lunedì 15 aprile 2019

Stelvio

La Stelvio (g.c. Mauro Millefiorini via www.naviearmatori.net)

Motonave cisterna di 6963 o 6960 tsl, 4026 o 4028 tsn e 10.221 o 10.180 tpl, lunga 126,10-134,40 metri, larga 10,58-17,10 e pescante 7,33-9,96, con velocità di 10 nodi. Di proprietà della Società Anonima di Navigazione Alta Italia, avente sede a Genova, ed iscritta con matricola 1379 al Compartimento Marittimo di Genova.

Breve e parziale cronologia.

1924
Impostata nei Cantieri del Tirreno di Riva Trigoso, Genova (numero di scafo 91).
11 ottobre 1925
Varata nei Cantieri del Tirreno di Riva Trigoso.

Il varo della Stelvio (g.c. Giorgio Parodi via www.naviearmatori.net)

Giugno 1926
Completata per la Società Anonima Navigazione Alta Italia, con sede a Genova.
La stazza lorda e netta nel 1930 risultano registrate come 7296 tsl e 4439 tsn, poi divenute 6910 tsl e 3963 tsn nel 1931 e 6963 tsl e 4028 tsn dal 1933 in poi.
27 dicembre 1935
La Stelvio carica a San Pedro, in California, 75.000 barili di gasolio da trasportare a Genova. Si tratta della prima nave cisterna italiana a giungere a San Pedro nel giro di parecchi anni. È in corso la guerra d’Etiopia, scoppiata due mesi prima, con le conseguenti fortissime polemiche a livello internazionale, che già il 18 novembre hanno portato all’imposizione di sanzioni economiche contro l’Italia (sanzioni che non riguardano, però, il petrolio): i giornali statunitensi, menzionando la partenza della Stelvio carica di San Pedro, accennano che "non è noto se il gasolio verrà usato per scopi militari".

La Stelvio carica gasolio a San Pedro nel 1935 (dal “Biddeford Daily Journal”)

Fine anni Trenta
La Stelvio viene frequentemente impiegata per trasportare in Italia petrolio dal Messico e dal Venezuela, acquistato tramite compagnie statunitensi. Secondo una stima, tra il 1938 ed il 1940 l’Italia avrebbe acquistato il 17 % della produzione messicana di petrolio.

Sotto la bandiera del Messico

Come 200 e più navi mercantili italiane, il 10 giugno 1940 la Stelvio si ritrovò bloccata al di fuori del Mediterraneo, a migliaia di chilometri dalla madrepatria che lo scoppio della guerra aveva reso irraggiungibile. Il 13 giugno la motocisterna, al comando del capitano di lungo corso Romolo Bianchi, fiorentino, si rifugiò a Tampico, importante porto petrolifero del Messico (situato sul fiume Panuco, ad una decina di miglia dalla foce), dove si trovavano già parecchie altre petroliere italiane: la Fede, l’Atlas, la Marina Odero, la Tuscania, l’Americano, la Genoano, la Lucifero e la Vigor (un’altra, la Giorgio Fassio, era a Veracruz). Per tutte, la sorte fu la stessa: l’internamento in acque messicane, e cioè proprio a Tampico, in attesa degli eventi.
Insieme alle otto navi italiane, erano presenti a Tampico, ed egualmente internati, anche quattro bastimenti tedeschi: l’Orinoco, il Phrygia, il Rhein e l’Idarwald. Nella notte del 16 novembre 1940, queste quattro navi tentarono di salpare da Tampico per raggiungere la Germania, violando il blocco britannico; la partenza avrebbe dovuto essere furtiva, ma in realtà migliaia di abitanti del posto, e probabilmente anche qualche membro del locale consolato britannico, vi assisterono. D’altra parte mantenere il segreto era ben difficile, le navi avevano già ottenuto i documenti per la partenza (la destinazione dichiarata erano “porti della Spagna”) e due cannoniere della Marina messicana avevano l’ordine di accompagnarle fino ai limiti delle acque territoriali messicane. Già nel pomeriggio precedente i bastimenti tedeschi avevano acceso le caldaia, ed era ben presto circolata voce che si sarebbero recati al largo per rifornire di provviste e di carburante gli U-Boote e le “navi corsare” tedesche operanti in Atlantico.
Questo tentativo finì male: non appena giunse al largo, il Phrygia s’imbatté in un cacciatorpediniere statunitense della “pattuglia di neutralità” che lo illuminò con i proiettori; scambiandolo per una nave britannica, l’equipaggio del Phrygia incendiò la sua nave ed aprì le prese a mare per evitare la cattura. Le altre tre navi fecero dietrofront e tornarono precipitosamente in porto. In quella occasione diversi giornali statunitensi, nel riferire la notizia, menzionarono anche che "la petroliera italiana Stelvio aveva acceso le caldaie la scorsa notte, ed era apparentemente pronta a partire con breve preavviso".
Una decina di giorni più tardi, le navi italiane e tedesche internate a Tampico rinnovarono i preparativi per un’apparente prossima partenza, mentre tre cacciatorpediniere statunitensi della “pattuglia di neutralità” incrociavano nelle acque antistanti il porto messicano. Le navi si rifornirono di carburante ed accesero le caldaie poco dopo la mezzanotte del 25 novembre, ma prima dell’alba le caldaie vennero spente – come indicato dal fumo che aveva smesso di uscire dai fumaioli – ed i rimorchiatori che prima erano in attesa accanto ai bastimenti dell’Asse come se fosse stato richiesto il loro intervento per la partenza se ne andarono, anche se le navi italiane e tedesche avevano tenuto tutte le luci accese. I giornalisti dell’“Associated Press” aggiunsero che negli uffici della capitaneria di porto era stato riferito che le navi dell’Asse avevano già preparato i documenti per l’autorizzazione a partire, ma che non era possibile fornire informazioni su quando dovessero salpare. Inoltre, circolava notizia che personale dei consolati italiano e tedesco a Città del Messico fosse al lavoro già alle due di notte, apparentemente in contatto con Tampico. Entrambi i consolati, interpellati, risposero che erano stati fatti dei preparativi a bordo delle navi, ma che non avevano informazioni su quando sarebbero partite.
Il secondo tentativo di fuga da parte delle navi tedesche ebbe infine luogo il 3 dicembre, quando il Rhein e l’Idarwald (l’Orinoco rimase in porto) tentarono nuovamente la sorte; ma finì ancor peggio della prima volta. Entrambi i bastimenti tedeschi furono pedinati da cacciatorpediniere statunitensi della “pattuglia di neutralità”, che non li attaccarono né ne ostacolarono attivamente la navigazione, ma che segnalarono in chiaro la loro posizione alla radio, così permettendone l’intercettazione da parte di navi da guerra Alleate. L’8 dicembre l’Idarwald, intercettato dall’incrociatore britannico Diomede, fu autoaffondato dal proprio equipaggio; tre giorni dopo toccò la stessa sorte al Rhein, intercettato dalla cannoniera olandese Van Kinsbergen.
Questo secondo fallimento pose fine ad ogni altra velleità di fuga dal Messico. La Stelvio, le altre petroliere italiane e l’Orinoco se ne rimasero a Tampico.
Gli equipaggi delle navi internate a Tampico vivevano confinati a bordo dei loro bastimenti: potevano scendere a terra e visitare la popolazione locale solo dietro autorizzazione del comandante, e solo in gruppi. Nonostante questo e la vigilanza delle “Oficinas de Población”, in meno di un anno non pochi marittimi italiani riuscirono a metter su famiglia con donne del posto.

