sabato 1 novembre 2025

Francesco Crispi

Il Francesco Crispi (da www.wrecksite.eu)

Cacciatorpediniere della classe Sella (dislocamento standard 1279 tonnellate, a pieno carico 1480 tonnellate).

Il Crispi si distingueva dai gemelli per il diverso apparato motore, costituito da turbine Belluzzo interamente ad azione (due gruppi di turbine alimentati ciascuno da tre caldaie Thornycroft, per una potenza complessiva di 35.000 HP, progettati dal professor Giuseppe Belluzzo, massimo esperto italiano in fatto di turbine) invece che Parsons come per le altre unità della classe: furono installate sotto la direzione del tenente colonnello del Genio Navale Pericle Ferretti, padre dello “snorkel” italiano. Queste turbine, ben riuscite dal punto di vista progettuale ma realizzate con acciaio di qualità non adeguata, resero il Crispi l’unità più veloce della classe alle prove ma diedero prestazioni complessivamente inferiori, fino alla loro sostituzione con nuove turbine dello stesso tipo ma realizzate con materiali migliori.

Troppo anziano per il servizio di squadra, durante la guerra operò prevalentemente in Mar Egeo, scortando convogli (tra le isole del Dodecaneso fino alla caduta della Grecia, e successivamente tra il Dodecaneso, la Grecia continentale, Creta e le altre isole greche), svolgendo attività antisommergibili e partecipando a tutti i principali episodi della guerra aeronavale in quel teatro.

Svolse 243 missioni di guerra (126 di scorta, 9 di trasporto, tre di ricerca del nemico, tre di bombardamento controcosta, 67 di trasferimento, 31 per esercitazioni e quattro di altro tipo), percorrendo in tutto 42.127 miglia nautiche e trascorrendo 3557 ore in mare e 119 giorni ai lavori, risultando così uno dei cacciatorpediniere italiani più attivi nel conflitto (il secondo per numero di missioni svolte, dopo l’Augusto Riboty).

Il suo motto era "Con Dio e col re per la patria", coniato proprio dal politico e patriota eponimo.


Breve e parziale cronologia.


21 febbraio 1923

Impostazione presso i cantieri Pattison di Napoli.

12 settembre 1925

Varo presso i cantieri Pattison di Napoli.

Marzo 1927

Durante le prove a tutta forza, della durata di tre ore, le macchine del Crispi sviluppano una potenza di 35.540 cavalli (massima di 36.700) e raggiungono una notevolissima velocità media di 38,6 nodi, superando di molto la velocità prevista dal contratto e facendo della nave la più veloce della classe (che di per sé risulta già molto più veloce dei cacciatorpediniere italiani della generazione precedente, rispetto alla quale i Sella segnano un netto balzo di qualità per dimensioni, armamento e velocità), consumando al contempo meno carburante per miglio nautico percorso rispetto alle classi precedenti. Questo risultato viene tuttavia raggiunto in condizioni irrealistiche, con la nave molto più leggera di quanto non sarebbe in reali condizioni operative (il dislocamento alle prove è di sole 1050 o 1094 tonnellate, con l’armamento principale ancora non installato): una ingannevole pratica che diventerà però la prassi durante il periodo interbellico.

Il Crispi durante le prove in mare effettuate nella primavera del 1927, con l’armamento ancora non installato (da www.wiki.lesta.ru)

29 aprile 1927

Entrata in servizio, quarta ed ultima unità della classe. Insieme ai gemelli Quintino Sella, Giovanni Nicotera e Bettino Ricasoli forma la VII Squadriglia Cacciatorpediniere, facente parte della Squadra Navale. (Altra fonte data l’entrata in servizio al 1° maggio 1927).

21 ottobre 1927

Riceve la bandiera di combattimento con una cerimonia svolta a Palermo. Poco dopo viene dislocato a Lero, nel Dodecaneso, dove nel giugno successivo sarà raggiunto dai gemelli Giovanni Nicotera e Bettino Ricasoli, di ritorno da una crociera in Mar Nero, con i quali forma la IV (o VII?) Squadriglia Cacciatorpediniere.

1927-1928

Per ovviare i problemi di stabilità (dovuti ai pesi eccessivi nelle sovrastrutture) ed eccessiva leggerezza delle strutture che affliggono le navi della classe, il Crispi ed i gemelli vengono sottoposti a lavori di rinforzo delle parti più deboli dello scafo e delle sovrastrutture, imbarcano un considerevole quantitativo di zavorra e ricevono delle alette antirollio di notevoli dimensioni.

In questo periodo è comandante del Crispi il capitano di corvetta Priamo Leonardi.

Il Crispi nei primi anni di servizio (da www.wiki.lesta.ru)

Marzo 1928

In seguito alla riorganizzazione delle forze navali, la VII Squadriglia Cacciatorpediniere diviene la IV Squadriglia, facente parte della 1a Squadra Navale.

Aprile 1928

Crispi, Sella e Nicotera si recano in visita in Spagna, dove dovranno presenziare a Siviglia a dei festeggiamenti cui parteciperà la famiglia reale spagnola.

19 aprile 1928

Il Crispi s’incaglia nello stretto a sud di Maiorca, toccando il fondo con conseguente deformazione dell’elica sinistra; dev’essere preso a rimorchio dal Sella e portato a La Spezia, dove rimarrà in riparazione fino al luglio dell’anno successivo. (Per altra fonte, l’incidente sarebbe avvenuto presso lo scoglio della Meloria).

Le conseguenze dell’incaglio si riveleranno particolarmente gravi e difficili da risolvere: il Crispi dovrà più volte tornare in cantiere per altri lavori, e per quasi due anni non compirà che brevi uscite nel Tirreno per prove.

Francesco CrispiGiovanni NicoteraQuintino Sella e Bettino Ricasoli a Venezia (g.c. Nedo B. Gonzales, via www.naviearmatori.net)

1928-1929

Lavori di modifica dell’armamento: l’impianto singolo prodiero da 120/45 mm e quello binato poppiero vengono sostituiti con due impianti binati dello stesso calibro, ma più leggeri, analoghi a quelli adottati sui nuovi cacciatorpediniere della classe Sauro (modello OTO 1926, al posto dei precedenti modello Schneider-Canet-Armstrong 1918).

1930 o 1931

L’armamento contraereo viene potenziato con l’aggiunta di due mitragliere singole Breda da 13,2/76 mm in controplancia.

Estate 1930

Compie una crociera con scali in porti greci e delle isole dell’Egeo.

1931

Altra crociera in Grecia ed isole dell’Egeo.

Il Crispi a Venezia nel 1931 (Coll. Luigi Accorsi, via www.associazione-venus.it)

1931

Il Crispi, il capoclasse Quintino Sella, i più recenti Nazario Sauro e Cesare Battisti e l’esploratore Tigre formano la 2a Flottiglia Cacciatorpediniere della II Divisione della 1a Squadra Navale. La II Divisione (al comando dell’ammiraglio Romeo Bernotti), oltre che dalla 2a Flottiglia Cacciatorpediniere, è composta dalla 1a Flottiglia Cacciatorpediniere (esploratore Pantera, cacciatorpediniere Giovanni Nicotera, Daniele Manin, Aquilone, Ostro e Borea), dall’esploratore Ancona e dai cacciatorpediniere Nembo, Euro, Espero e Zeffiro.

Agosto 1932

La IV Squadriglia Cacciatorpediniere, di cui il Crispi fa parte, viene assegnata alla VI Divisione Navale e trasferita a Venezia, dove rimarrà per tre anni, adibita a compiti addestrativi. Il Crispi continua ad essere afflitto da problemi alle turbine.

Il Crispi in entrata a Taranto (g.c. Giacomo Toccafondi)

1933

Viene installato un secondo telemetro, di tipo chiuso, ed anche il telemetro preesistente viene sostituito con uno di tipo chiuso.

1933-1934

Il Crispi fa parte della VI Divisione Navale (ammiraglio di divisione Guido Castiglioni), insieme ai gemelli Quintino Sella, Giovanni Nicotera e Bettino Ricasoli, ai vecchi incrociatori corazzati San Giorgio e San Marco (in riserva), all’incrociatore leggero Bari (nave ammiraglia di Castiglioni) ed agli esploratori Tigre ed Augusto Riboty.

In questo periodo (1934) è comandante in seconda del Crispi il tenente di vascello Francesco De Robertis, destinato a diventare celebre regista tra i precursori del neorealismo con i suoi film a tema navale.

Il Crispi a metà anni Trenta (Coll. Maurizio Brescia, via rivista ANMI)

22 aprile 1934

Il Crispi, inquadrato nella IV Squadriglia Cacciatorpediniere insieme ai gemelli Quintino SellaGiovanni NicoteraBettino Ricasoli, al più grande Tigre ed ai più moderni Francesco Nullo e Daniele Manin, ed unitamente alla I Squadriglia Esploratori (Luca TarigoUgolino VivaldiAntoniotto Usodimare ed Alvise Da Mosto), alla II Squadriglia Esploratori (Lanzerotto MalocelloNicoloso Da ReccoEmanuele Pessagno e Giovanni Da Verrazzano) ed al posamine Dardanelli, presenzia alla cerimonia per la consegna della bandiera di combattimento agli incrociatori leggeri Alberico Da BarbianoAlberto Di GiussanoGiovanni delle Bande Nere, Bartolomeo Colleoni e Luigi Cadorna, nel bacino di San Marco a Venezia.

Estate 1935

Una grave avaria mette definitivamente fuori uso le turbine del Crispi.

Il Crispi nel 1935 (Coll. Luigi Accorsi, via www.associazione-venus.it)

Ottobre 1935

Viene rimorchiato a Genova dal rimorchiatore militare Teseo, per esservi sottoposto alla sostituzione delle turbine.

1936-1937

Durante lavori svolti presso i Cantieri del Tirreno di Genova, le turbine avariate vengono sostituite con nuove turbine sempre Belluzzo, ma di tipo leggermente modificato e realizzate con acciai di migliori prestazioni, che confermeranno la bontà del progetto originario.

Inizio 1938

Inviato in Egeo, visitando anche porti della Libia. In questo periodo è comandante del Crispi il capitano di fregata Sergio De Judicibus.

Il capitano di fregata Sergio De Judicibus (1899-1962), comandante del Crispi nel 1938 (da www.genealogiadejudicibus.it)

1938

Le due mitragliere contraeree singole da 13,2/76 mm vengono eliminate e sostituite con altrettante armi binate dello stesso calibro.

1939

Il Crispi ed i gemelli Quintino Sella, Giovanni Nicotera e Bettino Ricasoli formano la IV Squadriglia Cacciatorpediniere, di stanza a Lero e Rodi, nel Dodecaneso.

Nel corso di quest’anno il fumaiolo poppiero viene abbassato di circa 1,5-2 metri, e sulla sommità di quello prodiero viene installata un’“unghia”.

Marzo 1940
La IV Squadriglia Cacciatorpediniere viene dimezzata in seguito alla vendita alla Svezia di Nicotera e Ricasoli.

6 giugno-10 luglio 1940

Il Crispi, insieme al Sella, al posamine ausiliario Lero ed alle torpediniere Libra, Lince e Lira, partecipa alla posa dei campi minati difensivi del Dodecaneso a cavallo della dichiarazione di guerra: insieme a Sella, Lero ed alle tre torpediniere posa complessivamente dodici campi minati antinave di trenta mine ciascuno ed uno antisommergibili di 65 mine (tutte tipo Elia) nelle acque di Lero e sei campi minati antinave di 25 mine ciascuno e due antisommergibili (uno di 25 mine e l’altro di 50, anche qui tutte tipo Elia come anche per gli sbarramenti antinave) nelle acque di Rodi; insieme ai soli Sella e Lero posa sei campi minati di 25 mine tipo Elia ciascuno nelle acque di Stampalia.

10 giugno 1940

All’entrata dell’Italia nella seconda guerra mondiale, il Crispi (caposquadriglia, capitano di fregata Ugo Ferruta) ed il gemello Sella formano la IV Squadriglia Cacciatorpediniere, di base a Rodi (o Lero) ed alle dipendenze del Comando Militare Marittimo Autonomo dell’Egeo.

Nella fase iniziale del conflitto i due cacciatorpediniere, che sono le navi da guerra più potenti del Dodecaneso, sono adibiti alla scorta dei piccoli convogli che collegano tra loro le isole dell’arcipelago ed alla ricerca e caccia dei sommergibili.

Il Crispi nella baia di Alimia, a Rodi, il 30 giugno 1940. In secondo piano il Sella (g.c. STORIA militare)

19 novembre 1940

Nella notte tra il 18 ed il 19 novembre Crispi e Sella, su ordine dell’ammiraglio Luigi Biancheri (comandante delle forze navali del Dodecaneso), bombardano con le loro artiglierie il porto di Samo, in rappresaglia per un colpo di mano greco condotto la notte precedente ai danni del piccolo presidio dell’isolotto di Gaidaro, del quale un marinaio addetto alla locale stazione di vedetta era stato ucciso ed altri quattro militari catturati da uno sbarco a sorpresa di una quindicina di marinai ellenici.

Il mattino seguente una caserma a Porto Vathi, nella medesima isola, verrà bombardata dalla Regia Aeronautica e tre giorni più tardi una concentrazione di motovelieri ed unità minori della Marina greca nel porto di Samo sarà oggetto di un altro attacco aereo e di un nuovo bombardamento navale ad opera delle torpediniere dell’VIII Squadriglia. Dopo questo “trattamento”, in effetti, non si verificheranno più azioni ostili greche ai danni dei presidi del Dodecaneso.

Inizio 1941

In vista di una futura operazione della I Flottiglia MAS (che dal marzo successivo assumerà la più famosa denominazione di X Flottiglia MAS) contro la baia di Suda, nell’isola di Creta, Crispi e Sella vengono modificati per essere impiegati come “avvicinatori” di mezzi d’assalto: più precisamente vengono installate in coperta a centro nave delle selle su cui sistemare dei “barchini esplosivi” tipo MT (“Motoscafo Turismo”, muniti di una carica esplosiva di 370 kg di tritolite T4 sistemata nella prua), fino a sei per nave (tre su ogni lato), da trasportare fino in prossimità dell’obiettivo e qui mettere a mare. Vengono altresì installate delle gruette elettriche per la messa a mare dei barchini.

L’equipaggio dei cacciatorpediniere, dopo il necessario addestramento, riuscirà a compiere la manovra di messa in mare dei “barchini esplosivi” in 35 secondi (a barchino, presumibilmente).

La collocazione di queste attrezzature a centro nave comporta come rovescio della medaglia, durante la missione, l’impossibilità di usare i tubi lanciasiluri.

L’idea di un’azione di mezzi d’assalto contro Suda, utilizzata dai britannici come base navale per le loro operazioni in Egeo dopo l’invasione italiana della Grecia nell’autunno precedente, è stata avanzata per la prima volta da Supermarina il 19 dicembre 1940, in un documento segreto-riservato-personale indirizzato al capo di Stato Maggiore, in cui si spiegava che «la zona dell’Egeo appare in questo momento, per le limitate difese dei sorgitori utilizzati dal nemico (…) particolarmente adatta per l’impiego offensivo degli MT. Risulta quindi indispensabile inviare al più preso, come previsto, n. 8 MT con relativo personale a Lero» e si proponeva di far partire il 24 dicembre da Augusta i cacciatorpediniere Dardo e Strale, appositamente modificati, con a bordo otto “barchini esplosivi” da trasferire a Lero ed i relativi piloti, con arrivo previsto per il 27 dicembre dopo uno scalo a Bengasi per rifornirsi di acqua e nafta.

Il sottocapo di Stato Maggiore della Marina, ammiraglio Inigo Campioni, ha approvato il piano, ed il 21 dicembre Supermarina ha inviato al Comando Superiore Forze Armate dell’Egeo (Egeomil) un messaggio segreto per annunciare che «Da parecchio tempo la R. Marina ha studiato, realizzato e sperimentato mezzi speciali, destinati ad attaccare le unità nemiche nei porti. Fra questi mezzi speciali sono da annoverare i motoscafi turismo (M.T.) (…) L’avvenuta sistemazione delle forze navali inglesi nella isola di Creta e la situazione generale in Egeo offrono possibilità di impiego per gli M.T. (…) È stato quindi deliberato di inviare al più presto costì (…) numero 8 M.T. con i relativi equipaggi. La spedizione è accompagnata dal capitano di fregata Moccagatta, comandante della Flotmas speciale, il quale Vi potrà fornire tutti gli schiarimenti relativi a a) caratteristiche dei mezzi speciali (M.T.), b) modalità d’impiego previste per gli M.T., c) possibilità di adattamento degli M.T. sui Ct. e sulle torpediniere, o a rimorchio dei Mas da Voi dipendenti per effettuare il trasporto dalla base di partenza fino alle acque in cui si svolgerà l’operazione. Gli M.T. possono essere impiegati di massima contro unità all’ormeggio in una base. L’operazione dovrebbe essere compiuta, previe accurate ricognizioni aeree intese a precisare la posizione e il tipo delle navi e soprattutto la posizione e l’entità delle ostruzioni retali, seguendo i sottoscritti criteri di massima: a) favorevoli condizioni meteorologiche, b) avvicinamento alla base nemica da parte delle siluranti o dei Mas in notte oscura, in modo da garantire la sorpresa, c) impiego di tutti gli M.T. in una sola spedizione o al massimo in due nuclei su 4 M.T., per sfruttare in pieno il fattore sorpresa e per potere avere buone probabilità di successo (…)».

Dardo e Strale recapitano come previsto gli otto MT a Lero a fine dicembre; con essi ed i relativi piloti giunge anche il capitano di fregata Vittorio Moccagatta, comandante della X Flottiglia MAS, che ha pianificato la missione insieme al comandante del reparto di superficie della X MAS, capitano di corvetta Giorgio Giobbe. Durante la permanenza nel Dodecaneso i piloti dei barchini si addestrano intensamente nella baia di Parteni sotto la supervisione del comandante Moccagatta, navigando e compiendo manovre in formazione e simulando il superamento di ostruzioni ed attacchi sotto i riflettori, fino a raggiungere un elevato livello di efficienza. Vengono altresì eseguite esercitazioni di messa a mare dei “barchini” dai cacciatorpediniere; in proposito il comandante Moccagatta, al suo rientro in Italia, scriverà nel suo rapporto che la messa a mare con le gruette, sia azionate elettricamente che manualmente, non presenta particolari difficoltà, anche se non è da ritenersi il sistema ideale, e che il tempo medio per mettere in mare tre “barchini” con un paio di gruette è di sette minuti. Moccagatta studia le possibilità operative degli MT e redige una bozza di ordine d’operazioni in cui, tenendo conto delle fasi lunari, individua la finestra d’azione tra il 23 ed il 31 gennaio.

La ricognizione aerea, i cui velivoli volano a 4000 metri, fotografa a più riprese la baia, permettendo di individuare le batterie costiere situate sui costoni della baia e tre sbarramenti di ostruzioni retali, il primo dei quali, ubicato all’imbocco della baia (con il secondo a poca distanza, mentre il terzo è in fondo alla baia, vicino al porto), è giudicato agevolmente superabile.

Gennaio 1941

Il 18 gennaio Egeomil emette l’ordine d’operazione M/916, che dispone che l’attacco dei “barchini esplosivi” contro Suda si svolga in una notte tra il 24 ed il 31 gennaio (il 23 gennaio, intanto, il capitano di fregata Moccagatta è stato richiamato in Italia per assumere il comando della X MAS).

Crispi e Sella prendono effettivamente il mare con a bordo gli MT durante questa finestra, ma vengono poi richiamati in porto dopo poche ore perché giunge notizia che le navi britanniche obiettivo dell’attacco sono in partenza, ed il Comando Forze Armate dell’Egeo ha quindi annullato la missione.

Nelle altre notti di gennaio non si verificano mai condizioni favorevoli per un attacco: o le condizioni meteomarine sono inadatte al trasporto ed alla navigazione degli MT, o non ci sono a Suda bersagli paganti.

Il Crispi a Rodi nel 1941 (foto Aldo Fraccaroli, via Coll. Luigi Accorsi e www.associazione-venus.it)

Febbraio 1941

Di nuovo Crispi e Sella prendono il mare con a bordo i “barchini esplosivi” per un nuovo tentativo di attacco contro Suda, ma di nuovo vengono richiamati alla base dopo poche ore per ordine del Comando Forze Armate dell’Egeo perché il numero e tipologia delle navi britanniche di base a Suda non viene giudicato tale da giustificare un attacco.

25 febbraio 1941

Alle 16.30 Crispi (capitano di fregata Ugo Ferruta) e Sella (capitano di corvetta Arturo Redaelli), aventi a bordo un reparto di camicie nere ed uno di marinai, salpano da Rodi per partecipare alla riconquista dell’isola di Castelrosso, occupata dai britannici con un colpo di mano due giorni prima.

L’operazione britannica, denominata "Abstention", ha preso il via nel pomeriggio del 23 febbraio, quando i cacciatorpediniere Hereward (capitano di fregata Charles Woollven Greening) e Decoy (capitano di fregata Eric George McGregor) sono partiti da Suda con a bordo duecento “commandos” (appartenenti al No. 50 Middle East Commando, unità addestrata in Egitto e di stanza a Creta, e comandati personalmente dal tenente colonnello S. Symons, comandante di tale reparto) incaricati di impadronirsi dell’isola con uno sbarco a sorpresa (per altra fonte la partenza sarebbe avvenuta all’una di notte od all’1.30 del 24).

Castelrosso, piccola isola (cinque miglia quadrate) abitata da poco più di duemila greci e facente parte del Dodecaneso italiano dal 1921, dista 75 miglia da Rodi (rispetto alla quale è posta ad est), 170 da Lero e 140 da Cipro, e solo 3 km dalla costa turca: è l’isola più orientale del Dodecaneso, nettamente separata dalle altre ed isolata da ogni altro territorio italiano, il che la rende un bersaglio ideale. I britannici intendono stabilirvi una base di motosiluranti (più precisamente, dovrebbero stabilirvi la propria base sette unità tipo CMB della 10th MTB Flotilla, inviate dall’Inghilterra con un convoglio che fa il periplo dell’Africa), dalla quale operare in appoggio alla Grecia, dopo aver accantonato un ben più ambizioso piano per la conquista di Rodi; più in generale lo scopo è stabilire una base avanzata nel Dodecaneso, punto di partenza (con anche l’installazione di una base aerea) per future operazioni aeronavali nell’Egeo e magari anche per la conquista di tutto il Dodecaneso, che si spera indurrebbe anche la Turchia a lasciare la neutralità ed unirsi agli Alleati (proprio a questo scopo, negli stessi giorni il ministro degli Esteri britannico Anthony Eden ed il generale John Dill sono inviati in missione ad Ankara). Già il 21 novembre 1940 il comandante della Mediterranean Fleet, ammiraglio Andrew Browne Cunningham, ha prospettato al suo superiore Alfred Dudley Pound, comandante in capo della flotta britannica, la possibilità di condurre operazioni di commandos su piccola scala nel Dodecaneso; Castelrosso, lontana da Rodi e poco difesa, è stata identificata come il bersaglio ideale (inizialmente le mire di Cunningham si erano appuntate anche su Caso, dove i britannici pensavano di installare delle batterie costiere che potessero ostacolare l’utilizzo dell’aeroporto di Scarpanto, ma un primo tentativo di sbarco britannico a metà gennaio 1941 era fallito a causa della pronta reazione italiana).

Il modesto presidio italiano di Castelrosso consiste in 35 uomini del Regio Esercito e della Regia Marina addetti alla locale stazione radio – che trasmette i messaggi della Marina ed anche i telegrammi privati e quelli meteorologici – e di vedetta, al comando del capo radiotelegrafista di seconda classe Filippo Mastropaolo, più una decina tra militi della Guardia di Finanza e carabinieri, con funzioni di polizia e di delegazione; modestissime le difese.

Il piano britannico prevede che i commandos conquistino l’isola e stabiliscano un perimetro difensivo, per poi essere rinforzati dopo ventiquattr’ore – alle tre di notte del 26 febbraio – da un reparto di Royal Marines e truppe dell’Esercito (una compagnia del reggimento Sherwood Foresters, al comando del maggiore L. C. Cooper, con viveri e munizioni per un mese) che dovranno tenere Castelrosso respingendo i successivi contrattacchi italiani. Insolitamente e con scarsa lungimiranza, non è previsto alcun appoggio aereo, all’infuori di incursioni diversive della RAF sulle basi aeree italiane di Rodi nelle notti tra il 25 ed il 26 e tra il 26 ed il 27 febbraio.

I britannici possiedono in verità informazioni piuttosto frammentarie sulle difese di Castelrosso: la maggior parte sono di fonte francese e risalgono a metà anni Trenta, quando l’Air France utilizzava il porticciolo dell’isola come scalo per i suoi idrovolanti da carico. A parte questo, l’Ammiragliato dispone di poche altre notizie e di una carta nautica; si è arrivati persino a studiare qualche cartolina illustrata.

Nel tardo pomeriggio del 23 febbraio sono partiti da Suda anche gli incrociatori leggeri Bonaventure (capitano di vascello Henry Jack Egerton) e Gloucester (capitano di vascello Henry Aubrey Rowley, nave di bandiera del contrammiraglio Edward de Faye Renouf), forza di copertura dell’operazione, mentre il sommergibile Parthian (capitano di fregata Michael Gordon Rimington) ha effettuato ricognizione periscopica dei punti prescelti per lo sbarco il 18-19 febbraio e deve fungere da faro durante lo sbarco, guidando i cacciatorpediniere verso la spiaggia designata con segnali luminosi. La cannoniera Ladybird (capitano di corvetta John Fulford Blackburn) è partita da Famagosta (Cipro) alle 23.30 del 23 febbraio con un drappello di 24 Royal Marines da sbarcare a Castelrosso quale primo rinforzo ai commandos, mentre il grosso dei Royal Marines e gli Sherwood Foresters seguiranno il 26 febbraio, trasportati dal panfilo armato Rosaura (capitano di vascello R. Spencer) che partirà da Cipro con la scorta del Bonaventure e dell’incrociatore leggero australiano Perth (capitano di vascello Philip Weyland Bowyer-Smith).

Lo sbarco dei commandos, agevolato dal mare calmo con poco vento, è iniziato alle due di notte del 25 febbraio: in mancanza di informazioni sulla presenza di batterie costiere italiane, Decoy ed Hereward si sono fermati a circa 200 metri dalla costa; i 200 commandos hanno preso posto su dieci lance baleniere, ma solo due di esse sono riuscite alle 3.10 a sbarcare le truppe presso Punta Nifti, all’estremità orientale dell’isola ed a sud dell’abitato di Castelrosso, per poi ripetere il tragitto sbarcando un totale di 50 commandos, mentre altre si sono perse nel buio, hanno superato il punto prestabilito per lo sbarco e sono entrate nel porticciolo dell’isola, tentato di sbarcare i loro commandos all’estremità del porto. Qui sono entrate in contatto con una pattuglia italiana e sono state costrette a ripiegare dal tiro delle mitragliere dei carabinieri e della stazione radio della Marina, dopo di che sono ritornate verso i cacciatorpediniere, raggiungendoli nuovamente alle cinque del mattino con tutte le truppe ancora a bordo. Alle 5.15 il comandante britannico ha inviato altre quattro baleniere a cercare l’unico gruppo di commandos sbarcati nel punto giusto per reimbarcarli, essendo ormai sfumata la sorpresa, ma senza successo; ha allora deciso di proseguire con la missione e sbarcare tutti i commandos. Alle 6.20 – ormai a giorno fatto – tre lance hanno sbarcato un reparto di commandos a supporto del primo gruppo, seguiti da altri sbarchi protrattisi per un’ora, nella zona del cimitero e di Punta Nifti.

