiesta di aiuto del Locatelli fu intercettata anche dai britannici, che poterono così identificare una delle navi del convoglio distrutto: la «Weekly Résumé of the Naval, Military and Air Situation» della settimana dal 7 al 14 novembre 1940, edita dal War Cabinet, menziona infatti che «…One merchant ship was sunk, two were left burning and one escaped under the cover of a smoke screen, but was probably damaged. It is probabile that the two ships set on fire were the Antonio Locatelli, 5,691 tons, and the RAMB III, 3,667 tons [e qui, ovviamente, si sbagliavano], from whom distress signals were intercepted at this time. Aircraft from the Royal Air Force (…) sighted the two burning ships»).
Questo errore generò parecchia confusione nei comandi a terra: a Brindisi, infatti, si credette di conseguenza che il convoglio si trovasse sotto attacco aereo, impressione rinforzata all’1.35 dalla ricezione di un messaggio di soccorso lanciato dal RAMB III, ed anch’esso compilato in modo erroneo. Ignorando che il convoglio si trovasse sotto attacco da parte di navi nemiche, e ritenendo inutile l’invio di navi contro gli aerei che – si riteneva – stavano attaccando il convoglio, nessuna unità fu inviata da Brindisi in aiuto del convoglio attaccato (d’altra parte, se anche fossero state inviate, non sarebbero mai giunte in tempo per salvarlo). D’altronde il responsabile del Comando Superiore Traffico con l’Albania (Maritrafalba, con sede a Brindisi), capitano di vascello Romolo Polacchini, non era neanche a conoscenza dei nomi dei bastimenti che formavano il convoglio; dopo aver urgentemente contattato Maridist Saseno per chiedere in merito, cercò di mettersi in contatto con la Fabrizi, che però aveva la radio messa fuori uso dai colpi nemici, e non poteva quindi rispondere. Polacchini cercò ancora di contattare le altre navi del convoglio, senza successo; soltanto alle 3.50 avrebbe saputo, da un messaggio radio da poco ricevuto, che erano state avvistate navi da guerra nemiche nel Canale d’Otranto (ma a fare ulteriore confusione ci si mise un nuovo messaggio che riferiva che Saseno era sotto attacco aereo). Alle due di notte Saseno aveva segnalato che sette miglia al largo stavano transitando sette navi sospette con rotta veso sud: si trattava della Forza X, ma Marina Brindisi, ritenendo che potesse trattarsi delle navi del convoglio «Locatelli» (che a quell’ora, in realtà, non esisteva più), respinse la richiesta di far aprire il fuoco alle batterie costiere.
Compreso che, quale che fosse la causa, stava accadendo qualcosa di grave, fu poi disposta l’uscita da Valona delle torpediniere Curtatone e Solferino per prestare aiuto ad eventuali naufraghi.

All’1.35, frattanto, il comandante Rivarola, d’accordo con il regio commissario, capitano di corvetta di complemento Luigi Gallo (facente funzione di comandante militare), aveva dato l’ordine di abbandonare la nave, e suonato i campanelli per comunicare l’ordine a tutto l’equipaggio. Una volta impartito quest’ordine, Rivarola distrusse i cifrari ed i documenti segreti (come venne poi confermato dalla deposizione del primo ufficiale Giobatta Roseto) dopo di che s’imbarcò sull’unica scialuppa che era stata ammainata, ed ordinò di scostarsi dal piroscafo, che stava ormai bruciando da prora a poppa (“era tutto un rogo”, come fu scritto nella relazione sull’accaduto). Ma a bordo del Locatelli c’erano ancora parecchi uomini: proprio mentre la lancia con il comandante si allontanava dalla nave, infatti, il personale di macchina, guidato dal direttore Manlio Bartolini, stava uscendo sulla poppa del piroscafo, dove incontrò altri membri dell’equipaggio che non avevano ancora abbandonato la nave. Un altro gruppo di marinai aveva cercato rifugio sotto il cassero centrale. Tutti questi uomini si riunirono in un unico gruppo, e misero a mare una lancetta ed una zattera, sulle quali presero posto. Altri uomini, gettatisi direttamente in mare, si tennero a galla aggrappandosi ai rottami galleggianti. Le due piccole imbarcazioni sarebbero poi state soccorse a giorno fatto dalla torpediniera Curtatone.
Il direttore di macchina del Locatelli, il quarantaduenne Manlio Bartolini, avrebbe raccontato molti anni dopo al figlio Alberto che la prima salva tirata dalle navi britanniche era risultata lunga, cadendo a poppavia della nave senza colpire nulla; l’equipaggio l’aveva sentita arrivare. La seconda salva, invece, risultò corta, cadendo anch’essa in mare ma a proravia del Locatelli; Bartolini contò i secondi che erano trascorsi tra le due salve, e seppe così quanto sarebbe passato prima dell’arrivo della terza, quella che avrebbe centrato il bersaglio. Così avvenne; la terza salva colpì in pieno il piroscafo, dopo di che Bartolini si gettò in mare e si allontanò a nuoto dalla nave in fiamme. L’orologio che portava al polso si fermò per sempre sull’ora in cui si buttò in acqua: le 2.30 della notte. Bartolini, con altri naufraghi, sarebbe stato salvato dalla torpediniera Curtatone nelle prime ore del mattino e sbarcato a Saseno. Successivamente fu trasferito a Valona e dopo qualche giorno a Brindisi; nell'affondamento, oltre agli effetti personali, aveva perso il suo libretto di navigazione, del quale dovette pertanto richiedere un duplicato, che fu rilasciato il 3 marzo 1941.