(g.c. Nedo B. Gonzales, via www.naviearmatori.net)

Questa situazione perdurò fino alla primavera del 1941, quando le cose improvvisamente mutarono. Il 30 marzo 1941, infatti, gli Stati Uniti, pur essendo neutrali, procedettero alla confisca di tutti i bastimenti mercantili dell’Asse presenti nei propri porti; diversi altri paesi dell’America centrale e meridionale, spesso su pressione angloamericana, si prepararono a fare lo stesso, e gli equipaggi di numerosi mercantili italiani internati in questi stati, in base agli ordini ricevuti dalle autorità italiane, sabotarono od autoaffondarono le loro navi prima che potessero essere catturate.
Il Messico colse l’occasione, disponendo anch’esso la confisca delle dodici navi dell’Asse presenti a Tampico e Veracruz, per incrementare la propria modesta flotta petroliera: con la cattura delle dieci cisterne italiane che si trovavano nei suoi porti, infatti, il tonnellaggio complessivo delle navi cisterna sotto bandiera messicana sarebbe quadruplicato, passando da 29.445 tsl a 117.591 tsl. Il Messico aveva nazionalizzato le proprie riserve petrolifere pochi anni prima (18 marzo 1938), espropriandole alle compagnie straniere e creando una propria compagnia petrolifera controllata dallo Stato, la Petróleos Mexicanos S. A. (Pemex), ma risentiva di una carenza di navi cisterna adeguate a trasportare il petrolio per poter adeguatamente sviluppare tale industria (carenza che lo scoppio della guerra mondiale aveva reso molto difficile da eliminare, sia con l’acquisto di navi esistenti che con nuove costruzioni: tutto era assorbito dalle esigenze del conflitto), che venne così “risolta”. (Proprio alla cantieristica italiana, tra l’altro, si era inizialmente rivolta la Pemex per risolvere il problema in maniera più ortodossa: nel 1939 aveva ordinato all’Ansaldo di Genova tre grandi e moderne motonavi cisterna battezzate Minatitlan, Panuco e Poza Rica, ma lo scoppio della guerra ne aveva rallentato la costruzione, e nel 1941 le tre petroliere furono confiscate dal governo italiano per essere impiegate nel trasporto di carburante in Africa Settentrionale. Secondo qualche fonte secondaria messicana, anzi, fu proprio la confisca delle tre petroliere in costruzione in Italia a spingere il governo messicano a confiscare le navi italiane presenti nelle sue acque; ma ciò sembra poco probabile, la maggior parte delle fonti messicane non indicano in ciò la causa di tale decisione).
Di conseguenza, su disposizione delle autorità messicane, il contrammiraglio Luis Hurtado de Mendoza fu inviato dal Ministro della Guerra Lázaro Cárdenas del Rio a confiscare le navi dell’Asse presenti nei porti del Messico, in nome della Segreteria della Marina (Secretaría de Marina), alla testa di reparti del 31° Battaglione Fanteria (31° Batallón de Infantería).
Il 1° aprile 1941, pertanto (altra fonte parla del 2 aprile, ma si tratta probabilmente di un errore), un drappello della Marina messicana abbordò e catturò la Stelvio e le altre navi cisterna italiane presenti nel porto di Tampico, con l’eccezione dell’Atlas, che venne autoaffondata dal suo equipaggio. L’autoaffondamento dell’Atlas fu anzi citato da parte messicana – come già fatto negli Stati Uniti, dove quasi tutte le navi italiane erano state sabotate dai loro equipaggi – come ragione del provvedimento di sequestro delle navi: si disse che la decisione era stata presa dal governo messicano per ragioni di sicurezza nazionale, dopo aver appreso la notizia di quanto accaduto sull’Atlas. Su ciascuna nave fu posto un distaccamento di fanteria di Marina con compiti di vigilanza. Il generale messicano Francisco Luis Urquizo, che all’epoca aveva il suo comando a Tampico, avrebbe ricordato nelle sue memorie come il contrammiraglio Hurtado de Mendoza “…ottimo conversatore, portava invariabilmente il discorso sul modo rapido ed energico con cui aveva effettuato il simultaneo sequestro di tutte le navi con truppe del 31° Battaglione, che più tardi furono rilevate dalla Fanteria di Marina”.
Fu questo uno dei primi atti compiuti da parte del Governo messicano in relazione alla seconda guerra mondiale.

