venerdì 1 maggio 2020

Nuoro

Il Nuoro sotto il suo originario nome di Saint Ambroise (Coll. Edson Lucas, via www.shipsnostalgia.com)

Piroscafo da carico di 3705 tsl, 1825 tsn, 4700 tpl e 7200 tonnellate di dislocamento; lungo 94,6 metri, largo 14,2 e pescante 6,84-7,2, con velocità di 10,7 nodi.
Ex francese Saint Ambroise, era tra le decine di navi mercantili francesi consegnati all’Italia ed alla Germania in conseguenza degli accordi Laval-Kaufmann, che prevedevano la consegna all’Asse di 159 bastimenti mercantili che si trovavano nei porti mediterranei della Francia di Vichy, in seguito alla sua occupazione da parte dell’Asse nel novembre 1942.
Dato in gestione alla Società Anonima di Navigazione Adriatica, con sede a Venezia.

Breve e parziale cronologia.

10 ottobre 1919
Varato nei cantieri William Gray & Co. Ltd. di West Hartlepool (South Yard) come francese Saint Ambroise (numero di costruzione 929), per la Société Navale de l’Ouest (con sede a Le Havre). Il varo avviene alle ore 15.18; madrina è la signora R. B. Williams.
Aprile 1920
Completato come Saint Ambroise per la Société Navale de l’Ouest.
Il Saint Ambroise fa parte di un vasto programma di nuove costruzioni, ordinato dalla la Société Navale de l’Ouest per rimpiazzare le perdite belliche (più di metà del tonnellaggio d’anteguerra: 41.040 tsl su 72.420 tsl) ed espandere la propria flotta: ben 118.166 tsl di nuove navi, ordinate a cantieri francesi, belgi e britannici (ben dodici navi sono ordinate al solo cantiere William Gray di West Hartlepool). In totale si tratta di ben 16 nuovi piroscafi, in due serie (otto navi ciascuna) di 5000 e 7650 tpl; il Saint Ambroise fa parte della serie di 5000 tpl, ed è la prima delle sedici nuove navi ad essere completata.
La costruzione è stata supervisionata dal capitano R. Puissesseau e dai fratelli William di Middlesborough. Le stive sono state progettate specificamente per il trasporto di botti di vino; la nave è dotata di un sistema di sollevamento delle merci tipo Puissesseau, compreso un argano in grado di sollevare pesi di 25 tonnellate, ed è propulsa da una motrice alimentata da caldaie che possono essere alimentate sia a nafta che a carbone.
La stazza lorda originaria è di 3241,28 tsl, quella netta di 1905,42 tsn. Registrato a Le Havre, nominativo di chiamata OSJI (dal 1934 FPAA).
Maggio 1920
Compie il suo primo viaggio da Rouen all’Algeria. Durante lo scalo ad Orano, il 5 maggio, il signor Rey, agente della Société Navale de l’Ouest in quel porto algerino, invita le autorità locali a bordo del Saint Ambroise per un ricevimento.
Durante il successivo scalo ad Algeri, la Société Navale de l’Ouest invita anche qui numerose personalità locali a visitare la nuova nave: il capitano di corvetta Ferrat, rappresentante del governatore generale dell’Algeria; il dottor Moline, rappresentante del prefetto; il console portoghese Ribeiro de Mendoça; il rappresentante dell’ammiraglio comandante della Marina in Algeria, Beguet; l’ispettore generale delle strade e dei ponti, Raby; il presidente della Camera di Commercio, Billiard; l’ispettore capo Dalbouse, rappresentante del direttore delle dogane; l’ingegnere capo Gauckler del servizio strade e ponti; l’ispettore principale delle dogane, Chiariselli; l’ispettore della navigazione Cosurel; il comandante del porto di Algeri, Canale; il tenente del porto Millot; il vicepresidente della camera di commercio Tarting, che è anche presidente del sindacato commerciale algerino; il vicepresidente del sindacato commerciale algerino, Crochard; il consigliere municipale Célerier, presidente della Lega marittima; il presidente della Federazione del commercio e dell’industria, Bossy; il tenente colonnello di Stato Maggiore Martel; il consigliere municipale Servelle; il vicepresidente della Lega marittima Hude; l’ispettore del Bureau Veritas Fagot; il direttore della Banca d’Algeria Routaboul; il presidente dell’Automobile Club algerino Divelle; Empis, della ditta Maison Burnay et Cie; Bonnefond, della ditta Bessonneau di Angers; e diversi altri imprenditori.
20-24 agosto 1927
Il 20 agosto, durante un viaggio da Anversa ad Algeri, il Saint Ambroise viene investito da una tempesta che gli mette il timone fuori uso. L’equipaggio tenta di governare la nave manualmente, ma il maltempo provoca ulteriori avarie, ed il piroscafo si trova in una situazione molto precaria per una ventina di ore; alla fine, il mattino del 24, il Saint Ambroise riesce a raggiungere Cherbourg con mezzi di fortuna.
2 marzo 1932
Il Saint Ambroise (al comando del capitano Lemaître), in navigazione da Orano a Brest con un carico di botti di vino, intercetta un S.O.S. lanciato alle 12.50 dal piroscafo spagnolo Eusebia del Valle (al comando del capitano Leon Cortadi), in navigazione da Bilbao ad Amburgo con un carico di 6500 tonnellate di minerali, che chiede soccorso immediato riferendo di essere fortemente sbandato a causa di una via d’acqua che ha allagato le stive in posizione 47°55’ N e 06°17’ O (a 50 miglia da Ouessant). Il Saint Ambroise, trovandosi a sole dieci miglia di distanza, si dirige subito verso il punto segnalato, mettendosi al contempo in contatto con il rimorchiatore di salvataggio Iroise, diretto anch’esso sul luogo del sinistro.
Alle 14.56 il Saint Ambroise avvista l’Eusebia del Valle, che intanto ha cessato ogni trasmissione, e ne informa anche l’Iroise; in capo ad un’ora ne trae in salvo l’intero equipaggio (31 uomini) con le proprie imbarcazioni, dopo di che il piroscafo spagnolo affonda alle 17.15. Il Saint Ambroise, con i naufraghi a bordo, raggiungerà Brest all’una di notte del 3 marzo.
27 luglio 1939
Durante le operazioni di scarico del Saint Ambroise nel porto di Algeri, un serbatoio di gas butano compresso e liquefatto facente parte del carico, sbarcato e sistemato temporaneamente vicino all’hangar della Camera di Commercio affittato come magazzino dalla Société Navale de l’Ouest (nel Quai de Calais, adiacente al molo principale del porto interno di Agha), in attesa di essere trasferito insieme ad altri serbatoi nei locali della Société Butane, esplode improvvisamente alle 13.40 o 13.45, devastando la banchina e scatenando un violento incendio, che subito si estende ai fusti vuoti ed alle balle di sughero accatastate nei pressi, e quindi anche ai vicini magazzini. Decine di portuali (che proprio in quel momento stanno riposando all’ombra dell’hangar), funzionari della dogana e semplici passanti sono investiti dall’esplosione o dalle fiamme: alcuni rimangono uccisi sul colpo (non ne rimarrà altro che resti ossei calcinati), altri rimangono mortalmente ustionati. Le fiamme si estendono rapidamente ai moli, raggiungendo anche il Saint Ambroise stesso, ormeggiato nelle vicinanze; la prua ed il lato di dritta del piroscafo prendono fuoco.
Proprio il comandante del Saint Ambroise, capitano Bernard Prizac, ed il suo direttore di macchina Deker-Liviou sono tra i primi testimoni della tragedia: da bordo del piroscafo, assistono all’esplosione, che si verifica tra le merci da poco scaricate dal Saint Ambroise ed accatastate sulla banchina vicino al magazzino della Société Navale de l’Ouest. Il tenente di vascello Leloir, a bordo del piroscafo Jean et Jacques, che si trova ormeggiato al Quai de Sète (sul lato opposto del molo principale), dichiarerà poi che la fiammata si è innalzata nel cielo per 40-50 metri.
Deker-Liviou, che al momento del disastro si trova sulla plancia del Saint Ambroise, vede un’enorme lingua di fuoco espandersi su tutto il molo, lambendo sia i magazzini che la nave nella sua interezza; si butta a terra per non bruciare vivo, e riporta comunque ustioni (non gravi) alla mano destra, oltre a rimetterci le sopracciglia. Meno fortunati sono coloro che si trovano sul molo o vicino al magazzino: Prizac e Deker-Liviou vedono diverse “torce umane” correre in mezzo all’incendio, tre delle quali si gettano nelle acque del porto per poi non riemergerne più. Leloir, dal Jean et Jacques, vede cinque uomini buttarsi in mare avvolti dalle fiamme.
Per evitare danni peggiori, il comandante Prizac fa troncare gli ormeggi e manovra con il Saint Ambroise per allontanarsi dal cuore dell’incendio; da una delle stive, che contiene fusti vuoti e 75 tonnellate di butano in bombole, si levano delle fiamme, che minacciano di provocare nuove e più devastanti esplosioni, ed anche il lato di dritta è stato intaccato dall’incendio.
A dare l’allarme è l’agente di polizia Hofbacher, in servizio proprio sul molo principale: precipitatosi al telefono del molo della Compagnie des bateaux à vapeur du Nord, chiama i pompieri, le ambulanze, la polizia. Anche il Saint Ambroise, intanto, dà l’allarme con i fischi della propria sirena. I portuali del molo d’Agha rimasti illesi e gli equipaggi dei mercantili ormeggiati nella zona si precipitano per primi in soccorso dei feriti; tra gli altri si distinguono il segretario del sindacato Maravat, che organizza i lavoratori portuali, il caposquadra Graziani dei gruisti della Camera di Commercio ed i suoi sottoposti, ed i marinai e l’infermiere del Jean et Jacques, guidati dal tenente Leloir. Durante i soccorsi un portuale, Messaoud ben Djilali, viene ferito dalla caduta di un cornicione. Prima dell’arrivo delle ambulanze, ogni autocarro e veicolo disponibile sul posto viene requisito per caricare i feriti e trasportarli il prima possibile in ospedale.


