domenica 15 marzo 2020

Marghera

La Marghera (g.c. Mauro Millefiorini)

Piroscafo cisterna di 4530,53 tsl e 2732 tsn, lunga 107,40 metri, larga 15,30 e pescante 9,08.
Di proprietà della Società Italiana Petroliere di Oriente, avente sede a Roma, ed iscritto con matricola 192 al Compartimento Marittimo di Roma; nominativo di chiamata IBRU.

Breve e parziale cronologia.

20 settembre 1899
Varata come britannica Bloomfield (numero di costruzione 125) nel cantiere di Willington Quay (North Tyneside, Newcastle) della Tyne Iron Shipbuilding Company Ltd.
21 ottobre 1899
Completata come Bloomfield per la compagnia Hunting & Son di Newcastle, e consegnata dopo le prove in mare. Stazza lorda e netta risultano originariamente di 4531 tsl e 2733 tsn (secondo altra fonte, invece, 4455 tsl e 2869 tsn), portata lorda 6000 tpl; la velocità massima è di 11,5 nodi (ma alle prove in mare ha raggiunto i 12,1 nodi).
La Hunting & Son, nota anche come Northern Petroleum Tank Steamship Company, è stata fondata pochi anni prima dagli armatori britannici Charles Hunting (padre) e Charles Samuel Hunting (figlio) di Newcastle, intenzionati ad entrare nel mercato del trasporto di idrocarburi con navi cisterna; la Bloomfield, insieme alle gemelle Aureole ed Oilfield (anch’esse costruite dalla Tyne Iron), è stata costruita sul modello della Duffield, prima petroliera della Hunting & Son (ed in assoluto una delle prime navi cisterna costruite nel Regno Unito), costruita dai cantieri della Tyne Iron nel 1893-1894. Tutte le petroliere della compagnia, con l’eccezione dell’Aureole, saranno battezzate con nomi caratterizzati dal suffisso “-field”.
29 gennaio 1904
Mentre la Bloomfield è in navigazione verso Philadelphia, al comando del capitano Lowe, il marinaio William Manning si toglie la vita tuffandosi in mare durante una tremenda burrasca.
Luglio 1914
Trasferita alla neocostituita Hunting Steamship Company Ltd., sempre con sede a Newcastle, restando in gestione alla Hunting & Son.
ca. 1916-1917
Durante la prima guerra mondiale, la Bloomfield viene requisita dall’Ammiragliato britannico ed impiegata per conto della Royal Navy.
7 gennaio 1917
Durante un viaggio da Port Arthur a Kirkwall, la Bloomfield viene fermata ed ispezionata al largo della Scozia dall’incrociatore ausiliario britannico Avenger, che la lascia proseguire dopo aver verificato che a bordo tutto è regolare.
1925
Trasferita alla Field Tank Steamship Company Ltd. di Newcastle, restando sempre in gestione alla Hunting & Son (la Field S. S. Company è un’altra delle loro controllate).
12 dicembre 1928
Acquistata dalla Società Anonima Imprese Navali & Affini, con sede a Venezia, e ribattezzata Marghera. Porto di registrazione Venezia, nominativo di chiamata NXHL.
1932
La compagnia proprietaria cambia ragione sociale in Compagnia Industrie Marittime Affini Roma (C.I.M.A.R.), sempre con sede a Venezia. La stazza netta viene ritoccata da 2733 tsn a 2732 tsn.
1934
Cambia il nominativo di chiamata: IBRU, invece di NXHL.
1935
Trasferita alla Società Italiana Petroliere d’Oriente, con sede a Venezia; in gestione a G. Castaldi.
1937
La Società Italiana Petroliere d’Oriente cambia sede, trasferita da Venezia a Rodi.
1938
Passa in gestione al capitano G. Folcini/Agenzia Marittima Italiana, restando di proprietà della Società Italiana Petroliere d’Oriente.
 