Questa mossa fu giustificata ed ufficializzata dal presidente messicano Manuel Ávila Camacho con un decreto di requisizione firmato pochi giorni più tardi, l’8 aprile 1941 (e pubblicato il 10 aprile sul Diario Oficial de la Federación, l’equivalente messicano della Gazzetta Ufficiale), facendo richiamo al “diritto d’angheria”, in base al quale una nazione in guerra – ma il Messico era neutrale – poteva requisire forzosamente per le proprie necessità naviglio mercantile appartenente a nazioni straniere che si trovasse nelle proprie acque territoriali, a patto di indennizzarne adeguatamente i proprietari.
Il decreto di requisizione era formato da quattro articoli: «Art. 1 La Segreteria delle Relazioni Estere notificherà ai rappresentanti diplomatici degli Stati belligeranti, la cui bandiera inalberano le navi che sono immobilizzate nei porti nazionali, che il Governo degli Stati Uniti del Messico sequestra quelle navi per usarle nello scambio commerciale e marittimo d’altura e di cabotaggio; Art. 2 La Segreteria della Marina procederà ad immatricolare e munire della bandiera nazionale le navi sequestrate, e ovviamente formulerà un dettagliato inventario delle stesse; Art. 3 La Segreteria di Governo emetterà la documentazione necessaria affinché gli ufficiali e gli equipaggi delle navi sequestrate permangano nel Paese per la durata del presente stato di emergenza o troverà un mezzo sicuro per riportarli nei loro Paesi di origine. Gli ufficiali e gli equipaggi sbarcati riceveranno l’attenzione che si conviene; Art. 4 La Segreteria della Finanza e del Credito Pubblico determinerà l’indennizzo corrispondente per ciascuno dei bastimenti sequestrati, dando ai loro proprietari l’intervento appropriato secondo le nostre leggi. Gli indennizzi verranno pagati alla fine della guerra, con un interesse aggiuntivo per il tempo che sarà intercorso tra la data del decreto e quella del pagamento».
Come motivi per l’applicazione del diritto d’angheria pur essendo il Messico neutrale, Ávila Camacho indicò i gravi disturbi causati dalla guerra al commercio marittimo del Messico, il modo in cui era condotto il conflitto, ignorando i diritti delle nazioni neutrali, ed il quasi completo annientamento del commercio marittimo messicano per mancanza di mezzi di trasporto: secondo il presidente messicano, l’applicazione, da parte di uno Stato neutrale, del diritto d’angheria rappresentava solo una piccola compensazione per il trattamento che in quella guerra aveva subito lo stato stesso di neutralità. Un’altra giustificazione che fu addotta era che le autorità messicane volessero evitare che si verificassero anche in Messico atti di sabotaggio come quelli compiuti nei giorni precedenti dagli equipaggi dei bastimenti dell’Asse che si trovavano immobilizzati nelle acque di altri Paesi americani. L’ambasciatore messicano presso gli Stati Uniti, Francisco Castillo Nájera, affermò in una lettera scritta il 4 aprile al segretario di Stato statunitense Cordell Hull che le navi erano state sequestrate perché i loro equipaggi stavano “pianificando attività di sabotaggio contro i porti messicani”; nello stesso testo del decreto dell’8 aprile si indicava tra le motivazioni “i numerosi atti di sabotaggio effettuati nei primi mesi dell’anno in corso in vari Paesi del continente americano, da parte di equipaggi di navi belligeranti”. Anche il libro “Historia General de la Secretaría de la Marina-Armada de México” afferma che il sequestro fu compiuto “per prevenire atti di sabotaggio che avrebbero potuto danneggiare sia i porti nazionali che le navi stesse”. Il generale Francisco Luis Urquizo, all’epoca comandante dell’8a Zona Militare con quartier generale proprio a Tampico, scrisse nel suo libro di memorie “Tres de Diana” che “…una tale misura [la confisca delle navi] era giusta, perché solo a Tampico c’erano undici navi italiane e tedesche con un totale di novecento uomini di equipaggio tra tutte. Questo costituiva un pericolo, e sarebbe stata necessaria una rigida e costosa vigilanza militare per le navi ed i loro equipaggi, vigilanza che non sarebbe stata ricompensata dalla nostra stessa neutralità”. Qualche fonte messicana accenna anche a sabotaggi o danneggiamenti che sarebbero stati compiuti dagli equipaggi su alcune navi, senza però aggiungere nulla di specifico (salvo che per l’Atlas).
Altra motivazione addotta era che le navi italiane e tedesche fossero in una “situazione illegale” essendo rimaste in porti messicani per un periodo maggiore rispetto a quello concesso dal diritto internazionale.
Sempre allo scopo di legittimare la confisca delle navi, qualche giorno prima di emettere il decreto di sequestro la Segreteria per le Relazioni Estere (equivalente al Ministero degli Esteri) del Messico aveva inviato un avvertimento ai Ministeri degli Esteri di Italia e Germania, informandoli che le autorità di quel Paese avrebbero sequestrato le navi straniere immobilizzate nei loro porti per impiegarle nel commercio e nel traffico marittimo d’altura e di cabotaggio, ed intimando loro, se intendevano evitarlo, di far lasciare alle loro navi le acque messicane. Se vi fossero rimaste, una volta decorso il tempo stabilito queste sarebbero state confiscate; tale disposizione non era attuabile, visto che se le navi dell’Asse avessero lasciato il Messico sarebbero state certamente intercettate e catturate od affondate da navi alleate. Decorso dunque il limite di tempo concesso senza che le navi fossero partite, fu emesso il decreto sequestro; il presidente Ávila Camacho ordinò al generale Heriberto Jara, segretario della Marina, di prendere possesso delle navi italiane e tedesche.
Il sequestro delle navi rappresentò anche un gesto di avvicinamento del governo messicano a quello statunitense: già il 31 marzo, dando la notizia della confisca delle navi italiane e tedesche negli Stati Uniti ed in altri Paesi americani, alcuni giornali statunitensi avevano riferito che il Messico pianificava di prendere in custodia le navi italiane e tedesche presenti nei suoi porti, in un atto “di difesa continentale e di solidarietà con gli Stati Uniti”. L’azione, da parte di distaccamenti armati della Marina messicana, era correttamente annunciata per la notte successiva.
Il governo messicano si impegnò ad utilizzare le navi sequestrate in base ai diritti ad esso conferito dalle leggi internazionali come Paese neutrale, ed a corrispondere agli armatori italiani, a guerra finita, un congruo indennizzo per l’utilizzo delle loro navi da parte del Messico; gli armatori protestarono ugualmente per la confisca e presentarono una richiesta di protezione, che venne sospesa dal Dipartimento Legale del Ministero della Marina messicana.
Pochi giorni dopo la confisca, la Stelvio apparve in un cinegiornale della Paramount che annunciava la decisione del Messico di sequestrare le navi italiane e tedesche, ormeggiata a Tampico e presidiata da marinai e soldati messicani, con il tricolore del Messico che aveva sostituito, sull’asta della bandiera a poppa estrema, quello del Regno d’Italia.