Due immagini dell’incendio di Algeri del 27 luglio 1939: nella foto sopra, scattata verso le 14, i pompieri raffreddano con getti d’acqua i contenitori di gas butano rimasti intatti, per evitare che esplodano a loro volta; nella foto sotto, scattata verso le 18, il magazzino della società Cherfils e figli è completamente avvolto dalle fiamme (da www.enterprises-coloniales.fr)


I pompieri accorrono sul posto entro dieci minuti dall’esplosione, ma la situazione appare subito critica: l’incendio ha già assunto dimensioni preoccupanti. Tutte le centrali dei pompieri di Algeri mandano al porto le loro autopompe (dodici in tutto) e le loro squadre: a guidarle sono i tenenti Cerlini e Baugeard, gli aiutanti Colomar e Matera ed il capo meccanico Dacunto, nonché dal medico dei pompieri, dottor Soucy. Arrivano anche le ambulanze municipali e quelle degli ospedali; una sezione di infermieri militari; il capo dell’ufficio municipale d’igiene, dottor Lemaire; i medici comunali Raffi, Castelli e Legendre; personale della polizia, al comando dei commissari Maury e Préa e del comandante Bouland; personale della 19a Legione della gendarmeria; plotoni di cacciatori d’Africa. Successivamente accorrono anche i pompieri di Hussein-Dey, di Kouba e di Maison-Carrée, nonché, dal mare, tre battelli antincendio del servizio idrico municipale, al comando dei capi Michel Fragano, Corvaia e Ferro. Questi ultimi, per ordine del capo ingegnere del servizio idrico, ing. Baudin, dirigono il getto delle loro pompe sul Saint Ambroise e sul molo. Arrivano anche tre rimorchiatori della società Schiaffino, il Furet II, il Saint-Charles ed il Saint-Louis, che prendono a rimorchio il Saint Ambroise e lo allontanano dalla zona incendiata del porto; il Saint-Louis pompa acqua nella stiva del piroscafo in cui si è manifestato il principio d’incendio, che minaccia di causare ulteriori esplosioni, e riesce rapidamente a soffocare le fiamme.
Insieme ai soccorritori accorrono sul posto anche le autorità locali: il prefetto Rivière, capo di gabinetto del governatore; il direttore generale dei lavori pubblici, Poupet; il prefetto Chevalier, il suo capo di gabinetto Frantz; il segretario generale della prefettura Michel; il procuratore della Repubblica Hérault; il generale de Saint-Maurice, capo di Stato Maggiore del 19° Corpo d’Armata; il delegato finanziario Foudil; il consigliere municipale Duquesnoy; il presidente della Camera di Commercio Morard, il suo vice Simian, il direttore dei servizi amministrativi della Camera di Commercio Gillet; l’ingegnere capo della città di Algeri, Molbert; il commissario alla sicurezza generale Labat ed il vicedirettore Burtin; il direttore del Dipartimento di sicurezza Bourette; il direttore del porto, ingegner Renaud; il comandante del porto Bernard, il tenente di porto Caumartin ed i loro sottoposti; il commissario di polizia del porto, Detchessahar, ed i commissari dei quartieri vicini; numerosi armatori, spedizionieri e trasportatori.
Si cerca di impedire alle fiamme di intaccare anche gli altri serbatoi di butano presenti nel porto, ma alle sei di sera il deposito noleggiato dalla Société Navale de l’Ouest è completamente in fiamme: la temperatura è tanto elevata da far scoppiare i vetri, deformare le intelaiature metalliche, spaccare in più punti gli spessi muri di cemento armato. Le merci contenute nel magazzino contribuiscono ad alimentare l’incendio: al pianterreno vi sono 1200 colli contententi le più svariate mercanzie, compresi barili d’olio, mobili e scatole di cartone (del valore di 7,5 milioni di franchi); al primo piano ben 12.000 tonnellate di zucchero in casse, del valore di altri sette milioni e mezzo di franchi. La temperatura elevatissima fa sciogliere e incendiare lo zucchero, che prende a colare in rivoli di “lava caramellata”. Sul terrazzo dell’edificio, il rivestimento impermeabile in plastica prende fuoco e si scioglie a sua volta.
Bruciano furiosamente anche le merci di ogni tipo accatastate sul molo, ed i vagoni carichi di legname parcheggiati nelle vicinanze; il forte vento da est agevola l’espansione delle fiamme. Un altro principio d’incendio si scatena nel magazzino della compagnia Schiaffino, situato dirimpetto a quello della Société Navale de l’Ouest. Le merci accatastate sulla banchina ed incendiate intralciano il lavoro dei pompieri; per sgombrare la zona, gli scaricatori di porto fanno rotolare via centinaia di barili, mentre altri allontanano i vagoni in fiamme e le gru semoventi della Société Auto-Traction de l'Afrique du Nord rimuovono in fretta e furia numerosi serbatoi in acciaio contenenti gas liquefatti e carburanti, prima che le fiamme li possano raggiungere.

