sabato 7 ottobre 2017

Pegaso

La Pegaso (g.c. Giorgio Parodi via www.naviearmatori.net)

Torpediniera, o avviso scorta, della classe Orsa (talvolta detta anche “classe Pegaso”; dislocamento standard 840 tonnellate, in carico normale 1016 tonnellate, a pieno carico 1600 tonnellate).
All’entrata in guerra dell’Italia, le quattro unità della classe erano di fatto le sole navi della Regia Marina appositamente concepite per la scorta ai convogli (eccezion fatta per il poco riuscito cacciasommergibili “sperimentale” Albatros), oltre ad essere dotate di considerevole autonomia, e di conseguenza furono fin da subito in “prima linea” sulle rotte per l’Africa Settentrionale, dove prestarono intenso servizio per tutta la campagna nordafricana. Furono anche le prime navi da guerra italiane dotate di sonar, prodotto dalla ditta SAFAR.
Durante la sua carriera, la Pegaso affondò quasi certamente almeno un sommergibile britannico (il Thorn) e forse anche altri due (l’Upholder e l’Undaunted; alcune fonti citano anche il possibile affondamento di un quarto sommergibile, l’Urge, il che tuttavia appare poco probabile).

Breve e parziale cronologia.

15 febbraio 1936
Impostazione presso i Bacini & Scali Napoletani di Napoli.
8 dicembre 1936
Varo presso i Bacini & Scali Napoletani di Napoli.
1937
Allestimento e prove in mare per il collaudo di apparato motore ed armamento.


La Pegaso nel 1937 (Gruppo di Cultura Navale)

30 marzo 1938
Entrata in servizio.
Poco dopo, la Pegaso viene dislocata a Cagliari e partecipa alle operazioni connesse alla guerra civile spagnola, scortando convogli con rifornimenti per le truppe falangiste e del Corpo Truppe Volontarie, al comando del tenente di vascello Luciano Sotgiu (che per il suo operato riceverà dalla Spagna franchista la Cruz Naval Blanca di prima classe al merito). Durante tali missioni, la nave fa anche scalo a Ceuta, nel Marocco spagnolo.
In questo periodo è imbarcato sulla Pegaso il tenente del Genio Navale Luca Balsofiore, futura MOVM.
Maggio 1938
È presente, a Napoli, durante la rivista navale "H" tenuta per la visita in Italia di Adolf Hitler, durante la quale la Pegaso e le gemelle (che formano la Squadriglia Avvisi Scorta) sono a disposizione di Maridipart Napoli.
5 ottobre 1938
Inizialmente classificata avviso scorta, la Pegaso viene in questa data riclassificata torpediniera.


La Pegaso a Barcellona nel 1939 (foto Antonio Cavallini – ANMI Monza)

Maggio 1939
Rientra a Napoli. Successivamente viene dislocata per sei mesi a Tripoli, effettuando anche alcuni viaggi verso Bengasi.


Un’altra foto della nave nel 1939 (Coll. Erminio Bagnasco, da “Mussolini’s Navy” di Maurizio Brescia)

10 giugno 1940
All’entrata in guerra dell’Italia, la Pegaso fa parte della IV Squadriglia Torpediniere, di base a Napoli, che forma con le gemelle Procione (caposquadriglia), Orsa e Orione.


La Pegaso (a destra) ed il resto della IV Squadriglia Torpediniere (Orsa, Orione e Procione, andando verso sinistra) a Napoli l’8 giugno 1940 (foto Antonio Cavallini – ANMI Monza)

16 giugno 1940
Alle 20 dello stesso giorno la Pegaso ed il resto della Squadriglia (Procione, Orsa e Orione) salpano da Napoli per compiere un rastrello antisommergibili al largo di Napoli.
25 giugno 1940
La Pegaso ed il resto della IV Squadriglia Torpediniere (Procione – caposcorta –, Orsa e Orione) partono da Napoli alle 2.15 per scortare a Tripoli i trasporti truppe Esperia e Victoria, aventi a bordo 937 militari e 2775 tonnellate di materiali.
Si tratta del primo convoglio organico inviato in Libia, preceduto soltanto dall’invio della XII Squadriglia Cacciatorpediniere con alcune batterie anticarro.
(Per altra versione, Procione ed Orsa si limitano a scortare i due bastimento fino a Siracusa, poi essere sostituite dalla XIV Squadriglia Cacciatorpediniere «Vivaldi», mentre Orione e Pegaso non partecipano alla missione).
Ha così inizio quella che prenderà il nome di “battaglia dei convogli”.
26 giugno 1940
Il convoglio giunge a Tripoli alle 13.30.
2 luglio 1940
Pegaso, Procione (caposcorta), Orsa e Orione lasciano Tripoli alle 13, per scortare Esperia e Victoria che rientrano a Napoli. Oltre alla scorta diretta, è ora presente una forza di scorta a distanza costituita dalla I Divisione Navale (incrociatori pesanti Zara, Fiume e Gorizia) con la IX Squadriglia Cacciatorpediniere (Vittorio Alfieri, Alfredo Oriani, Vincenzo Gioberti, Giosuè Carducci) e dalla II Divisione Navale (incrociatori leggeri Giovanni delle Bande Nere e Bartolomeo Colleoni) con la X Squadriglia Cacciatorpediniere (Maestrale, Grecale, Libeccio, Scirocco).
4 luglio 1940
Il convoglio arriva a Napoli alle 23.
6 luglio 1940
La IV Squadriglia Torpediniere, con Pegaso, Procione (caposquadriglia), Orsa e Orione, salpa da Napoli alle 19.45 per scortare a Bengasi i trasporti truppe Esperia e Calitea, che hanno a bordo 2190 uomini, e le moderne motonavi da carico Marco Foscarini e Vettor Pisani. Al largo di Catania si unisce al convoglio la motonave Francesco Barbaro, scortata dalle vecchie torpediniere Giuseppe Cesare Abba e Rosolino Pilo. L’operazione è denominata «TCM» (Terra, Cielo, Mare).
Il convoglio segue la rotta che passa per lo Stretto di Messina.
7 luglio 1940
Mentre il convoglio si trova in Mar Ionio, Supermarina viene informato che alle otto del mattino dello stesso 7 luglio la Forza H britannica (portaerei Ark Royal, corazzate Valiant e Resolution, incrociatore da battaglia Hood, incrociatori leggeri ArethusaDelhi ed Enterprise, cacciatorpediniere Faulknor, FoxhoundFearlessDouglasActiveVeloxVortingern, WrestlerEscort e Forester) è uscita in mare da Gibilterra. Scopo di tale uscita (operazione «MA 5») è attaccare gli aeroporti della Sardegna, per distogliere l’attenzione dei comandi italiani da un traffico di convogli tra Alessandria a Malta (due convogli di mercantili per l’evacuazione di civili e materiali da inviare ad Alessandria, ed uno di cacciatorpediniere con alcuni rifornimenti per Malta), con l’appoggio dell’intera Mediterranean Fleet (corazzate Warspite, Malaya e Royal Sovereign, portaerei Eagle, incrociatori leggeri Orion, Neptune, Sydney, Gloucester e Liverpool, cacciatorpediniere Dainty, Defender, Decoy, Hasty, Hero, Hereward, Hyperion, Hostile, Ilex, Nubian, Mohawk, Stuart, Voyager, Vampire, Janus e Juno); questo, però, non è a conoscenza dei comandi italiani, che decidono di fornire protezione al convoglio diretto a Bengasi, facendo uscire in mare l’intera flotta italiana.
La scorta diretta viene così rinforzata dalla II Divisione Navale, con gli incrociatori Bande Nere e Colleoni, dalla X Squadriglia Cacciatorpediniere con Maestrale, Grecale, Libeccio e Scirocco, e dalle torpediniere Pilo e Missori; quale scorta a distanza, escono in mare la 1a Squadra Navale con le Divisioni IV (incrociatori leggeri Alberico Da Barbiano, Alberto Di Giussano, Luigi Cadorna ed Armando Diaz), V (corazzate Giulio Cesare e Conte di Cavour) e VIII (incrociatori leggeri Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi) e le Squadriglie Cacciatorpediniere VII (Freccia, Dardo, Saetta, Strale), VIII (Folgore, Fulmine, Lampo, Baleno), XIV (Leone Pancaldo, Ugolino Vivaldi, Antonio Da Noli), XV (Antonio Pigafetta, Nicolò Zeno) e XVI (Nicoloso Da Recco, Emanuele Pessagno, Antoniotto Usodimare), e la 2a Squadra Navale con l’incrociatore pesante Pola (nave ammiraglia), le Divisioni I (Zara, Fiume, Gorizia), III (incrociatori pesanti Trento e Bolzano) e VII (incrociatori leggeri Emanuele Filiberto Duca d’Aosta, Eugenio di Savoia, Raimondo Montecuccoli e Muzio Attendolo) e le Squadriglie Cacciatorpediniere IX (Alfieri, Oriani, Gioberti, Carducci), XI (Aviere, Artigliere, Geniere, Camicia Nera), XII (Lanciere, Carabiniere, Ascari, Corazziere) e XIII (Granatiere, Bersagliere, Fuciliere, Alpino). Pola, I e III Divisione, con le relative squadriglie di cacciatorpediniere (IX, XI e XII), si posizionano 35 miglia ad est del convoglio, per proteggerlo da un attacco navale proveniente da est, mentre la VII Divisione e la XIII Squadriglia, posizionate 45 miglia ad ovest, forniscono protezione da attacchi provenienti da Malta; il resto della flotta (IV, V e VIII Divisione, VII, VIII, XIV, XV e XVI Squadriglia) forma infine un gruppo di sostegno. Non è tutto: viene organizzata un’intensa ricognizione aerea con grandi aliquote dei velivoli della ricognizione marittima, il posamine ausiliario Barletta viene inviato a posare mine a protezione del porto di Bengasi, e vengono inviati in tutto 14 sommergibili in agguato nel Mediterraneo orientale.
L’avvistamento anche della Mediterranean Fleet, uscita da Alessandria nel pomeriggio del 7 – come si è detto – per proteggere i convogli con Malta, non fa che confermare la convinzione di Supermarina circa la necessità delle misure adottate.
Il convoglio, procedendo a 14 nodi, segue rotta apparente verso Tobruk fino a giungere in un punto situato 245 miglia a nordovest di Bengasi, quindi assume rotta verso quest’ultimo porto; dopo altre 100 miglia il convoglio si divide, lasciando proseguire a 18 nodi le più veloci Esperia e Calitea, mentre le motonavi da carico manterranno una velocità di 14 nodi.
8 luglio 1940
All’1.50 l’ammiraglio Inigo Campioni, comandante della flotta italiana, a seguito di avvistamenti della ricognizione che rivelano la presenza in mare della Mediterranean Fleet britannica (anch’essa uscita a tutela di convogli), ordina al convoglio, che si trova in rotta 147° (per Bengasi) di assumere rotta 180°, in modo da essere pronto ad essere dirottato su Tripoli in caso di necessità. Alle 7.10, appurato che la Mediterranean Fleet non può essere diretta ad intercettare il convoglio, Campioni ordina a quest’ultimo di tornare sulla rotta per Bengasi.
La Pegaso e le altre navi del convoglio (le torpediniere seguono in porto i mercantili) entrano a Bengasi tra le 18 e le 22, così concludendo la traversata senza inconvenienti. In tutto il convoglio porta in Libia 2190 uomini (1571 sull’Esperia e 619 sulla Calitea), 72 carri armati M11/39, 232 automezzi, 5720 tonnellate di carburante e 10.445 tonnellate di rifornimenti.
Durante la navigazione di rientro alle basi, la flotta italiana si scontrerà con quella britannica, nell’inconclusivo confronto divenuto poi noto come battaglia di Punta Stilo.
10 luglio 1940
Per ordine di Marina Bengasi, la Pegaso esce in mare per cercare un idrovolante CANT Z. 501 della 148a Squadriglia da Ricognizione Marittima Lontana, il n. 6 del sottotenente Fulvio Simiani, che alle 9.20 è dovuto ammarare, in condizioni di mare sfavorevoli, a 80 miglia da Bengasi, a causa di un’avaria al motore.
Durante la notte la Pegaso cerca l’idrovolante in avaria, che intanto scarroccia per il moto ondoso e del vento da nordovest, ma non riesce a trovarlo.
11 luglio 1940
Una volta sorto il sole, l’idrovolante del sottotenente Simiani viene localizzato 80 miglia a nordovest di Bengasi dal CANT Z. 501 del tenente Vannio Vercillo (anch’egli appartenente alla 148a Squadriglia R.M.L.), che indirizza sul posto della Pegaso, già in mare da venti ore. La torpediniera riesce infine ad agganciare l’idrovolante – avariato ma intatto – ed a rimorchiarlo, non senza difficoltà, fin nel porto di Bengasi, salvando così sia il mezzo che l’equipaggio.
19 luglio 1940
Alle sei del mattino la Pegaso lascia Bengasi insieme al resto della IV Squadriglia (Procione, caposcorta, Orsa e Orione) per scortare in Italia Esperia, Calitea, Foscarini, Pisani e Barbaro.
In mattinata la scorta diretta viene rinforzata dalla X Squadriglia Cacciatorpediniere (Maestrale, Grecale, Libeccio, Scirocco) proveniente da Tripoli. Per scorta indiretta esce da Taranto l’VIII Divisione Navale (Duca degli Abruzzi e Garibaldi) con i relativi cacciatorpediniere, mentre la III Divisione si tiene pronta a Messina, per intervenire rapidamente in caso di necessità.
21 luglio 1940
Il convoglio arriva a Napoli alle 00.30, senza che si siano manifestati problemi.
27 luglio 1940
Pegaso, Procione (caposquadriglia), Orsa e Orione salpano da Napoli alle 5.30 per scortare a Tripoli un convoglio composto dai piroscafi Maria EugeniaBainsizza e Gloria Stella e dalle motonavi MaulyCol di LanaFrancesco Barbaro e Città di Bari, nell’ambito dell’operazione «Trasporto Veloce Lento» (T.V.L.). Si tratta del convoglio lento, avente velocità 7,5 nodi.
A protezione di questo e di un secondo convoglio diretto a Bengasi (quello veloce, che procede a 16 nodi: trasporti truppe Marco PoloCittà di Palermo e Città di Napoli, torpediniere AlcioneAironeAretusa ed Ariel) saranno in mare, dal 30 luglio al 1° agosto, gli incrociatori pesanti PolaZaraFiumeTrento e Gorizia (I Divisione), gli incrociatori leggeri Alberico Da Barbiano ed Alberto Di Giussano della IV Divisione e Luigi di Savoia Duca degli AbruzziEugenio di SavoiaRaimondo Montecuccoli e Muzio Attendolo della VII Divisione, e le Squadriglie Cacciatorpediniere IX (AlfieriOrianiGiobertiCarducci), XII (LanciereCorazziereCarabiniereAlpino), XIII (GranatiereBersagliereFuciliereAscari) e XV (PigafettaMalocelloZeno).
28 luglio 1940
A seguito dell’avvistamento di notevoli forze navali britanniche uscite in mare sia da Alessandria (il grosso della Mediterranean Fleet) che da Gibilterra (l’incrociatore da battaglia Hood, le corazzate Valiant e Resolution e le portaerei Argus ed Ark Royal), i due convogli dell’operazione T.V.L. ricevono ordine da Supermarina di rifugiarsi immediatamente nei porti della Sicilia.
Il convoglio lento, con la IV Squadriglia, giunge a Catania in serata e vi sosta per due giorni.
30 luglio 1940
Passata la minaccia, il convoglio riparte in mattinata da Catania, con il rinforzo della X Squadriglia Cacciatorpediniere (MaestraleGrecale, Libeccio e Scirocco)
Intorno alle 14 il convoglio viene attaccato, circa 20 miglia a sud di Capo dell’Armi (ed a sudovest di Capo Spartivento), dal sommergibile britannico Oswald (capitano di corvetta David Alexander Fraser), che lancia alcuni siluri contro il Grecale e la Col di Lana: il cacciatorpediniere riesce però a schivare le armi, che mancano anche la motonave. L’Oswald lancia via radio un segnale di scoperta relativo al convoglio.
1° agosto 1940
Il convoglio raggiunge indenne Tripoli alle 9.45.
2 agosto 1940
Pegaso, Procione, Orsa e Orione salpano da Tripoli alle 8.30 per scortare a Bengasi Maria Eugenia, Gloria Stella, Mauly, Caffaro, Col di Lana e Città di Bari.
4 agosto 1940
Il convoglio raggiunge Bengasi a mezzogiorno.
12 agosto 1940
Pegaso ed Orione (caposcorta) salpano da Bengasi alle 14 per scortare a Tripoli il Marco Polo.
(Per la stessa data, con evidente incrongruenza, lo stesso volume dell’USMM riporta anche che la Pegaso sarebbe partita da Bengasi alle 19 scortando Maria Eugenia, Gloria Stella, Mauly e Col di Lana, giungendo a Tripoli alle 10.10 del 15).
13 agosto 1940
Pegaso, Orione e Marco Polo arrivano a Tripoli alle 10.30.
16 agosto 1940
Pegaso, Procione, Orsa e Orione lasciano da Tripoli alle 18.30 per scortare in Italia Marco Polo, Città di Palermo e Città di Napoli.
Nella notte si uniscono alla scorta la X Squadriglia Cacciatorpediniere (Maestrale, Grecale, Libeccio e Scirocco) e la I Squadriglia Torpediniere (Alcione, Airone, Ariel ed Aretusa).
18 agosto 1940
Il convoglio arriva a Palermo alle tre.
(Sempre secondo il libro dell’USMM, con un’altra incongruenza, la Pegaso sarebbe salpata alle 16 del 18 da Tripoli, scortando a Palermo Mauly e Col di Lana, arrivandovi alle 8 del 21 agosto).
19 agosto 1940
Il convoglio giunge a Napoli alle 19.
10 settembre 1940
La Pegaso salpa da Napoli per Tripoli alle 18, scortando il piroscafo Caffaro e le motonavi Mauly e Col di Lana.


Un’altra foto della nave (g.c. Marcello Risolo)

13 settembre 1940
Il convoglio giunge a Tripoli alle 16.30.
14 settembre 1940
La Pegaso salpa da Bengasi alle 9.30 di scorta alla motonave Andrea Gritti, diretta a Tripoli.
15 settembre 1940
Pegaso e Gritti arrivano a Tripoli alle 10.30.
21 settembre 1940
La Pegaso lascia Tripoli alle 4.15 di scorta alla Gritti, diretta ora a Napoli.
22 settembre 1940
Le due navi giungono a Napoli alle 18.30.
2 novembre 1940
La Pegaso salpa da Palermo per Tripoli alle 5, scortando i piroscafi Rapido e Pegli.
4 novembre 1940
Il convoglietto raggiunge Tripoli alle 12.15.
15 novembre 1940
La Pegaso e la torpediniera Castore partono da Tripoli per Bengasi alle 10.45, scortando la motonave Calino.
16 novembre 1940
Le tre navi arrivano a Bengasi alle 9.
17 novembre 1940
La Pegaso lascia Bengasi per Tripoli alle 14, scortando il piroscafo Livenza.
19 novembre 1940
Pegaso e Livenza arrivano a Tripoli alle 10.45.
22 novembre 1940
La Pegaso lascia Tripoli alle 4 scortando il Livenza e la motonave Giulia, diretti a Palermo.
25 novembre 1940
Il convoglio raggiunge Palermo alle 8.40.
3 dicembre 1940
La Pegaso lascia Palermo per Tripoli alle 10.15, scortando le navi cisterna mercantili Ennio e Caucaso e la cisterna militare Po.
6 dicembre 1940
Il convoglio giunge a Tripoli alle 00.30.
2 gennaio 1941
La Pegaso salpa da Tripoli a mezzogiorno scortando i piroscafi Pallade ed Ezilda Croce, diretti a Napoli, via Palermo.
4 gennaio 1941
Il convoglio viene infruttuosamente attaccato da aerosiluranti britannici al largo di Capo Bon.
5 gennaio 1941
Il convoglio giunge a Palermo alle 17.30.
9 gennaio 1941
Il convoglio giunge a Napoli alle 13.
20 gennaio 1941
La Pegaso lascia Napoli alle 18 per scortare a Tripoli i piroscafi Caffaro (italiano) e Menes (tedesco) e la motonave Col di Lana.
21-22 gennaio 1941
A causa del maltempo, il convoglietto deve restare a ridosso di Favignana dalle 22 del 21 gennaio alle 12.30 del 22.
24 gennaio 1941
Il convoglio arriva a Tripoli alle 10.


La Pegaso in un’immagine probabilmente d’almanacco (da buenaventuramenorca.files.wordpress)

1940-1941
L’armamento contraereo viene completamente sostituito: vengono eliminate le otto mitragliere da 13,2/76 mm (due singole e tre binate) che lo costituivano, mentre al loro posto sono installate quattro più potenti mitragliere binate Breda 1935 da 20/65 mm. Le tramogge per bombe di profondità vengono aumentate da due a quattro.
13 febbraio 1941
Pegaso (caposcorta, capitano di corvetta Giungi) ed Orsa, insieme alla vecchia torpediniera Giuseppe La Farina, lasciano Tripoli alle 11 per scortare a Napoli i mercantili tedeschi Arcturus, Alicante ed Ankara.
14 febbraio 1941
Verso le tre di notte (altra versione: le 23) il convoglio subisce un infruttuoso attacco di aerosiluranti, poco a nord delle isole Kerkennah. Tutte le navi aprono immediatamente il fuoco con le artiglierie contraeree; l’Ankara ritiene di aver colpito con il suo tiro un aerosilurante che l’ha attaccata, forse riuscendo a costringerlo ad ammarare per i danni.
Alle 23.49, le navi italiane vengono avvistate a nord di Pantelleria dal sommergibile britannico Triumph (capitano di corvetta Wilfrid John Wentworth Woods).
15 febbraio 1941
Alle 00.18 il Triumph lancia cinque siluri da 4600 metri (intenzione di Woods sarebbe lanciarne quattro, ma un malinteso induce i siluristi a pensare di doverne lanciare sei; uno di essi non parte per un difetto), ma nessuna nave viene colpita.
Il convoglio giunge a Napoli a mezzogiorno dello stesso 15.
1° marzo 1941
Pegaso, Orione e la torpediniera Clio (caposcorta) salpano da Napoli per Tripoli alle 4 (o 4.15), scotando i piroscafi Amsterdam, Castellon, Ruhr e Maritza (italiano il primo, tedeschi gli altri).
3 marzo 1941
Il convoglio arriva a Tripoli alle 18.
5 marzo 1941
Pegaso, Orione e l’incrociatore ausiliario RAMB III lasciano Tripoli alle 12 di scorta a Castellon, Ruhr e Maritza che ritornano a Napoli.
7 marzo 1941
Il convoglio giunge a Napoli alle 15.
15 marzo 1941
La Pegaso salpa da Tripoli alle 8 insieme alle torpediniere Centauro e Clio (caposcorta) per assumere la scorta della nave cisterna Rondine e la motonave Cilicia. Centauro e Clio sono salpate già il 13 insieme ai due mercantili, diretti a Palermo e Napoli, ma sono dovute tornare indietro a causa del maltempo, lasciando proseguire Rondine e Cilicia.
17 marzo 1941
Raggiunta la Rondine, la Pegaso la scorta fino a Napoli, dove giunge alle 21.30.
23 marzo 1941
La Pegaso, insieme alle torpediniere Castore, Circe (caposcorta), Clio, Centauro e Calliope, salpa da Napoli per Tripoli tra le 5 e le 15, di scorta ad un convoglio composto dai piroscafi Amsterdam, Caffaro e Capo Orso e dalle motonavi Giulia e Col di Lana.
27 marzo 1941
Il convoglio raggiunge Tripoli alle 14.
30 marzo 1941
La Pegaso (tenente di vascello Sironi) lascia Tripoli alle 14.30 uNitamente alle torpediniere Cigno, Calliope e Clio (caposcorta, capitano di corvetta Giliberto), scortando un convoglio di ritorno formato dai piroscafi AquitaniaGalilea (tedesco), Caffaro e Beatrice Costa.
31 marzo 1941
Alle 7 il sommergibile britannico Upright (tenente di vascello Edward Dudley Norman) avvista in posizione 33°38’ N e 12°40’ E (una sessantina di miglia a nordovest di Tripoli) il convoglio, su rilevamento 220° e con rotta 350°. In quel momento il convoglio, in procinto di raggiungere la zona delle secche di Kerkennah, incontra un convoglio veloce di mercantili tedeschi scortati dai cacciatorpediniere della XIV Squadriglia Cacciatorpediniere; il comandante di quest’ultima (capitano di vascello Giovanni Galati, del Vivaldi) nota che, pur essendo ormai giorno fatto, il convoglio procede ancora in linea di fila (formazione adottata durante la navigazione notturna) anziché in linea di fronte (formazione usata di giorno, quando garantisce maggior sicurezza contro gli attacchi subacquei), e che il Galilea è rimasto molto indietro rispetto alle altre navi.
Anche il comandante dell’Upright si accorge che il Galilea è più arretrato degli altri, e che sembra parzialmente carico (a differenza degli altri tre, che appaiono scarichi): così lo sceglie come bersaglio e, alle 7.39, gli lancia due siluri da 915 metri. Una delle armi colpisce il Galilea, provocando seri danni, due vittime e tre feriti; Pegaso e Calliope vengono distaccate per prestargli assistenza. Il resto della scorta inizia alle 7.51 il contrattacco, lanciando quattro bombe di profondità, poi seguite da altre due alle 8.06 (che scoppiano piuttosto vicine al sommergibile, causando alcuni danni leggeri) ed un’ultima alle 9.21, dopo che l’Upright è tornato temporaneamente a quota periscopica alle 9.
La Pegaso, intanto, prende a rimorchio il Galilea e, sotto la scorta della Calliope, fa rotta per Tripoli. Più tardi sopraggiunge il rimorchiatore Polifemo, che sostituisce la Pegaso nel rimorchio; alle 00.30 del 31 il Galilea viene portato all’incaglio nei pressi di Tripoli, in modo da evitarne l’affondamento. Non verrà mai riparato.
8 aprile 1941
Pegaso, Orsa ed i cacciatorpediniere Turbine, Saetta (caposcorta) e Scirocco partono da Tripoli alle 4.30 per scortare a Napoli i piroscafi tedeschi Maritza, Procida, Alicante e Santa Fe.
A mezzogiorno il convoglio è costretto a tornare in porto a causa del maltempo.
9 aprile 1941
In mattinata le navi lasciano nuovamente Tripoli.
11 aprile 1941
Il convoglio giunge a Napoli alle 10.
(Nuova incongruenza del libro USMM: la Pegaso sarebbe anche partita da Tripoli per Napoli alle 22 del 10, scortando i piroscafi Tembien e Capo Orso insieme ai cacciatorpediniere Turbine e Saetta, il secondo dei quali caposcorta. Il convoglio giunge a Napoli alle 14.30 del 13).
4 maggio 1941
Pegaso, Orione e la torpediniera Cassiopea partono da Napoli per Tripoli all’1.15, insieme ai cacciatorpediniere Ugolino Vivaldi (caposcorta), Antonio Da Noli e Lanzerotto Malocello della XIV Squadriglia Cacciatorpediniere, formando la scorta diretta di un convoglio (convoglio «Victoria») diretto a Tripoli e scortato dalle motonavi Victoria, Andrea Gritti, Marco Foscarini, Sebastiano Venier, Barbarigo, Ankara (tedesca) e Calitea.
Dal momento che a Malta sono state avvistate unità leggere della Royal Navy, il convoglio gode anche della scorta a distanza della VII Divisione Navale (ammiraglio di divisione Ferdinando Casardi), con gli incrociatori leggeri Eugenio di Savoia, Muzio Attendolo ed Emanuele Filiberto Duca d’Aosta, ed i cacciatorpediniere Nicoloso Da Recco, Alvise Da Mosto, Antonio Pigafetta, Giovanni Da Verrazzano e Nicolò Zeno. Queste navi prendono posizione in testa al convoglio «Victoria» alle 20.03, a circa tre chilometri di distanza, con i cacciatorpediniere in posizione di scorta avanzata. La formazione di marcia notturna disposta da Casardi è così articolata: cacciatorpediniere in scorta avanzata, seguiti dagli incrociatori in linea di fila, seguiti dal convoglio disposto su tre colonne, con scorta laterale. Ciò al fine di consentire alle navi della VII Divisione di reagire prontamente contro unità di superficie che dovessero attaccare dai settori dove ciò appare più probabile, senza essere intralciati nelle manovre da convoglio e scorta, che avrebbe inoltre così modo di allontanarsi senza perdite. La scorta diretta, secondo la valutazione dell’ammiraglio, dovrebbe bastare a proteggere il convoglio da attacchi nei settori poppieri, che comunque sono poco probabili, stante la velocità del convoglio e la posizione delle basi britanniche.
Fino al tramonto, il convoglio fruisce di numerosa scorta aerea con velivoli sia da caccia che da bombardamento.
5 maggio 1941
La navigazione notturna si svolge senza inconvenienti.
Alle 5.45 la VII Divisione si porta sulla congiungente Malta-convoglio, sulla quale poi si mantiene zigzagando per tutta la giornata, tenendosi in vista del convoglio. Alle 6.40 sopraggiungono i primi velivoli della scorta aerea (idrovolanti della ricognizione marittima e bombardieri).
Alle 14.26 viene avvistato un secondo convoglio, il «Marco Polo», in navigazione su rotta opposta, e la VII Divisione passa a scortare quest’ultimo, mentre il «Victoria» dirige su Tripoli.
Dopo un viaggio nel quale il convoglio «Victoria», continuamente pedinato da ricognitori, ha subito diversi infruttuosi attacchi aerei, le navi entrano a Tripoli alle 20.45.
12 maggio 1941
Alle 10 la Pegaso (capitano di corvetta Gian Luigi Sironi), insieme all’Orione ed alla torpediniera Clio (caposcorta), salpa da Tripoli scortando i piroscafi Nicolò Odero e Maddalena Odero, diretti in Italia. Il convoglio (che gode della scorta indiretta dell’VIII Divisione Navale, con gli incrociatori leggeri Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi e dei cacciatorpediniere Granatiere e Bersagliere), in base agli ordini ricevuti, deve seguire la costa della Tripolitania fino all’altezza di Zuara, per poi fare rotta per Trapani.
Alle 18.40, a nord di Tripoli ed al largo di Zuara, uno dei velivoli della scorta aerea segnala la presenza di un sommergibile sul lato mare; la Pegaso, che in quel momento dista diverse miglia dal convoglio, lascia la formazione e si dirige sul posto indicato dall’aereo. La nave attacca il presunto sommergibile con bombe di profondità, dopo di che vede emergere in superficie vaste chiazze di nafta; alle 20.28, ritenendo di aver affondato il sommergibile, la Pegaso ritorna in formazione, comunicando alla Clio quanto accaduto.
È possibile che il sommergibile attaccato dalla Pegaso fosse il britannico Undaunted (tenente di vascello James Lees Livesay), alla sua prima missione in Mediterraneo, scomparso negli stessi giorni e nella stessa zona. A favore dell’ipotesi di un suo affondamento da parte della Pegaso, vi sono l’avvistamento da parte dell’aereo di scorta, l’abbondante quantità di nafta vista affiorare in superficie, ed il fatto che l’attacco della Pegaso avvenne effettivamente nel settore d’agguato assegnato all’Undaunted; contro quest’ipotesi, invece, vi è il fatto che il 12 maggio l’Undaunted, in base agli ordini, non si sarebbe dovuto trovare nella zona dove avvenne l’attacco, bensì già in navigazione di ritorno verso Malta (ma è possibile che il suo comandante avesse deciso di restare in zona per un altro giorno, o che qualche avaria avesse impedito al sommergibile di tornare). Rimane anche la possibilità che il sommergibile sia affondato su un campo minato.
15 maggio 1941
Il convoglio giunge a Napoli alle 5.