La Stelvio vista da poppa (da www.marina-mercantile-italiana.com)

Il numero dei marittimi italiani (in maggioranza) e tedeschi a bordo delle navi confiscate in Messico è variamente indicato da fonti differenti in 306 (i soli italiani), o 352, o 555 (italiani e tedeschi), oppure poco meno di 600 tra italiani e tedeschi (quasi 500 sulle navi sequestrate a Tampico, quasi 100 su quelle sequestrate a Veracruz), oppure “oltre novecento” tra italiani e tedeschi nella sola Tampico (ma questa è probabilmente un’esagerazione).
Sbarcati dalle navi, rimasero inizialmente in libertà a Tampico, considerati dalla legge messicana “migranti temporanei” e sottoposti alla vigilanza e responsabilità dei rispettivi consolati, che avevano trattato con le autorità locali affinché i marittimi rimanessero in libertà e che provvidero ad alloggiarli in alberghi del luogo; nell’ottobre 1941 le autorità messicane emisero un decreto con istruzioni per la permanenza in Messico degli equipaggi delle navi confiscate. Tra le altre cose si affermava che, essendo gli equipaggi composti da marittimi civili, dovessero essere soggetti alla legislazione messicana sul lavoro; con il cambio di nazionalità delle loro navi, il contratto di lavoro dei componenti degli equipaggi aveva legalmente termine, e la nazione ricevente (cioè il Messico) aveva l’obbligo di rimpatriarli presso il porto di registrazione di ciascuna nave e di pagare loro un indennizzo di importo equivalente a tre mesi di salario. La Segretaria del Governo (equivalente messicano del Ministero dell’Interno) emise i documenti necessari affinché gli ufficiali e gli equipaggi delle navi italiane e tedesche rimanessero in Messico in stato di libertà fino alla fine della guerra, o finché non fosse stato possibile reperire un mezzo sicuro per il loro rimpatrio.
I marittimi italiani rimasero a Tampico per quasi un anno, dopo di che il governo messicano decise di trasferirli via treno nella capitale ed in altre città dell’interno. Furono inviati a Guadalajara, dove continuarono a godere di libertà di movimento all’interno della città, e ad essere mantenuti dalle rispettive ambasciate. Il già citato genrale Francisco Luis Urquizo così rievoca quei tempi nel suo libro “Tres de Diana”: “I novecento marinai italiani e tedeschi sbarcarono [dopo la confisca delle navi], sciamando per le vie del porto senza alcuna occupazione; la maggior parte erano giovani e forti, si mescolavano con i nostri connazionali. E con abilità suscitarono grande simpatia nella popolazione. Erano in numero maggiore rispetto ai soldati che sorvegliavano la piazza: un pericolo nascente su cui bisognava vigilare. Dopo lunghe negoziazioni, ottenemmo che gli equipaggi delle navi italiane e tedesche confiscate si trasferissero a Guadalajara. Dar loro l’addio alla stazione ferroviaria rappresentl un momento commovente. Erano riusciti a fare amicizia con molta gente. Si sentivano lontani dalle loro navi, dai loro nuovi amici, forse dai loro amori. Vedevano la guerra avvicinarsi e presagivano, forse, una lunga prigionia”.
Secondo una fonte, il trasferimento da Tampico a Guadalajara venne deciso in risposta ai timori dell’ambasciata italiana, preoccupata dalla possibilità che i marittimi italiani, se fossero rimasti a Tampico (zona all’epoca paludosa), avrebbero potuto essere contagiati dalla malaria, che vi era endemica. A Guadalajara gli internati furono alloggiati in una scuola provvisoriamente adattata per riceverli, situata all’incrocio tra le vie Mexicaltzingo e Niños Héroes; dall’ambasciata italiana ricevevano giornalmente 5 pesos e 60 centavos (centesimi) al giorno – una somma notevole, per il Messico dell’epoca – per provvedere al proprio sostentamento.
Ricordò poi quel periodo Leonardo Masini, motorista della Stelvio “Era una buona vita [grazie al denaro passato dall’ambasciata]… tutti i giorni andavamo a Los Portales a vedere le ragazze”. Su proposta del presidente di una squadra locale, il Club Deportivo Atlas de Guadalajara, i marinai italiani formarono anche una squadra di calcio; i suoi componenti, tra cui Masini, divennero soci del Club Atlas, dal cui presidente ricevevano due-tre pesos al mese, e conobbero Eduardo “Che” Valdatti, uno dei più famosi calciatori messicani dell’epoca.
Anche la permanenza degli internati a Guadalajara giunse però al termine: con il rafforzamento delle relazioni tra Messico e Stati Uniti ed il peggioramento di quelle tra Messico ed Asse, ed in vista delle celebrazioni del quarto centenario della fondazione di Guadalajara (che avrebbero visto affluire in città una massa di visitatori che avrebbe reso più difficile tenere sotto controllo i marittimi stranieri), si decise di trasferire gli equipaggi dello Stelvio e delle altre navi in un luogo dove potessero essere meglio sorvegliati. Come pretesto per il trasferimento, fu addotto il cattivo comportamento di alcuni dei marittimi; un rapporto del Departamento de Investigación Política y Social (DIPS), un’agenzia di polizia/sicurezza e di intelligence, lamentava che i marittimi italiani e tedeschi fossero “pericolosi”, che passassero il loro tempo nelle osterie e nei biliardi e che nessuno desiderasse lavorare, dato che non mancavano loro i soldi (“…fu loro proposto un piano per il trasferimento in una zona di Jalisco, affinché lavorassero la terra (…) dissero che non potevano accettare la proposta perché le compagnie proprietarie delle navi continuavano a coprire i loro salari”). Altre preoccupazioni riguardavano la sicurezza politica e l’ordine sociale; gli ispettori federali Francisco Martinez e Francisco Urrutia avevano riferito al Segretario dell’Interno Miguel Alemán Valdés che scoppiavano spesso risse fra i marinai, e che questi contribuivano alla “trasgressione della morale pubblica” frequentando le prostitute e stringendo relazioni con le cameriere delle osterie e le ragazze dei quartieri poveri. Martinez ed Urrutia segnalavano il fastidio delle autorità locali per la quasi totale mancanza di vigilanza sui marittimi stranieri; le misure di controllo consistevano esclusivamente in un controllo giornaliero, del tutto insufficiente secondo Julio Serrano Castro, capo del Servizio d’Ispezione della Segreteria del Lavoro, dato che ciò non era servito ad evitare fughe. Serrano Castro aggiungeva che la permissività dei funzionari del servizio