Il Saint Ambroise rompe gli ormeggi per allontanarsi dall’incendio, il lato di dritta è già stato attaccato dalle fiamme (da www.enterprises-coloniales.fr)

26 feriti vengono ricoverati presso l’ospedale civile di Mustapha, altri 18 presso quello di Parnet a Hussein-Dey; molti muoiono per le ustioni nelle ore e nei giorni seguenti.
Nel disastro rimangono uccise 25 persone (nove delle quali verranno dichiarate disperse) ed altre 39 rimangono ferite, 23 delle quali in modo molto grave. I danni materiali sono stimati in 15-20 milioni di franchi, compresi i sette milioni di franchi di zucchero che era immagazzinato nel deposito distrutto dall’incendio.
Il vicepresidente del consiglio francese Camille Chautemps ed il ministro dell’Interno Albert Sarraut invieranno un telegramma di condoglianze al governatore generale dell’Algeria, Georges Le Beau. Quest’ultimo ordinerà l’elargizione di una somma di 15.000 franchi alle famiglie delle vittime; altri 20.000 franchi verranno forniti dalla Camera di Commercio di Algeri, ed altre migliaia da donatori privati.
Nei giorni seguenti una commissione investigativa, composta dal giudice istruttore Zamouth, dal sostituto procuratore Lieutaud, dal cancelliere Greffier e dall’interprete Colas (nonché il comandante d’artiglieria Martin, l’ingegnere chimico René Gille e l’ingegner Bédier in qualità di esperti), accompagnata dal commissario Monjo (comandante la prima brigata di polizia mobile), provvede ad interrogare i testimoni, tra cui gli ufficiali e l’equipaggio del Saint Ambroise. Verrà determinato che il disastro è stato causato dall’esplosione del serbatoio n. 514.176, un contenitore cilindrico in acciaio del peso lordo di 1600 kg (1232 kg per altra fonte), contentente una tonnellata di gas butano compresso e liquefatto (23 ettolitri): durante il lasso di tempo in cui il serbatoio è stato esposto al sole vicino al molo dopo essere stato scaricato dal Saint Ambroise, il butano si è surriscaldato ed è in parte evaporato, fino a che l’enorme pressione interna ha causato il cedimento del contenitore. In condizioni normali, il contenitore non avrebbe dovuto cedere; ma secondo una testimonianza, il serbatoio incriminato era rimasto danneggiato durante le operazioni di sbarco del carico, con conseguenti lievi perdite di butano, notizia che sarebbe stata nota alle autorità portuali già dalle otto del mattino. L’ufficio doganale, informato della perdita, aveva rilasciato un’autorizzazione eccezionale agli spedizionieri affinché provvedessero a rimuovere al più presto il pericoloso serbatoio, senza stare a completare le formalità di sbarco; ma questi non erano riusciti a trovare, durante la mattina, una gru semovente per provvedere a spostare il serbatoio, essendo tutte già impegnate nelle operazioni di scarico.

Il serbatoio esploso all'origine del disastro (da www.enterprises-coloniales.fr)