La Pegaso a Cefalonia (Antonio Cavalli – ANMI Monza)

24 maggio 1941
Pegaso, Orsa e Procione salpano da Napoli alle 4.30 (o 4.40) insieme al cacciatorpediniere Freccia (caposcorta, capitano di fregata Giorgio Ghè) per scortare a Tripoli un convoglio veloce formato dai trasporti truppe Conte RossoMarco Polo, Esperia e Victoria, aventi a bordo in tutto 8500 soldati diretti in Libia. Capoconvoglio è il contrammiraglio Francesco Canzoneri, imbarcato sul Conte Rosso. Il convoglio segue a 17-18 nodi la rotta che passa ad est di Malta.
Tra le 8 e le 9, come preavvisato da Marina Napoli, Esperia e Conte Rosso vengono sottoposti ad attacchi simulati da parte di aerosiluranti italiani, per addestrare sia questi ultimi (ad attaccare) che le navi stesse (a difendersi da simili attacchi).
Alle 15.15 le navi imboccano lo stretto di Messina; da quest’ultima città escono le torpediniere CalliopePerseo e Calatafimi, che raggiungono il convoglio al largo della città e fino alle 19.10 lo accompagnano per rafforzare la vigilanza antisommergibile, per poi lasciarlo al largo di Riposto, come ordinato, e tornare a Messina. Alle 16 salpa da Messina la III Divisione Navale (ammiraglio di divisione Bruno Brivonesi), con gli incrociatori pesanti Trieste e Bolzano ed i cacciatorpediniere AscariLanciere e Corazziere, che fornirà al convoglio scorta indiretta (procedendo circa 3 km a poppavia dello stesso); aerei da caccia, bombardieri ed idrovolanti (83° Gruppo della Regia Aeronautica) costituiscono invece la scorta aerea, presente dalle 13.56 fino al tramonto (gli ultimi aerei, due idrovolanti CANT Z. 501, se ne vanno alle 20.15 per tornare alle basi di Augusta e Taranto).
Nel frattempo – subito dopo aver attraversato lo stretto (il che avviene tra le 15.15 e le 17.30) – il convoglio assume la formazione in colonna doppia; Esperia e Conte Rosso sono i capi colonna, rispettivamente a dritta ed a sinistra (l’Esperia è seguito dalla Victoria, il Conte Rosso dal Marco Polo). L’Orsa precede il convoglio e lancia bombe di profondità a scopo intimidatorio dopo aver superato Reggio Calabria; alle 16.34 e 16.53 anche il Freccia lancia due bombe. Poi Pegaso e Freccia si dispongono in colonna sul lato sinistro del convoglio (Freccia più avanti, all’altezza del Conte Rosso; Pegaso più indietro, a poppavia del Marco Polo), Orsa e Procione sul lato dritto (l’Orsa in posizione più avanzata, all’altezza dell’Esperia, e la Procione più indietro, a poppavia della Victoria). Trieste e Bolzano seguono incolonnati a tre chilometri, preceduti da Ascari (a dritta), Lanciere (a sinistra) e Corazziere (al centro) che procedono in linea di fronte. Il convoglio procede quindi a zig zag su quattro colonne (due di trasporti e due di siluranti, con due navi in ogni colonna), con rotta 171° e velocità 18 nodi.
Il mare è calmo, forza 1-2 senza cresta d’onda, non un alito di vento; il tramonto, particolarmente luminoso, rende le sagome delle navi molto visibili da ovest.
Alle 20.30 il convoglio viene avvistato nel punto 36°48’ N e 15°42’ E (una decina di miglia ad est di Siracusa e a 10 miglia per 83° da Capo Murro di Porco) dal sommergibile britannico Upholder (tenente di vascello Malcolm David Wanklyn). Wankyn stima che il convoglio abbia una rotta di 215°, e si avvicina per attaccare. Proprio alle 20.40, le navi smettono di zigzagare, per fare il punto.
Alle 20.43, prima di scendere a 45 metri e ripiegare verso est, l’Upholder lancia due siluri contro il Conte Rosso, la nave più grande del convoglio. Dopo una breve corsa, i siluri mancano il Freccia e colpiscono il bersaglio prescelto.
Subito dopo il siluramento, il Freccia lancia un razzo Very verde, segnale convenzionale d’allarme; i tre trasporti illesi eseguono la prescritta manovra di disimpegno, Esperia e Victoria accostando di 90° a dritta, Marco Polo a sinistra. Alle 20.50 Pegaso e Procione ricevono ordine dal Freccia, come stabilito già nell’ordine di operazioni, di provvedere al salvataggio dei naufraghi; intanto il caposcorta inizia a lanciare bombe di profondità (effettuerà tre corse, lanciando in tutto 17 cariche fino alle 21), ordina all’Orsa di proseguire col convoglio (ma questa risponde solo alle 21.15) e poi cerca di contattare i tre piroscafi per radiosegnalatore (ma, benché si sia stabilito che su ognuno di essi si debba effettuare servizio continuo di ascolto dalle 21 in poi, e sempre in caso di allarme, nessuno risponde).
Il Conte Rosso s’inabissa in poco più di dieci minuti, una decina di miglia ad est di Capo Murro di Porco. L’Upholder, sceso a 45 metri, viene bombardato con 37 cariche di profondità dalle 20.47 alle 21.07 da Freccia, Lanciere e Corazziere, ma non subisce danni.
Lanciere e Corazziere si uniscono a Pegaso e Procione nel salvataggio dei naufraghi (sul posto, per partecipare ai soccorsi, arrivano in seguito anche le torpediniere Cigno, Pallade e Clio, inviate da Messina, e le navi ospedale Arno e Sicilia), mentre il convoglio prosegue verso Tripoli (dove arriverà alle 17.30 dell’indomani).
Il buio della notte rende particolarmente difficile il recupero dei naufraghi; dei 2729 uomini imbarcati sul Conte Rosso, 1297 sono affondati con la nave o sono morti in mare dopo l’affondamento. La Pegaso recupera 445 sopravvissuti e 4 salme; la Procione trae in salvo circa 270 naufraghi, mentre altri 540 circa sono salvati da Granatiere e Corazziere.
25 maggio 1941
Terminate le operazioni di salvataggio, la Pegaso e le altre unità soccorritrici giungono in mattinata ad Augusta, dove sbarcano i naufraghi del Conte Rosso. Nel rapporto sulle operazioni di salvataggio, così si parla dell’operato delle torpediniere: "Tutti i passeggeri senza distinzione hanno manifestato la loro profonda riconoscenza per l’opera dei marinai delle siluranti che procedettero al salvataggio e per le più che fraterne cure ricevute a bordo. In modo speciale vi è stato un vero entusiasmo generale per le Torpediniere Procione e Pegaso che col loro spirito di abnegazione e colla abilità marinaresca dimostrata dall’equipaggio oltre che dai Comandanti, hanno contribuito nella misura massima possibile al salvataggio".
26 maggio 1941
Pegaso, Pallade, Procione, Castore, Cigno ed i cacciatorpediniere Vivaldi (caposcorta, capitano di vascello Giovanni Galati), Saetta e Da Noli partono da Napoli alle 2.30 (altra versione indica l’orario di partenza nelle 23 del 25 maggio) per scortare a Tripoli un convoglio formato dalle motonavi Marco Foscarini, Andrea Gritti, Sebastiano Venier, Barbarigo, Rialto ed Ankara (tedesca).
Il convoglio, che ha scorta aerea per alcuni tratti, è scortato a distanza dalla III Divisione Navale, dallo stretto di Messina in poi; segue le rotte che passano ad est di Malta.
27 maggio 1941
Verso le 13 (poco dopo che gli aerei dell’Aeronautica di Sicilia della scorta aerea hanno lasciato il convoglio, mentre i velivoli che avrebbero dovuto sostituirli, provenienti dalla Libia, non sono potuti decollare a causa del forte ghibli) vengono avvistati sei aerei a 6-7 km di distanza, i quali volano a 10-20 metri di quota su rotta opposta al convoglio. Si tratta di bombardieri britannici Bristol Blenheim decollati da Malta, i quali si portano al traverso del convoglio e poi accostano per attaccare il gruppo formato da Foscarini, Barbarigo, Venier, Cigno e Da Noli. Le navi aprono subito il fuoco; due degli attaccanti (il V6460 del sergente E. B. Inman e lo Z6247 del capitano G. M. Fairburn) vengono abbattuti (secondo fonti italiane, dal fuoco contraereo; per i britannici, ambedue gli aerei sarebbero stati travolti e distrutti dallo scoppio delle bombe sganciate dallo stesso Inman su una delle motonavi), ma Foscarini e Venier sono colpite.
La Venier subisce solo danni lievi, perché l’unica bomba che la colpisce non esplode; ma la Foscarini viene incendiata ed immobilizzata. L’unico sopravvissuto dei sei uomini componenti gli equipaggi dei due aerei, il sergente K. P. Collins della 82a Squadriglia della R.A.F., gravemente ferito, viene recuperato dalla Cigno.
L’attacco dura tre minuti. La Foscarini, in fiamme assistita dal Da Noli, dovrà essere rimorchiata fino a Tripoli, dove viene portata a poggiare sul fondo dell’avamporto il 30 maggio; ma non verrà mai recuperata.
Si tratta del primo attacco aereo verificatosi sulla rotta di levante per la Libia, nonché del primo bombardamento a bassa quota contro navi nella guerra del Mediterraneo.
Alle 19.10 sopraggiungono, dopo ripetute richieste del caposcorta, quattro aerei da caccia ed un aerosilurante Savoia Marchetti S.M.79 per la scorta aerea.
28 maggio 1941
Il convoglio giunge a Tripoli in mattinata.
Sempre secondo la cronologia dell’U.S.M.M., Pegaso, Procione, Orsa e Freccia lasciano Tripoli per Napoli a mezzogiorno del 27 scortando Esperia, Victoria e Marco Polo, che tornano in Italia (evidente discrepanza temporale con il viaggio precedente). Si segue di nuovo la rotta di levante e per lo stretto di Messina; la III Divisione fornisce protezione a distanza nel tratto centrale della traversata, distaccando anche il cacciatorpediniere Lanciere per rafforzare la scorta diretta.
29 maggio 1941
Il convoglio giunge a Napoli all’1.30.
10 giugno 1941
Pegaso, Procione, Orsa ed il cacciatorpediniere Lanzerotto Malocello (caposcorta, capitano di fregata Nicolò Del Buono) salpano da Napoli per Tripoli alle 5.30, scortando un convoglio formato dai piroscafi italiani Amsterdam, Ernesto e Tembien, dal tedesco Wachtfels e dalle motonavi italiane Giulia e Col di Lana. Le navi procedono a 10 nodi.
Al largo di Favignana si aggregano al convoglio anche la nave appoggio sommergibili Antonio Pacinotti e la torpediniera Clio, uscita da Trapani alle 14.30.
11 giugno 1941
Alle 18.30, a sud di Pantelleria, due bombardieri britannici Bristol Blenheim appaiono a poppavia del convoglio, volando a bassissima quota, e si avventano sul Tembien, secondo mercantile della colonna di sinistra, mitragliando e sganciando bombe. Prima dello sgancio, tuttavia, il tiro contraereo di Tembien e Wachtfels colpisce uno dei due aerei attaccanti: il bombardiere perde quota, urta l’albero del Tembien e precipita in mare, incendiandosi. Il secondo bombardiere, eseguito lo sgancio delle bombe, si allontana inseguito da un Savoia Marchetti S.M. 79 (che, al momento dell’attacco, era l’unico velivolo dell’Asse in visto del convoglio, 5 km a proravia) e poi da due caccia della scorta aerea, nonché dal tiro delle mitragliere della Pegaso (secondo una fonte, sarebbe stato poi anch’esso abbattuto).
Il Tembien non viene colpito dalle bombe e non subisce danni di rilievo, ma deve lamentare parecchi feriti per il mitragliamento.
12 giugno 1941
Il convoglio arriva a Tripoli tra le 19 e le 21.
21 giugno 1941
Alle 15 la Pegaso (tenente di vascello Sironi) salpa da Tripoli insieme al cacciatorpediniere Lanzerotto Malocello (caposcorta, capitano di fregata Del Buono) ed alle torpediniere Enrico Cosenz, Procione, Orsa e Clio, scortando un convoglio composto dai piroscafi Wachtfels (tedesco), AmsterdamGiuliaErnesto e Tembien, e dalla motonave Col di Lana.
22 giugno 1941
Alle 12.08 sei bombardieri Bristol Blenheim, che volano a bassissima quota, vengono avvistati sulla dritta del convoglio (che in quel momento ha una scorta aerea formata da due caccia biplani FIAT CR. 42 e da un idrovolante antisommergibili CANT Z. 501). Il caposcorta apre il fuoco con le mitragliere per dare l’allarme, e poi, quando possibile, anche con i cannoni; il CANT Z. 501 s’interpone tra i bombardieri ed i piroscafi, sparando con le proprie mitragliere (tornerà poi in posizione di scorta al termine dell’attacco). Anche le altre navi della scorta ed i mercantili aprono il fuoco; la formazione nemica si divide in due gruppi di tre bombardieri ciascuno, che attaccano uno la prima linea di piroscafi e l’altro la seconda. I mercantili accostano in modo da volgere la poppa agli aerei; due o forse tre dei velivoli vengono abbattuti (due colpiti dal tiro delle siluranti: uno cade in mare, l’altro s’incendia in volo e poi precipita; un terzo è forse abbattuto dai FIAT CR. 42 della scorta aerea) ed altri si allontanano scaricando le bombe in mare, ma due riescono a portare a termine l’attacco, sganciando le loro bombe su Tembien e Wachtfels.
Entrambi i piroscafi riportano danni gravissimi, imbarcando molta acqua; solo grazie all’assistenza prestata da Procione ed Orsa, che li prendono a rimorchio, i due mercantili rimangono a galla.
Proprio mentre le torpediniere stanno prestando assistenza a Tembien e Wachtfels, viene avvistato un sommergibile nemico, probabilmente intenzionato ad attaccare i due piroscafi immobilizzati e danneggiati: si tratta del britannico Unique (tenente di vascello Anthony Foster Collett), che alle 11.25, cinque minuti dopo aver avvistato fumi ed un aero su rilevamento 140°, ha avvistato le navi del convoglio, della cui presenza era già stato precedentemente informato. Alle 12.03 il sommergibile osserva il convoglio accostare da 320° a 265°, e quattro minuti dopo Collett nota che le navi della scorta sembrano avvicinarsi al suo battello: l’Unique è stato infatti avvistato da un aereo, e Pegaso, Orsa e Procione provvedono subito a dargli la caccia. Collett abbandona l’attacco ed ordina subito di scendere in profondità.
La Pegaso, particolarmente attiva nel contrattacco, inizia a lanciare bombe di profondità alle 12.54; terminata la prima corsa con lancio di bombe, viene avvistata una bolla d’aria a circa 1500 metri dalla poppa, dopo di che il sommergibile emerge parzialmente, mostrando tutto il fianco e la parte superiore della torretta, sbandato a dritta di circa 70°. Poco dopo il sommergibile torna ad immergersi; la Pegaso inverte immediatamente la rotta. Gli equipaggi di Pegaso e Tembien hanno assistito quasi al completo alla scena, che desta grande entusiasmo; si ritiene che il sommergibile sia ormai agonizzante, e gli uomini celebrano la vittoria con applausi ed acclamazioni (il comandante del Tembien grida “Viva l’Italia” tanto forte da essere sentito fin sulla Pegaso). Alle 12.59 la Pegaso inizia un secondo lancio di bombe, dopo di che, perlustrando l’area a lento moto, nota grosse chiazze di nafta sulla superficie del mare.
Nonostante le apparenze (che apparentemente dovevano comprendere una vera e propria illusione collettiva, non infrequente in tempo di guerra), tuttavia, il sommergibile attaccante non è stato affondato, e nemmeno danneggiato. Alle 12.37 l’Unique ha sentito la prima scarica di bombe di profondità, gettate singolarmente, esplodere “piuttosto vicine”, seguite da ulteriori e più intensi lanci alle 12.50, 12.55 e 13.14, quando in certi casi vengono lanciate fino a 17 bombe di profondità tutte insieme. L’ultima bomba ad esplodere “piuttosto vicina” (le esplosioni più vicine vengono avvertite a 180-270 metri di distanza), la cinquantaduesima, scoppia alle 13.35, dopo di che le bombe successive (le ultime delle quali sono gettate alle 13.51) scoppiano a maggiore distanza. In tutto l’Unique conta l’esplosione di un’ottantina di bombe di profondità, ma non subisce danni.
Verso le 16 l’Orsa recupera da un battellino tre aviatori britannici di uno degli aerei abbattuti: il maggiore John Davidson-Broadley ed i sergenti Stewart Carl Thompson e Leonard Felton, quest’ultimo ferito gravemente.
Dopo alcune ore di rimorchio, Tembien e Wachtfels riescono a riparare le avarie ed a contenere le infiltrazioni d’acqua, così riuscendo a rimettere in moto con le proprie macchine. Stante comunque la gravità dei danni, entrambi i piroscafi devono raggiungere Pantelleria, scortati da Procione ed Orsa, cui poi si aggiungono anche i cacciatorpediniere Maestrale e Grecale inviati in loro soccorso da Palermo.
23 giugno 1941
In rinforzo alla scorta viene inviata la X Squadriglia Cacciatorpediniere, con MaestraleGrecale ed Antoniotto Usodimare.
24 giugno 1941
Il convoglio giunge a Napoli alle 3.30.
10 luglio 1941
Pegaso, Orsa e Procione salpano da Napoli alle 21 (o 21.45) di scorta ai piroscafi Ernesto, Nita, Castelverde, Nirvo ed Aquitania, diretti a Tripoli.
11 luglio 1941
A Palermo, alle 16.30, si uniscono alla scorta del convoglio i cacciatorpediniere Fuciliere (che assume il ruolo di caposcorta), Alpino e Malocello.
14 luglio 1941
Il convoglio giunge a Tripoli alle 6.
Alle 16 (o 17) Pegaso, Orsa, Procione, Alpino, Fuciliere e Malocello (caposcorta) lasciano Tripoli per scortare a Napoli le motonavi Rialto, Barbarigo, Andrea Gritti, Sebastiano Venier ed Ankara (tedesca); il convoglio è denominato «Barbarigo».
Questo convoglio è il primo ad essere oggetto con successo delle intercettazioni di “ULTRA”, che l’11 luglio 1941, tre giorni prima della partenza, apprende da messaggi decrittati che un convoglio di sei mercantili di 5000 tsl, scortato da cacciatorpediniere, lascerà Tripoli alle 16 del 14 luglio, procedendo a 14 nodi, passando a est delle Kerkennah alle cinque del mattino del 15 luglio e poi ad ovest di Pantelleria alle 14 del 15 luglio, probabilmente diretto a Napoli.
In seguito a quest’informazione, i comandi britannici schierano uno sbarramento di sommergibili (tra cui l’Union ed il P 33) attorno a Pantelleria, dove sanno che il convoglio dovrà passare nel primo pomeriggio del 15.
Vengono anche lanciati diversi attacchi aerei tra il 14 ed il 15 luglio, ma i velivoli – Fairey Swordfish decollati da Malta – non riescono a localizzare il convoglio da attaccare.
15 luglio 1941
In mattinata il convoglio viene localizzato da un ricognitore britannico, e nel pomeriggio si verificano gli attacchi dei sommergibili.
Alle 11.20 le navi giungono in vista di Pantelleria, su rilevamento 24°, ed accostano in tale direzione, procedendo a zig zag; oltre ai cacciatorpediniere ed alle torpediniere, è presente anche una scorta aerea, con due caccia e due idrovolanti CANT Z. 501. Alle 14.07 il P 33 (tenente di vascello Reginald Denis Whiteway-Wilkinson) avvista il convoglio nel punto 36°27’ N e 11°54’ E, da una distanza di 10 km, si avvicina ed alle 14.39, da 2300 metri, lancia quattro siluri.
Alle 14.41 il convoglio si trova a 21 miglia per 209° da Punta Sciaccazza (Pantelleria) quando l’Alpino riferisce per radiosegnalatore «Scie di siluro a dritta», mentre uno dei velivoli della scorta aerea (l’idrovolante CANT Z. 501/6 della 144a Squadriglia della Regia Aeronautica) si getta in picchiata sul punto dove si presume essere il sommergibile nemico, sganciando due bombe per poi inseguire e mitragliare le scie dei siluri. L’Alpino ed il Fuciliere riescono ad evitarne uno e due siluri, ma la Barbarigo viene colpita alle 14.43 ed inizia subito ad affondare di poppa. 
La Pegaso, per ordine del Malocello, viene distaccata per dare assistenza alla motonave danneggiata, che tuttavia affonda ugualmente alle 15.10 nel punto 36°27’ N e 11°54’ E. La torpediniera ne recupera allora i naufraghi; alle 15.40 riferisce per radio di aver tratto in salvo tutti i superstiti della Barbarigo, e che nessuno di essi è ferito.
Intanto il Fuciliere, avendo visto le scie dei siluri, contrattacca subito con 28 bombe di profondità, seguito dall’Alpino che ne lancia altre due; poi i due cacciatorpediniere riassumono le loro posizioni nel convoglio, mentre Procione ed Orsa vengono distaccate per proseguire la caccia al sommergibile, in cooperazione con l’idrovolante CANT Z. 501 numero 2 della 144a Squadriglia.
La caccia prosegue fino alle 16.05, con il lancio in tutto di 116 bombe di profondità. Solo una scarica di bombe esplode vicina al P 33, limitandosi a mettere fuori uso alcune luci; il sommergibile riporta però gravi danni proprio durante il tentativo di eludere la caccia, perdendo il controllo dell’assetto e precipitando accidentalmente dai 21 metri previsti a ben 94 metri di profondità, dove l’elevata pressione deforma lo scafo resistente e causa vie d’acqua che costringeranno il P 33 ad interrompere la missione e rientrare a Malta per le riparazioni.
Alle 15.26 si verifica un nuovo attacco di sommergibili, ma nessuna nave viene colpita.
Alle 16.15 tutte le siluranti hanno riassunto le posizioni assegnate per la scorta, e la navigazione prosegue regolarmente.
16 luglio 1941
Il convoglio arriva a Tripoli alle 14.30.
30 luglio 1941
Pegaso, Procione e Malocello (caposcorta) partono da Napoli per Tripoli alle 15, scortando Gritti, Rialto, Ankara e Pisani. Da Trapani salpa anche l’Orione, che va a rinforzare la scorta.
31 luglio 1941
Tra le 19.30 e le 20.45, circa 50 miglia a nordovest di Pantelleria, il convoglio viene attaccato da bombardieri Bristol Blenheim della Royal Air Force decollati al tramonto da Luqa (Malta) e guidati dal maggiore George Goode; la reazione della scorta abbatte uno degli aerei (colpito dal tiro del Malocello e poi inseguito e colpito ancora da due caccia FIAT CR. 42 della scorta aerea) e li costringe tutti a sganciare le proprie bombe in mare e ritirarsi.
1° agosto 1941
Raggiunto nell’ultimo tratto dalla torpediniera Partenope, il convoglio arriva a Tripoli alle 13.30.


Pegaso e Procione a Napoli (Naval History and Heritage Command via Giorgio Parodi e www.naviearmatori.net)

4 agosto 1941
La Pegaso, insieme ai cacciatorpediniere Freccia (caposcorta, capitano di fregata Giorgio Ghè), Dardo, Strale, Turbine e Malocello, parte da Tripoli alle 8 (o 9.30) scortando i piroscafi Amsterdam, Bainsizza e Maddalena Odero e la motonave Col di Lana (convoglio «Amsterdam», con velocità 10 nodi).
5-6 agosto 1941
Nella notte sul 6 agosto, al largo di Pantelleria, il convoglio viene attaccato da aerei. Il caposcorta ordina l’emissione di nebbia artificiale, ma tale provvedimento si rivela inefficace, perché rende più visibile la posizione del convoglio; risulta inutile accostare verso i bengala, perché gli aerei ne lanciano su entrambi i lati del convoglio. Ad ogni modo, nessuna nave viene colpita.
7 agosto 1941
Il convoglio raggiunge Napoli alle 2.30 (o 7.30).
16 agosto 1941
Pegaso, Procione, la vecchia torpediniera Giuseppe Sirtori ed i cacciatorpediniere Freccia (caposcorta, capitano di fregata Giorgio Ghè), Euro e Dardo salpano da Napoli per Tripoli alle 00.30, scortando un convoglio composto dai piroscafi Nicolò Odero, Maddalena Odero e Caffaro, dalla nave cisterna Minatitlan e dalle motonavi Giulia e Marin Sanudo.
Alle 9.13 il sommergibile olandese O 23 (tenente di vascello Gerardus Bernardus Michael Van Erkel) avvista il convoglio, che procede con rotta 212° a dieci nodi di velocità, a 10 miglia per 057°, ed alle 10.03, nel punto 39°35’ N e 13°18’ E (a sudovest di Capri), lancia due siluri da cinque miglia per poi scendere subito a 40 metri. Nessuna delle armi colpisce, ma dopo undici minuti alcune unità della scorta si portano al contrattacco e lanciano, fino alle 13.30, un centinaio di bombe di profondità. L’O 23 evita danni scendendo a 95 metri; terminata la caccia, alcune unità continuano a lanciare una carica di profondità ogni venti minuti sino alle 19.30.
17 agosto 1941
Nel tardo pomeriggio il convoglio, mentre procede a 9 nodi a sud di Pantelleria, viene avvistato da ricognitori nemici.
Alle 20.45 (o 20.47), 17 minuti dopo che la scorta aerea ha lasciato le navi per rientrare alle basi, il convoglio viene attaccato da aerosiluranti britannici: due sezioni di due aerei ciascuna, provenienti dai fianchi, appaiono ai lati del convoglio, defilando lungo i mercantili e sganciando i loro siluri da poca distanza. Le navi della scorta reagiscono con opportune manovre, l’apertura del fuoco (sia con le artiglierie che con le mitragliere) e l’emissione di cortine nebbiogene per coprire i piroscafi.
Tre dei quattro siluri sganciati mancano il bersaglio, grazie anche all’azione della scorta (e soprattutto all’emissione di cortine fumogene, che disorientano gli ultimi aerei ad attaccare), ma uno colpisce il Maddalena Odero, immobilizzandolo. Pegaso e Sirtori vanno al suo soccorso, mentre il resto del convoglio prosegue per Tripoli. La Pegaso riesce a prenderlo a rimorchio e, nonostante la notevole differenza di massa tra la piccola torpediniera ed il mercantile, che per giunta è appesantito dall’acqua imbarcata, riesce a rimorchiarlo fino all’isola di Lampedusa.
18 agosto 1941
Verso le 7.30, mentre la Pegaso presta assistenza al Maddalena Odero, portato all’incaglio a Punta Galera (Lampedusa), passano nelle vicinanze la cisterna militare Velino e la cannoniera Maggiore Macchi della Guardia di Finanza, che funge da scorta; la Pegaso ordina a quest’ultima di porsi a sua disposizione, per cooperare nel tentativo di condurre il Maddalena Odero in un luogo più sicuro. La Macchi riesce infatti a disincagliare il piroscafo ed a portarlo nuovamente ad incagliare, verso le 11, all’interno dell’insenatura di Cala Croce. Verso mezzogiorno sopraggiungono i MAS 531 e 544 con a bordo l’ammiraglio Amilcare Cesarano, comandante della Zona Militare Marittima di Pantelleria, giunto per dirigere il tentativo di salvataggio del Maddalena Odero; l’idea è che la Pegaso disincagli il piroscafo dalla punta di scoglio dove si è incagliato, dopo di che la Macchi dovrà prendere la cima di prua del piroscafo e rimorchiarlo all’interno della Cala Croce. Il lavoro è appena cominciato, quando alle 13.30 sopraggiungono cinque bombardieri britannici Bristol Blenheim del 105th Squadron della Royal Air Force, uno dei quali colpisce il Maddalena Odero con diverse bombe incendiarie a proravia della plancia. Le fiamme si estendono rapidamente al carico di munizioni del piroscafo, con conseguenze catastrofiche: equipaggio e militari imbarcati fanno appena in tempo a mettersi in salvo, dopo di che il Maddalena Odero viene distrutto da una colossale esplosione, che travolge e affonda anche la Maggiore Macchi (abbandonata dall’equipaggio poco prima, su ordine del comandante, nell’impossibilità di uscire dall’insenatura ed allontanarsi).
22 agosto 1941
Alle 10.30 la Pegaso lascia Palermo insieme alla Cigno (caposcorta), per scortare a Tripoli il trasporto militare Lussin, avente a rimorchio la piccola cisterna Alcione, e la nave cisterna Alberto Fassio.
Alle 15.45 il convoglio viene avvistato dal sommergibile britannico Upholder (capitano di corvetta Malcolm David Wanklyn) un paio di miglia a nordovest di Capo San Vito Siculo. Alle 16.29 l’Upholder lancia quattro siluri (da 3660 metri di distanza) contro la nave che procede in testa al convoglio: alle 16.32 la Lussin è colpita, ed affonda in due minuti.
La Pegaso, insieme all’idrovolante CANT Z. 501 della scorta aerea (si tratta del velivolo n. 3 della 144a Squadriglia, che sgancia due bombe antisom sul punto di origine delle scie dei siluri), passa al contrattacco: dalle 16.35 alle 16.43 lancia ben 48 bombe di profondità, alcune delle quali esplodono abbastanza vicine all’Upholder (che sta ripiegando verso nordovest ad elevata velocità), arrecandogli lievi danni; dalle 16.43 alle 18.13 ne lancia altre tredici, ma stavolta esplodono più lontane dal sommergibile, che non subisce altri danni. La Cigno, intanto, recupera gli 83 sopravvissuti della Lussin.
23 agosto 1941
Il resto del convoglio raggiunge Tripoli alle 22.
26 agosto 1941
La Pegaso salpa da Trapani per andare a rinforzare Procione, Orsa, Clio, Euro ed il cacciatorpediniere Alfredo Oriani (caposcorta, capitano di fregata Vittorio Chinigò) nella scorta ad un convoglio in navigazione da Napoli a Tripoli e formato dai piroscafi Ernesto, Aquitania e Bainsizza, dalle motonavi Col di Lana e Riv e dalla nave cisterna Pozarica.
27 agosto 1941
Alle 6.30 il sommergibile britannico Urge (tenente di vascello Edward Philip Tomkinson) avvista il convoglio italiano, ed alle 6.42, in posizione 38°11’ N e 12°07’ E (una decina di miglia a nord di Marettimo), lancia quattro siluri contro uno dei mercantili, da 4115 metri di distanza. Uno dei siluri, quello nel tubo numero 3, rimane però bloccato per metà dentro e per metà fuori dal tubo; l’Urge finisce così con l’affiorare involontariamente in superficie.
Alle 6.50 (ora italiana), poco dopo che il convoglio ha superato Punta Mugnone (Trapani), l’Aquitania viene colpito.
Sull’Urge, intanto, l’equipaggio ripristina l’assetto, ed a questo punto il siluro esce dal tubo; l’Urge torna ad immergersi rapidamente, mentre la Clio (distante 2740 metri), che l’ha visto affiorare, gli si dirige incontro. Anche un idrovolante CANT Z. 501 della 144a Squadriglia della Regia Aeronautica, di scorta al convoglio, sgancia una bomba contro l’Urge, precedendo l’arrivo della Clio; quest’ultima giunge sul posto quando l’attaccante si è ormai immerso, e getta in tutto una dozzina di bombe di profondità. Anche la Procione inverte la rotta e partecipa al contrattacco, lanciando sette bombe di profondità. L’Urge, benché la Clio ritenga di averlo certamente danneggiato se non affondato, si ritira verso nordovest senza subire danni.
Preso a rimorchio dapprima dall’Orsa e poi dai rimorchiatori Marsigli e Montecristo (con la scorta della Clio), l’Aquitania potrà essere condotto in salvo a Trapani, dove giungerà alle 20.45.
Il resto del convoglio prosegue nella navigazione.
29 agosto 1941
Il convoglio giunge a Tripoli alle 7.45.
Alle 18.30 la Pegaso ne riparte insieme ad Orsa e Calliope ed ai cacciatorpediniere Euro ed Alfredo Oriani (caposcorta) scortando un convoglio formato dalle motonavi Giulia e Marin Sanudo, dai piroscafi Caffaro e Nicolò Odero, dalla nave cisterna Minatitland e dal dragamine ausiliario DM 6 Eritrea.
31 agosto 1941
Orsa e Marin Sanudo, separatesi dal convoglio, raggiungono Trapani alle 11.45.
1° settembre 1941
Il resto del convoglio giunge a Napoli alle 12.30.
10 settembre 1941
Alle 10.30 Pegaso, Procione, Orsa, Orione, Fulmine ed Alfredo Oriani (capitano di fregata Vittorio Chinigò, caposcorta) salpano da Napoli diretti a Tripoli, scortando i piroscafi Tembien, CaffaroNirvoBainsizza e Nicolò Odero e la motonave Giulia. Si tratta del convoglio «Tembien», che, essendo composto da navi piuttosto lente, riceve l’ordine di seguire la rotta di ponente (Marettimo-Canale di Sicilia-Secche di Kerkennah).
Nel Canale di Sicilia si aggrega alla scorta anche la torpediniera Circe, proveniente da Trapani.
12 settembre 1941
Alle 3.10 di notte il convoglio, dopo essere stato scoperto da un ricognitore a sud di Pantelleria, viene attaccato da bombardieri od aerosiluranti, ma nessuna nave viene colpita, grazie alle manovre evasive, all’emissione di cortine nebbiogene ed alla reazione dell’armamento contraereo delle navi. Il mattino seguente, il convoglio procede su rotte varie nella zona delle Kerkennah, senza alcun allarme.
Alle 14, mentre il convoglio procede sotto scorta di velivoli della Regia Aeronautica, si verifica un nuovo attacco aereo, da parte di otto bombardieri (Fairey Swordfish dell’830th Squadron della Fleet Air Arm, decollati da Malta): i velivoli, provenienti da ovest, si avvicinano a bassa quota e sganciano le loro bombe. Sia le unità della scorta che i mercantili aprono il fuoco, puntato e di sbarramento: tre aerei nemici vengono abbattuti e precipitano in fiamme, ma alle 14.10 il Caffaro viene colpito ed incendiato da una bomba. CirceOrsa e più tardi anche il Fulmine ricevono ordine di fornirgli assistenza, mentre il resto del convoglio prosegue. Alle 16.05 il Caffaro esplode ed affonda in posizione 34°14’ N e 11°54’ E (a nordovest di Tripoli); Circe ed Orsa si ricongiungono al convoglio, mentre il Fulmine, avendo a bordo un ferito gravissimo, dirige verso Tripoli.
Alle 23.54 il convoglio raggiunge il punto «C» della rotta di sicurezza di Tripoli; i piroscafi si dispongono in linea di fila.
13 settembre 1941
All’1.05 vengono avvistati 4-5 aerei che procedono con rotta 240° ed i fanali di via accesi; il caposcorta dirama l’allarme aereo, ed all’1.20 diversi razzi illuminanti (diciotto in tutto) si accendono sulla sinistra del convoglio. Le unità di scorta, in base agli ordini del caposcorta, emettono fumo; sia queste che i mercantili aprono il fuoco, puntato e di sbarramento.
Alle 2.30 l’attacco si conclude senza danni, e la formazione si riordina e riprende la navigazione.
Alle 3.45 si sentono rumori di aerei di poppa, ed alle 3.55 viene avvistato un fuoco galleggiante sulla dritta del convoglio. Di nuovo le unità di scorta iniziano ad emettere fumo, e tutte le navi aprono il fuoco di sbarramento: ma alle quattro del mattino, il Nicolò Odero viene colpito. CirceOrsa e la torpediniera Perseo (inviata incontro al convoglio da Zuara e giunta durante l’attacco) vengono inviate ad assisterlo, mentre il resto del convoglio, riordinatosi in formazione alle cinque, prosegue. 
All’alba partono da Tripoli i rimorchiatori Pronta e Porto Palo, che tentano vanamente di domare le fiamme sul Nicolò Odero con ogni mezzo disponibile, poi lo prendono  a rimorchio e tentano dapprima di portarlo a Tripoli, indi lo portano ad incagliare in costa. Sarà tutto vano, perché alle 15 del 14 le fiamme raggiungeranno una stiva piena di munizioni, ed il Nicolò Odero salterà in aria.
All’alba otto bombardieri Bristol Blenheim del 105th Squadron RAF, guidati dal maggiore Smithers, attaccano il convoglio in posizione 34°14’ N e 11°52’ E: la scorta aerea, composta da tre caccia Macchi MC. 200 ed altrettanti FIAT CR. 42 del 230° Gruppo della Regia Aeronautica, interviene ed abbatte tre dei Blenheim, cioè i velivoli numero Z7357, Z7423 e Z7504. L’attacco fallisce.
Il resto del convoglio giunge a Tripoli alle 12.30 del 13.
Già sette ore dopo Pegaso, Procione, Orsa, Fulmine ed Oriani (ancora caposcorta) ripartono da Tripoli per scortare a Napoli Rialto, Pisani e Venier. Il convoglio segue la rotta di ponente; la navigazione si svolgerà senza che si registrino eventi di rilievo.
15 settembre 1941
Il convoglio arriva a Napoli alle 9.
Settembre 1941
Assume il comando della Pegaso il capitano di corvetta Francesco Acton.