Il caos dello sbarco è ben illustrato dalle testimonianze di due ufficiali imbarcati sulle baleniere: “È importante notare che il timoniere che ci conduceva verso il punto convenuto di sbarco era un regatante della squadra di canotaggio della marina. Io mi trovavo con lui nella prima barca mentre tutti gli altri ci seguivano con cieca fede nella navigazione decisa da un così qualificato esponente della Marina. Proseguimmo lentamente fino a quando intravvedemmo delle sagome scure di alcune costruzioni che si materializzavano gradualmente ad entrambi i lati e qualcuno esclamò: " Ma dove diavolo siamo finiti? Ci avevano detto che la zona di Punta Nifti doveva essere completamente disabitata!" Quasi immediatamente sentimmo un'intimazione in italiano seguita da una raffica di proiettili provenienti da armi portatili leggere, tutto intorno a noi. Il nostro timoniere della squadra di canotaggio della marina, con un singolare aplomb che gli derivava dal suo lungo stato di servizio come marinaio, gridò: "Remate più a fondo con quelle pagaie, bastardi!". Remando a tutta forza ci guidò indietro oltre alcune distanze oltre l'incrociatore [sic] Decoy” e “Entrammo nel porto più silenziosamente possibile e ammainammo le barche dai blocchi ben lubrificati. La remata procedeva con coordinazione e le baleniere che erano state prima ben preparate in ogni dettaglio per raggiungere terra, andavano avanti silenziosamente ciascuna carica di truppe da sbarco e da due o tre marinai per riportarle alla nave per la successiva ondata di sbarchi. Al primo sbarco, la prima imbarcazione in testa alle altre procedeva troppo lentamente e perciò le barche successive urtavano tutte una contro l'altra, accumulandosi attorno alla nostra. Segnalai all'ufficiale della prima barca di procedere più velocemente. Sfortunatamente, accelerò troppo in fretta e l'abbrivo le impedì di ridurre nuovamente la velocità e così mi ritrovai col dilemma se continuare a seguirla a vista o se rimanere indietro con i ritardatari. Cercando di fare il mio meglio per entrambe le situazioni, mi ritrovai in pratica a non aver fatto né l'una, né l'altra cosa, perdendo di vista sia le imbarcazioni dietro di noi che quella di fronte. Riuscii comunque a raggiungere il punto fissato per lo sbarco dove vidi le nostre truppe, ma le altre imbarcazioni si persero per strada, furono viste dal nemico e bersagliate, sebbene anche loro riuscirono, infine, a sbarcare i loro uomini in latri punti lungo la costa”.

Dopo aver aggirato il cimitero, i commandos sbarcati a Punta Nifti hanno teso un agguato ad un autocarro italiano in viaggio sulla strada tra Punta Nifti ed il porto, avente a bordo una pattuglia di tre marinai inviati in avanscoperta dalla stazione di vedetta di Monte Vigla dopo che sono stati sentiti gli spari nella zona del porto verso le 4.15 (passando vicino alla casa del segretario del delegato, situata vicino alla zona costiera del Mandracchio, i marinai avevano avvertito la sua famiglia di rimanere in casa perché stava per accadere qualcosa); nello scontro due dei marinai italiani sono stati uccisi ed il terzo gravemente ferito (viene salvato dall’intervento di Anastasia Arnaoutoglou, vecchia maestra greca che a dispetto della sua ostilità per la dominazione italiana rischia la sua vita per soccorrere il ferito e sarà per questo decorata con la Medaglia d’Argento al Valor Militare). I commandos hanno quindi attaccato l’abitato di Castelrosso, mentre i cacciatorpediniere sbarcavano altri commandos nella baia di Navalaka (sulla costa meridionale), ed hanno occupato rapidamente il palazzo del governatore (che viene trovato vuoto ma “con il letto ancora caldo”: il governatore sarà più tardi arrestato insieme ad altri dodici civili italiani), quello della dogana (dove stabilisce il suo quartier generale il tenente colonnello Symons), il porto ed altri edifici, tra cui il castello (da cui alle 6.40 il primo gruppo di commandos ha lanciato un razzo verde per segnalare ai rinforzi l’avvenuta conquista), una casermetta ed il locale ufficio dell’Air France.

Alle 5.45 la stazione radio di Castelrosso, che già alle 4.10 aveva lanciato un segnale di scoperta relativo ad una nave sospetta avvistata vicino all’isolotto di Ipsili, dà l’allarme e comunica, frammentariamente, la notizia dello sbarco britannico chiedendo aiuto a Rodi; alle 5.50 il capo posto Mastropaolo, dopo aver fatto rendere inutilizzabili le strumentazioni della stazione radio, si ritira con i rimanenti marinai, carabinieri e guardie di finanza e quattro civili verso l’altura di Paleocastro, dov’è stato allestito un caposaldo per resistere in caso di attacco nemico. Alle 5.30 anche il personale della stazione di vedetta di Vigla (al comando del secondo capo radiotelegrafista Giovanni Fresu) si è ritirato su Paleocastro, presso il forte Vicla; alle 6.15 la Ladybird è entrata in porto e si è ormeggiata ad una boa, sbarcando altre truppe nonostante il fuoco delle mitragliatrici che la bersagliavano da Paleocastro e da Capo Santo Stefano, dov’è rimasto isolato un piccolo gruppo di italiani.

I combattimenti, nei quali rimangono uccisi altri sei soldati italiani e sette sono feriti (gli italiani a più riprese raccolgono le bombe a mano lanciate dai commandos oltre la barricata preparata per la difesa e le gettano nuovamente al mittente prima che scoppino, ma talvolta queste esplodono in mano a chi le ha raccolte), sono proseguiti fino alle dieci del mattino, quando i 35 superstiti del presidio, accerchiati, attaccati con armi automatiche e bombe a mano e cannoneggiati anche dalla Ladybird, si sono arresi (i due terzi di essi riusciranno poi a fuggire durante i combattimenti per la riconquista dell’isola, mentre due agenti del Reparto Informazioni della Marina addetti alla cifratura dei messaggi rimarranno uccisi durante un tentativo di fuga). Nel corso di questi combattimenti i commandos hanno lamentato due morti, sette feriti ed un disperso.

La popolazione greca di Castelrosso ha accolto i britannici come liberatori, mostrandosi amichevole e disposta ad aiutare in ogni modo; gli abitanti hanno acclamato la bandiera britannica che veniva issata sul palazzo del governo, alle dieci del mattino, ed iniziato a cantare l’inno nazionale greco (non tutti, però: l’ex sindaco Ioannis Lakerdis segnalerà clandestinamente agli italiani le posizioni britanniche per agevolarne gli attacchi, e secondo una versione le sue indicazioni avrebbero indotto il comando italiano ad attaccare nella zona del porto, invece di sbarcare sulla costa meridionale dell’isola come inizialmente previsto). Nel pomeriggio un caicco italiano adibito al servizio postale, proveniente da Rodi ed evidentemente non al corrente dell’accaduto, entra a Castelrosso e viene prontamente catturato.

Il messaggio trasmesso dalla stazione radio prima di essere sopraffatta ha tuttavia determinato l’immediata reazione delle forze italiane del Dodecaneso: già alle sei del mattino dello stesso 25 febbraio alcuni caccia FIAT CR. 42 fatti decollare dal Comando Superiore Forze Armate dell’Egeo alle prime luci dell’alba hanno dato inizio agli attacchi aerei, e tra le 8.30 e le nove alcuni bombardieri italiani Savoia Marchetti S.M. 79 e S.M. 81 bombardano il porticciolo, il castello e le alture principali di Castelrosso (dove si sono trincerati i commandos: specialmente il Paleocastro e la zona nord del porto), colpendo con una bomba a poppa la Ladybird, che si trovava nel porticciolo dopo avervi sbarcato il suo drappello di Royal Marines (che avevano proceduto all’occupazione del porto ma sono stati successivamente reimbarcati dopo che il comandante dei commandos ha detto di non aver bisogno di loro), ed inducono le navi britanniche ad allontanarsi da Castelrosso (la Ladybird, che ha avuto tre feriti tra l’equipaggio, fa ritorno a Cipro), privando così i “commandos” della loro copertura e persino del collegamento radio con Alessandria. Gli attacchi aerei, con bombardamento e mitragliamento delle posizioni britanniche, proseguono fino alle 16.30, mentre la ricognizione aerea avvista due incrociatori in crociera protettiva una sessantina di miglia a sud di Castelrosso.

Alle 5.16 Crispi e Sella, ormeggiati a Lero, hanno ricevuto ordine di accendere le caldaie, mentre alla Lince è stato ordinato di spostarsi da Alimnia, dove si trova, a Rodi per ricongiungersi con la Lupo, ivi dislocata.

Alle 12.15 del 25 febbraio il Comando Superiore Forze Armate dell’Egeo ordina la riconquista di Castelrosso, affidando il comando dell’operazione all’ammiraglio Luigi Biancheri, comandante delle forze navali del Dodecaneso: a questo scopo partono da Rodi per prime, alle 15.30, le torpediniere Lupo (capitano di fregata Francesco Mimbelli) e Lince (capitano di corvetta Guido Cucchiara), aventi a bordo una compagnia di fucilieri della 50a Divisione Fanteria "Regina" da sbarcare a Castelrosso e l’ammiraglio Biancheri (imbarcato sulla Lince), intenzionato a dirigere personalmente l’operazione; mezz’ora più tardi Crispi e Sella giungono a Rodi da Lero, imbarcano un reparto di camicie nere del 201° Battaglione CCNN ed uno di marinai di Mariser Rodi e poi ripartono alle 16.30.

Ricognizioni aeree sono disposte a sud e ad est di Castelrosso, in un raggio di 70 miglia, a tutela delle unità incaricate dello sbarco contro eventuali interventi di forze navali nemiche, mentre caccia e bombardieri eseguono altri attacchi contro le truppe britanniche attestate nell’isola.

Rallentate dal mare agitato da maestrale in peggioramento, le siluranti italiane giungono a Castelrosso solo verso le otto di sera; per prima entra in porto la Lupo, che incontra difficoltà nelle operazioni di sbarco a causa del forte vento e della carenza di imbarcazioni adatte. Intanto, Crispi e Lupo cannoneggiano il castello e la stazione radio.

Alle 23.08, sulla scorta delle difficoltà incontrate nello sbarco e di una segnalazione della Lince relativa a navi nemiche in avvicinamento, che rischierebbero di cogliere le unità italiane all’alba (prima del completamento delle operazioni di sbarco: nella relazione sull’operazione si spiegherà che "sarebbero occorse alcune altre ore di sosta a causa dell’ostacolo creato allo sbarco dal forte vento: e non conveniva farsi trovare con 2 CC.TT. e 2 Torpediniere fermi in porto"), l’ammiraglio Biancheri decide di reimbarcare le truppe – fino a quel momento sono stati sbarcati circa 65 uomini del IV Battaglione del 9° Reggimento Fanteria "Regina" e della 201a Legione Camicie Nere "Egea" – e tornare a Rodi, per ritentare lo sbarco di giorno e con migliori condizioni meteomarine. Prima di andarsene, alle 23.45, le navi italiane imbarcano anche alcuni civili italiani affluiti nel porto dopo che si era sparsa la notizia del loro arrivo, ed i marinai sbarcati provvidero a distruggere la stazione radio.

Nel frattempo, anche i britannici incontrano difficoltà impreviste: gli attacchi aerei italiani sul porticciolo di Castelrosso hanno spinto l’ammiraglio Renouf ad annullare lo sbarco delle truppe da parte del Rosaura nelle ore diurne, rimandandolo alle tre di notte del 26, ma la lentezza del panfilo armato è fonte di ulteriori problemi, mentre Hereward e Decoy, incaricati di scortare il Rosaura, si ritrovano a corto di carburante a causa di una diversione alla ricerca delle navi italiane, della cui presenza sono stati informati dai commandos (ed anche della rotta seguita per arrivare a Castelrosso, che passava al largo della parte occidentale di Creta, invece che della parte orientale rivolta verso Caso, che sarebbe stata più corta di 160 miglia). Dopo aver ricevuto da questi ultimi la notizia che due navi italiane stanno attaccando la zona a nord del porto e forse anche sbarcando truppe, il comandante dell’Hereward ha infatti deciso di intervenire per interromperlo (ed ha anche ricevuto ordine in tal senso da Renouf), ma invece di andare immediatamente alla ricerca delle navi italiane ha cercato prima di ricongiungersi con il Decoy, che si trovava 35 miglia al largo, scelta che sarà in seguito pesantemente criticata. I due cacciatorpediniere non riescono a trovare le navi italiane, la cui presenza porta a modificare i piani, essendoci il rischio che le possano attaccare il Rosaura mentre sbarca gli Sherwood Foresters. L’ammiraglio Renouf decide quindi di posticipare ulteriormente lo sbarco, rimandandolo alla notte successiva, e cambiare le navi destinate ad effettuarlo.

Il grosso dei commandos si accampa presso Punta Nifti alle otto di sera, mentre ufficiali e sentinelle si insediano nel palazzo del governatore e nella sua abitazione.

Specchietto di navigazione del Crispi (dal Bollettino d’Archivio USMM)

26 febbraio 1941

Alle 2.30 Rosaura e cacciatorpediniere ricevono ordine di dirigere su Alessandria, dove il panfilo dovrà trasbordare gli Sherwood Foresters sui cacciatorpediniere che, frattanto rifornitisi di carburante, li sbarcheranno a Castelrosso. Nel mentre, i “commandos” possono contare solo sulle proprie forze.

Alle 6.30 Crispi, Sella, Lupo e Lince fanno ritorno a Rodi.

Gloucester, Bonaventure e Decoy arrivano ad Alessandria alle otto di sera del 26, mentre Hereward e Rosaura vi giungeranno solo alle quattro del mattino del 27; il Rosaura trasborda quindi i suoi Sherwood Foresters sul Decoy e sul cacciatorpediniere Hero (capitano di fregata Hilary Worthington Biggs), mentre il comando dell’operazione passa al capitano di vascello Everton del Bonaventure, essendosi sentito male l’ammiraglio Renouf (il tutto all’insaputa dell’ammiraglio Cunningham, come sarà mezzo in evidenza dalla successiva inchiesta). La Ladybird riceve ordine di rimanere a Famagosta.

Nel corso della giornata la Regia Aeronautica conduce voli di ricognizione su Castelrosso, ma non riesce ad accertare l’esatta consistenza numerica e dislocazione dei reparti britannici. Nondimeno, si prepara la spedizione per la riconquista dell’isola: Crispi e Sella vengono dislocati ad Alimnia, Lupo, Lince ed i MAS 541 e 546 a Rodi.

I commandos sono concentrati in maggioranza vicino a Punta Nifti, salvo che per pattuglie e vedette; il morale è basso per il mancato arrivo dei rinforzi e la scarsità delle provviste (avevano ricevuto viveri solo per ventiquattr’ore, essendo questa la durata della missione nelle previsioni, e adesso sono rimaste loro da mangiare solo pochi sacchetti di gallette biscottate catturate agli italiani a Paleocastro).

27 febbraio 1941

Alle 00.20 il motoveliero requisito Sant'Antonio, carico di viveri e materiale ed incaricato di coadiuvare le operazioni di sbarco, parte per Castelrosso al comando di un tenente di vascello; all’alba tre aerei vengono inviati in ricognizione sistematica in un raggio di 90 miglia a sud e ad est di Castelrosso (i voli di ricognizione continueranno fino al tramonto, gli aerei impegnati si daranno il cambio in volo).

Alle sei del mattino Lupo e Lince ripartono da Rodi con le truppe incaricate di riprendere Castelrosso (una compagnia di fucilieri del IV Battaglione del 9° Fanteria, un reparto di marinai e due cannoni anticarro da 47/32, per un totale di 240 o 258 uomini), e con i MAS 546 (capo sezione, tenente di vascello Antonio March) e 541 (guardiamarina Guido Cosulich) a rimorchio; sulla Lince si trova sempre l’ammiraglio Biancheri, che comanda la spedizione.

Alle sette del mattino (le 7.10 per altra fonte), intanto, il Decoy (con a bordo metà degli Sherwood Foresters) ed il cacciatorpediniere Hasty (capitano di corvetta Lionel Rupert Knyvet Tyrwhitt) lasciano Alessandria per Castelrosso, seguiti dopo un’ora e mezza da Bonaventure, Perth, Hero (con a bordo l’altra metà degli Sherwood Foresters) e dal cacciatorpediniere Jaguar (capitano di corvetta John Franklin William Hine). Decoy e Hero devono sbarcare gli Sherwood Foresters a Castelrosso e recuperare i commandos.

Lupo, Lince ed i MAS, che procedono tenendosi lontane dalla costa turca, giungono davanti a Castelrosso alle nove del mattino; alle 9.20, mollato il rimorchio dei due MAS, le torpediniere accostano per l’entrata da ovest, e dieci minuti dopo osservano fumogeni e razzi di segnalazione Very sollevarsi dal Monte Vigla, segnale di allarme lanciato dalle vedette britanniche sull’altura per allertare i compagni: queste ultime pensano addirittura che le due navi italiane avvistate siano degli incrociatori (poco dopo vengono intercettati segnali radio emessi da una stazione molto vicina). Alle 9.35 la Lince entra per prima in porto ed alle 10.10 dà inizio allo sbarco, coadiuvata dal MAS 541, mentre la Lupo rimane al largo; adesso il tempo è buono e lo sbarco delle truppe imbarcate sulla Lince viene completato in mezz’ora, mentre da terra truppe britanniche attestate nel cimitero di Castelrosso, a Punta Nifti e nell’isolotto di San Giorgio sparano raffiche di mitragliatrice contro la Lupo, causando alcuni feriti e destando la reazione dei cannoni della torpediniera, che riduce rapidamente i britannici al silenzio. Poi, anche la Lupo – da cui hanno frattanto scostato il MAS 546 ed il Sant'Antonio – entra in porto e sbarca le sue truppe. In tutto, le due torpediniere sbarcano 240 tra soldati e marinai imbarcati a Rodi e poi due plotoni aggiuntivi di trenta marinai ciascuno, avendo il podestà e la popolazione di Castelrosso raccontato all’ammiraglio Biancheri (sceso a terra con i primi soldati per informarsi sulla situazione), esagerando, che i britannici nell’isola sono più di 500, sebbene privi di artiglieria. La forza da sbarco è affidata al comando del tenente colonnello Ruggero Fanizza e del capitano di corvetta Alberto Mannini (quest’ultimo comanda i reparti di marinai, oltre un centinaio).

Notando una certa dispersione delle forze causata dai primi feriti e dalla necessità di trasporto dei materiali, Biancheri chiede ai suoi superiori rinforzi tali da consentire di completare la riconquista di Castelrosso in giornata.

Le due torpediniere escono dal porto ed appoggiano l’avanzata delle truppe sbarcate con le loro artiglierie, colpendo la zona portuale, la stazione radio, il palazzo del governatore e quello della dogana (e poi Punta Nifti ed il ciglio delle alture, da cui partono di quando in quando raffiche di mitragliatrice), provocando tre morti e sette feriti tra i commandos. Scena così descritta dal maggiore Rose, vicecomandante dei commandos: "Lo stato maggiore dei commandos intendeva dormire negli uffici della Dogana mettendo di guardia un servizio di sentinelle. Tutti erano piuttosto stanchi e iniziarono a dormire dalle ore 20.30. Improvvisamente alle ore 21.00 si accese una luce abbagliante nell'intero edificio e nell'area esterna del porto circostante. Si pensava che il nemico avesse lanciato dei fari a paracadute e che facessero dei bombardamenti di precisione. Queste luci molto forti dovevano invece senza dubbio provenire da una nave da guerra che stava entrando ora in porto. Dal momento che ci è servito per scoprire da dove proveniva la luce a quello dell'inizio del fuoco passarono pochissimi secondi. I comandanti fecero appena in tempo ad uscire fuori mentre il soffitto e le pareti crollavano. Seguirono molte sparatorie. Prima di raggiungere una posizione sicura, corse lungo qualche strada laterale e inavvertitamente nel raggio di luce dei riflettori di ricerca. Ritornammo rapidamente sui nostri passi e ci dividemmo in diverse direzioni. Ci furono delle difficoltà a riunire lo stato maggiore al buio lungo le strette stradine. Da lì potemmo vedere la sagoma scura della nave attaccante ad una distanza di appena 150 metri circa con le luci di ricerca che si muovevano tutt'attorno come delle lunghe dita di luce che cercavano di localizzare le nostre truppe. Il rumore e l'effetto esplosivo devastante è stato estremamente spaventoso".

Nel giro di poco tempo vengono riconquistati l’abitato ed il castello, dove sono liberati i soldati italiani del presidio catturati dai britannici (tra cui capo Mastropaolo ed il primo maresciallo dei carabinieri; altri, che si erano sottratti alla cattura nascondendosi, si ricongiungono con le truppe italiane) e catturata la bandiera britannica che viene portata sulla Lince come trofeo; entro mezzogiorno la compagnia fucilieri, comandata dal tenente colonnello Fanizza, s’impossessa dei rilievi del Vigla e del Paleocastro, mentre il reparto di marinai rastrella l’abitato.

Alcuni dei commandos vengono catturati, mentre il grosso ripiega verso il cimitero (dove rimane una compagnia di retroguardia; un’altra è rimasta isolata dall’altra parte del porto, dietro alla residenza del governatore) e poi verso Punta Nifti (dov’era stato stabilito l’accampamento principale dopo lo sbarco), scalando lo strapiombo di Avlonia e portando con sé parte dei prigionieri, che vengono però liberati da un battello della Lupo approdato vicino a Punta Nifti, il cui personale cattura anche alcuni britannici. L’ammiraglio Biancheri interroga i prigionieri italiani liberati ed i britannici catturati, organizza lo smistamento dei materiali e dispone che si presentino tutti gli uomini ed i ragazzi dai 14 ai 65 anni.

L’attacco italiano è appoggiato dalla Regia Aeronautica, che conduce continui voli di ricognizione e bombarda le posizioni britanniche del Paleocastro e poi di Punta Nifti, paralizzando i movimenti dei britannici, e dalle artiglierie delle torpediniere, che agiscono ad intervalli, “più per sondaggio che per la rivelazione di nemici”. Non sempre l’intervento dell’Aeronautica è benefico: verso le 13 un velivolo italiano spezzona per sbaglio i reparti italiani che stanno salendo la montagna, e l’ammiraglio Biancheri deve far del bello e del buono per farlo smettere e per rimandare avanti i soldati e marinai che l’attacco “amico” ha indotto a ripiegare verso l’abitato.

Verso le 15 Biancheri s’incontra con Fanizza, di ritorno in paese, dopo di che porta Lupo e Lince presso Punta Nifti per colpire da tergo i britannici, che però non sono visibili, ed organizza il trasporto di provviste, acqua e munizioni verso la prima linea.

Alle 15.10 il Crispi, appena rientrato a Rodi da una missione di scorta alla motonave Calino proveniente dall’Italia, viene inviato in appoggio alle torpediniere, giungendo a Castelrosso nel primo pomeriggio con dodici marinai dei reparti da sbarco; per ordine dell’ammiraglio Biancheri, il cacciatorpediniere sbarca un altro plotone di trenta marinai, che va a rinforzare le truppe che combattono nell’isola (portando il totale dei marinai sbarcati ad oltre 150), mentre i commandos continuano a resistere a Punta Nifti, ed alle 21.10 viene fatto partire da Rodi il Sella con una sezione di lanciafiamme, per snidarli definitivamente. Sempre da Rodi arrivano due idrovolanti, che portano un plotone di mortaristi con undici uomini e due mortai da 81 mm come rinforzo alle truppe attaccanti. L’avanzata italiana procede a rilento, per le difficoltà legate al terreno montuoso dell’isola e per l’incompleta conoscenza della situazione; al tramonto i britannici sono ormai assediati in un pianoro nella parte sudorientale dell’isola.

Alle 20.30, per intercettare eventuali invii di rinforzi britannici via mare e per evitare che eventuali forze navali britanniche inviate da Cipro o da zone vicine in aiuto dei commandos – stanti le chiamate radio captate al mattino – possano sorprendere le sue navi (con l’oscurità è venuta a mancare la ricognizione aerea, e dunque la possibilità di avvistamento e preavviso), l’ammiraglio Biancheri ordina l’uscita dal porto delle sue unità (passando per il passo di levante) e le dispone per la ricerca notturna a rastrello, con Lince (nave ammiraglia), Crispi e Lupo sulla direttrice da Castelrosso fino a trenta miglia a sud con un intervallo di sei miglia tra una nave e l’altra, i due MAS – che escono in mare indipendentemente – in posizione ravvicinata ai due passi d’accesso all’isola, circa tre miglia a sud, ed il sommergibile Galatea una ventina di miglia a sudovest di Castelrosso. Su ordine dell’ammiraglio Biancheri, il Crispi tiene acceso il proiettore al traverso, illuminando la costa tra Navalaka e Punta Nifti, ed insieme alla Lince colpisce con alcune salve – giudicate dall’ammiraglio “ben dirette” – i punti in cui potrebbero essere annidati i britannici, sparando una ventina di colpi.

In base agli ordini di Biancheri, le siluranti continueranno la crociera fino alle 3.30 del 28 febbraio, dopo di che dovranno raggiungere gli approcci di Rodi entro l’alba per non essere tagliate fuori da un eventuale intervento di forze navali avversarie. La notte è estremamente buia, il mare quasi calmo, ma dopo mezzanotte si alza un forte vento ed iniziano frequenti piovaschi.

Ricevuto l’ordine dell’ammiraglio Biancheri, i due MAS lasciano il porto di Castelrosso alle 20.10 e si dirigono in sezione verso il punto quattro miglia a sud del faro di Insili, dove giungono alle 21.30, fermando quindi i motori ed eseguendo ascolto idrofonico.

Il mare è calmo, il tempo fosco con piovaschi.

Lance del Crispi durante la riconquista di Castelrosso (da La Voce del Marinaio)

28 febbraio 1941

All’1.22 il Crispi, mentre procede con rotta verso nord, avvista due navi – probabilmente cacciatorpediniere – che gli passano di poppa con rotta 120°; subito lancia il segnale di scoperta ed accosta per inseguirle, ma queste scompaiono immediatamente nella foschia. Al contempo vengono osservate segnalazioni luminose azzurre fatte dal mare e dalla costa orientale dell’isola. L’ammiraglio Biancheri ordina allora al Sella di non entrare a Castelrosso, ma rimanere al largo in crociera e se possibile ricongiungersi con il resto della formazione.

Le navi avvistate dal Crispi sono quelle provenienti da Alessandria: i cacciatorpediniere si raggruppano presso Punta Nifti, mentre gli incrociatori rimangono ad incrociare più al largo. Quando giungono a Castelrosso, poco dopo mezzanotte (per altra fonte, alle 23 del 27), Hero e Decoy sbarcano nella baia di Navalaka un primo plotone degli Sherwood Foresters, che tuttavia sulla spiaggia di sbarco, che dovrebbe essere presidiata dai commandos, trova soltanto munizioni ed equipaggiamento sparpagliati in disordine, il cadavere di un commando e due sbandati che informano il maggiore Cooper del contrattacco italiano; poco dopo vengono incontrati altri quattro commandos, disarmati, scossi e demoralizzati. Altri commandos segnalano la loro presenza accendendo fiammiferi e facendo segnali luminosi con torce elettriche, e trasmettono messaggi che rasentano il panico: “Imbarcarsi adesso o mai più” e “Suicidio sbarcare altri uomini qui”. La spiaggia di Punta Nifti appare poco idonea allo sbarco degli Sherwood Foresters (circa metà dei quali vengono comunque messi a terra prima che si decida di interrompere lo sbarco), e diverse casse di munizioni cadono in acqua durante il trasbordo.

Tornato sul Decoy, dopo una breve consultazione con i suoi ufficiali Cooper conclude che la situazione appare compromessa a causa della mancanza di adeguato supporto aeronavale e di armi pesanti d’accompagnamento e della scarsità di munizioni, e viene dunque deciso di abbandonare l’isola: entro le 3.15 il grosso dei commandos, attestatosi su un pianoro all’estremità orientale dell’isola, viene frettolosamente reimbarcato sulle navi, che dirigono poi per Suda, mentre gli ultimi rimasti – non c’è stato il tempo di rintracciare, al buio ed incalzati dagli italiani, alcune pattuglie ancora in giro per l’isola – vengono circondati e catturati dagli italiani. Alcuni riusciranno a sottrarsi alla cattura ed a raggiungere fortunosamente la costa turca, o moriranno nel tentativo.

Alle 2.40 il cacciatorpediniere britannico Jaguar, incaricato di coprire la ritirata delle truppe britanniche da Castelrosso, si porta all’imboccatura del porticciolo ed avvista il Crispi all’ormeggio (per altra fonte, bersaglio di questo attacco sarebbero stati i MAS; comunque evidente una discrepanza nell’orario, visto che a quell’ora tutte le navi italiane erano già uscite dal porto), lanciando contro di esso cinque siluri, nessuno dei quali va a segno nonostante sulla nave britannica vengano avvertite quattro esplosioni (sono i siluri che esplodono contro la banchina: due scoppiano nel porto, uno nel Mandracchio). Poco dopo, il Jaguar avvista due scie di siluro che gli passano una decina di metri a poppa; apre il fuoco contro il Crispi e ritiene a torto di aver messo a segno due colpi, dopo di che il riflettore si rompe e dev’essere sparato un colpo illuminante, ma a causa del tempo perso nel frattempo è stato perso il contatto con la nave italiana ed il duello si conclude così senza vincitori né vinti.