La Marghera con il precedente nome di Bloomfield (Coll. Clive Ketley, via www.tynebuiltships.co.uk)

Chisimaio

Quando l’Italia entrò nella seconda guerra mondiale, il 10 giugno 1940, la Marghera si trovava in navigazione nell’Oceano Indiano.
La sua situazione rispecchiava quella di altre duecento e più navi mercantili italiane, sorprese dalla dichiarazione di guerra nei mari di tutto il mondo: con gli accessi del Mediterraneo saldamente in mano britannica, il rientro in Italia era fuori discussione. La Royal Navy controllava gli oceani, ed era soltanto questione di tempo prima che la Marghera venisse intercettata da qualche nave od aereo di sua maestà; era dunque imperativo raggiungere il più vicino porto amico.
Per la vecchia pirocisterna, quest’ultimo era rappresentato da Chisimaio, nella colonia italiana della Somalia: e fu dunque verso questo porto che la Marghera fece rotta.

Chisimaio, in somalo Kismaayo e Kismayu nella lingua dei Bagiuni, la minoranza che abita tale regione, è la città principale dell’Oltregiuba, la regione più sudoccidentale della Somalia, confinante con il Kenya. Nel 1940, questa città rappresentava il terzo centro della Somalia italiana per importanza economica e sociale: insieme a quello di Mogadiscio, il suo era il porto principale della colonia, oltre che la sede dell’unica, per quanto modesta, base navale italiana in Somalia. Qui aveva sede il Comando della Marina in Somalia, retto dal capitano di vascello Ugo Fucci.
Non sorprende quindi che sia stato proprio Chisimaio il porto in cui confluirono tutte le navi mercantili italiane che l’ingresso dell’Italia nel secondo conflitto mondiale, il 10 giugno 1940, sorprese in Somalia o nei mari vicini.
All’atto della dichiarazione di guerra, si trovavano a Chisimaio cinque navi mercantili italiane e tre tedesche (i piroscafi UckermarkAskari e Tannenfels, oltre al rimorchiatore Kionga), queste ultime bloccate in Somalia fin dal 1939 (si erano rifugiate in quel porto amico per scampare alla cattura da parte della Royal Navy, subito dopo l’inizio del conflitto); ad esse si aggiunsero in seguito altre quattro navi da carico e due petroliere, sorprese dallo scoppio della guerra in alto mare e che avevano trovato in Chisimaio il rifugio più vicino.
Una delle due petroliere che si rifugiarono a Chisimaio dopo la dichiarazione di guerra era appunto la Marghera. L’altra era la Pensilvania, mentre i restanti mercantili italiani erano i piroscafi misti Adria e Somalia, i piroscafi da carico CarsoIntegritas, ManonSavoia ed Erminia Mazzella, la motonave da carico Duca degli Abruzzi ed il piroscafo passeggeri Leonardo Da Vinci.
Tutte e quattordici le navi avevano a bordo considerevoli carichi di merci di valore; essendo evidente che non avrebbero potuto trasportarli da nessuna parte (la Marina britannica controllava gli oceani, e la terra amica più vicina distava migliaia di miglia), il Comando Marina di Chisimaio diede ordine di sbarcare ed immagazzinare a terra le merci di maggior interesse militare e quelle più deperibili.
Essendo i bastimenti costretti ad un periodo indefinibile di forzata immobilità nel porto somalo, anche la presenza a bordo del grosso degli equipaggi risultava superflua; di conseguenza, venne deciso di mantenere a bordo solo i marittimi indispensabili per la custodia, mentre il resto del personale venne sbarcato ed adibito ad incarichi a terra, di natura sia civile che militare.
Pur nella loro immobilità, i mercantili poterono svolgere un ruolo utile almeno nel decentramento delle riserve di nafta disponibili a Chisimaio. I serbatoi principali della base, tre per complessive 15.000 tonnellate di capienza, si trovavano tutti sull’isola dei Serpenti (la maggiore dell’arcipelago delle Isole Giuba o Bajuni, oggi unita alla terraferma), antistante il porto; nel timore che un unico attacco aereo ben centrato potesse distruggere tutte le riserve di carburante, si decise di travasare parte di quella nafta nei serbatoi dei mercantili all’ormeggio, in modo da disperderla e ridurre i danni che una singola incursione aerea avrebbe potuto causare.