Sopra, Manlio Bartolini, e sotto, Manlio Bartolini nel 1946 (per g.c. del nipote Alberto Minissi). Direttore di macchina del Locatelli dal 18 aprile 1939, dopo l'affondamento ottenne una licenza che gli permise di passare in famiglia il Natale del 1940 (ed il diciottesimo compleanno del figlio primogenito Alberto); già il 28 dicembre, tuttavia, fu imbarcato su un'altra nave, la motocisterna Ticino. Passato in seguito sulla nuovissima petroliera Poza Rica, impiegata sulle rotte per l'Africa Settentrionale, vi trascorse il resto del conflitto, sopravvivendo ad incendi, bombardamenti e siluramenti e ricevendo una Medaglia di Bronzo al Valor Militare. Conclusa nel 1958 una venticinquennale carriera nella Marina Mercantile (il suo primo imbarco risaliva al 1915, all'età di diciassette anni, anche se successivamente era sbarcato in seguito alla chiamata alle armi nella Grande Guerra ed aveva poi lavorato in impieghi a terra per diversi anni), morì nel 1972 all'età di 74 anni.


L’orologio di Manlio Bartolini, incrostato di salsedine e fermo per sempre sull'ora dell'abbandono della nave (g.c. Alberto Minissi)

Avvolto dalle fiamme, sbandato a dritta e leggermente appruato, il Locatelli colò infine a picco alle 3.35 del 12 novembre, penultimo piroscafo del convoglio ad andare a fondo, circa dodici miglia ad ovest di Saseno.
I comandanti civile e militare del Locatelli sarebbero poi stati duramente giudicati dalle autorità competenti per aver abbandonato la nave quando ancora parte dell’equipaggio si trovava a bordo: il capitano di corvetta Gallo venne censurato dal Consiglio di disciplina di Marina Venezia per tale comportamento, mentre il capitano Rivarola venne rinviato con l’accusa di abbandono nave ad una apposita commissione della Marina Mercantile.

Dell’equipaggio dell’Antonio Locatelli, quattro uomini risultarono dispersi, e sette rimasero feriti. Tre dei dispersi appartenevano all’equipaggio civile: il terzo ufficiale Vito Berardi, di 30 anni, da Mola di Bari; il capo fuochista Gino Lombardi, di 28 anni, da Ameglia (già decorato di Croce al Merito di Guerra); il fuochista Romeo D’Aprile, di 34 anni, iscritto al Compartimento Marittimo di Savona. Il quarto disperso era invece un artigliere, probabilmente della Regia Marina, del quale ad ora non è stato possibile rintracciare il nome.

Alcuni documenti dell’archivio storico della Cooperativa Garibaldi relativi ai dispersi del Locatelli (si ringrazia Alberto Minissi):






