sabato 15 giugno 2019

Recco

La Recco (foto USMM)

Piroscafo cisterna da 5595 (o 5395) tsl, 3310 tsn e 8170 tpl, lungo 115-117,5 metri, largo 15,9-16 e pescante 8,3-9, con velocità di 9-10 nodi. Appartenente all’Azienda Generale Italiana Petroli (AGIP) con sede a Roma; iscritto con matricola 1027 al Compartimento Marittimo di Genova. Nominativo di chiamata internazionale ICEA.

La Recco, insieme alla gemella Rapallo, fu la prima petroliera dell’AGIP: le due navi possono dunque essere considerate le “capostipiti” di quella che poi fu la flotta SNAM.
Nel 1920 era infatti sorto a Milano (per altra fonte a Torino) il Consorzio Utenti Nafta Società Anonima (CUNSA), che si proponeva di assumere il controllo dell’approvvigionamento e fornitura di nafta per uso industriale alle industrie dell’Italia Settentrionale, fino ad allora in mano a compagnie straniere. Per perseguire tali obiettivi, il CUNSA abbisognava di una propria flotta di navi cisterna: si dava il caso che in quel momento si trovassero in fase ancora non avanzata di costruzione, nei cantieri di Riva Trigoso, due navi da carico secco, che il CUNSA prontamente acquistò per farne delle petroliere per il trasporto di prodotti petroliferi “sporchi”. Dopo le necessarie trasformazioni per convertirli in navi cisterna, operate mentre erano ancora sullo scalo (vennero eliminati i colaggi del fasciame, raddoppiata gran parte della coperta – per irrobustire le strutture delle due navi – e realizzato sulla parte superiore delle cisterne, per compensare l’aumento di volume del carico, un cofano di espansione che correva longitudinalmente per tutto il ponte di coperta sovrastante il carico; rimasero invece i doppi fondi a sistema cellulare, che contraddistinguevano le navi da carico, dove detti doppifondi avevano ampie aperture che permettevano lo stivaggio del carico anche negli spazi sottostanti), i due bastimenti furono varati con i nomi di Recco e Rapallo; erano quasi gemelli, con una leggera differenza nella stazza e nella portata (la Recco era lievemente più piccola).
Per via dell’atipicità della loro provenienza, trattandosi di navi da carico trasformate in petroliere durante la costruzione, Recco e Rapallo avevano una struttura a cisterne laterali, separate da un’unica paratia longitudinale e da varie paratie trasversali. L’apparato motore, una macchina a vapore a duplice espansione, aveva bassa potenza e bassa velocità.

Porto di scarico di queste prime petroliere italiane fu Vado Ligure, scelto dal CUNSA perché già sede di un deposito costiero di prodotti petroliferi, da esso acquistato ed ingrandito (per la gestione delle due navi, nel CUNSA entrarono alcuni armatori liguri del gruppo Barbagelata, che assunsero la direzione del Servizio Marittimo del consorzio fino al 1925, quando questi si rese indipendente da Barbagelata). Recco e Rapallo caricavano la nafta in America, Russia e Persia (Iran) e la portavano a Vado Ligure; qui era trasferita su vagoni cisterna che al portavano poi alle imprese acquirenti. Talvolta le due navi compivano anche qualche viaggio per conto terzi. Successivamente, il CUNSA estese i propri servizi anche al Veneto, pertanto venne creato un secondo terminale a Venezia, nel Canale della Bretella, vicino a Porto Marghera (all’epoca fondata da pochi anni); Recco e Rapallo, però, avevano un pescaggio a pieno carico troppo elevato per poter entrare nel canale della bretella, di conseguenza il CUNSA – dopo aver noleggiato per qualche tempo le piccole navi cisterna Stige ed Acheronte della Regia Marina – affittò il deposito della Regia Marina agli Alberoni, all’imbocco del Canale di Malamocco (non vi erano depositi privati nell’area). Qui Recco e Rapallo allibavano, alleggerendosi di parte del carico (che veniva stivato in un serbatoio ricavato da un ex cilindro di prova-compressione dei sommergibili), quindi, grazie alla conseguente diminuzione di pescaggio, entravano nel canale della Bretella e scaricavano la restante parte del carico nel terminale ivi situato. Nel 1925 la CUNSA, estendendo la propria attività, cambiò ragione sociale in Società Nazionale Oli Minerali (SNOM, con un ufficio operativo a Genova), e nel 1928 venne rilevata dalla neonata AGIP (avente sede legale a Roma e sede operativa a Genova), che ne acquisì la flotta, a partire da Recco e Rapallo.