Il capitano di corvetta Francesco Acton (USMM)

30 settembre 1941
La Pegaso, insieme alla torpediniera Calliope, salpa da Napoli per scortare a Bengasi i piroscafi tedeschi Savona e Castellon.
2 ottobre 1941
Per proteggere il convoglio in arrivo dagli attacchi nemici, il Comando Marina di Bengasi ha inviato i cacciasommergibili Zuri e Selve ed il sommergibile Onice a compiere perlustrazione antisom, durante la notte tra l’1 ed il 2 ottobre, nelle acque che le navi dovranno attraversare; due piccoli cacciasommergibili sono inviati lungo la rotta di sicurezza, la torpediniera Partenope viene mandata incontro al convoglio per pilotaggio e scorta, ed all’alba due Junkers Ju 88 tedeschi e due idrovolanti CANT Z. 501 della Marina assumono la scorta aerea del convoglio, per difenderlo sia da aerei che da sommergibili.
Tutto inutile: alle 9.55 il convoglio, emergendo dalla foschia (la visibilità è mediocre, a causa delle nuvole di sabbia che il vento di ghibli spinge fino sul mare), viene avvistato da 5500 metri di distanza dal sommergibile britannico Perseus (capitano di corvetta Edward Christian Frederick Nicolay), che manovra per attaccare. Alle 10.05 il Perseus lancia tre siluri contro il mercantile di testa, da una distanza di 3200 metri, ed alle 10.07 ne lancia altri due contro il secondo mercantile. Il CANT Z. 501 situato ad ovest del convoglio si accorge subito del lancio del siluro, e lo segnala alle navi sganciando bombe sulla bolla d’aria fuoriuscita al momento del lancio, mitragliando le scie dei siluri e lanciando fumogeni colorati. Il Savona, compreso il significato dei segnali, accosta subito a sinistra con tutta la barra, ma il Castellon accosta troppo tardivamente e viene colpito, alle 10.12, da uno dei siluri, affondando di prua in pochi minuti in posizione 32°30’ N e 19°09’ E (una cinquantina di miglia a nordovest di Bengasi; per altra fonte, ad una decina di miglia da tale porto).
Tra le 10.11 e le 10.34 la scorta contrattacca col lancio di 38 bombe di profondità, ma nessuna esplode molto vicina al Perseus. Pegaso e Calliope, insieme ai cacciasommergibili, rimangono poi sul posto per recuperare i naufraghi del Castellon (vengono salvati 108 uomini, 6 italiani e 102 tedeschi, mentre le vittime sono 8, tutte tedesche), mentre il Savona prosegue per Bengasi con la sorta della Partenope.
La Pegaso riparte da Bengasi alle 18.10 (o 18.50) per scortare a Brindisi i piroscafi Iseo e Capo Faro.
3 ottobre 1941
Alle 2.10 di nuovo il Perseus (capitano di corvetta Edward Christian Frederic Nicolay) avvista due torpediniere a 4,5 miglia per 225° (evidentemente uno dei due piroscafi viene scambiato da Nicolay per una torpediniera), su rotta 330°, e poco dopo anche una nave mercantile a poppavia di esse: si tratta di Pegaso, IseoCapo Faro.
Avvicinatosi per attaccare (la posizione del convoglio è 32°50’ N e 19°18’ E, una cinquantina di miglia a nordovest di Bengasi), alle 2.39 il Perseus lancia due siluri da 4570 metri, ma senza successo; il Capo Faro avvista una scia di siluro alle 2.55. Dato che le navi sono dirette in Italia, dunque scariche, Nicolay decide di non perseverare nell’attacco.
5 ottobre 1941
Il convoglio giunge a Brindisi alle 13.
4 novembre 1941
La Pegaso (tenente di vascello Francesco Acton) salpa da Brindisi per Bengasi alle otto di sera, scortando i piroscafi Bosforo (italiano) e Savona (tedesco), carichi di 6466 tonnellate di rifornimenti (il convoglio è denominato appunto «Pegaso»).
5 novembre 1941
A causa del mare molto mosso, le navi sono costrette a tornare a Brindisi alle dieci del mattino.
7 novembre 1941
Il convoglio riparte da Brindisi alle 00.00. Il servizio britannico di decrittazione dei messaggi in codice italiani, “ULTRA”, intercetta alcune comunicazioni dalle quali conclude che il convoglio «Pegaso» sarebbe partito da Brindisi per Bengasi il 3 novembre, con una sosta in porti greci, e che dopo l’arrivo a Bengasi la Pegaso dovrà ripartire scortando i piroscafi Capo Arma e Capo Faro, per arrivare a Brindisi alle 10 del 12 novembre.
Alle 10.30 (o 10.50) le navi, mentre lasciano l’Adriatico, sono avvistate da un ricognitore britannico 60 miglia ad ovest-nord-ovest di Cefalonia, mentre procedono su rotta 165°; da Malta decollano per attaccarlo undici bombardieri Bristol Blenheim, cinque dei quali del 18th Squadron e sei del 107th Squadron.
Alle 15 (o 15.15), ad ovest di Cefalonia, i cinque Blenheim del 18th Squadron attaccano il convoglio, ma senza riuscire ad infliggere alcun danno; i sei Blenheim del 107th Squadron, invece, non riescono a trovare le navi italiane.
Sempre nel pomeriggio, due caccia Macchi Mc 200 della 364a Squadriglia Caccia dell’Aeronautica dell’Albania decollano dalla base di Araxos (Patrasso) per fornirgli scorta aerea, urgentemente chiesta da Supermarina a Superaereo. Neanche loro, però, riescono a rintracciare il convoglio, ed alle 17.55, durante il rientro, il Mc 200 del sergente Adriano Caprioli precipita per cause ignote sull’isola di Zante, con la morte del pilota.
8 novembre 1941
Alle 8.30 la Pegaso avvista un ricognitore britannico in posizione 35°50’ N e 19°50’ E (110 miglia a sudovest dell’isola di Sapienza), riferendolo al Comando Aeronautica della Sicilia, che a sua volta informa Superaereo.
Il Comando della Royal Air Force di Malta fa decollare altri dodici bombardieri Bristol Blenheim, sei del 18th Squadron ed altrettanti del 107th Squadron, per attaccare il convoglio «Pegaso»; alle 10 la stazione di ascolto italiana “Titus” intercetta una comunicazione radio di una delle due squadriglie di Blenheim, che si trova in quel momento a nord del convoglio.
Dopo aver superato Capo Spartivento, i Blenheim attaccano il convoglio «Pegaso» in due ondate, alle 10.15 ed alle 12.30. I bombardieri attaccano a volo radente; Pegaso e piroscafi reagiscono soprattutto col tiro delle mitragliere Breda da 20 mm, che abbattono un Blenheim del 18th Squadron (capitano pilota C. G. Prior) e ne colpiscono altri due del 107th Squadron, uno dei quali (sergente W. A. Hopkinson) precipita però proprio sulla coperta del Savona, scatenando un violento incendio. Il Bosforo riporta invece solo danni leggeri.
Mentre gli aerei si allontanano, la Pegaso, vedendo che il Savona è stato abbandonato dall’equipaggio ma si muove ancora (girando col timone alla banda) con incendio a bordo, si avvicina al piroscafo. Il comandante Acton chiama con il megafono; notando il comandante tedesco del Savona e l’ufficiale di collegamento italiano, tenente di vascello Benedetti, Acton chiede loro quale sia la situazione del bastimento, se esso sia in grado di navigare e se le sue macchine siano danneggiate. Benedetti risponde che tutti hanno abbandonato la nave eccetto lui, il comandante, il medico ed un ferito; poco dopo, il Savona si ferma. La Pegaso recupera l’equipaggio del Savona dalle lance e ne rimanda a bordo la parte indispensabile per salvare la nave, che più tardi viene nuovamente attaccata da aerei: l’attacco scatena un certo panico sul Savona, dove gli sforzi per domare le fiamme subiscono un rallentamento, ma il tiro contraereo della Pegaso abbatte uno degli aerei (i corpi del cui equipaggio vengono poi recuperati dalla torpediniera, ed identificati come il tenente pilota Hamilton ed il sergente John Gibson), ne danneggia degli altri e respinge l’attacco.
Alle 10.30, intanto, Superaereo viene informato da Supermarina del fatto che il convoglio «Pegaso» si trova sotto attacco e necessita di scorta aerea, in posizione 35°30’ N e 19°30’ E; il Comando dell’Aeronautica della Sicilia, verso mezzogiorno, fa decollare una pattuglia di tre caccia Mc 200 (gli unici disponibili) per intercettare i bombardieri britannici che rientrano a Malta dopo l’attacco, ma i caccia non riescono a trovarli.
Alle 15.30, nel punto 38°40’ N e 19°56’ E, il Bosforo, fermo per assistere il Savona, viene colpito, riportando solo lievi danni alle sovrastrutture, ma due soldati rimangono uccisi.
Circa tre ore e mezza dopo l’inizio degli attacchi aerei, il Savona, domato l’incendio, può riprendere la navigazione, ma, date le sue condizioni, il comandante Acton decide di portare il convoglio a Navarino.
10 novembre 1941
Pegaso e Bosforo (il danneggiato Savona viene invece trasferito a Patrasso per le riparazioni) ripartono alle 18.30 per riprendere il viaggio verso Bengasi.
12 novembre 1941
Pegaso e Bosforo arrivano a Bengasi alle 8.10 (o 7.30).
22 novembre 1941
La Pegaso (tenente di vascello Francesco Acton) parte da Brindisi alle 17.30 scortando la nave cisterna Berbera, diretta a Bengasi nell’ambito di una complessa operazione di traffico che vede in mare diversi convogli per la Libia.
24 novembre 1941
Alle 8.30 Pegaso e Berbera vengono avvistate in posizione 37°13’ N e 20°37’ E dal sommergibile britannico Trusty (capitano di corvetta William Donald Aelian King), inviato ad ovest dell’isola di Stravathi per intercettare il convoglietto. Durante la fase di preparazione dei tubi per il lancio, il motore di uno dei siluri si attiva per sbaglio mentre il siluro è ancora nel tubo; i siluristi vengono colpiti da avvelenamento da monossido di carbonio, e l’attacco dev’essere abbandonato.
Lo stesso giorno, mentre Pegaso e Berbera sono in navigazione verso Bengasi, il sommergibile Luigi Settembrini rileva agli idrofoni, a 105 miglia per 125° da Malta, la Forza K britannica – incrociatori leggeri Aurora e Penelope e cacciatorpediniere Lance e Lively – uscita in mare da Malta per intercettare convogli italiani. Supermarina, avvisata dal Settembrini, ordina il dirottamento di tutti i convogli in zona; al convoglio formato da Pegaso e Berbera viene ordinato di rifugiarsi a Suda e poi a Navarino, dove giungono nel pomeriggio.
A cadere vittima della Forza K sarà invece il convoglio «Maritza», in navigazione dal Pireo a Bengasi, con l’affondamento dei piroscafi tedeschi Maritza e Procida nonostante la difesa opposta dalle torpediniere di scorta Lupo e Cassiopea.
Frattanto, stante la grave crisi nel traffico verso la Libia, causata dalle numerose perdite subite in novembre (soprattutto per mano della Forza K), Supermarina (il Comando superiore della Regia Marina), dietro pressione dei comandi militari (specie quelli tedeschi), ha messo a punto, in cooperazione col Comando Supremo, un piano d’emergenza per il trasporto di rifornimenti urgenti in Libia a mezzo siluranti: esso prevede che torpediniere e cacciatorpediniere debbano fare la spola tra la Grecia e la Libia, caricando ad Argostoli, Navarino o Suda la massima quantità possibile di materiali e carburante, da trasportare poi a Bengasi o Derna. Per dare attuazione a tale piano, è necessario dislocare nei designati porti ellenici alcune navi cisterna che fungano da depositi galleggianti di carburante e di acqua per il rifornimento delle siluranti destinate al traffico con la Libia: per questo motivo è stato disposto il trasferimento della Berbera a Navarino, dopo il suo iniziale dirottamento a Suda.
E proprio la Pegaso, subito dopo l’arrivo a Navarino con la Berbera, viene scelta per essere una delle prime siluranti a compiere una missione di trasporto verso la Libia: la torpediniera preleva un’aliquota di gasolio dalla Berbera, riempiendovi alcuni dei suoi depositi di nafta, dopo di che salpa alla volta di Bengasi. Le condizioni del mare, tuttavia, la costringono a tornare indietro.
28 novembre 1941
Durante un attaco aereo sulla rada di Navarino, la Berbera viene colpita ed incendiata; portata all’incaglio, si capovolge ed affonda dopo ventiquattr’ore.
29 novembre 1941
In serata la Pegaso si unisce alla torpediniera Aretusa (tenente di vascello Egidio Cioppa) nella scorta alla cisterna militare per acqua Volturno (tenente di vascello Arienti), in navigazione da Navarino a Suda, dov’è stata inviata per essere impiegata come unità rifornitrice (d’acqua) alle siluranti impegnate nel traffico tra Grecia e Libia (in base al programma d’emergenza sopra menzionato). Una volta arrivata a Suda con la Volturno, la Pegaso dovrebbe proseguire per Bengasi per trasportarvi il gasolio prelevato giorni prima dalla Berbera, che ha ancora a bordo, ma di nuovo deve rinunciare alla traversata a causa di probemi agli assi delle eliche. Raggiunta Argostoli, pertanto, la Pegaso vi travasa tutto il gasolio che ha a bordo sulla gemella Procione (capitano di corvetta Villa), che riesce infine a recapitarlo a Bengasi.
13 dicembre 1941
La Pegaso salpa da Taranto alle 19 insieme ai cacciatorpediniere Freccia ed Emanuele Pessagno (avente a bordo il contrammiraglio Amedeo Nomis di Pollone, caposcorta), nell’ambito dell’operazione di traffico «M. 41». Dopo le gravi perdite subite dai convogli diretti in Libia nelle settimane precedenti, infatti, le forze italo-tedesche in Nordafrica si trovano in situazione di grave carenza di rifornimenti proprio mentre è in corso l’operazione «Crusader», ed urge rifornirle.
PegasoFreccia e Pessagno costituiscono la scorta del convoglio «L», formato dalle moderne motonavi MonginevroNapoli e Vettor Pisani e diretto a Bengasi.
Con la «M. 41», Supermarina intende inviare a Tripoli e Bengasi tutti i mercantili già carichi presenti nei porti dell’Italia meridionale, mobilitando per la loro protezione, diretta e indiretta, pressoché tutta la flotta in condizioni di efficienza.
Sono previsti tre convogli: l’«A», da Messina a Tripoli, formato dalle moderne motonavi Fabio Filzi Carlo Del Greco scortate dai cacciatorpediniere Nicoloso Da Recco ed Antoniotto Usodimare (poi dirottato su Taranto per unirsi da subito all’«L» ma distrutto durante tale percorso dal sommergibile britannico Upright); l’«L», da Taranto per Tripoli, formato da MonginevroNapoli, Vettor PisaniFrecciaPessagno e Pegaso; e l’«N», da Navarino ed Argostoli per Bengasi, costituito dai piroscafi Iseo e Capo Orso scortati dai cacciatorpediniere Turbine e Strale, cui si devono aggiungere la motonave tedesca Ankara, il cacciatorpediniere Saetta e la torpediniera Procione provenienti da Argostoli.
Ogni convoglio deve fruire della protezione di una forza navale di sostegno, che di giorno si terrà in vista dei trasporti e di notte a in formazione con essi, incorporato. Il gruppo assegnato al convoglio «L» dalla corazzata Duilio (nave ammiraglia dell’ammiraglio di squadra Carlo Bergamini) e da un’eterogenea VIII Divisione composta per l’occasione dagli incrociatori leggeri Giuseppe Garibaldi (nave di bandiera dell’ammiraglio Giuseppe Lombardi, comandante della VIII Divisione) e Raimondo Montecuccoli e dall’incrociatore pesante Gorizia (con a bordo l’ammiraglio di divisione Angelo Parona), mentre il gruppo assegnato agli altri convogli è composto dalla corazzata Andrea Doria e dalla VII Divisione (ammiraglio di divisione Raffaele De Courten) con gli incrociatori leggeri Muzio Attendolo ed Emanuele Filiberto Duca d’Aosta.
Infine, a tutela dell’intera operazione contro un’eventuale uscita in mare delle corazzate della Mediterranean Fleet, prende il mare la IX Divisione Navale (ammiraglio di squadra Angelo Iachino, comandante superiore in mare) con le moderne corazzate Littorio e Vittorio Veneto, scortate dalla XIII Squadriglia Cacciatorpediniere (GranatiereBersagliereFuciliereAlpino). Queste navi si dovranno posizionare nel Mediterraneo centrale.
A completamento dello schieramento, un gruppo di sommergibili viene dislocato nel Mediterraneo centro-orientale con compiti esplorativi ed offensivi; è inoltre previsto un imponente intervento della Regia Aeronautica (comprensivo, tra l’altro, di ricognizioni su Alessandria e nel Mediterraneo orientale e centro-orientale).
Per via della carenza di navi scorta e del tempo necessario a reperirne, l’operazione, inizialmente prevista per il 12 dicembre, viene posticipata di un giorno.
Le decrittazioni di “ULTRA” sono stavolta tardive ed erronee: riportano la partenza del convoglio come prevista per il 14 dicembre, anziché il 13.
Nel tardo pomeriggio del 13, quando i convogli sono già in mare, la ricognizione aerea comunica a Supermarina che una consistente forza britannica, comprensiva di corazzate ed incrociatori (in realtà sono solo quattro incrociatori leggeri: i ricognitori hanno grossolanamente sovrastimato la composizione e potenza della forza avvistata), si trova tra Tobruk e Marsa Matruh, diretta verso ovest. La somma delle forze italiane in mare è complessivamente superiore, ma si trova divisa in gruppi tra loro distanziati e vincolati a convogli lenti e poco manovrieri; per questo, alle ore 20 Supermarina decide di sospendere l’operazione, ed i convogli ricevono ordine di rientrare. Ciò non basterà ad evitare danni: durante la notte, il sommergibile britannico Urge silurerà la Vittorio Veneto, danneggiandola gravemente. I piroscafi Iseo e Capo Orso entrano in collisione in fase di rientro, danneggiandosi gravemente.
14 dicembre 1941
La Pegaso e le altre navi (il Freccia è stato sostituito dall’Usodimare) raggiungono Taranto tra pomeriggio e sera.
16 dicembre 1941
Dopo il fallimento della «M. 41», viene rapidamente organizzata al suo posto l’operazione «M. 42», che prevede l’invio di quattro mercantili (MonginevroNapoliVettor PisaniAnkara: le motonavi uscite indenni dalla «M. 41», non essendovene altre pronte) riunite in un unico convoglio per gran parte della navigazione, ed inoltre l’impiego delle Divisioni di incrociatori adibite alla scorta secondo la loro struttura organica, a differenza che nella «M. 41». In tutto le quattro motonavi trasportano 14.770 tonnellate di materiali e 212 uomini.
La scorta diretta è costituita, oltre che dalla Pegaso, dai cacciatorpediniere Vivaldi (caposcorta, contrammiraglio Nomis di Pollone), Da NoliDa ReccoPessagno, MalocelloZeno e Saetta. L’ordine d’operazione prevede che le navi procedano in formazione unica, a 13 nodi di velocità, sino al largo di Misurata, per poi scindersi in due convogli: «N», formato da AnkaraPegaso e Saetta (caposcorta), per Bengasi; «L», composto da tutte le altre unità, per Tripoli.
I due convogli partono da Taranto il 16 dicembre, ad un’ora di distanza l’uno dall’altro: alle 15 l’«N», alle 16 l’«L».
Da Taranto esce un gruppo di sostegno composto dalla corazzata Duilio (nave di bandiera dell’ammiraglio Carlo Bergamini, comandante del gruppo), dalla VII Divisione (incrociatori leggeri Emanuele Filiberto Duca d’Aosta, nave di bandiera dell’ammiraglio De Courten, Raimondo Montecuccoli e Muzio Attendolo) e dai cacciatorpediniere AscariAviere e Camicia Nera; i suoi ordini sono di tenersi ad immediato contatto del convoglio fino alle 8 del 18, per poi spostarsi verso est così da poter intervenire in caso di invio contro il convoglio di forza di superficie da Malta.
Vi è anche un gruppo di appoggio composto dalle corazzate Giulio CesareAndrea Doria e Littorio (nave di bandiera dell’ammiraglio Angelo Iachino, comandante superiore in mare), dagli incrociatori pesanti Trento e Gorizia (nave di bandiera dell’ammiraglio di divisione Angelo Parona, comandante della III Divisione) e dai cacciatorpediniere GranatiereBersagliereCorazziereFuciliere, CarabiniereAlpinoOrianiGioberti ed Usodimare, nonché ricognizione e scorta aerea assicurata dalla Regia Aeronautica e dalla Luftwaffe, l’invio dei sommergibili TopazioSantarosaSqualoAscianghi, Dagabur e Galatea in agguato nel Mediterraneo centro-orientale, e la posa di ulteriori campi minati al largo della Tripolitania.
Già prima della partenza, i comandi italiani e l’ammiraglio Iachino sono stati informati dell’avvistamento alle 14.50, da parte di un ricognitore tedesco, di una formazione britannica che comprende una corazzata. In realtà, di corazzate britanniche in mare non ce ne sono: il ricognitore ha scambiato per corazzata la nave cisterna militare Breconshire, partita da Alessandria per Malta con 5000 tonnellate di carburante destinato all’isola, con la scorta degli incrociatori leggeri Naiad, Euryalus e Carlisle e dei cacciatorpediniere JervisHavockHastyNizamKimberleyKingstonKipling e Decoy, il tutto sotto il comando dell’ammiraglio Philip L. Vian. Comunque, Supermarina decide di procedere egualmente con l’operazione, sia per via della disperata necessità di far arrivare rifornimenti in Libia al più presto, sia perché la formazione italiana è comunque molto più potente di quella avversaria. Convoglio e gruppo di sostegno procedono dunque lungo la rotta prestabilita.
Poco prima di mezzanotte, il sommergibile britannico Unbeaten avvista parte delle unità italiane e ne informa il comando britannico (messaggio che viene peraltro intercettato e decrittato dalla Littorio); quest’ultimo ne è in realtà già al corrente grazie alle decrittazioni di “ULTRA”, che tra il 16 ed il 17 dicembre forniscono a più riprese molte informazioni su mercantili, scorte dirette ed indirette, porti ed orari di partenza e di arrivo. Il 16 dicembre “ULTRA” informa che è probabile un nuovo tentativo di rifornimento della Libia con inizio proprio quel giorno, dopo quello fallito di tre giorni prima. Il 17 dicembre “ULTRA” aggiunge informazioni più precise: MonginevroPisani e Napoli, scortati da sei cacciatorpediniere tra cui il Vivaldi, dovevano lasciare Taranto a mezzogiorno del 16 insieme all’Ankara, scortata invece da due siluranti tra cui il cacciatorpediniere Saetta; arrivo previsto a Bengasi alle 8 del 18 per l’Ankara, a Tripoli alle 17 dello stesso giorno per le altre motonavi; presenza in mare a scopo di protezione della Duilio, della VII Divisione (“probabilmente l’Aosta e l’Attendolo”) e forse anche di altre forze navali, Littorio compresa. Il 18 aggiungerà che le motonavi sono partite da Taranto alle 13 del 16 e che sono scortate da 2 corazzate, 2 incrociatori e 12 cacciatorpediniere, più una forza di supporto di 3 corazzate, 2 incrociatori e 10 cacciatorpediniere a nordest.
I comandi britannici, tuttavia, non si trovano in condizione di poter organizzare un attacco contro il convoglio italiano.
17 dicembre 1941
Alle 16.25 il convoglio viene avvistato da un ricognitore britannico.
Nel tardo pomeriggio del 17 dicembre il gruppo «Littorio» si scontra con la scorta della Breconshire, in un breve ed inconclusivo scambio di colpi chiamato prima battaglia della Sirte. Iniziato alle 17.23, lo scontro si conclude già alle 18.10, senza danni da ambo le parti; Iachino, ancora all’oscuro dell’invio a Malta della Breconshire e convinto che navi da battaglia britanniche siano in mare, attacca gli incrociatori di Vian per tenerli lontani dal suo convoglio (ritiene infatti che gli incrociatori britannici siano lì per attaccare i mercantili italiani, mentre in realtà non vi è alcun tentativo del genere da parte britannica) e rompe il contatto al crepuscolo, per evitare un combattimento notturno, per il quale la flotta italiana non è preparata.
Alle 17.56, per evitare un pericoloso incontro del convoglio con unità di superficie britanniche (si crede ancora che in mare ci siano una o più corazzate britanniche), il convoglio ed il gruppo di sostegno accostano ad un tempo ed assumono rotta nord (in modo da allontanarsi dalla zona dove si trova la formazione britannica), sulla quale rimangono fino alle 20 circa; poi, in base a nuovi ordini impartiti da Iachino (e per non allontanarsi troppo dalla zona di destinazione), manovrano per conversione di 20° per volta (in modo da mantenere per quanto possibile la formazione, in una zona ad elevato rischio di attacchi aerei) ed effettuano un’ampia accostata sino a rimettere la prua su Misurata. Convoglio e gruppo di sostegno sono “incorporate” in un’unica complessa formazione (i mercantili su due colonne, con Monginevro in posizione avanzata a dritta, Pisani in posizione avanzata a sinistra, seguite rispettivamente da Napoli ed Ankara, il Vivaldi in testa, Da Noli e Malocello rispettivamente 30° di prora a dritta e sinistra di Pisani e MonginevroZeno e Da Recco 70° di prora a dritta e sinistra di Pisani e MonginevroSaetta a sinistra della Pisani e Pessagno a dritta della Napoli; seguite dal gruppo di sostegno su due colonne, con Duca d’Aosta seguito da Attendolo e Camicia Nera a sinistra, Duilio seguita da Montecuccoli ed Aviere a dritta, più Pigafetta a sinistra di Duca d’Aosta ed Attendolo e Carabiniere a dritta di Duilio e Montecuccoli), il che fa sì che occorra più del previsto perché la formazione venga riordinata sulla rotta 210°: ciò accade alle 22 del 17.
Durante la notte il convoglio, che avanza a 13 nodi, viene avvistato da ricognitori nemici, ma non subisce attacchi.
18 dicembre 1941
Poco prima dell’alba del 18, i cacciatorpediniere Granatiere e Corazziere entrano in collisione, distruggendosi a vicenda la prua; gli incrociatori della VII Divisione prestano loro soccorso. Alle 13 la Duilio si riunisce al gruppo «Littorio», lasciando la VII Divisione a protezione immediata dei mercantili.
Frattanto, alle 12.30 (in posizione 33°18’ N e 15°33’ E), l’ammiraglio Bergamini ordina a Pegaso, Saetta ed Ankara di dirigere per Bengasi; il convoglio «N» si separa dunque dalle altre navi, mentre il convoglio «L» prosegue per Tripoli con la scorta e diretta e, fino al tramonto, anche quella della VII Divisione.
19 dicembre 1941
Alle 9.30 Pegaso, Ankara e Saetta entrano a Bengasi. Anche il convoglio di Tripoli giunge a destinazione. L’operazione «M. 42» si conclude finalmente in un successo, con l’arrivo a destinazione di tutti i rifornimenti inviati.
Alle 18 Pegaso e Saetta ripartono da Bengasi trasportando 300 prigionieri di guerra (e relativa scorta), evacuati dalla città libica, che ormai sta per cadere in mano alle forze britanniche in avanzata durante l’operazione «Crusader».
20 dicembre 1941
Pegaso e Saetta raggiungono Suda alle 14.
23 dicembre 1941
La Pegaso, insieme alle torpediniere Lupo e Sirio, al cacciatorpediniere Turbine, all’incrociatore ausiliario Brioni ed al cacciasommergibili tedesco Drache, scorta da Suda al Pireo un convoglio formato dalla Volturno, dalle motonavi italiane Città di Agrigento, Città di Alessandria e Città di Savona e dai piroscafi tedeschi Salzburg e Santa Fe, carichi di truppe e materiali.