Dopo aver incendiato il Locatelli, il Sydney spostò il tiro sulla seconda nave da destra, il Premuda, che aveva avvistato all’1.32 alla luce di un proiettile illuminante (secondo una fonte, prima di aprire il fuoco sui mercantili tutti e tre gli incrociatori spararono dei proiettili illuminanti per meglio vedere i bersagli), mentre questa tentava di allontanarsi circondata dalle esplosioni dei proiettili. Le riservò lo stesso trattamento del Locatelli e poi, all’1.36, spostò ancora il tiro, stavolta contro la Fabrizi, che stava emettendo fumo ma si allontanò; pertanto, all’1.38 l’incrociatore tornò a sparare contro Locatelli e Premuda, che si trovavano ora raggruppati, più vicini (tra di loro) rispetto a prima. Sparò diverse salve, colpendo i due piroscafi, poi li perse di vista nel buio. All’1.40 la scia di un siluro fu vista passare sotto il Sydney (doveva essere stato lanciato dalla Fabrizi). L’incrociatore cambiò ancora bersaglio, sparando ora contro il Capo Vado, che venne nuovamente colpito, subendo ulteriori danni. Dopo aver accostato verso sudest, il Sydney lanciò due siluri all’1.48, contro una nave che si trovava sulla dritta di quella già in fiamme (quest’ultima era probabilmente il Locatelli), ed all’1.50 cessò il fuoco. In quel momento si vedevano due navi su rilevamento 020° e 025° ed una in fiamme su rilevamento 349°; quest’ultima venne vista affondare alle due di notte.
Il Nubian, che all’1.19 aveva avvistato quattro mercantili a prora sinistra (rilevamento 110°), aveva aperto il fuoco all’1.31, da 7300 meti, contro una nave di colore grigio chiaro; quando questa fu incendiata, il cacciatorpediniere spostò il tiro su un’altra che si trovava alla sua dritta. Il Mohawk, dopo lo scontro con la Fabrizi, lanciò un siluro contro il secondo mercantile da sinistra; il convoglio si stava sparpagliando. All’1.45 le navi britanniche videro la terra verso sudest.
Mentre il Nubian ritornava nella sua posizione in coda alla formazione, il Mohawk spostò il tiro sulla quarta nave da sinistra. L’ultima nave (la Catalani), colpita a poppa da una salva, era immobilizzata ed emetteva nuvole di vapore; il Nubian iniziò a cannoneggiarla ed il Mohawk stava per virare a dritta per portarsi a poppavia del Nubian e lanciare i propri siluri contro le navi immobilizzate, quando all’1.53 Pridham Wippell gli ordinò di assumere rotta 160° e velocità 28 nodi.
Il combattimento era finito: era bastata poco più di mezz’ora perché il convoglio venisse completamente annientato.

Cessato l'attacco, all’1.58 le navi britanniche assunsero rotta di allontanamento, 166°, alla velocità di 28 nodi. Pridham-Wippell aveva ricevuto un messaggio dall’addetto navale ad Ankara, nel quale si diceva che la flotta italiana intendeva uscire in mare quella notte per bombardare Corfù (in realtà era pianificato un bombardamento contro Suda da parte degli incrociatori pesanti della I Divisione, poi non eseguito per via dell’attacco a Taranto): esisteva pertanto la possibilità che una superiore formazione di incrociatori italiani potesse essere in arrivo nel Canale d’Otranto, per impedirgli la ritirata. Dato che il convoglio ormai era stato distrutto (uno dei mercantili era affondato, altri due stavano lentamente affondando in fiamme, ed il quarto era stato visto per l’ultima volta mentre arrancava in fiamme verso Valona), l'ammiraglio britannico decise di aver assolto il suo compito, e che fosse ora di andarsene.
La Forza X si riunì al resto della Mediterranean Fleet alle undici del mattino del 12 novembre.
La Nicola Fabrizi, con gravi danni, incendi a bordo e perdite tra l’equipaggio (11 morti e 17 feriti), arrancò lentamente in direzione di Valona.
I quattro mercantili, ridotti a relitti in fiamme, affondarono uno dopo l’altro nel corso della notte: la Catalani alle due, il Capo Vado alle 3.30, il Locatelli alle 3.35, il Premuda alle 4.05 o 4.15.