immigrazione aveva permesso il nascere di una serie di attività illecite, più precisamente di spionaggio e di propaganda; era noto, diceva il funzionario messicano in un rapporto, che gli ufficiali riferivano quotidianamente ai loro consolati le informazioni che raccoglievano. Questi ultimi erano tenuti in grande considerazione presso tutti i cittadin italiani, tedeschi e giapponesi residenti in città. In generale si rilevò un crescendo, nelle segnalazioni degli ispettori e dei servizi di informazione, nei toni allarmistici; il fatto, ad esempio, che i marittimi tedeschi leggessero un giornale tedesco stampato in Messico fu ritenuto prova sufficiente del loro coinvolgimento in “attività di propaganda”. Le segnalazioni sulla “pericolosità” dei marittimi si alternavano alle lamentele sul loro disinteresse nei confronti del lavoro. Alla fine si concluse che la permanenza dei marittimi dell’Asse a Guadalajara od in una qualsiasi altra grande città del Messico rappresentasse un problema per la pubblica sicurezza, e che fosse desiderabile evitare il contatto tra i marittimi e la popolazione messicana.
Nel febbraio del 1942 venne pertanto presa la decisione di internare i marittimi italiani e tedeschi nell’ex fortezza San Carlos di Perote, nello stato di Veracruz, dov’era stata allestita una “stazione migratoria” – ossia una sorta di centro accoglienza per immigrati, anche se ovviamente gli equipaggi delle navi confiscate non erano propriamente “immigrati” – in quanto la loro “situazione migratoria” risultava incerta (erano stati considerati dapprima “migranti temporanei” e poi “immigrati condizionali”). In sostanza, quello di Perote era un campo d’internamento (anche se la legge messicana faceva una netta distinzione tra i campi d’internamento, considerati luoghi di reclusione forzata, e le “stazioni migratorie”, considerati luoghi di “residenza temporanea” per stranieri che dovevano essere espulsi perché sprovvisti dei requisiti legali per la permanenza in Messico); i marittimi dell’Asse passarono sotto la responsabilità del DIPS. Il trasferimento da Guadalajara alla fortezza San Carlos avvenne nella notte dell’8 febbraio 1942, sotto la scorta di forze federali e di agenti della DIPS; giunsero così a Perote 520 internati, di cui 277 erano italiani e 243 erano tedeschi, tutti appartenenti agli equipaggi delle navi. L’età media dei marittimi italiani qui internati era di 35 anni; il più giovane ne aveva 16, il più anziano 60.
Il primo articolo del regolamento interno di Perote affermava che “si destina il forte di San Carlos nella città di Perote, Veracruz, come luogo di residenza degi stranieri che per causa di forza maggiore non possono essere espulsi in base all’articolo 185 della Legge Generale di Popolazione in vigore”. La fortezza era considerata ufficialmente come un luogo di detenzione temporanea per i marittimi, in attesa di poterli rimpatriare. Le negoziazioni per il rimpatrio avevano dato scarsi risultati, ed era ormai previsto che “temporanea” avrebbe significato “fino alla fine della guerra”. Per ospitare gli internati (era prevista una “capienza” di 200 famiglie), la fortezza di San Carlos aveva subito lavori di miglioramento dei pavimenti, degli impianti elettrici e dei servizi igienici, anche se queste modifiche si rivelarono poi comunque insufficienti. Le autorità messicane fornivano agli internati il necessario per vivere; ciascuno riceveva una paga giornaliera di 1,50 pesos, ed un rapporto della Croce Rossa del 16 agosto 1942, in seguito ad un’ispezione della fortezza, riferiva che “il cibo è eccellente. Gli acquisti vengono fatti nel mercato locale da un internato ed [il cibo] viene cucinato dagli internati stessi. I pasti sono serviti in grandi mense”.
Le autorità messicane decisero anche che gli internati avrebbero lavorato durante il periodo di internamento nella fortezza: le attività inizialmente proposte erano la carpenteria, la produzione di salsicce, di pasta e di conserve di frutta e di legumi, e la fabbricazione di cordami. Nell’individuare tali attività si era tenuto conto delle capacità dei marittimi internati; avrebbero provveduto alla produzione di cibo i membri del personale di cucina delle navi, mentre marinai e macchinisti avrebbero potuto dedicarsi ai cordami ed alla carpenteria. Qualcuno dei marinai, d’altronde, aveva già messo in piedi per suo conto qualche piccola attività del genere. Il progetto proposto dalle autorità messicane, tuttavia, fu respinto dagli internati all’unanimità: in parte perché non era stato specificato quanto sarebbero stati pagati per tale lavoro, anzi, non era nemmeno stato precisato se sarebbero stati pagati; in parte perché, come riferirono i rappresentanti dei marinai, i marittimi non erano disposti a lavorare fino a quando non fossero stati rimessi in libertà. Essendo internati civili e non prigionieri di guerra, potevano rifiutarsi di lavorare: la Convenzione di Ginevra, infatti, prevedeva che soltanto i prigionieri di guerra potessero essere obbligati a lavorare, mentre era responsabilità dello Stato ospite il mantenimento degli internati civili. Naufragò così il progetto per l’impiego dei marittimi internati in attività produttive. I marittimi si diedero autonomamente una loro organizzazione interna, al di là delle direttive governative; potevano lasciare Perote per motivi personali (matrimoni) o per ricoveri ospedalieri (a seconda della gravità, erano inviati nell’ospedale di Jalapas, capitale dello stato di Veracruz, oppure direttamente a Città del Messico), previo rilascio di un permesso speciale. I marittimi che sposavano donne messicane o che avevano figli da loro potevano fare richiesta per essere rimessi in libertà e per avviare le pratiche per la naturalizzazione.
Con la dichiarazione di guerra del Messico ai Paesi dell’Asse, il 22 maggio 1942 (decisa proprio in seguito al siluramento di alcune petroliere ex italiane, ed ora messicane, da parte degli U-Boote tedeschi), i marittimi italiani e tedeschi divennero, da cittadini di Paesi belligeranti in un Paese neutrale, cittadini di Paesi nemici; nella sostanza, però, la loro situazione non cambiò di molto.