I mesi che seguirono furono piuttosto monotoni. Tre giorni dopo l’entrata in guerra, il 13 giugno 1940, Chisimaio subì il suo primo bombardamento aereo: alcuni bombardieri Bristol Blenheim attaccarono la base volando a bassa quota, ma l’immediata reazione delle batterie contraeree li costrinse ad allontanarsi e sganciare le bombe lontano da obiettivi d’interesse militare. Questa incursione fu seguita da moltissime altre, con notevole frequenza, negli otto mesi che intercorsero tra l’inizio della guerra e la caduta della Somalia; ma le difese contraeree della base reagirono sempre efficacemente, e gli aerei attaccanti furono sempre costretti a tenersi a distanza, senza mai riuscire a causare danni (difatti, nessuna delle 14 navi ormeggiate a Chisimaio in quel periodo fu mai colpita da aerei).
Alle incursioni aeree si aggiunsero anche frequenti “comparse” di incrociatori: con una certa regolarità, un incrociatore britannico si presentava nelle acque antistanti Chisimaio, ma la minaccia non si traduceva quasi mai in un vero e proprio attacco. L’incrociatore si limitava a defilare lungo la costa, tenendosi appena fuori dal limite della gittata delle batterie costiere italiane, senza aprire il fuoco. Probabile scopo di queste “apparizioni” era di scoraggiare gli spostamenti di naviglio tra Chisimaio e gli altri porti della Somalia, ma in realtà il traffico – pressoché indispensabile per i collegamenti tra i porti, dato il cattivo stato delle strade e la carenza di automezzi e copertoni – tra Chisimaio, Mogadiscio e gli altri porti minori (Burgao, Dante e Brava) venne sempre effettuato senza problemi, perlopiù con naviglio minore, regolando le partenze in modo che avvenissero nei periodi di tempo che trascorrevano tra un’“incursione” e l’altra (la cui cadenza, come detto, poteva essere stimata con una certa regolarità). Sovente, su richiesta del Comando Marina, l’Aeronautica inviò qualcuno dei pochi aerei disponibili in Somalia ad attaccare gli incrociatori, ritenendo in più di un’occasione di averli colpiti (dopo i primi attacchi aerei, gli incrociatori iniziarono a presentarsi dinanzi a Chisimaio soltanto verso il tramonto, così da poter approfittare dell’arrivo del buio per potersi allontanare senza essere attaccati).

Ben pochi eventi interruppero la monotonia della vita di Chisimaio. Nel novembre 1940 giunse nel porto somalo il piroscafo giapponese Jamamari Maru (il Giappone era all’epoca ancora neutrale, sebbene legato ad Italia e Germania dal Patto Tripartito), carico di 8000 tonnellate di benzina per aerei, copertoni, camere d’aria, zucchero e riso; la nave nipponica si trattenne a Chisimaio per otto giorni, mettendo a terra il suo carico, per poi ripartire. I materiali così ricevuti vennero trasferiti a Mogadiscio via mare, con il Somalia, la Duca degli Abruzzi e mezzi minori.
Pochi giorni dopo, il 1° dicembre 1940, giunse a Chisimaio il piroscafo jugoslavo Durmitor: carico di sale, era stato catturato dalla nave corsara tedesca Atlantis e mandato a Mogadiscio con un equipaggio di preda tedesco e numerosi prigionieri appartenenti agli equipaggi di altre navi affondate dall’Atlantis. Giunse a Chisimaio dopo un travagliato viaggio di una settimana, durante il quale aveva esaurito tutto il carbone ricevuto a Mogadiscio; equipaggio e prigionieri vennero sbarcati, e la nave fu accantonata in attesa che si decidesse cosa farne (la Jugoslavia era, all’epoca, ancora neutrale).
Il 10 dicembre la ricognizione aerea su Chisimaio fu più intensa del solito, ed al tramonto un incrociatore pesante si presentò nelle acque antistanti il porto e, a differenza del solito, ridusse rapidamente le distanze rispetto alla costa ed iniziò a sparare contro le navi ancorate. La batteria dell’Isola dei Pescicani (Mtanga Ya Papa o Bishikaani nella lingua locale: la seconda per dimensioni delle Isole Giuba, situata all’estremità opposta della baia di Chisimaio rispetto all’Isola dei Serpenti) reagì subito, inquadrando l’incrociatore alla terza salva; a quel punto, la nave nemica cessò il fuoco e se ne andò, senza aver causato danni.