Secondo un’altra versione, invece, un funzionario della Maison Butane aveva notato per primo la perdita di butano liquido dal contenitore, ed aveva pertanto chiesto ai doganieri il permesso di rimuovere il cilindro; permesso inizialmente rifiutato per ragioni burocratiche (l’impossibilità di sdoganare un solo serbatoio) e successivamente rilasciato quando ormai era giunta l’ora della pausa pranzo, il che ha reso impossibile lo spostamento immediato del contenitore (mancando anche i mezzi per provvedervi).
3 gennaio 1940
Il Saint Ambroise parte da Brest per Casablanca insieme al convoglio 19 BS, formato da altri dodici mercantili francesi (Ain el Turk, André Moyrand, Dunkerquois, Fauzon, Guilvinec, Magdalena, Nanceen, Nicole Schiaffino, Paul Emile Javary, Roubaisien, Stanasfalt, Tabarka) scortati dall’avviso-dragamine Commandant Rivière e dalle navi scorta ausiliarie Vikings, La Bônoise e La Sétoise.
10 gennaio 1940
Arriva a Casablanca.
26 gennaio 1940
Il Saint Ambroise parte da Orano con il convoglio 7 R, che comprende anche i mercantili francesi Mexphalte, Roubaisien e Rouennais ed i britannici Dorine e Melpomene.
27 gennaio 1940
Il convoglio 7 R si unisce in mare al convoglio KS. 59 (mercantile britannico Bellerock, mercantili francesi Bourges e Massis), partito da Casablanca lo stesso 27 e diretto a Brest.
1° febbraio 1940
Arriva a Brest.
7 aprile 1940
Parte da Brest con il convoglio 38 BS, che oltre al Saint Ambroise comprende altri nove mercantili francesi (Chateauroux, Charles Schiaffino, Douaisien, Dunkerquois, Fort Archambault, Marchel Schiaffino, Ophelie, Roubaisien, Tabarka) ed uno greco (Nicolaos Filinis) scortati dal cacciatorpediniere L’Adroit e dall’avviso-dragamine Chevreuil.
13 aprile 1940
Arriva a Casablanca.
23 aprile 1940
Parte da Orano con il convoglio 21 R, che oltre al Saint Ambroise comprende i mercantili francesi Artesien, Ange Schiaffino, Cambronne, Jean et Jacques, Nicole Schiaffino, Petrophalt, Roubaisien e Strasbourgeois ed i britannici British Ambassador, Forbin, Pellicula e Poseidon.
24 aprile 1940
Il convoglio 21 R si unisce in mare aperto al convoglio KS. 91 (mercantili francesi Albi, Champagne, Vivagel e Mechanicien Principal Carvin, mercantili greci Mount Ithome e Pancration, mercantile norvegese Hadrian), partito da Casablanca lo stesso 24 aprile e diretto a Brest.
30 aprile 1940
Arriva a Brest.
21 maggio 1940
Parte da Brest con il convoglio 45 B, composto oltre che dal Saint Ambroise dai mercantili francesi Bacchus, Dunkerquois, Formose, Madali, Marcel Schiaffino, Melpomene, Saint-Yves, Tabarka e Vivagel, dai britannici Flimston, Kildale ed Imperial Valley, dal greco Alexandra e dal polacco Stalowa Wola. La scorta è composta dall’avviso-dragamine L’Impéteuse e dal pattugliatore ausiliario Boréal.
6 giugno 1940
Parte da Orano con il convoglio 27 R, composto, oltre che dal Saint Ambroise, dai mercantili francesi Dauphine, Gravelines, Jean et Jacques, Lieutenant de la Tour, Marcel Schiaffino, Monique, Rhea e Tabarka e dal norvegese Davanger.
7 giugno 1940
Il convoglio 27 R si unisce in alto mare al convoglio K. 3 (mercantili francesi Lorrain, Solon e Lieutenant St. Loubert Bie, mercantili britannici Benedick e Birgitte, mercantile olandese Beursplein, mercantile greco Kolchis), partito lo stesso 7 da Casablanca e diretto a Brest.
14 giugno 1940
Arriva a Brest.
18 giugno 1940
Parte da Brest con il convoglio 51 B, che comprende oltre al Saint Ambroise altri tredici mercantili, tutti francesi (Astree, Artesien, Bougaroni, Cap-Pinede, Dauphine, Grand-Quevilly, Guilvinec, Lorraine, Port-de-Bouc, Rhone, Roubaisien, Sahel, Saint Basile), scortati dagli avvisi-dragamine Élan, Commandant Rivière e L’Impéteuse.
24 giugno 1940
Arriva a Casablanca.
17 luglio 1941
Il Saint Ambroise parte da Casablanca insieme ai mercantili Gabon e Montesquieu, scortati dal cacciatorpediniere L’Adroit (convoglio K 94).
Novembre 1942
Dopo gli sbarchi angloamericani nel Nordafrica francese (operazione Torch, 8 novembre 1942) e il passaggio agli Alleati, dopo un’iniziale reazione, delle truppe francesi di Vichy ivi stanziate, le forze italo-tedesche lanciano l’Operazione "Anton" (10-11 novembre 1942), procedendo all’occupazione della Francia meridionale e della Corsica, fino a quel momento controllate dal regime francese collaborazionista di Vichy.
Anche la flotta mercantile francese nel Mediterraneo, concentrata nei porti di Marsiglia e Berre, cade al completo in mani italo-tedesche (non così quella militare, che si autoaffonda in massa a Tolone il 27 novembre). Il 20 novembre la Germania pretende che tutti i mercantili francesi disponibili vengano messi a sua disposizione per essere impiegati per le esigenze belliche delle forze tedesche; già il giorno seguente, ad ogni modo, 900 militari tedeschi vengono inviati a Marsiglia per sorvegliare le navi francesi, a bordo delle quali sono mandate delle guardie armate, preparandosi ad impadronirsene con la forza nel caso la Francia dovesse rifiutarne la concessione.
Il presidente del consiglio di Vichy, il collaborazionista Pierre Laval, accetta verbalmente ed il 22 novembre 1942, in una lettera ad Hitler, informa quest’ultimo che 158 bastimenti mercantili francesi (112 navi da carico, 31 navi passeggeri e 16 navi cisterna), per quasi 650.000 tsl complessive, verranno messi a disposizione della Germania. Il 1° dicembre 1942 si tiene a Roma un incontro tra Karl Kaufmann ("Gauleiter" nazista di Amburgo e commissario del Reich alla Marina Mercantile), il gerarca nazista Hermann Göring, il feldmaresciallo Erwin Rommel, il maresciallo Albert Kesselring (comandante delle forze tedesche nel Mediterraneo), l’ammiraglio Arturo Riccardi (capo di Stato Maggiore della Regia Marina) ed il generale Ugo Cavallero (capo di Stato Maggiore generale delle forze armate italiane), nel quale viene decisa la spartizione tra Italia e Germania dei mercantili francesi: 83 andranno all’Italia e 75 alla Germania. Per la flotta mercantile italiana, duramente colpita dalla guerra, queste 83 navi sono una notevole boccata d’ossigeno, e permetteranno, a caro prezzo, il mantenimento dei collegamenti con la Tunisia.
L’accordo formale, detto accordo Laval-Kaufmann (dal nome di Laval e del firmatario da parte tedesca, Karl Kaufmann), verrà firmato a Parigi il 23 gennaio 1943; in base a tale impegno, il governo francese mette a disposizione dell’Asse un quarto della flotta mercantile francese del 1939. In base all’articolo 4 dell’accordo, le navi francesi devono essere in buone condizioni d’efficienza e pienamente equipaggiate; in cambio, il governo tedesco s’impegna a pagare alla Francia un indennizzo, eccezion fatta che per i viaggi verso il Nordafrica. Laval vorrebbe che le navi mantenessero bandiera ed equipaggio francese, ma la proposta viene rifiutata; vi è diffidenza verso i marinai francesi (specie dato il comportamento delle forze di Vichy nel Nordafrica francese) e, d’altro canto, sono ben pochi i marittimi francesi che desiderino navigare per conto dell’Asse.
Quando l’accordo viene firmato, comunque, la maggior parte dei mercantili francesi ha già lasciato la Francia per l’Italia, Saint Ambroise compreso.
9 dicembre 1942
Confiscato dalle forze tedesche in un porto francese e consegnato al Governo italiano.
Dicembre 1942
Giunge in Italia e viene ribattezzato Nuoro.
26 dicembre 1942
Consegnato alle ore 16 alla Società Anonima di Navigazione Adriatica, con sede a Venezia, incaricata della sua gestione. (Altre fonti affermano invece che sarebbe stato dato in gestione alla Società Anonima di Navigazione Italia, con sede a Genova, ma sembra probabile un errore). Iscritto con matricola 2F al Compartimento Marittimo di Venezia.
Non viene requisito dalla Regia Marina, né iscritto nel ruolo del naviglio ausiliario dello Stato; riceve il nome in codice "Nube".
6 marzo 1943
Il Nuoro viene incluso in un convoglio (motonave italiana Ines Corrado, piroscafi tedeschi Henri Estier e Balzac) che dovrebbe partire da Napoli per Tunisi alle 2.30 del 6 marzo, ma la partenza del Nuoro viene successivamente annullata, mentre il resto del convoglio parte come previsto (sarà completamente distrutto, in parte dagli attacchi aerei, in parte dai campi minati). Varie decrittazioni britanniche di messaggi italiani, attuate dall’organizzazione “ULTRA”, menzionano infatti il Nuoro in relazione a questo convoglio, sia il 6 marzo («l’Ines Corrado, il Balzac, l’Henri Estier e il Nuoro provenienti da Napoli dovevano giungere a Tunisi il pomeriggio del giorno 7») che il 7 marzo («Ines Corrado, Henri Estier, Balzac, la petroliera Devoli e probabilmente il Nuoro sono partiti da Napoli alle 03.00 del giorno 6. Il convoglio passerà vicino a Trapani nel cui porto sarà distaccato il Devoli. (…) Nessuna menzione del porto di arrivo del Nuoro»).
 
Un’altra immagine del Nuoro come Saint Ambroise (sullo sfondo; in primo piano il piroscafo francese Cristina Rueda in riparazione) (Hartlepool Library Service, via www.hhtandn.org)

L’affondamento

Alle otto di sera del 29 marzo 1943 il Nuoro, al comando del capitano di lungo corso Angelini, partì da Pozzuoli per il suo primo viaggio verso la Tunisia, con destinazione Biserta.
A bordo si trovavano 115 anime ed un carico di rifornimenti per le truppe italo-tedesche che combattevano in Tunisia: 850 tonnellate di provviste, 650 tonnellate di munizioni, 70 tonnellate di merci varie, 60 veicoli e quattro pezzi d’artiglieria. L’equipaggio civile era composto da 33 uomini, mentre quello militare, che contava in tutto 35 elementi, era decisamente eterogeneo: tre ufficiali, tutti italiani (il regio commissario, il commissario militare ed un sottotenente del Regio Esercito, incaricato della direzione del tiro); quattro marinai della Regia Marina, addetti alle segnalazioni; tre carabinieri; ventuno artiglieri del Regio Esercito, addetti alle mitragliere contraeree; quattro soldati tedeschi, addetti al pallone aerostatico di sbarramento.
Ai 68 civili e militari dell’equipaggio si aggiungevano inoltre 47 militari di passaggio diretti in Nordafrica: in parte erano militari italiani del 38° Autoreparto, in parte soldati tedeschi.
Per difendersi dagli attacchi aerei, il Nuoro era armato con quattro mitragliere da 20 mm; inoltre, per quel solo viaggio, erano state aggiunte anche due mitragliere contraeree di tipo tedesco, che vennero piazzate a poppa. C’era infine una difesa passiva, costituita dal già citato pallone aerostatico di sbarramento, che avrebbe dovuto intralciare la manovra di eventuali aerei attaccanti.