A partire dal giugno 1942, ai marittimi delle navi confiscate andò ad aggiungersi, nel forte di Perote, una nuova categoria di internati: cittadini di Paesi dell’Asse – in maggioranza tedeschi – arrestati per reati di spionaggio, sabotaggio, disobbedienza agli ordini di internamento ed altri reati “politici”; rimasero comunque una minoranza (su 605 internati che in tutto furono “ospitati” nella fortezza, solo 85 appartenevano a questa categoria).
La fortezza di San Carlos era presidiata da una guarnigione estremamente ridotta: il perimetro della fortezza era vigilato da un numero di soldati dell’Esercito che variava tra 15 e 25, mentre le entrate e le uscite erano sorvegliate da quattro o più agenti della DIPS. Il giornalista messicano Jorge Sandoval Piñó, che visitò Perote alla fine del 1942, rimase stupito da un corpo di guardia tanto ridotto per una popolazione di internati tanto grande; scrisse in un suo articolo: “…ciò che più soprenderà è che 586 internati sono sorvegliati da niente più che il colonnello Tello, due aiutanti, tre ispettori del Governo ed un picchetto di truppe federali. C’è qualcosa di ancor più soprendente: il colonnello Tello non usa la pistola”. In generale, la carenza della vigilanza rimase un problema costante della “stazione migratoria” di Perote, mostrando il lassismo delle autorità verso la presunta “pericolosità” degli internati. Un autoproclamato Comitato Antifascista di Perote denunciò alle autorità che “…nella fortezza di San Carlos (…) si sta commettendo un gran numero di irregolarità, le anomalie che vi si riscontrano, sono queste, si gioca a carte su vasta scala, ci si ubriaca, di notte i tedeschi e gli italiani escono con il permesso del comandante della fortezza e tornano prima dell'alba in stato di ubriachezza”. Gli internati riuscivano senza molti problemi ad entrare ed uscire a dispetto di quella che sarebbe dovuta essere una ferrea vigilanza; il generalizzato lassismo delle autorità responsabili della “stazione migratoria” di Perote andò poi gradualmente calando a fronte delle proteste della stampa e dei “comitati antifascisti” locali. Il contrabbando di alcol nella fortezza a quanto pare costituì un problema non da poco per le autorità locali, che lo combatterono con divieti e restrizioni sia verso gli internati che verso la popolazione del luogo, nonché modificando i turni di guardia per fare in modo che ci fossero sempre degli agenti del DIPS (ritenuti più affidabili dei soldati) tra coloro che vigilavano sugli internati, ad ogni ora.
Il già citato giornalista Jorge Sandoval Piñó, nella sua visita, osservò la vita quotidiana degli internati a San Carlos: si pranzava a mezzogiorno; dopo pranzo, si giocava a calcio; alle 16.30 o 17.30, a seconda del giorno, si faceva l’appello. Gli italiani avevano mantenuto la numerazione degli equipaggi delle navi, mentre i tedeschi avevano inventato una nuova numerazione per i loro uomini. La cena era alle 18, dopo di che gli internati commentavano le notizie riportate su giornali; era questo “il secondo evento più importante” della giornata. Alle 21 veniva suonato il silenzio e si andava a dormire. Le autorità avevano autorizzato gli internati ad “autogestire” la loro vita e l’organizzazione interna della stazione, scrisse Piñó, perché esse non disponevano delle risorse e dell’organizzazione per provvedere alle esigenze di base degli internati, quindi preferivano che fossero loro a provvedere da sé con il denaro che veniva loro fornito per il sostentamento. Gli internati versavano il loro sussidio giornaliero in un fondo comune, che veniva utilizzato per acquistare le provviste, così dividendo le spese per il cibo; le provviste erano fornite da don Darío, un ricco commerciante di Perote. Il sistema funzionava bene, i pasti erano abbondanti; Sandoval Piñó scrissò in proposito che “i tedeschi mangiavano patate a tonnellate, e gli italiani non potevano vivere senza gli spaghetti”. Gli internati bevevano caffè e fumavano, “anche troppo”; a mezzogiorno il pranzo di ciascuno consisteva in “quattro o cinque costolette, una montagna di patate al vapore ed un’altra di legumi cotti”. Per quanto riguardava la sistemazione degli internati, la parte anteriore dell’edificio principale del complesso fortificato era la più abbandonata, mancando persino di tetti e di pavimenti in alcuni punti; gli alloggi degli internati occupavano gli altri tre lati dell’edificio, mentre l’ufficio e l’appartamento del colonnello Tello erano sistemati nella parte alta. L’ala sinistra era occupata dagli internati italiani e giapponesi, quella destra dai tedeschi. Sandoval Piñó osservò anche che “tra i marinai italiani c’erano solidarietà e coesione – normalmente vivevano in gruppi di 2 o 3 – ma non tra i tedeschi, una parte di essi erano stati isolati dal resto, erano gli autoproclamati antifascisti”.
Nel marzo 1943 i marittimi italiani vennero trasferiti dalla fortezza di Perote all’ex azienda agricola (hacienda) San Antonio ad Irapuato, nello stato di Guanajuato, lasciando a Perote i soli tedeschi (e così dimezzando la popolazione complessiva della fortezza). Sulla vita degli internati all’ex hacienda rimangono pochi documenti; uno di essi, un rapporto della DIPS, menzionava che i marittimi si recavano spesso nel villaggio a giocare a carte, scommettere, ed ubriacarsi.
In seguito, le autorità messicane assegnarono ai marittimi italiani dei posti di lavoro affinché potessero guadagnare il denaro necessario a sostentarsi finché non fosse stato possibile il loro rimpatrio; contemporaneamente, essendo in tal modo i marittimi divenuti economicamente autosufficienti, le medesime autorità interruppero l’erogazione dei sussidi loro concessi dalla data di confisca delle navi. L’indennizzo per i marittimi fu calcolato dalla Segreteria del Lavoro (equivalente messicano del Ministero del Lavoro) e pagato dalla Tesoreria e Credito Pubblico alla fine della guerra, scontandone l’ammontare già anticipato prima del pagamento e con l’aggiunta degli interessi.
Tre membri dell’equipaggio della Stelvio non tornarono mai più dal Messico, perché vi morirono. Due di essi morirono nei mesi conclusivi del conflitto: l’elettricista Raffaele Longano, da Genova, morì il 25 gennaio 1945, mentre il marittimo Giuseppe Dell’Olio, da Molfetta, spirò il 22 marzo 1945. Morì invece a guerra già finita, il 4 ottobre 1945, ma prima di poter tornare in Italia, l’uomo al comando del quale la Stelvio era entrata a Tampico nell’infausto giugno del 1940: il capitano di lungo corso Romolo Bianchi.