A Valona, le informazioni sull'attacco arrivarono sulle prime confuse e frammentarie, anche perché via dell’equivoco determinato dall’erroneo messaggio di attacco aereo trasmesso dal Locatelli. Verso le quattro del mattino Marina Valona dispose che le torpediniere Solferino e Curtatone uscissero in mare per prestare soccorso agli equipaggi delle navi colpite; le due torpediniere lasciarono infatti Valona alle 4.15, ma le comunicazioni dei soccorritori vennero ostacolate dal fitto scambio di messaggi che, a seguito dell'incursione contro Taranto, intasava quasi ininterrottamente le linee radiotelegrafiche. Passando davanti a Saseno, Solferino e Curtatone incontrarono la malridotta Fabrizi, in attesa dell’autorizzazione ad entrare in porto, che riferì loro le coordinate del luogo dell’attacco. La Curtatone si diresse subito verso la posizione indicata, ordinando alla Solferino di ispezionare la fascia costiera; alle ricerche si unirono poi anche alcuni motovelieri. Le navi si spinsero fino ai margini dei campi minati, dopo di che, non potendo avanzare ulteriormente, vi inviarono le proprie imbarcazioni.
Alla fine, la Solferino riuscì a trarre in salvo 75 superstiti dei mercantili, mentre la Curtatone ne soccorse altri 65; in tutto le vittime furono 25 ed i feriti altrettanti (oltre alle perdite della Fabrizi). Verso mezzogiorno, terminato il recupero dei naufraghi, le due torpediniere ed i motovelieri entrarono a Saseno e trasbordarono i naufraghi sulla nave ospedale California, sulla quale erano già stati portati i feriti della Fabrizi. Nel primo pomeriggio venne inviato un idrovolante CANT Z. 501 ad effettuare un ultimo controllo nelle acque del combattimento, ma l’aereo vide soltanto un gran numero di rottami galleggianti e vaste chiazze di nafta.
I sopravvissuti dell’Antonio Locatelli furono portati a Valona e da lì rimpatriati, giungendo a Brindisi alcuni giorni più tardi. Dopo una breve licenza in cui poterono rivedere le famiglie – che neanche sapevano dell’accaduto, dato che la censura di guerra aveva passato sotto silenzio la distruzione del convoglio – ripresero a navigare, su altre navi: per loro la guerra, con i suoi pericoli, sarebbe durata ancora a lungo.

L’attacco dell’11/12 novembre 1940 nel Canale d’Otranto fu l’unico attacco compiuto da navi di superficie ai danni di un convoglio italiano in navigazione tra l’Italia e l’Albania; fu anche la prima azione notturna da parte di navi britanniche contro un convoglio italiano, e rispecchiava, nei tristi risultati, quelle che sarebbero seguite sulle rotte per il Nordafrica.
Contribuì al successo dell’incursione di Pridham-Wippell la mancata vigilanza da parte italiana nel Canale d’Otranto, motivata probabilmente dall’impressione, maturata presso Supermarina, che la Mediterranean Fleet – che era stata avvistata in mare dai ricognitori – stesse concludendo le proprie operazioni e fosse ormai diretta verso la Cirenaica, e si stesse dunque allontanando  dal Mar Ionio meridionale. A questa erronea impressione aveva contribuito una segnalazione dell’addetto navale italiano a Madrid, il quale aveva riferito che la Forza H britannica (portaerei Ark Royal, un incrociatore e cinque cacciatorpediniere, la cui uscita in mare e successivo attacco aeronavale contro obiettivi in Sardegna erano stati in realtà soltanto un diversivo volto proprio a confondere le idee ai comandi italiani circa le intenzioni britanniche) era tornata a Gibilterra alle sette del mattino dell’11 novembre.
L’11 novembre Maritrafalba aveva proposto per telefono a Supermarina di mandare una squadriglia di torpediniere – più precisamente, la XII Squadriglia «Altair», che si trovava a Brindisi – a compiere un pendolamento tra il centro del Canale d’Otranto ed un punto a dodici miglia da Fano, per protezione a distanza dei convogli con l’Albania (traffico notevole, quella notte, e che avrebbe pienamente giustificato una tale misura, come fece notare il capitano di vascello Polacchini in una nuova telefonata con cui sollecitava risposta: c’erano infatti in mare ben quattro convogli, due dei quali diretti a Valona e Durazzo carichi di truppe), ma questa richiesta era stata respinta. L’ammiraglio Emilio Brenta, a capo del reparto operazioni di Supermarina, aveva invece accolto la richiesta di inviare la XIII Squadriglia MAS (MAS 534, MAS 535, MAS 538, MAS 539) a nord di Brindisi, ma queste minuscole unità, che avevano preso il mare alle otto di sera dell’11, avevano unicamente il compito di effettuare vigilanza e ricerca antisommergibili intorno al punto 41°06’ N e 18°50’ E, molto lotano da Valona ed a 45 miglia dalla zona in cui fu poi attaccato e distrutto il convoglio «Locatelli».