La traversata doveva avvenire con un convoglio lento (9 nodi) denominato «GG», insieme ai piroscafi Crema e Benevento; un quarto piroscafo, il Chieti, avrebbe inoltre fatto parte del convoglio fino a Palermo.
Mentre il Nuoro partì da Pozzuoli, le altre navi salparono da Napoli alle 19.30 di quella sera, ad eccezione del Benevento, temporaneamente trattenuto in porto da alcune non gravi avarie che ritardarono la sua partenza all’1.30 del 30 marzo. La partenza del convoglio era stata originariamente programmata per il 27 marzo, ma era stata più volte rinviata a causa del maltempo.
Lasciata Pozzuoli, il Nuoro si aggregò al resto del convoglio all’altezza di Capo Miseno.
La scorta del convoglio era formata da due torpediniere della classe Spica, la Cigno (caposcorta, capitano di corvetta Carlo Maccaferri) e la Cassiopea (capitano di corvetta Virginio Nasta), e da due cacciasommergibili tedeschi, l’UJ 2203 e l’UJ 2210. Comandante superiore in mare era il capitano di vascello Francesco Camicia, imbarcato sulla Cigno. Una terza torpediniera della stessa classe, la Clio (capitano di corvetta Carlo Brambilla), rimase a Napoli con l’incarico di scortare il Benevento quando questo fosse potuto partire.
Le prime venti ore di navigazione trascorsero senza che si avesse a registrare alcun avvenimento di rilievo. Alle quattro del pomeriggio del 30 marzo si aggregò al convoglio anche la moderna corvetta Cicogna (tenente di vascello Augusto Migliorini), partita da Trapani, che poco dopo se ne separò insieme al Chieti, la cui destinazione, a differenza delle altre navi, era Palermo; la Cicogna era stata inviata appunto a ‘prelevare’ il Chieti ed accompagnarlo nel capoluogo siciliano. Scortato il Chieti fino al porto siciliano, dove giunse alle 23.35 dello stesso 30 marzo (e dove il piroscafo venne affondato due settimane più tardi da un bombardamento aereo), la Cicogna riprese subito il mare per tornare ad unirsi al convoglio.
Quest’ultimo, intanto, aveva raggiunto Trapani all’1.45 di notte del 31 marzo, sostando in quella rada fino alle tre di notte per aspettare il Benevento. Secondo quanto scritto dal comandante Angelini nel suo rapporto, anzi, le navi raggiunsero Trapani già verso le 22 del 30 marzo: a quell’ora il Nuoro, giunto in prossimità della rada di Trapani, ricevette ordine dalla Cigno di dirigere verso lo scoglio Formica e mettervisi alla fonda; dopo un’ora il convoglio rimise in moto per raggiungere l’ancoraggio, manovra che fu portata a termine verso l’una di notte del 31 marzo.
Alle tre di notte un rimorchiatore militare si avvicinò e consegnò gli ordini per la prosecuzione della traversata; alle 3.30 arrivò l’ordine di ripartire subito e fare rotta su Biserta, pertanto il convoglio si riformò e lasciò Trapani per iniziare l’attraversamento del Canale di Sicilia.
Alle 6.30 del 31 marzo, al largo di Trapani e poco ad ovest delle Isole Egadi, raggiunse il convoglio anche il ritardatario Benevento, scortato dalla Clio e dal cacciasommergibili tedesco UJ 2207; queste ultime andarono a rinforzare la scorta del convoglio, che dieci minuti più tardi fu raggiunto anche dalla Cicogna. Alle 14.43 del 30 marzo Benevento e Clio avevano evitato con la manovra due siluri lanciati dal sommergibile britannico Tribune (tenente di vascello Stewart Armstrong Porter), una cinquantina di miglia a nord di Ustica.
Così riunito, il convoglio «GG» puntò infine su Biserta, con i piroscafi in linea di fronte. La scorta era di tutto rispetto: per proteggere tre piroscafi, erano state mobilitate tre torpediniere, una modernissima corvetta e tre cacciasommergibili, oltre ad una poderosa scorta aerea con velivoli da caccia sia italiani che tedeschi. Caposcorta era sempre la Cigno.
Tutti e tre i piroscafi del convoglio «GG» (come pure il Chieti) erano navi ex francesi, consegnate all’Italia in seguito all’occupazione della Francia meridionale; tutti e tre erano al loro primo viaggio verso la Tunisia; nessuno sarebbe mai arrivato a Biserta.
I comandi britannici erano al corrente del viaggio di questo convoglio già da giorni: la prima intercettazione da parte dei decrittatori di “ULTRA” di una comunicazione relativa alla partenza per l’Africa di quelle navi risaliva al 27 marzo, quando avevano decifrato un messaggio dal quale risultava che i mercantili NuoroCremaBeneventoCapua e Caterina Costa erano «attesi a breve scadenza in Tunisia, provenienti dall’Italia». Il 28 marzo gli specialisti di “ULTRA” avevano decrittato un’altra comunicazione che aveva rivelato che «Benevento, Nuoro e Crema avrebbero dovuto lasciare Napoli il giorno 27 per la Tunisia, tempo permettendo», e l’indomani un’altra ancora da cui era risultato che «Sono attesi i seguenti arrivi, sempre condizionati dallo stato del tempo: a Tunisi il giorno 31 verso le 23.00 Crema, Nuoro e Benevento». Il 31 marzo, infine, un’ultima intercettazione aveva permesso ad “ULTRA” di apprendere che «Crema, Nuoro e Benevento hanno lasciato Napoli alle 22.00 del giorno 29. Essi doppieranno l’isola di Marettimo alle 6.30 del 31 e procederanno per Biserta». Le forze aeronavali britanniche si erano organizzate di conseguenza.