Qualcun altro, invece, in Messico ci rimase di propria scelta, anche dopo la fine della guerra: tra di essi Leonardo Masini Fontani, originario di Firenze (ma trasferitosi a Genova da ragazzino per ragioni di salute), motorista della Stelvio. Aveva 19 anni quando la sua nave era rimasta bloccata in Messico dalla dichiarazione di guerra; rimasto in quel Paese anche dopo la fine del conflitto, nel 1955 aveva sposato una donna del luogo, Elena, e messo su famiglia. Nel 2014, Masini viveva ancora in Messico, a Guadalajara; all’età di 93 anni, era probabilmente l’ultimo superstite dei marittimi italiani bloccati a Tampico nel 1940. Qui è stato intervistato da Ana Isabel González Ramella, Adrián Navarro e Giacomo Daneri Hernandez, autori del libro "Il viaggio inaspettato", che ha per oggetto proprio la storia dei marittimi italiani internati in Messico durante la seconda guerra mondiale e specialmente di quelli che decisero di rimanervi.

Dopo il sequestro il possesso della Stelvio, al pari di quello delle altre navi, passò inizialmente alla Segreteria della Marina messicana, che inviò a bordo dei bastimenti sequestrati, al posto degli equipaggi italiani frattanto sbarcati, i propri uomini: per ordine del contrammiraglio Hurtado de Mendoza, che aveva preso in consegna le navi per ordine superiore, queste ultime vennero subito “presidiate” da uomini della Fanteria di Marina e da ufficiali del "Cuerpo General" (cioè ufficiali di vascello) e di macchina; inoltre, il Dipartimento delle Comunicazioni Naval (Departamento de Comunicaciones Navales) assegnò dei propri radiotelegrafisti alle stazioni radio di ciascuna nave. Tali misure “erano state rese necessarie dallo stato in cui alcune delle navi erano state trovate”.
Il Segretario agli Affari Esteri (Ministro degli Esteri) del Messico, Ezequiel Padilla Peñaloza, formò una commissione mista integrata da funzionari della Tesoreria, delle Segreterie della Marina e delle Relazioni Estere e della società Petróleos Mexicanos, con il compito di redigere l’“inventario” delle navi confiscate, nonché di ricevere i reclami degli armatori che chiedevano un indennizzo per la confisca della proprietà. Sul pagamento degli indennizzi, che sarebbe avvenuto a fine guerra, fu stipulato un accordo l’11 giugno 1941, senza però specificarne l’ammontare. Il 18 luglio, con un altro accordo con le Segreterie delle Finanze e del Governo, fu deciso che le spese per il mantenimento in Messico degli equipaggi fino a fine guerra sarebbero state dedotte dall’indennizzo delle navi confiscate.
L’8 dicembre 1941, all’indomani dell’entrata in guerra degli Stati Uniti, la Stelvio venne formalmente confiscata dal Governo messicano, ribattezzata Ébano (dal nome di un villaggio messicano sede di un giacimento petrolifero) e successivamente trasferita alla Petróleos Mexicanos S.A. (Pemex), con sede a Tampico, città che divenne anche il suo porto di registrazione. Lo stesso accadde alle altre petroliere dell’Asse catturate dal Messico; prese in consegna dall’ispettore generale della Pemex, Juan de Dios Bonilla, il loro comando fu affidato ad ufficiali della Marina messicana, ed i loro nuovi equipaggi – interamente messicani – furono formati in parte da personale della fanteria di Marina nonché da ufficiali di coperta, di macchina e radiotelegrafisti appartenenti anch’essi alla Armada de México. In particolare, per ordine della Segreteria della Marina i ruoli di comandante, primo e secondo ufficiale di coperta, direttore di macchina, primo e secondo ufficiale di macchina e radiotelegrafista furono ricoperti da ufficiali dell’Armada. Primo comandante messicano dell’Ébano fu il tenente di vascello Miguel Manzárraga Zamudio; successivamente, nel periodo 1944-1945, ebbe il comando della motocisterna il capitano di corvetta Álvaro Sandoval Paullada, che lo tenne fino al 7 giugno 1945.
Una volta entrate in servizio sotto bandiera messicana, l’Ébano e le altre cisterne vennero impiegate nel trasporto verso gli Stati Uniti del petrolio che, estratto dai pozzi della regione di Tampico, andava ad alimentare lo sforzo bellico Alleato.
Il 10 aprile 1943 l’Ébano salpò da Galveston Bar con il convoglio HK. 168, raggiungendo Key West cinque giorni dopo; lo stesso 15 aprile lasciò Key West facendo parte del convoglio KN. 234. col quale arrivò a New York il 20 o 24 aprile. Ripartì da New York il 26 aprile con il convglio NK. 537 (New York-Key West) e poi raggiunse Galveston Bar, da dove ripartì il 15 maggio insieme al convoglio HK. 182, raggiungendo Key West il 19 maggio. Lasciò quel porto il 25 e raggiunse New York dopo cinque giorni con il convoglio KN. 242, ripartendone il 5 giugno insieme al convoglio NK. 545 ed arrivando a Key West l’11 giugno. Il 15 giugno salpò da Key West per Galveston Bar, con il convoglio KH. 492, arrivandovi il 19 giugno; il 9 luglio partì da Key West facendo parte del convoglio KN. 251, col quale arrivò a New York dopo cinque giorni. Il 20 luglio ripartì da New York nel convoglio NK. 554 diretto a Key West, dove giunse il 27 luglio, ripartendo il giorno stesso per Galveston Bar con il convoglio KH. 409, arrivando a destinazione il 31 luglio. Il 21 dicembre l’Ébano lasciò Galveston Bar con il convoglio HK. 171, arrivando a Key West il 26 dicembre, e ripartendone immediatamente insieme al convoglio KN. 285, arrivando a Jacksonville il 29 dicembre. Tornata poi a Galveston Bar, ne partì il 20 gennaio 1944 con il convoglio HK. 183, arrivando a Key West il 24 gennaio e proseguendo il giorno stesso col convoglio KN. 291 per New York, dove giunse il 29. Il 5 febbraio la petroliera lasciò New York facendo parte del convoglio NK. 594 ed arrivò a Key West l’11 febbraio, ripartendone il 28 per tornare a New York, dove giunse il 5 marzo col convoglio KN. 298. Il 16 o 17 marzo l’Ébano ripartì da New York con il convoglio NK. 602, mentre il 28 aprile lasciò Key West col convoglio KN. 310 raggiungendo New York il 4 maggio. Lasciò quel porto sei giorni dopo insieme al convoglio NK. 613 e fece ritorno a Key West il 17 maggio. Tornata poi a New York l’8 giugno, ne ripartì il 14 diretta a Key West, arrivandovi il 20 giugno 1944 con il convoglio NK. 620. Il 5 agosto 1944 lasciò New York diretta a Tampico, ma l’11 agosto dovette rifugiarsi a Jacksonville per un problema temporaneo, risolto il quale proseguì per la sua destinazione. Dal 24 al 29 gennaio 1945 la nave fu bloccata a New York per un’avaria ai motori; fece poi scalo in quel porto ancora il 5 marzo ed il 27 aprile. Il 30 aprile 1945 la motocisterna lasciò New York insieme al convoglio NK. 684 diretto a Key West, dove giunse il 5 maggio: la guerra in Europa finì tre giorni dopo. Il 7 luglio 1945 l’Ébano fece scalo a New York per un’ultima volta.
Un episodio minore avvenne l’8 giugno 1944, quando due marittimi dell’Ébano, il capo steward José Trinidad Cabrera Sanchez e l’inserviente di mensa Pedro Hernandez Sanchez, vennero arrestati a Jersey City (dove l’Ébano era arrivata da Tampico) in seguito al ritrovamento di 27 sacchi di marijuana sotto la cuccetta del primo (il quale, interrogato, confessò di averla acquistata a Tampico e di essere intenzionato a venderla a New York). Altra marijuana venne poi trovata nell’armadietto di Hernandez Sanchez e nel bagno dell’equipaggio; in tutto, ne furono sequestrati 15 kg e 411 grammi.