Breve e parziale cronologia.

1919
Impostata nei cantieri della Società Esercizio Bacini di Riva Trigoso come piroscafo da carico secco.
1920
Acquistata durante la costruzione dal Consorzio Utenti Nafta Società Anonima e trasformata in nave cisterna.
10 marzo 1921
Varata come piroscafo cisterna nei cantieri della Società Esercizio Bacini di Riva Trigoso (numero di costruzione 83).
(Altra fonte indica il varo come avvenuto il 5 marzo 1921).

La Recco pronta al varo, il 10 marzo 1921 (g.c. Pietro Berti via www.naviearmatori.net)

Settembre 1921
Completata come Recco per il Consorzio Utenti Nafta S.A. di Milano/Genova.
1925
La società armatrice cambia nome in Società Nazionale Oli Minerali.
1928
La SNOM viene liquidata, e la sua flotta viene rilevata dall’Azienda Generale Italiana Petroli (AGIP), avente sede a Roma e costituita nell’aprile 1926.
1935
La stazza lorda e netta della Recco sembrano subire una forte “riduzione”: mentre fino all’anno precedente queste risultavano (sia dai Lloyd’s Registers che da un Elenco delle navi cisterna nazionali del 1928) rispettivamente 6224 tsl e 3842 tsn, dal 1935 la stazza lorda e netta risultano rispettivamente 5595 tsl e 3310 tsn.
 
Dettaglio della foto precedente

Violare il blocco

Quando l’Italia entrò nella seconda guerra mondiale, il 10 giugno 1940, la Recco, come la gemella Rapallo e più di duecento altre navi mercantili italiane, si trovava al di fuori del Mediterraneo: al comando del quarantasettenne capitano di lungo corso Gottardo Castagnola, da Camogli, la pirocisterna si trovava in quel momento in navigazione nell’Atlantico, carica di 8500 tonnellate di nafta.
La difficile situazione che la Royal Navy – che aveva appena concluso l’evacuazione da Dunkerque del corpo di spedizione britannico in Francia, e si trovava in quel momento concentrata nelle acque del Regno Unito per contrastare un potenziale sbarco tedesco in Gran Bretagna – attraversava in quei giorni fu una benedizione per i mercantili italiani che, come la Recco, trovavano in quel momento nell’Atlantico centrale e settentrionale: grazie all’inazione della Royal Navy, che non tentò di intercettarli, ben 32 bastimenti italiani (20 navi da carico per complessive 106.608 tsl e 12 navi cisterna per totali 67.952 tsl) riuscirono a rifugiarsi nei porti della Spagna atlantica e delle Canarie. La Recco cercò rifugio a Santa Cruz de Tenerife, nell’isola omonima dell’arcipelago delle Canarie; furono ben diciassette i mercantili italiani che si rifugiarono in porti di quelle isole, tra cui sette navi cisterna (compresa la Recco) aventi importanti carichi di olii minerali. A Santa Cruz de Tenerife, oltre alla Recco, si rifugiarono le navi cisterna Sangro, Todaro, Arcola e Taigete ed i piroscafi da carico Madda, Capo Alga, Andalusia e Teresa Schiaffino.
Sebbene avessero evitato di cadere in mano nemica, però, queste navi si trovavano ora bloccate in tali porti neutrali, con la prospettiva di passarvi tutta la guerra senza poter essere in alcun modo di aiuto allo sforzo bellico italiano. Non era questa l’opinione dei vertici della Marina italiana, che presero la decisione di cercare di trasferire almeno una parte di tali bastimenti, violando la sorveglianza aeronavale britannica, in porti controllati dall’Asse: segnatamente, quelli della costa atlantica francese, occupata dalle forze tedesche, e più precisamente quello di Bordeaux, che era divenuto sede di una base atlantica di sommergibili italiani, «Betasom». In tal modo, non senza rischi, sarebbe stato almeno possibile recuperare i carichi di quei mercantili, consistenti in gran parte in materiali che sarebbero stati molto utili per l’industria bellica e le forze armate dell’Asse, come le 8500 tonnellate di preziosa nafta contenuta nelle cisterne della Recco.
Nella pianificazione del trasferimento dei mercantili italiani dai porti neutrali di mezzo mondo a quelli della Francia occupata, la scelta ricadde, per prima cosa, proprio sui bastimenti rifugiatisi in Spagna e nelle Canarie: decisione logica, in quanto i porti spagnoli e canari erano quelli più vicini alla Francia, ergo le navi provenienti da tali sorgitori avrebbero compiuto un percorso più breve, e risultavano dunque più facilmente “recuperabili”. Agli inizi del 1941, le navi mercantili italiane internate in Spagna ed alle Canarie erano ancora in soddisfacenti condizioni di efficienza, ancorché la forzata inerzia in porto, protrattasi per diversi mesi, avesse influito negativamente sia sugli scafi che sugli equipaggi.
Le modalità ed i tempi per il trasferimento delle navi italiane dai porti neutrali a quelli francesi vennero definite a seguito di riunioni tenutesi a Roma tra rappresentanti dei Ministeri della Marina, delle Comunicazioni (che aveva competenza sulla Marina Mercantile), degli Esteri e degli Scambi e Valute nell’autunno del 1940, ed il 14 dicembre 1940 le relative disposizioni vennero trasmesse agli addetti navali italiani in Spagna ed in Brasile (altro Paese dal quale sarebbero partiti molti “violatori di blocco” diretti in Francia). Primi a partire furono due bastimenti che si trovavano in porti della costa atlantica spagnola, la nave cisterna Clizia (a San Juan de Nieva) ed il piroscafo Capo Lena (a Vigo): il loro viaggio, compiuto nel febbraio 1941, procedette senza intoppi.