La Pegaso al Pireo il 24 dicembre 1941 (foto Aldo Fraccaroli, via Coll. Domenico Jacono e www.associazione-venus.it)



30 dicembre 1941
La Pegaso, insieme alla motovedetta Spanedda della Guardia di Finanza, salpa da Patrasso per scortare a Brindisi i piroscafi Iseo e Capo Orso, che trasportano materiali e personale militare rimpatriante.
Alle 16.45 il sommergibile britannico Thorn silura la nave cisterna romena Campina, facente parte di un altro convoglio in navigazione nei pressi (un po’ più a nord), anch’esso proveniente da Patrasso ma diretto a Taranto. Sentite le esplosioni dei due siluri che hanno colpito la Campina, la Pegaso si separa dal proprio convoglio, porta la velocità al massimo e si precipita sul luogo dell’attacco, per poi iniziare a lanciare bombe di profondità a poppavia e sulla dritta della Campina. Sono in tutto quattro le navi che danno la caccia al sommergibile attaccante, ispezionando e bombardando il mare tutt’attorno alla petroliera silurata: la Pegaso, l’incrociatore ausiliario Egitto (che scortava la Campina) e due cacciasommergibili tedeschi. Dalle 16.46 in poi, le quattro unità lanciano in tutto 61 bombe di profondità, nessuna delle quali, tuttavia, esplode nelle vicinanze del Thorn.
La Campina, in lento affondamento, mette a mare una scialuppa nella quale si pone in salvo l’equipaggio (vi è un’unica vittima), dopo di che affonda alle 17.15 in posizione 38°35’ N e 20°27’ E (al largo di Capo Dukato, nell’Isola di Santa Maura).
Terminato il proprio compito, la Pegaso ritorna a scortare il proprio convoglio.


La Pegaso nel marzo 1942 (da www.difesa.it)

13 aprile 1942
La Pegaso (capitano di corvetta Francesco Acton), da poco dotata di ecogoniometro (la fase di addestramento al suo utilizzo si è appena conclusa), salpa da Napoli alle 7.30 per scortare a Tripoli, insieme ai cacciatorpediniere Antonio Pigafetta (caposcorta) e Nicolò Zeno, le motonavi Vettor Pisani (italiana) e Reichenfels (tedesca) nell’ambito dell’operazione di traffico «Aprilia».
Ad est della Sicilia il convoglio che comprende la Pegaso si congiunge con altri due, provenienti da Taranto (motonave Ravello, cacciatorpediniere Freccia e Turbine) e da Brindisi (motonave Reginaldo Giuliani, cacciatorpediniere Mitragliere, torpediniera Aretusa, quest’ultima rientrata in porto il 14 mattina), formando un unico convoglio diretto a Tripoli (caposcorta è il Pigafetta).
14 aprile 1942
Il 14 aprile “ULTRA” intercetta dei messaggi relativi al convoglio; due idroricognitori Martin Maryland del 203rd Squadron vengono inviati da Bu Amud, in Cirenaica, alla ricerca del convoglio, e lo trovano. Alle 7.30 anche un Beaufort del 22nd Squadron (sergente S. E. Howroyd), dotato di radar ASV (Air to Surface Vessel), viene inviato a rintracciarlo.
A mezzogiorno decollano da Bu Amud otto aerosiluranti britannici Bristol Beaufort (in realtà nove, ma uno, del 39th Squadron, deve rientrare poco dopo), due del 22nd Squadron e sei del 39th Squadron (201st Group), guidati dal capitano John M. Lander e scortati da quattro caccia Bristol Beaufighter del 272nd Squadron (maggiore W. Riley, sottotenente Stephenson, tenente Derek Hammond, sergente J. S. France; gli aerei, non avendo abbastanza autonomia per tornare in Cirenaica dopo l’attacco, dovranno poi raggiungere Malta). Nel pomeriggio, un Martin Maryland che sta tallonando il convoglio (tenente James Bruce Halbert) viene abbattuto da un velivolo tedesco della scorta; anche il Beaufort con radar ASV, dopo aver localizzato il convoglio e comunicato la sua posizione, viene danneggiato da dei Messerschmitt Bf 109 tedeschi mentre cerca di atterrare a Malta, e si schianta al suolo. Il suo messaggio non viene però ricevuto dagli aerei inviati ad attaccare il convoglio, che anzi superano la rotta da esso percorsa senza notare nulla.
Giunti gli aerei in un punto 70 miglia a sudest di Malta, il capitano Lander si rende conto che devono aver già oltrepassato il convoglio ed ordina quindi di virare verso sudovest, ponendosi alla ricerca del convoglio. Dopo venti minuti i Beaufighter dopo avvistano un gruppo di Me 110 e Ju 88 tedeschi della scorta aerea, che ingaggiano, abbattendo un cacciabombardiere Dornier Do 17 e danneggiano un caccia Messerschmitt Bf 110 ed un bombardiere Junkers Ju 88. Dopo questo primo scontro tra aerei, a qualche miglio di distanza dalle navi, i caccia britannici avvistano anche il convoglio. Si verifica qui, però, un errore che salverà le navi dell’Asse: i Beaufighter della scorta, ritenendo che anche i Beaufort debbano aver avvistato il convoglio, si allontanano in direzione di Malta, come previsto dai loro piani (i Beaufighter, infatti, avendo minore autonomia dei Beaufort, avevano il solo compito di accompagnare i Beaufort sull’obiettivo e localizzare il convoglio, per permettere agli aerosiluranti di attaccare, dopo di che avrebbero dovuto subito fare rotta per Malta, per non esaurire il carburante; che peraltro è già notevolmente diminuito a causa dello scontro con gli aerei tedeschi), senza avvisare gli aerosiluranti della presenza delle navi dell’Asse. In realtà i Beaufort, che volano a meno di quindici metri (per eludere i radar), più bassi dei Beaufighter (questi ultimi, essendo più veloci, dovevano procedere a zig zag sulla loro verticale, per non lasciare indietro i Beaufort: anche questo ha aumentato i loro consumi), avvistano le navi solo mezz’ora più tardi, alle 15.47, e passano all’attacco prendendo di mira la Giuliani ed il Reichenfels, che sono le navi più grosse del convoglio: ma con loro sorpresa vedono pararsi dinanzi a sé ben 15-20 (per altra fonte, oltre 25) caccia Messerschmitt Bf 109 (appartenenti al JG. 53), sei Bf 110 e parecchi Ju 88 della Luftwaffe.
Gli aerosiluranti britannici, privi ora di scorta, tentano egualmente di allinearsi per lanciare contro Giuliani e Reichenfels, ma vengono attaccati dagli aerei tedeschi e presi sotto il tiro delle armi contraeree delle navi di scorta.  Solo cinque degli otto aerei riescono a lanciare  i propri siluri, nessuno dei quali va a segno, mentre gli altri tre devono gettare in mare il proprio carico per alleggerirsi quando vengono attaccati dalla scorta aerea. Uno dei Beaufort (sottotenente Bertram W. Way) attacca un CANT Z. 506 italiano della 170a Squadriglia Ricognizione Marittima ma viene abbattuto da un Bf 109 (sergente Ludwig Reibel), mentre gli altri, danneggiati, inseguiti dagli aerei tedeschi e con il carburante in esaurimento, tentano disperatamente di raggiungere Malta: ma proprio quando sono giunti in vista dell’isola, vengono abbattuti o precipitano uno dopo l’altro. Un primo Beaufort (capitano Robert W. G. Beveridge) cade in mare alle 16.45, un altro (tenente Robert B. Seddon) precipita subito dopo a causa dei danni subiti, un terzo (tenente Derek A. R. Bee) viene abbattuto da un Messerschmitt quando ormai sta per atterrare, un quarto (sottotenente Belfield) viene abbattuto anch’esso da un Bf 109. Alla fine, solo tre degli otto Beaufort che avevano attaccato il convoglio riescono ad atterrare: due (tenente S. W. Gooch e capitano Lander) con danni gravissimi (tanto che uno – quello del capitano Lander – deve compiere un atterraggio d’emergenza e non potrà più essere riparato), uno (capitano A. T. Leaning) del tutto indenne. 15 avieri britannici, su 20 componenti gli equipaggi dei cinque Beaufort distrutti, sono morti. L’unico squadrone di Beaufort britannici in Egitto è stato annientato, e ci vorranno due mesi prima che ne venga ricostituito un altro.
Tre sommergibili britannici, il Thrasher, l’Urge e l’Upholder, hanno anch’essi ricevuto l’ordine di attaccare il convoglio, formando uno sbarramento lungo 50 miglia tra Lampedusa ed il Golfo della Sirte.
Alle 15.33 del 14, proprio mentre è in corso l’attacco dei Beaufort, due Ju 88 della scorta ravvicinata, dopo aver danneggiato un Beaufort, mitragliano un sommergibile avvistato in superficie nel punto 36°10’ N e 15°15’ E, ritenendo di aver ottenuto esito positivo. In realtà, nessun sommergibile britannico risulta essersi trovato in posizione compatibile; è probabile un abbaglio dei piloti, cosa assai comune.
Poco dopo, alle 16.15, la Pegaso riceve da un idrovolante CANT Z. 506 della scorta aerea (il MM 45389, n. 2 della 170a Squadriglia dell’83° Gruppo della Ricognizione Marittima, pilotato dal sottotenente pilota Pier Luigi Colli e con a bordo il tenente di vascello Mauro Tavoni quale osservatore) la segnalazione della presenza di un sommergibile (precisamente di una «scia ritenuta di sommergibile») in posizione 34°47’ N e 15°55’ E (a 90 miglia per 130° da Malta, e 200 miglia a nordest di Tripoli). Il CANT Z. 506 lancia un fumogeno bianco per segnalare il sommergibile, sulla sinistra del convoglio; la Pegaso lo riferisce al Pigafetta (caposcorta), il quale lancia all’aria il segnale «un sommergibile in 34°50’ – 15°50’» ed ordina alle navi di accostare subito a dritta, mediante segnale di bandiera, razzi a luce verde (due) e segnalazioni col radiotelefono.
La Pegaso lascia la sua posizione di scorta in testa al convoglio, si porta a tutta forza nel punto indicato dall’idrovolante, ottiene un contatto all’ecogoniometro e lancia un pacchetto di bombe di profondità, poi perde il contatto (alle 16.30). Non vengono avvistati rottami. Conclusa la brevissima azione antisom, senza che si siano manifestati segnali di un avvenuto affondamento del sommergibile, la torpediniera segnala al Pigafetta il risultato dell’attacco e poi ritorna al convoglio, riassumendo la sua posizione di scorta in testa ad esso. Nel suo rapporto il comandante Acton descriverà l’azione in poche sintetiche parole: "16,15 – In seguito a fumata bianca idro di scorta e rilevamento et distanza ecogoniometro eseguo i prescritti segnali di allarme sommergibile e inizio attacco con lancio di un pacchetto di bombe. 16,30 – Non avendo più eco all’ecogoniometro cesso l’attacco e raggiungo il convoglio riassumendo la scorta prodiera".
Tuttavia, nel frattempo (subito dopo aver lanciato il fumogeno) il pilota dell’idrovolante si è accorto che la scia da lui avvistata, e ritenuta quella di un periscopio, è in realtà lasciata da un delfino; osservando l’attacco dall’alto, senza aver modo di avvertire la Pegaso dell’errore (avrebbe potuto farlo solo usando la radio, ma ciò non è consentito), il sottotenente Colli ha visto che esso si è svolto contro un branco di delfini, e non un sommergibile, cosa che provvederà a riferire al suo rientro alla base di Taranto, alle 19.30 di quel giorno. Anche Marina Messina, in una telefonata a Supermarina effettuata alle 19.45 del 12 aprile, riferirà: "1615 – Il nostro aereo ha avvistato scia ritenuta di sommergibile. Lanciato fumata bianca – effettivo riconoscimento per scia di delfini. 1630 – Un C.T. [in realtà, la Pegaso] di scorta ha segnalato “sommergibile nemico” con artifizi e sparando con Mitragliere e con cannoni. Aereo ritiene si trattasse ancora di scie di delfini".
Per lungo tempo l’attacco della Pegaso è stato ritenuto la causa dell’affondamento del sommergibile britannico Upholder (capitano di corvetta Malcolm David Wanklyn), il più famoso e temuto sommergibile della Royal Navy scomparso proprio in questi giorni al largo della Libia; ma i documenti relativi all’equivoco avente per vittime i delfini, scoperti alcuni anni fa dallo storico Francesco Mattesini, inducono a ritenere che non sia andata così.
Il sommergibile, d’altro canto, non sarebbe nemmeno dovuto essere nella zona in cui si svolse l’attacco: in base agli ordini ricevuti, avrebbe dovuto trovarsi molto più a sudovest (la posizione d’agguato ad esso assegnata era 33°25’ N e 13°40’ E), a circa cento miglia di distanza. Secondo diversi autori, britannici ed italiani, che hanno trattato nel dopoguerra la scomparsa dell’Upholder, Wanklyn potrebbe aver scelto una posizione differente per permettere una più diretta intercettazione del convoglio, o semplicemente per portarsi in una zona che garantisse maggiori probabilità di trovare naviglio nemico. Francesco Mattesini, tuttavia, è di opinione diversa: la posizione assegnata all’Upholder nello sbarramento formato con Urge e Thrasher era quella centrale, di importanza cruciale, e sembra improbabile che Wanklyn potesse disattendere gli ordini di collaborare con gli altri sommergibili per garantire il successo dell’intercettazione.
Sempre dai documenti consultati da Mattesini, inoltre, risulta che l’esito dell’azione antisom della Pegaso fosse stato valutato da Supermarina come "poco consistente", vale a dire molto dubbio, e lo stesso comandante Acton non aveva rivendicato l’affondamento di un sommergibile. Dopo il lancio di un unico pacchetto di bombe da parte della torpediniera (quindi, in un’azione brevissima), il contatto era stato perso, ma non erano emersi rottami né tracce di nafta ad indicare l’affondamento o danneggiamento di un’unità subacquea.
Sulla fine dell’Upholder esistono altre tre ipotesi: una è che sia affondato contro mine dello sbarramento italiano «T» nelle acque antistanti Tripoli; un’altra è che sia rimasto vittima delle operazioni di ricerca e caccia antisom svolte tra Tripoli e Misurata, nei giorni 13 e 14 aprile, dalla torpediniera italiana Montanari e dai dragamine tedeschi R 9, R 12 e R 15 (nessuno dei quali, tuttavia, ritenne di aver affondato o danneggiato alcunché).
L’ultima ipotesi, infine, è che l’Upholder sia stato affondato il 14 aprile, tre ore prima dell’azione antisom della Pegaso, da due caccia Messerschmitt Bf 109 della 8a Squadriglia e due bombardieri Dornier Do 17 (uno dei quali poi abbattuto dai Beaufighter) della 10a Squadriglia del III./ZG. 26 della Luftwaffe, decollati dalla base libica di Castel Benito e diretti incontro al convoglio per unirsi alla scorta aerea. Alle 13.10 di quel giorno, i quattro aerei avevano individuato una scia, ritenuta di idrofono di sommergibile immerso, in avvicinamento al convoglio, ed avevano dapprima lanciato un fumogeno segnalatore e poi sganciato bombe su quel punto, venendo subito dopo emergere una macchia scura, ritenuta nafta.
Delle diverse ipotesi sulla perdita dell’Upholder, l’affondamento per mano della Pegaso rimane ad oggi quella più diffusa, anche da parte britannica (compresa la Sezione Storica dell’Ammiragliato); ma in realtà risulta impossibile stabilire con certezza quale sia stata la vera causa dell’affondamento dell’Upholder.
15 aprile 1942
Le navi del convoglio giungono a destinazione senza alcun danno, tra le 9.30 e le 10.
17 aprile 1942
La Pegaso salpa da Tripoli alle 15, insieme ai cacciatorpediniere Freccia (caposcorta) e Mitragliere, per scortare in Italia le motonavi Lerici e Monviso.
Il convoglio viene dirottato verso la Grecia a seguito dell’affondamento, sulla stessa rotta, del piroscafo tedesco Bellona da parte di un sommergibile britannico (il Torbay); poi viene diviso in base alla destinazione: Monviso e Mitragliere verso Brindisi (dove giungono alle 13.30 del 19), Lerici e Freccia verso Taranto (dove arrivano alle 14.15 del 19).
21 aprile 1942
Alle due di notte la Pegaso lascia Tripoli per andare a rinforzare la torpediniera Perseo nella scorta ad un convoglietto (piroscafo Tripolino, nave cisterna Ennio, motoveliero Egusa) in navigazione da Trapani a Tripoli. La Pegaso raggiunge il convoglio mentre esso sosta a Lampedusa.
23 aprile 1942
Il convoglio, cui si è aggregata la Pegaso, lascia Lampedusa alle 10 per raggiungere Tripoli.
24 aprile 1942
Le navi raggiungono Tripoli alle 9.40.
29 aprile 1942
Secondo alcune fonti, in questo periodo la Pegaso potrebbe aver affondato il sommergibile britannico Urge nel Mediterraneo orientale. Una mina, od un attacco di caccia FIAT CR. 42 al largo di Ras el Hilal, sono tuttavia ritenute cause molto più verosimili.


La Pegaso con colorazione mimetica (da www.difesa.it)

6 maggio 1942
La Pegaso salpa da Taranto per andare a rinforzare la scorta (cacciatorpediniere Ugolino Vivaldi – caposcorta, capitano di vascello Ignazio Castrogiovanni – e Turbine, torpediniere Circe ed Enrico Cosenz) di un convoglio in navigazione alla volta di Bengasi, e composto dai piroscafi Trapani (tedesco), Capo Arma ed Anna Maria Gualdi (italiani).
La Pegaso raggiunge il convoglio alle 22.
7 maggio 1942
Alle 5.35 la Cosenz lascia la scorta del convoglio, e la Circe fa lo stesso alle 16.45.
Alle 16.32 il sommergibile britannico Thorn (capitano di corvetta Robert Galliano Norfolk) avvista in posizione 34°34’ N e 17°59’ E del fumo, su rilevamento 335°. Il sommergibile – indirizzato verso il convoglio sulla base di decrittazioni di “ULTRA” – accosta nella direzione in cui si trova il fumo, ed alle 17.02 avvista gli alberi ed i fumaioli dei tre piroscafi del convoglio, distanti 9150 metri, con rotta 170°. Norfolk avvista anche cinque aerei di scorta, ed alle 17.15 anche due dei cacciatorpediniere della scorta.
Alle 17.22 (fonti italiane indicano l’orario dell’attacco nelle 17.30), in posizione 34°34’ N e 17°56’ E (180 miglia a nordovest di Bengasi), il Thorn lancia quattro siluri contro il mercantile di testa, da una distanza di 2750 metri: tutte le navi evitano i siluri con rapide manovre, poi Vivaldi e Pegaso contrattaccano, lanciando 35 bombe di profondità nell’arco di un’ora. La Pegaso è particolarmente attiva nel contrattacco, e ritiene di aver danneggiato il sommergibile; in realtà, sebbene due pacchetti di bombe di profondità (composti da cinque bombe ciascuno, i primi lanciati durante l’attacco) siano esplosi piuttosto vicini al Thorn, il sommergibile non ha subito danni.
8 maggio 1942
Tra le 2 e le 5.30 il convoglio subisce ripetuti attacchi aerei; nessuna nave subisce danni, mentre uno dei velivoli avversari viene abbattuto.
Il convoglio arriva a Bengasi alle 17.
Da Alessandria d’Egitto, a seguito dell’avvistamento del convoglio, salpano il 10 maggio (quando le navi sono già giunte a destinazione) i cacciatorpediniere britannici JervisKiplingLively e Jackal, con l’incarico di intercettarlo e distruggerlo al largo di Bengasi: non solo non riusciranno a trovarlo (visto che è già in porto), ma saranno avvistati ed attaccati dall’aviazione tedesca di base a Creta. Dei quattro cacciatorpediniere, soltanto il Jervis riuscirà a tornare alla base.
La Pegaso riparte da Bengasi già alle 19.45 per scortare a Taranto, insieme al cacciatorpediniere Ugolino Vivaldi (caposcorta), la motonave Monviso.
9 maggio 1942
Alle 21, al largo della Cirenaica, il convoglio di cui fa parte la Pegaso si unisce ad un altro formato dalla motonave tedesca Ankara e dal cacciatorpediniere Turbine. A mezzanotte, il Vivaldi lascia la scorta diretto a Messina.
10 maggio 1942
All’alba, Monviso ed Ankara si separano di nuovo, dirette l’una a Taranto e l’altra a Brindisi. Pegaso e Turbine rimangono entrambi con l’Ankara, che giunge a Brindisi a mezzogiorno.
14 maggio 1942
La Pegaso lascia Brindisi per Bengasi alle 22.30, scortando il piroscafo Petrarca.
15 maggio 1942
Alle 00.30 le due navi vengono avvistate da un ricognitore illuminante, che prende a seguirle; si verificano alcuni attacchi aerei, ma nessuna unità viene colpita.
17 maggio 1942
Pegaso e Petrarca entrano a Bengasi alle 17.30.
Alle 20.05 (19.30 per altra fonte) la Pegaso (tenente di vascello Francesco Acton) riparte da Bengasi per scortare a Taranto i piroscafi Iseo e Bolsena.
Dopo lo sbarco del pilota, il convoglio si dispone in linea di fila, con la Pegaso in testa, l’Iseo al centro ed il Bolsena in coda, procedendo a 7-8 nodi.
Del passaggio del convoglio, tuttavia, è già stato informato il sommergibile britannico Turbulent, al comando del capitano di fregata John Wallace Linton: il “merito” dell’agguato è dell’organizzazione britannica «ULTRA», che il 17 maggio, sulla base di quanto ricavato da messaggi italiani intercettati e decifrati, ha comunicato che Iseo e Bolsena devono lasciare Bengasi alle 19.30 di questo stesso giorno, scortati dalla Pegaso, diretti l’uno a Brindisi e l’altro a Taranto. ULTRA indica anche la velocità prevista: dieci nodi.
Il Turbulent si porta quindi in posizione idonea all’attacco, giungendovi alle 23.20 del 17 maggio, e nove minuti dopo, nel punto 32°02’ N e 19°30’ E, avvista le tre navi italiane in avvicinamento (con rotta 260°, poi cambiata in 335° da un’accostata, e velocità 10 nodi), che identifica come due mercantili di 4000 tsl ed un cacciatorpediniere di scorta, iniziando l’attacco.
18 maggio 1942
All’1.40 del 18 (ora di bordo del Turbulent, 00.40 per l’orario italiano), dopo aver lungamente manovrato per portarsi in una posizione favorevole all’attacco, il sommergibile accosta per lanciare contro il piroscafo di coda, il Bolsena, ma Winton rileva che la distanza è maggiore di quanto in precedenza abbia stimato, perciò assume rotta parallela al convoglio e si rimette all’inseguimento. Alle due di notte (l’una per l’orario italiano) il battello britannico accosta di nuovo per lanciare contro il Bolsena, ed alle 2.10 (1.10 ora italiana), nel punto 32°16’ N e 19°16’ E, lancia tre siluri da 1830 metri.
All’1.12 (ora italiana) del 18 maggio la Pegaso avverte due forti esplosioni verso poppavia, sulla sinistra, dove si trova il Bolsena; poco dopo, la sagoma del piroscafo viene vista sparire in una manciata di secondi, per lasciare il posto solo a pochi segnali luminosi dei mezzi di salvataggio. Il piroscafo, colpito da due siluri, è affondato in appena mezzo minuto nel punto 32°26’ N e 19°16’ E (circa 45 miglia a nordovest di Bengasi), portando con sé 48 degli 86 uomini a bordo.
La Pegaso raggiunge il probabile punto del lancio dei siluri ed inizia a lanciare bombe di profondità a scopo intimidatorio, ma non riesce a localizzare il sommergibile attaccante con l’ecogoniometro; pertanto, il comandante Acton fa lanciare il segnale di scoperta e comunica per radiosegnalatore a Bengasi, distante circa 50 miglia, la notizia dell’affondamento del Bolsena, precisando le coordinare e chiedendo l’invio di mezzi per recuperare i naufraghi. Avendo ancora l’Iseo da scortare, infatti, Acton ritiene indispensabile per la sua sicurezza di non lasciare solo il piroscafo superstite, ergo interrompe la caccia antisom ed all’1.50 riprende la navigazione, scortando l’Iseo, senza fermarsi a raccogliere i sopravvissuti del Bolsena (che saranno più tardi salvati dai dragamine tedeschi R 11 e R 16, inviati da Bengasi).
Alle 16.45 l’Iseo viene attaccato a sua volta, in questo caso da aerosiluranti, ma la reazione della Pegaso costringe gli aerei alla ritirata.
20 maggio 1942
Iseo e Pegaso  giungono a Taranto alle 15.30.