Alla fine del dicembre 1940 divenne evidente che i britannici stavano preparandosi a lanciare un’offensiva dal Kenya contro la Somalia. Chisimaio, prevedibilmente, sarebbe stata uno dei primi obiettivi.
Le difese sul fronte a terra di Chisimaio erano estremamente carenti: il retroterra della base era un’enorme distesa di folta boscaglia, con una conformazione geografica che mal si prestava alla difesa, e l’unica difesa presente allo scoppio del conflitto era un reticolato di alcuni chilometri, realizzato nel 1935 ed ormai deterioratosi (in più di un punto, gli indigeni avevano persino aperto dei varchi per permettere il passaggio del bestiame). Uniche truppe dell’Esercito destinate a presidiare queste modeste difese erano due batterie campali in postazione fissa ed un battaglione di ascari; alcune delle batterie della Marina avevano campo di tiro verso il retroterra, ma la maggior parte poteva tirare solo verso il mare, a contrasto di eventuali sbarchi nemici, perché compito della Marina era la sola difesa del fronte a mare, mentre quella del fronte a terra spettava all’Esercito. Il comandante del Comando Marina di Massaua aveva cercato di rimediare in parte a queste deficienze, ma non aveva potuto fare molto, se non ordinare la realizzazione di ulteriori reticolati, di trincee e di postazioni di mitragliatrici con il poco materiale disponibile.
Con il profilarsi dell’imminente invasione britannica, il Comando dello Scacchiere Giuba (retto dal generale Carlo De Simone) fece iniziare lavori per rafforzare le difese di Chisimaio: si cominciò a scavare un fossato anticarro che doveva circondare completamente la piazzaforte, oltre che a realizzare difese passive ed anticarro. Il Comando Marina, per parte sua, destinò alcune compagnie di marinai alla difesa di alcuni settori del fronte a terra, fece riposizionare alcune mitragliere contraeree pesanti per impiegarle anche come armi anticarro, e realizzò improvvisati mezzi anticarro facendo montare su affusti collocati su autocarri le canne da 25 mm delle batterie per i tiri ridotti da esercizio.
Nell’ipotesi, fin troppo realistica, che Chisimaio sarebbe potuta cadere, ci si preparò anche a distruggere tutto ciò che sarebbe potuto tornare utile al nemico: tutte le navi mercantili, in particolare, vennero dotate di cariche esplosive specificamente preparate in modo da affondarle a colpo sicuro e rendere impossibile il recupero.
I bastimenti che erano in condizioni migliori, tali da poter affrontare una lunga navigazione, vennero invece preparati a salpare il prima possibile. Venne reimbarcata la parte di equipaggi necessaria alla navigazione, e si procedette, nei limiti del possibile, ad una parziale pulizia delle carene; le navi scelte per questo tentativo di fuga vennero inoltre rifornire di provviste, acqua e carburante. Il Tannenfels era già partito il 31 gennaio diretto in Francia, dove giunse violando il blocco britannico.
Le merci sbarcate in precedenza dalle navi, per non farle cadere in mano nemica, vennero trasferite ad Addis Abeba, via terra, ed a Mogadiscio, via mare; lo stesso si fece con parte della nafta contenuta nei serbatoi della base navale.
Comandante della Piazza Militare Marittima di Chisimaio era il capitano di vascello Ugo Fucci, comandante della Marina in Somalia; essendovi però disaccordo in merito ai limiti territoriali della giurisdizione e responsabilità del comandante della piazza, il comandante dello Scacchiere, in accordo con lo stesso comandante Fucci, trasferì l’incarico di comandante della piazza ad un colonnello dell’Esercito. Poco dopo Fucci ebbe ordine di andare a Massaua, pertanto cedette il comando al capitano di fregata Silvio Montanarella, che già reggeva il Comando Marina di Chisimaio; dato però che questi era in missione a Dante per ordine dello stesso Fucci, il comando passò provvisoriamente al comandante in seconda, capitano di corvetta Giuseppe Campacci Baligioni.