Mentre si compiva il trasferimento di Clizia e Capo Lena, nello stesso mese di febbraio 1941 i mercantili italiani presenti nei porti delle Canarie vennero concentrati in due soli porti – Santa Cruz de Tenerife e Las Palmas – in modo da porli al riparo da eventuali tentativi di colpi di mano di navi da guerra britanniche. A Santa Cruz de Tenerife era arrivata, già dal precedente novembre, la pirocisterna Burano, proveniente da Santa Cruz de la Palma; per il resto le navi presenti in quel porto erano le stesse del giugno 1940.
Sette delle navi, insieme a due piroscafi tedeschi, erano ormeggiate affiancate in una lunga fila al centro della rada; le altre tre, tra cui anche la Recco, erano invece ormeggiate, pure affiancate, accanto al molo-frangiflutti che delimitava il porto a levante (la Recco era affiancata al molo, con accanto la Sangro e poi l’Andalusia sul lato più interno).
L’8 febbraio il capitano di vascello Aristotele Bona, addetto navale italiano a Madrid, ordinò con foglio riservato personale al capitano di fregata Eugenio Normand (dopo essersi messo d’accordo con il console italiano a Santa Cruz, Roberto Giardini) di recarsi nelle Canarie, ispezionare i mercantili italiani ivi internati per verificare le condizioni di efficienza di ciascuno di essi, ed iniziare ad organizzarne il trasferimento verso la Francia occupata. Il comandante Normand volò dunque alle Canarie e, con l’aiuto del console Giardini, provvide alla sua “ricognizione”, di cui riferì al capitano di vascello Bona il 5 marzo. Normand poté partire per le Canarie solo il 13 febbraio, con un aereo spagnolo; atterrò alle 19 di quel giorno a Las Palmas, nell’isola di Gran Canaria, dove il governatore spagnolo appose la sua autorizzazione sul passaporto diplomatico di Normand. Più difficile fu raggiungere Tenerife: il piccolo aereo che collegava quell’isola con Gran Canaria effettuò due false partenze, e infine raggiunse Santa Cruz de Tenerife soltanto il 17 febbraio. Nei quattro giorni intercorsi, pertanto, Normand raccolse informazioni utili per la sua missione, mantenendo al contempo il segreto sulle sue finalità.
Giunto infine a Santa Cruz de Tenerife, l’ufficiale si mise all’opera: fin da subito rilevò che la sosta forzata di otto mesi nei porti canari – la cui popolazione mostrava quasi all’unanimità simpatie nei confronti dei britannici – aveva nociuto allo stato di conservazione e di approntamento degli scafi, anche perché alcuni armatori avevano ridotto al minimo le spese per la manutenzione delle loro navi ed anche soppresso diverse indennità senza nemmeno aspettare provvedimenti ufficiali delle corporazioni interessate. Normand prese contatto con i comandanti dei vari bastimenti italiani, iniziando col far notare loro che le lavi si trovavano in una situazione precaria, esposte a colpi di mano britannici così come a possibili mutamenti della situazione esterna della Spagna; poi li invitò a spiegare quali provvedimenti, secondo loro, avrebbero potuto essere adottati; infine giunse al nocciolo della questione: nel volgere di qualche giorno, li convinse che far partire le navi cariche per Bordeaux e Saint Nazaire fosse non solo possibile, ma addirittura necessario, dando ad intendere che le Marine italiana e tedesca e la Luftwaffe avrebbero “coperto” la loro traversata con adeguati appostamenti ed altri provvedimenti, anche se non la loro presenza non sarebbe risultata visibile. Come ulteriore incentivo, infine, annunciò che per gli equipaggi delle navi che fossero giunte in Francia ci sarebbe stato un premio. L’insieme di questi argomenti finì col convincere anche i più titubanti della necessità di partire; a questo punto, Normand consegnò ai comandanti le istruzioni segrete che aveva ricevuto, e che provvide a spiegare. Tutti i comandanti si dichiararono contrari ad una partenza simultanea, in massa, pur affermando che se questi fossero stati gli ordini, li avrebbero eseguiti. Parere contrario ad una partenza contemporanea venne anche espresso dal console italiano Giardini, dal console tedesco e dal funzionario consolare tedesco che doveva organizzare la partenza dei mercantili tedeschi (insieme ai bastimenti italiani, infatti, c’erano a Santa Cruz anche due navi tedesche, destinate anch’esse a partire per la Francia). Dai tedeschi, che avevano già maturato una certa esperienza in materia di violatori di blocco, Normand apprese che era pressoché impossibile tenere segreti i preparativi di partenza, mentre non altrettanto difficile era mantenere la segretezza sulla data in cui questa sarebbe avvenuta. Dunque la cosa migliore da farsi era di compiere simultaneamente i preparativi per la partenza di tutte le navi, cercando ad ogni modo di occultarli per quanto possibile; poi, far riprendere alle navi la normale quotidianità dei mercantili internati per qualche tempo, in modo da far pensare ad una falsa partenza ed indurre gli eventuali osservatori nemici a rilassare la vigilanza; indi, trascorso abbastanza tempo, far partire all’improvviso i mercantili. Era opportuno informare le autorità locali della partenza, per rispettare le formalità e non “offenderle”, ma soltanto all’ultimo momento, indicando una falsa destinazione, oppure il mattino seguente.
Altra cosa che  Normand notò era che i mercantili tedeschi a Tenerife erano stati completamente verniciati di grigio: informandosi a riguardo, apprese che le sovrastrutture bianche risultavano troppo visibili anche di notte, e che effettuare la verniciatura durante la navigazione era molto difficile, perché gran parte dell’equipaggio doveva vigilare contro eventuali avvistamenti di navi od aerei, lasciando ben pochi uomini a verniciare la nave (opera che così si protraeva per parecchi giorni), e per giunta i colpi di mare rimuovevano la vernice appena stesa, ancora fresca. Dunque, era più agevole verniciare i bastimenti mentre erano in porto, anche se questo significava tradirne le intenzioni.
Come prima cosa, per evitare fughe di notizie, Normand troncò tutte le corrispondenze, sia postali che telegrafiche, tra gli equipaggi dei mercantili, le loro famiglie e gli armatori; giustificò questo provvedimento affermando che la precedente corrispondenza era stata tutta intercettata dal nemico, che ne aveva ricavato importanti informazioni. D’ora innanzi, spiegò Normand, i marittimi avrebbero dovuto consegnare tutta la loro posta alle autorità consolari, che l’avrebbero inviata in Italia per mezzo dell’ambasciata italiana, in un plico speciale diplomatico sigillato. Per non sollevare sospetti, ed avendo ogni mercantile un unico radiotelegrafista, venne ordinato che l’ascolto radio non avesse inizio fino a quando non fosse stato impartito un apposito ordine dalle autorità consolari, che avrebbero a loro volta saputo la data di inizio dall’ufficio di Normand, il quale l’avrebbe comunicata mediante un telegramma commerciale convenzionale.