La Pegaso nella primavera del 1942 (g.c. STORIA militare)

2 giugno 1942
Alle 22.45 la Pegaso, il cacciatorpediniere Freccia (caposcorta, capitano di fregata Minio Paluello) e la torpediniera Partenope salpano da Taranto per scortare a Tripoli la motonave Reginaldo Giuliani. Durante la giornata, la navigazione prosegue senza intoppi a circa 15 nodi di velocità.
Già il 31 maggio, tuttavia, “ULTRA” ha avuto modo di comunicare ai comandi britannici, a seguito delle decrittazioni di messaggi italiani, che la Giuliani, la cui partenza è stata ritardata, dovrà partire da Taranto nella notte tra il 2 ed il 3 giugno con la scorta di FrecciaPartenope e Pegaso; dai messaggi intercettati i britannici sono venuti a conoscenza anche della prevista velocità del convoglio, 15 nodi, e del previsto orario d’arrivo a Bengasi, le 10.30 del 4 giugno.
4 giugno 1942
Nella notte tra il 3 ed il 4 giugno il convoglio viene localizzato da ricognitori decollati dalla Cirenaica ed illuminato dallo sgancio di numerosi bengala, cui segue una serie di attacchi di aerosiluranti isolati, che si protraggono per più di due ore. Alle 4.52 (o 4.53; per altra versione, probabilmente erronea, alle 5.30) del 4 giugno, a 125-130 miglia per 20° da Bengasi (cioè a nord di tale porto), un aerosilurante riesce a portarsi molto vicino prima di sganciare, e la Giuliani viene colpita a poppa sinistra dal suo siluro, rimanendo immobilizzata con gravi danni. Il Freccia, dopo diversi tentativi, riesce prendere a rimorchio la motonave nel tentativo di portarla in salvo a Bengasi.
Durante il rimorchio le paratie della Giuliani cedono alla pressione dell’acqua, permettendo al mare di allagare progressivamente tutti i compartimenti ed impedendo di proseguire nel rimorchio. Da Bengasi viene inviato il rimorchiatore tedesco Max Barendt che cerca a sua volta di prenderla a rimorchio, ma senza successo; i 225 uomini imbarcati devono essere trasferiti sulle unità della scorta.
5 giugno 1942
Siccome la motonave risulta ormai irrecuperabile (non è possibile prenderla a rimorchio, e Bengasi dista 130 miglia), ma al contempo affonda troppo lentamente, giunge da Marina Bengasi l’ordine di darle il colpo di grazia e poi raggiungere Bengasi; è la Partenope ad assumersi il mesto incarico, affondandola alle 6.30 del 5 giugno.
Non avendo più nulla da fare, Pegaso, Partenope e Freccia raggiungono Bengasi, dove sbarcano i 225 naufraghi, ma qui la perdita della Giuliani rivela uno dei suoi perniciosi aspetti. La nafta necessaria al rifornimento di Pegaso e Partenope, per permettere loro di tornare in Italia, era proprio quella che era stata caricata a bordo della motonave: ed ora giace in fondo al mare. Per permettere a FrecciaPartenope e Pegaso di tornare a Taranto si rende necessario prelevare la nafta dai serbatoi di altre due torpediniere, impedendo così che queste ultime, come programmato, possano compiere la loro programmata missione di caccia antisommergibile.
15 giugno 1942
Durante la battaglia aeronavale di Mezzo Giugno, la Pegaso viene fatta uscire da Patrasso (per ordine di Supermarina) per andare in soccorso dell’incrociatore pesante Trento, immobilizzato da un aerosilurante nel Mediterraneo centrale. Prima che la Pegaso possa giungere sul posto, tuttavia, il Trento verrà silurato dal sommergibile britannico Umbra ed affonderà portando con sé metà del suo equipaggio.
2 luglio 1942
La Pegaso salpa alle 13 da Taranto insieme ai cacciatorpediniere Turbine, Euro e Giovanni Da Verrazzano (caposcorta) ed alle torpediniere AntaresSan MartinoCastorePolluce per scortare a Bengasi un convoglio composto dalle moderne motonavi MonvisoNino Bixio ed Ankara (quest’ultima tedesca).
Si tratta del primo importante convoglio dopo la riconquista di Tobruk da parte dell’Asse, con un carico complessivo di 8182 tonnellate di munizioni e materiali, 1247 tonnellate di carburanti e lubrificanti, sette carri armati e 439 veicoli; la Monviso ha a bordo 128 automezzi, due carri armati, 300 tonnellate di carburanti e lubrificanti e 3020 tonnellate di altri materiali (tra cui materiale d’artiglieria e munizioni), oltre a 165 militari.
Già alle 14.18 il servizio di decrittazione britannico “ULTRA” intercetta e decifra un messaggio codificato dalla macchina “Enigma”, apprendendo così della partenza del convoglio; successive decrittazioni precisano la composizione della scorta e la rotta che il convoglio seguirà (rotte costiere e di sicurezza fino alle 4.30 del 3 luglio, quando Sagittario e San Martino si devono unire alla scorta, dopo aver completato un rastrello in quelle acque; indi riunione con convoglio che deve passare probabilmente a sudovest di Capo Gherogambo). Vengono dunque disposti attacchi aerei contro il convoglio, ed un ricognitore viene inviato a cercarlo, in base alle informazioni di “ULTRA”, per precisarne meglio la posizione.
Tuttavia, anche l’Ufficio Beta del Servizio Informazioni Segrete (il servizio segreto della Regia Marina) è al lavoro: la sera del 2 luglio gli uomini del SIS intercettano e decrittano un messaggio radio inviato alle 20.40 da Malta ai ricognitori YU3Y e 86KK, con l’ordine di cambiare rotta e cercare 30 miglia più ad est delle posizioni assegnate. Il messaggio è codificato col sistema SYKO, che i decrittatori del SIS sono riusciti a decifrare; inoltre, rilevazioni radiogoniometriche permettono di localizzare i ricognitori britannici (a 150 miglia per 350° da Bengasi l’uno, a 90 miglia per 350° da Bengasi l’altro). Alle 21.40, così, Supermarina invia al convoglio della Pegaso un messaggio PAPA (Precedenza Assoluta sulle Precedenze Assolute) ed informa il capoconvoglio che i britannici conoscono la loro posizione: in tal modo, il capoconvoglio cambia rotta.
La Pegaso rileva all’ecogoniometro un sommergibile nemico e lo attacca con intenso lancio di bombe di profondità, ritenendo di averlo affondato, ma in realtà non è stato colpito nulla (è possibile che il sommergibile stesso fosse solo un falso contatto).
3 luglio 1942
Nonostante il cambiamento di rotta, alle 3.30 il ricognitore H3TL riesce a trovare il convoglio, e lo comunica per radio a Malta. Di nuovo, però, il SIS intercetta e decifra il messaggio, e nel giro di mezz’ora Supermarina invia un nuovo avvertimento al convoglio, che cambia di nuovo rotta. La mattina ed il pomeriggio il convoglio procede senza incontrare forze britanniche.
Alle 15.13 ed alle 16.13, però, il SIS intercetta nuovi messaggi in codice britannici, e scopre che da Malta sono decollati otto aerosiluranti Bristol Beaufort.
Infatti il convoglio è stato avvistato da ricognitori nel pomeriggio, ed alle 18.30 sono decollati per attaccarlo otto aerosiluranti Bristol Beaufort, scortati da cinque caccia Bristol Beaufighteer; due degli aerei, però, non sono riusciti a decollare, ed altri due sono stati costretti a tornare indietro poco dopo il decollo. I rimanenti attaccano il convoglio alle 20.10, da est, provenendo dalla direzione opposta del crepuscolo e delle navi della scorta. Due aerei attaccano il mercantile al centro (la Bixio), altri due il mercantile di coda; questi ultimi due vengono abbattuti dal tiro contraereo della scorta (per altra fonte i Beaufort attaccanti erano sei, di cui tre abbattuti). Nonostante la coordinazione con i Beaufighters, che mitragliano le navi per contrastare il loro tiro contraereo, l’attacco britannico fallisce completamente: nessuna nave è colpita.
(Secondo una fonte, sempre in serata il convoglio viene attaccato da tre aerosiluranti Vickers Wellington, guidati da un Wellington VIII dotato di radar ASV – Air to Surface Vessel, per l’individuazione delle navi da parte di un aereo –, ma anche in questo caso non vengono subiti danni. È però probabile una confusione col successivo attacco di Wellington del 4 luglio).
4 luglio 1942
Alle 00.18 ed alle 00.42 il ricognitore N1KL invia due segnali di scoperta del convoglio, seguiti all’una di notte da un terzo segnale, lanciato dal ricognitore ZZ7P. Sono decollati da Malta cinque velivoli Vickers Wellington, due dei quali armati con siluri e tre con bombe da 227 kg: la scorta del convoglio, però, occulta i mercantili con cortine fumogene, e gli attaccanti devono sganciare bombe e siluri pressoché a caso, senza riuscire a vedere i bersagli. Nessuna bomba o siluro va a segno.
Nella mattinata del 4 luglio, nuovo attacco: stavolta da parte di tre Wellington e tre bombardieri quadrimotori Consolidated B-24 “Liberator”, tutti della Royal Air Force, decollati dall’Egitto. I Wellington non riescono a trovare il convoglio; i B-24 invece sì, ma le loro bombe non vanno a segno.
Alle 10.30 ed alle 14.15 (quando l’Ankara viene mancata da quelli che sembrano dei siluri) il convoglio viene attaccato da sommergibili (ma è probabile che si sia trattato di falsi allarmi).
Il britannico Turbulent (capitano di fregata John Wallace Linton) avvista le alberature e poi le navi italiane alle 11.10, in posizione 33°30’ N e 20°30’ E (un’ottantina di miglia a nord di Bengasi), ma viene localizzato dal sonar della Pegaso alle 11.41, prima di poter attaccare, e subisce poi una caccia antisom che inizia alle 11.48: la prima scarica di 6 bombe di profondità, lanciata in posizione 33°28’ N e 20°28’ E, esplode molto vicina ma causa soltanto danni minori; successivamente vengono gettate molte altre bombe di profondità, che però esplodono più lontane. Da parte italiana si ritiene, erroneamente, di avere affondato il sommergibile; comunque, l’attacco è sventato.
Il convoglio giunge indenne a Bengasi alle 18.45.
Subito (leggera discrepanza negli orari: 18.15 è indicato come l’ora di partenza) la Pegaso riparte per scortare a Brindisi, insieme alle torpediniere Castore, Polluce ed Antares, la motonave Rosolino Pilo. Alle 19 queste navi si uniscono alle motonavi Sestriere e Vettor Pisani, scortate dal cacciatorpediniere Nicoloso Da Recco e dalle torpediniere Lince e Calatafimi, e formano un unico grande convoglio, l’«M», con il Da Recco come caposcorta.
5 luglio 1942
Alle 7 si unisce alla scorta la torpediniera Sagittario, ed alle 8.30 si aggrega anche il Da Verrazzano, che però se ne va dopo tre ore.
Alle 24 anche la Polluce lascia il convoglio per dirigere su Patrasso, come da ordini in precedenza ricevuti.
6 luglio 1942
Alle 5.30 anche la Sagittario lascia il convoglio per raggiungere Taranto, in base a disposizioni prestabilite. Il convoglio raggiunge Brindisi alle 14.
26 luglio 1942
La Pegaso scorta la motonave Manfredo Camperio da Gallipoli a Patrasso.
Luglio 1942
Il capitano di corvetta Acton lascia il comando della Pegaso, sostituito dal tenente di vascello Mario De Petris.
3 agosto 1942
La Pegaso viene inviata da Bengasi in soccorso dei naufraghi della motonave Monviso, affondata alle 15.25 per arma subacquea (mine o siluri del sommergibile HMS Thorn) a otto miglia per 333° da Sidi Sueicher, 16 miglia a nordovest di Bengasi. La Pegaso e la motovedetta Cotugno della Guardia di Finanza recuperano 241 sopravvissuti, mentre le vittime sono 6. Per ordine di Supermarina, la Pegaso riceve anche ordine di effettuare caccia antisom, sostituendo in questo i cacciatorpediniere Alpino e Corazziere (che scortavano la Monviso) che già lo stavano facendo a seguito dell’affondamento, nella presunzione che la motonave sia stata affondata dai siluri di un sommergibile; ma sembra oggi più probabile che non vi fosse alcun sommergibile, e che la Monviso sia affondata per urto contro mina.
4 agosto 1942
La Pegaso, insieme all’Orsa ed al cacciatorpediniere Saetta, salpa da Bengasi alle 19 per scortare la motonave Tergestea, diretta a Brindisi (convoglio «T»).
Alle 24 la Pegaso lascia la scorta della motonave.
5 agosto 1942
La Pegaso, proveniente da Bengasi, si unisce alla scorta (cacciatorpediniere Legionario, caposcorta, e Corsaro, torpediniere Partenope e Calliope) delle motonavi Nino Bixio e Sestriere, provenienti da Brindisi e dirette a Bengasi. Superati indenne alcuni attacchi aerei, il convoglio giunge a destinazione alle 12.30.
6 agosto 1942
La Pegaso (tenente di vascello Mario De Petris) salpa da Bengasi alle due di notte, di scorta al piroscafo Istria.
Alle 12.55, trenta miglia a sudovest di Gaudo e 50 miglia a sudovest di Creta, viene avvistato un bombardiere tedesco Junkers Ju 88 (per una fonte, appartenente alla scorta aerea) intento a mitragliare qualcosa sulla superficie del mare, 4600 metri a proravia del convoglio; la Pegaso si porta nella zona per vedere di cosa si tratti, e nota un periscopio affiorante che lascia una scia visibile a notevole distanza, nonostante la superficie del mare sia increspata. Il periscopio, che rimane visibile per un po’ di tempo anche dopo la fine dell’attacco dello Ju 88, continua a muoversi verso sinistra ad alta velocità con l’apparente intenzione di portarsi sul suo fianco sinistro, tagliando la rotta del convoglio, per poi scomparire alla vista dopo due minuti.
Alle 12.58 la Pegaso ottiene un buon contatto all’ecogoniometro, 1400 metri di prora: si tratta del sommergibile britannico Thorn (capitano di corvetta Robert Galliano Norfolk). Iniziano quindi gli attacchi con bombe di profondità: in tutto la Pegaso ne esegue ben sette, dalle 12.58 alle 13.47, mantenendo sempre un buon contatto all’ecogoniometro. Vengono lanciate tre bombe di profondità con ciascuno dei tre lanciabombe di dritta, distanziate tra di loro di 50 metri e regolate per esplodere a 15, 45 e 70 metri di profondità, in modo da saturare la zona bombardata.
Il sommergibile manovra rapidamente nel tentativo di sottrarsi alla caccia, ma dopo il secondo attacco sembra ridurre di molto la velocità, e poco dopo la Pegaso osserva delle tracce di carburante. Dopo il sesto attacco, affiorano in superficie in successione dell’altro carburante e tre vistose bolle d’aria, che inducono il comandante De Petris a pensare che il sommergibile stia tentando di emergere.
Dopo il settimo attacco, il contatto all’ecogoniometro viene perso, e vengono visti affiorare in superficie prima un’enorme bolla d’aria (alle 13.45) e poi del carburante, che forma rapidamente una chiazza molto vasta. La Pegaso rimane per qualche tempo sul punto dell’affondamento, poi ritorna a scortare l’Istria.
Il Thorn si è inabissato con tutto l’equipaggio di 60 uomini, in posizione 34°25’ N e 22°36’ E.
Pegaso ed Istria giungono al Pireo alle 9.30.
21 agosto 1942
Alle 5.40 la Pegaso va a rinforzare la scorta (cacciatorpediniere Aviere, caposcorta, e Geniere, torpediniere Ciclone e Climene) della nave cisterna Pozarica e del piroscafo tedesco Dora, in navigazione da Messina a Bengasi.
Alle 16.17, al largo dell’isolotto di Sivota, il convoglio viene attaccato da aerosiluranti: la Pozarica viene colpita da un siluro, ma si riesce a portarla all’incaglio nella baia di Saiada (Canale di Corfù) alle 7.20 del 22 (sarà poi possibile recuperarne il carburante ed avviarla ai lavori di riparazione); le altre navi ricevono ordine di raggiungere Corfù, dove arrivano alle 20.30. Durante l’attacco, la Pegaso ha abbattuto un aerosilurante Bristol Beaufort ed un caccia Bristol Beaufighter.


La Pegaso al Pireo il 23 agosto 1942, in secondo piano un cacciasommergibili ausiliario della Kriegsmarine (foto Aldo Fraccaroli, via Giorgio Parodi e www.naviearmatori.net)

25 agosto 1942
La Pegaso, l’anziana torpediniera Calatafimi e l’incrociatore ausiliario Barletta scortano dal Pireo a Suda un convoglio formato dai piroscafi italiani Palermo (che poi prosegue per Iraklion) e Pier Luigi, dal tedesco Rhea e dalla nave cisterna Ossag, pure tedesca.
27 agosto 1942
La Pegaso, uscita da Suda, va incontro alle motozattere MZ 744 e MZ 758 e prende a bordo i naufraghi del piroscafo Istria, affondato alcune ore prima, che le due motozattere hanno soccorso.
6 settembre 1942
Alle 2.30 la Pegaso salpa da Brindisi insieme ai cacciatorpediniere Aviere (caposcorta, capitano di vascello Ignazio Castrogiovanni), Lampo e Legionario ed alla torpediniera Partenope, per scortare in Libia il convoglio «P» (motonavi Ankara e Sestriere).
Alle 10.40, al largo di Capo Santa Maria di Leuca, il convoglio «P» si unisce al convoglio «N», proveniente da Taranto (motonavi Ravello e Luciano Manara, scortate dai cacciatorpediniere Freccia, Bombardiere, Geniere, Fuciliere, Corsaro e Camicia Nera e dalla torpediniera Pallade), formando un unico convoglio denominato «Lambda», che fruisce anche di nutrita scorta aerea da parte di velivoli italiani e tedeschi.
In base alle disposizioni impartite, il convoglio naviga lungo la costa della Grecia; verso le 15.30, al largo di Corfù, si verifica un attacco di aerosiluranti decollati da Malta. Quattro degli aerei vengono abbattuti dalle navi della scorta, ma alle 15.40 la Manara viene colpita a poppa da un siluro; presa a rimorchio dal Freccia (capitano di fregata Minio Paluello), può essere portata all’incaglio nella baia di Arilla (Corfù). Il resto del convoglio prosegue; al tramonto si scinde nuovamente nei due gruppi originari (meno Freccia e Manara) che navigano separati per tutta la notte, pur seguendo entrambi la medesima rotta lungo la costa ellenica.
7 settembre 1942
All’alba i due gruppi si riuniscono di nuovo, assumendo una formazione con le motonavi disposte a triangolo (Ravello a dritta, Ankara a sinistra, Sestriere di poppa) e le navi scorta disposte tutt’intorno, oltre alla scorta aerea di 7 Junkers Ju 88 tedeschi, 5 caccia italiani Macchi Mc 200 ed un idrovolante CANT Z. 506.
Alle 8.35 il sommergibile britannico P 34 (tenente di vascello Peter Robert Helfrich Harrison), preavvisato del prossimo arrivo del convoglio, avvista su rilevamento 305° le alberature ed i fumaioli delle navi italiane. Iniziata la manovra d’attacco alle 8.40, il P 34 lancia quattro siluri alle 9.21, da 6400 metri, in posizione 36°17’ N e 21°03’ E (45 miglia a sudovest dell’isola greca di Schiza); Sestriere e Ravello, avvistati i siluri, li evitano con la manovra. Il Lampo (capitano di corvetta Antonio Cuzzaniti) viene temporaneamente distaccato per dargli la caccia, lanciando bombe di profondità a scopo intimidatorio, per poi riunirsi al convoglio; anche l’Aviere, che ha avvistato le scie dei siluri, effettua un attacco con bombe di profondità. Il contrattacco contro il P 34 si protrae dalle 9.36 alle 13 circa (con una pausa di circa un’ora), con il lancio in tutto di 83 bombe di profondità; gli scoppi delle bombe, oltre ad indurre il sommergibile a restare immerso in profondità per tutto il pomeriggio, arrecano seri danni al suo motore di sinistra (quando si cerca di metterlo in moto, scoppia un incendio), costringendolo ad interrompere la missione e rientrare a Malta per le riparazioni.
Per tutta la giornata del 7, e nella notte successiva, le navi vengono ripetutamente attaccate da bombardieri (di giorno si tratta di Consolidated B-24 “Liberator” statunitensi) ed aerosiluranti.
Alle 19.40 il convoglio «Lambda» si scinde nuovamente in due gruppi: Ankara, Lampo, Geniere e Partenope dirigono per Tobruk (dove arriveranno alle 14 dell’8), mentre Pegaso, Pallade, Camicia Nera, Aviere, Corsaro, Legionario, Ravello e Sestriere fanno rotta per Bengasi.
8 settembre 1942
La Pegaso e le altre navi del suo gruppo entrano a Bengasi alle 11.
10 settembre 1942
La Pegaso lascia Bengasi alle 18.15 per scortare a Suda il piroscafo O. Bottiglieri.
13 settembre 1942
Pegaso e Bottiglieri giungono a Suda alle 18.30.
16 settembre 1942
La Pegaso scorta da Suda al Pireo il piroscafo G. Bottiglieri.



 La poppa della Pegaso nel 1942, con il suo variegato armamento (Coll. Aldo Fraccaroli via Maurizio Brescia e www.associazione-venus.it; STORIA militare via Dante Flore e www.naviearmatori.net)


1942-1943
Lavori di modifica: l’armamento contraereo viene potenziato con l’aggiunta di tre mitragliere singole Scotti-Isotta Fraschini 1939 da 20/70 mm. Viene anche modificato lo scudo delle artiglierie ed aggiunta una gruetta a centro nave per un’imbarcazione di servizio.
1° gennaio 1943
Il comandante De Petris viene promosso a capitano di corvetta.
9 febbraio 1943
Alle 18 la Pegaso (capitano di corvetta Mario De Petris) salpa da Taranto per scortare a Tunisi, via Palermo, il piroscafo Petrarca, con un carico di 2900 tonnellate di rifornimenti, tra cui armi e 1500 tonnellate di munizioni.
Alle 22 aerei nemici iniziano a tallonare il convoglio.
10 febbraio 1943
Tra le 2.13 e le 4.47 Pegaso e Petrarca subiscono ripetuti attacchi di bombardieri ed aerosiluranti; alle 2.45 il Petrarca evita un siluro con la manovra, mentre alle 3.15 il piroscafo viene mancato da alcune bombe. Per evitare che gli aerei attacchino anche dal lato terra, Pegaso e Petrarca navigano quanto più possibile vicino alla costa della Calabria, così tenendosi sotto la protezione delle batterie costiere, e reagendo con il tiro delle mitragliere di Pegaso e Petrarca.
Navigare sottocosta, però, presenta un rischio nella scarsa profondità dei fondali: quando, verso le sette del mattino del 10 (una decina di miglia a nord di Crotone), ha inizio un nuovo attacco aereo, il Petrarca, a causa di carte nautiche non aggiornate, pur navigando con vapore minimo, s’incaglia intorno alle 7.30 su una secca a circa 800 metri dalla spiaggia di Marina di Strongoli (nei pressi dell’odierna Via Magna Grecia), una decina di miglia a nord di Crotone, assumendo un leggero appoppamento. Il forte vento di tramontana e le conseguenti forti onde impediscono il disincaglio, e fanno sbandare il Petrarca sul lato sinistro.
La Pegaso tenta più volte di disincagliare il piroscafo, ma inutilmente; alle 18 arrivano per tale compito due rimorchiatori inviati da Taranto, dopo di che la torpediniera rimane in zona per assicurare protezione antisommergibili.
11 febbraio 1943
A causa di un fortunale da scirocco frattanto sviluppatosi, la Pegaso, al pari dei rimorchiatori e della torpediniera Cassiopea (capitano di corvetta Virginio Nasta) inviata da Messina a darle il cambio, è obbligata a puggiare a Crotone.
Il 15 febbraio il Petrarca, ancora incagliato, verrà silurato dal sommergibile britannico Una e salterà in aria, con la morte di 79 uomini.
20 febbraio 1943
Alle 15.40 (o 14.50) la Pegaso (capitano di corvetta Mario De Petris), uscita da Palermo, va a rinforzare le torpediniere Orione (caposcorta, capitano di corvetta Luigi Colavolpe) ed Animoso (capitano di corvetta Camillo Cuzzi) nella scorta al piroscafo Fabriano (con 1700 tonnellate di viveri e munizioni) ed alla grossa nave cisterna Thorsheimer (carica di 13.000 tonnellate di benzina), in navigazione da Napoli a Biserta. C’è anche una poderosa scorta aerea, con numerosi velivoli da caccia.
Lo stesso giorno, tuttavia, l’organizzazione britannica “ULTRA” intercetta e decifra un messaggio dal quale apprende che «Petroliera Thorsheimer e piroscafo Fabriano debbono raggiungere Biserta alle 17.00 del 21, lasciando Napoli alle 10.00 del 20».
Da Malta decollano pertanto diversi aerosiluranti Fairey Albacore dell’828th Squadron della Fleet Air Arm, in parte armati con bombe ed in parte con siluri, nonché quattro Bristol Beaufort del 39th Squadron della Royal Air Force, armati di siluri. Dei quattro Beaufort, che dopo il decollo s’imbattono in pioggia, grandine e tempeste di elettricità, che riducono fortemente la visibilità, soltanto uno (pilotato dal tenente Stanley R. Muller-Rowland) riuscirà a trovare i bersagli ed a sganciare il suo siluro, ma senza comunque colpire nulla.
Alle 19.40 il convoglio viene attaccato infruttuosamente da bombardieri ed aerosiluranti (gli Albacore); alle 21 le navi entrano nel porto di Trapani, dove sostano fino alle prime ore del giorno seguente, ma di nuovo i messaggi relativi al convoglio vengono decrittati da “ULTRA”, permettendo ai comandi britannici di apprendere che «Thorsheimer e Fabriano salperanno da Trapani alle 03.00 del 21, velocità 12 nodi, diretti a Biserta dove arriveranno alle 15.30 del 21».
Durante un’incursione aerea verificatasi mentre le navi sono alla fonda, il Fabriano viene colpito e subisce danni alle caldaie, che lo costringono a rimanere a Trapani.
21 febbraio 1943
Nelle prime ore del 21, le navi del convoglio sono infruttuosamente attaccate da altri quattro Beaufort (erano decollati in cinque, ma il quinto non è riuscito a trovare il convoglio), pilotati rispettivamente dal tenente John Cartwright, dal sergente maggiore L. T. Garland, dal sergente maggiore Stanley H. Balkwill e dal maresciallo Richard J. S. Dawson. Nessuna nave viene colpita dai quattro siluri sganciati; uno dei Beaufort, quello di Balkwill, viene gravemente danneggiato dal tiro contraereo delle navi italiane, anche se riesce a rientrare a Luqa (Malta).
Thorsheimer e torpediniere ripartono da Trapani alle 5.50, ma appena uscita dal porto (5.51) la petroliera viene mitragliata da un Albacore dell’828th Squadron F.A.A., che ferisce a morte il comandante; l’Orione ordina alle navi di ancorarsi nuovamente, preleva il moribondo comandante della Thorsheimer e lo porta a Trapani, dove imbarca il comandante del Fabriano, che viene poi trasbordato sulla nave cisterna per assumerne il comando. Alle 11.15 il convoglio è in grado di mettere nuovamente in moto verso Biserta.
Stante l’importanza del carico della Thorsheimer, il convoglio gode anche di una nutrita scorta aerea, con dieci caccia della Luftwaffe e quattro idrovolanti antisommergibili.
Alle 14.25, venti miglia a sudovest di Marettimo, le navi sono attaccate da otto bombardieri statunitensi North American B-25 Mitchell, scortati da dodici caccia, che sganciano le loro bombe a bassa quota. Il tiro delle torpediniere abbatte due degli attaccanti, mentre un terzo viene abbattuto da un caccia; la scorta aerea dell’Asse perde uno Junkers Ju 88 tedesco ed un idrovolante CANT Z. 506 italiano.
La Thorsheimer viene colpita da due degli ordigni, rimanendo immobilizzata con principio d’incendio a bordo; Pegaso ed Animoso le danno assistenza, mentre l’Orione è costretta a fermarsi perché la concussione di alcune bombe scoppiate a pochissima distanza le ha temporaneamente messo fuori uso il timone. Riparato il timone, l’Orione imbarca i 49 membri dell’equipaggio della Thorsheimer e poi dirige a Trapani per sbarcarveli, lasciando Pegaso ed Animoso ad assistere la petroliera in attesa dell’arrivo di due rimorchiatori (il cui intervento è stato subito richiesto) inviati da Trapani.
Alle 20.15, mentre si predispone il rimorchio, l’ancora immobile Thorsheimer attaccata nuovamente da sei aerosiluranti Bristol Beaufort del 39th Squadron R.A.F.: uno dopo l’altro, sono ben quattro i siluri che vanno a segno (sganciati, rispettivamente, dal capitano Don Tilley, dal sergente maggiore Ewen Gillies, dal tenente Feast e dal sergente maggiore H. H. Deacon). Questa volta la nave esplode, per poi affondare in un mare di fiamme.
25 febbraio 1943
Alle 15 la Pegaso salpa da Napoli insieme alle torpediniere Sirio (caposcorta), Sagittario, Castore, Ciclone e Generale Antonino Cascino ed ai cacciasommergibili tedeschi UJ 2209, UJ 2210 e UJ 2220, per scortare a Biserta i piroscafi Forlì e Teramo.
Sei ore dopo la partenza, il convoglio viene avvistato da ricognitori avversari.
26 febbraio 1943
Individuato da ricognitori avversari, il convoglio viene attaccato da aerosiluranti alle 3.30, 38 miglia a sudovest da Punta Licosa.
Alle 14.30 esso subisce un nuovo attacco, stavolta da parte di 18 bombardieri, 38 miglia a nord di Capo Zaffarano. Nessuna nave è colpita tranne l’UJ 2209, lievemente danneggiato da schegge.
Nelle acque antistanti Palermo, si uniscono al convoglio anche le navi cisterna Bivona e Labor ed il piroscafo Volta, nonché le torpediniere Groppo ed Orione, la corvetta Gabbiano ed il dragamine tedesco R 15; si forma così un unico convoglio, scortato da Groppo (caposcorta), Ciclone, Orione, Pegaso, Cascino, Gabbiano e R 15. Sirio e Sagittario, al pari dei tre cacciasommergibili tedeschi, rientrano invece a Napoli, mentre la Castore è costretta ad entrare a Palermo e restarvi a causa di un’avaria.
Al largo di Trapani la Gabbiano lascia la scorta.
27 febbraio 1943
Alle 10.40 un aereo da caccia italiano, di scorta al convoglio, precipita per avaria; l’Orione ne salva il pilota.
28 febbraio 1943
Il convoglio giunge a Biserta all’1.45.
5 marzo 1943
La Pegaso lascia Biserta alle 10, insieme al cacciatorpediniere Lampo (caposcorta) ed alla torpediniera Animoso, per scortare a Napoli i piroscafi Sabbia e Frosinone e la nave cisterna Bivona.
6 marzo 1943
Alle 22 l’Animoso lascia la scorta del convoglio. Il Sabbia è colto da avaria di macchina che lo costringe a ridurre la velocità, ritardando l’arrivo a Napoli.
7 marzo 1943
La Pegaso lascia la scorta alle 23.30, poco prima che le navi raggiungano Napoli (ciò avviene tra le 21 e le 23.30).
12 marzo 1943
Alle 00.30 la Pegaso (capitano di corvetta Mario De Petris), insieme alle torpediniere Sirio (capitano di corvetta Antonio Cuzzaniti, caposcorta capitano di vascello Corrado Tagliamonte) e Ardito (capitano di corvetta Silvio Cavo) ed alla corvetta Cicogna (tenente di vascello Augusto Migliorini), salpa da Napoli per scortare a Tunisi il convoglio «D», formato dai piroscafi tedeschi Esterel e Caraibe.
Alle 2.10 l’Ardito deve rientrare a Napoli a causa di una grave avaria di macchina.
Alle 14.40 si uniscono al convoglio la cisterna militare Sterope, partita da Messina e diretta a Biserta, e le torpediniere Cigno (capitano di corvetta Carlo Maccaferri) ed Orione (capitano di corvetta Luigi Colavolpe) che la scortano. Poco prima si è unita alla scorta anche la corvetta Persefone (capitano di corvetta Oreste Tazzari), salpata da Trapani, che insieme alla gemella Antilope ed a cinque cacciasommergibili tedeschi ha il compito di effettuare ricerca e caccia antisom preventiva; poco dopo si aggrega anche la vecchia torpediniera Generale Antonino Cascino (tenente di vascello Gustavo Galliano), proveniente da Messina.
Alle 16.10 si unisce alla scorta anche la torpediniera Libra, proveniente da Palermo, e più tardi i cacciasommergibili VAS 231 e VAS 232.
Già dal 10 marzo, tuttavia, i comandi britannici – attraverso le decrittazioni di “ULTRA” – sanno che la nave cisterna Sterope e la motonave Nicolò Tommaseo devono arrivare a Messina alle 20 del 9, provenienti da Brindisi, per poi unirsi ad Esterel e Caraibe e Manzoni, provenienti da Napoli e diretti a Messina o Trapani, e fare rotta insieme verso Tunisi e Biserta, dove giungere nel pomeriggio dell’11. Il 12 marzo “ULTRA” ha poi appreso del rinvio di 48 ore di tale programma, con l’arrivo a Messina di Sterope e Tommaseo alle 14 dell’11 anziché la sera del 9; i comandi britannici deducono correttamente che la prevista riunione in mare avverrà nella giornata del 12, e pertanto inviano numerosi aerei a cercare il convoglio.
Lo trovano alle 20.40: tra quell’ora e le 21.20 il convoglio viene continuamente sorvolato da aerosiluranti, bersagliati più volte dal tiro di tutte le navi. Uno di essi, un Bristol Beaufort del 39th Squadron pilotato dal tenente Arnold M. Feast, viene abbattuto; la Persefone recupera tre superstiti.
Alle 21.25 (o 21.35), dodici miglia ad ovest di Capo Gallo, la Sterope viene colpita a prora sinistra da un siluro, sganciato da un altro Beaufort del 39th Squadron R.A.F. (pilotato dal capitano Stanley Muller-Rowland). Per ordine del caposcorta, Pegaso e Cascino sono distaccate per assistere la petroliera danneggiata, mentre il resto del convoglio prosegue.
Altri quattro Beaufort attaccano le navi italiane, senza ottenere ulteriori centri; due di essi sono colpiti, uno dei quali (sergente William A. Blackmore) viene abbattuto senza superstiti e l’altro (sergente J. T. Garland) viene gravemente danneggiato ma riesce a tornare a Luqa (Malta).
13 marzo 1943
Sterope, Pegaso e Cascino raggiungono Palermo alle 4.30. Terminato il loro compito, le due torpediniere proseguono per Trapani, dove è stato dirottato il resto del convoglio a seguito dell’avvistamento – alle 20.18 del 12, da parte di un ricognitore della Luftwaffe –  di quattro cacciatorpediniere britannici al largo di Bona, con rotta nordest ed elevata velocità. I mercantili sono ora ridotti al solo Caraibe, perché anche l’Esterel è stato silurato e danneggiato ed è dovuto riparare a Trapani, mentre la scorta, essendo alcune unità state distaccate per caccia antisom ed assistenza alle navi colpite, è ridotta alle sole Sirio, Cigno e Libra.
Alle 22.45 Caraibe e scorta, ora costituita da Sirio (caposcorta), CignoLibraOrioneCascino e Pegaso nonché dalle VAS 231 e 232 (i quali precedono il convoglio per effettuare dragaggio), ripartono da Trapani per unirsi, dieci miglia ad est del banco di Skerki, ad un altro convoglio formato dalle motonavi Manzoni e Mario Roselli.
14 marzo 1943
All’1.34 aerei avversari iniziano a sorvolare il convoglio, e tra le 2.42 e le 2.44 questi lanciano tre siluri: la Pegaso abbatte un aereo, ma alle 2.44 il Caraibe viene colpito da un siluro, il terzo lanciato. Incendiato, il piroscafo viene scosso da varie esplosioni ed affonda alle 4.35; le unità della scorta subiscono insistenti attacchi di bombardieri ed aerosiluranti fino alle quattro del mattino, ma non subiscono danni. Pegaso e Cascino recuperano 63 sopravvissuti del Caraibe (su un centinaio di uomini presenti a bordo) e dirigono per Trapani.
Le altre torpediniere raggiungono il convoglio formato da Manzoni e Roselli, che giunge a Biserta alle 17 (per altra versione, anche la Pegaso si sarebbe riunita alla scorta delle due motonavi nell’ultimo tratto di navigazione).
15 marzo 1943
Alle 3.15 la Pegaso lascia Trapani e va a rinforzare la scorta (torpediniere Orione – caposcorta –, Clio e Sagittario) di un convoglio formato dai piroscafi Fabriano e Pierre Claude (tedesco) e dalle motonavi Belluno e Caterina Costa, proveniente dalla Tunisia e
diretto a Napoli.
Alle 20.37, una trentina di miglia a sud di Capri, il sommergibile britannico Trooper (tenente di vascello John Somerton Wraith) avvista verso est le sagome oscurate di navi dirette verso Napoli, ed alle 20.46 lancia quattro siluri contro la Belluno, da una distanza di circa quattro miglia. Nessuna delle armi va a segno; il Trooper s’immerge e si allontana alle 20.48.
Dalle 21.35 aerei nemici prendono a sorvolare le navi italiane a più riprese, ma sono sempre respinti dal tiro delle armi di bordo.
16 marzo 1943
Il convoglio giunge a Napoli tra le 4 e le 7.
30 marzo 1943
Nelle prime ore della notte Pegaso ed Orione, in navigazione da Biserta a Trapani nel buio più totale (essendo la notte senza luna), incrociano le corvette Antilope e Persefone, in navigazione con rotta opposta, al largo di Favignana. A causa dell’oscurità e di un errore di manovra, in condizioni di mare forza 8, la Pegaso sperona a poppa l’Antilope, che verso le 2.30 chiede aiuto, via radio, alla Persefone; quest’ultima, che non aveva notato quanto accaduto, raggiunge rapidamente il luogo del sinistro e recupera una decina di uomini caduti in mare, che vengono rifocillati e ricevono indumenti asciutti. La danneggiata Pegaso e l’Orione dirigono per Trapani, scortando Antilope e Persefone, la prima a rimorchio della seconda. Le quattro navi arrivano in porto intorno alle 18.
La Pegaso, dopo le prime riparazioni provvisorie compiute a Trapani, viene inviata a Venezia per lavori più estesi, che si risolveranno nella completa sostituzione della prua lesionata: al suo posto verrà messa la prua di una delle corvette in costruzione a Monfalcone. Durante i lavori viene anche rimosso l’ecogoniometro, trasferito sulla corvetta Folaga.
11 aprile 1943
La Pegaso (caposcorta) salpa da Trapani per scortare a Palermo, insieme al vecchio cacciatorpediniere Augusto Riboty, al cacciasommergibili tedesco UJ 2210 ed al dragamine tedesco M 6524, un convoglio formato dai piroscafi italiani Macerata e Giovanni Bottiglieri, dal piroscafo tedesco Hans SS Carbet, dalla nave cisterna Bivona e dalla cisterna militare Prometeo.
Alle 13.30 il sommergibile britannico Sibyl (tenente di vascello Ernest John Donaldson Turner) avvista fumo ed un aereo che gira in cerchio su rilevamento 240°, pertanto accosta per avvicinarsi. Alle 14.30 il Sibyl avverte degli impulsi sonar dritti di prora, ed avvista le alberature di navi provenienti da Capo San Vito e dirette verso nordest; avvistato tutto il convoglio alle 14.50, il sommergibile manovra per attaccare ed alle 15.54 lancia quattro siluri, in posizione 38°19’ N e 13°00’ E (una decina di miglia a nord-nord-ovest di Punta Raisi), da distanze comprese tra i 4600 ed i 5500 metri, per poi scendere in profondità.
Poco dopo, il Carbet avvista il periscopio del Sibyl ed apre il fuoco con una mitragliera da 20 mm, mentre l’UJ 2210, posizionato a poppavia dritta del convoglio, avvista ed evita di stretta misura tre siluri, che gli passano 40-60 metri a poppa. Il cacciasommergibili risale poi le scie dei siluri, ottiene un contatto e lancia alle 16.12 un pacchetto di bombe di profondità (che esplodono piuttosto vicine al Sibyl); un aereo italiano lancia due bombe, ma senza colpire. L’UJ 2210 effettua poi un secondo attacco con cariche di profondità, al termine del quale ritiene di aver affondato l’attaccante; in realtà il Sibyl ha riportato solo lievi danni dallo scoppio delle 36 bombe di profondità lanciate tra le 16.12 e le 16.38.
[Nota dell’autore – Sembra però strano che la Pegaso fosse di nuovo operativa a soli undici giorni dalla grave collisione del 30 marzo].
31 maggio 1943
Riclassificata torpediniera di scorta.
19 luglio 1943
Il piroscafo francese San Pedro, che la Pegaso e l’anziana torpediniera Nicola Fabrizi stanno scortando, viene avvistato alle 8.27 dal sommergibile britannico Torbay (tenente di vascello Robert Julian Clutterbuck) mentre procede a 10 nodi su rotta 315°. Il Torbay si avvicina per attaccare, ed alle 9.33, a 9 miglia per 115° dal faro di Giannutri, lancia quattro siluri da 3200 metri contro il San Pedro, che viene però mancato.