L’Ébano sotto bandiera messicana (da “Mis raices petroleras” di Octavio Valle)

Metà delle petroliere italiane confiscate dal Messico furono affondate dagli U-Boote tedeschi durante la seconda guerra mondiale; quelle che sopravvissero, tra cui la Ébano, rimasero al Messico anche dopo la fine della guerra, in base ad accordi presi tra il governo messicano e quello italiano nel dopoguerra.
Il 29 dicembre 1948 la Camera dei Deputati del Messico votò all’unanimità (97 voti favorevoli, nessun contrario) un decreto a firma di Abraham González Rivera e Fernando Cruz Chávez che regolava le questioni relative al sequestro di beni appartenenti a cittadini italiani verificatosi durante il conflitto, con la quale tra l’altro si dichiaravano proprietà nazionale (del Messico) l’Ébano e le altre cisterne ex italiane sopravvissute alla guerra, con tutti i diritti e le indennità relative al loro possesso, così come le somme versate dalle assicurazioni per il risarcimento della perdita delle petroliere ex italiane affondate durante la guerra. Il governo italiano, da parte sua, aveva rinunciato ad ogni diritto in merito nel trattato di pace firmato a Parigi nel 1947 (articolo 76, paragrafi primo e quinto). Nel terzo articolo del decreto approvato dal parlamento messicano, si affermava che «in accordo con quanto deciso dall’Esecutivo il 4 luglio 1945 attraverso la Commissione Intersecretariale sulle Proprietà ed Attività del Nemico, sono proprietà della nazione le navi Poza Rica ex Fede; Ebano ex Stelvio; Minatitlán ex Tuscania; Pánuco ex Giorgio Fassio; e Tabasco ex Marina O., così come i diritti e le indennità inerenti al loro possesso».
L’accordo definitivo col quale si regolarono tutte le questioni pendenti tra gli armatori italiani e la Petroleos Mexicanos fu stipulato a Città del Messico il 10 luglio 1952 tra il Governo italiano – rappresentato dall’ambasciatore d’Italia in Messico Luigi Petrucci, per conto sia del Governo stesso che degli armatori delle navi sequestrate nel 1941 – e la Petroleos Mexicanos – rappresentata dal suo direttore generale, senatore Antonio J. Bermudez –; esso stabiliva nella terza clausola che «Il Governo italiano riconosce al Messico la proprieta' esclusiva delle seguenti cinque navi attualmente naviganti che furono sequestrate dal Governo messicano in base al Decreto in data 8 aprile 1941: "Poza Rica" (ex-Fede); "Ebano" (ex-Stelvio); "Minatitlan" (ex-Tuscania); "Panuco" (ex-Giorgio Fassio) e "Tabasco" (ex-Marina O.)» e che in cambio (quarta clausola) «"Petroleos Mexicanos" e' d'accordo nel dedurre dalla somma menzionata nella clausola 1ª del presente Accordo [somma che da parte italiana si doveva corrispondere alla Petroleos Mexicanos per la perdita in guerra di Minatitlan e Panuco, due delle cisterne in costruzione in Italia, e per la tardiva consegna della terza, la Poza Rica] l'importo di una equa indennita' riconosciuta a favore degli armatori  italiani ex-proprietari delle 10 navi a cui si riferisce la clausola 3ª. Tale indennita' viene fissata nella somma specificata per ciascuna delle navi che figurano nell'allegato n. 2, per un importo totale  di Doll. 6.458.187,00».
L’Ébano continuò a navigare per la Pemex per altri vent’anni: la sua storia giunse alla fine nel giugno 1965, quando venne demolita, sempre in Messico.

Un’altra immagine della Stelvio (da www.marina-mercantile-italiana.com)


4 commenti:

  1. Articolo interessante. Mio nonno era allo Stelvio.
    Sarebbe bello in futuro scriverne uno sulla nave Giuseppe Miraglia durante la guerra civile spagnola.

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  2. Buenas tardes, soy Javier Rodríguez de México, hace algunos días revisando algunos documentos de mi abuelo, que fue marino mercante, encontré las Instruzioni pero la conforta de la nave cisterna "Stelvio"del motore diesel a due tempi con una anotación del del capo macchinista en Génova, agosto 6 de 1938.
    Por historia y respeto a los marinos que navegaron me gustaría saber si tienen algún museo naval al que pudiera hacer llegar está información, así como el informe de máquinas de este barco y de otros como: "El Americano", "Tuscania", "Lucifero", "Genuano", "Vigor" y "Atlas"
    Saludos.

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    1. Buongiorno,
      potrebbe magari provare a contattare il museo del mare di Genova:
      https://galatamuseodelmare.it/

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