Lo scoppio dei siluri lanciati dal Jaguar contro la banchina ha tuttavia provocato alcune perdite da parte italiana: l’esplosione ha infatti investito una postazione mitragliera del Crispi, ferendo un ufficiale ed uccidendo il sottocapo nocchiere Carlo Gianotti, di 19 anni, da Sassari, ed il marinaio S.D.T. Cataldo Palumbo, di 22 anni, da Pulsano. Palumbo sarà sepolto nel cimitero di Castelrosso, mentre il corpo di Gianotti, gettato in mare dall’esplosione, non sarà mai ritrovato; entrambi saranno decorati con la Croce di Guerra al Valor Militare alla memoria, con motivazione «Facente parte di un reparto da sbarco nell’isola di Castelrosso per controbattere la occupazione nemica perdeva la vita per azione di fuoco nemica, mentre si trovava al posto di guardia alla sua mitragliatrice».

Nel frattempo, il peggioramento delle condizioni meteomarine induce ad ordinare ai MAS di rientrare a Rodi, mentre le altre siluranti si spostano dapprima verso sud e poi verso ovest, con rotte oblique (in modo da facilitare un incontro con il nemico) ed alternate, continuando la ricerca.

Alle 2.55 (per altra fonte le 2.53), mentre procede a dieci nodi su rotta 100° (verso est), il Crispi avvista al traverso a sinistra, a 2000-2500 metri di distanza (che è la distanza massima di avvistamento, date le condizioni di visibilità) su beta approssimato 50°-60°, un’unità avente rotta 120° che dalla sagoma allungata identifica come un incrociatore (il comandante Ferruta scriverà nel suo rapporto che aveva «due alberi inclinati verso poppa e due fumaioli o sovrastrutture ben distaccate e relativamente basse… ritengo fosse un incrociatore contraereo sebbene la sagoma richiamasse il tipo Edinburgh»; per altra versione una vedetta avrebbe avvistato due sagome, una delle quali identificata come un incrociatore classe Coventry); lancia il segnale di scoperta e poi accosta subito a sinistra con tutta la barra verso la nave avversaria. Quando la prua del Crispi è nella sua direzione, il comandante Ferruta fa lasciare cinque gradi di barra e con un angolo di circa 15° lancia a breve intervallo due siluri dal lato di dritta, da circa mille metri di distanza. Poi, fa nuovamente mettere tutta la barra a sinistra e portare le macchine sull’avanti tutta.

L’“incrociatore” non manifesta reazioni e scade rapidamente verso la poppa del Crispi, il cui comandante decide di continuare l’accostata a sinistra per seguirlo – allo scopo, fa ridurre le macchine a mezza forza – e lanciare altri due siluri dall’altro lato, ma prima di portarla a termine perde di vista la nave nemica. Poco dopo, però, avvista sempre a sinistra una sagoma di incrociatore, forse sempre la stessa nave di prima che ha invertito la rotta e si presenta adesso di controbordo: il comandante Ferruta fa lasciare la barra, ma ben presto si rende conto che la nave avversaria si sta adesso rapidamente spostando verso sinistra, avvicinandosi. Prende pertanto la decisione di lanciare i siluri dal lato sinistro, raggiungendo la direzione dell’angolo di mira con un’accostata a sinistra e facendo mettere tutta la barra da quel lato; la rapidità rotatoria della prua, tuttavia, è di poco superiore a quella con cui si sposta il bersaglio, e così il Crispi raggiunge a fatica l’angolo di mira di 25°. A questo punto, essendo la sagoma dell’unità nemica vicinissima, il Crispi lancia un terzo siluro dal lato sinistro da soli 500 metri di distanza. Subito dopo, il comandante Ferruta fa mettere la barra a dritta ed ordina con i timpani la massima forza alle macchine. In quel momento la nave avvistata accende due proiettori, illuminando in pieno il Crispi, apre subito il fuoco con intenso tiro battente ed illuminante di cannoni e mitragliere (per altra versione avrebbe anche invertito la rotta per avvicinarsi), e Ferruta ordina di rispondere al fuoco: la mitragliera da 40 mm di sinistra del Crispi apre immediatamente il fuoco, e poco dopo anche il complesso poppiero da 120 mm spara la prima salva, ma un problema tecnico fa sì che le prime salve siano sparate con poca accuratezza e manchino il bersaglio.

L’accostata della nave italiana sulla dritta porta rapidamente la sua poppa in direzione del proiettore dell’unità nemica, ed il comandante Ferruta dà ordine di scontrare la barra, ma il timoniere lo informa che il timone si è inceppato e non risulta più possibile muoverlo; Ferruta gli dice di provare a muovere la ruota nei due sensi, mentre la nave nemica continua a sparare sul Crispi, tirando anche diversi colpi illuminanti che accendono bengala sul cielo del cacciatorpediniere italiano, davanti alla prua. Alla luce del proiettore sono ben visibili colonne d’acqua di fianco alla plancia, a proravia ed a pochi metri dallo scafo verso poppa; Ferruta ritiene che siano sollevate da colpi da 100 mm, ed in effetti è così, perché la nave sconosciuta non è un incrociatore, ma di nuovo il Jaguar. Verso poppa sono ben visibili le vampe delle mitragliere quadrinate del cacciatorpediniere britannico, che sparano senza sosta; nel mentre, il timoniere del Crispi riesce finalmente a manovrare il timone, e la nave può così invertire l’accostata.

Poco dopo, un proiettile da 40 mm sparato da una mitragliera del Crispi colpisce il proiettore poppiero del Jaguar; secondo il rapporto di Ferruta «pur restando acceso il suo fascio luminoso risulta ridottissimo e inefficace», mentre da parte britannica si parla di una sua completa inutilizzazione imputandola però non al tiro del Crispi, ma ad un’avaria verificatasi proprio in quel momento. In ogni caso, l’eliminazione del proiettore rende inefficace il tiro dei cannoni del Jaguar, inducendolo così a rompere il contatto (secondo Ferruta, tuttavia, «restano i numerosi illuminanti e quasi certamente un altro proiettore che consentono ancora al nemico qualche salva della quale odo il rumore ma non vedo i colpi di caduta»). (Per altra versione, dopo l’inutilizzazione del proiettore il Jaguar avrebbe tentato di ritrovare l’avversario sparando un colpo illuminante, ma nel frattempo il Crispi si era dileguato approfittando dell’oscurità).

Le macchine del Crispi muovono a 320 giri in aumento, e la nave smette di zigzagare ed assume rotta 180°. Il cacciatorpediniere britannico continua il tiro illuminante per altri dieci minuti, ma i bengala si accendono a poppavia. In tutto il combattimento è durato un quarto d’ora; il Crispi ha sparato cinque salve con i pezzi da 120 mm (l’ufficiale di rotta, che ha funto da direttore del tiro, riterrà di aver messo almeno due colpi a segno nella zona prodiera) e varie raffiche con le mitragliere da 40 mm.

(Secondo un’altra versione, nonostante le rotte di controbordo avessero portato ad un rapido allontanamento delle due unità, la nave britannica avrebbe invertito la rotta ed inseguito il Crispi, continuando a lanciare illuminanti per un quarto d’ora).

Da bordo del Crispi è stata osservata una grossa nube sul fianco dell’“incrociatore” dopo il lancio dei siluri, il che induce a ritenere che uno di essi abbia colpito: il nostromo ed il capo silurista assicurano a Ferruta di aver visto una vampata sorgente dal mare presso la nave britannica molto prima che aprisse il tiro, e l’artificiere nei depositi munizioni ed il personale di guardia nelle sale caldaie riferiscono di aver avvertito allo scafo, poco dopo il lancio dei siluri, l’eco distinto di una esplosione prima che il Crispi aprisse il fuoco. Il comandante in seconda e l’ufficiale di rotta asseriranno di aver visto spegnersi definitivamente il proiettore molto basso sul mare, dichiarandosi certi che non si trattasse di bengala illuminanti, e riterranno di aver avuto contro due unità nemiche, delle quali una più arretrata avrebbe eseguito il tiro illuminante. L’ammiraglio Biancheri riterrà l’esito del lancio incerto, pur senza escludere del tutto che i siluri possano aver colpito. In realtà, nessuna delle armi è andata a segno (per una versione, i primi due siluri lanciati contro lo Jaguar sarebbero passati sotto il suo scafo senza esplodere, a quota troppo profonda, perché difettosi).

Il Jaguar riterrà, altrettanto erroneamente, di aver colpito il Crispi con due salve, ma in realtà la nave italiana non ha subito che lievi danni da schegge.

A bordo del Crispi nel breve duello si sono registrati due feriti, colpiti dai proiettili da 12,7 mm sparati dalle mitragliere del Jaguar: il capo elettricista Saulle Politi, ferito mentre si trovava vicino al portello della dinamo, ed il torpediniere Wladimiro Urbani, che si trovava vicino al tubo lanciasiluri che non ha lanciato. Al termine del combattimento il comandante Ferruta viene informato che i due feriti, pur perdendo sangue, sono ancora ai loro posti di combattimento e non vogliono muoversi; ordina al comandante in seconda di scendere dalla plancia per prestare loro soccorso. Un altro marinaio, servente alla mitragliera, ha riportato escoriazioni per due colpi di mitragliatrice che gli hanno sfiorato la fronte; l’ufficiale addetto al tiro ha evitato di stretta misura di essere colpito gettandosi sul ponte dopo che una raffica di mitragliera è passata appena sopra la sua testa. Sia Politi che Urbani riceveranno la Medaglia di Bronzo al Valor Militare (per Politi la motivazione sarà "Ferito ad una gamba da un colpo di mitragliatrice durante un combattimento notturno a distanza ravvicinata, restava al suo posto in coperta presso il locale dinamo rifiutando ogni medicazione, finché ad azione ultimata non interveniva l’ufficiale in 2a. Esempio di alto sentimento del dovere e di coraggio"; per Urbani, "Ferito ad un braccio da un colpo di mitragliatrice, durante un’azione notturna a distanza ravvicinata, si faceva legare l’arto offeso, rifiutandosi di lasciare il suo posto di combattimento, finché, ad azione cessata, non interveniva l’ufficiale in 2a; manifestazione di alto sentimento del dovere e di coraggio").

Nel frattempo anche la Lince, che si trovava a pochi chilometri intenta all’inseguimento di quelle che ritiene essere alcune piccole unità nemiche, è giunta in appoggio del Crispi, ma l’infittirsi dei piovaschi le fa perdere il contatto con l’avversario; il MAS 541 osserva il cannoneggiamento da lontano, ma non porta a fondo l’attacco perché incerto sulla reale possibilità di distinguere gli amici dai nemici. L’ammiraglio Biancheri scriverà nella sua relazione: «L’importanza dello scontro del Crispi, che si svolgeva a poche migliaia di metri mi ha consigliato di accorrere [con la Lince] là dove la preda era maggiore; tenuto anche conto della ridotta efficienza delle artiglierie, poiché un pezzo era disarmato (essendo 30 uomini sbarcati a CASTELROSSO) e l’avaria di una turbodinamo impediva l’impiego del proiettore. La posizione dell’incrociatore nemico era ben visibile attraverso il suo tiro ed i proiettori. Ordinai che tutte le siluranti facessero rotta verso ponente per portare più violento l’attacco e nello stesso tempo per non lasciarla tagliar fuori all’alba. Disgraziatamente l’infittirsi dei piovaschi ha permesso alle navi nemiche di accostare e rompere contatto prima che Lince e Lupo potessero giungere al lancio».

Alle 3.02 il MAS 546, mentre procede isolato verso Rodi, avvista sulla sinistra a ridotta distanza una torpediniera che riconosce come italiana, che defila di controbordo (probabilmente la Lince). Cinque minuti dopo avvista sulla sinistra, a circa 4000 metri di distanza a 60° dalla prua, l’accensione di un proiettore, seguita da quella di alcuni illuminanti e da rumore di cannonate; compreso che si tratta di unità avversarie e non sapendo dove sia il MAS 541, dirige per l’attacco isolatamente. Alle 3.13 il MAS 546 avvista due unità in linea di fila (ritenute essere incrociatori: una delle sagome sembra avere due fumaioli), una delle quali ha i proiettori accesi e puntati sul Crispi: portatosi all’attacco dal lato opposto rispetto al Crispi, alle 3.15 lancia in rapida successione due siluri con beta piuttosto stretto (35°-40°) contro la seconda nave britannica – sempre il Jaguar, che sta in quel momento facendo fuoco sul cacciatorpediniere italiano – da 700-800 metri di distanza, ma non colpisce (l’ammiraglio Biancheri giudicherà comunque che la sua azione abbia agevolato il disimpegno del Crispi).

Lupo e Sella non avvistano le navi britanniche, limitandosi ad avvistare i bagliori degli illuminanti da grande distanza.

Alle 3.30, ormai perso il contatto con l’avversario, tutte le navi dirigono su Rodi, come da ordini; alla stessa ora il Galatea, che ha osservato il duello tra Crispi e Jaguar credendo che fosse un cannoneggiamento contro la costa, avvista due cacciatorpediniere diretti verso di lui, ma nel dubbio che siano italiani s’immerge senza attaccare (le due navi ripassano poco dopo nei pressi e da parte italiana si riterrà poi che fossero i due “incrociatori” britannici). Le navi italiane entreranno a Rodi alle sette del mattino.

Una ricerca notturna da parte dei cacciatorpediniere britannici Nubian, Hasty e Jaguar tra Rodi e Castelrosso, sulla base di un contatto radar e dell’intercettazione di traffico radio nella zona, risulta infruttuosa.

Il mattino del 28 la riconquista di Castelrosso giunge al termine, le truppe italiane completano il rastrellamento dell’isola catturando alcuni militari britannici sbandati ed il materiale abbandonato dai commandos in ritirata. La ricognizione aerea, all’alba, non trova più traccia delle navi nemiche, al pari degli aerosiluranti fatti decollare per attaccarle.

I superstiti della spedizione britannica vengono sbarcati dalle loro navi a Suda (o La Canea) all’alba del 1° marzo, insieme a 12 prigionieri italiani ed al carico di posta prelevato dal caicco catturato.

Le perdite nei combattimenti sono ammontate in tutto a tre (per altra fonte cinque) morti, undici feriti, sette dispersi e 20 (per altra fonte 40) prigionieri tra i britannici, ed otto morti, undici o quindici feriti e dieci o dodici tra dispersi e prigionieri per gli italiani (altra fonte parla di un totale di 14 morti e 12 prigionieri, altra di 52 feriti). I morti di entrambe le parti verranno sepolti insieme nel cimitero dell’isola.

29 abitanti (greci) di Castelrosso verranno deportati a Rodi, poi a Coo ed infine a Brindisi dove saranno processati e condannati a varie pene detentive per aver aiutato i commandos britannici durante la breve occupazione dell’isola (“attività contro lo Stato”).

L’ammiraglio Biancheri concluderà nella sua relazione: "Un incrociatore nemico reagì violentemente cannoneggiando il Crispi; ma questo nostro C.T. rispose con efficacia danneggiando l’incrociatore e riuscendo a disimpegnarsi (…) Siluranti, Mas e Motonavicelle sbarcarono rapidamente le truppe; torpediniere bombardarono e mitragliarono a terra con gran precisione; un Mas attaccò l’incrociatore che faceva fuoco sul Crispi lanciandogli due siluri dal lato opposto; il che probabilmente giocò molto al disimpegno del Crispi (…) Il comportamento dei Comandanti e degli equipaggi impegnati fu degno delle migliori tradizioni. Il Comandante Ferruta, del Crispi, manovrò con perfetta calma e con grande audacia, riuscendo a lanciare 3 dei 4 siluri, a eseguire un tiro preciso e regolare (come ho personalmente osservato) e a disimpegnarsi con valore. La sua nave fu colpita soltanto da pochi colpi di mitragliatrice, che hanno fatto due feriti". A Rodi i soldati e marinai distintisi nel contrattacco saranno decorati al valore: tra gli altri ricevono la Medaglia di Bronzo al Valor Militare, a vivente, il comandante Ferruta del Crispi (con motivazione «Comandante di squadriglia di cacciatorpediniere, in una tenace azione di ricerca notturna, scoperta una forza navale nemica, col suo cacciatorpediniere attaccava risolutamente un incrociatore lanciando due siluri, invertiva poi la rotta rinnovando l’attacco ed il lancio di un terzo siluro a distanza serrata. Fatto segno a vivacissimo fuoco, manovrava con perfetta calma riuscendo a disimpegnarsi, e nel frattempo rispondeva con le artiglierie e mitragliatrici, danneggiando l’incrociatore nemico. Esempio di alta capacità e di cosciente valore»), il sottotenente di vascello Giuseppe Oriana del CrispiCoadiuvava il comandante nella manovra per un duplice consecutivo attacco e lancio notturno contro un incrociatore nemico; nel combattimento a breve distanza che ne seguiva, fatto aprire il fuoco delle armi, restava esposto sulle ali di plancia, dimostrando coraggio e sprezzo del pericolo»), il sottotenente di fanteria Luigi Garattoni, distintosi durante i combattimenti per la riconquista di Castelrosso, ed alla memoria il sottocapo radiotelegrafista Eligio Troiano, rimasto ucciso durante l’iniziale attacco dei commandos. La Croce di Guerra al Valor Militare andrà tra gli altri al sottocapo radiotelegrafista Mario Mecchia del presidio di Castelrosso, per aver opposto efficace difesa ed essersi poi sottratto alla cattura; al sottocapo radiotelegrafista Giovanni Fresu, per il suo ruolo nella difesa dell’isola; al sottocapo silurista Carmelo Sapienza, al marinaio segnalatore Carlo Panzacchi ed ai marinai Bernardo Di Ruocco, Augusto Negri e Renzo Sammovigo, offertisi volontari per partecipare allo sbarco e distintisi nei combattimenti; ai sottocapi torpedinieri Antonio Bianchini e Renato Pedemonte, per il loro ruolo nelle operazioni di sbarco.

Ben diverso il giudizio sul fallimento dell’operazione da parte britannica; l’ammiraglio Cunningham giudicherà "Abstention" come "un affare marcio [ch]e dà poco merito a tutti" ed incolperà Renouf per l’accaduto, accusandolo di aver “ceduto nel bel mezzo dell’operazione”, mentre una commissione d’inchiesta della Royal Navy attribuirà il fallimento dell’operazione al controllo dei cieli da parte italiana (la Regia Aeronautica ha potuto operare del tutto indisturbata, senza incontrare un singolo aereo britannico durante l’intera operazione, pur lamentando la perdita di un S.M. 81 abbattuto dal tiro contraereo britannico, il cui equipaggio viene salvato da un idrovolante da soccorso italiano) e concluderà che il comandante dell’Hereward, dopo essere stato informato dai commandos dell’arrivo delle navi italiane nella notte tra il 25 ed il 26 febbraio, non avrebbe dovuto perdere tempo riunendosi con il Decoy (che si trovava più al largo) prima di andare alla loro ricerca, ma invece agire subito, accusandolo di scarsa aggressività ed imputando alla sua indecisione il fallimento dello sbarco della forza principale. Unico risvolto positivo per i britannici, la cattura di un cifrario italiano Y-I e di alcuni messaggi in codice, consegnati il 4 marzo alla sezione crittografica di Heliopolis (vicino al Cairo) ed utilizzati, dopo tre mesi di studio da parte di un esperto arrivato dal Regno Unito, per decifrare i messaggi trasmessi dal Dodecaneso.

Lo stesso 28 febbraio il primo ministro britannico Winston Churchill, avuta notizia del fallimento dell’operazione, scriverà al suo ministro degli Esteri Anthony Eden, che si trova al Cairo, un telegramma per chiedere chiarimenti: “Sono piuttosto perplesso per qualcosa che ancora non sono riuscito ad accertare su quanto accaduto a Castelrosso. Il rapporto su Castelrosso non spiega esattamente quanti uomini siano effettivamente sbarcati; dove sono sbarcati; quanta distanza hanno percorso; cos’hanno fatto; che prigionieri hanno fatto; quante perdite hanno subito; come sia stato possibile che il nemico abbia potuto rafforzare la sua presenza dal mare nel momento in cui si supponeva che noi avessimo la supremazia marittima; quali sono state le forze navali e militari che hanno rafforzato il nemico; quando e dove sono arrivati; com’è stato possibile che quando era già stata annunciata la conquista dell’isola, si sia scoperto solo allora che una grande nave da guerra nemica fosse entrata in porto; se abbiamo mai conquistato il porto e le difese attorno ad esso. È cresciuta anche l’ansietà a causa dei numerosi attacchi aerei. Questo era prevedibile? Da dov’è provenuto? Dagli Italiani o dai Tedeschi? Prego accertare questi dettagli. Per queste ragioni è di vitale importanza capire l’intera sequenza di questo piano per Lei e i nostri militari”.

Il 7 marzo il comandante in capo delle forze britanniche in Medio Oriente fornirà maggiori informazioni sull’accaduto, cercando tuttavia di indorare la pillola, tanto che Churchill scriverà seccato in una lettera al suo principale consigliere militare e collegamento con lo Stato Maggiore generale, generale Hastings Lionel Ismay, “Mi sono è stato riferito solamente delle mistificazioni circa questa operazione ed è compito dello Stato Maggiore far maggior chiarezza. Voglio sapere come sia stato possibile che la Marina abbia consentito lo sbarco di così tanti rinforzi, quando in un affare del genere tutto dipende esclusivamente dalla capacità della Marina di isolare tutta l’isola. È necessario chiarire questo punto per impedire che questo possa ripetersi in occasione di operazioni più importanti. Nessuno dovrebbe far preoccupare la nostra nazione che ci sostiene in qualsiasi maniera ed è pertanto indispensabile che simili situazioni non abbiano a ripetersi mai più”. Cunningham viene così costretto a fornire maggiori dettagli ed a dare spiegazioni su come la Mediterranean Fleet non sia riuscita ad isolare Castelrosso ed a dare adeguato appoggio ai commandos; Esercito e Marina britannici si incolpano a vicenda per l’accaduto: il primo fa presente che una efficace difesa di Castelrosso è stata ostacolata dalla vicinanza delle basi aeree italiane a Rodi, la seconda lamenta la condotta dei commandos, che ha lasciato molto a desiderare.

Cunningham scriverà poi in una lettera al suo superiore, il primo lord del mare Alfred Dudley Pound: “La presa e l’abbandono di Castelrosso è un’operazione fallita che non dà credito a nessuno. Gli Italiani sono stati incredibilmente intraprendenti e non solo hanno bombardato l’isola, ma hanno cannoneggiato con precisione gli obiettivi e sbarcato le loro truppe dagli incrociatori [sic]. Per qualche imprevisto, non ha funzionato il sistema radio dell’esercito e ci siamo così trovati senza alcuna informazione su quello che stava succedendo. Questi commandos che abbiamo sono armati con un fucile mitragliatore ed un tirapugni, sì che non risulta che si possano difendere se seriamente attaccati [quella di Cunningham era un’iperbole ma in effetti i commandos inviati a Castelrosso disponevano solo di armamento leggero: tre mitragliatrici Bren, 70 fucili, 18 fucili mitragliatori Thompson, 45 pistole Mauser ed un certo numero di coltelli]. Avevo inviato ulteriori 25 marines armati di mitragliatrici a bordo del Ladybird, ma qualche pazzoide ha poi dato l’ordine di reimbarcarli. L’unica cosa che possiamo dire è che da questa esperienza abbiamo imparato molto e che non ripeteremo gli stessi errori”.

Verranno avviate inchieste sia a livello governativo che nelle forze armate, ed il 12 marzo si terrà ad Alessandria una riunione interforze per discutere a fondo dell’accaduto; la Royal Navy sarà chiamata in causa per non essere riuscita ad isolare Castelrosso impedendo ogni intervento delle forze navali italiane. Churchill incalzerà ancora: “Quali altre misure disciplinari dobbiamo prendere su questo deplorevole caso di operazioni sbagliate che sono accadute dopo ben 18 mesi di esperienza in guerra?”.

Sopra, copertina del “Mattino Illustrato” che celebra la riconquista di Castelrosso; sotto, i funerali dei caduti nella battaglia (da La Voce del Marinaio)


24 marzo 1941

Il Crispi (capitano di fregata Ugo Ferruta) ed il Sella (capitano di corvetta Arturo Redaelli) vengono inviati a Stampalia (l’isola più occidentale del Dodecaneso) per un nuovo tentativo di attacco contro il naviglio mercantile e militare britannico presente nella baia di Suda con i motoscafi esplosivi tipo MT della X Flottiglia MAS. Partendo da Stampalia tra le 16.30 e le 17.30, i due cacciatorpediniere possono giungere sei miglia a nord della penisola di Capo Acrotiri, punto designato per mettere a mare i barchini esplosivi, tra le 23 e le 24, dopo una navigazione di circa sei ore e mezzo.

Dopo i tentativi abortiti a gennaio e febbraio, nella terza decade di marzo le condizioni meteorologiche sono diventate favorevoli all’impiego degli MT e la ricognizione aerea ha mostrato che la baia è particolarmente affollata; il mattino del 25 gli ultimi voli di ricognizione vi avvisteranno l’incrociatore pesante York (entrato per rifornirsi dopo aver scortato da Alessandria a Malta il convoglio MW. 6, giunto nell’isola il 23 marzo), l’incrociatore leggero Gloucester, l’incrociatore antiaerei Calcutta (cui proprio nella notte tra il 25 ed il 26 si aggiungerà il similare Coventry, entrato all’1.20 del 26 per rifornirsi di carburante dalla nave cisterna Pericles), il cacciatorpediniere Hasty, la cisterna militare Cherryleaf, la nave appoggio Doumana e ben dodici navi mercantili, tra cui le navi cisterna Pericles, Desmoulea e Marie Maersk oltre a diversi bastimenti greci di più modeste dimensioni.

(Per altra fonte, il 24 marzo la ricognizione aerea avrebbe rilevato l’arrivo a Suda di un convoglio di dodici o sedici mercantili, scortati da tre cacciatorpediniere. Secondo la storia ufficiale dell’USMM, il mattino del 25 ricognitori che avevano sorvolato la baia di Suda avevano segnalato la presenza di un incrociatore, due cacciatorpediniere e dodici mercantili, mentre nel pomeriggio di quello stesso giorno, mentre Crispi e Sella erano già in navigazione verso Creta, un ultimo volo di ricognizione aveva accertato la presenza di un incrociatore ed otto mercantili, numero però aumentato con l’arrivo di York e Gloucester, di ritorno dall’operazione MC. 9, alle 14 del 25 marzo. I due incrociatori, dopo essersi riforniti di carburante, si sono ormeggiati entro il recinto protettivo delle reti parasiluri).

Egeomil ha quindi quindi deciso di procedere con un terzo tentativo nella notte tra il 25 ed il 26 marzo, emanando un nuovo ordine d’operazione.

Crispi e Sella giungono a Stampalia nel pomeriggio del 24 marzo, e vanno ad ancorarsi accanto al posamine ausiliario Lero, sul quale sono alloggiati i piloti dei barchini: il Crispi a sinistra, il Sella a dritta.

Lo stesso giorno ammara a Stampalia un idrovolante con disegni preparati sulla base degli ultimi rilievi fotografici della ricognizione aerea, che indicano le posizioni aggiornate delle ostruzioni e delle navi presenti nella baia (lo York è all’ancora vicino all’imbocco della baia, vicino agli sbarramenti, con navi cisterna e navi appoggio ormeggiate nei pressi).

25 marzo 1941

In mattinata giunge l’ordine di partire per la missione contro Suda (per altra versione questo sarebbe giunto solo alle 17.30 di quel giorno, ma questo risulterebbe in realtà essere stato l’orario della partenza), ma prima che possa avere esecuzione dei bombardieri britannici attaccano l’ancoraggio di Stampalia e colpiscono il Lero con delle bombe da 15 kg; anche Crispi e Sella subiscono lievi danni da schegge, due barchini esplosivi sono messi fuori uso e si lamentano un totale di sette morti e dieci feriti. Tra le vittime anche un marinaio del Crispi, il ventunenne Salvatore Palomba, da Torre del Greco; altri tre membri dell’equipaggio del cacciatorpediniere rimangono feriti.