Alle dieci del mattino del 31 marzo la Cigno comunicò a tutte le navi del convoglio che era stato avvistato un ricognitore nemico; più o meno a quell’ora il convoglio «GG» raggiunse e superò un altro convoglio diretto in Tunisia, l’«SS» (partito da Napoli alle 18 del 29 marzo e diretto a Biserta), formato dai piroscafo Aquila, Giacomo C. e Charles Le Borgne (quest’ultimo tedesco) e dalla nave cisterna Bivona, scortati dal cacciatorpediniere Lubiana, dalla torpediniera di scorta Tifone, dalla torpediniera Giuseppe Dezza e dai cacciasommergibili tedeschi UJ 2205 e UJ 2208.
Alle 13.52 venne segnalato a tutte le navi del convoglio «GG» l’avvistamento in quota di bombardieri avversari. In quel momento il convoglio si trovava una decina di miglia ad est del Banco di Skerki; otto bombardieri bimotori, identificati da parte italiana come dei Lockheed Hudson, apparvero volando ad una quota compresa tra i 2500 ed i 3000 metri, scortati da quattro o cinque caccia Lockheed P-38 “Lightning”. Sia i piroscafi che le navi scorta aprirono subito un rabbioso tiro contraereo con le loro mitragliere; nessuno dei velivoli attaccanti, tuttavia, venne colpito. I bombardieri sganciarono le bombe; sebbene il lancio risultasse centrato, nessuno degli ordigni andò a segno, ed il convoglio proseguì indenne. Numerose bombe caddero in mare a 50-100 metri dagli scafi del Nuoro e del Benevento, senza causare danni.
In realtà, i bombardieri attaccanti non erano dei Lockheed Hudson, bensì dei North American B-25 “Mitchell” (anch’essi bimotori, e di aspetto somigliante a quello degli Hudson) del 321st Bomb Group dell’USAAF. I bombardieri di questo reparto avevano già compiuto un primo “rastrello antinave” durante il mattino, quando un gruppo di “Mitchell” era decollato alle 7.45 con la scorta di caccia P-38 “Lightning” del 1st Fighter Group. Gli aerei avevano però incontrato maltempo e non avevano trovato niente, interrompendo pertanto la missione e rientrando alla base. Gli aerei che attaccarono il convoglio alle 13.52 erano invece decollati alle 13.45 (12.45 secondo le fonti statunitensi, che mostrano una differenza di un’ora rispetto a quelle italiane, evidentemente dovuta a differenze nel fuso orario); inizialmente la formazione era composta da quattordici B-25 del 321st Bomb Group, scortati da 25 caccia P-38 del 1st Fighter Group, ma sei bombardieri e tredici caccia erano tornati indietro poco più tardi.
Il resto degli aerei aveva invece avvistato il convoglio «GG» alle 12.55 (fonti statunitensi, con la già menzionata differenza di fuso orario), una quindicina di miglia a nord di Capo Bon, stimandone la composizione in due grossi mercantili (probabilmente Nuoro e Benevento) ed altre quattro navi. Gli equipaggi statunitensi ritennero erroneamente di aver colpito con una bomba uno dei grossi mercantili, e di aver mancato di poco (“near miss”) un altro mercantile di piccole dimensioni (probabilmente il Crema, il più piccolo dei tre piroscafi). Sebbene il caposcorta Camicia avesse affermato nel suo rapporto che «gli aerei da caccia nazionali e alleati [tedeschi] non hanno avuto contatti con aerei nemici» perché al momento dell’attacco stavano volando a bassa quota, in realtà i “contatti” ci furono eccome: i piloti degli aerei americani riferirono di essere stati attaccati da un totale di sei caccia Messerschmitt Bf 109, tre Focke-Wulf Fw 190 e due Messerschmitt Bf 110. I mitraglieri dei B-25 rivendicarono il danneggiamento di un caccia tedesco ed il probabile abbattimento di un altro; da parte tedesca, i piloti dei Messerschmitt del 7./Jagdgeschwader 53 ritennero erroneamente di aver abbattuto tre B-25 (uno alle 14.25, dal sottotenente Karl Vockelmann, 25 km a nordovest di Capo Bon; uno alla stessa ora, dal sottotenente Walter Hicke, 30 km a nordovest di Capo Bon; uno alle 14.27, dal sergente Günter Seeger, 35 km a nordovest di Capo Bon). In realtà nessun aereo, né statunitense né tedesco, andò perduto in questo scontro.
Alle 14.24 le navi del convoglio avvistarono l’anziana torpediniera Enrico Cosenz (capitano di corvetta Emanuele Campagnoli), distaccata alle 11.25 di quel mattino dal caposcorta del convoglio «RR» (motonavi Belluno e Pierre Claude, in navigazione da Napoli a Tunisi con la scorta delle torpediniere FortunaleAntares e Sagittario e di due cacciasommergibili tedeschi), che precedeva il «GG» di una quarantina di miglia, con il compito di rafforzare ulteriormente la scorta di quest’ultimo. Raggiunto il convoglio, la Cosenz funse inoltre da unità pilota sulla rotta di Zembretta; alle 15.45 i piroscafi ricevettero l’ordine di modificare la formazione, passando dalla linea di fronte alla linea di fila, e subito dopo vennero informate di un nuovo avvistamento di velivoli avversari.

Alle 15.57, infatti, quando le navi si trovavano già in linea di fila per imboccare la rotta obbligata di Zembretta, si verificò un nuovo poderoso attacco, da parte di un totale di 31 tra bombardieri ed aerosiluranti angloamericani. Ciò secondo le stime italiane; da parte statunitense risulta che questo attacco fu portato da una formazione di quindici bombardieri B-25 Mitchell del 321st Bomb Group, al loro terzo ed ultimo “rastrello antinave” della giornata, scortati da venticinque caccia P-38 del 95th Squadron dell’82nd Fighter Group. Gli aerei erano decollati alle 13.45 (12.45 per le fonti statunitensi); uno dei B-25 e tre dei P-38 erano però dovuti rientrare alla base poco dopo il decollo. Gli altri avevano avvistato un convoglio al largo di Zembra verso le 15.50 (14.50 per le fonti statunitensi), apprezzandone la composizione come quattro cacciatorpediniere, un trasporto, un pontone Siebel e quattro chiatte, e poco lontano una nave scorta e quattro grossi mercantili, uno dei quali a rimorchio. In realtà, le navi avvistate erano quelle del convoglio «GG».
La scorta aerea italo-tedesca reagì prontamente: un singolo bombardiere Junkers Ju 88 del II./Kampfgeschwader 76 riuscì ad attirare su di sé l’attenzione di diverse squadriglie di P-38, portandoli lontano dai bombardieri; i piloti dell’82nd Fighter Group si ritrovarono sotto attacco da parte di un totale di dieci Messerschmitt Bf 109, uno Ju 88 ed alcuni caccia italiani (numero e tipo non specificato). Gli aerei dell’Asse scompaginarono la formazione dei bombardieri, costringendo molti di essi a scaricare le loro bombe in mare ed a ritirarsi senza attaccare; i restanti B-25 attaccarono in due gruppi, dei quali uno effettuò il suo attacco da appena 30 metri di quota, secondo la tattica dello “skip bombing” (nel quale le bombe venivano sganciate dal bombardiere a bassissima quota ed a ridotta distanza dalla nave attaccata, in modo tale da rimbalzare sulla superficie dell’acqua, come un sasso tirato a “rimbalzello”, e colpissero la nave), mentre l’altro sganciò le bombe da alta quota, circa 2440 metri.

Secondo il rapporto del caposcorta Camicia, i velivoli avversari attaccarono il convoglio in tre ondate, in rapida successione: la prima era composta da otto bombardieri Mitchell (di nuovo erroneamente identificati, da parte italiana, come degli Hudson), scortati da caccia “Lightning”, che sganciarono parecchie bombe da circa 2500 metri di quota, senza colpire niente; la seconda era formata da otto bombardieri e quattro aerosiluranti, che attaccarono dalla direzione del sole (ovest, cioè dal lato di dritta del convoglio) e sganciarono svariate bombe e qualche siluro, di nuovo senza colpire nulla.
Fu la terza ed ultima ondata, che seguì la seconda a brevissimo intervallo, a fare il danno: sei bombardieri e cinque aerosiluranti attaccarono il convoglio da entrambi i lati. Secondo il rapporto del caposcorta Camicia, il tiro contraereo delle navi riuscì ad abbattere due dei velivoli attaccanti (secondo quanto riferito allo Stato Maggiore della Kriegsmarine dagli ufficiali tedeschi di collegamento presso Supermarina, invece, le navi dell’Asse avrebbero rivendicato il probabile abbattimento di ben sei aerei, uno da un cacciasommergibili tedesco e gli altri cinque dalle unità italiane), mentre un terzo, un quadrimotore, fu abbattuto dai caccia della Luftwaffe di scorta aerea, che però subirono a loro volta la perdita di due dei loro aerei nei duelli combattuti sul cielo del convoglio.
Durante la battaglia aerea combattuta sul cielo del convoglio, i piloti dei P-38 statunitensi rivendicarono l’abbattimento di uno Ju 88 e di un Messerschmitt Bf 109 (rispettivamente da parte dei sottotenenti Marion Moore e Ralph C. Embrey, entrambi una ventina di miglia a nord-nord-est di Cap Zembra), mentre i mitraglieri dei B-25 (tre del 445th Bomb Squadron ed uno del 448th) ritennero di aver certamente abbattuto tre Messerschmitt Bf 109 ed un Focke-Wulf Fw 90, di aver probabilmente abbattuto un altro Bf 109 e di averne danneggiati altri tre.
In realtà, le perdite complessive da parte tedesca ammontarono all’abbattimento di un singolo Messerschmitt Bf 109 (il WNr 15039 del caporale Konstantin Benzien del 4./JG. 27, abbattuto da caccia nemici 20 km a nord di Zembra e rimasto ferito) e di uno o due Junkers Ju 88 del 4./Kampfgeschwader 76 (questi ultimi andarono perduti mentre erano impegnati in compiti di scorta convogli; uno fu abbattuto alle 15.50, quasi certamente nel corso dei combattimenti aerei attorno al convoglio «GG», mentre meno sicuro è il coinvolgimento dell’altro Ju 88). I caccia tedeschi del II./Jagdgeschwader 27 e del III./Zerstörergeschwader 1 rivendicarono l’abbattimento di due P-38 e due B-25 (più precisamente, un P-38 dal sottotenente Hans Lewes del 5./JG 27, alle 15.58; un altro dal sergente Bernard Schneider dello stesso reparto; un B-25 dal caporale Hans Reiter del 4./JG 27; un presunto Lockheed Ventura – altro bimotore simile al B-25 – dal tenente Walter Lardy del III./ZG 1; i primi tre alle 15.58 ed il quarto alle 16, tutti 20 km a nordest di Zembra).
In effetti, le fonti statunitensi riconoscono la perdita di due P-38 (quelli dei sottotenenti Joseph R. Sheen jr. e Francis M. Molloy, entrambi rimasti uccisi), ad ovest di Zembra, e di due B-25 del 448th Bomb Group, dei quali uno (il 41-13205 del tenente Charles A. McKinney, rimasto ucciso con sei uomini del suo equipaggio) abbattuto alle 16.14 da caccia nemici, e l’altro (il 41-13209 “Trouble” del tenente Robert G. Hess, morto insieme a cinque uomini del suo equipaggio) abbattuto alle 15.55 dal tiro contraereo delle navi.