Dettaglio della Pegaso al Pireo il 16 agosto 1943 (g.c. STORIA militare)

Autoaffondamento alle Baleari

L’alba dell’8 settembre 1943 trovò la Pegaso a La Spezia, ormeggiata al molo Lagora. Come il resto della flotta da battaglia stanziata nella base ligure, la nave, nei giorni precedenti, aveva caricato carburante e munizioni per quella che si pensava sarebbe stata l’ultima battaglia: girava notizia dell’avvistamento di una flotta angloamericana di ben 450 navi, diretta verso le coste della Campania; gli Alleati stavano per sbarcare a Salerno, e la squadra da battaglia, dopo mesi di immobilità nella base di La Spezia, si preparava a salpare per contrastare la flotta d’invasione in un ultimo scontro che si sarebbe concluso nel suo totale annientamento.
Appena qualche giorno prima il capitano di fregata Riccardo Imperiali, membro dello Stato Maggiore del comandante in capo della squadra da battaglia, ammiraglio di squadra Carlo Bergamini, aveva chiesto ed ottenuto il comando di una nave, proprio in vista dell’ultima battaglia. Gli era stato così affidato, il 2 settembre, il comando della Pegaso: questa richiesta, come mostrarono gli eventi che seguirono, finì col salvare la vita del capitano di fregata Imperiali.
Il mattino ed il pomeriggio dell’8 settembre passarono tranquilli, ma intorno alle 18 il comandante Imperiali fu chiamato a rapporto sulla corazzata Roma, nave ammiraglia di Bergamini, insieme agli altri ammiragli e comandanti a questi subordinati.
Il giorno precedente, Bergamini aveva partecipato a Roma, presso il quartier generale della Marina, ad una riunione indetta dal Ministro della Marina nonché capo di Stato Maggiore della forza armata, ammiraglio Raffaele De Courten. Durante tale riunione, cui avevano partecipato in tutto dieci ammiragli che detenevano le posizioni chiave all’interno della Marina, De Courten aveva disposto che naviglio ed installazioni a terra venissero posti in stato di difesa, la sorveglianza venisse rafforzata ovunque, ci si preparasse a reagire ad eventuali atti di ostilità da parte tedesca (tenendosi pronti ad impedire l’occupazione di installazioni militari e la cattura di navi da parte tedesca, ad interrompere i collegamenti delle forze tedesche, ad eliminare reparti e navi tedesche che avessero compiuto atti ostili) ed a far partire le navi in condizioni di efficienza per Sardegna, Corsica, Elba, Sebenico e Cattaro, nonché ad autoaffondare le navi non in grado di muovere; in caso di attacco tedesco, i prigionieri Alleati avrebbero dovuto essere liberati, ed in caso di attacco tedesco si sarebbero dovuti considerare come nemici i velivoli tedeschi che sorvolassero le navi italiane, mentre non si sarebbe dovuto aprire il fuoco contro quelli Alleati. Tutte questi provvedimenti avrebbero dovuto essere presi in seguito a ricezione di un ordine convenzionale inviato da Supermarina, oppure dai Comandi in Capo nel caso di un attacco da parte tedesca. De Courten non aveva rivelato ai presenti che erano in corso le trattative per un armistizio tra l’Italia e gli Alleati, ma ai più non era sfuggito il significato di quelle istruzioni.
Un altro ordine dato nel corso della riunione era stato quello di rifornire al completo le navi in grado di partire con provviste, acqua e nafta; quest’ordine, eseguito nel pomeriggio dell’8 settembre, destò non pochi dubbi, dato che i marinai non capivano come mai, se la flotta doveva partire a breve per l’ultima battaglia nel Basso Tirreno, si imbarcassero rifornimenti che parevano destinati ad una lunga navigazione.
Agli ammiragli e comandanti riuniti sulla Roma, Bergamini annunciò che non avrebbe potuto riferire tutto quello che De Courten gli aveva detto, ma che erano imminenti gravissime decisioni da parte del governo, e che solo la Marina, tra le forze armate italiane, si poteva ritenere ancora integra ed ordinata.
Qualsiasi cosa dovesse accadere, fece presente Bergamini, nessuna nave sarebbe dovuta cadere in mano straniera, né britannica né tedesca; piuttosto, sarebbe stato trasmesso il messaggio in codice «Raccomando massimo riserbo» ricevuto il quale le navi si sarebbero dovute autoaffondare. Qualora il comando centrale fosse stato impossibilitato a trasmettere tale messaggio, i comandanti avrebbero dovuto agire di propria iniziativa, in relazione alla situazione che si fosse presentata, ricordando la direttiva di non consegnare nessuna nave in mani straniere. Nel caso di un autoaffondamento, questo sarebbe dovuto avvenire per quanto possibile in acque profonde, ma a distanza dalla costa tale da permettere agli equipaggi di mettersi in salvo (per ordine del re, gli uomini non dovevano sacrificarsi); se ciò non fosse stato possibile, le navi si sarebbero dovute autodistruggere.
In caso di ricezione del telegramma convenzionale «Attuare misure ordine pubblico Promemoria n. 1 Comando Supremo», si sarebbe dovuto procedere alla cattura del personale tedesco presente a bordo per i collegamenti ed attuare l’allarme speciale, cioè preparare le navi a respingere qualsiasi colpo di mano proveniente dall’esterno.
Sempre durante questa riunione, l’ammiraglio Bergamini, mostrandosi piuttosto inquieto, affidò al comandante Imperiali il comando del Gruppo Torpediniere (che consisteva, oltre che nella Pegaso, nelle gemelle Orsa ed Orione, nella torpediniera Libra e nelle più moderne torpediniere di scorta Ardimentoso ed Impetuoso) e gli disse di considerarsi da quel momento alle sue dipendenze, e di tenersi pronto a prendere il mare insieme alla squadra da battaglia. Compito delle sue torpediniere sarebbe stato di svolgere esplorazione avanzata durante la navigazione, e di recuperare gli equipaggi se le navi fossero state costrette ad autoaffondarsi. Bergamini spiegò che la flotta poteva salpare da un momento all’altro, e che gli obiettivi sarebbero potuti essere tre, radicalmente differenti: andare incontro alla flotta britannica che doveva appoggiare lo sbarco, presumibilmente nel Golfo di Salerno, ed ingaggiarla in battaglia; raggiungere La Maddalena per sottrarsi ad eventuali azioni ostili da parte tedesca; oppure autoaffondarsi. Risultò evidente, tra gli ufficiali presenti, che qualcosa di grave era nell’aria; paventando una resa ed una consegna delle loro navi agli Alleati, molti proposero l’autoaffondamento immediato, ma furono riportati all’ordine da Bergamini.
Il comandante Imperiali non discusse gli ordini, né fece domande; salutato l’ammiraglio, tornò sulla Pegaso e convocò immediatamente i comandanti delle unità dipendenti, ossia i capitani di corvetta Giuseppe Cigala Fulgosi (comandante dell’Impetuoso), Gino Del Pin (dell’Orsa) e Bertetti (dell’Orione), mentre i comandanti della Libra e dell’Ardimentoso, capitani di corvetta Nicola Riccardi e Domenica Ravera, non poterono partecipare alla riunione perché la prima si trovava in mare e la seconda in manutenzione nell’Arsenale di La Spezia. Dopo aver concordato un piano per la navigazione, i comandanti tornarono alle rispettive mansioni; ma poco più tardi, alle otto di sera, la radio diede l’annuncio dell’armistizio tra l’Italia e gli Alleati.
Da terra giunsero le grida di gioia dei molti soldati che credevano che la guerra fosse finita, ma gli ufficiali, Imperiali in testa, rimasero confusi e allibiti. Radunati gli ufficiali, il comandante della Pegaso li avvertì di non perdere la testa: la guerra era tutt’altro che finita, semplicemente sarebbe probabilmente mutato il nemico; c’era da aspettarsi una reazione da parte dei tedeschi.
Alle 22 l’ammiraglio Bergamini, dopo una telefonata da parte dell’ammiraglio De Courten, convocò di nuovo gli ammiragli e comandanti dipendenti e disse loro che il personale tedesco presente sulle navi era stato sbarcato, confermò le disposizioni date quattro ore prima e disse di non sapere se alla squadra da battaglia sarebbe stato ordinato di restare in porto oppure di trasferirsi in Sardegna od in altra località; gli ordini a questo proposito, disse, sarebbero stati probabilmente impartiti dopo un colloquio tra l’ammiraglio De Courten ed il maresciallo Badoglio, che doveva svolgersi proprio in quei momenti. Il mattino seguente avrebbe impartito nuovi ordini.
Terminata la riunione, ammiragli e comandanti ritornarono sulle rispettive unità.

Poche ore dopo, alle 00.52 del 9 settembre, giunse sulla Pegaso l’ordine di salpare alle due di notte con tutta la squadriglia (dal Comando Forze Navali da Battaglia a Pegaso, Impetuoso, Ardimentoso, Orsa e Orione: "Partire ore 02.00 giorno 9 V.22 per ancoraggio. Lat.42°.36'N Long.80°.19'E. A Isola Asinara"); rotta su La Maddalena, passando a ponente della Corsica. La Pegaso uscì per prima dal porto, seguita da Impetuoso, Orsa ed Orione (l’Ardimentoso, trovandosi in Arsenale, non poté invece partire con le altre: salpò per proprio conto, alcune ore dopo, raggiungendo Portoferraio); la squadra da battaglia, Roma compresa, le avrebbe seguite poco più tardi. La partenza fu tanto affrettata che gli addetti alla comandata della Pegaso, mandati a terra come al solito per procurarsi i viveri, furono lasciati a terra.
Le tre moderne corazzate dell’ammiraglio Bergamini, Roma, Italia (nave di bandiera dell’ammiraglio di divisione Enrico Accorretti, comandante della IX Divisione) e Vittorio Veneto, lasciarono La Spezia un’ora più tardi, insieme agli incrociatori leggeri Raimondo Montecuccoli, Attilio Regolo ed Eugenio di Savoia (VII Divisione Navale, al comando dell’ammiraglio di divisione Romeo Oliva, con bandiera sull’Eugenio di Savoia), nonché ai cacciatorpediniere Mitragliere (caposquadriglia, capitano di vascello Giuseppe Marini), Fuciliere, Carabiniere e Velite della XII Squadriglia ed Artigliere, Alfredo Oriani, Legionario (caposquadriglia, capitano di vascello Amleto Baldo) e Grecale della XIV Squadriglia; la flotta assunse rotta 218° e velocità 24 nodi. Più o meno nello stesso momento, salparono da Genova anche la Libra ed i tre incrociatori leggeri dell’VIII Divisione (Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi, Giuseppe Garibaldi ed Emanuele Filiberto Duca d’Aosta), al comando dell’ammiraglio di divisione Luigi Biancheri.
La destinazione per tutte le navi era la base di La Maddalena, in Sardegna, dove la flotta doveva inizialmente trasferirsi (come De Courten aveva spiegato a Bergamini la sera prima, ordine poi ufficializzato da un fonogramma di Supermarina delle 23.45) per poi ricevere ulteriori istruzioni sul da farsi: nella base sarda, l’ammiraglio Bruno Brivonesi avrebbe consegnato all’ammiraglio Bergamini i documenti relativi all’armistizio (i cui dettagli non erano noti a Bergamini) e gli ordini conseguenti. Inizialmente, era previsto anche che il re ed il governo si sarebbero dovuti trasferire da Roma a La Maddalena (così aveva detto a De Courten, il 6 settembre, il capo di Stato Maggiore generale, generale Vittorio Ambrosio), ma poi gli eventi presero una piega differente.
I gruppi partiti da Genova e La Spezia si riunirono alle 6.15 (o 6.30) a nord di Capo Corso, per poi proseguire in un unico gruppo; alle 8.40 le navi di Bergamini avvistarono le torpediniere del comandante Imperiali, che si mantennero in avanguardia lontana come scorta avanzata. Già alle 4.13 l’ammiraglio Bergamini aveva comunicato a tutte le unità «Attenzione agli aerosiluranti all’alba», ed alle 7.07 ribadì «Massima attenzione attacchi aerei».
Alle nove del mattino le navi, arrivate nel punto di atterraggio previsto per fare rotta verso il Golfo dell’Asinara, accostarono a sinistra, ridussero la velocità a 20 nodi ed assunsero rotta 180°, procedendo a zig zag.
I movimenti della squadra italiana non erano passati inosservati; le navi italiane furono avvistate e seguite da alcuni ricognitori britannici ed alle 9.41 furono localizzate anche da un ricognitore della Luftwaffe, uno Junkers Ju 88, che allertò immediatamente il proprio comando.
Alle 10.29 venne avvistato un altro aereo, anch’esso tedesco, con conseguente allarme aereo; la velocità della squadra fu portata a 27 nodi, ed anche le torpediniere si ricongiunsero con il resto della squadra, dispiegandosi in formazione di battaglia. Temendo un prossimo attacco aereo, che sarebbe avvenuto senza la minima copertura aerea nazionale, le navi iniziarono a zigzagare. Alle 10.46 venne avvistato un terzo aereo, identificato come Alleato, e venne dato ancora l’allarme aereo; alle 10.56 fu avvistato un ulteriore ricognitore, riconosciuto come britannico. Alle 11, dato che alcune navi avevano aperto il fuoco col proprio armamento contraereo, l’ammiraglio Bergamini ordinò a tutte le unità di non aprire il fuoco contro aerei riconosciuti come britannici o statunitensi.
In tutto, tra le 9.45 e le 10.56, furono quattro gli allarmi aerei causati dall’avvistamnento di ricognitori che si tenevano fuori tiro; l’ultimo allarme aereo cessò alle 11, quando si fu accertato che gli aerei avvistati erano britannici.

A mezzogiorno del 9 settembre, ormai in prossimità delle coste della Sardegna, l’ammiraglio Bergamini ordinò alla Libra di unirsi alle torpediniere del Gruppo Pegaso, ed a quest’ultimo di passare in scorta ravvicinata; alle 12.04 ordinò di assumere il dispositivo di marcia GE11, ossia una formazione in linea di fila con il Gruppo torpediniere in testa, seguito nell’ordine dalla VII, VIII e IX Divisione, con i cacciatorpediniere in scorta ravvicinata sui lati. Alle 12.05 la squadra italiana, giunta nei pressi delle Bocche di Bonifacio, stava aggirando un’ampia zona di mare minata (al largo di Golfo di Porto, in Corsica) per poi raggiungere La Maddalena. Alle 12.10, avvistata l’Asinara, la formazione accostò di 45° a sinistra per imboccare la rotta di sicurezza verso l’ingresso occidentale dell’estuario della Maddalena. Le torpediniere – data la loro maggiore agilità, che meglio consentiva loro di passare tra i campi minati – erano tornate in testa alla formazione, ed erano prossime a giungere a destinazione (alle 12.12, il Comando Forze da Battaglia aveva già comunicato alla Pegaso, prima nave della fila, "libertà di manovra per entrare in porto") quando vennero avvistati da bordo numerosi incendi sulla vicina costa della Sardegna.
La radio ad ultracorte della Pegaso era in avaria fin dalle 9 (o 9.30), pertanto la nave non poteva ricevere aggiornamenti su quanto stesse accadendo; il comandante Imperiali ipotizzò che gli incendi potessero essere causati da combattimenti in corso tra truppe italiane e tedesche, pertanto fece ridurre la velocità, che fino a quel momento era stata di 22-23 nodi. Più o meno in quel momento (secondo una fonte, le 13.30, ma le 12.30 sembrano orario più verosimile) il semaforo di Capo Testa iniziò ad eseguire una sequenza di segnali luminosi, comunicando in codice morse la conferma dei sospetti di Imperiali: il semaforo riferiva infatti che il presidio della Maddalena stava per essere sopraffatto dalle forze tedesche, che avevano attaccato gli ex alleati, e diceva alla Pegaso di allontanarsi, non tentare di entrare a La Maddalena ("Fermate! I tedeschi hanno occupato la base!").
Ciò che era accaduto era che il generale Carl Hans Lungerhausen, comandante della 90a Divisione tedesca di stanza in Sardegna, aveva concordato con il comandante militare dell’isola, generale Antonio Basso, la pacifica evacuazione delle sue truppe (32.000 uomini) verso la Corsica, attraverso il porto di La Maddalena. Il colonnello Uneus, sottoposto di Lungerhausen, aveva a sua volta preso accordi con l’ammiraglio Bruno Brivonesi, comandante militare marittimo della Sardegna, affinché il passaggio delle truppe tedesche attraverso La Maddalena avvenisse senza atti di ostilità (ed in questo senso, d’altro canto, andavano gli ordini impartiti dal generale Basso all’ammiraglio Brivonesi); ma alle 11.25 di quel 9 settembre Uneus aveva tradito l’accordo preso, attuando un colpo di mano con le sue truppe ed assumendo così il controllo di diverse posizioni chiave all’interno del perimetro della base. Le truppe tedesche avevano circondato anche il Comando Marina di La Maddalena; l’ammiraglio Brivonesi, prima di essere catturato, aveva però fatto in tempo ad avvertire Supermarina di quanto stava accadendo, ed alle 13.16 Supermarina ne avrebbe a sua volta informato Bergamini, ordinandogli di fare rotta per Bona (messaggio ricevuto sulla Roma alle 14.24).
La Pegaso invertì subito la rotta, imitata dalle altre torpediniere, ed Imperiali contattò l’ammiraglio Bergamini per avvertirlo, ma proprio in quel momento vide che anche la flotta, distante una decina di miglia, stava già invertendo la rotta.
Poco dopo, la Pegaso fu raggiunta da un messaggio da Roma che le ordinava di seguire la squadra da battaglia, cui Supermarina, confermando che La Maddalena era stata occupata dalle truppe tedesche, aveva ordinato di dirigersi verso Bona, in Algeria.
Alle 13.21 venne avvistato un altro aereo, riconosciuto per tedesco, e venne dato l’allarme aereo; le navi accostarono a sinistra per 120°.
Alle 13.29, per attraversare in sicurezza una zona di campi minati, venne assunta una formazione in linea di fila con in testa il Gruppo torpediniere seguito, nell’ordine, dalla VII, VIII e IX Divisione e dalla XII e XIV Squadriglia Cacciatorpediniere. La velocità fu ridotta a 20 nodi, e la squadra accostò a sinista, assumendo rotta 110°.
Secondo il volume dell’USMM relativo agli eventi seguiti all’armistizio, alle 13.16 Supermarina, saputo verso le 13 dell’occupazione di La Maddalena, ordinò alla squadra di Bergamini di dirigere per Bona; tale messaggio fu ricevuto sulla Roma alle 14.24, ed alle 14.45 la formazione invertì la rotta ad un tempo di 180° sulla sinistra (accostata eseguita alla velocità di 24 nodi), finendo con l’invertire l’ordine di marcia precedentemente assunto: ora il gruppo delle torpediniere era finito in coda, mentre in testa c’era la XIV Squadriglia Cacciatorpediniere, seguita nell’ordine dalla XII Squadriglia, dalla Libra, dalla IX Divisione, dall’VIII Divisione e dalla VII Divisione, con le navi ammiraglie o caposquadriglia che precedevano in coda alle rispettive Divisioni e Squadriglie.
Alle 13.30 fu assunta rotta 65°, per dirigere verso le Bocche di Bonifacio; alle 14.41 l’ammiraglio Bergamini ordinò per ultracorte a tutte le unità dipendenti "Accostate ad un tempo di 180° a sinistra", in modo da ridurre il raggio di evoluzione delle navi ed evitare così di finire sui campi minati. Alle 14.46 il Comando Forze Navali da Battaglia ordinò di ridurre la velocità a 18 nodi ed assumere rotta 285°, la rotta di sicurezza che avrebbe condotto le navi fuori dal Golfo dell’Asinara, dove poi avrebbero accostato verso sud per raggiungere Bona.
Un ricognitore tedesco, tuttavia, osservò la squadra italiana durante la manovra d’inversione della rotta; apprezzati i dati relativi alla nuova rotta e velocità, alle 14.47 li riferì al Comando della II. Luftflotte, retto dal feldmaresciallo Von Richtofen. Quest’ultimo, avuto così la certezza che la flotta italiana fosse ora diretta in un porto Alleato, ordinò al Kampfgeschwader 100 (100° Stormo da Bombardamento) di inviare i bombardieri ad attaccarla: dall’aeroporto di Istres (nei pressi di Marsiglia), pertanto, decollarono in tre ondate 28 bombardieri bimotori Dornier Do 217K, undici dei quali appartenenti al 2° Gruppo del Kampfgeschwader 100 (erano stati trasferiti da Cognac e li comandava il capitano Franz Hollweck) e 17 al 3° Gruppo del Kampfgeschwader 100 (maggiore Bernhard Jope).

Intanto, la flotta di Bergamini si stava dirigendo a nord dell’Asinara; all’ammiraglio giungevano le drammatiche notizie degli scontri in corso in tutti i porti italiani, che si concludevano invariabilmente con la loro caduta in mano tedesca. Di tornare in Italia, ormai, non c’era più possibilità: non restava che dirigere su Bona, come ordinato.
Proprio in questi confusi e critici momenti, alle 15.15, si verificò un nuovo allarme aereo, con l’avvistamento verso ponente di un gruppo di aerei che si avvicinavano: dopo un minuto questi vennero identificati dalle navi come “Junker” tedeschi, e la Roma alzò a riva il segnale "Posto di combattimento pronti ad aprire il fuoco".
Gli aerei avvistati erano gli undici Dornier Do 217 K2 del III. Gruppe del Kampfgeschwader 100, decollati da Istres ed armati con innovative bombe plananti radioguidate FX 1400, meglio note come “Fritz X”, precorritrici dei moderni missili antinave radiocomandati. Un’arma rivoluzionaria, che vedeva qui uno dei suoi primi impieghi in combattimento: a differenza delle normali bombe “a caduta”, questi ordigni potevano essere sganciati da un’angolazione di oltre 80 gradi rispetto all’obiettivo (quelle normali non potevano essere invece sganciate da un’angolazione superiore ai 60 gradi), e poi guidati a distanza da un operatore che si trovava sull’aereo che li aveva sganciati, mediante impulsi radio; la loro velocità di caduta era di 300 metri al secondo, molto superiore rispetto alle bombe “tradizionali”.
Alle 15.37 i primi cinque Do 217K (guidati dal maggiore Bernhard Jope), volando a 5000-6000 metri di quota, avevano già oltrepassato il punto di angolo massimo previsto per lo sgancio di bombe a caduta (60 gradi, come sopra detto: a bordo si ignorava l’esistenza delle “Fritz X”) senza aver sganciato alcunché: sulle navi italiane, pertanto, si pensava che ormai i bombardieri fossero in allontanamento, dato che non avrebbero più potuto sganciare bombe con un angolo tanto elevato. Non avendo gli aerei manifestato “definite azioni ostili”, non era possibile aprire preventivamente il fuoco contraereo, nell’incertezza sulle intenzioni degli ex alleati.
Pochi attimi dopo, però, gli aerei iniziarono a sganciare le loro bombe, mirando soprattutto a colpire le corazzate. La codetta luminosa della prima bomba venne inizialmente scambiata per un segnale di riconoscimento, ma subito dopo si comprese che era invece una bomba; venne allora ordinata l’apertura del fuoco.
Subito la formazione si diradò, manovrando in modo da ostacolare la punteria dei bombardieri, e venne aperto il fuoco con tutte le armi a disposizione, alla massima elevazione. Le torpediniere si avvicinarono al grosso della squadra, sparando con tutte le Mitragliere per proteggere le navi maggiori, e manovrando in modo da non intralciarne le manovre evasive. Orione e Libra, che si trovavano in coda ed avevano problemi all’apparato motore, finirono col perdere il contatto con la Pegaso, che faticava a comunicare con le unità dipendenti a causa dell’avaria della radio ad ultracorte (era possibile usare soltanto i radiosegnalatori). Il pur violento fuoco contraereo delle navi italiane risultava inutile, dato che gli aerei sganciavano le loro bombe tenendosi fuori tiro, a quota troppo elevata per le armi contraeree delle navi italiane.
Alle 15.42 la Roma, nave ammiraglia di Bergamini, venne colpita da una prima bomba: l’ordigno la raggiunse a poppavia dritta, trapassandone lo scafo ed esplodendo sotto di esso, aprendo una falla che causò l’allagamento delle motrici poppiere. Ciò ridusse la velocità e manovrabilità della corazzata, che dieci minuti dopo venne centrata da una seconda bomba, questa volta a proravia sinistra: nell’esplosione furono coinvolti i depositi munizioni delle torri prodiere da 381 mm, che eruppero in una catastrofica deflagrazione, proiettando in aria la torre numero 2 da 381 ed investendo il torrione prodiero con un’enorme fiammata che uccise l’ammiraglio Bergamini e tutto il suo stato maggiore. Nel giro di meno di venti minuti, la Roma si capovolse, si spezzò in due ed affondò, portando con sé 1393 dei 2021 uomini dell’equipaggio. La Pegaso, impegnata a fare fuoco con tutte le Mitragliere contraeree, assistette impotente al tremendo spettacolo.
Poco dopo, anche l’Italia venne colpita da una FX 1400, ma nel suo caso la bomba, trapassato lo scafo, esplose in mare limitandosi ad aprire una falla; la corazzata imbarcò ottocento tonnellate d’acqua, ma fu in grado di proseguire. Intanto, le navi della squadra eseguivano continue evoluzioni per confondere la mira dei bombardieri.