L’attacco non fermerà l’operazione contro Suda: semmai rafforza la volontà degli incursori della X MAS di colpire i britannici per vendicare i compagni caduti. I marinai realizzano delle targhette con i nomi dei morti, e le applicano agli scafi dei barchini esplosivi, ridotti adesso a sei.

Crispi (capitano di fregata Ugo Ferruta) e Sella (capitano di corvetta Arturo Redaelli) partono da Stampalia alle 17, trasportando ciascuno tre “barchini esplosivi” tipo MT. I piloti dei barchini sono il tenente di vascello Luigi Faggioni (comandante), il sottotenente di vascello Angelo Cabrini, il capo meccanico di terza classe Tullio Tedeschi, il capo cannoniere di terza classe Alessio De Vito, il secondo capo meccanico Lino Beccati ed il sergente cannoniere Emilio Barberi; rimane in riserva il capo meccanico di terza classe Fiorenzo Capriotti.

Giunti alle 23.30 nel punto “X”, sei miglia a nord della penisola di Acrotiri (dieci, o per altra fonte quindici, miglia a nordovest dell’imbocco della baia di Suda), Crispi e Sella mettono a mare i sei barchini che alle 23.41 (per altra fonte alle 23.55, per altra ancora, decisamente erronea, alle 3.30 del 26 marzo), dopo aver ricevuto gli ultimi auguri di buona fortuna, partono per una missione di sola andata, procedendo in linea di fila a 6 nodi su rotta 230°, mentre i cacciatorpediniere invertono la rotta per rientrare alla base. La manovra di messa a mare degli MT ha richiesto pochi minuti. Il mare è calmo, il tempo buono, la luna assente, con notte buia sebbene stellata e un po’ fosca per una leggera nebbiolina che sale dal mare, il che favorirà l’avvicinamento dei barchini; il sorgere del sole è previsto per le 5.18, pertanto la missione dovrà essere portata a termine prima di allora.

La baia, stretta (tra i 2 ed i 4 km) e profonda 15 km (situata sulla costa settentrionale dell’isola, da Punta Monaco a Capo Drepano, con l’imboccatura verso est, è caratterizzata da pendii aridi e scoscesi sulle coste settentrionali e meridionali, e boschi di ulivi sulla costa occidentale, più pianeggiante; presso l’imboccatura si trova un isolotto, detto isolotto di Suda e sormontato da rupi biancastre, ed i fondali sono di 10-12 metri all’inizio ma di 70-120 metri nella parte centrale), è protetta da tre barriere di reti ed ostruzioni, le prime due delle quali sono costituite da reti che uniscono l’isolotto di Suda alla costa, mentre la terza è formata da reti parasiluri all’interno della baia vera e propria. Una prima barriera è situata all’imbocco della baia, la seconda circa mezzo miglio più avanti (vicino ai forti che sorvegliano l’accesso), la terza all’estremità della baia, a protezione delle navi ancorate; gli MT sono stati modificati appositamente per scavalcarle.

Il tenente di vascello Luigi Faggioni (La Spezia, 1909-Chiavari, 1991), comandante dei sei incursori della X Flottiglia MAS che attaccarono la baia di Suda con altrettanti barchini esplosivi. Entrato in Marina nel 1928, fu imbarcato sulle siluranti per alcuni anni ed ebbe il suo primo comando nel 1937, sui MAS, per poi divenire aiutante di bandiera dell’ammiraglio Eugenio di Savoia-Genova. Assegnato alla I Flottiglia MAS nel giugno 1940, ebbe l’incarico di formare, addestrare e comandare il gruppo di incursori che condusse l’attacco a Suda, per il quale fu decorato di Medaglia d’Oro al Valor Militare con motivazione "Comandante di un reparto di Mezzi Navali d'Assalto, penetrava di notte, alla testa delle sue unità, nell'interno di una munita base nemica e, con sangue freddo esemplare, dopo aver superato tre ordini di ostruzioni e sbarramenti, le guidava all'attacco, riuscendo ad affondare un incrociatore pesante e due grandi piroscafi. Mirabile esempio di audacia, congiunta con la più salda ed eroica determinazione di portare a termine la missione affidatagli per la gloria della Patria e della Marina". Rilasciato dalla prigionia nel gennaio 1945 e promosso intanto a capitano di corvetta, durante le fasi finali del conflitto fu comandante in seconda di Mariassalto, successore della X Flottiglia MAS come reparto d’assalto della Marina italiana cobelligerante con gli Alleati. Continuò la sua carriera nel dopoguerra, ricoprendo vari incarichi tra cui il comando del Centro Subacquei ed Incursori del Varignano, quello della base navale di La Spezia e quello del Comando Militare Marittimo Autonomo della Sardegna, fino al 1970, raggiungendo il grado di ammiraglio di squadra.

Il sottotenente di vascello Angelo Cabrini (Pavia, 1917-Roma, 1987). Entrato nell’Accademia Navale di Livorno nel 1936, nel febbraio 1940 fu imbarcato sull’incrociatore Duca degli Abruzzi e nel giugno successivo fu assegnato a richiesta alla I Flottiglia MAS, dove divenne pilota di barchino esplosivo. Pilota dell’MT 2, fu protagonista dell’affondamento dello York, per il quale ricevette la MOVM con motivazione "Coraggioso e tenace operatore di mezzi d’assalto di superficie, con altri valorosi già compagni dei rischi e delle fatiche di un durissimo addestramento, dopo una difficile navigazione forzava una ben munita base navale avversaria superando un triplice ordine di ostruzioni. Nella rada violata, quando già era imminente l’alba, con freddezza pari al coraggio, attendeva, riunito ai compagni, che il comandante della spedizione procedesse al riconoscimento ravvicinato degli obiettivi e li assegnasse all’audacia dei suoi uomini. Una volta ottenuto il via, si lanciava con saldo animo all’assalto contro un incrociatore pesante nemico affondandolo con l’azione concomitante di un altro assalitore e coronando del successo, con l’alto spirito aggressivo, la concezione teoricamente perfetta dell’impresa. Degno in tutto delle più pure tradizioni di eroismo della Marina italiana". Rilasciato dalla prigionia nel marzo 1945, partecipò agli ultimi mesi di guerra con Mariassalto e poi allo sminamento dell’Alto Adriatico nel dopoguerra. Come Faggioni proseguì la carriera nel dopoguerra e come lui ebbe il comando del Centro Subacquei ed Incursori del Varignano e del Comando Militare Marittimo Autonomo della Sardegna, nonché delle Scuole CEMM di Taranto, dell’Accademia di Livorno e della III Divisione Navale, raggiungendo il grado di ammiraglio di squadra. Fu posto in ausiliaria per limiti di età nel 1977.

Il capo meccanico di terza classe Tullio Tedeschi (Isernia, 1910-1987). Arruolatosi volontario in Marina nel 1927, prestò servizio su cannoniere, cacciatorpediniere e sommergibili salendo in grado da marinaio meccanico a capo meccanico di terza classe, partecipando alla Guerra d’Etiopia per poi passare sui MAS sul finire degli anni Trenta. Entrato nella I Flottiglia MAS nel 1940, divenne pilota di barchino esplosivo e protagonista con Cabrini dell’affondamento dello York, per il quale ricevette la MOVM con motivazione "Coraggioso e tenace operatore di mezzi d'assalto di superficie, con altri valorosi già compagni dei rischi e delle fatiche di un durissimo addestramento, dopo una difficile navigazione, forzava una ben munita base navale avversaria, superando un triplice ordine di ostruzioni. Nella rada violata, quando già imminente era l'alba, con freddezza pari al coraggio attendeva, riunito ai compagni, che il Comandante della spedizione procedesse al riconoscimento ravvicinato degli obiettivi e li assegnasse all'audacia dei suoi uomini. Una volta ottenuto il via si lanciava con saldo animo all'assalto contro un incrociatore pesante nemico affondandolo, con l'azione concomitante di un altro assalitore e coronando con successo, con l'alto spirito aggressivo, la concezione teoricamente perfetta dell'impresa. Degno in tutto delle più pure tradizioni di eroismo della Marina italiana". Rilasciato dalla prigionia nel marzo 1944, entrò a far parte di Mariassalto fino alla fine della guerra; si congedò nel 1947 con il grado di capo di prima classe. Morì, per coincidenza della Storia, appena un mese prima di Cabrini, col quale condivideva il merito dell’affondamento dello York.

Il secondo capo meccanico Lino Beccati (Porto Tolle, 1913-Roma, 1999). Arruolatosi volontario in Marina nel 1931, partecipò ad una campagna in Oceano Indiano sulla nave idrografica Ammiraglio Magnaghi, poi fu destinato alla I Squadriglia MAS a La Spezia e durante la guerra d’Etiopia prestò servizio, come il futuro compagno d’armi Tullio Tedeschi, presso il Centro Comunicazioni della Marina di Asmara. Fu successivamente trasferito sulla corazzata Giulio Cesare e nel 1940 entrò a far parte della I Flottiglia MAS; a Suda colpì con il suo barchino la nave cisterna Pericles, ricevendo la MOVM con motivazione "Coraggioso e tenace operatore di mezzi d'assalto di superficie, con altri valorosi - già compagni nei rischi e nelle fatiche di un durissimo addestramento - dopo difficile navigazione forzava una ben munita base navale avversaria, superando un triplice ordine di ostruzioni. Nella rada violata, quando già era imminente l'alba, con freddezza pari al coraggio, attendeva riunito ai compagni che il Comandante della spedizione procedesse al riconoscimento ravvicinato degli obiettivi e li assegnasse all'audacia dei suoi uomini. Una volta ottenuto il via, si lanciava con saldo animo all'assalto contro grossa petroliera affondandola e coronando così del successo, con l'alto spirito aggressivo, la concezione teoricamente perfetta dell'impresa. Degno in tutto delle più alte tradizioni di eroismo della Marina italiana". Rilasciato dalla prigionia nel febbraio 1945, continuò a lungo la carriera in Marina, diventando ufficiale e direttore di macchina di varie unità negli anni Cinquanta e raggiungendo nel 1963 il grado di capitano di corvetta del Corpo Equipaggi Militari Marittimi.

Il sergente cannoniere Emilio Barberi (Forte dei Marmi, 1917-2002). Entrato in Marina nel 1935, nella seconda metà degli anni Trenta prestò servizio su siluranti e sommergibili, partecipando alle guerre d’Etiopia e di Spagna ed alla conquista dell’Albania; allo scoppio del secondo conflitto mondiale era imbarcato su un MAS, e nell’ottobre 1940 iniziò l’addestramento come operatore di mezzi speciali. Alcune fonti accreditano a lui, invece che a Beccati, il danneggiamento della Pericles; ricevette la MOVM con motivazione "Coraggioso e tenace operatore di mezzi d’assalto di superficie, con altri valorosi, già compagni nei rischi e nelle fatiche di un durissimo addestramento, dopo difficile navigazione forzava una ben munita base navale avversaria, superando un triplice ordine di ostruzioni. Nella rada violata, quando già era imminente l’alba, con freddezza pari al coraggio, attendeva riunito ai compagni che il comandante della spedizione procedesse al riconoscimento ravvicinato degli obiettivi e li assegnasse all’audacia dei suoi uomini. Una volta ottenuto il via, si lanciava con saldo animo all’assalto contro grossa petrolifera affondandola e coronando così del successo, con l’alto spirito aggressivo, la concezione teoricamente perfetta dell’impresa. Degno in tutto delle più alte tradizioni di eroismo della Marina italiana". Rientrato dalla prigionia nell’aprile 1945, proseguì la carriera assolvendo vari incarichi sia a bordo che a terra, tra cui due periodi al Centro Subacqueo del Varignano. Divenuto ufficiale CEMM, lasciò il servizio attivo con il grado di capitano di corvetta.

Il capo cannoniere di terza classe Alessio De Vito (Summonte, 1906-1982). Arruolatosi volontario in Marina a soli sedici anni, partecipò nel 1923 all’occupazione di Corfù a bordo della corazzata Giulio Cesare; negli anni successivi alternò periodi d’imbarco a corsi di perfezionamento e nella seconda metà degli anni Trenta partecipò alla guerra d’Etiopia ed all’invasione dell’Albania. Trasferito a domanda nei mezzi d’assalto, ottenne a Suda la MOVM con motivazione "Coraggioso e tenace operatore di mezzi d'assalto di superficie, con altri valorosi - già compagni nei rischi e nelle fatiche di un durissimo addestramento - dopo difficile navigazione forzava una ben munita base navale avversaria, superando un triplice ordine di ostruzioni. Nella rada violata, quando già era imminente l'alba, con freddezza pari al coraggio, attendeva riunito ai compagni che il Comandante della spedizione procedesse al riconoscimento ravvicinato degli obiettivi e li assegnasse all'audacia dei suoi uomini. Una volta ottenuto il via, si lanciava con saldo animo all'assalto contro grossa petroliera affondandola e coronando così del successo, con l'alto spirito aggressivo, la concezione teoricamente perfetta dell'impresa. Degno in tutto delle più alte tradizioni di eroismo della Marina italiana". Fu l’ultimo degli incursori di Suda a rientrare dalla prigionia, nel giugno 1946, a guerra finita da più di un anno. A fine 1947 fu collocato in ausiliaria a richiesta, con il grado di capo cannoniere di prima classe, venendo in seguito promosso sottotenente CEMM della riserva.

26 marzo 1941

I barchini giungono all’imbocco della baia di Suda alle 2.30, dopo due ore e mezza di navigazione; viene avvistato un cacciatorpediniere britannico che sta pattugliando l’accesso alla baia, ed i barchini passano sulla sua dritta a soli 150 metri di distanza, senza essere visti.

Non appena l’apertura della baia è ben visibile, il tenente di vascello Faggioni ordina di accostare a dritta e dirige per passare al centro dell’apertura esistente tra Punta Suda e l’omonimo forte. Dopo qualche minuto Faggioni osserva delle segnalazioni luminose con luci azzurre da Punta Spada a Forte Suda, e risposta da quest’ultimo; essendo evidente che quello specchio d’acqua è oggetto di particolare attenzione, decide quindi di passare fra l’isolotto e la costa settentrionale ed ordina di accostare a dritta, ordine che viene prontamente eseguito dagli MT sempre rimanendo in formazione di marcia.

A questo punto Faggioni avvista inaspettatamente una settantina di metri di prua una prima fila di ostruzioni, costituita da gavitelli e situata a tre miglia dal fondo della baia, non segnalata nelle informazioni ricevute prima di partire; ne dà subito avviso agli altri barchini ed imbocca il varco esistente tra due gavitelli, azionando a metà il blocco di sollevamento delle eliche e passando senza problemi, seguito dagli altri MT in linea di fila. Il primo sbarramento, poco affiorante ed a maglie piuttosto larghe (c’è uno spazio di due metri tra un gavitello e l’altro, e la catena che li collega non è affiorante), viene così superato agevolmente. Ultimi a passare sono Cabrini e Beccati, incaricati di far saltare le ostruzioni qualora queste non fossero superabili; i barchini proseguono poi con i motori al minimo.

Pochi minuti dopo Faggioni avvista la seconda fila di ostruzioni, distante 500 metri dalla prima e costituita da ostruzioni galleggianti e reti parasiluri sostenute da gavitelli cilindrici ogni due metri, che dirige per aggirare passando a ridosso del forte, dove ci sono scogli affioranti le cui forme possono facilmente essere confuse con quelle dei barchini; azionato stavolta tutto il blocco di sollevamento delle eliche, riesce anche stavolta a passare senza grossi problemi, alle 2.45 circa. Il barchino del sergente Barberi, che segue Faggioni, rimane invece impigliato, perdendo la fascetta ed il salvagente; riesce però a recuperare il salvagente ed a superare le ostruzioni, dopo di che passano anche gli altri barchini, senza ulteriori problemi, mentre Faggioni li aspetta a motore fermo nella zona d’ombra creata dall’isolotto. La densa foschia permette ai barchini di passare senza essere visti da riva, nonostante alcuni proiettori setaccino le acque della baia in prossimità del secondo sbarramento (secondo fonti britanniche, i proiettori e le luci delle ostruzioni esterne e degli sbarramenti retali erano state accese due ore prima dell’arrivo del Coventry per agevolarne l’entrata nella baia, e furono spente poco dopo il suo arrivo).

Una volta che tutti e cinque i suoi sottoposti sono passati, Faggioni si rimette alla testa del gruppo ed accosta a sinistra, per portarlo più in mezzo alla baia. Mancando poco più di due ore e mezza alle prime luci dell’alba (previste per le 5.18), e tenendo conto delle possibili perdite di tempo che potrebbero scaturire dal superamento della terza ostruzione, Faggioni ordina di aumentare i giri e poi assume rotta 290°, verso la testata settentrionale dell’ostruzione, situata circa tre miglia in fondo alla baia. Alle 2.55 vengono viste sulla sinistra, piuttosto alte sul mare, due luci che sulle prime Faggioni scambia per i fari di un’automobile in transito sulla strada costiera, ma che comprende poi essere in realtà i proiettori di manovra di una nave da guerra, che setacciano per vari minuti il centro della baia. I barchini proseguono per la loro rotta, e dopo qualche minuto i proiettori li superano senza notarli, ed illuminano un grosso gavitello da ormeggio in fondo al porto.

Alle 4.30 (4.15 per altra fonte) Faggioni avvista le grosse boe di testata dell’ultima barriera (che dista circa tre miglia dalla seconda), unite alla costa, in prossimità di un piccolo edificio in muratura, da una catenaria di una sessantina di metri; l’ostruzione è del tipo a sfera, collegata da gomiti ad astuccio, non superabile con mezzi silenziosi, dunque Faggioni cerca un varco e lo trova tra l’ultima boa e la costa settentrionale, il che consente ai barchini di aggirare l’ostruzione a lento moto (per altra versione, i piloti dei barchini sollevano la grossa catena che collega l’ultima boa all’estrema destra con uno spuntone di roccia, a pochi metri da terra, e passano con i barchini sotto di essa: passano così vicini alla riva da sentire chiaramente le voci delle sentinelle nella piccola costruzione, ma non vengono notati; per altra ancora il terzo sbarramento, distante 400 metri dal secondo, sarebbe stato costituito da reti parasiluri sostenute da boe cilindriche distanti un metro e mezzo l’una dall’altra, e sarebbe stato superato nel volgere di circa quattro minuti alzando i blocchi ed abbassando i cilindri con il peso del corpo). Superato quest’ultimo ostacolo, i barchini accostano subito a sinistra e si portano verso il centro della baia seguendo rotta parallela all’ostruzione; pochi minuti dopo Faggioni segnala agli altri di fermare i motori ed avvicinarsi al suo barchino usando i remi. Il sergente Barberi sussurra a Faggioni: “Ma davvero siamo già dentro?”. Si beve cognac e zucchero per vincere la stanchezza, si parla con freddezza e lucidità.

Sono le 4.45 e gli hanno già raggiunto il punto di partenza per l’attacco, all’estremità della baia: sono in anticipo rispetto alle condizioni di luce ottimali per l’attacco, quindi Faggioni decide di aspettare. Le masse scure delle navi all’ancora sono visibili a poche centinaia di metri: servendosi di un potente binocolo di fabbricazione tedesca, il tenente di vascello Faggioni avvista la sagoma di un incrociatore (lo York) a trecento metri di distanza sulla sinistra, una petroliera sulla sua destra ed un gruppo di mercantili a proravia. Compie una breve ricognizione avvicinandosi da solo alle navi per osservarle meglio, quindi sceglie i bersagli più grossi e li assegna ai suoi uomini, passando a turno il binocolo a Cabrini ed agli altri per far loro osservare bene la posizione di ogni bersaglio.

Lo York, dal quale proviene rumore di turboventilatori, viene assegnato a Cabrini e Tedeschi, con Faggioni e Beccati in riserva qualora i primi due dovessero fallire, ed i mercantili in fondo alla baia a De Vito e Barberi (per altra fonte solo Faggioni sarebbe rimasto in riserva, pronto a colpire se qualcuno dei suoi uomini avesse mancato il bersaglio, mentre a Beccati sarebbe stata assegnata subito la nave cisterna Pericles, ormeggiata davanti all’abitato di Suda, ed a De Vito e Barberi due navi più piccole, probabilmente un’altra nave cisterna ed un cacciatorpediniere; per un’altra a Cabrini e Tedeschi fu assegnato lo York, a Beccati e Barberi una nave cisterna mentre Faggioni e De Vito rimasero in riserva; per un’altra ancora a Cabrini e Tedeschi fu assegnato lo York, a Barberi la Pericles mentre De Vito e Beccati ebbero inizialmente l’ordine di rimanere vicini a Faggioni, che dopo aver visto York e Pericles colpiti ordinò a Beccati di attaccare un’altra nave cisterna, dopo di che attaccarono anche Faggioni e De Vito). In attesa delle prime luci che rendano un po’ più visibili i bersagli, Faggioni ricorda ai suoi uomini il punto di riunione in cui dovranno ritrovarsi dopo l’attacco; dopo circa un quarto d’ora si rende necessario riavviare i motori per contrastare l’effetto della corrente, che fa scarrocciare i barchini verso la porta della rete parasiluri.

Lo York è ormeggiato circa 200 metri all’interno dell’ostruzione, con la prua indietro ed un angolo di 90° rispetto ai barchini, mentre i mercantili sono sparpagliati più indietro (uno di essi è circa cento metri sottovento rispetto agli MT). Cabrini e Tedeschi dovranno attaccare per primi, non appena le condizioni di visibilità lo consentiranno, mentre gli altri barchini dovranno andare all’attacco non appena avranno sentito la prima esplosione (secondo i rapporti di De Vito e Barberi; Faggioni nel suo rapporto scrive invece che l’ordine era di partire all’attacco non appena avessero sentito Cabrini e Tedeschi partire all’attacco dello York). Intenzione di Faggioni sarebbe stata di tenere anche De Vito, oltre a sé stesso e Beccati, inizialmente in riserva nel caso Cabrini e Tedeschi fallissero l’attacco contro lo York, ma quando torna dal giro di ricognizione finale non lo trova più: De Vito, infatti, ha sentito i rumori degli altri barchini che partivano all’attacco e si è messo a sua volta in cerca di un bersaglio (quando si incontreranno nuovamente dopo la cattura e Faggioni gli chiederà spiegazioni, De Vito asserirà che l’allontanamento di Barberi verso il suo bersaglio l’ha indotto in errore circa la direzione in cui si sono spostati gli altri barchini e che, avendo tentato di riunirsi con Faggioni senza però trovarlo, quando Cabrini e Tedeschi sono partiti contro lo York lui è partito verso una massa scura risultata poi essere un tratto di costa, per poi cambiare bersaglio ed attaccare un mercantile).

I barchini si dividono ed alle cinque del mattino, mentre il cielo inizia a schiarirsi e sullo York iniziano ad esservi segni di risveglio (si sente fischiare la sveglia e dal fumaiolo prodiero esce fumo: Faggioni teme che i fischi non indichino la sveglia ma il posto di manovra per uscire, il che lo spinge ad ordinare di attaccare senza ulteriore indugio) e si accendono le luci verdi e rosse al centro dello sbarramento (segno probabile che la porta della rete parasiluri sta per aprirsi per lasciar uscire una nave), Faggioni dà ordine a Cabrini e Tedeschi di partire all’attacco: “Ragazzi, l’incrociatore se ne va, non c’è più tempo da perdere”.

I barchini si avvicinano alle navi a velocità minima, per poi accelerare quando sono a 500 metri dal bersaglio; Cabrini e Tedeschi puntano a velocità minima contro lo York, che oltre ad essere l’obiettivo più importante è anche la nave più vicina alla barriera. Si avvicinano fino a riuscire a distinguere nettamente la nave; una volta giunti a circa 300 metri, essendo ancora troppo buio (anche per via della costa alta, e per giunta lo York è mimetizzato, il che rende ancor più difficile distinguerlo), si fermano in attesa di un po’ di luce. Passato un quarto d’ora, alle 5.30 Cabrini, dopo essersi assicurato che anche Tedeschi riesca a vedere il bersaglio, dà ordine di attaccare, temendo che i britannici li avvisterebbero se attendessero ancora; i due barchini procedono affiancati con tutto il gas aperto finché, giunti a 70-80 metri dall’incrociatore britannico, i due piloti bloccano il timone per evitare che il mezzo devi dalla rotta (Cabrini punta al centro dell’incrociatore, Tedeschi a poppavia del secondo fumaiolo), portano la velocità al massimo, tolgono la sicura alla carica esplosiva e si gettano in acqua.

Sullo York l’ufficiale di servizio ed altri uomini di guardia avvertono alle 5.11 (per altra fonte, alle 4.46) rumore di motori ad alta velocità generato dai barchini in avvicinamento, ma pensano che si tratti di aerei; alcune vedette avvistano le scie dei barchini, ma prima che possano dare l’allarme i due motoscafi esplosivi colpiscono l’incrociatore a centro nave, allagando entrambe le sale macchine ed una sala caldaie e privando la nave del vapore e della corrente elettrica. Completamente al buio, lo York sbanda subito a dritta ed inizia ad affondare di poppa; in tarda mattinata, preso a rimorchio da un rimorchiatore e dall’Hasty, verrà portato a poggiare su un bassofondale (profondità cinque metri) per evitare che vada completamente perduto. Due membri dell’equipaggio rimangono uccisi nella sala caldaia B, mentre un ufficiale e quattro marinai sono feriti. Cabrini, mentre ancora si sta arrampicando sul salvagente, sente distintamente il rumore dell’impatto dei barchini contro lo scafo dello York, seguito a pochi secondi di distanza da quello degli scoppi dei congegni taglia-barchini e quindi da una violenta esplosione subacquea. Ne trae la conclusione che le due cariche esplosive siano detonate molto vicine e quasi contemporaneamente, e subito dopo vede lo York assumere un forte sbandamento; sente poi altre esplosioni, in numero addirittura superiore a quello dei barchini impiegati (alcune mine presenti nella baia esplodono infatti perché investite dalle esplosioni dei barchini). Direttosi verso la riva, verrà catturato ad una quarantina di metri da essa da un battello proveniente da un mercantile e portato a terra, dove ritroverà Tedeschi, Beccati e Barberi.

Anche Tedeschi, subito dopo essersi gettato in acqua, avverte due colpi affiancati provocati dall’impatto dei barchini e dall’esplosione, e non fa in tempo ad arrampicarsi sul suo zatterino (ci si appoggia con lo stomaco) prima di essere investito dall’onda d’urto, che gli schiaffeggia violentemente le gambe. Vede lo York sbandare lentamente, appoppandosi, ed avverte distintamente i rumori degli altri quattro barchini che vanno all’attacco; alla sua sinistra riconosce nettamente, tra le altre esplosioni, quella dell’MT che ha attaccato una petroliera di 19.000 tonnellate (probabilmente la Pericles). Si mette a nuotare verso la costa sudorientale della baia, appesantito dall’acqua entrata nella pelliccia della tuta Belloni, che si è rotta; vede lo York continuare ad affondare appoppato e sbandato a sinistra, mentre la nave cisterna, a soli 50 metri di distanza, affonda rapidamente. Verso le 6.45 viene avvistato da una pattuglia britannica quando si trova ad una trentina di metri dalla riva, catturato e subito interrogato; nota che il cacciatorpediniere britannico di vigilanza foranea ha preso lo York e cerca di portarlo in secco.

Faggioni osserva una singola esplosione sullo York, seguita dall’apertura del fuoco da parte delle batterie contraeree, e subito dopo sente un’altra esplosione sulla dritta, da lui attribuita al barchino di Barberi; a questo punto Beccati, che si trovava alla sua sinistra, gli chiede di poter partire contro una grossa petroliera che Faggioni gli ha precedentemente indicato, ma l’ufficiale gli dice di aspettare ed entrambi si avvicinano: una volta che Beccati è in grado di distinguere chiaramente il bersaglio, si lancia all’attacco (Beccati scriverà nel rapporto che Faggioni, al ritorno di un ultimo giro di ricognizione, gli ha ordinato di attaccare una petroliera di circa 1500 tonnellate, con notevole sottostima delle sue dimensioni). La petroliera in questione è la moderna motonave cisterna norvegese Pericles di 8324 tsl, arrivata a Suda alle 11.30 del precedente 15 marzo con il convoglio AN 19, salpato da Alessandria l’11 marzo, ed adibita da allora al rifornimento delle navi da guerra britanniche che fanno scalo nella baia.