Nonostante le perdite inflitte agli attaccanti, questa volta un siluro – o così si ritenne da parte italiana – andò a segno, colpendo il Nuoro sul lato sinistro e scatenando un incendio.
Di siluro parlano le fonti italiane; ma libro "A History of the Mediterranean Air War, 1940-1945", Vol. III "Tunisia and the End in Africa, November 1942-May 1943" non fa alcuna menzione dell’impiego di aerosiluranti in questo attacco. Si può fare questa ipotesi: gli “aerosiluranti” di cui parlano i rapporti italiani, probabilmente, erano in realtà i bombardieri che attaccarono a bassa quota secondo la citata tattica dello “skip bombing”, ed i “siluri” erano in realtà le bombe da essi sganciate. Il metodo dello “skip bombing”, infatti, era stato introdotto nel Mediterraneo da poco tempo, e gli equipaggi italiani probabilmente non ne erano ancora a conoscenza; l’avvicinamento al bersaglio a bassa quota e lo sgancio dell’ordigno a ridotta distanza erano tipici degli attacchi di aerosiluranti, e per marinai abituati a veder piovere le bombe dall’alto, direttamente sulle loro navi, una bomba che arrivava “di rimbalzo” contro il fianco della nave poteva essere scambiata per un siluro, specialmente nella concitazione di un attacco, ed a maggior ragione quando lo “skip bombing” avveniva in contemporanea con il bombardamento “tradizionale” da parte degli altri B-25. Una fonte secondaria afferma che il Nuoro sarebbe stato silurato da velivoli britannici della Fleet Air Arm decollati da Malta, ma sembra probabile un errore, non risultando che aerei britannici abbiano preso parte a questo attacco. Sia il rapporto del comandante del Nuoro che il diario della Divisione Operazioni dello Stato Maggiore della Kriegsmarine, infine, affermano che il piroscafo sarebbe stato colpito da due ordigni: una bomba ed un siluro.
I piloti statunitensi – che durante l’attacco notarono che i tre mercantili erano dotati di palloni aerostatici di sbarramento, per ostacolare gli aerei che avessero attaccato a bassa quota – furono estremamente ottimistici nel valutare gli effetti dei loro attacchi: i piloti dei bombardieri che avevano attaccato con lo “skip bombing” ritennero di aver messo tre bombe a segno su un mercantile, che era stato visto appruato dopo l’attacco; i piloti dei B-25 che avevano sganciato le loro bombe da 2400 metri ritennero di aver affondato un mercantile ed incendiato altri tre, cioè uno in più del totale dei piroscafi effettivamente presenti. In realtà, l’unica nave colpita fu il Nuoro, che rimase probabilmente vittima dello “skip bombing”.

Da parte sua, il comandante Angelini del Nuoro scrisse nel suo rapporto che gli aerei nemici si avvicinarono a volo radente, facendo fuoco con le loro mitragliatrici; il Nuoro rispose col tiro delle proprie mitragliere, ma dopo pochi secondi il piroscafo venne scosso da due violentissime esplosioni, a breve intervallo l’una dall’altra. Tutti i vetri andarono in pezzi, comprese le lampadine della plancia. Secondo Angelini, gli immediati accertamenti da parte dell’equipaggio permisero di appurare che una delle esplosioni era stata causata da una bomba caduta sul lato di dritta, tra lo scafo ed una delle lance di salvataggio, mentre l’altra era stata provocata dallo scoppio di un siluro, che aveva anch’esso colpito il Nuoro sulla dritta, in corrispondenza della sala macchine. Il comandante del Nuoro diede l’ordine di fermare le macchine, ma non ci fu verso di farlo giungere a destinazione: il telegrafo di macchina, infatti, era fuori uso, ed il tubo portaordini era stato divelto dallo spostamento d’aria. Tutte le comunicazioni tra la plancia e la sala macchine erano così interrotte, e le motrici del Nuoro continuavano a spingere la nave in avanti, mentre dalla stiva numero 3, interamente scoperchiata, si alzavano fumo e fiamme.
All’interno di quella stiva si trovavano dieci vagoni di munizioni: entro breve le fiamme li avrebbero raggiunti, e la nave sarebbe saltata in aria. Il comandante Angelini ordinò pertanto a tutti di correre a poppa e buttarsi in acqua; egli stesso si diresse da quella parte insieme al primo ufficiale. Arrivati a poppa, i due ufficiali notarono uno zatterino sul tetto di un veicolo, pertanto lo asportarono e lo buttarono in mare, dopo di che si tuffarono a loro volta, lo raggiunsero nuotando contro la corrente, e vi si arrampicarono a bordo. Un marinaio che li aveva seguiti, Giacalone, non riuscì a fare lo stesso: la deriva lo spinse via, lontano dallo zatterino.
Mentre il resto del convoglio proseguiva verso Biserta, la Cicogna venne distaccata a prestare assistenza al piroscafo danneggiato; abbandonato dall’equipaggio, il Nuoro saltò in aria alle 16.34, 28 miglia a nord di Zembra (per altra fonte, 15 miglia a nordest di Zembretta).