Per quanto riguardava le dieci navi presenti a Santa Cruz de Tenerife, Normand trovò che Recco, Sangro, Todaro, Capo Alga, Madda e Burano erano cariche; Taigete, Arcola, Andalusia e Teresa Schiaffino erano scariche, dunque il loro trasferimento presentava scarso interesse. Nessuno di questi quattro bastimenti, infatti, lasciò Tenerife; fu inoltre escluso dalla partenza il Madda, perché aveva le caldaie disastrate in seguito alla loro alimentazione d’emergenza con acqua di mare, avvenuta all’indomani della dichiarazione di guerra per sfuggire ad una nave francese. Sarebbero quindi partite, in definitiva, metà delle navi presenti nel porto: Recco, Sangro, Todaro, Burano e Capo Alga. Per quanto riguardava le condizioni materiali delle navi, Normand trovò che alcune delle navi cisterna avevano le carene in pessime condizioni, a causa dei lunghi periodi trascorsi dall’ultimo carenaggio che avevano effettuato, mentre altri bastimenti avevano le caldaie piuttosto malmesse. Niente, comunque, che non fosse risolvibile in loco ed in tempi ragionevolmente brevi.
Terminata la sua “ricognizione”, Normand diede il via ai lavori per preparare le navi al viaggio. Le sovrastrutture di tutti i mercantili – anche quelli scarichi, presumibilmente per confondere le idee di eventuali osservatori circa quali navi sarebbero realmente partite –, da bianche che erano, vennero riverniciate di grigio; al contempo, su disposizione del Ministero, tutti i fumaioli vennero dipinti di nero. Si procedette inoltre alla pulizia degli scafi: nella zona del bagnasciuga, per circa un metro e mezzo, questo lavoro venne compiuto dagli equipaggi stessi; per le carene, si ricorse al palombaro di fiducia già impiegato dai tedeschi, dai quali Normand se ne fece fornire l’identità. Al palombaro, l’ufficiale italiano ordinò di pulire eliche, timoni e parte inferiore della chiglia di ciascuna delle quattro petroliere scelte per il forzamento del blocco, partendo dalla Burano, per poi passare alla Todaro, indi alla Sangro e per ultima alla Recco. L’ordine e le date di approntamento delle diverse navi vennero scelte proprio in base ai tempi di pulitura di eliche e carene; per la Recco ed altre navi si stimò che, una volta ultimati i lavori, avrebbero potuto sviluppare una velocità media di sette nodi (la velocità massima della Recco era di nove nodi, con un’autonomia di 3100 miglia). Non era un gran che, ma ci si doveva accontentare.