Sentiti i rumori dei motori dei barchini di Cabrini e Tedeschi portati a tutta forza, Beccati porta il suo barchino a circa 300 metri dalla nave cisterna e, una volta udite le esplosioni dei barchini che colpiscono lo York, dà tutto gas al motore puntando al centro della nave, blocca il timone, toglie la sicura a 80 metri di distanza e si getta quindi in acqua. Prima di salire sul suo zatterino, avverte il rumore della carica “taglia-barchino”, e mentre ancora ha le gambe in acqua sente una forte esplosione e, alzando la testa, vede una grossa colonna di fumo ed acqua sollevarsi e la nave sbandare. Il barchino ha colpito la Pericles a poppa (secondo Faggioni; per altra fonte, a centro nave), incendiandola, squarciando lo scafo ed infliggendo gravi danni.

Sulla Pericles, che ha appena finito di rifornire l’incrociatore antiaerei Coventry alle 5.10, viene avvertito un allarme aereo e l’equipaggio di 31 uomini si precipita in coperta; circa cinque minuti dopo un barchino la colpisce nella cisterna esterna dritta numero 2, e la conseguente esplosione coinvolge anche la cisterna centrale numero 3 e la cisterna esterna di sinistra numero 2. Dalle cisterne squarciate zampilla la nafta, ed il locale pompe viene parzialmente allagato; la nave sbanda di circa 40° a dritta e l’equipaggio (tutti sono rimasti illesi), temendo che stia per capovolgersi, inizia ad abbandonarla. La maggior parte dei marittimi prendono posto nella scialuppa di dritta, mentre altri mettono a mare una zattera (i cui occupanti vengono successivamente presi a bordo dalla scialuppa) ed altri ancora si gettano direttamente in mare, venendo poi ripescati da un rimorchiatore che li porta a terra. Successivamente, essendosi la Pericles adagiata sul fondale con apparente cessazione del rischio di capovolgimento, il comandante Paul Rikard Paulsen tornerà a bordo insieme ad alcuni dei suoi uomini ed aprirà le valvole delle cisterne di sinistra, riuscendo così a controbilanciare lo sbandamento e riportare la nave in assetto; l’equipaggio tornerà così a bordo al completo. A bordo troveranno un motore a sei cilindri e pezzi di barchino MT in coperta proprio sopra la zona dell’impatto, dove l’esplosione ha creato uno squarcio di circa 1,8 metri sotto la linea di galleggiamento; anche sul lato sinistro si è prodotta una spaccatura verticale di tre metri di lunghezza, ed anche il ponte è percorso da una crepa. La maggior parte delle cisterne sono allagate, ed i tentativi di espellere l’acqua che ha invaso il locale pompe l’indomani mattina risulteranno infruttuosi. Gran parte dell’equipaggio della Pericles crederà erroneamente che la nave sia stata colpita da un siluro d’aereo.

Intanto, Faggioni vede che lo York è fortemente sbandato a dritta, avvolto da una nube di fumo, ma sembra stentare ad affondare, dunque decide di attaccarlo a sua volta: prima di partire all’attacco, tuttavia, compie un ultimo giro con il binocolo e così facendo avvista una nave da guerra mimetizzata che spunta da dietro la petroliera colpita da Beccati: si tratta dell’incrociatore Coventry, che era affiancato alla Pericles per rifornirsi, ha scostato alle cinque ed adesso sta cercando di allontanarsi e raggiungere a lento moto l’uscita della baia, sparando in tutte le direzioni. Faggioni decide di attaccare il Coventry, che sta accelerando, dunque accosta a dritta, accelera a sua volta e punta su di essa; sbloccato il timone, accosta un po’ a sinistra per correggere la mira, poi lo blocca nuovamente, porta la velocità al massimo e si getta in acqua. Tuttavia, proprio per via della velocità dell’incrociatore il barchino – pensato per colpire bersagli statici, e non per compiere brusche virate mentre procede ad elevata velocità – manca il bersaglio e va ad esplodere contro una banchina del porto.

Secondo la ricostruzione dello storico Giorgio Giorgerini nel suo libro “Attacco dal mare”, invece, la Pericles sarebbe stata colpita da ben due barchini, non quello di Beccati bensì quelli di De Vito e Barberi, che l’avrebbero colpita su entrambi i lati all’insaputa l’uno dell’altro: ciò in quanto una notizia trasmessa nel dopoguerra dall’Ammiragliato britannico alla Marina italiana affermava che la Pericles sarebbe stata sventrata su entrambi i lati. Fonti norvegesi menzionate più oltre, tuttavia, nel descrivere in dettaglio i danni subiti dalla Pericles parlano chiaramente di squarcio su un solo lato.

Barberi ha ricevuto da Faggioni l’ordine di attaccare una nave cisterna che si trova sul lato opposto della baia, davanti all’abitato di Suda, partendo all’attacco non appena lo York sarà stato colpito; portatosi in posizione, a pochi metri da riva, manovrando con i remi, dopo quella che è parsa un’attesa interminabile Beccati ha udito i motori di due MT ad alta velocità e poi un’esplosione subacquea, dopo di che è partito a sua volta all’attacco. Puntato il barchino al centro del suo bersaglio, ha tolto la sicura, bloccato il timone e lasciato il motore a mezzo regime (essendo già molto vicino) prima di gettarsi in acqua, tra esplosioni di mine e fuoco della contraerea. Ha giudicato di aver colpito la petroliera attaccata, che ha visto sensibilmente appruata; è riuscito a raggiungere la riva, ma qui è stato poco dopo catturato.

De Vito, rimasto vicino a Faggioni e Beccati mentre Cabrini, Tedeschi e Barberi si portavano in posizione d’attacco, circa un quarto d’ora dopo che Faggioni si è allontanato per un giro di ricognizione ha sentito un rumore ed un altro banchino che partiva all’attacco; ha allora deciso di trovarsi un bersaglio, evitando i mercantili alla fonda perché memore di un avvertimento del comandante Moccagatta, “è meglio affondare un mezzo piroscafo alla banchina che una grande nave in rada”. Attraversata a buona andatura la linea dei mercantili, ha avvistato una sagoma nera bassa e lunga che ha identificato come una nave da guerra (più tardi, con la luce del sole, ha scoperto trattarsi effettivamente di un incrociatore antiaerei e due cacciatorpediniere), ed ha deciso di attaccarla; trovandosi già alla distanza giusta, ha compiuto le manovre del caso ed ha lanciato il barchino all’attacco, dopo di che si è gettato in acqua. Ha fatto appena in tempo a salire sul suo zatterino quando un mercantile è stato colpito a ridotta distanza da lui, sulla sinistra, per poi affondare rapidamente; continuando ad osservare il suo barchino, l’ha visto sobbalzare ed accostare nettamente a dritta, dopo di che l’ha perso di vista, ma ha continuato a seguire il rumore del motore finché poco dopo ha sentito le due detonazioni del taglia-barchino e della carica esplosiva, il che l’ha indotto a ritenere che abbia colpito uno dei mercantili che aveva superato poco prima.

Anche la Pericles, con il locale pompe e diverse cisterne allagate, dev’essere portata a poggiare sui bassifondali per scongiurarne l’affondamento, perdendo gran parte del carico di carburante (5000 tonnellate secondo alcune fonti, mentre il sito Warsailors dedicato alla Marina Mercantile norvegese afferma che la nave avesse a bordo 12.324 tonnellate di carburante caricate ad Haifa, delle quali 9329 vennero scaricate a terra o trasbordate su altre navi, pertanto ne andarono perdute 2995 tonnellate; fonti britanniche parlano invece della perdita di sole 500 tonnellate).

La Pericles danneggiata (da “Attacco sul mare. Storia dei mezzi d’assalto della Marina italiana” di Giorgio Giorgerini)

Altri due barchini, oltre a quello di Faggioni, mancano i bersagli (per altra fonte, un secondo barchino avrebbe colpito la Pericles anche sull’altro lato): uno dei due esplode contro una banchina, mentre l’altro, rimasto inesploso ed immobilizzato per avaria al motore, sarà recuperato intatto dai britannici su una spiaggia, dove viene osservato da Cabrini, Tedeschi, Beccati e Barberi mentre sono condotti prigionieri a La Canea (sarà esaminato dai britannici e così descritto in una relazione: “…consisteva di un guscio a testuggine lungo 14 piedi con poco pescaggio; aveva un solo sedile ed era munito di un motore a 6 cilindri con due eliche. Portava un carico di 500 libbre di esplosivo nel compartimento cilindrico di prua”).

Le batterie contraeree a terra e le artiglierie antiaeree delle navi, pensando ad un attacco aereo, iniziano a sparare alla cieca contro il cielo; qualcuna colpisce anche due dei barchini che non hanno raggiunto i bersagli.

Faggioni, mentre nuota vigorosamente verso la costa settentrionale, viene raggiunto da un battellino che lo cattura e lo porta a bordo di una nave, dove gli vengono offerti whisky, tè e sigarette e viene aiutato a togliersi la tuta di gomma. Verso le dieci del mattino, scortato da un ufficiale armato di pistola e due sentinelle, viene portato a terra; lungo il tragitto passa vicino alla Pericles che perde nafta da uno squarcio, e vede lo York incagliato con la prua, la poppa a pelo d’acqua, la torre poppiera alla massima elevazione, gente indaffarata a bordo ed “una specie di cisterna” affiancata sul lato dritto. L’ufficiale britannico lo accompagna fino al barchino intatto arenatosi sulla spiaggia (Faggioni nota che è senza salvagente, con la maniglia di scoppio tirata ed il timone bloccato in posizione centrale e che è sprovvisto di orologio e bussola), e con la pistola puntata gli chiede se sia pericoloso toccarlo; Faggioni risponde affermativamente e poi, interrogato insistentemente sul funzionamento del congegno esplosivo e su come disinnescarlo, rifiuta di rispondere. Viene poi riunito con gli altri cinque incursori, tutti prigionieri.

Né lo York né la Pericles torneranno mai in servizio. Lo York, rimasto emergente con le sovrastrutture, l’armamento e parte della coperta, di fatto ridotto a batteria contraerea statica (senza energia elettrica non può azionare le pompe e nemmeno muovere le torri dei cannoni: da Alessandria sarà inviato il sommergibile Rover per fornire all’incrociatore semiaffondato l’energia elettrica necessaria a poter muovere almeno i cannoni contraerei, ma il 24 aprile il Rover sarà seriamente danneggiato da un attacco aereo e si deciderà di rinunciare a tentare il recupero dello York), verrà ulteriormente danneggiato dalla Luftwaffe il 24 aprile, il 6 ed il 18 maggio, durante la battaglia di Creta, e poi definitivamente reso inutilizzabile dai britannici con cariche esplosive il 22 maggio 1941, dopo aver rimosso parte dell’armamento che fu riutilizzato per potenziare le difese terrestri nell’isola (il relitto sarà recuperato, rimorchiato in Italia e demolito a Bari nel 1952), privando così la Mediterranean Fleet del suo unico incrociatore pesante.

La Pericles, alleggerita del carico di carburante (in parte trasferito sulla Cherryleaf il 28-29 marzo e tra il 4 ed il 6 aprile) e rattoppata alla meglio (l’8 aprile viene condotto un altro tentativo di prosciugare l’acqua che ha invaso il locale pompe, ma senza successo), lascerà Suda alle 11.30 dell’11 aprile 1941, con la scorta del peschereccio armato antisommergibili Moonstone ed a rimorchio di un cacciatorpediniere (per altra versione, con i propri mezzi), diretta a Porto Said: avendo ricevuto ordine dal locale Comando britannico di partire al più presto per Port Said, la nave lascerà Suda così precipitosamente da lasciare a terra 6 membri dell’equipaggio, che si trovano a terra e non riescono a risalire a bordo in tempo. Unitasi la sera stessa dell’11 aprile al convoglio AS. 25, se ne dovrà separare il 13 a causa di una burrasca frattanto scoppiata, che le impedisce di tenere il passo delle altre navi, scortata dallo sloop britannico Grimsby. Dinanzi al peggioramento delle condizioni meteomarine la cisterna danneggiata farà rotta per Alessandria il mattino del 14, ma alle 8.30 di quel giorno i suoi motori si fermeranno per avaria ed il comandante darà ordine all’equipaggio di salire in coperta, trasferendo 15 uomini (6 mediante la scialuppa poppiera di sinistra e 9 su una barca del Grimsby) sul Grimsby. Circa due ore dopo lo scafo della Pericles, indebolito dai danni causati dall’attacco di Suda, si spezzerà in due 35 miglia a nordovest di Alessandria e sarà abbandonato dal resto dell’equipaggio (dieci uomini, comandante compreso), nella motolancia di sinistra (anche loro saranno recuperati dal Grimsby e sbarcati ad Alessandria il 15 aprile); i due tronconi, rimasti a galla, verranno finiti a cannonate nel pomeriggio dal Grismby, da un cacciatorpediniere e da un aereo. Il troncone prodiero sarà duro a morire, richiedendo ben 70 colpi di cannone, due siluri e due bombe d’aereo prima di inabissarsi.

Viene talvolta affermato che altre due navi mercantili sarebbero state danneggiate (oppure una nave mercantile di 12.000 tsl; c’è chi parla persino di tre mercantili per complessive 32.000 tsl), avendo Barberi ritenuto di aver colpito una seconda petroliera (affermerà nel suo rapporto di aver osservato l’indomani mattina «l’incrociatore (…) terribilmente sbandato e appoppato, una cisterna era scomparsa riempiendo la baia di nafta, un’altra cisterna era anch’essa colpita e sbandata ma ancora galleggiante»), ma di questo non vi è conferma nella documentazione britannica, che parla di due esplosioni pressoché simultanee su York e Pericles seguite poco dopo da tre esplosioni nel porto che non avrebbero interessato alcuna nave.

Tutti e sei i piloti dei barchini, che dopo gli attacchi si sono messi a nuotare verso il punto di riunione, vengono catturati dai britannici entro le sette del mattino, come del resto preventivato fin dall’inizio, e condotti al comando di polizia della Canea, da dove saranno poi trasferiti alle quattro del pomeriggio dello stesso 26 marzo nel forte di Paleocastro, in celle separate, e poi avviati alla prigionia in Egitto e Palestina; tutti saranno decorati con la Medaglia d’Oro al Valor Militare e Tedeschi, De Vito, Beccati e Barberi saranno anche promossi. Riceveranno invece la Medaglia d’Argento al Valor Militare il comandante Ferruta del Crispi (con motivazione «Comandante di sezione di cacciatorpediniere destinata a trasportare mezzi speciali d’assalto all’imboccatura di munita base navale, portava a vittorioso compimento l’azione nel corso della quale, lanciate verso il loro destino di gloria le imbarcazioni, venivano distrutti un incrociatore e due navi avversarie. Rientrava poi alla base sfuggendo con perizia e sicurezza a tutte le insidie. Esempio di audace determinazione e di elevate virtù militari») ed il collega Redaelli del Sella. Il bollettino di guerra 294 del 28 marzo annuncerà: “Nella notte sul 26 marzo, mezzi navali d'assalto della Regia Marina sono penetrati nella baia di Suda (Creta) e vi hanno attaccato forze navali e trasporti alla fonda, infliggendo gravi perdite al nemico. Una nave da guerra nemica è affondata”.

I britannici, pensando a torto che i barchini siano stati rilasciati da un sommergibile, inviano i cacciatorpediniere Hasty ed Ilex a dare la caccia all’inesistente unità subacquea al largo della baia di Suda.

L’attacco a Suda costituisce il primo successo della X Flottiglia MAS, oltre che la prima operazione effettuata dal suo reparto di superficie; il giorno seguente, dopo aver esaminato i risultati di nuove ricognizioni aeree condotte sulla baia di Suda, l’ammiraglio Biancheri comunicherà a Supermarina ed a Mussolini che sono stati affondati un incrociatore e “uno o più” mercantili.

L’ammiraglio Cunningham commenterà in merito nelle sue memorie: “Fu proprio a Suda che, nelle prime ore del 26 marzo, ricevemmo un duro colpo allorchè il porto venne attacco da sei veloci motoscafi esplosivi. L’incrociatore York fu gravemente danneggiato e, con i locali caldaie e macchina allagati, dovette essere portato a secco. Non aveva vapore né forza per esaurire l’acqua , per l’illuminazione o per brandeggiare le torri. Anche la cisterna Pericles fu colpita ed ebbe uno squacio a metà nave, quantunque la parte maggiore del prezioso carico non venisse perduta. Il nostro unico incrociatore con cannoni da 203 era dunque fuori combattimento: ancora una volta dovemmo scontare la pena per l’insufficiente difesa di una base navale (…) Mi ha sempre meravigliato quanto gli italiani siano bravi in questo tipo di attacchi individuali. Hanno certo uomini capaci delle più valorose imprese”.


Alcune immagini del relitto dello York, scattate nella primavera-estate del 1941 (nell’ordine: da www.anmicarrara.it, www.passionepaneraiwatch.forumfree.it, Coll. Pierre Kosmidis, ed Archivio Centrale dello Stato)


29-30 aprile 1941
La sera del 29 il Crispi (capo formazione, capitano di fregata Ugo Ferruta) e le torpediniere Libra e Lince salpano da Lero per intercettare il convoglio britannico «GA. 15», partito da Suda alle 11 del 29 aprile e diretto ad Alessandria con 6232 militari e 4699 tra infermiere, prigionieri italiani, civili, feriti leggeri, personale della RAF e della Royal Navy, marittimi della Marina Mercantile e personale consolare evacuato dalla Grecia. Si tratta degli ultimi britannici evacuati dalla Grecia (quella a Suda è stata una sosta intermedia), nell’ambito dell’operazione "Demon": il loro imbarco è avvenuto nella confusione più completa, mentre i combattimenti infuriavano a pochi chilometri dalle spiagge.

Formano il convoglio i mercantili DelaneThurland CastleComliebankCorinthia (unico greco, gli altri sono tutti britannici), Itria e Ionia e la nave cisterna militare Brambleleaf, scortati dall’incrociatore antiaereo Carlisle (capitano di vascello Thomas Claud Hampton), dai cacciatorpediniere Kandahar (capitano di fregata William Geoffrey Arthur Robson), Kingston (capitano di corvetta Philip Somerville), Decoy (capitano di fregata Eric George McGregor) e Defender (capitano di corvetta Gilbert Lescombe Farnfield), dallo sloop Auckland (capitano di fregata John Graham Hewitt) e dalla corvetta Hyacinth (tenente di vascello Frank Clifford Hopkins), con l’appoggio della Forza B costituita dagli incrociatori leggeri Orion (nave ammiraglia del viceammiraglio Henry Pridham-Wippell), AjaxPerth e Phoebe e dai cacciatorpediniere NubianHasty ed Hereward. Da Alessandria ha preso il mare per fornire copertura al convoglio, alle tre del pomeriggio del 29 aprile, anche il grosso della Mediterranean Fleet, al comando del contrammiraglio Bernard Rawlings: la compongono le corazzate Valiant e Barham, la portaerei Formidable ed i cacciatorpediniere StuartGreyhoundVendettaVampireVoyager e Waterhen.
Dopo la partenza da Suda, il convoglio ha fatto rotta verso est a dieci nodi in direzione del Canale di Caso; alle due del pomeriggio del 29 è stato raggiunto dalla Forza B, dopo di che ha doppiato Capo Sidero (estremità nordorientale di Creta) ed imboccato il Canale di Caso dopo il calare dell’oscurità. Pridham-Wippell ha deciso di passare ad est di Creta perché tale rotta è più breve, anche se più esposta ad eventuali attacchi italiani provenienti dal Dodecaneso: ritiene infatti che dopo la pesante sconfitta subita un mese prima a Capo Matapan, la Marina italiana non tenterà attacchi di superficie, se non con sole siluranti nelle ore notturne.
Tra le 23.15 del 29 e le tre di notte del 30
Crispi, Lince e Libra effettuano diversi attacchi siluranti contro il convoglio nel Canale di Caso. Il Crispi lancia due siluri senza successo contro un cacciatorpediniere, pur ritenendo di aver probabilmente colpito; lo stesso fa la Libra, che crede erroneamente di aver silurato una nave nemica, mentre la Lince ritiene di aver colpito con due siluri un grosso cacciatorpediniere. In realtà, nessun siluro è andato a segno. NubianHasty ed Hereward reagiscono con un intenso fuoco che mantiene a distanza gli attaccanti; sul lato opposto anche il Decoy avvista quella che ritiene essere una motosilurante ed apre il fuoco contro di essa, ma questa si dilegua subito nell’oscurità. Dopo una violenta azione di fuoco protrattasi per circa un’ora, alle tre di notte le unità italiane riescono a disimpegnarsi ed allontanarsi.

Successivamente il convoglio verrà attaccato di nuovo da cinque MAS, che saranno però costretti a rinunciare all’attacco dalla violenta reazione della scorta, che li inseguirà a lungo.
Nessuna unità, da ambo le parti, è stata danneggiata; raggiunto alle sei del 30 aprile da una forza di copertura che comprende le corazzate
Valiant e Barham, la portaerei Formiable e sei cacciatorpediniere, il convoglio raggiungerà Alessandria il 1° maggio. I britannici crederanno di essere stati attaccati da motosiluranti.

11 maggio 1941

Crispi, Sella ed alcune unità minori trasportano dal Dodecaneso a Sira le truppe della 50a Divisione Fanteria "Regina" destinate all’occupazione dell’isola.

L’occupazione delle Cicladi (oltre a Sira anche Amorgos, Anaphi, Ios, Naxos, Pharos, Thera, Mitilene, Scio e Polikandros), in seguito alla resa della Grecia, ha avuto inizio il 30 aprile e verrà completata soltanto il 20 maggio: vi partecipano Crispi, Sella, MAS e varie unità minori ed ausiliarie, che, scrive la storia ufficiale della Marina, «non ebbero, si può dire, neppure un giorno di pace». L’intenso traffico necessario all’occupazione di tutte le isole non produce ad ogni modo incidenti di rilievo, e non subisce alcuna perdita.

Maggio 1941
Durante la battaglia di Creta (operazione "Merkur"), il Crispi ed il Sella, al pari delle altre unità navali alle dipendenze del Comando Forze Armate dell’Egeo (le torpediniere Lupo, Lince, Libra e Lira, i MAS 520523536540, 542 e 546 e quattro sommergibili), vengono messe a disposizione dell’ammiraglio Karlgeorg Schuster, comandante navale tedesco in Egeo, per compiti di scorta ed appoggio alla conquista di Creta, in seguito a richiesta avanzata dai Comandi tedeschi al Comando Supremo italiano. Partecipano inoltre, tra fine aprile ed inizio maggio, all’occupazione delle isole minori situate a nord di Creta e lungo la costa meridionale della Grecia.
22 maggio 1941
In seguito a richiesta avanzata il pomeriggio precedente dall’alto comando tedesco, il Crispi (capo formazione) parte dal Pireo alle cinque del mattino insieme al gemello Sella ed alle torpediniere Lince, Libra e Monzambano trasportando truppe tedesche (alcuni battaglioni rinforzati di Gebirgsjäger, cioè truppe alpine) dirette a Maleme (per altra fonte, a Candia od a Suda), a rinforzo dei reparti che vi stanno già sostenendo duri combattimenti nell’ambito dell’operazione «Merkur» per la conquista dell’isola (dopo che il giorno precedente altri due convogli di caicchi diretti a Creta, carichi di truppe tedesche e scortati dalle torpediniere Lupo e Sagittario, sono l’uno semidistrutto e l’altro costretto al rientro da attacchi britannici). La situazione a Candia, per le forze tedesche, è critica, e da parte tedesca è stato richiesto a Marisudest (il Comando Gruppo Navale Italiano dell’Egeo Settentrionale) che le cinque navi, che dopo la partenza dal Pireo hanno assunto rotta verso sud, sbarchino le truppe in aperta spiaggia, nelle vicinanze di Maleme, dove i tedeschi sono più in difficoltà.
Alle 8.15, però, l’avvistamento, da parte della ricognizione aerea, di una grossa formazione navale britannica – la Forza D – composta da quattro incrociatori leggeri (
NaiadPerthCarlisle e Calcutta) e tre cacciatorpediniere (NubianKandahar e Kingston), le stesse navi nelle quali sta per imbattersi il convoglio della Sagittario (che grazie alla reazione della torpediniera si porrà in salvo al completo, ricevendo però ordine di rientro), costringe ad ordinare alle cinque navi di tornare in porto. Subito dopo l’inversione di rotta, alle 8.45, le unità vengono anche accidentalmente attaccate da una formazione di bombardieri in picchiata Junkers Ju. 87 “Stuka” dello St.G.2 della Luftwaffe, che le scambiano per nemiche: il Sella viene di poco mancato da una bomba, che cade in mare qualche metro a poppavia sulla dritta, e viene poi anche mitragliato dallo stesso aereo che ha sganciato l’ordigno, subendo lievi danni ma diverse perdite tra l’equipaggio (tre morti e 15 feriti) e le truppe tedesche imbarcate (due morti e 17 feriti).

(Secondo il libro "Target Corinth Canal" di Platon Alexiades, invece, soltanto il Sella sarebbe tornato indietro, a causa dei danni causati dagli Stukas; il Crispi e le altre navi sarebbero invece proseguite verso Creta, giungendo a destinazione senza ulteriori inconvenienti).

(Foto USMM)

28 maggio 1941
Il Crispi (caposcorta, capitano di fregata Ugo Ferruta) viene assegnato insieme alle torpediniere Lince, Libra e Lira ed a sei MAS (MAS 520MAS 523MAS 536MAS 540MAS 542MAS 546), alla scorta di un convoglio incaricato di trasportare a Creta il corpo di spedizione italiano (il I e II Battaglione del 9° Reggimento Fanteria della 50a Divisione Fanteria "Regina", al comando rispettivamente dei maggiori Alessandro Ruta e Francesco Lillo; due compagnie della Regia Marina; un drappello di carabinieri; un reparto di camicie nere; la 3a Compagnia Carri L3/35 del CCCXII Battaglione Meccanizzato Misto dell'Egeo con un totale di tredici carri armati leggeri L3/35; la 50a Compagnia Cannoni Controcarro da 47/32 mm con un totale di sei cannoni M35 di tale calibro; una compagnia mortai da 81 mm con un totale di 6 mortai Mod. 35 da 81/14 mm; un plotone di fanti di Marina del Reggimento "San Marco"; in totale 2585 uomini dell’Esercito e 500 della Marina con equipaggiamenti, viveri e munizioni per cinque giorni, tra 205 e 400 muli a seconda delle fonti, due automobili Fiat 508C, due autocarri SPA Dovunque 35, nove motociclette Moto Guzzi, sei cannoni Mod. 13 da 65/17 mm, 46 mitragliatrici Fiat-Revelli Mod. 35 da 8 mm, 18 mortai Brixia Mod. 35 da 45 mm) inviato sull’isola per dare manforte alle truppe tedesche impegnate da giorni in duri combattimenti contro le truppe del Commonwealth, che stanno perdendo terreno ma hanno inflitto pesantissime perdite agli invasori: l’invio di questo corpo di spedizione, al comando del colonnello Ettore Caffaro del 9° Fanteria, è stato deciso da Mussolini quando le sorti della battaglia apparivano ancora incerte, ed è stato accettato dai tedeschi nella speranza che possa distrarre, se non truppe Alleate, quanto meno i partigiani cretesi che hanno preso a loro volta le armi contro gli invasori.
La possibilità di un intervento italiano è stata prospettata per la prima volta in una riunione tenutasi ad Atene il 22 maggio, presso il comando della 4. Luftflotte, alla presenza del generale Alexander Löhr (comandante la 4. Luftflotte), dell’ammiraglio Schuster, del capitano di vascello Corso Pecori Giraldi (comandante di Marisudest) e del tenente di vascello Fellner, ufficiale di collegamento tedesco presso il Comando Forze Armate dell’Egeo (Egeomil). Fellner, giunto in aereo da Rodi, ha chiesto a Pecori Giraldi di interessarsi per una partecipazione italiana alla battaglia di Creta, da concretizzarsi mediante uno sbarco nella parte orientale dell’isola da attuarsi con truppe e mezzi prelevati dal Dodecaneso. La proposta ha incontrato l’iniziale perplessità di Pecori Giraldi, preoccupato dalla continua presenza di consistenti forze navali britanniche nelle acque in cui si dovrebbe svolgere lo sbarco.