L’invasione britannica della Somalia ebbe inizio il 21 gennaio 1941, quando le truppe del Commonwealth, al comando del generale Alan Cunningham, oltrepassarono il confine tra Kenya e Somalia.
Le disposizioni del Comando Superiore delle Forze Armate in Africa Orientale prevedevano che, essendo pressoché impossibile difendere il confine con il Kenya, le truppe italiane sarebbero dovute arretrare fino al fiume Giuba, che poteva costituire un pur limitato baluardo naturale; qui sarebbe stata stabilita una linea di difesa da difendere ad oltranza. Chisimaio, che si trovava a sud del Giuba, e dunque tagliata fuori da questa linea, avrebbe dovuto tuttavia essere difesa ad oltranza con le truppe presenti in loco (che consistevano, oltre che nel personale della Marina – 600 italiani e 400 ascari –, in un terzo dei battaglioni e metà delle batterie della 102a Divisione Somala), mentre altre truppe avrebbero dovuto contrattaccare sul fianco sinistro dello schieramento nemico.
Il comandante dello Scacchiere, però, si trovò a fare i conti con una situazione ben poco promettente: il Giuba, quasi completamente asciutto eccetto che negli ultimi 15-20 km del suo corso, era divenuto guadabile quasi dappertutto, dunque la sua efficacia come baluardo difensivo era di molto calata; la pressione nemica era particolarmente forte verso il Basso e Medio Giuba. In una situazione tanto precaria, sembrava inutile e rischioso sprecare tante forze per difendere Chisimaio, isolata dalla linea di resistenza; il generale De Simone, di conseguenza, decise di rinunciare alla difesa di Chisimaio per destinare anche quelle truppe al rafforzamento della linea difensiva sul Basso Giuba, tra Gelib e Giumbo. L’ordine venne dato l’8 febbraio 1941, e nella notte successiva iniziò lo spostamento delle truppe di Chisimaio verso il Giuba.
Il 10 febbraio arrivò in aereo a Mogadiscio il vicerè dell’Africa Orientale Italiana, Amedeo di Savoia-Aosta, che si recò sul Giuba per saggiare la consistenza delle difese, e poi a Chisimaio ove ispezionò gli apprestamenti difensivi. Trascorse una notte a Chisimaio, e giunse alla conclusione che la decisione del generale De Simone era corretta; tutte le truppe dovevano ripiegare fino al Giuba e difendere quella linea ad oltranza, mentre Chisimaio doveva essere sgombrata il prima possibile, trasferendo altrove tutto ciò che si poteva trasportare e distruggendo ogni altra cosa. Il duca d’Aosta, ad ogni modo, era poco convinto anche delle possibilità di un’effettiva resistenza sul Giuba, quasi del tutto prosciugato. Una volta spezzata quella esile linea, tutto sarebbe stato perduto: dal fiume fino alle prime alture dell’Harar si estendevano 700 chilometri di pianura piatta e desertica, non solo del tutto indifendibile, ma anche troppo inospitale per permettere alle truppe in ritirata di sopravvivervi.

Il mattino dell’11 febbraio 1941 vennero dati gli ordini per l’immediato sgombero della piazzaforte e del porto di Chisimaio. Le partenze delle navi mercantili, d’altro canto, erano già iniziate: Somalia (con a bordo 1140 tonnellate di merci), AdriaSavoia ed Erminia Mazzella erano già salpati la sera del 10 febbraio, il primo diretto a Mogadiscio, gli altri a Diego Suarez, nel Madagascar francese, controllato dalla Francia di Vichy e dunque rifugio relativamente sicuro, oltre che unico porto amico o neutrale raggiungibile senza dover attraversare un intero oceano. Delle navi mercantili si occupava in particolare il tenente colonnello di porto Francesco Serra Manichedda, trasferitosi appositamente da Mogadiscio a Chisimaio.
Il mattino stesso dell’11 proprio Serra Manichedda, insieme al comandante Campacci Baligioni, parlarono con il duca d’Aosta dando voce al rincrescimento, loro e della Marina, per dover abbandonare la base; ma il duca, ormai disilluso sulle possibilità di resistenza dopo quanto aveva potuto personalmente osservare sul Giuba il giorno precedente, ribadì gli ordini dati. Prima di lasciare Chisimaio, il duca d’Aosta approvò gli ordini già impartiti per la partenza delle navi mercantili, ed invitò ad accelerare la partenza dei bastimenti che ancora restavano.
Tra i mercantili ancora in rada, tuttavia, tre non erano in condizione di navigare: due erano i piroscafi Carso ed Integritas, ed il terzo era proprio la Marghera. La forzata inattività in cui giacevano dal giugno del 1940 ne aveva fortemente ridotto l’efficienza, e non era stato possibile rimetterli in condizione di affrontare una difficile e pericolosa traversata verso il Madagascar. Per evitare che cadessero in mano nemica, non restava altro da fare che affondarli: Serra Manichedda e Campacci Baligioni esposero anche questa necessità al duca d’Aosta, che approvò anche questa triste decisione.