Diversi mercantili, tra quelli presenti alle Canarie, vi erano giunti con un numero di ufficiali minore di quello previsto dalle tabelle d’imbarco; nel periodo dell’internamento, per giunta, questo numero era ancora calato. Normand decise di spostare alcuni ufficiali da una nave all’altra, là dove più era necessaria la loro presenza, affinché su ciascun bastimento che aveva “carenza” di ufficiali il loro numero risultasse pari a quello che era al momento della dichiarazione di guerra. La Recco risultava sprovvista di radiotelegrafista e secondo ufficiale; su ordine del capitano di fregata Normand, pertanto, vennero trasferiti sulla Recco il radiotelegrafista del Teresa Schiaffino ed il secondo ufficiale dell’Andalusia, piroscafi che, essendo destinati a restare in porto, non ne avevano bisogno. Normand si assicurò anche che i marittimi in questione fossero elementi affidabili e che il loro trasferimento avvenisse di buon grado, senza dire loro nulla sul reale motivo.
Ancora, si provvide a completare le scorte di provviste di ciascuna nave in vista di un viaggio che sarebbe durato alcune settimane: particolare importanza fu data alla farina, necessaria per poter preparare il pane e la pasta. Dato che il piroscafo Atlanta, presente a Las Palmas, aveva a bordo tra l’altro un carico di carne in conserva e di caffè, Normand fece prelevare da quella nave due tonnellate di carne e 250 chili di caffè, requisiti per mezzo del console di Tenerife, provvedendo poi a distribuire il tutto a tutte le navi, sia quelle destinate a partire che quelle che sarebbero rimaste. Inoltre, Normand dispose che ciascuna nave, senza cambiare le modalità giornaliere, provvedesse ad accumulare ogni giorno viveri freschi, frutta e verdura, accrescendo le provviste normali, per creare delle scorte. I mercantili che non sarebbero partiti avrebbero dovuto consegnare l’eccedenza a quelli scelti per la traversata. Per la navigazione, vennero acquistate ed inviate a Tenerife delle carte nautiche ed idrografiche per arrivare fino al Golfo di Biscaglia, fornendole a ciascuna nave.
Restava da affrontare ancora una questione: nell’evenienza che le navi fossero state intercettate da unità da guerra nemiche, si sarebbe dovuto provvedere ad autoaffondarle, o per lo meno a renderle inutilizzabili, affinché non potessero essere usate dal nemico. Esaminando la questione, Normand trovò che particolarmente difficile sarebbe stato autoaffondare le petroliere, tipo di nave che, per la sua suddivisione in cisterne, impiegava parecchio tempo ad affondare. Vennero dati i seguenti ordini: rendere inutilizzabili le pompe del combustibile liquido e la pompa di circolazione della caldaia, mettendole fuori uso a colpi di mazza e/o rimuovendo i pezzi facilmente smontabili e buttandoli in mare.
La prospettiva di finire intercettati da navi da guerra nemiche era tutt’altro che remota: alle Canarie i britannici avevano creato un’efficiente e capillare rete di informatori, e le acque tra quell’arcipelago ed il Golfo di Biscaglia erano pattugliate da incrociatori ausiliari di base a Gibilterra ed a Freetown, da sommergibili e da aerei da ricognizione a lungo raggio. L’addetto navale italiano a Madrid e le autorità consolari italiane alle Canarie erano al corrente di questi rischi, di cui avevano avvisato i comandanti dei violatori di blocco.