Durante la riunione l’ammiraglio Schuster ha anche espresso il suo dispiacere per dover “restituire” ad Egeomil le unità navali ricevute “in prestito” (Crispi, Sella, LupoLinceLibra e Lira), necessarie al Comando dell’Egeo per scortare i suoi convogli, ed il generale Löhr ha detto che “la situazione delle truppe a Creta non è chiara e pertanto l’intervento italiano sarebbe assai gradito”, augurandosi “che possa verificarsi entro il minor tempo possibile”. La sera del 22 maggio Egeomil ha ricevuto un telegramma dal capo di Stato Maggiore generale, generale Ugo Cavallero, con la richiesta “Telegrafate se ritenete possibile partecipare operazioni Mercurio con un Reggimento fanteria rinforzato aut con forze maggiori alt Caso affermativo prendere diretti accordi con comando tedesco alt scegliete i migliori reparti che debbono in questa occasione tenere alto come sempre prestigio nostra bandiera alt Cavallero”; l’indomani il generale Ettore Bastico, governatore del Dodecaneso, ha risposto di aver già detto a Fellner che per un’operazione del genere occorrerebbe sguarnire le difese del Dodecaneso, dal momento che in caso contrario non sarebbero disponibili che due battaglioni rinforzati di fanteria. Bastico ha anche ribadito che la presenza della flotta britannica renderebbe l’operazione difficile e rischiosa, e che sarebbe meglio aspettare prima che la situazione migliori a favore dei tedeschi; ma ciò vanificherebbe il senso stesso dell’intervento italiano, richiesto urgentemente dai tedeschi proprio per migliorare la difficile situazione. Cavallero ha risposto la sera stessa del 23 maggio ordinando a Bastico di procedere con la spedizione mediante due battaglioni di fanteria rinforzati e da servizi, prendendo accordi diretti con i Comandi tedeschi; il 24 maggio Egeomil ha informato il Comando della 4. Luftflotte che il corpo di spedizione italiano, che dopo lo sbarco passerà alle dirette dipendenze del Comando tedesco, sarà composto da 80 ufficiali, 2200 tra sottufficiali e soldati, dodici cannoni da 47/32; una batteria di cannoni da 65/15, sei mortai, tredici carri armati L. 13, sette automezzi, 226 quadrupedi, cinque giornate di viveri e munizioni e tre tonnellate di carburante. Il 25 maggio Bastico, su richiesta di Cavallero, ha riferito al Comando Supremo che il corpo di spedizione partirà da Rodi alle 18 del 27, per sbarcare nel pomeriggio del 28 nella baia di Sitia (la più orientale della costa settentrionale di Creta, a quindici miglia da Capo Sidero) da dove le truppe avanzeranno poi verso sudovest per occupare Ierapetra, come richiesto dai tedeschi, che vogliono così evitare un possibile sbarco di truppe britanniche in quella zona. (La scelta di sbarcare nel primo pomeriggio, anziché all’alba come abituale per gli sbarchi, è stata dettata dall’esigenza di fare il modo che il convoglio si trovi nel Canale di Caso ad un’ora in cui la ricognizione aerea potrà garantire che il Mediterraneo orientale sia libero da naviglio nemico). Bastico ha anche sollecitato Cavallero ad inviare altre unità navali per rimpiazzare le unità danneggiate nei giorni precedenti, come il Sella e la Lupo, ma il capo di Stato Maggiore generale ha risposto il 26 che “Imprescindibili necessità operative degli altri scacchieri impediscono attuale sostituzione o rinforzo vostre unità navali. Sono certo che Comandanti Ufficiali ed equipaggi sapranno supplice con volontà e l’animo alla scarsità dei mezzi”. Non molto migliore è stata la risposta alla richiesta di Bastico, avanzata il 23 maggio, di ricevere rinforzi di aerei d’attacco e da caccia: sono stati inviati a Rodi soltanto sei bombardieri CANT Z. 1007 bis.
(Ciò secondo lo storico Francesco Mattesini; secondo il volume USMM "La difesa del traffico con l’Albania, la Grecia e l’Egeo", invece, l’idea di una partecipazione di truppe italiane alla battaglia di Creta sarebbe stata inizialmente avanzata dai comandanti della Marina e dell’Aeronautica del Dodecaneso, ammiraglio Luigi Biancheri e generale Ulisse Longo, raccogliendo subito il consenso del locale comando dell’Esercito e del governatore Bastico. I comandi tedeschi, cui venne offerta la partecipazione delle truppe del Dodecaneso il 21 maggio, avrebbero inizialmente respinto tale proposta, salvo poi mutare del tutto avviso in seguito al fallimento dei tentativi d’inviare a Creta truppe via mare ed all’aggravarsi della situazione delle truppe paracadutate ed aerotrasportate impegnate nei combattimenti, finendo col sollecitare l’invio di rinforzi da parte italiana il 26 maggio.

ULTRA” doveva avere intercettato delle comunicazioni relative alle iniziali proposte di partecipazione italiane, visto che già il 22 maggio, prima ancora che venissero accettate, segnalò ai Comandi britannici che un reggimento italiano sarebbe probabilmente sbarcato a Capo Sidero).
Il 25 maggio è stata condotta un’esercitazione di sbarco a Rodi con esiti tutt’altro che soddisfacenti, ma si è deciso di procedere ugualmente.
L’eterogeneo ed improvvisato convoglio, salpato da Rodi alle 17 del 27 maggio al comando del capitano di vascello Aldo Cocchia (che in un volo di ricognizione condotto personalmente il 26 maggio ha scelto la zona dello sbarco), è formato dai una moltitudine di piccole unità frettolosamente racimolate nel Dodecaneso ed adattate alla meglio: i piroscafetti costieri 
Giorgio Orsini e Tarquinia, il piroscafetto lagunare Giampaolo, i rimorchiatori Aguglia ed Impero, il piroscafo fluviale Porto di Roma (trasformato in nave da sbarco carri armati), le piccole motonavi frigorifere Assab ed Addis Abeba, i motopescherecci Sant'AntonioSan GiorgioPlutone e Navigatore, la piccola nave cisterna Nera ed i cisternini portuali CG 89 e CG 167. Il capitano di vascello Cocchia, nelle sue memorie, descriverà questa improvvisata flottiglia come “insieme eterogneo e pittoresco del quale facevano parte navi mercantili requisite, altre noleggiate, alcune iscritte regolarmente nei quadri del R. Naviglio, certo le più modeste e le più brutte navi che abbiano mai solcato i mari”; la storia ufficiale dell’USMM non si esprime molto diversamente: “…un convoglio che era quanto di più vario, raccogliticcio ed “arrangiato” si potesse immaginare: i gazolini [motopescherecci], lenti e di scarsa capienza; le due [navi] frigorifere, di discreto tonnellaggio, utilizzabili solo in coperta essendo le stive suddivise in celle; il vaporetto lagunare, dotato, sì, di un cannone da 76, ma inadatto alla navigazione in mare aperto; la cisterna, piccolissima e anch’essa inadatta al mare aperto; i due rimorchiatori requisiti, lenti e privi di stive. Ottimi invece i due piroscafetti, l’Orsini ed il Tarquinia (…) Ottima anche la nave fluviale, il Porto di Roma, sulla quale furono imbarcati i carri armati leggeri. Da tenere inoltre presenti le mancanze o insufficienze di locali adatti al riparo delle truppe (la navigazione richiedeva circa 24 ore), di servizi igienici, di cucine, e infine, di mezzi di comunicazione R.T. tra nave e nave”.
La decisione di impiegare questi mezzi è stata presa in considerazione del fatto che navi di grande tonnellaggio, oltre ad essere più vulnerabili, dovrebbero fermarsi al largo della costa e trasbordare truppe e materiali sulle imbarcazioni per effettuare lo sbarco; pertanto si è preferito utilizzare navicelle in grado di portarsi direttamente all’incaglio sulla spiaggia, onde sbarcare più rapidamente truppe e mezzi corazzati. Le unità prescelte sono state racimolate e concentrate a Rodi in sole quarantott’ore – questo il tempo intercorso tra la decisione di agire e l’ora fissata per la partenza del convoglio – dal locale Comando della Zona Militare Marittima; ad ognuna di esse è stato assegnato un ufficiale di Marina come comandante militare. L’unità più “grande” è il 
Tarquinia, di 749 tsl; la più piccola il Plutone, di 50 tsl. Per la scorta, non essendo disponibili Sella e Lupo che necessitano di riparazioni, sono state scelte le unità restituite dal Comando Marina Sud-Est: LibraLinceLira e Crispi, insieme ai sei MAS ed alla torpediniera Aldebaran, momentaneamente trasferita da Marisudest per disposizione del Comando tedesco.

Data la scarsa efficienza delle unità di scorta, e ritenendo che il rischio di un attacco navale britannico sia maggiore nelle ore notturne, è stato deciso che la navigazione del convoglio da Rodi a Sitia dovrà avvenire in modo da attraversare il Canale di Caso di giorno, in modo da fruire della protezione dell’Aeronautica dell’Egeo e della Luftwaffe, con arrivo previsto a Sitia per le 16 del 28 maggio, dopo 137 miglia di navigazione (seguendo una rotta diretta il tragitto sarebbe di 122 miglia, ma l’ammiraglio Biancheri, in considerazione delle condizioni dei natanti, ha ritenuto più opportuno far costeggiare al convoglio le isole di Caso e Scarpanto per tutta la loro lunghezza, a costo di allungare il percorso di 15 miglia). La scelta di sbarcare le truppe all’estremità orientale di Creta (la più vicina al Dodecaneso), benché la battaglia si stia svolgendo nella parte occidentale, è dovuta alla necessità di ridurre al minimo la lunghezza della navigazione, data la scarsa adeguatezza dei mezzi scelti ad una lunga navigazione con truppe a bordo. Le navi sono state munite di passerelle di sbarco ed adattate alla meglio per la bisogna; i soldati – imbarcati insieme all’equipaggiamento tra le 6 e le 18 del 27 maggio – sono sistemati dove c’è spazio in coperta, con i salvagente indosso, senza adeguati servizi igienici.
Il 
Crispi e le tre torpediniere raggiungono il convoglio all’alba del 28, al largo dell’isola di Saria (estremità settentrionale di Scarpanto, vicino all’imbocco del Canale di Caso), passando quindi alle dirette dipendenze del capitano di vascello Cocchia; la notte precedente l’hanno trascorsa incrociando nel Canale di Scarpanto, insieme all’Aldebaran.

Dall’alba gli aerei dell’Aeronautica dell’Egeo conducono meticolose ricognizioni a nord ed a sud di Creta, fino al Canale di Caso, a Suez e ad Alessandria; in tutto vengono impiegati ben quattordici aerosiluranti Savoia Marchetti S.M. 79 “Sparviero”, due S. 84 e due CANT Z. 1007 bis del 41°, 50° e 92° Gruppo. Al contempo, 23 caccia italiani FIAT CR. 42 e caccia tedeschi Messerschmitt Bf 110 dello ZG. 26, partendo dalle basi di Rodi e Scarpanto, vigilano sul convoglio (e successivamente sull’area dello sbarco), mentre tutti i rimanenti aerei del Dodecaneso – caccia, bombardieri ed aerosiluranti – sono tenuti pronti nelle basi a decollare su allarme.
Il tempo è buono, sebbene soffi un vento di maestrale piuttosto teso; il convoglio procede con grande lentezza, a soli 7-7,5 nodi di velocità media (durante la notte precedente, solo 5-6 nodi a causa del forte vento), e per omogeneizzare ed aumentare la velocità le unità più lente vengono prese a rimorchio da quelle più veloci (nel primo pomeriggio del 28, perciò, la 
Lince riceve l’ordine di prendere a rimorchio la nave più lenta del convoglio, onde ottenere un pur minimo incremento della bassissima velocità). Anche i MAS 536 e 542, partiti insieme al convoglio (gli altri quattro si uniranno invece ad esso nel pomeriggio del 28, dopo un agguato nel Canale di Caso che hanno dovuto lasciare a causa delle avverse condizioni del mare), vengono presi a rimorchio dall’Orsini, per risparmiare carburante.

Si intende portare la velocità ad otto nodi, per raggiungere Creta prima di incappare in una forza britannica di tre incrociatori e sei cacciatorpediniere – segnalata alle 13.10 dalla ricognizione aerea, in navigazione lungo la costa settentrionale di Creta e diretta a tutta forza verso nordovest, ossia verso il Canale di Caso (per altra versione, alle 12.37 secondo la ricognizione si trovava 145 miglia a sudest di Scarpanto) – che entro le 17 potrebbe raggiungere la formazione italiana davanti a Sitia: si tratta della Forza B britannica, al comando dell’ammiraglio Henry Bernard Hughes Rawlings e composta dagli incrociatori leggeri Ajax, Orion e Dido e dai cacciatorpediniere Jackal, Imperial, Havock, Hotspur, Hereward, Decoy e Kimberley, proveniente da Alessandria e diretta ad Heraklion per imbarcare truppe britanniche da evacuare.

Per accorciare la rotta, essendo il convoglio in ritardo (causa la lentezza delle operazioni di partenza e la bassa velocità tenuta durante la notte: seguendo le rotte costiere prescritte, si giungerebbe a Sitia non prima del tramonto), il capitano di vascello Cocchia decide di tagliare rispetto a quella prevista, evitando di costeggiare Caso e Scarpanto e facendo rotta diretta da Saria a Sitia alla massima velocità possibile (cioè, appunto, otto nodi), riducendo così la lunghezza del percorso da 137 a 122 miglia. Mancando la maggior parte delle unità da sbarco di apparecchiature radio, i MAS fungono da collegamento, portando gli ordini da un’unità all’altra della bizzarra flottiglia. Qualcuna delle imbarcazioni più lente, rimaste in posizione arretrata, devia verso l’isola di Caso; raggiungeranno Creta l’indomani.

Alle 14 il Crispi viene distaccato con il compito di precedere il convoglio e distruggere a cannonate il faro e la stazione di Capo Sidero, per evitare che possano dare l’allarme; alle 15.45 dello stesso 28, quando il convoglio è giunto in vista di Capo Sidero e della baia di Sitia, LibraLince e Lira vengono richiamate per ordine superiore per essere destinate ad un nuovo incarico, lasciando così il convoglio con la scorta del solo Crispi, che è intanto di ritorno dalla sua missione, e dei MAS. (Secondo un articolo di Aldo Cocchia sulla “Rivista Marittima” del luglio 1951, invece, il Crispi avrebbe lasciato la formazione alle 16, avendo ricevuto da Rodi ordine di bombardare il faro di Capo Sidero, e si sarebbe riunito ad essa alle 16.15). Alle 16 il convoglio passa al largo delle rovine del faro di Capo Sidero, ed il capoconvoglio Cocchia ordina un ultimo aumento di velocità mentre diviene visibile la baia di Sitia; alle 16.45 Cocchia ordina al convoglio di aprirsi a ventaglio e le navicelle lo eseguono, mollano i rimorchi e si dirigono verso la spiaggia, mentre il Crispi prende posizione per cannoneggiare con le sue artiglierie da 120 mm gli eventuali focolai di resistenza (non sarà necessario), rimanendo sulle macchine. Alle 16.50 Cocchia ordina alle navicelle di portarsi ad incagliare; dieci minuti dopo Orsini, Tarquinia, Assab, Porto di Roma, Sant'Antonio e Navigatore vanno ad incagliarsi i spiaggia, mentre il Giampaolo si ormeggia all’unico pontiletto in legno. Anche le altre unità del convoglio raggiungono poi la spiaggia, mentre i MAS si dispongono in agguato all’imboccatura della baia; ultime a giungere sono Plutone e G.S. 170, rimorchiate da Assab ed Addis Abeba.

Lo sbarco avviene senza incidenti e senza contrasto; per primi giungono a terra i marinai delle compagnie da sbarco (al comando del tenente di vascello Cruciani) ed i carri armati, che occupano subito i capisaldi prestabiliti, poi le altre truppe dell’Esercito, usando le imbarcazioni e, sui motopescherecci, delle specie di “rostri” realizzati appositamente per agevolare lo sbarco di truppe. I motopescherecci fanno la spola tra le navi più grandi, incagliatesi a maggior distanza dalla riva, ed il pontile, traghettandovi truppe e materiali.

Il colonnello Caffaro ed il suo stato maggiore scendono a terra con le prime truppe ed organizzano rapidamente la testa di sbarco.

Alle 17.20 le truppe sono tutte sbarcate (i muli vengono gettati in mare e raggiungono la riva a nuoto, mentre le operazioni di sbarco del materiale proseguiranno per tutta la notte, concludendosi quattordici ore dopo); i marinai del sottotenente di vascello Cruciani entrano per primi a Sitia occupando i locali del telefono e del telegrafo, seguiti dalle truppe dell’Esercito che completano l’occupazione del villaggio, per poi dirigere verso la cresta delle colline che dominano la baia e la strada per Iraklion. La guarnigione greca, composta da circa 200 soldati armati di armi automatiche, oppone una debole resistenza e viene facilmente sbaragliata con l’appoggio dei carri L della 3a Compagnia del CCCXII Battaglione, che irraggiatisi a ventaglio dopo lo sbarco raggiungono e neutralizzano i nidi di mitragliatrici che fanno fuoco sulle truppe italiane. Vengono così catturati un centinaio di prigionieri, insieme a parecchio materiale. A questo punto il Crispi, non essendo più necessario, viene lasciato libero da Cocchia.

I carri L3 vengono poi mandati in avanscoperta verso ovest, mentre il grosso delle truppe si raggruppa a nordovest del paese.

Le navi britanniche segnalate dai ricognitori saranno attaccate dalla Luftwaffe nel Canale di Caso verso le 18, due ore dopo il transito del convoglio italiano che è così scampato di stretta misura a sicura distruzione.

Le truppe italiane inizieranno la loro avanzata verso l’interno a mezzogiorno del 29 maggio, puntando verso Ierapetra, cittadina situata all’estremità meridionale di Creta, un centinaio di km a sudovest di Sitia: a Chamairi incappano in un pattuglione greco che catturano subendo per contro due morti tra le proprie fila, dopo di che non viene incontrata ulteriore resistenza all’infuori di qualche sporadica scaramuccia con i partigiani, facilmente respinti. L’avanzata avviene su due colonne, precedute dalla compagnia carri L e dalle automobili con a bordo nuclei armati di mitra; la sera del 29 maggio i carri L3 (maggioRe Alessandro Ruta) entrano ed Exo Mouliana ed alle sette di sera del 30, dopo aver marciato per 60 km in due giorni su strade malmesse e sotto il sole cocente (il colonnello Caffaro ha ordinato di proseguire l’avanzata anche con il buio, fino al raggiungimento dell’obiettivo), incontrano il primo reparto tedesco (55a Sezione Motociclisti) al bivio di Ierapetra, dove le truppe italiane entreranno il giorno seguente, ponendosi a disposizione del comandante della 5. Gebirgsdivision tedesca, generale Julius Ringel. L’incontro avviene, secondo i resoconti dell’epoca, con «cordialità e cameratismo»; il comandante del reparto tedesco è sorpreso dalla presenza di truppe italiane nella zona.

28-29 maggio 1941

Durante la notte tra il 28 ed il 29 il Crispi, insieme alla torpediniera Aldebaran ed a sei MAS, rastrella le acque del Canale di Caso.

Il mattino del 29 maggio, in seguito alla segnalazione di una nave nemica danneggiata al largo di Capo Sidero, il Crispi e l’Aldebaran vengono fatti salpare alle sette da Alimnia per ordine dell’ammiraglio Biancheri (contemporaneamente, prendono il mare i sei MAS da Caso) per intercettarla e finirla. Poco dopo la partenza, tuttavia, l’Aldebaran deve tornare in porto per avaria.

La nave danneggiata è il cacciatorpediniere britannico Hereward, colpito da bombardieri tedeschi Ju 87 “Stuka” del III./Sturzkampfgeschwader 2 mentre evacuava truppe da Heraklion: primi a giungere sul posto sono i MAS, ma prima che questi possano attaccare, alle 6.45 l’Hereward esplode ed affonda in posizione 35°20' N e 26°20' E, due miglia a nord-nord-est di Plaka (Creta; per altra fonte, cinque miglia a sud di Creta). Il Crispi, giunto sul posto poco più tardi, recupera la maggior parte dei naufraghi, mentre altri vengono salvati dai MAS; in tutto vengono salvati e conseguentemente fatti prigionieri 229 uomini, tra cui 89 membri dell’equipaggio dell’Hereward, su un totale di 165 membri dell’equipaggio e 450 truppe imbarcate (per altra versione, “la maggior parte” delle truppe sarebbe stata tratta in salvo). Tra i superstiti è il comandante, tenente di vascello William James Munn, mentre tra le vittime vi sono 48 soldati australiani, tra cui il giocatore di football australiano Leo “Gus” Young. Alcuni naufraghi passano fino a cinque ore in acqua o su zattere.

Il Crispi, sulla sinistra, ed il piroscafo Tagliamento ad Iraklion (Creta) nel giugno 1941 (g.c. Giorgio Parodi, via www.naviearmatori.net)

30 giugno 1941

Il capitano di fregata Ferruta lascia il comando del Crispi.

3 luglio 1941

Il Crispi scorta da Corinto a Rodi le motonavi Calino e Calitea.

11 luglio 1941

Il Crispi scorta il piroscafo Casaregis e la motonave Città di Alessandria da Samo ad Istmia.

17 luglio 1941

Il Crispi scorta il piroscafo Sant'Agata e le motonavi Città di Alessandria e Città di Bastia da Rodi ad Istmia, via Samo.

4 agosto 1941

Il Crispi e l’incrociatore ausiliario Brioni scortano i piroscafi Italia ed Aventino, aventi a bordo 1600 militari nonché merci civili e materiali vari, dal Pireo a Rodi.

9 agosto 1941

Il Crispi scorta il piroscafo Casaregis e la motonave Città di Agrigento dal Pireo a Sira.

22 agosto 1941

Il Crispi scorta il piroscafo Triton Maris, carico di materiali vari italiani e tedeschi, dal Pireo a Salonicco.

Il giornalista Rino Di Stefano riporta un episodio svoltosi al Pireo nell’agosto 1941 ed avente per protagonista il sottotenente di vascello Giuseppe Oriana: “Era l'agosto del 1941 e Oriana, giovane ufficiale, era imbarcato sul cacciatorpediniere Crispi, appena entrato nel porto del Pireo, ad Atene. La città era sotto il controllo dei tedeschi che, intenzionalmente, ne avevano affamato la popolazione. Letteralmente, gli ateniesi avevano pochissimo cibo, né potevano procurarsene causa l'oppressione tedesca. A bordo del Crispi, invece, i militari italiani avevano vettovaglie in abbondanza. Tanto che, ad un certo punto, i marinai organizzarono spontaneamente una raccolta di avanzi che ogni sera mettevano in due grossi bidoni e portavano, di nascosto dai tedeschi, in un ospizio di vecchi. Una sera, però, mentre era di guardia Oriana, i marinai vennero bloccati dai tedeschi e gli altri italiani a bordo, vedendo che i loro camerati erano in difficoltà, scesero a terra pronti a menare le mani contro i tedeschi. Anche perché, già da allora, racconta Oriana, tra i due gruppi non correva buon sangue. In pratica, si stava verificando uno scontro fisico tra militari alleati. Ciò che suscitò l'immediata reazione di Oriana fu che alla scena assisteva, impassibile, un tenente della Werhmacht che comandava il posto di guardia in porto. Oriana, che per inciso superava il metro e novanta di altezza e aveva un fisico in proporzione, si precipitò come una furia verso il tenente tedesco intimandogli di lasciar passare i suoi marinai. L'altro, freddissimo, gli rispose che aveva l'ordine di non stabilire contatti amichevoli con la popolazione, ed estrasse la pistola dalla fondina puntandogliela contro. Oriana, senza pensarci due volte, gli spostò la mano armata e disse ai suoi uomini di passare oltre il blocco. I marinai travolsero quindi lo sbarramento e caricarono i due bidoni su un carro che un vecchietto, come ogni sera, portava all'ospizio. I tedeschi non reagirono. La folla, invece, che dalla banchina aveva assistito alla scena, scoppio in un fragoroso applauso verso gli italiani. A quel punto i tedeschi caricarono i fucili e Oriana, rendendosi conto che poteva finire male, diede ordine ai suoi uomini di tornare a bordo. Ma non finì lì. L'indomani mattina Oriana tornò a terra per controllare gli ormeggi della nave e ad un certo punto sentì qualcuno dietro di lui. Si voltò e vide il tenente tedesco della sera prima che, guardandolo dritto negli occhi, gli tendeva la mano, senza dire una parola. Oriana capì e gliela strinse. Poi il tedesco si voltò e se ne andò. Era il riconoscimento al coraggio e al carattere dell'ufficiale italiano”.

Il sottotenente di vascello Giuseppe Oriana (La Spezia, 1915-Genova, 2007), qui ritratto nell’atto di ricevere la sua terza Croce di Guerra al Valor Militare dall’ammiraglio Raffaele De Courten, capo di Stato Maggiore della Marina, nel 1943. Entrato all’Accademia Navale di Livorno nel 1934 ed uscitone nel 1937 come guardiamarina, fu imbarcato brevemente sull’incrociatore pesante Gorizia e poi sulla nave idrografica Ammiraglio Magnaghi attiva in Mar Rosso nel 1938-1938, venendo promosso a sottotenente di vascello nel 1939. Dopo brevi imbarchi sui cacciatorpediniere Alvise Da Mosto e Daniele Manin ed un tirocinio d’artiglieria, nel dicembre 1939 fu imbarcato sul Crispi, sul quale si trovava allo scoppio della guerra, dapprima come direttore del tiro e poi come ufficiale di rotta. Partecipò sia alla riconquista di Castelrosso, per la quale fu insignito della Medaglia di Bronzo al Valor Militare, che alla missione contro Suda, che gli valse la prima della sue tre Croci di Guerra al Valor Militare (durante questa missione, in qualità di ufficiale di rotta, dovette assicurarsi che la nave seguisse la rotta prestabilita con la massima precisione, in modo da giungere nel punto esatto designato per il rilascio dei barchini). Nell’ottobre 1941, promosso a tenente di vascello, fu trasferito sull’incrociatore leggero Giuseppe Garibaldi, sul quale rimase fino alla fine della guerra. Proseguì la carriera anche nel dopoguerra, raggiungendo il grado di ammiraglio di squadra e ricoprendo tra gli altri gli incarichi di comandante dei cacciatorpediniere Aviere ed Impavido, del Collegio Navale Morosini di Venezia (di cui stilò il nuovo ordinamento), dell’Accademia di Livorno, della IV Divisione Navale e del Dipartimento Militare Marittimo dell’Alto Tirreno. Lasciato il servizio attivo nel 1978 per raggiunti limiti d’età, entrò in politica con la Democrazia Cristiana e fu eletto due volte al Senato, nel 1979 e nel 1983. Ritiratosi a vita privata nel 1987, alla sua morte venti anni più tardi venne sepolto in divisa da ufficiale di Marina, come aveva disposto nelle sue ultime volontà.

8 settembre 1941

Il Crispi e la torpediniera Sirio scortano le motonavi Calino e Calitea, aventi a bordo 1182 militari e 560 tonnellate di materiali vari e derrate per la popolazione, dal Pireo a Rodi.

10 settembre 1941

Il Crispi scorta le motonavi Calino e Calitea da Rodi al Pireo.

16 settembre 1941

Crispi, Sella e l’incrociatore ausiliario Barletta scortano le motonavi Città di Savona e Città di Marsala, il piroscafo italiano Monrosa ed il piroscafo tedesco Yalowa, carichi di truppe e materiali italiani e tedeschi, dal Pireo a Suda.

19 settembre 1941

Alle 14.30 il sommergibile britannico Torbay (capitano di corvetta Anthony Cecil Capel Miers) avvista a 9,3 miglia per 020° a San Giorgio (nel Golfo di Atene) un convoglio di tre navi mercantili, una delle quali ritenuta essere un incrociatore ausiliario, scortate da due cacciatorpediniere ed alcuni aerei; si avvicina a tutta forza per intercettarlo.

Le navi avvistate dal Torbay sono Crispi, Sella e Barletta con le motonavi Città di Marsala e Città di Savona che stanno scortando da Suda al Pireo.

Alle 15.10, a 9,6 miglia per 003° da San Giorgio, il Torbay lancia quattro siluri da 3600 metri di distanza; sebbene Miers ritenga di aver “forse” colpito con un siluro, nessuna delle armi va a segno. Alle 15.15 il Crispi avvista tre scie di siluri in posizione 37°45' N e 23°50' E, e contemporaneamente un velivolo tedesco della scorta aerea (appartenente al 126° Gruppo della Luftwaffe) lancia l’allarme nel quadrante LQ 3846 (posizione 37°37.5' N e 23°55' E). La scorta passa al contrattacco con il lancio di 14 bombe di profondità, ma il Torbay riesce ad allontanarsi indenne.