La sera dell’11 febbraio partirono per Mogadiscio la Pensilvania (carica di nafta), l’Askari (carico di fusti vuoti) ed il rimorchiatore Kionga; nella notte successiva partirono anche l’Uckermark, il Manon (scarico), la Duca degli Abruzzi (carica) ed il Leonardo Da Vinci (vuoto), tutti diretti a Diego Suarez.
Furono le ultime navi ad abbandonare Chisimaio: dopo di che soltanto quattro rimasero all’ancora in quella sperduta rada somala. Uno era il Durmitor, il piroscafo jugoslavo giunto sotto controllo tedesco qualche mese prima: siccome la Jugoslavia era ancora neutrale, si era deciso di lasciarlo a galla affinché il suo equipaggio potesse riprenderne possesso, se mai fosse tornato a Chisimaio. Le altre tre erano navi che avevano le ore contate: Carso, Integritas e Marghera.
Per ordine del comandante della Piazza, colonnello Bernardi, le truppe dell’Esercito stavano intanto provvedendo a sgomberare la piazzaforte ed a distruggere tutto quello che non era possibile portare via; Bernardi aveva riferito al Comando Marina che lui, il suo Comando e tutte le truppe di terra si sarebbero ritirati a Giumbo, distante una dozzina di chilometri, il mattino seguente.
Non restava ormai che da adempiere alla mesta incombenza di autoaffondare Carso, Integritas e Marghera: siccome però si temeva che l’utilizzo delle cariche esplosive, già predisposte su ciascuna nave, avrebbe potuto allarmare la popolazione indigena, che «avrebbe potuto anche creare intralci al sollecito svolgimento delle operazioni», si decise all’ultimo momento di cambiare le modalità dell’autoaffondamento; affinché questo avvenisse in silenzio, i tre bastimenti sarebbero stati affondati senza esplosioni, semplicemente aprendo tutte le comunicazioni con il mare e creandone altre con apposite rotture.
Così si fece; le navi iniziarono ad affondare alle tre di notte del 12 febbraio 1941. Delle tre, la Marghera fu l’unica ad affondare rapidamente; il Carso e l’Integritas ci misero di più, tanto che dopo qualche ora, visto che erano ancora a galla, si decise di accelerarne la fine con alcuni colpi di cannone, sparati dalla batteria dell’Isola dei Serpenti. Compiuto quest’ultimo lavoro, il personale di quella batteria rese inutilizzabili i cannoni e poi lasciò l’isola.

Tutti i materiali che fu possibile asportare, compreso l’equipaggiamento della stazione radio principale di Chisimaio, vennero caricati su due piccoli rimorchiatori e quattro grosse motobarche, che rappresentavano tutti i natanti semoventi in grado di raggiungere Mogadiscio; queste sei imbarcazioni, formando un unico convoglio al comando del tenente colonnello Serra Manichedda, lasciarono Chisimaio per la capitale somala nel pomeriggio dello stesso 12 febbraio. Nel corso di quella giornata il personale di Marina Chisimaio provvide ad evacuare le isole, affondare tutti i natanti non trasferibili, distruggere o rendere inservibili le installazioni militari e tutte le armi ed i materiali non asportabili e far defluire la nafta rimasta nei serbatoi affinché i britannici non potessero usufruirne; le batterie furono distrutte, baraccamenti e depositi munizioni furono incendiati e fatti saltare in aria (le esplosioni furono avvertite anche dalla 1a Brigata Fanteria sudafricana, accampata presso Eyadera a diversi chilometri di distanza: per la verità, tutto ciò sembrerebbe vanificare la precedente decisione di affondare Marghera, Carso ed Integritas senza esplosioni per non fare rumore). Terminata quest’opera di distruzione, il migliaio di uomini che dipendevano da Marina Chisimaio – 600 italiani e 400 ascari – salirono su degli autocarri diretti verso Giumbo, da dove poi raggiunsero le truppe dell’Esercito per l’ultima difesa sul Basso Giuba.
Come il comandante che per ultimo abbandona la sua nave, il capitano di corvetta Campacci Baligioni fu l’ultimo a lasciare Chisimaio: erano le sette di sera del 12 febbraio.