A fine marzo 1941 i preparativi erano ormai terminati: si poteva dare il via alle partenze. Prime due navi a lasciare le Canarie per la Francia, il 1° aprile 1941, furono la nave cisterna Burano ed il piroscafo Capo Alga. Tutto filò liscio: il Capo Alga raggiunse indenne Nantes il 18 aprile, la Burano arrivò a Saint Nazaire il 21 aprile.
Questo primo successo indusse alcuni a credere che fosse relativamente facile violare il blocco britannico: ma una doccia fredda su queste rosee aspettative fu costituita dalla sorte della seconda coppia di aspiranti violatori di blocco.
Formavano questa seconda coppia due pirocisterne, partite entrambe da Santa Cruz de Tenerife: una era la Sangro; l’altra proprio la Recco. Quest’ultima avrebbe viaggiato a pieno carico: nelle sue cisterne erano contenute 8500 tonnellate di nafta, che avrebbe dovuto portare a Saint Nazaire. L’arrivo in quel porto era previsto per l’8 maggio.
Al comando, come quando era arrivata a Tenerife, del capitano di lungo corso Castagnola, la Recco iniziò le operazioni di disormeggio alle nove di sera del 19 aprile 1941. Proprio il disormeggio si presentò non poco laborioso: l’equipaggio, nonostante ripetuti tentativi, non riuscì ad alare i cavi d’acciaio con cui la vecchia petroliera era ormeggiata alle boe, così che alla fine fu necessario liberarsi di essi del tutto. Quando poi si procedette a salpare le ancore, si scoprì che una di esse si era impigliata in un’ancora del piroscafo Andalusia: dopo laboriosi tentativi di liberarla da parte di entrambe le navi, si dovette abbandonare anche l’ancora, filandola per occhio. Scrive Carlo De Risio: “V’è chi sostiene che le navi hanno un'anima e di certo gli uomini della Recco debbono avere avuto tristi presentimenti quella sera nel constatare che la loro nave non voleva saperne di prendere il mare e sembrava anzi aggrapparsi disperatamente ad ogni appiglio per rimanere in porto”.
Liberatasi anche dell’ancora, la Recco si mise in moto e defilò lungo il bordo del dragamine spagnolo Marte, arrivato a Tenerife proprio quella sera, il quale augurò buona traversata alla cisterna italiana. A lento moto la pirocisterna uscì da Santa Cruz, dopo di che, appena superata la diga foranea, portò le macchine alla massima forza e diede inizio al suo viaggio verso Saint Nazaire, dirigendo verso il largo ed assumendo poi rotta verso ovest per portarsi lontano dalle rotte normalmente frequentate dal traffico mercantile.