Il convoglio arriva al Pireo alle 17.50.

Il Crispi a Rodi insieme alle motonavi Calino Calitea (g.c. STORIA militare)

23 settembre 1941

Alle 15 (per altra fonte, probabilmente erronea, alle 8.40) il sommergibile britannico Torbay avvista a dieci miglia per 350° dall’isola di Agios Georgios (al largo del Golfo di Atene) due aerei in pattugliamento, e poco dopo del fumo che si rivela ben presto provenire da un mercantile scortato da un cacciatorpediniere: il mercantile è il grosso rimorchiatore di salvataggio Cyclops, mentre il cacciatorpediniere è il Crispi, che lo sta scortando da Suda al Pireo.

Alle 16.40 il Torbay accosta per passare ad ovest di Agios Georgios, con rotta diretta verso la baia di Suda, e Miers si accorge che il Cyclops è di modeste dimensioni, solo mille tonnellate (in realtà, meno della metà), ma che sta rimorchiando una grossa chiatta, quindi inizia ugualmente la manovra d’attacco; alle 17.15, a 11,4 miglia per 340° da Agios Georgios, lancia due siluri che non vanno a segno, dopo di che scende in profondità e viene sottoposto a caccia da parte del Crispi, senza subire danni.

Alle 19.11 il Torbay riemerge a 5,7 miglia per 322° da Agios Georgios ed inizia ad inseguire il piccolo convoglio a tutta velocità, sperando di trovare il Cyclops privo di scorta durante la notte; ma alle 20.05, quando lo avvista nuovamente a 9,6 miglia per 197° da Agios Georgios, il Crispi c’è ancora, pertanto rinuncia ad attaccare e dirige per rientrare alla base.

29 settembre 1941

Crispi e Barletta scortano la motonave Città di Agrigento ed il piroscafo Padenna, aventi a bordo 1700 tonnellate di carburante per l’Esercito e l’Aeronautica italiane, dal Pireo a Rodi.

Il Crispi in Egeo nel 1941 (Coll. Augusto Del Toro, via g.c. STORIA militare)

6 ottobre 1941

Il Crispi scorta la piccola motonave Tabarca da Patrasso a Rodi.

7 ottobre 1941
Il Crispi, insieme alla torpediniera Cassiopea ed all’incrociatore ausiliario Barletta, scortano da Iraklion al Pireo il piroscafo Sant'Agata e le motonavi Città di Alessandria e Città di Savona, cariche di truppe e materiali.
11 ottobre 1941
Crispi e Cassiopea scortano dal Pireo a Rodi le motonavi Calino e Calitea, con a bordo 120 civili e 1123 militari, nonché 500 tonnellate di materiali e derrate per la popolazione.

12 ottobre 1941

Il Crispi scorta le motonavi Calino e Calitea da Rodi al Pireo.

15 ottobre 1941

Il Crispi scorta la Tabarca dal Pireo a Lero.

20 novembre 1941

Il Crispi scorta Calino e Calitea, aventi a bordo 1194 militari, quadrupedi e 1600 tonnellate di materiali e merci varie, dal Pireo a Rodi.

Secondo l’Historisches Marinearchiv, poco dopo mezzogiorno il sommergibile britannico Thorn avrebbe avvistato il convoglio in uscita dal Golfo di Atene con rotta verso sud, in posizione 37°42' N e 23°50' E, senza riuscire ad attaccarlo perché in posizione sfavorevole. Tuttavia, Uboat.net identifica invece il convoglio avvistato dal Thorn come un altro, formato dalle motonavi Città di Alessandria, Città di Agrigento e Città di Savona in navigazione dal Pireo ad Heraklion con la scorta delle torpediniere Alcione e Castelfidardo e dell’incrociatore ausiliario Brioni.

23 novembre 1941

Il Crispi scorta Calino e Calitea da Rodi a Lero.

12 dicembre 1941

Il Crispi scorta da Rodi a Lero i piroscafi Vesta e Dubac.

13 dicembre 1941

Crispi, VestaDubac, ai quali si è aggiunto il piroscafo Ezilda Croce, lasciano Lero e raggiungono il Pireo.

16 dicembre 1941

Il Crispi scorta il piroscafo Goggiam e la motonave Apuania dal Pireo a Rodi.


Due immagini del Crispi ormeggiato al Pireo il 24 dicembre 1941 (g.c. Marcello Risolo, via www.naviearmatori.net)

27 dicembre 1941

Il Crispi scorta il Goggiam e la nave cisterna Arca da Rodi a Lero.

2 gennaio 1942

Il Crispi e la nave scorta ausiliaria F 79 Morrhua scortano i piroscafi Acilia, Oreste e Versilia, carichi di materiali vari, dal Pireo a Rodi.

10 gennaio 1942

Il Crispi scorta la Calino da Lero a Rodi.

13 gennaio 1942

Alle 3.50 il Crispi riparte da Rodi scortando nuovamente la Calino (comandante militare, tenente di vascello Nunzio Lo Faso), avente adesso a bordo 200 ebrei da portare in Italia. Si tratta di 140 donne, 9 bambini e 51 malati, tutti provenienti dall’Europa centrale ed orientale (polacchi, tedeschi, slovacchi, cechi, ungheresi) e naufraghi del Penthco, un vecchio e malandato piroscafo a ruote bulgaro incagliatosi e poi naufragato sull’isolotto di Kamila Nisi il 9 ottobre 1940, durante un travagliato viaggio da Bratislava alla Palestina con ben 520 persone, tra cui 512 ebrei, stipate a bordo in condizioni precarie.

I naufraghi del Penthco erano stati avvistati da aerei italiani, recuperati e trasportati a Rodi già pochi giorni dopo il naufragio, e da allora erano vissuti sull’isola, dapprima in una tendopoli e poi in una caserma, risentendo però della scarsità di viveri disponibili nel Dodecaneso: si è dunque deciso di trasferirli in Italia, dove saranno internati nei campi di concentramento pugliesi di Alberobello e Gioia del Colle.

Gli uomini del Penthco, rimasti inizialmente a Rodi, saranno trasferiti in Italia in un secondo momento, a bordo del piroscafo Vesta.

Alle 9.45 dello stesso 13 gennaio Crispi e Calino arrivano a Lero.

20 febbraio 1942

Assume il comando del Crispi il capitano di fregata Gennaro Coppola, 42 anni, da Massalubrense.

23 febbraio 1942

Il Crispi e la torpediniera Lira scortano dal Pireo ad Iraklion il piroscafo Milano ed il trasporto militare Cherso.

26 febbraio 1942

Crispi e Lira scortano la nave cisterna Cerere da Iraklion a Lero.

4 marzo 1942

Alle cinque il Crispi ed il posamine Legnano salpano da Lero scortando il piroscafo Vesta, diretto al Pireo.

5 marzo 1942

Il piccolo convoglio arriva al Pireo alle cinque.

Il Crispi al largo della costa occidentale di Lero nel 1942 (USMM)

7 marzo 1942

Il Crispi scorta dal Pireo a Rodi il piroscafo Re Alessandro e la motonave Calino, aventi a bordo 1064 militari e 1056 tonnellate di materiali.

9 marzo 1942

Il Crispi scorta la Calino da Rodi al Pireo, via Lero.

16 marzo 1942

Scorta dal Pireo a Rodi, insieme alla Lira, i trasporti truppe Italia ed Aventino.

17 marzo 1942

Crispi e Lira scortano Italia ed Aventino di ritorno da Rodi al Pireo.

21 marzo 1942

Crispi e Lira scortano da Lero al Pireo il piroscafo Goggiam ed il trasporto militare Asmara.

3 aprile 1942

Il Crispi scorta i piroscafi Acilia ed Assab da Rodi al Pireo.

12 aprile 1942

Crispi e Sella scortano la nave cisterna Alberto Fassio dal Pireo a Lero.

17 aprile 1942

Crispi e Sella scortano l’Alberto Fassio di ritorno da Lero a Rodi.

1° maggio 1942

Il Crispi posa un campo minato antinave di 25 mine tipo Elia nelle acque di Rodi.

2 maggio 1942

Il Crispi scorta la Calino da Rodi al Pireo.

Il Crispi fotografato da una nave tedesca (da www.wiki.lesta.ru)

22 maggio 1942
Alle otto del mattino il Crispi e la torpediniera Rosolino Pilo partono da Brindisi per scortare a Bari i piroscafi Balkan (bulgaro) e Chisone (italiano). Alle 8.20, poco più di due miglia a nord di Brindisi, in condizioni di mare calmo e bel tempo, la Pilo avvista la scia di un siluro (l’arma viene anche vista “delfinare”, guizzare fuori dall’acqua per un istante), che evita con la manovra; il Crispi le ordina di dare la caccia al sommergibile attaccante, mentre il resto del convoglio prosegue aumentando la velocità.

Sprovvista di ecoscandaglio, la torpediniera mette a mare la torpedine da rimorchio ed inizia a girare attorno al luogo del lancio del siluro, individuabile grazie ad una bolla d’aria; dopo mezz’ora la torpedine incoccia in qualcosa ed esplode. Poi la Pilo si riunisce al convoglio, mentre per continuare la caccia vengono inviati sul posto la torpediniera Orsa (capitano di corvetta Eugenio Henke) e due aerei della 141a Squadriglia da Ricognizione Marittima.

L’Orsa attacca dapprima un oggetto sommerso, nel punto in cui è esplosa la torpedine da rimorchio della Pilo, che si rivela però – in base ai rottami venuti a galla dopo il lancio delle bombe di profondità – essere il relitto di una nave italiana (palombari inviati sul posto da Marina Brindisi vi troveranno infatti il relitto dell’incrociatore ausiliario Attilio Deffenu, affondato mesi prima); successivamente, sulla base della segnalazione di un idroricognitore (che ha avvistato una sottile scia di nafta), si dirige in un punto tredici miglia ad est di Brindisi ed attacca ripetutamente con bombe di profondità un secondo contatto, che viene ritenuto essere un vero sommergibile – che procede lentamente ad una ventina di metri di profondità – ed attaccato, fino all’emersione di un’enorme bolla d’aria ed alla formazione in superficie di una vasta chiazza di nafta in posizione 40°29'40" N e 18°15'50" E. Ciononostante, non risulta che nessun sommergibile britannico si trovasse nella zona dell’attacco in questa data, ed i palombari inviati sul luogo del presunto affondamento non troveranno niente: l’intero attacco è stato probabilmente un equivoco scatenato dall’immaginazione di vedette troppo nervose, circostanza del resto tutt’altro che infrequente in guerra.

24-25 giugno 1942

Secondo una fonte tedesca, in questa data il Crispi, insieme al cacciatorpediniere italiano Turbine, al cacciatorpediniere tedesco ZGHermes ed alle torpediniere Castelfidardo e Solferino, avrebbe scortato dal Pireo a Creta un convoglio di sette navi mercantili, per poi fare ritorno al Pireo il 27 giugno scortando tre mercantili insieme alle stesse navi. Ciò non risulta, tuttavia, dalla cronologia USMM.

30 giugno 1942

Il capitano di fregata Gennaro Coppola lascia il comando del Crispi.

Il Crispi a Venezia nell’estate 1942, con colorazione mimetica, dopo i lavori. Il fumaiolo poppiero è stato abbassato (da “Italian Destroyers of World War II” di Mark Stille e “Mussolini’s Navy” di Maurizio Brescia)

Estate 1942

Lavori di potenziamento dell’armamento contraereo: vengono eliminate le due vecchie mitragliere singole Vickers-Terni 1917 da 40/39 mm (ed il telemetro poppiero) ed installate quattro più moderne mitragliere singole Scotti-Isotta Fraschini da 20/70 mm (per altra fonte, Breda Mod. 1935 da 20/65 mm), due sulla tuga a poppavia degli impianti lanciasiluri e due a proravia degli stessi, mentre le imbarcazioni che prima occupavano tale spazio vengono spostate ad un livello inferiore. Le due mitragliere da 13,2 mm vengono spostate dalla plancia alla plancetta poppiera, al posto del proiettore, che a sua volta viene spostato al posto del telemetro rimosso.

Vengono anche installati due lanciabombe per bombe di profondità; nel corso del 1942 riceve anche una colorazione mimetica.

Sempre nell’estate 1942, la IV Squadriglia Cacciatorpediniere viene rinforzata dai cacciatorpediniere Euro e Turbine.

27 agosto 1942

Il Crispi partecipa ad un’esercitazione al largo di Pola insieme alla nuova torpediniera di scorta Fortunale, al sommergibile Fratelli Bandiera ed alla motobarca RR 90.

Il Crispi ormeggiato al Pireo il 14 settembre 1942 (foto Aldo Fraccaroli, via Bollettino d’Archivio USMM)

14 settembre 1942

Il Crispi, il cacciatorpediniere Giovanni Da Verrazzano ed un cacciasommergibili tedesco salpano dal Pireo per scortare ad Iraklion, via Suda, la nave cisterna Rondine e la motonave Città di Alessandria.

Successivamente il convoglio si scinde: la Città di Alessandria per Suda con il Da Verrazzano, la Rondine per Iraklion con il Crispi, cui successivamente si riunisce anche il Da Verrazzano.

15 settembre 1942

Alle sette del mattino il sommergibile britannico Traveller (tenente di vascello Michael Beauchamp St. John) avvista il convoglio, di cui identifica la composizione come un grosso mercantile, una grossa nave cisterna ed un cacciatorpediniere, a nordest della baia di Suda, su rilevamento 280°. In navigazione verso sud, il convoglio entra nella baia di La Canea e viene presto perso di vista dal Traveller, che assume poi rotta verso sudest, in direzione di Capo Maleka. Alle 7.15 avvista di nuovo il convoglio, che doppia Capo Maleka passando vicino alla costa e poi entra nella baia di Suda; la distanza, tuttavia, è troppo grande per pensare di attaccare.

24 settembre 1942

Il Crispi scorta dal Pireo a Rodi la Calino, con a bordo personale e materiali vari.

30 settembre 1942

Scorta la Calino di ritorno da Rodi al Pireo.

7 ottobre 1942

Scorta il piroscafetto Pola dal Pireo a Rodi.

20 ottobre 1942

Crispi e Sella partono da Samo per scortare a Portolago (per altra fonte a Rodi) il posamine ausiliario Lero.

Alle 13.30 il sommergibile britannico Thrasher (tenente di vascello Hugh Stirling Mackenzie) avvista su rilevamento 125°, in posizione 36°26' N e 27°54' E, un cacciatorpediniere distante otto miglia ed avente rotta 250°. Dieci minuti dopo, Mackenzie si accorge che si tratta dell’unità di scorta di dritta di una nave passeggeri di 2000 tsl, in navigazione lungo la linea dei 200 metri al largo della costa nordoccidentale di Rodi, preceduta da un altro cacciatorpediniere: si tratta di Lero, Crispi e Sella (in realtà, la formazione è in linea di fila, con un cacciatorpediniere che precede il Lero e l’altro che lo segue). Il Thrasher accosta e porta la velocità al massimo, ma sembra difficile riuscire ad avvicinarsi a meno di 5500 metri prima di lanciare; alle 14.30, tuttavia, il convoglio accosta proprio verso il Thrasher, e la distanza cala a 3200 metri.

Alle 14.35 il sommergibile britannico lancia una salva di quattro siluri contro il Lero: due vanno a segno (l’orario indicato dalle fonti italiane sono le 14.18), ed il posamine affonda in 17 minuti in posizione 36°26' N e 27°54' E (o 36°24' N e 27°52' E), sei miglia a sudovest di Simi e tra quell’isola e Rodi.

Mentre il Sella recupera l’equipaggio del Lero, il Crispi passa al contrattacco con il lancio di 18 bombe di profondità, nessuna delle quali esplode vicina al Thrasher, che rimane così indenne, nonostante il Crispi ritenga di averlo danneggiato. Alle 16 il sommergibile ha anzi modo di tornare a quota periscopica, avvistando nuovamente Crispi e Sella, cui alle 16.30 si uniscono tre MAS. Un quarto d’ora dopo, i due cacciatorpediniere lasciano la zona e dirigono verso nordovest, mentre il Thrasher si ritira verso ovest.

14 novembre 1942

Crispi e Sella scortano la Calino con a bordo truppe, materiali vari e merci civili, dal Pireo a Rodi.

18 novembre 1942

Il Crispi e la torpediniera Castore scortano i piroscafi Polcevera (avente a bordo 1800 tonnellate di materiale militare e merci per la popolazione civile), Goggiam e Goffredo Mameli dal Pireo a Rodi.

Un’altra immagine del Crispi mimetizzato (USMM)

27 novembre 1942

Mentre si trova all’ancora a Lero, il Crispi (capitano di fregata Gennaro Coppola) viene danneggiato alle 12.20 durante un attacco condotto da sei bombardieri britannici: una bomba lo colpisce in un locale caldaie a centro nave, sulla dritta, provocando danni non gravi ma pesanti perdite tra l’equipaggio. Sedici membri dell’equipaggio rimangono infatti uccisi:


Fernando Araldi, sottocapo silurista, da Milano

Massimiliano Ardizzon, marinaio nocchiere, da Chioggia

Bruno Bertolani, marinaio cannoniere, da Campiglia Marittima

Francesco Cannarsa, marinaio, da Termoli

Giovanni Di Nucci, marinaio cannoniere, da Formia

Santino Didoni, marinaio cannoniere, da Milano

Emilio Doria, marinaio, da Chioggia

Giuseppe Favaretto, sottocapo infermiere, da Preganziol

Salvatore Fiumara, marinaio cannoniere, da Alì

Guido Galleschi, sottocapo radiotelegrafista, da Cascina Terme

Bruno Magni, marinaio cannoniere, da Roccabianca

Domenico Peluso, marinaio, da Augusta

Daniele Perico, marinaio S.D.T., da Ponte San Pietro

Pasquale Petrillo, marinaio cannoniere, da Liberi

Giacomo Valdora, marinaio S.D.T., da Alassio

Idalio Valona, marinaio meccanico, da Fumane


Nei giorni successivi muoiono per le ferite riportate anche il sottocapo fuochista Vittorio Pedone da Bisceglie (il 29 novembre 1942), il marinaio Giuseppe Lisco da Bari (il 1° dicembre 1942, a Rodi) ed il sergente furiere Orlando Vertuani da Portomaggiore (il 6 dicembre 1942, a Lero).

In totale questo attacco aereo provoca, sul Crispi, sulle altre unità presenti ed a terra, 15 morti, 13 dispersi e 62 feriti.

Alla memoria del sergente Vertuani verrà conferita la Medaglia d’Argento al Valor Militare, con motivazione: "Destinato a terra dopo un lungo periodo di imbarco su cacciatorpediniere, chiedeva ed otteneva di reimbarcare sulla propria nave. Nel corso di violenta azione aeronavale durante la quale si distingueva per serenità e coraggio, veniva gravemente ferito e lanciato in mare. Tratto in salvo e trasportato in ospedale, teneva mirabile contegno e, benché consapevole della prossima fine, si preoccupava unicamente della sorte toccata all'unità, cui aveva dedicato tutto se stesso. Nobile esempio di ardire e di assoluta dedizione alla Marina ed alla Patria". Alla memoria degli altri diciotto caduti sarà conferita la Croce di Guerra al Valor Militare, con motivazione "In lungo periodo d’imbarco su cacciatorpediniere partecipava a numerose missioni di guerra, dando sempre prova di spirito di sacrificio ed attaccamento al dovere. Nel corso di aspro combattimento impegnato dall’unità contro aerei avversari, immolava alla Patria la propria esistenza".

L’allievo fuochista Luigi Tramonte, da Castellaneta, rimane gravemente ferito e subisce l’amputazione di un braccio e di una gamba; per il contegno tenuto verrà decorato con la Medaglia di Bronzo al Valor Militare ("Imbarcato su cacciatorpediniere danneggiato da violenta offesa aerea, si distingueva per serenità e coraggio. Rimasto gravemente ferito sopportava stoicamente destando l'ammirazione dei presenti l'amputazione di una gamba e di un braccio. Esempio di sentimento del dovere e di mirabile forza d'animo"), decorazione che sarà conferita, a vivente, anche al direttore di macchina, il genovese capitano del Genio Navale Emilio Castagneto ("Direttore di macchina di cacciatorpediniere colpito da offesa aerea, dirigeva con calma e perizia le operazioni per assicurare la galleggiabilità della nave, mentre perdurava il bombardamento, dando prova di elevate qualità militari e noncuranza del pericolo"), ed il capo meccanico di seconda classe Gennaro Di Sarno, da Somma Vesuviana ("Imbarcato su cacciatorpediniere gravemente danneggiato da offesa aerea, si prodigava nelle operazioni di estinzione di violento incendio sviluppatosi nel locale caldaie, recandovisi volontariamente. Esempio di sereno ardimento e di elevata dedizione al dovere").

Riceveranno la Croce di Guerra al Valor Militare, a vivente, il comandante Coppola ("Comandante di cacciatorpediniere gravemente colpito da una bomba durante un attacco aereo avversario, con calma e non curanza del pericolo impartiva le disposizioni di sicurezza riuscendo a far immettere lo scafo in bacino, e provvedeva quindi ai soccorsi per i feriti"), il tenente del Genio Navale Direzione Macchine Ernesto Benedetti ("Sottordine al direttore di macchina di cacciatorpediniere colpito da offesa aerea, coadiuvava il proprio capo servizio, nelle operazioni per assicurare la galleggiabilità della nave, mentre perdurava il bombardamento, dando prova di ottime qualità militari e sprezzo del pericolo"), il secondo capo meccanico padovano Diego Costa ("Imbarcato su cacciatorpediniere danneggiato da violenta offesa aerea procedeva con calma e serenità esemplari alla ricognizione dei locali colpiti, mentre perdurava l'azione, recando prezioso contributo alla salvezza dell'unità. Esempio di elevato senso del dovere e di sereno ardimento"), il sottocapo furiere torinese Ercole Giacomoni ("Imbarcato su cacciatorpediniere danneggiato da violenta offesa aerea, nel corso della quale si distingueva per serenità e coraggio, rimasto gravemente ferito sopportava con animo sereno le sofferenze e si preoccupava unicamente della sorte toccata alla sua nave. Esempio di dedizione al dovere e di virtù militari"), il secondo capo furiere Carlo Donato da Vernazza, il sergente segnalatore Gualtiero Barbieri da Argenta, il sergente cannoniere artificiere Antonio Scamardella da Napoli, il sottocapo cannoniere Gastone Rugi da Livorno, il sottocapo radiotelegrafista Giuseppe Signorile da Bari, il nocchiere Pasquale Madera da Torre del Greco, i marinai Giorgio Albergo da Bari, Giovanni Menegon da Trieste, Mario Olivieri da Mallarie, Giacomo Passano da Framura, Mario Tomasino da Palermo, Geremia Morresi da Portocivitanova Marche e Marco Cervini da Lerici ed i fuochisti Carlo Facchetti da Treviglio, Gino Fusconi da Ravenna, Giuseppe Greco da Linguaglossa, Filippo Lo Monaco da Caltanissetta, Mario Maello da Arzignano, David Marconi da Monsampolo, Dino Cimatti da Terra del Sole ("Imbarcato su silurante operante in zona d'oltremare, dopo aver partecipato a numerose missioni di guerra, rimaneva ferito nel corso di bombardamento aereo nemico, mentre contribuiva validamente alla salvezza della nave colpita. Esempio di spirito militare e di coraggio").

Il Crispi necessiterà di un periodo di lavori in bacino di carenaggio.

Sopra, feriti dell’attacco aereo del 27 novembre 1942 vengono sbarcati dal Crispi, in primo piano (in secondo piano, il Sella), a Portolago (g.c. STORIA militare); sotto, la tomba del marinaio S.D.T. Daniele Perico, una delle vittime dell’attacco (g.c. Rinaldo Monella/www.combattentibergamaschi.it)

8 gennaio 1943

Il Crispi ed il cacciatorpediniere Turbine scortano dal Pireo a Rodi i piroscafi Vesta e Bucintoro, carichi di automezzi, materiali vari e viveri per la popolazione civile, per un carico complessivo di 1300 tonnellate.

22 aprile 1943

Il Crispi partecipa ad un’esercitazione al largo di Pola insieme al cacciatorpediniere Sebenico, alla torpediniera Orsa ed al sommergibile Vettor Pisani.

15 maggio 1943

Il Crispi scorta la nave cisterna tedesca Petrakis Nomikos da Brindisi a Patrasso.

18 maggio 1943

Il Crispi e la torpediniera Castelfidardo scortano il piroscafo Re Alessandro da Iraklion a Rodi.

20 maggio 1943

Il Crispi scorta il piroscafo Hermada da Rodi al Pireo, via Lero.

9 giugno 1943

Il Crispi ed un cacciasommergibili tedesco scortano la motonave tedesca Sinfra da Lero a Rodi.

14 giugno 1943

Il Crispi e la torpediniera Solferino scortano la Sinfra da Rodi a Salonicco.

15 giugno 1943

Il Crispi ed un cacciasommergibili tedesco scortano il piroscafo Ascianghi e la nave cisterna Cerere dal Pireo a Rodi, via Lero.

23 giugno 1943

Il Crispi scorta la Cerere dal Pireo a Rodi.

In uscita da Portolago (USMM)

1° luglio 1943

Il Crispi scorta il posamine ausiliario tedesco Bulgaria da Alimnia a Lero.

6 luglio 1943

Il Crispi scorta la Sinfra a Rodi al Pireo, via Lero.

11 luglio 1943

Crispi, SolferinoCalatafimi scortano dal Pireo a Rodi i piroscafi Hermada, Ginetto, Ezilda Croce, Dubac e Goggiam.

15 luglio 1943

Crispi, SolferinoCalatafimi scortano la Sinfra dal Pireo a Salonicco, con scalo intermedio a Lero.

30 luglio 1943

Crispi e Calatafimi scortano il piroscafo Palermo (avente a bordo 2070 tonnellate di munizioni, artiglieria, materiali vari e merci civili) e la motonave Donizetti dal Pireo a Rodi.

2 agosto 1943

Crispi e Calatafimi scortano la Donizetti da Iraklion al Pireo, via Lero.

5 agosto 1943

Crispi, SolferinoCalatafimi scortano Donizetti ed Ardena dal Pireo a Rodi.

7 agosto 1943

Crispi, SolferinoCalatafimi scortano Donizetti ed Ardena di ritorno da Rodi al Pireo.

10 agosto 1943

Il Crispi, i cacciatorpediniere Euro e Turbine e la torpediniera Monzambano scortano i mercantili HelliDonizetti e Re Alessandro dal Pireo a Rodi.

12 agosto 1943

Crispi, TurbineEuroMonzambano scortano HelliDonizetti e Re Alessandro da Rodi al Pireo.

23 agosto 1943

Il Crispi scorta il piroscafo Prode dal Pireo a Rodi.

25 agosto 1943

Crispi, Turbine e Castelfidardo scortano dal Pireo a Rodi i mercantili ArdenaEolo e Sinfra.

4 settembre 1943

Crispi, Turbine e due cacciasommergibili tedeschi lasciano Rodi per scortare al Pireo la Sinfra.

6 settembre 1943

Dopo aver fatto scalo a Lero, Crispi, TurbineSinfra arrivano al Pireo.


(foto tratta dalla rivista Interconair Aviazione e Marina n. 17 del 1957, via Marcello Risolo e www.naviearmatori.net)


Epilogo in Egeo


Nel settembre del 1943 il Crispi, al comando del capitano di fregata Giuseppe Verzocchi, era caposquadriglia della IV Squadriglia Cacciatorpediniere, avente base nel Dodecaneso e formata oltre che dal Crispi dai cacciatorpediniere Quintino Sella (capitano di corvetta Corrado Cini), Euro (capitano di fregata Vittorio Meneghini) e Turbine (capitano di corvetta Francesco De Rosa De Leo). Queste quattro unità, per quanto ormai attempate, costituivano le più potenti navi da guerra dell’Asse nel settore dell’Egeo, dove erano adibite a compiti di scorta. La IV Squadriglia dipendeva dal Comando Zona Militare Marittima dell’Egeo (Mariegeo), con sede a Rodi, ma aveva la sua base operativa a Lero.

Quando la notizia dell’avvenuta firma dell’Armistizio di Cassibile, che poneva fine alle ostilità tra l’Italia e gli Alleati, venne annunciata al mondo, l’8 settembre 1943, il Crispi non si trovava però nel Dodecaneso, bensì al Pireo, dov’era giunto due giorni prima insieme al Turbine, al termine di una missione di scorta della motonave Sinfra.