Il comandante Angelini stimò che fossero passati una decina di minuti tra il momento in cui si tuffò in mare e quello in cui il Nuoro eruppe in un’«esplosione formidabile» e scomparve in pochi istanti.
A raccogliere i superstiti rimase la Cicogna: avvicinatasi ai naufraghi, la corvetta mise a mare una piccola imbarcazione con a bordo due marinai, che iniziarono a raccogliere gli uomini dal mare. Dal suo zatterino, Angelini ed il primo ufficiale videro con gioia che anche il marinaio Giacalone era stato issato a bordo dell’imbarcazione.
Anche Angelini chiese soccorso alla lancia della Cicogna, ma la piccola imbarcazione, già piena di naufraghi fino al limite della capacità, non poté prenderli a bordo: prese invece a rimorchio il loro zatterino, intorno al quale si raccolsero altre zattere e naufraghi. Tutti credevano che presto sarebbero stati recuperati dalla corvetta, ma li attendeva una cocente delusione: dopo mezz’ora, infatti, videro la Cicogna avvicinarsi, pensarono per prenderli a bordo; ma giunta a duecento metri dalle zattere, la corvetta si fermò, richiamò la lancia, ne imbarcò gli occupanti e poi se ne andò, lasciando la lancia vuota alla deriva, senza raccogliere gli uomini sulle zattere né comunicare loro alcunché.
Secondo il volume USMM “La difesa del traffico con l’Africa Settentrionale dal 1° ottobre 1942 alla caduta della Tunisia”, ciò che era successo era che la Cicogna aveva dovuto interrompere le operazioni di salvataggio perché il forte vento la stava facendo scarrocciare verso una zona minata; confrontando questa notizia con il rapporto del comandante Angelini, tuttavia, non è molto chiaro perché il salvataggio non fosse proseguito a mezzo della lancia, che per giunta aveva già a rimorchio alcune zattere i cui occupanti, inspiegabilmente, non vennero recuperati. Fatto sta che la Cicogna, dopo aver ripescato 44 superstiti del Nuoro (compresi diversi feriti), cioè meno della metà degli uomini che si trovavano in mare o sulle zattere, lasciò la zona e fece rotta su Trapani, dove arrivò alle 2.15 del 1° aprile; in mare rimasero decine di altri naufraghi, abbandonati ad un passo dalla salvezza, per i quali iniziava una terribile odissea.

Lo zatterino su cui si trovavano il comandante Angelini ed il primo ufficiale, insieme ad altri naufraghi, versava in condizioni tutt’altro che buone: di fabbricazione francese, era privo di dotazioni d’emergenza, acqua compresa, e per giunta imbarcava acqua sia perché era stato forato da colpi di mitragliatrice e da schegge durante l’attacco aereo, sia perché durante l’imbarco delle merci a Livorno era stato danneggiato ad un cassone d’aria.
Nel pomeriggio il mare rimase leggermente mosso, ma verso sera cominciò a diventare via via più agitato, fino a raggiungere nella notte forza 6-7. La situazione dei naufraghi, in balia delle onde su quei piccoli galleggianti, divenne grave: zattere e zatterini iniziarono a disperdersi, alcuni dei loro occupanti furono gettati in mare. Così passarono ventiquattr’ore, l’intera giornata del 1° aprile. Il comandante Angelini rivide anche la lancia della Cicogna, lasciata da quest’ultima a circa 600-700 metri, vuota ed inutile.
Giunse il 2 aprile: quel giorno il primo ufficiale spirò, “molto probabilmente per esaurimento”, scrisse Angelini. “Pensai che di tanti, eravamo rimasti in cinque, quando mi accorsi che anche un altro naufrago si era spento”: si trattava di un autiere, rannicchiato, che sembrava addormentato. All’alba, tuttavia, i naufraghi si resero conto di trovarsi ad appena otto miglia dalla costa di Pantelleria: al contempo il vento da ponente si era disposto a greco, sospingendo la zattera verso la costa, che era verso sud. Per favorire lo scarroccio in direzione della terra, gli occupanti dello zatterino asportarono due doghe dal fondo del galleggiante e vi issarono due salvagente, in modo che fungessero da vela.
Tra mezzogiorno e l’una lo zatterino venne avvistato da un idrovolante italiano, che lo sorvolò a più riprese; dopo mezz’ora, infine, sopraggiunsero un MAS italiano ed una motosilurante tedesca. Fu quest’ultima a raccogliere finalmente il comandante Angelini e gli altri occupanti della sua zattera, dopo più di quarantatrè ore trascorse alla deriva.
La Schnellboot portò i naufraghi a Pantelleria, dove Angelini ed i compagni vennero ricoverati nella sezione chirurgica dell’ospedale della Regia Marina: qui si trovavano già ricoverati altri naufraghi del Nuoro, recuperati in precedenza, tra cui il fuochista Bosazzi ed i marinai Seppini, Verboso e Milanese. Questi raccontarono la loro storia: dopo che Angelini aveva ordinato di abbandonare la nave, i quattro avevano tentato di ammainare la lancia di sinistra, ma quando l’imbarcazione aveva toccato l’acqua, con il Nuoro ancora in movimento ad elevata velocità, aveva iniziato subito ad imbarcare acqua, mandando in tensione tutte le manovre correnti. Ad evitare il peggio era stato il pronto intervento del marinaio Seppini, che aveva tagliato le barbette d’accosto e la vetta prodiera del paranco a colpi d’accetta. I quattro marittimi avevano poi vuotato la lancia dell’acqua imbarcata ed avevano issato a bordo sette militari finiti in mare, dopo di che le loro traversie non erano state molto diverse da quelle della zattera del comandante Angelini, fino al salvataggio finale.

Alle 11.45 del 10 aprile i sopravvissuti dell’equipaggio civile ricoverati a Pantelleria partirono in aereo per Castelvetrano, dove atterrarono a mezzogiorno e mezzo; raggiunsero poi Palermo in treno, e qui si divisero, ognuno per la propria destinazione.

Secondo il già citato volume dell’Ufficio Storico della Marina Militare, furono in tutto 50 i naufraghi del Nuoro tratti in salvo da unità minori inviate sul posto dopo la partenza della Cicogna. Ciò significherebbe che in totale i superstiti del Nuoro sarebbero stati 94 (44 recuperati dalla Cicogna e 50 dalle unità minori), mentre le vittime – dato un totale di 115 uomini imbarcati – sarebbero state 21.
Tuttavia, secondo il sito “Giornale Nautico Parte Prima”, basato in massima parte su documenti dell’archivio della società Adriatica, su 33 uomini che componevano l’equipaggio civile del Nuoro soltanto in undici si sarebbero salvati: gli altri 22 sarebbero stati dichiarati dispersi o deceduti. Ciò appare evidentemente in contrasto con un bilancio di 21 vittime, sia perché risulterebbe esservi stata almeno una vittima in più, sia perché sembra difficile credere che, a fronte della morte dei due terzi dell’equipaggio civile, non vi siano state vittime tra l’equipaggio militare ed i militari di passaggio.

Neanche Crema e Benevento giunsero a destinazione: nelle prime ore del 1° aprile, infatti, i due piroscafi vennero attaccati da motosiluranti britanniche, che affondarono il Crema e danneggiarono il Benevento tanto gravemente che questo, dopo essere stato portato ad incagliare, venne considerato perduto.
Per altri quattro giorni, dopo la distruzione del convoglio «GG», “ULTRA” continuò ad intercettare e decifrare altre comunicazioni italiane dalle quali i britannici poterono ricostruire l’accaduto; il 3 aprile i decrittatori britannici poterono compilare un dispaccio nel quale, sulla scorta delle decrittazioni dei giorni precedenti, riassumevano la sorte del convoglio («Il Nuoro è stato affondato da attacchi aerei a circa 25 miglia a nord-nord-est di Zembretta alle 17.00 del 31. Il Crema è stato colato a picco da motosiluranti britanniche a 9 miglia a sudest dell’Isola di Cani alle 23.59 del 31. Il Benevento è stato silurato nello stesso attacco ed è stato portato ad incagliare a Capo Zebib a 8 miglia a est di Biserta»).


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