Alle 16.09 (per altra fonte, le 16.40) l’ammiraglio Oliva, che aveva assunto il comando dopo la morte di Bergamini, ordinò al comandante Imperiali di recarsi sul luogo dell’affondamento della Roma per provvedere al salvataggio dei naufraghi («Date assistenza nave colpita»). La Pegaso invertì dunque la rotta e raggiunse il punto in cui la Roma s’era inabissata, seguita da Orsa ed Impetuoso; le altre torpediniere del gruppo avevano ormai perso il contatto col caposquadriglia, e non rispondevano più alle chiamate. Proseguirono insieme al resto della squadra da battaglia, che proseguiva verso Bona in ordine sparso.
Prima delle torpediniere (che giunsero sul posto per ultime, essendo arretrate in coda alla formazione), già il Regolo ed i cacciatorpediniere Carabiniere, Mitragliere e Fuciliere erano stati distaccati per il soccorso ai naufraghi della Roma; quando le tre navi di Imperiali giunsero sul posto, la maggior parte dei superstiti erano stati già recuperati da queste unità. Pegaso ed Orsa recuperarono in tutto 55 naufraghi, mentre l’Impetuoso ne trasse in salvo 47 da sola; molti erano feriti od ustionati dalla tremenda deflagrazione.
Alle 18.15 il capitano di vascello Giuseppe Marini (comandante del gruppo formato da Regolo, Carabiniere, Mitragliere e Fuciliere) assunse il comando di tutte le unità impegnate nel recupero dei naufraghi e diede libertà di manovra alle navi di Imperiali, che non avrebbero potuto raggiungere le sue, essendo meno veloci. Poi, diresse verso nord con Regolo e cacciatorpediniere.
Terminato il salvataggio degli ultimi naufraghi intorno alle 18, le torpediniere ispezionarono attentamente l’area per sincerarsi che non vi fossero più uomini in mare, dopo di che, notando di essere rimaste isolate, fecero rotta verso nordovest, con l’intento di riunirsi alla squadra, che avevano visto per l’ultima volta mentre si allontanava in tale direzione (che era peraltro la stessa direzione verso la quale si era diretto anche il gruppo formato da Regolo e XII Squadriglia una volta ultimato il salvataggio dei naufraghi della Roma).
In questo frangente, alle 19, le tre torpediniere furono avvistate da un’altra formazione di aerei tedeschi, caccia e bombardieri: questi passarono all’attacco e ricominciò un altro scontro tra navi e aerei, protrattosi fino alle 20.30. I caccia scendevano in picchiata mitragliando le navi, mentre i bombardieri sganciavano le loro bombe radioguidate; le navi di Imperiali reagivano con tutte le armi di bordo e con ininterrotte evoluzioni e manovre evasive. Non riuscendo le centrali di tiro a stare al passo con una situazione tanto confusa, i mitraglieri puntavano a vista.
Le bombe sganciate, probabilmente delle bombe razzo Henschel Hs 293 (poco più piccole di un aereo da caccia: per questo, e per i loro movimenti che seguivano il bersaglio, vennero inizialmente scambiate proprio per dei caccia intenzionati a mitragliare le navi), venivano sganciate da circa 3000 metri di quota, scendevano in picchiata e cadevano vicinissime agli scafi, sollevando enormi spruzzi che ricadevano a bordo delle navi: le onde sollevate da queste esplosioni erano tanto enormi che l’acqua, riversatasi sulla coperta, entrava nelle maniche a vento e nei turboventilatori e scendeva così fino nei locali caldaie. Qui entrava in contatto con le superfici roventi delle caldaie, trasformandosi in parte in vapore, che tramutava i locali caldaia in “un bagno turco”, dove nemmeno più era possibile leggere i manometri. Finito ogni attacco, l’ambiente ridiventava vivibile, ma poi si ricominciava da capo.
La Pegaso, con improvvise accostate a dritta e sinistra e con inversioni di marcia a tutta forza, evitò due bombe che caddero in mare a pochi metri di distanza. Più volte ognuna delle torpediniere venne praticamente sfiorata dalle bombe, nonostante le navi manovrassero continuamente a tutta forza e con tutto il timone, ma mai nessuna le colpì in pieno. Contemporaneamente al lancio delle bombe-razzo, si svolgevano anche attacchi di bombardieri convenzionali e caccia.
A bordo si lottava disperatamente per rispondere al fuoco e non essere colpiti; i motoristi non impegnati accorrevano in coperta per assistere cannonieri e mitraglieri, rifornendoli di munizioni. Sulla Pegaso si ebbe anche a verificare un episodio che sfiorava l’assurdo: sulla torpediniera, recentemente munita di una nuova mitragliera contraerea quadrinata di produzione tedesca (una “Flakvierling”), si trovavano anche quattro militari tedeschi addetti a tale mitragliera; questi si erano così venuti ora a trovare su una nave nemica, sotto attacco da parte dei loro stessi connazionali. E pur di non essere affondati, aiutarono anche loro nella difesa della nave, sparando con quell’arma tedesca sui loro compatrioti.
Un aereo puntò sulla Pegaso, ed un mitragliere gli puntò contro la sua arma, lasciando partire dapprima alcuni colpi traccianti, che andarono subito a segno, e poi una raffica, che centrò la cabina di pilotaggio: il velivolo s’incendiò e precipitò in mare, così vicino alla nave da far temere che sarebbe caduto a bordo; quando impattò contro la superficie, a meno di 50 metri di distanza, lo spostamento d’aria fu tale che alcuni, sulla torpediniera, credettero che la nave fosse stata colpita.
Durante l’attacco, Pegaso ed Impetuoso stimarono di aver abbattuto tre o quattro velivoli tedeschi tra tutt’e due, mentre l’Orsa rivendicò due abbattimenti. Alle 20.30, infine, gli aerei conclusero l’attacco e si allontanarono verso la costa francese; le torpediniere avevano subito solo danni lievi e qualche ferito, anche se in poco più di un’ora avevano dovuto sparare più di metà delle loro munizioni.
Nel frattempo, alle 19.21, Supermarina aveva comunicato alla Pegaso che «Tedeschi stanno entrando Roma alt Stazione r.t. San Paolo occupata alt Prevedo eventualità non poter più esercitare comando alt». La torpediniera intercettò inoltre comunicazioni radio dalle quali si apprese che truppe tedesche stavano occupando tutti i porti della costa tirrenica.

Terminato l’attacco, il comandante Imperiali ordinò di aumentare la velocità e di assumere rotta verso ovest: stava per calare l’oscurità, ed era sua intenzione allontanarsi dalla costa corsa prima che gli aerei tedeschi potessero tornare ad attaccare. Vi fu uno scambio di messaggi radio tra Pegaso, Orsa ed Impetuoso; l’Impetuoso riferì di aver subito solo danni leggeri, e di essere in grado di proseguire senza problemi, mentre l’Orsa comunicò che aveva carburante solo per dieci ore di navigazione.
Imperiali intendeva riunirsi al grosso della squadra; ordinò al radiotelegrafista di tentare di contattare l’Eugenio di Savoia (nave di bandiera dell’ammiraglio Oliva) e Supermarina, ma non ci fu nessuna risposta. Ne trasse la conclusione che Supermarina non fosse più in grado di dare ordini, o che la VII Divisione non necessitasse più delle sue torpediniere, o che Supermarina e squadra da battaglia stessero comunicando tra loro, con messaggi indecifrabili per la Pegaso. Presumendo che la squadra si trovasse più a settentrione, le tre torpediniere assunsero rotta nord.
Infine qualcuno rispose alla radio, ma non chi ci si aspettava: si trattava del cacciatorpediniere Ugolino Vivaldi, finito in un campo minato a sud di Bonifacio (nel quale era affondato il gemello Antonio Da Noli) e seriamente danneggiato dal tiro delle batterie costiere cadute in mano tedesca, che chiedeva aiuto.
Già durante l’ultimo attacco aereo, prima delle 20, il comandante Marini del Mitragliere aveva ordinato alla Pegaso di andare in soccorso dei Vivaldi presso Capo Fenu. In realtà Marini, contattato dal Vivaldi che chiedeva aiuto, ed avendo al contempo avvistato un cacciatorpediniere classe Navigatori che credeva essere il Da Noli (del cui affondamento non era al corrente) quando invece era il Vivaldi, aveva frainteso il significato del messaggio e “scambiato” i due cacciatorpediniere; a Capo Fenu non c’era il Vivaldi, bensì i naufraghi del Da Noli, che là era affondato. Ma la Pegaso non sapeva dell’affondamento del Da Noli, e cercava una nave bisognosa di aiuto, e non dei naufraghi; finito l’attacco, aveva diretto verso Capo Fenu, poi aveva dovuto mutare rotta per nord-nord-ovest per ragioni di sicurezza, ed allora era giunto in contatto con il vero Vivaldi.
La posizione indicata dal Vivaldi era vaga, ed i rischi notevoli: la luna illuminava notevolmente il mare, agevolando l’avvistamento da parte di altri eventuali aerei tedeschi; dopo aver brevemente ponderato la situazione, il comandante Imperiali decise di tentare ugualmente, e fece invertire la rotta. Passarono solo pochi minuti, tuttavia, prima che venisse avvertito il rumore di aerei in avvicinamento: totalmente oscurate, le torpediniere diressero nuovamente verso nord, assumendo una formazione che meglio permettesse la difesa. Dopo aver tentato più volte di avvicinarsi, senza risultato, gli aerei desistettero e si allontanarono. Poco dopo, le torpediniere furono raggiunte da un nuovo messaggio del Vivaldi, che annunciava di essere ancora a galla e di riuscire a sviluppare una velocità di 7 nodi, che gli avrebbe permesso di portarsi in costa; vedendo il Vivaldi navigare verso ovest, Imperiali ritenne che il cacciatorpediniere fosse in grado di cavarsela da sé e, in considerazione dei continui attacchi aerei (che durarono fino a notte fatta), decise allora di abbandonare il tentativo di soccorso e di tornare a cercare il resto della squadra (che, a sua insaputa, stava dirigendo verso Bona).
(Per altra versione, la Pegaso stava invece cercando proprio i naufraghi del Da Noli, ma vedendo il Vivaldi navigare verso ovest, il comandante Imperiali ritenne che questi fosse in condizioni tali da poter provvedere al salvataggio dei naufraghi).
L’Orsa aveva quasi esaurito il carburante, ed alle 20.30, per non ritrovarsi immobilizzata in mare aperto, dovette separarsi dalle altre due torpediniere e dirigere, per decisione del suo comandante, verso l’arcipelago spagnolo delle Baleari, il territorio neutrale più vicino (sarebbe giunta a Pollença, nell’isola di Maiorca, alle 10.23 del 10 settembre).
Pegaso ed Impetuoso, rimaste sole, vagarono nel buio senza certezza sul da farsi: i porti dell’Italia meridionale erano ora in mano agli Alleati, i nemici di ieri, mentre il resto della Penisola era occupato dai tedeschi, che da alleati si erano trasformati nei nuovi nemici. Né Imperiali né Cigala Fulgosi conoscevano le clausole dell’armistizio, e dunque non sapevano bene chi ormai si potesse considerare come amico, quale porto fosse sicuro; le ripetute richieste di ordini via radio rimanevano inascoltate, nessuna notizia sulla sorte della squadra da battaglia. I due comandanti non sapevano cosa fare, né dove andare. Venne intercettato un messaggio dell’ammiraglio britannico Andrew Browne Cunningham relativo all’armistizio, ma ad Imperiali e Cigala Fulgosi esso parve un invito a consegnare le navi, inaccettabile alla luce di quanto detto da Bergamini il giorno prima.
Infine, all’1.30 di notte del 10 settembre, sentito il parere di Cigala Fulgosi ("Pippo [nomignolo di Cigala Fulgosi, da Giuseppe] che facciamo?") che propendeva per dirigere alle Baleari, sbarcare naufraghi ed equipaggio e poi autoaffondarsi, Imperiali decise di puntare verso le Baleari ("Andiamo a Palma, metti a 25 nodi"), dove almeno si poteva presumere che non si sarebbe ricevuta accoglienza ostile.
Pegaso ed Impetuoso, come pure l’Orsa prima di loro, non erano le uniche navi italiane in navigazione verso l’arcipelago spagnolo: anche Regolo, Mitragliere, Fuciliere e Carabiniere, ultimato il recupero dei naufraghi della Roma, avevano diretto verso quelle isole. La motivazione di tale decisione era la stessa delle torpediniere: impossibilità di contattare Supermarina e la VII Divisione per avere ordini, assottigliamento delle scorte di carburante e pertanto dell’autonomia, intercettazione di messaggi di Supermarina dai quali risultava l’impossibilità di raggiungere un porto italiano per sbarcare i feriti, e conseguente necessità di raggiungere il prima possibile la terra neutrale più vicina per sbarcarvi i feriti gravi (che abbisognavano di urgenti cure mediche per i quali i mezzi di bordo non bastavano). Nessuno dei due gruppi, tuttavia, era in quel momento a conoscenza della presenza dell’altro.
La navigazione verso ovest di Pegaso ed Impetuoso si svolse senza che si verificassero altri attacchi od eventi di rilievo; i due comandanti, che si consultavano di frequente via radio, cercarono ripetutamente di contattare Supermarina, a Roma, ma senza risultato. Finirono col concludere che anche la sede di Supermarina fosse ormai stata occupata dai tedeschi, e che tale Comando avesse pertanto cessato ogni attività.
Rammentando quanto Bergamini gli aveva detto in merito alla possibilità di doversi autoaffondare, Imperiali giunse alla conclusione che proprio l’autoaffondamento rappresentasse ormai l’unica soluzione attuabile. Alle 4.13 l’Impetuoso tentò per un’ultima volta di contattare Roma per chiedere ordini; una volta di più, Roma ricevette ma non rispose. La decisione dei due comandanti divenne così definitiva: Pegaso ed Impetuoso avrebbero raggiunto la baia di Pollença, nell’isola di Maiorca, e qui avrebbero richiesto le ventiquatt’ore di tempo che le convenzioni internazionali accordavano alle navi da guerra di nazioni belligeranti come tempo massimo di sosta in un porto neutrale; sbarcati feriti e naufraghi della Roma, avrebbero mollato nuovamente gli ormeggi e si sarebbero portate in acque profonde, per poi autoaffondarvisi. Se si fossero lasciati internare, come sarebbe avvenuto nel caso di una sosta che si fosse protratta oltre le ventiquattr’ore, il timore era che prima o poi le autorità spagnole avrebbero finito col consegnare le loro navi ad uno dei belligeranti. Imperiali e Cigala Fulgosi non digerivano la prospettiva di vedere le loro navi entrare in servizio per conto degli ex nemici angloamericani, e meno che mai di vederle finire in mano tedesca, dopo quello che i tedeschi avevano fatto.
Né gli Alleati né i tedeschi le avrebbero avute: Pegaso ed Impetuoso sarebbero finite in fondo al mare.

Alle 7.37 del 10 settembre, durante la navigazione verso le Baleari, Supermarina fece improvvisamente sentire la sua voce, dopo tante ore di silenzio e di chiamate ignorate (evidentemente, dedusse Imperiali, i suoi messaggi precedenti non erano stati ricevuti): l’alto Comando della Regia Marina chiedeva notizie. Il messaggio ricevuto da Supermarina non comprendeva però la parola convenzionale «Milano», aggiunta al termine di tutti i messaggi di Supermarina, come comunicato via radio da tale Comando alle 11.24 del 9 settembre ("Non eseguite eventuali ordini di dirottamento se nel testo non figura la parola convenzionale MILANO"), per permettere ai comandanti di essere certi che il messaggio provenisse davvero da Supermarina e non fosse invece un messaggio fasullo inviato dal nemico. Imperiali, pertanto, si limitò a rispondere alle 7.50 «sono con Impetuoso pregasi dare ordini», senza rivelare nulla circa la propria posizione o destinazione, proseguendo intanto verso le Baleari. Proprio in quell’ora venne avvistato dalle torpediniere un ricognitore della Luftwaffe, il che fece sorgere il timore di un nuovo attacco aereo.
Alle 8.37 Supermarina tornò a farsi sentire, con ordine che portava come orario di compilazione le 7.50 (quindi si era incrociato con la richiesta di ordini trasmessa dalla Pegaso alla stessa ora), e che recitava: «Con naufraghi dirigete Bona dove troverete nave ospedale italiana alt Arrivate nelle ore diurne alt. Milano». Stavolta la parola convenzionale c’era, ma questo ordine improvviso, dopo un silenzio tanto prolungato e tante richieste rimaste senza risposta, destò più di un dubbio nella mente di Imperiali e Cigala Fulgosi, soprattutto alla luce del messaggio di Supermarina delle 19.21 del giorno precedente – l’ultimo messaggio di Supermarina ricevuto prima del lungo silenzio durato tutta la sera e la notte – nel quale si diceva che la stazione radio di San Paolo era caduta in mano tedesca. I due comandanti erano quindi incerti se quello appena ricevuto fosse davvero un messaggio di Supermarina, oppure un falso messaggio inviato dal nemico per trarre in inganno le due torpediniere; tra queste considerazioni ed il fatto che ormai le navi erano già giunte nelle acque territoriali delle Baleari, al largo di Minorca, ed i feriti a bordo necessitavano di cure mediche al più presto, Imperiali e Cigala Fulgosi decisero di proseguire verso Pollença, nell’isola di Maiorca. Durante le ultime ore di navigazione, un incrociatore britannico seguì a distanza le due torpediniere; la Pegaso intercettò un telegramma circolare di Supermarina compilato alle 10, che informava tutte le navi che Genova, Civitavecchia, Livorno, La Maddalena e Tolone erano state occupate dai tedeschi, ed ordinava quindi di non approdarvi.

Alle 11.15 (o 11.50) di quel 10 settembre Pegaso ed Impetuoso entrarono infine nella rada di Pollença; qui trovarono ad attenderle l’Orsa, approdata meno di un’ora prima dopo la sua navigazione solitaria con il carburante agli sgoccioli. Quest’ultima si era ormeggiata tra la spiaggia di Pollença e la piccola isola di Formentor, mentre Pegaso ed Impetuoso preferirono restare in acque più profonde, segnalando alle autorità locali che sostavano a causa di avarie. L’incrociatore britannico si tenne al largo della baia, subito oltre il limite delle acque territoriali, incrociando avanti e indietro dinanzi all’ingresso del golfo di Pollença.
Non appena le navi si furono ancorate, il comandante Imperiali convocò a rapporto sia Cigala Fulgosi che Del Pin; quest’ultimo riferì di aver già domandato alle autorità spagnole di potersi rifornire di acqua e carburante per poter ripartire, e di essere in attesa di una risposta, ma che probabilmente la richiesta non sarebbe stata soddisfatta in tempi brevi. Suo proposito era di tergiversare per poter prorogare la sua sosta oltre le ventiquatt’ore, senza essere internato, in attesa di capire come evolvevano gli eventi; ma Pegaso ed Impetuoso, che avevano ancora carburante sufficiente per poter raggiungere un porto italiano e non avevano danni tali da impedire loro di navigare, non potevano sperare di poter accampare simili pretesti. Scadute le 24 ore, le alternative erano solo la partenza o l’internamento.
Il comandante Imperiali non provò nemmeno a tergiversare; alle autorità spagnole, richiese soltanto le ventiquattr’ore di sosta in rada previste dalle convenzioni internazionali, nonché il permesso di sbarcare naufraghi della Roma ed il ricovero in ospedale dei feriti. Suo reale intento, ovviamente tenuto nascosto, era di autoaffondarsi una volta che i naufraghi fossero stati messi al sicuro; allo scopo di agevolare l’autoaffondamento, anzi, riferì alle autorità spagnole un numero di naufraghi superiore a quello reale, in modo da poter sbarcare insieme ad essi anche parte degli equipaggi di Pegaso ed Impetuoso. Imperiali e Cigala Fulgosi esaminarono al lungo tutte le possibilità, ma la scelta era tra farsi internare, autoaffondarsi od andarsene prima dello scadere delle ventiquattr’ore. In quest’ultimo caso, la scelta sarebbe stata tra il rientro in un porto italiano occupato dai tedeschi, del tutto improponibile, e l’ubbidienza all’ordine di Supermarina di andare a Bona ed arrendersi ai britannici (ordine ritenuto dai comandanti di dubbia autenticità, per i motivi sopra accennati, e per giunta inaccettabile perché – si credeva – avrebbe comportato la consegna delle navi: Imperiali e Cigala Fulgosi non sapevano che le navi avrebbero mantenuto equipaggi e bandiera italiana). In caso d’internamento, come già detto, era opinione comune che le autorità spagnole, troppo deboli politicamente e militarmente per restare davvero neutrali, avrebbero finito col cedere le navi ad una delle fazioni belligeranti dietro pressioni diplomatiche esterne, prospettiva anch’essa inaccettabile.
Circondati da nemici e privi di ogni aiuto da parte spagnola, i due comandanti non vedevano altra via d’uscita onorevole che l’autoaffondamento.
Nemmeno questa soluzione era del tutto priva di problemi, tuttavia: Imperiali e Cigala Fulgosi non conoscevano le condizioni dettagliate dell’armistizio, e la disubbidienza dell’ordine di andare a Bona, se questo davvero fosse stato il volere di Supermarina e degli Alleati, avrebbe potuto avere ripercussioni negative per l’Italia. A questo scopo, i due comandanti idearono una scappatoia che avrebbe potuto all’occorrenza giustificare l’autoaffondamento delle navi: esagerando l’entità delle modeste avarie subite durante gli scontri con gli aerei tedeschi, le ingigantirono fino a farle sembrare di una tale portata da impedire alle torpediniere di proseguire per Bona; venne dunque redatto un telegramma per Supermarina da lanciare al momento di autoaffondarsi, nel quale si spiegava che «Causa gravi avarie riportate in combattimenti e dati avvistamenti Pegaso e Impetuoso impossibilitati proseguire missione autoaffondati fuori acque territoriali Maiorca ore 05.00 dell’11 alt Naufraghi dirigono Pollensa». Il telegramma venne poi lanciato dalla Pegaso alle 5.03 dell’11 settembre, anche se non sembra essere mai stato ricevuto da alcuno.
Le autorità spagnole accordarono soltanto il permesso di sbarcare i feriti gravi, mentre quelli lievi ed i naufraghi illesi della Roma dovettero restare a bordo. Così fu fatto, durante il giorno, e tra la mezzanotte e le due di notte dell’11 settembre 1943 (altra fonte indica le 3-3.30), subito dopo il tramonto della luna, Pegaso ed Impetuoso mollarono gli ormeggi e si portarono, a lento moto e con le luci di navigazione spente, verso l’uscita della baia, nel massimo silenzio.
Alcune ore prima, il comandante Imperiali aveva radunato tutto l’equipaggio sulla prua della Pegaso, annunciando la decisione di autoaffondare la nave; aveva concluso dicendo: "Io prendo tutta la responsabilità di questa dolorosa decisione, preparatevi all’amaraggio [sic] con l’ausilio di tutti i mezzi di salvataggio possibili, con il buio salperemo l’ancora e ci porteremo al largo nella baia, tutti dovrete essere in acqua prima delle 24.00".
L’Orsa, invece, non intendeva autoaffondarsi: il suo comandante ancora sperava di riuscire a farsi procrastinare il periodo di sosta (non fu così: avuto dapprima l’ordine di spostarsi a Palma per rifornirsi di carburante, cosa che non poté fare, l’Orsa era in procinto di partire quando ebbe ordine dalle autorità spagnole di trasferirsi a Mahon, nell’isola di Minorca, seguito da altri ordini e contrordini; per tenere in funzione i generatori finì con l’esaurire il poco carburante rimasto, così rimase bloccata a Maiorca e vi fu internata).
Pegaso ed Impetuoso si portarono al centro della baia di Pollença, ad un paio di miglia dalla costa, dopo di che Imperiali diede ordine di fermarsi, e mettere a mare tutte le lance e le zattere Carley di salvataggio, tranne una; sulle imbarcazioni furono fatti salire i (pochi) naufraghi non feriti della Roma che erano rimasti a bordo, e parte degli equipaggi delle torpediniere non indispensabili per l’autoaffondamento. Il resto degli equipaggi, non potendo trovare posto sulle imbarcazioni, fu fatto saltare in mare con i salvagente indossati; alcuni si aggrapparono poi alle scialuppe, altri salirono su zattere improvvisate, realizzate nelle ore precedenti utilizzando porte ed altro materiale prelevato da bordo, altri ancora si misero semplicemente a nuotare in direzione della costa. In tutto, erano più di 300 o 400 uomini, tra gli equipaggi delle due le navi ed i naufraghi illesi della Roma rimasti a bordo (alcune fonti spagnole parlano addirittura di 624 uomini, ma questo appare un numero eccessivo).

A bordo della Pegaso rimasero in tutto 17 uomini, tra cui il comandante Imperiali e due macchinisti, Alfredo Capozzi e Riccardo Baiolla, i quali avevano il compito di aprire le saracinesche delle prese a mare; sull’Impetuoso rimasero dieci o undici uomini, compresi il comandante Cigala Fulgosi e due macchinisti con lo stesso compito dei loro colleghi della Pegaso. Era il personale strettamente necessario per l’ultimo tratto della breve navigazione verso il largo. Prima di separarsi, un ufficiale della Pegaso raccomandò di nascosto ad alcuni degli uomini che dovevano restare a bordo nell’ultimo tratto, temendo che il comandante potesse decidere di seguire la sorte della sua nave: “Se il comandante Imperiali dovesse cercare di morire con la nave, dategli un colpo in testa ma portatelo vivo a terra”.
Le due torpediniere proseguirono poi in linea di fila nella navigazione verso il mare aperto, percorrendo le ultime miglia della loro “vita” verso il luogo prescelto per il loro “suicidio”, nel canale tra Maiorca e Minorca. Le imbarcazioni di salvataggio, cariche al massimo e con gruppi di marinai in acqua aggrappati ai bordi, dirigevano intanto verso la costa.
Quando Pegaso ed Impetuoso furono giunte in un punto del Canale di Minorca nel quale, stando alle carte nautiche, la profondità superava i cento metri (garantendo l’impossibilità di qualsiasi tentativo di recupero), arrestarono le macchine una volta per tutte, fermandosi a poco più di 500 metri l’una dall’altra. Le due torpediniere si trovavano ad una decina di miglia dalla costa, tra le penisole di Formentor e di La Victòria, nella parte settentrionale di Maiorca.
Gli ufficiali provvidero a distruggere i brogliacci di plancia e della sala radio e tutti i documenti segreti (cifrari e documenti importanti furono portati in caldaia e bruciati), prelevarono il denaro rimasto in cassa e fecero alzare la bandiera di combattimento sul pennone più alto; dopo di che, tra le cinque e le sei del mattino, vennero aperte tutte le prese a mare, le saracinesche e le valvole Kingston, per dare inizio agli allagamenti. Per agevolare l’autoaffondamento, i macchinisti lasciarono in funzione le pompe per il travaso di tutto il carburante nei serbatoi di sinistra, allo scopo di provocare un rapido e forte sbandamento, ed aprirono tutti gli oblò di poppa, in modo che l’acqua vi potesse entrare non appena lo scafo si fosse abbassato a sufficienza sul mare.
Infine, venne dato l’ordine di abbandonare la nave.
Le bandiere furono lasciate dov’erano: Pegaso e Impetuoso sarebbero affondate con la bandiera di combattimento al picco.
I comandanti Imperiali e Cigala Fulgosi furono gli ultimi ad abbandonare le loro navi, prendendo posto con i pochi uomini rimasti nelle ultime due scialuppe tenute a bordo. Il macchinista Riccardo Baiolla, dopo aver aperto le saracinesche di presa a mare della Pegaso, prese con sé e portò sulla lancia anche Mascherino, la mascotte della torpediniera, un cane dal folto pelo nero che si era “unito” all’equipaggio della torpediniera a Ceuta, durante la guerra civile spagnola, e da allora era rimasto a bordo, seguendola in tutte le sue peripezie in quattro anni di guerra.
Siccome la motolancia della Pegaso, mandata dell’Arsenale di La Spezia per riparazioni, era rimasta a terra alla partenza da La Spezia, le due imbarcazioni avrebbero dovuto remare per diverse ore prima di poter tornare a riva. Ben presto iniziò a piovere a dirotto.