L’attacco indusse comunque i comandi italiani a potenziare le scorte dei convogli da e per l’Albania, prevedendo l’impiego di tre torpediniere ed un incrociatore ausiliario per i convogli composti da quattro mercantili.
Maritrafalba, nella persona del capitano di vascello Polacchini, propose a Supermarina di ridurre, se non eliminare del tutto, il traffico notturno nel Canale d’Otranto – data l’indiscutibile supremazia britannica nel combattimento noturno – in favore di un maggiore traffico diurno; per rendere più difficile l’intercettazione dei convogli, inoltre, suggerì che ad ogni viaggio essi avrebbero dovuto seguire una rotta diversa. Qualora non fosse stato possibile, specie d’inverno (data la ridotta durata del giorno e la lunga distanza da percorrere), limitare la navigazione alle sole ore diurne, sarebbe stato preferibile utilizzare di notte solo la rotta Bari-Durazzo, più settentrionale e meno esposta ad eventuali incursioni di navi britanniche giocoforza provenienti da sud. Occorreva poi fornire ai convogli scorte più nutrite; una torpediniera ed un incrociatore ausiliario erano troppo poco, come minimo sarebbe stato opportuno aggiungere la scorta aerea di almeno un velivolo per tutta la traversata. Dato che i “grandi” convogli, se intercettati da forze di superficie, portavano alla perdita in un sol colpo di diverse navi, Polacchini prospettò l’opportunità di ridurre il numero di mercantili in ciascun convoglio a due soltanto, e di utilizzare bastimenti piccoli e veloci per l’invio di rifornimenti a Durazzo, e di maggiori dimensioni per il traffico con Valona. Ancora, rinforzare semplicemente la scorta dei convogli non bastava; occorreva adottare provvedimenti volti ad assicurare alle forze italiane il reale controllo del Canale d’Otranto: tenervi almeno un paio di sommergibili continuamente in agguato, condurre sistematiche ricerche a rastrello con torpediniere e, d’estate, anche MAS, dislocare nel settore, quando disponibili, incrociatori e cacciatorpediniere, intensificare la ricognizione in aree lontane dalle quali sarebbero potute provenire eventuali minacce. L’ammiraglio Antonio Pasetti, responsabile del Comando Difesa Traffico (Maricotraf), condivise le conclusioni del comandante Polacchini; Pasetti rilevò che la scorta del convoglio «Locatelli» era appropriata per difendere i mercantili dai sommergibili, certo non da attacchi portati da navi di superficie. L’ammiraglio ritenne «meritevole di particolare attenzione» l’idea di ridurre a due i mercantili in ciascun convoglio, ed approvò la proposta di incrementare il controllo sul Canale d’Otranto «subordinatamente alle possibilità permesse dalle disponibilità dei mezzi».
In seguito alla distruzione del convoglio «Locatelli», il 12 e 13 novembre 1940 Benito Mussolini impartì due direttive relative alla difesa del Canale d’Otranto ed alla protezione del traffico con l’Albania, che vennero trasmesse dal capo di Stato Maggiore generale al capo di Stato Maggiore della Regia Marina, ammiraglio Domenico Cavagnari ed a Supermarina, con le lettere numero 3780/Op. e 8122/SRP; la prima, indirizzata, a Cavagnari, diceva: «Il DUCE mi ordina di fissarvi le seguenti direttive: blocco con sommergibili e siluranti del Canale di Otranto e Sicilia». La seconda, destinata a Supermarina, recitava: «D’ordine Superiore prego provvedere perché il traffico dei piroscafi con l’Albania sia protetto da incrociatori». Di conseguenza, fino alla fine della campagna di Grecia (aprile 1941) Supermarina organizzò sbarramenti di vigilanza fissi di sommergibili in Mar Ionio, a sud del Canale d’Otranto, e crociere di protezione dei convogli in navigazione tra Puglia ed Albania con gli incrociatori leggeri della VII e VIII Divisione Navale. Attività precauzionale che comportò l’impegno di due divisioni navali coi relativi cacciatorpediniere, ed anche un consumo non indifferente di nafta.

Il 20 novembre 1940 alcuni giornali neutrali diedero notizia che tre corpi alla deriva erano stati trovati in Mare Adriatico in prossimità della costa jugoslava, recuperati e portati a Dubrovnik. Dalle piastrine di riconoscimento di due di essi era emerso che si trattava rispettivamente di un artigliere e di un fuochista, appartenenti entrambi all’equipaggio dell’Antonio Locatelli. Il fuochista non poteva che essere Romeo D’Aprile o, forse, il capo fuochista Gino Lombardi. La terza salma non aveva con sé niente che permettesse di identificarla, ma non è difficile immaginare che si trattasse anche in questo caso di uno dei quattro “dispersi” del Locatelli.

L’Antonio Locatelli fu la prima nave della Cooperativa Garibaldi ad andare perduta per cause belliche. Entro la fine del conflitto, delle ventuno navi di proprietà della compagnia soltanto una si sarebbe trovata ancora a galla.



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