I britannici iniziarono ad aver contezza dell’evacuazione di Chisimaio la sera del 13 febbraio, quando gli aerei che sorvolavano la piazzaforte notarono l’assenza di reazione da parte delle difese contraeree, ed il cacciatorpediniere Kandahar sparò tre salve contro la locale fortezza senza che le batterie costiere italiane accennassero a rispondere. Il comandante della East Africa Force, generale Alan Cunningham, fu informato che le truppe italiane si stavano apparentemente ritirando, ed ordinò al Comando della 12a Divisione Africana (generale Alfred Reade Godwin-Austen) di mandare la 22nd East African Brigade (generale di brigata Charles Christopher Fowkes), acquartierata presso il villaggio di Afmadù, verso la città somala. Il mattino del 14 febbraio l’incrociatore pesante Shropshire bombardò Chisimaio e l’Isola dei Pescicani per quasi 40 minuti, senza evocare – di nuovo – alcuna reazione; poche ore dopo, nel pomeriggio, le autoblinde della 3rd South African Armoured Car Company (tenente E. W. Bibby) entrarono per prime nel capoluogo dell’Oltregiuba, seguite dal 1° e 5° Battaglione dei King's African Rifles, accolte festosamente dalla popolazione somala. Entro le cinque del pomeriggio, l’occupazione di Chisimaio poteva dirsi completata; “gli indigeni che si erano nascosti nella boscaglia tornarono indietro, i commercianti arabi riaprirono i loro negozi e mercanti chiesero a gran voce scellini kenioti”. Prima di sera, un reparto dei King's African Rifles requisì due piccole imbarcazioni e procedette con queste all’occupazione dell’Isola dei Serpenti, le cui riserve di carburante erano state completamente distrutte dagli italiani; il mattino successivo un plotone raggiunse su un dhow (una piccola imbarcazione a vela locale) anche l’Isola dei Pescicani, che fu a sua volta occupata. Malcolm Page, nella sua storia dei King's African Rifles, commenta in tono asciutto: “Nel porto [i soldati] ispezionarono due navi; entrambe erano vuote di qualsiasi cosa, eccetto ratti e scarafaggi. Chisimaio era una città polverosa, sporca, ed ogni cosa che avesse un qualche valore era stata sabotata o saccheggiata”.

Delle tre navi autoaffondate nel porto, soltanto il Carso risultò riparabile: i britannici riuscirono infatti a riportarlo a galla e rimetterlo in servizio, impiegandolo in guerra con il nome di Empire Tana. La Marghera, così come l’Integritas, non avrebbe mai più navigato; il relitto della vecchia pirocisterna rimase per molti anni ad arrugginire nelle acque di Chisimaio, ben oltre la fine delle ostilità.

Un avviso pubblicato il 21 maggio 1952 – a più di undici anni dall’autoaffondamento ed a sette dalla fine della guerra – sul "Corriere della Somalia", quotidiano italiano di Mogadiscio, annunciava che l’Amministrazione Fiduciaria Italiana della Somalia (A.F.I.S.) avrebbe a breve messo in vendita all’asta il relitto della Marghera, insieme a quelli della Pensilvania (affondata davanti a Mogadiscio) e di un pontone in ferro: all’epoca dell’annuncio, pertanto, il relitto della Marghera giaceva ancora là dove la pirocisterna era stata autoaffondata undici anni prima, in otto metri d’acqua, a nord dell’Isola dei Pescicani. A quanto risulta, la vecchia petroliera sarebbe stata demolita sul posto negli anni successivi.
 
Annuncio della vendita all’asta del relitto della Marghera sul “Corriere della Somalia” del 21 maggio 1952

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