Un gruppo di ufficiali e marinai radunati a poppa della Pegaso poco prima dell’autoaffondamento, nel pomeriggio del 10 settembre 1943. Al centro, in tuta bianca, il direttore di macchina, capitano del Genio Navale Marino Iseppi; alla sua destra, con il binocolo al collo, il sottotenente di vascello Mario Pradelli (Arch. Ferrentino, via www.piombino-storia.blogspot.com)

Poco distante, nei pressi di Capo Formentor (che delimita verso nord la baia di Pollença), il piccolo peschereccio dei Cifre Morro, pescatori di aragoste maiorchini, languiva all’ancora in attesa che venisse il momento di salpare le nasse per le aragoste, messe a mare il giorno precedente. Il sole stava sorgendo quando il venticinquenne Antoni Cifre Morro, di guardia in coperta, notò qualcosa d’insolito verso il largo: in un tratto di mare dove di solito non si vedeva mai nulla, si trovavano ora una nave da guerra e quello che sembrava un sommergibile, del quale si vedeva la torretta (in realtà era l’altra torpediniera, che stava affondando più rapidamente ed era pertanto più bassa sull’acqua: la “torretta” era in realtà la sovrastruttura prodiera, mentre lo scafo non si vedeva perché già sommerso quasi del tutto). Antoni svegliò il padre, ed entrambi si accorsero con apprensione che le due navi si trovavano proprio dov’erano situate le loro nasse; all’improvviso l’unità che sembrava un sommergibile levò la prua in alto, verticalmente, verso il cielo, ed i due pescatori si resero conto che si trattava di una nave in affondamento. Dopo essere rimasta immobile in quella strana posizione per un tempo che parve infinito, la nave s’inabissò tra bolle e spruzzi, emettendo un suono che pareva quello di una bestia in agonia.
Salpata l’ancora e messo in moto (la nave era affondata proprio sopra le loro nasse), il peschereccio si precipitò verso il punto dell’affondamento; durante il breve tragitto, padre e figlio videro anche l’altra nave appopparsi improvvisamente, sollevare la prua verso il cielo ed affondare anch’essa tra gli assordanti rumori prodotti dall’aria che sfuggiva dallo scafo invaso dall’acqua.
Dalla scialuppa della Pegaso, il sottocapo meccanico Alfredo Capozzi, che aveva aperto le valvole nei locali caldaie, vide la sua nave abbassarsi sull’acqua, rovesciarsi sul lato sinistro ed iniziare ad affondare di poppa. Mentre la prua usciva dall’acqua, il ponte di coperta cedette con un forte lamento all’altezza del cannone di prua, dopo di che la Pegaso colò rapidamente a picco. Il comandante Imperiali, assistendo alla scena dalla lancia, si rizzò in piedi e salutò la sua nave, un commovente saluto al quale si unirono anche gli altri uomini della Pegaso presenti sul battello.
L’orario dell’affondamento è indicato, a seconda delle fonti, nelle cinque o nelle 7.20 del mattino. Il cedimento della prua era probabilmente dovuto alla collisione con l’Antilope dell’aprile precedente ed ai successivi lavori di sostituzione, che facevano di quella parte il punto più debole dello scafo. Riccardo Baiolla aveva tenuto il conto del tempo: dall’apertura delle prese a mare al momento in cui la Pegaso era affondata erano trascorsi 56 minuti.
L’Impetuoso affondò poco dopo la Pegaso, anch’essa di poppa.

La superficie del mare era agitata dalle enormi bolle d’aria fuoriuscite dagli scafi delle due navi in affondamento; sulle due lance, i ventotto naufraghi guardavano la scena con occhi lucidi, in silenzio, come ad un funerale. Così se ne andava, per sempre, quella che per mesi o anni era stata la loro casa, cui la loro sorte era stata indissolubilmente legata nei pericoli della guerra: veterana di tante rischiose missioni, la Pegaso; ancora nuova di zecca l’Impetuoso, vissuta appena tre mesi.
Il peschereccio dei Cifre Morro, giunto sul posto, prese a rimorchio la scialuppa con i 17 naufraghi della Pegaso. Dato che alcuni di quei marinai erano sardi della zona di Alghero, il cui dialetto era una variante della lingua catalana parlata anche nelle Baleari, questi furono perfettamente in grado di parlare con i due pescatori maiorchini, che offrirono anche dei fichi ai marinai italiani. Molti di questi ultimi, ricordò decenni dopo Antoni Cifre Morro, mugugnavano tra loro, criticando la scelta di autoaffondarsi presa dai loro comandanti; era un peccato, dicevano, mandare a fondo due navi ancora nuove, e soprattutto gettare ai pesci tutte le provviste che erano a bordo, con la fame che regnava in quei tempi.
Il resto degli equipaggi, che erano stati fatti scendere in acqua in precedenza, più vicino alla costa, stava intanto anch’esso tornando a terra. Molti marinai, quelli scesi direttamente in acqua, impiegarono quattro o cinque ore per raggiungere la riva a nuoto; nuotando nel buio, cercavano di restare uniti e di tanto in tanto si chiamavano per nome, per essere sicuri che nessuno fosse rimasto indietro. C’era una leggera brezza marina, che rinfrescava un po’ l’aria, ma il mare era calmo. Tutta la baia di Pollença, da un’estremità all’altra, pullulava di teste di uomini che nuotavano verso la riva.
Molti giunsero a riva stremati, come il macchinista Nicola Ferrentino della Pegaso, che venne issato dall’acqua da due soldati coloniali spagnoli, i quali riuscirono a tirarlo fuori dal mare solo al secondo o terzo tentativo, tanto era fradicio e sfinito. Altri marinai non riuscirono proprio a nuotare fino a riva, rimasero in mare per tutta la notte e furono recuperati all’alba da barche spagnole. Inizialmente era sorto anche un pericoloso equivoco: i militari spagnoli, vedendo i primi uomini arrivare a terra nel buio della notte, avevano temuto che fosse in atto uno sbarco di truppe anfibie ed avevano aperto il fuoco sui naufraghi, ma fortunatamente alcuni marinai algheresi riuscirono a gridare loro in catalano che si trattava di naufraghi (“tripulacio, tripulacio”, cioè “equipaggio, equipaggio”), e di non sparare. Nessuno fu ferito, ed anzi i militari iniziarono ad aiutare i naufraghi.
In un modo o nell’altro, tutti gli uomini della Pegaso (140 tra sottufficiali e marinai, più una decina di ufficiali) giunsero a terra sani e salvi. Le due lance con i comandanti e gli uomini che avevano provveduto all’autoaffondamento raggiunsero la riva per ultime, nel pomeriggio dell’11 settembre.

L’accoglienza riservata dalle autorità spagnole ai naufraghi italiani non fu comunque delle più calorose. Inizialmente, gli uomini di Pegaso ed Impetuoso furono internati per una settimana nei pressi dell’hangar della base idrovolanti di Pollença; mentre i quattro militari tedeschi aggregati all’equipaggio della torpediniera erano stati comodamente alloggiati a parte in una casetta di Pollença (ed in generale il trattamento loro riservato fu nettamente migliore), gli italiani furono lasciati a dormire a cielo aperto, sulla nuda terra.
Trascorsa la prima settimana, venne disposto il trasferimento dei naufraghi, ormai internati in qualità di militari di Paese belligerante in una nazione neutrale; i primi ad essere trasferiti furono gli uomini della Pegaso, che vennero caricati su autocarri con scorta armata ed inviati a Col de Ribas (o Soller), a sette chilometri da Palma di Maiorca. Qui furono sistemati in un capannone-caserma dell’aeronautica spagnola, in prossimità di una base aerea (l’aerodromo di Son San Joan), dove languirono per i successivi cinque mesi. Vi era una certa libertà di movimento (gli internati dovevano rientrare in caserma per dormire, ma durante il giorno potevano muoversi liberamente nei dintorni), ma la razione giornaliera bastava appena a sopravvivere; i cucinieri spagnoli distribuivano a ciascuno pochi mestoli di vitto, ed i marinai dovevano mangiare in piedi girando loro intorno fino a quando questi non decidevano di aver distribuito abbastanza cibo. Per avere un po’ di più da mangiare, molti marinai si misero a lavorare i campi circostanti alle dipendenze dei contadini spagnoli, che li pagavano in provviste, soprattutto patate dolci dette “moniatos”. Le relazioni con la popolazione locale erano cordiali, e nacque anche qualche amore con qualche ragazza del posto.
Dopo quattro mesi, l’8 gennaio 1944, l’equipaggio della Pegaso venne fatto imbarcare sul mercantile Tarifa, diretto a Barcellona; i marinai italiani furono stipati alla meglio nella stiva prodiera, sempre sotto ferrea scorta armata, “al pari di pericolosi delinquenti”, e durante tutto il viaggio fino a Barcellona, tormentato da mare molto mosso, a nessuno fu permesso di uscire dall’unico boccaporto della stiva, dal quale entrava poca aria. Sebbene molti stessero male, non era permesso neanche di uscire a prendere una boccata d’aria; chi doveva andare in bagno poteva farlo solo sotto la scorta di un marinaio spagnolo armato, uno per volta.

Una volta a Barcellona, i marinai della Pegaso, raggiunti anche da quelli dell’Impetuoso, vennero trasferiti via treno fino a Caldes de Malavella, località dei Pirenei sita nei pressi di Gerona (il trasferimento degli italiani da Barcellona a Caldes, via treno, avvenne in tre gruppi: 497 uomini furono trasferiti il 10 gennaio, 493 il 12 e gli ultimi 83 il 18 gennaio). Qui furono alloggiati in due alberghi, il Soler ed il Vichy Catalan, dove incontrarono altri marinai italiani internati: erano gli altri sopravvissuti della Roma ed anche un gruppo di naufraghi del Vivaldi, che avevano raggiunto le Baleari dopo una difficile navigazione attraverso il Mediterraneo Occidentale.
Il trasferimento dei marinai italiani a Caldes de Malavella era stato deciso fin da fine ottobre 1943, su richiesta del consolato italiano nonché per decisione delle autorità spagnole, resesi conto dell’inadeguatezza delle sistemazioni originarie; ma erano occorsi alcuni mesi per poter organizzare gli alberghi della zona per ricevere gli internati (in precedenza, alcuni degli alberghi erano occupati da profughi ebrei fuggiti in Spagna per sottrarsi alle persecuzioni naziste, che vennero trasferiti altrove).
Complessivamente, più di mille marinai italiani erano internati a Caldes; 497 marinai vennero alloggiati al Vichy Catalan, 195 all’albergo Prats, 150 al Soler, 58 al Fonda Ribot, 50 all’Hostal Fabrellas. I proprietari degli alberghi avevano firmato un contratto col console italiano a Barcellona impegnandosi a rispettare determinate condizioni per la sistemazione degli italiani: tre pasti al giorno, per un totale di 2600 calorie; vino per gli ufficiali; temperatura delle stanze non inferiore a 16 °C; due bagni a settimana; prezzo del soggiorno, 18 pesetas al giorno, pagate settimanalmente dal consolato italiano, che si sarebbe anche incaricato di fornire coperte e biancheria. Il consolato avrebbe messo a disposizione anche delle pellicole cinematografiche; il tabacco era fornito dall’esercito spagnolo.
L’organizzazione e mantenimento della disciplina fu affidata agli ufficiali e sottufficiali italiani; i naufraghi vennero divisi in due “battaglioni”, uno interamente formato dagli uomini alloggiati al Vichy Catalan, e l’altro composto dai marinai sistemati negli altri alberghi.
Per evitare l’inattività e tenere occupati gli uomini, vennero organizzati vari corsi di formazione professionale, tenuti di mattina; gli ufficiali fungevano da insegnanti, ed i marinai erano tenuti a partecipare almeno ad un corso a scelta, mentre la partecipazione dei sottufficiali era facoltativa. Gli ufficiali subalterni partecipavano a corsi tenuti da ufficiali superiori, soprattutto del Genio Navale e delle Armi Navali. Terminati i corsi, e prima di pranzo, la routine giornaliera prevedeva l’assemblea degli uomini, durante la quale venivano letti gli ordini, gli avvisi e raccomandazioni nonché comminate le punizioni per chi infrangeva le regole del “campo” (le pene detentive erano scontate nel seminterrato dell’albergo Soler, trasformato in prigione). Il pomeriggio era riservato all’educazione sportiva; di giovedì e di domenica si tenevano gare di corsa e partite di calcio e di volley (ogni “battaglione” aveva una squadra per ciascuna delle tre discipline). Dalle 17 alle 19 era consentito agli uomini di uscire e girare per il paese; la cena era alle 20 ed alle 21 veniva fatto l’appello, sotto la vigilanza della Guardia Civil (una mezza dozzina di guardie al comando di un sergente, che rappresentava la massima autorità sul posto; né il Ministero della Marina spagnolo né il Capitanato Generale della Catalogna, già alle prese con la gestione dei profughi e fuggiaschi che arrivavano attraverso i Pirenei, volevano infatti avere responsabilità nella gestione degli internati). Nonostante il divieto imposto dalle autorità spagnole, veniva pubblicato e diffuso anche un giornale clandestino, “Serra sotto”.
Il 3 febbraio 1944, in occasione della visita del generale Moscardó, Capitano Generale della Catalogna, venne organizzata una parata militare; Moscardó, colpito dalla disciplina mostrata dai marinai, acconsentì alla richiesta del console di Barcellona di allentare il regime d’internamento e consentire agli italiani di poter circolare liberamente entro un raggio di tre chilometri. Venne inoltre stabilito che gli ufficiali, in piccoli gruppi, avrebbero potuto compiere dei viaggi di due o tre giorni a Barcellona, con l’obbligo di ritornare; e che i marinai avrebbero potuto recarsi in treno a Girona, sempre in gruppi e con l’impegno di non creare disordini. In più di una occasione, gli ufficiali superiori italiani si recarono a Madrid, per ricevere disposizioni dalle ambasciate Alleate. I malati che richiedevano cure ospedaliere, certificate da un ufficiale medico, venivano inviati all’ospedale di Girona, accompagnati da un sottufficiale. Cinque marinai, ammalatisi di tubercolosi, vennero trasferiti al sanatorio di Montseny per evitare contagi.
Le relazioni con la popolazione di Caldes de Malavella furono improntate alla cordialità; l’arrivo di più di mille internati ebbe uno impatto notevole, in termini economici e sociali, sulla vita di un paesino che contava all’epoca 2300 abitanti. Nacquero relazioni con ragazze del luogo, tre delle quali culminarono nel matrimonio (ragion per cui i tre marinai interessati rimpatriarono solo a fine 1946, anziché nel 1944 come i loro compagni); ci furono anche liti con fidanzati del posto gelosi, e secondo i racconti locali alcuni dei marinai italiani avrebbero lasciato dei discendenti.
Qualche malumore nacque dal fatto che agli ufficiali fosse permesso di indossare abiti civili, mentre i marinai erano obbligati a tenere la divisa, nonché dal fatto che le uniformi invernali non giunsero fino alla fine di gennaio (indumenti di colore blu, eccetto un maglione nero che destò “una certa agitazione” perché considerato una “reminescenza fascista”).
Una squadra di calcio formata da marinai internati, nonostante i dubbi delle autorità spagnole, ebbe modo di partecipare anche alla “Coppa del Generalissimo”, la versione franchista della Coppa di Spagna.
Anche nella nuova sistemazione di Caldes de Malavella, pur molto migliore rispetto alle precedenti, la fame rimase un problema notevole; in un periodo di razionamento come quello, le 2600 calorie della razione giornaliera spesso non erano raggiunte, ed alcuni marinai, non appena ne avevano occasione, si recavano nei campi della zona per rubare le rape e mangiarle. Altri andavano a lavorare presso le fattorie del luogo in cambio di un pasto; altri ancora lavoravano negli alberghi stessi, come cuochi, manutentori, idraulici, elettricisti e muratori. Mancando il riscaldamento nei bagni del Vichy Catalan, progettati per essere usati solo d’estate, alcuni elettricisti realizzarono un rudimentale sistema di riscaldamento alimentato elettricamente, che tuttavia causò un intervento del governatore spagnolo a causa dell’eccessivo consumo di energia elettrica. 
Un problema insorse quando vi furono dei ritardi nel pagamento della pensione dei marinai; il console italiano a Barcellona suggerì agli ufficiali italiani più alti in grado di confiscare gli alberghi e sottoporli a gestione militare, ma il problema fu risolto quando il console (nominato dal governo di Mussolini), venne sostituito da un altro (fedele al governo regio) che provvide a risolvere il problema dei pagamenti.
Durante l’internamento vi furono anche vari tentativi di fuga; il più importante si verificò il 22 aprile 1944, quando 21 marinai salirono clandestinamente su un treno merci nottetempo, con l’intenzione di raggiungere il consolato tedesco e rientrare in Italia per tornare a combattere. La Guardia Civil, avvertita, li fermò l’indomani ad Arenys de Mar, dopo di che i fuggiaschi furono trasferiti nel campo di concentramento di Miranda de Ebro (Burgos), ove furono sottoposti ad un regime d’incarcerazione particolarmente duro. Ciò non impedì altri tentativi di fuga, in tutto una dozzina, di gruppetti di tre o quattro uomini; tutti vennero sempre intercettati dalla Guardia Civil e mandati a Miranda de Ebro. L’unico tentativo quasi riuscito fu quello di tre uomini che fuggirono verso Barcellona su tre biciclette rubate, lasciando un messaggio nel quale si dicevano intenzionati a parlare col console perché erano stanchi di stare a Caldes e volevano tornare in Italia a combattere; riuscirono davvero a raggiungere Barcellona in bici, ed a parlare col console, ma questi li convinse a tornare a Caldes, sapendo già che l’internamento stava per avere fine. Proprio perché erano tornati volontariamente, il console convinse anche i funzionari della Guardia Civil a non mandare i tre a Miranda de Ebro.
I tentativi di fuga sopra descritti nacquero tutti per iniziativa di singoli gruppetti di marinai, ma vi fu anche un progettato tentativo di fuga in grande stile da parte degli ufficiali: vi avrebbero partecipato pressoché tutti gli ufficiali internati, compresi i due comandanti, con l’aiuto del console italiano a Barcellona e degli ambasciatori Alleati di Madrid. Allo scopo, era stato preparato nel porto di Tarragona un rimorchiatore, che avrebbe dovuto imbarcare gli ufficiali in una cala presso la località di Tossa i Lloret per poi portarli in Corsica. Quando però il rimorchiatore fece scalo a Barcellona, per caricare del carbone nonché i bagagli degli ufficiali (qui portati dal console italiano), le autorità doganali del porto ispezionarono la nave e trovarono documenti, abiti ed anche alcune pistole, così decretando il fallimento del tentativo.
In un’altra occasione, una denuncia anonima al sergente della Guardia Civil portò ad un’ispezione nel corso della quale furono rinvenute quattro pistole Beretta della Regia Marina e diverse casse di munizioni, tenute nascoste da alcuni membri degli equipaggi: anche in questo caso, i responsabili finirono a Miranda de Ebro.
Nell’estate del 1944, infine, venne l’agognato momento del rimpatrio: dopo la liberazione di Roma, le ambasciate Alleate convinsero il governo spagnolo a rilasciare gli internati, facendo loro scegliere se preferissero aderire al Governo regio oppure alla Repubblica di Salò.
Il 22 giugno 1944, pertanto, una commissione formata da tre funzionari spagnoli richiese individualmente a ciascuno dei marinai internati a Caldes de Malavella se desiderassero rientrare in Italia dal sud, controllato dagli Alleati e dal regio governo (imbarcandosi su una nave in partenza da Gibilterra), oppure dal nord, controllato dai tedeschi e dalla Repubblica Sociale Italiana (passando per la Francia). Col medesimo voto, che doveva essere firmato da ciascun marinaio, si sceglieva anche a quale governo si aderiva: quello regio di Ivanoe Bonomi o quello fascista di Mussolini. Su 948 votanti, soltanto 22 chiesero di rientrare in Italia dal nord (aderendo cioè alla RSI), essendo preoccupati per le famiglie, che là vivevano sotto occupazione tedesca (altra versione parla di 1013 votanti, di cui solo 19 aderirono alla RSI). 923 votarono per il regno del Sud, tre chiesero di restare in Spagna.
I 22 uomini che avevano optato per la RSI lasciarono Caldes de Malavella già il giornos seguente, 23 giugno; raggiunta in treno Girona, furono provvisti di passaporto e poi avviati a Portbou, dove passarono il confine con la Francia occupata dai tedeschi. Uno dei 22, colto da un attacco di appendicite, fu costretto a restare in Spagna; non poté più passare il confine, dopo la guarigione, perché le forze Alleate in avanzata in Francia avevano frattanto liberato anche Portbou.
Il resto degli equipaggi, compresi i comandanti Imperiali e Cigala Fulgosi, lasciarono Caldes de Malavella il 5 luglio 1944. Il giorno precedente, gli abitanti del posto organizzarono una festa di commiato, con balli, brindisi, discorsi e addii.
Il migliaio di uomini di Pegaso, Impetuoso, Roma e Vivaldi salì poi su un convoglio formato da più di trenta vagoni (i marinai vennero sistemati su vagoni merci, mentre i due carri migliori vennero riservati ad ufficiali e sottufficiali) che alle quattro del mattino del 5 luglio partì dalla stazione di Caldes; pressoché l’intera popolazione del paese si era radunata per salutare i partenti, e regnava una certa commozione. Lasciata Caldes de Malavella, il treno sostò a Barcellona, Saragozza e Madrid per fare rifornimento, ed il 9 luglio arrivò ad Algeciras, nella baia di Gibilterra, dove gli ormai ex internati vennero trasbordati sull’incrociatore leggero Emanuele Filiberto Duca d’Aosta. Attraversato il Golfo dell’Asinara, dove le loro sventure erano iniziate, il Duca d’Aosta trasportò infine i marinai a Taranto, dove il loro viaggio si concluse l’11 luglio 1944; molti tornarono in breve a prestare servizio nella Regia Marina.
Anche il cane “Mascherino” tornò in Italia insieme al resto dell’equipaggio della Pegaso.

Finita la guerra, sulla perdita di Pegaso ed Impetuoso, come sempre avviene in seguito alla perdita di una nave militare, venne istituita una Commissione d’Inchiesta Speciale. Dopo aver valutato le circostanze in cui era maturata la decisione di autoaffondare le navi (in particolare la mancanza di dispozioni certe e di provenienza sicura), la Commissione d’Inchiesta giudicò che la scelta dei comandanti Imperiali e Cigala Fulgosi fosse stata «Conforme alle leggi dell’onore militare».
Poi, la storia di Pegaso ed Impetuoso cadde nel dimenticatoio. Gli equipaggi si dispersero, chi proseguì la propria carriera in Marina, chi tornò alle occupazioni della vita civile; negli ambienti della Marina italiana, conclusa l’inchiesta sulle circostanze dell’autoaffondamento, la vicenda fu presto dimenticata. Non erano che due delle tante navi travolte dal gorgo dell’armistizio, affondate in circostanze meno tragiche di tante altre, forse in modo più insolito.
Anche tra gli abitanti di Maiorca l’episodio andò presto sbiadendo. La storia delle due navi italiane divenne uno di quei racconti che poteva capitare di sentire in osteria, raccontati dai vecchi dinanzi ad un bicchiere. Di quando in quando, a qualche pescatore di aragoste capitava di trovare nella rete un fucile, una bomba, delle calzature militari, proiettili, pugnali, perfino un siluro, a riprova che doveva esserci del vero in quei ricordi sbiaditi.
Nessuno avrebbe il riposo delle due torpediniere, adagiate sul fondo della baia di Pollença, per ben 43 anni.
Era il 17 dicembre 1986 quando Joaquin Angel Rodriguez Castelao, detto “Quino”, un anziano corallaro maiorchino noto tanto per la sua eccentricità quanto per la capacità d’immergersi a più di cento metri di profondità per cercare il corallo migliore, notò all’ecoscandaglio un’irregolarità sul fondale alta 7-8 metri durante un’uscita con la sua barca in cerca, appunto, di corallo. “Quino”, che conosceva la zona da anni e non si era mai accorto della presenza di quell’anomalia, pensò di aver trovato un grosso scoglio inesplorato, probabilmente ricoperto di corallo: s’immerse per scoprire di cosa si trattasse, ma ciò che apparve ai suoi occhi quando arrivò a cento metri di profondità lo lasciò sbalordito. Non era uno scoglio, quell’irregolarità: era il relitto ben conservato di una nave da guerra, della quale poteva distinguere chiaramente un grosso cannone proprio sotto di lui. Aveva sentito qualche vecchio parlare di navi da guerra italiane affondate a Maiorca durante l’ultimo conflitto mondiale, ma non sapeva se si trattasse di una storia vera o di una leggenda da osteria: questa visione confermava i racconti che aveva ascoltato. Dopo una breve esplorazione, che non rivelò la presenza di alcunché di valore, né di coralli, “Quino” se ne tornò in superficie. Lui non poteva sapere il nome della nave, ma “Quino” era il primo uomo a scendere sul relitto della Pegaso.

Seguirono, per le due torpediniere, altri quindici anni di buio e silenzio. Ma il 30 giugno 1998 il subacqueo italiano Guido Pfeiffer, risalendo da un’immersione sul relitto di un mercantile greco affondato al largo di Minorca, fu colto da un’embolia; portato nell’ospedale di Mahon, durante il trattamento in camera iperbarica ebbe modo di conversare con il medico specialista in medicina subacquea, dottor Jordi Moya, ch’era anch’egli un subacqueo. Parlando di mare per ammazzare il tempo durante la lunga permanenza in camera iperbarica, il dottor Moya parlò a Pfeiffer anche delle due navi da guerra italiane affondate al largo di Maiorca, e del corallaro che ne aveva scoperta una per caso.
Interessatosi a questa storia, Pfeiffer, una volta curato dall’embolia, decise di tentare di individuare ed esplorare i relitti delle due torpediniere.
Impresa non facile: ricerche condotte presso l’Ufficio Storico della Marina Militare portarono al ritrovamento di molto materiale documentale sulla vicenda di Pegaso ed Impetuoso, compresi gli incartamenti relativi all’inchiesta condotta nel dopoguerra, ma in nessun documento figurava la posizione in cui era avvenuto l’autoaffondamento; si accennava solo ad un punto al largo della baia di Pollença, al di fuori delle acque territoriali spagnole. C’era anche una lettera scritta molti anni dopo da un ufficiale dello Stato Maggiore al comandante Imperiali, ormai in congedo, al quale si chiedeva di precisare la posizione in cui le navi si erano autoaffondate; ma Imperiali rispondeva di aver forse annotato le coordinate stimate in un diario, che non era più riuscito a trovare.
Parallelamente, Guido Pfeiffer ed il collega Claudio Corti condussero ricerche anche in terra spagnola, intervistando i pescatori di Minorca per scoprire se sapessero qualcosa; il dottor Moya ed un altro medico e subacqueo, Alejandro Fernandez, cercavano intanto di riuscire a risalire al corallaro che aveva scoperto il relitto, del quale sapevano solo per sentito dire, da un amico che anni prima aveva visto un documentario sulla pesca del corallo. Dopo varie vicissitudini, Corti, Pfeiffer, Moya e Fernandez riuscirono a rintracciare “Quino”, col quale Corti, Pfeiffer e l’amico Maurizio Macori riuscirono ad avere un incontro; il vecchio corallaro confermò di sapere dove si trovavano i relitti ed accettò di guidarvi i subacquei italiani, ma poi tergiversò con varie scuse, rimandando di volta in volta l’immersione.
Pfeiffer, Corti, Moya e Fernandez tentarono allora altre strade: interrogarono pescatori della zona, che però davano informazioni troppo vaghe e contrastanti; ispezionarono i fondali con l’ecoscandaglio in cerca di anomalie, ma per tre anni collezionarono soltanto buchi nell’acqua.
Nel 2001, infine, i quattro riuscirono ad ottenere una copia del documentario sulla pesca del corallo da cui tutta la loro ricerca era scaturita: analizzando un filmato girato nel 1986 dallo stesso Quino, che faceva parte del documentario, riuscirono ad individuare il probabile punto dove si era immerso (nel canale tra Maiorca e Minorca), sulla base di alcuni punti cospicui della costa maiorchina che si riusciva ad intravedere nel filmato. Raggiunta in barca tale posizione, l’ecoscandaglio segnalò effettivamente due punti, a poche centinaia di metri l’uno dall’altro, in cui il fondale si alzava per poi riabbassarsi, alla profondità e delle dimensioni giuste. L’immersione sul primo dei due punti, proprio quello individuato in base all’analisi del filmato, rivelò che si trattava soltanto di un grosso scoglio; ma quando Pfeiffer s’immerse sulla seconda irregolarità del fondale – trovata quasi per caso, ispezionando il fondale all’ecoscandaglio nella supposizione che, se il primo punto fosse stato una delle torpediniere, l’altra si sarebbe trovata nelle immediate vicinanze –, il 23 giugno 2001, trovò finalmente il relitto di una nave, adagiata sul lato di dritta a 98 metri di profondità. Dopo diverse immersioni ed esplorazioni del relitto, volte ad individuare un qualche elemento che permettesse di capire a quale delle due navi esso appartenesse, si giunse alla conclusione che si trattava dell’Impetuoso.
Nelle settimane seguenti i subacquei si misero allora alla ricerca della Pegaso, ma la seconda torpediniera sembrava eluderli: più e più volte, determinata una posizione in base a vari indizi, vi rilevarono all’ecoscandaglio una promettente anomalia del fondale, per poi immergersi e scoprire che si trattava di secche o grossi scogli. L’errore stava nella supposizione che la Pegaso fosse, delle due, la nave affondata più verso terra, e che quindi il suo relitto andasse cercato tra quello dell’Impetuoso e la costa di Maiorca: presunzione generata da quanto affermato dall’ormai anziano Antoni Cifre Morro, che aveva detto che la torpediniera più al largo era affondata su fondali fangosi, mentre quella più verso terra era finita su fondali rocciosi (e “Quino” aveva parlato di un fondale roccioso quando aveva descritto il relitto che aveva visitato). Siccome il relitto dell’Impetuoso giaceva effettivamente su un fondale fangoso, la conclusione era che la Pegaso dovesse essere la nave affondata più verso terra, sulle rocce.
Il 20 agosto 2001, al termine di un’immersione sul relitto dell’Impetuoso, la barca di Pfeiffer e compagni venne avvicinata da Nemo, la barca di “Quino”, il quale si offrì di guidarli finalmente sul relitto della seconda nave. Il corallaro raccontò loro che i dettagli di cui aveva parlato nel precedente racconto – ad esempio, che la nave poggiava su un fondale roccioso – erano inventati, e li condusse sul relitto, situato circa 500 metri più a nord. Contrariamente a quanto avevano pensato, la Pegaso era più verso il mare aperto rispetto all’Impetuoso: per questo non erano riusciti a trovarla, cercando dalla parte sbagliata.

Il relitto della Pegaso giace a 94 metri di profondità, appoggiato su un fondo compatto di sabbia bianca granulosa, circondato da una miriade di oggetti caduti fuori bordo e ricoperto da uno spesso strato di incrostazioni (formato da alghe calcaree, spugne, bivalvi). La nave è adagiata sul fianco sinistro, con la prua orientata per 160° e la poppa danneggiata dall’impatto con il fondale; la plancia, la parte centrale della tuga con parte della murata di dritta ed il ponte di prua sono collassati e giacciono sul fondale, ma il relitto si presenta in uno stato di conservazione migliore rispetto a quello dell’Impetuoso. Il fumaiolo non esiste più, al suo posto sono visibili i trombini; l’albero centrale giace sul fondale. Il relitto dell’Impetuoso dista poche centinaia di metri.



5 commenti:

  1. ciao articolo interessantissimo, solo una nota aeronautica, gli aerei Dornier che attaccarono la Flotta italiana, erano dei Dornier DO217K, e non come indicato, la versione precedente DO17. cordialmente Marco

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    1. Ciao, grazie per la segnalazione; provvedo a correggere.

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  2. Complimenti come sempre, ma la nave nella foto"La Pegaso in rada a Bengasi (Arch. Ferrentino)" dovrebbe essere invece il ct FOLGORE, sarebbe bello vedere bene in particolare la mimetizzazione della nave magari zoomando bene sul particolare

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    1. Ha ragione, grazie! La rimuovo subito. Purtroppo non la possiedo in miglior definizione.

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  3. Bellissimo articolo, come sempre!! La nave nella foto "La Pegaso in rada a Bengasi (Arch. Ferrentino)" però non è il PEGASO ma bensi il ct FOLGORE. Sarebbe bello vedere bene la mimetizzazione della nave in quella foto, magari zoomando di più.

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