Per un paio di settimane, la navigazione della Recco procedette senza intoppi; ma alle 11.30 del 3 maggio 1941, 350 o 400 miglia a nord delle Azzorre, la pirocisterna venne intercettata dall’incrociatore ausiliario britannico Hilary, che si avvicinò con la chiara intenzione di catturarla. L’Hilary era un ocean boarding vessel, ossia un mercantile requisito dalla Royal Navy, armato (nel caso dell’Hilary, con due cannoni da 152 mm, un cannoncino da 76 mm e quattro mitragliere da 7,7 mm) ed adibito allo specifico compito di fermare ed ispezionare i mercantili “sospetti” per far rispettare il blocco navale contro i Paesi dell’Asse, e catturare i violatori di blocco. Il comandante Castagnola, per evitare che la nave cadesse in mano nemica, ordinò l’autoaffondamento. Prima che l’Hilary potesse inviare a bordo una squadra d’abbordaggio, la petroliera iniziò ad affondare; invano i marinai britannici tentarono di arrestare l’autoaffondamento: ogni loro sforzo fu inutile, la Recco s’inabissò in posizione 44°37’ N e 24°27’ O (o 22°27’ O).
L’equipaggio della Recco – il comandante Castagnola, altri otto ufficiali e 21 marinai – fu recuperato dallo stesso Hilary; dai prigionieri i britannici appresero che la nave era partita da Tenerife il 19 o 20 aprile, che era carica di olio combustibile e che era diretta a Belle Isle.

Non ebbe miglior sorte la Sangro, partita da Santa Cruz de Tenerife la stessa sera della Recco, quasi contemporaneamente ad essa. Il 1° maggio, prima ancora della Recco, la Sangro fu intercettata dall’incrociatore ausiliario HMS Cavina: il suo equipaggio allagò il locale pompe, ma un drappello d’abbordaggio britannico salì a bordo e fermò l’autoaffondamento, catturando la nave. Cinque giorni dopo, mentre dirigeva per il Regno Unito sotto la scorta dell’incrociatore ausiliario HMS Camito, la Sangro fu silurata ed affondata da un U-Boot tedesco, con la morte di 21 dei 29 uomini dell’equipaggio. (Secondo una fonte secondaria, non controllata, avrebbe contribuito alla perdita di Recco e Sangro – di gran lunga la “coppia” più sfortunata, tra i violatori di blocco che partirono dalle Canarie – lo spionaggio britannico a Tenerife, che avrebbe segnalato la partenza delle due cisterne).
Quanto all’Hilary, esattamente una settimana dopo aver provocato l’autoaffondamento della Recco, il 10 maggio 1941, l’incrociatore britannico ottenne un secondo successo quando intercettò e catturò un’altra cisterna italiana che tentava di violare il blocco dalle Canarie, la Gianna M. Questa nave fu scortata fino in Irlanda e poi nel Galles, dove venne ribattezzata Empire Control; navigò sotto bandiera britannica per il resto del conflitto e fino anche agli anni Cinquanta.
In tutto, su nove violatori di blocco italiani partiti dalle Canarie, cinque raggiunsero la Francia con i loro carichi; quattro andarono perduti nel tentativo.

Condotti nel Regno Unito, gli uomini della Recco furono internati in un campo di internamento dell’Isola di Man, dove trascorsero in prigionia i successivi cinque anni: furono rimpatriati solo quando il conflitto era già terminato da parecchi mesi.
Durante la loro prigionia sull’Isola di Man, i marittimi italiani vennero adibiti ai lavori agricoli presso le fattorie del posto. I rapporti tra i prigionieri e le famiglie presso cui lavoravano erano spesso piuttosto buoni: Giulio Turati, fuochista della Recco, strinse un legame di profonda amicizia con la famiglia che viveva nella fattoria cui era stato assegnato, una donna ed una bambina di pochi anni. Turati divenne quasi una figura paterna per la bimba, che faceva giocare e per la quale nel tempo libero costruì diversi giocattoli in legno (compreso un veliero in bottiglia, battente bandiera italiana, con il nome della bambina ed all’interno della bottiglia un biglietto con il messaggio «Souvenir from Giulio Turati May 1945»); la piccola gli si affezionò a tal punto che quanto Turati venne rimpatriato, a guerra finita, fu molto rattristata e continuò per parecchio tempo a chiedere alla madre quando “quando il suo amico Giulio sarebbe tornato”. Addirittura, come la madre della bambina scrisse a Turati – col quale mantenne un rapporto epistolare per anni dopo la fine del conflitto –, “per anni, quando lei vedeva un treno chiedeva a sua mamma se sopra ci fosse stato” Turati “che tornava da lei”.
A distanza di settant’anni, nel 2016, Ivan Golin, nipote di Turati, si sarebbe imbattuto per caso – sistemando alcune vecchie scatole nello scantinato – nelle lettere scritte al nonno dalla proprietaria della fattoria dell’Isola di Man: dopo aver scoperto la storia dietro di esse, Golin ha deciso di tentare di rintracciare la famiglia presso cui Turati aveva trascorso la sua prigionia, riuscendo dopo alcune ricerche ad entrare in contatto proprio con la bambina con cui il nonno aveva fatto amicizia, ora settantacinquenne e divenuta a sua volta nonna. La donna ricordava ancora con affetto Turati, e conservava ancora il veliero in bottiglia che questi aveva costruito per lei nel 1945. Ad uno scambio epistolare è seguito anche uno scambio di visite: Golin si è recato sull’Isola di Man, dove ha fatto visita all’anziana signora, dopo di che quest’ultima è a sua volta giunta in visita in Italia, dove ha fatto conoscenza con la madre di Golin, figlia di Turati, e portato un fiore sulla tomba di Giulio Turati.


Il fuochista Giulio Turati, nato a Vado Ligure nel 1913. Dopo aver espletato il servizio di leva nella Regia Marina a bordo del cacciatorpediniere Ardimentoso (epoca a cui risalgono queste due immagini), Turati fu assunto nell’AGIP come fuochista, navigando sulle petroliere della compagnia. Dopo l’affondamento della Recco e la prigionia, smise di navigare ed entrò a far parte della compagnia di ormeggiatori di Porto Vado (per g.c. del nipote Ivan Golin)





Sulla vicenda della Recco rimane un piccolo “mistero”, se così si può chiamarlo. Nel 1972 l’Ufficio Storico della Marina Militare pubblicò il volume "I violatori di blocco" (a cura di Carlo De Risio) della collana "La Marina italiana nella seconda guerra mondiale". In questo libro, mentre si descriveva correttamente la sorte di altri violatori di blocco italiani catturati dai britannici o autoaffondati per evitare la cattura (Sangro, Gianna M., Cortellazzo, Stella), si affermava sulla Recco, dopo averne descritto la partenza da Santa Cruz de Tenerife: «Lentamente la cisterna italiana uscì dal porto e svanì nelle tenebre. Svanì per sempre perché di essa non si è saputo mai più niente. Si ritiene che sia stata affondata da un sommergibile in agguato nella prima decade di maggio ma è solo una congettura. Il Recco scomparve e non vi furono superstiti». Nella seconda edizione del volume "Navi mercantili perdute", pubblicata dall’USMM nel 1977, si affermava ugualmente: «Nulla si seppe della sua sorte». Tale versione venne ripresa anche da vari libri, come "Forzate il blocco!" di Dobrillo Dupuis (1976), "Dallo Smoking alla Divisa. La Marina mercantile italiana dal 1932 al 1945" di Francesco Ogliari e Lamberto Radogna (1975: «scomparso in mare dopo il 14-04-1941, ultimo contatto nel tentativo di raggiungere Bordeaux») e "Le carrette degli armatori genovesi" di Prospero Schiaffino (1996), ed è ancora oggi citata, erroneamente, da qualche sito Internet.
Nella terza versione di "Navi mercantili perdute", pubblicata nel 1997, il paragrafo relativo alla Recco è stato rivisto e corretto, con l’inserimento della notizia del suo autoaffondamento per evitare la cattura da parte dell’Hilary (il cui nome è però erroneamente citato come “Ilaris”). Rimane il quesito su come sia possibile che ancora negli anni Settanta l’USMM sembrasse ignorare del tutto la sorte toccata alla Recco, a differenza di quella – pressoché analoga – di navi come Sangro, Gianna M., Stella e Cortellazzo: al rientro dell’equipaggio dalla prigionia, alla fine della guerra, se ne sarebbe pur dovuta avere notizia (ed anche prima, visto che i marittimi prigionieri potevano far avere loro notizie per mezzo della Croce Rossa), proprio come avvenne per gli altri violatori di blocco catturati o autoaffondati. Come scrive Ivan Golin, nipote del fuochista Giulio Turati, “…del resto mio nonno è tornato per raccontarlo e con lui altri marinai, che tra l’altro sono persone note in quanto anch’essi di Vado Ligure e di cui si parlava in casa in quanto tutti amici di mio nonno e di cui c’è anche traccia in pubblicazioni relative a fatti e persone della vecchia Porto Vado, quindi le testimonianze del reale destino della Recco non mancavano di certo”.

Giulio Turati dopo il rientro dalla prigionia (g.c. Ivan Golin)


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