Al Pireo, o più precisamente ad Atene, aveva sede il Comando Gruppo Navale Egeo Settentrionale (Marisudest), il cui comando era ricoperto, al momento dell’armistizio, dal capitano di fregata (facente funzioni di capitano di vascello) Umberto Del Grande. Al Pireo si trovava un Comando Marina italiano che tuttavia, essendo situato in territorio sotto controllo tedesco, fungeva piuttosto da ufficio di collegamento con i Comandi della Kriegsmarine in Egeo, ed era infatti denominato Maricolleg Pireo. In questa composita struttura mista italo-tedesca il capitano di fregata Del Grande, oltre che comandante di Marisudest, era anche capo di Stato Maggiore italiano del comandante delle forze navali tedesche nell’Egeo (Admiral Ägäis, incarico ricoperto all’epoca dal viceammiraglio Werner Lange, che aveva il suo quartier generale ad Atene). Le navi italiane alle dipendenze di Del Grande erano da questi impiegate in base agli ordini ricevuti dall’ammiraglio tedesco. Anche la centrale comunicazioni del Pireo era in mano tedesca: tutte le comunicazioni dirette dall’Italia a Marisudest e Maricolleg passavano prima per l’alleato teutonico.

In seguito alla caduta del regime fascista, il 25 luglio 1943, la “penetrazione” tedesca nelle strutture di comando italiane si era andata intensificando: sia a Marisudest che a Maricolleg Pireo erano giunti ufficiali e personale della Kriegsmarine, con la scusa di un miglioramento della collaborazione italo-tedesca. In realtà gli alti comandi tedeschi, prevedendo che la caduta di Mussolini preludesse ad un tentativo da parte italiana di uscire da quella guerra ormai perduta, stavano già preparandosi al momento in cui la defezione italiana si sarebbe concretizzata: e con quel personale approntavano i nuovi comandi tedeschi che, al momento opportuno, avrebbero sostituito quelli italiani.

Dato tutto ciò, la situazione al Pireo all’indomani dell’armistizio si rivelò particolarmente difficile per i Comandi italiani, che di fatto avevano tedeschi tutt’intorno ed anche in mezzo a loro.


L’8 settembre 1943 il porto del Pireo era particolarmente affollato di navi italiane: oltre al Crispi c’erano un altro cacciatorpediniere, il Turbine (anch’esso giunto il 6 settembre con la Sinfra e, al pari del Crispi, dipendente non da Marisudest ma da Mariegeo, con sede a Rodi); due torpediniere, Calatafimi e San Martino; un incrociatore ausiliario, il Francesco Morosini; una motosilurante, la MS 42; otto motovelieri e tre motovedette del locale gruppo antisommergibili; otto dragamine ausiliari; tre navi ausiliarie; le navi mercantili Adriana, Ascianghi, Arezzo, Celeno, Città di Savona, Pier Luigi, Salvatore, Tarquinia, Vesta. Come d’uso, le navi erano sparpagliate in punti diversi del porto, per quanto possibile lontane le une dalle altre, onde minimizzare i danni in caso di bombardamento aereo.

Con la centrale delle comunicazioni in mano tedesca, fu il responsabile del Comando Militare Marittimo Grecia Occidentale (Marimorea, con sede a Patrasso), ammiraglio di divisione Giuseppe Lombardi, ad informare il capitano di fregata Del Grande dell’avvenuto armistizio, la sera dell’8 settembre, chiedendogli altresì di darne immediatamente notizia al generale Carlo Vecchiarelli, comandante dell’11a Armata (con quartier generale ad Atene) da cui dipendevano tutte le truppe d’occupazione italiane in Grecia.

Vecchiarelli, però, sapeva già dell’armistizio: fu proprio lui, anzi, a confermare ufficialmente la notizia a Del Grande alle 20.30 di quella sera, aggiungendo che da Roma era stato ordinato che in caso di ostilità da parte tedesca le navi in mare avrebbero dovuto raggiungere un porto del Sud Italia, mentre quelle in avaria si sarebbero dovute autoaffondare.

Di conseguenza, Marisudest ordinò subito a tutte le navi di approntare le macchine al moto ma di tenersi anche pronte all’autoaffondamento; dopo di che Del Grande riunì in consiglio di guerra i suoi ufficiali superiori: il comandante in seconda di Marisudest, capitano di fregata Ferdinando Calda; il capo dell’ufficio operazioni, capitano di fregata Lanfranco Lanfranchi; ed il capo dell’Ufficio Recuperi Medio Oriente (avente sede ad Atene e subordinato a Marisudest per gli aspetti disciplinari), maggiore del Genio Navale Guglielmo Giani. I quattro ufficiali dovettero riconoscere che la tardiva comunicazione dell’armistizio rendeva impossibile un’azione a sorpresa volta a trasferire le navi di Marisudest in un porto italiano, e che con il porto in mano tedesca la loro fuga dal Pireo sarebbe stata possibile soltanto attraverso un’azione di forza che avrebbe necessitato del supporto delle truppe del Regio Esercito. L’organizzazione delle operazioni di autoaffondamento venne affidata al maggiore Giani.

Per dissuadere da tentativi di fuga, i comandanti delle navi furono informati dai tedeschi che il posamine Drache aveva posato un campo minato fuori dal porto, che le batterie costiere erano pronte ad aprire il fuoco su qualsiasi nave avesse tentato la fuga e che quand’anche fossero riusciti a superare questi ostacoli, la Luftwaffe sarebbe stata sguinzagliata per dar loro la caccia.


Nel frattempo, ad Atene, il generale Vecchiarelli aveva intavolato negoziati con i comandi tedeschi in Grecia; ritenendo che la «netta inferiorità di armamento» delle sue truppe avrebbe portato, in caso di resistenza armata alle pressioni tedesche, ad un inutile spargimento di sangue, nelle prime ore del 9 settembre il comandante dell’11a Armata ordinò a tutte le sue truppe di consegnare le armi – salvo quelle individuali – ai tedeschi, credendo alle promesse tedesche di rimpatriare le truppe italiane, che sarebbero state sostituite da reparti della Wehrmacht nel loro compito di occupazione della Grecia. (Promessa ben presto infranta: tutti gli italiani, Vecchiarelli compreso, finirono invece in prigionia in Germania). In armonia con le sue decisioni di rinuncia alla resistenza e di consegna delle armi, Vecchiarelli ordinò di sospendere i preparativi per la partenza delle navi italiane al Pireo.

Nella notte tra l’8 ed il 9 settembre, intanto, un rappresentante dell’ammiraglio Lange si era recato sia alla sede di Maricolleg Pireo che a bordo di ciascuna nave italiana presente in porto, comunicando che l’imboccatura del porto era stata minata e sbarrata, e che contro qualsiasi nave che avesse tentato di partire sarebbe stata usata la forza. Truppe corazzate tedesche, nel frattempo, avevano completamente circondato il Pireo.

Il capitano di fregata Del Grande si incontrò per due volte con l’ammiraglio Lange, che gli chiese di cedere le navi alla Kriegsmarine, ottenendone un rifiuto; infine, alle due di notte del 9 settembre, Del Grande fu “invitato” ad impedire ogni sabotaggio delle sue navi ed a schierarsi con la Germania. Il comandante di Marisudest tenne il generale Vecchiarelli al corrente di questi incontri, ed alla fine quest’ultimo gli inviò un ordine scritto definitivo circa l’atteggiamento da assumere nei confronti dei tedeschi: siccome gli accordi presi con i Comandi tedeschi prevedevano la cessione alla Wehrmacht di tutte le armi in dotazione alle forze armate italiane in Grecia, anche le navi da guerra avrebbero dovuto essere consegnate intatte. A Del Grande non rimase che distruggere tutti i documenti segreti ed organizzare la cessione delle navi «nella forma meno umiliante per la Marina e per il personale imbarcato».

A questo proposito, venne deciso che la consegna di ogni unità non sarebbe avvenuta direttamente tra il comandante ed i tedeschi, bensì dapprima tra il comandante ed un ufficiale subordinato, e poi tra quest’ultimo ed i tedeschi; che gli equipaggi italiani avrebbero potuto tenere le armi individuali, e che la bandiera italiana sarebbe stata ammainata soltanto dopo lo sbarco degli equipaggi. Ogni atto di sabotaggio era proibito.

La mesta cerimonia ebbe termine entro mezzogiorno del 9 settembre 1943.


Il Crispi e le altre navi caddero così intatte, senza colpo ferire, in mano tedesca; soltanto i piroscafi Arezzo, Ascianghi e Vesta riuscirono ad autoaffondarsi. Il volume “Navi militari perdute” dell’Ufficio Storico della Marina Militare indica l’orario della cattura del Crispi come le ore 13 circa del 9 settembre, precisando che «il porto fu subito occupato e sbarrato dai tedeschi. Dato ciò, e in ottemperanza agli accordi fra il Comando territoriale italiano e quello tedesco, la nave, sulla quale fu prima compiuto qualche atto di sabotaggio, dovette essere evacuata».

Le navi furono prese in consegna dal personale della 21. U-Jagdflottille, dei Küstenjäger e del Reggimento "Brandenburg", in attesa che dalla Germania arrivasse il personale della Kriegsmarine destinato a formarne gli equipaggi; sul Crispi venne temporaneamente imbarcato anche parte dell’equipaggio del motodragamine R 210, che provvide alla rimozione delle granate dai depositi munizioni.

La storia ufficiale della Marina commenta: «durante le operazioni di cessione e di affondamento [tre navi mercantili furono infatti autoaffondate prima del raggiungimento degli accordi per la cessione] il contegno degli ufficiali e degli equipaggi fu dignitoso e disciplinato».


Lo stesso 9 settembre Marina Lero comunicava a Mariegeo Rodi che «Crispi – Turbine – Tramaglio – Orsini – Cerere non ancora giunti alt Pregherei notizie». Invano il Comando Marina di Lero, nei giorni successivi (almeno fino al 12 settembre), tentò a più riprese di mettersi in contatto radio col Crispi e con le altre navi sorprese dall’armistizio al Pireo. Anche Rodi cercò di contattare quelle navi, che si sapeva essere al Pireo e prossime alla partenza, per ordinare loro di raggiungere immediatamente Lero, ed il 10 settembre l’Euro, unico cacciatorpediniere della IV Squadriglia che si trovasse in quel momento nel Dodecaneso, tentò di mettersi in contatto radio con il suo caposquadriglia da Lero; ma ovviamente non ci fu nessuna risposta.



Il Crispi, a sinistra, e la Solferino dopo la cattura da parte tedesca, nel settembre 1943 (da www.kreiser.unoforum.pro e Coll. Francesco De Domenico via www.betasom.it)

A mezzogiorno dello stesso 9 settembre venne chiusa anche la stazione radio di Marisudest, già sorvegliata da sentinelle tedesche fin dalla notte precedente; nei giorni seguenti ebbe inizio il trasferimento del personale di Marina destinato a terra e di quello imbarcato sulle navi mercantili verso i campi di prigionia del Reich, con la falsa promessa del rimpatrio in Italia. Non pochi marinai, diffidando – a ragione – delle promesse tedesche, riuscirono a fuggire prima della partenza, trovando rifugio presso famiglie greche od unendosi alla Resistenza ellenica. Nonostante le pressioni tedesche per la continuazione della guerra a fianco dell’Asse, la quasi totalità del personale italiano rimase fedele al governo legittimo. Il 19 settembre venne arrestato anche il capitano di fregata Del Grande.

Gli equipaggi delle navi da guerra, compreso quello del Crispi, rimasero invece in un primo momento al Pireo, in quanto era intenzione dei tedeschi di trattenerli, forse per tornare ad armare le unità ex italiane per le quali vi era penuria di personale tedesco. Il 14 ottobre 1943, tuttavia, venne deciso che al Pireo sarebbero rimasti soltanto una settantina di specialisti, che avrebbero dovuto aiutare il personale della Kriegsmarine a familiarizzare con le navi italiane; gli altri sarebbero partiti a loro volta per la prigionia in Germania. Insieme ad essi rimasero in un primo momento al Pireo anche cinque ufficiali, tra cui il capitano di fregata Calda ed il maggiore Giani, ed una ventina di uomini di Marina Pireo; ma il 1° ottobre vennero arrestati anche Calda e Giani.

Gli specialisti rimasti al Pireo furono sottoposti ad un’intensa campagna propagandistica, volta a spingerli ad aderire alla causa tedesca, che vide la partecipazione di quattro ufficiali italiani passati con i tedeschi (tra di essi il capitano di fregata Luigi Pilosio, già comandante di un gruppo di batterie della Marina a Creta); ma tutti o quasi tutti rimasero fermi nel loro rifiuto.

Secondo fonte non verificata, alcuni marinai italiani avrebbero continuato a far parte degli equipaggi delle navi catturate anche sotto bandiera tedesca, per convinzione o per costrizione. Erminio Bagnasco, nel libro "In guerra sul mare", scrive che «risulterebbe che, per poter armare rapidamente (…) le (…) siluranti italiane (Turbine, Calatafimi ecc.) di cui erano venuti in possesso in Grecia nei giorni dell’armistizio, i tedeschi siano riusciti, mediante minacce e promesse, a convincere alcuni elementi “chiave” degli equipaggi originari, soprattutto personale di macchina, a rimanere a bordo delle navi prestando la loro opera come “volontari” nella Kriegsmarine. Non sono stati rintracciati precisi elementi in merito, se non generiche testimonianze».


Per l’equipaggio del Crispi iniziava la lunga odissea della prigionia in Germania, dalla quale non tutti sarebbero tornati.

La maggior parte del personale della Regia Marina catturato in Grecia all’indomani dell’armistizio fu inviato inizialmente nello Stalag III A di Luckenwalde, a sud di Berlino, dove gli italiani – circa 15.000, tra personale della Marina, dell’Esercito e dell’Aeronautica – giunsero in treno tra il 29 settembre ed il 3 ottobre 1943. Quello di Luckenwalde era un campo di smistamento, e per la maggior parte degli italiani che vi passarono rappresentò soltanto una tappa del loro viaggio verso la prigionia: qui ciascuno ricevette il proprio numero di matricola; poi, tra l’11 ed il 17 ottobre, i più furono trasferiti a Tarnapol (odierna Ternopil’, in Ucraina). Alcuni dei prigionieri accettarono qui di aderire alla Repubblica Sociale Italiana, e furono pertanto trasferiti a Deblin-Irena (Polonia), poi a Przemyśl (ancora in Polonia) ed infine a Norimberga, da dove poterono rientrare in Italia nel giugno 1944.

Gli altri rimasero a Tarnapol fino al dicembre 1943/gennaio 1944, quando il campo venne sgomberato dinanzi all’avanzata dell’Armata Rossa. I prigionieri italiani vennero pertanto dispersi in vari altri campi di prigionia: Siedlice, Deblin, Przemyśl e Tschenstochau (Czestochowa), in Polonia; Sandbostel, Norimberga e Wietzendorf, in Germania.


Il 25 settembre 1943 gli equipaggi di CrispiTurbineCastelfidardoCalatafimi e Solferino, nonché quello dell’incrociatore ausiliario Francesco Morosini, furono caricati su un treno formato da carri bestiame e carri scoperti. Comandante del personale italiano sul treno era il capitano di fregata Verzocchi, l’ormai ex comandante del Crispi, ufficiale di grado più elevato rimasto dopo che Del Grande era stato già imbarcato su un aereo diretto in Germania.

Il treno lasciò la stazione di Larissa (Atene) alle 18; il comandante superiore tedesco aveva detto agli scettici ufficiali italiani che la destinazione del convoglio era l’Italia settentrionale, ma in realtà il treno li portava verso la prigionia in Germania. Per giustificare l’arzigogolato percorso seguito dal treno, fu detto agli equipaggi italiani che il viaggio sarebbe stato più lungo del normale a causa degli attacchi dei partigiani jugoslavi, che avevano distrutto numerosi ponti lungo il percorso.

Gli equipaggi italiani ormai prigionieri affrontarono così un lungo carosello per tutta l’Europa orientale: il treno fece scalo a Salonicco, poi Skopje in Macedonia, Nic, Sofia, Filippopoli, Sciumla e Provadia in Bulgaria; il 3 ottobre attraversò il Danubio a Cornovada e poi fece scalo a Galaz (Bessarabia, Romania). Il 5 ottobre il convoglio transitò per Fetosta e Tandarei in Transilvania, poi entrò in Ungheria, toccando Varadino, Seghedino e Nagykanizza; il 10 entrò in Austria e sostò a Matterburg, dove salirono a bordo soldati tedeschi armati che assunsero la scorta degli italiani. Furono toccate Vienna e Linz e infine si entrò in Germania: Norimberga, Iena ed il 12 ottobre Bad Sulza, in Turingia, a sud di Lipsia.

Qui le sorti degli italiani si divisero: le vetture ov’erano sistemati gli ufficiali furono infatti staccate, e venne impedito ogni contatto tra ufficiali e marinai, al punto che l’attendente di un ufficiale venne colpito da una fucilata alla spalla per aver cercato di salutarlo.

Nel campo di Bad Sulza gli ufficiali ricevettero il loro numero di matricola di prigionieri, e dovettero consegnare il denaro che avevano; un ufficiale tedesco li esortò di nuovo a proseguire la guerra a fianco delle forze tedesche, ma ottenne un compatto rifiuto.

Il 14 ottobre il treno con gli ufficiali ripartì, con scorta armata e senza più il capitano di fregata Verzocchi, ed attraversò Lipsia, Dresda, Open per poi entrare in Polonia: Cracovia, Tarnow e la destinazione finale, Leopoli, dove giunse il 20 ottobre. In questi sei giorni di viaggio i prigionieri non ricevettero alcun cibo.


Sottufficiali e marinai rimasero a Bad Sulza, nello Stalag IX C. Questo campo, dal quale dipendevano numerosi sottocampi (Arbeitskommando) sparpagliati per una vasta area della Turingia, era stato creato nel febbraio 1940 ed aveva inizialmente ospitato prigionieri polacchi catturati durante l’invasione del loro Paese; ad essi si erano aggiunti, quattro mesi dopo, numerosi prigionieri belgi e francesi catturati durante la conquista tedesca delle rispettive nazioni, ed a fine 1940 erano arrivati anche soldati britannici catturati a Dunkerque, seguiti nell’aprile del 1941 da prigionieri jugoslavi e poi da altri britannici e canadesi catturati in Nordafrica, Italia (1943) ed Olanda (ottobre 1944). Per ultimi, nel dicembre 1944, arrivarono soldati statunitensi catturati durante l’offensiva delle Ardenne. I prigionieri, in tutto 50.000 (oltre alle nazionalità già citate, ed agli italiani arrivati dopo il settembre 1943, c’erano anche prigionieri sovietici), lavoravano in varie fabbriche della regione e nelle miniere di potassio di Mühlhausen. Dipendevano dallo Stalag IX C anche due ospedali: il grande Reserve-Lazaret IX-C(a) di Obermassfeld ed il piccolo Reserve-Lazaret IX-C(b) di Meiningen.

La prima notte dopo il loro arrivo a Bad Sulza, i prigionieri di Marina italiani giunti dal Pireo la passarono all’addiaccio; il mattino successivo ricevettero delle patate cotte per il pasto, dopo di che vennero radunati, ed un ufficiale che parlava italiano pose loro una scelta: restare nel campo di prigionia; arruolarsi nella Wehrmacht; o lavorare nelle fabbriche. La maggioranza scelse la terza opzione; i prigionieri vennero pertanto divisi in gruppi ed inviati a lavorare in fabbrica in varie località della Turingia, attività che continuarono a svolgere fino alla loro liberazione, nelle ultime settimane della guerra.

Il 29 marzo 1945 lo Stalag IX C venne evacuato dinanzi all’avanzata statunitense: parte dei prigionieri furono costretti a marciare per quattro settimane prima di essere liberati da truppe statunitensi. I prigionieri rimasti al campo furono liberati dalla 6a Divisione corazzata statunitense (facente parte della 3a Armata del generale Patton) l’11 aprile 1945.

Altri prigionieri vennero trasferiti da Bad Sulza nello Stalag XI B di Fallingbostel, in Bassa Sassonia. Questo campo era sorto nel 1937 come villaggio di baracche destinate ad alloggiare gli operai impegnati nella costruzione della nuova base militare di Bergen; nel settembre 1939, con lo scoppio della guerra, le baracche erano state circondate con del filo spinato e la struttura era stata così trasformata un campo di prigionia. Primi “ospiti”, verso la fine del 1939, erano stati prigionieri polacchi, seguiti nel 1940 da belgi e francesi; entro la fine del 1940 i prigionieri dello Stalag XI B erano già diventati 40.000, di cui però soltanto 2500 erano effettivamente alloggiati nel campo principale, mentre gli altri erano dispersi nei numerosi sottocapi di lavoro (Arbeitskommando) sparpagliati nella regione circostante. All’apice dell’attività, sarebbero stati ben 1500 gli Arbeitskommando dipendenti dallo Stalag XI B: in parte i prigionieri erano adibiti a lavori agricoli, in parte nell’industria, comprese – benché fosse vietato dalla Convenzione di Ginevra – le fabbriche di munizioni. Il servizio di guardia era espletato dai militi del Landesschützen-Bataillon 461, appartenenti alle classi anziane o comunque considerati inadatti al servizio di prima linea. Nel luglio del 1941, con l’invasione dell’Unione Sovietica, era sorto un secondo campo denominato Stalag XI D (o Stalag 321), destinato esclusivamente ai prigionieri sovietici: questi ultimi, dei quali era pianificato lo sterminio, non disponevano di baracche, e dovevano dormire in buche scavate nel terreno, ricevendo al contempo razioni di cibo ampiamente insufficienti anche per la sola sopravvivenza (queste furono leggermente aumentate a inizio 1942, in modo da mettere i prigionieri almeno in condizione di lavorare, ma rimasero ancora largamente inferiori al necessario, ed i prigionieri continuarono a morire, adesso di sfinimento). Ben presto i sovietici iniziarono a morire a decine al giorno, di fame, di malattie e, più tardi, anche di freddo. Altri 10.000 prigionieri sovietici vennero imprigionati nello Stalag XI B, dove nel novembre 1941 vennero finalmente costruite alcune baracche. Sul finire del 1941 gli ufficiali superiori, i funzionari del Partito Comunista e gli ebrei vennero separati dagli altri prigionieri e trasferiti nei campi di concentramento di Sachsenhausen e Neuengamme, dove furono uccisi mediante fucilazione o nelle camere a gas; in novembre scoppiò in entrambi gli Stalag di Fallingbostel un’epidemia di tifo, protrattasi fino al febbraio 1942, che incrementò il già elevato tasso di mortalità dei prigionieri sovietici: fino ad un centinaio di morti al giorno, di fame e di freddo, durante l’inverno 1941-1942. Nel luglio 1942 lo Stalag XI D venne soppresso, ed i prigionieri superstiti furono trasferiti nello Stalag XI D.

Questa era la situazione quando sul finire del 1943 arrivò a Fallingbostel un nuovo numeroso gruppo di prigionieri, gli “internati militari” italiani: sottoposti a maltrattamenti, ebbero il secondo più elevato tasso di mortalità tra i vari gruppi di prigionieri del campo, superato soltanto da quello dei sovietici. I malati ed i moribondi erano confinati in una baracca a parte: “Alla mattina v'era sempre qualcuno che purtroppo non si muoveva più. Il poveretto veniva preso, messo in una “finta cassa” da morto e quindi trasportato fuori con un carretto. Distante dalle baracche c'era una grande fossa, la cassa veniva posta su un binario, quindi il fondo della stessa veniva sfilato, il corpo cadeva e subito gli veniva versata sopra della calce in polvere. Il carretto tornava con la cassa, vuota, pronta per un altro cadavere, e così via”.

Gli italiani furono alloggiati in grandi baracche suddivise in dodici locali, ognuno dei quali conteneva dodici letti a castello a tre piani, senza materassi: si dormiva sul legno. Il pasto giornaliero consisteva in un mestolo di acqua e rape, un chilo di pane ed un etto di margarina da dividere in otto.

Poco dopo l’arrivo al campo, i prigionieri furono arringati da un gerarca fascista che promise loro il pronto rimpatrio se avessero aderito alla Repubblica Sociale Italiana, e pronosticò loro vita dura e fame se avessero rifiutato. Nondimeno, furono pochi coloro che aderirono alla RSI.

Anche gli italiani, dopo l’arrivo a Fallingbostel, furono smistati nei numerosi Arbeitskommando della regione, andando a svolgere i lavori più disparati. Le condizioni di vita e di lavoro degli I.M.I. potevano variare sensibilmente a seconda della propria destinazione: in alcuni sottocampi, come l’Arbeitskommando 6008 di Hilkerode (frazione di Duderstadt nella Bassa Sassonia), la vita era difficile. Il sottocampo era composto da quattro baracche per i prigionieri ed una adibita a comando tedesco, il tutto circondato da filo spinato; anche qui i prigionieri erano alloggiati in camerate con letti a castello a tre piani, scaldate da una grossa stufa. Servizi igienici inesistenti: un secchio serviva da gabinetto per un’intera baracca; un altro secchio serviva per contenere cibo e bevande, per l’acqua con cui lavare i pavimenti e per quella con cui bollire gli indumenti – sempre le stesse divise indossate al momento della cattura, ormai logore e strappate: nessun vestito di ricambio fu mai fornito –; insetti e pidocchi dilagavano. Il corpo di guardia era composto da una decina di militari tedeschi della III Compagnia del 719° Battaglione Fanteria. I prigionieri qui distaccati erano adibiti ai lavori di costruzione di una nuova fabbrica, la Otto-Schickert-Werke di Rhumspringe (uno stabilimento chimico destinato alla produzione del perossido di idrogeno); vi era un’unica pausa di mezz’ora all’ora di pranzo, ma il pranzo non c’era: gli unici pasti consistevano in una tazza di caffè d’orzo a colazione ed in un mestolo di acqua e rape, pane e margarina da dividere in otto per cena. Di domenica i prigionieri non dovevano lavorare, ma il comandante del campo radunava i prigionieri chiedendo se volessero aderire alla RSI: ottenendo sempre un rifiuto, li puniva costringendoli a marciare per un’ora col passo dell’oca. La fame era tanta, ma quanto meno ai prigionieri era consentito di scrivere a casa una volta al mese e di ricevere dalle famiglie pacchi con vestiario e generi alimentari. Sia i militari di guardia che i civili tedeschi con cui i prigionieri lavoravano non perdevano occasione per maltrattare gli italiani, sempre insultati e spesso malmenati per qualche piccolezza; ai prigionieri era persino proibito di avvicinarsi ai bidoni in cui i cuochi che preparavano i pasti per gli operai tedeschi gettavano le bucce delle patate, e quando un artigliere alpino fu sorpreso a rubare le bucce per placare la terribile fame, venne picchiato a morte. Indeboliti dall’insufficienza del vitto, molti prigionieri si ammalavano di dissenteria, tubercolosi od altre malattie, per le quali non ricevevano alcuna cura (né subivano alcuna maggiorazione delle magrissime razioni), anche se almeno venivano esentati dal lavoro. Su 450 "internati militari italiani" dell’Arbeitskommando 6008, almeno 51 morirono durante la prigionia. Un sopravvissuto, militare dell’Esercito, avrebbe così ricordato quella vita d’inferno: “Da parte loro i soldati tedeschi non perdevano occasione per ostentare il loro disprezzo e trattarci da miserabili. “Scheisse Mensch” – uomo di merda – era il loro normale, eterno modo di interpellarci. Vestiti con le nostre vecchie uniformi, ormai logore e strappate, senza uno straccio di coperta per la notte, ricoperti di pidocchi. Tenuti a trasportare all'alba, per svuotarli in una vasca esterna alla baracca, i bidoni pieni d'escrementi e orina: tanto colmi che ci schizzavano ogni volta, e per l'interno giorno ci sentivamo sporchi e puzzolenti, privi di forza per reagire, camminando e lavorando come automi. Senza parlare poi delle “mancanze”: il minimo ritardo alla “conta” del mattino, un allineamento non perfetto in squadra nell'andata e ritorno dal lavoro, e così via. Erano botte dure sul momento. E peggio alla sera, rientrati e inquadrati nel cortile, prima della gavetta d'acqua e rape, dover assistere alla barbara pena d'un compagno incorso in punizione. Col poveraccio spogliato a petto nudo, costretto a sollevare pesi su e giù, e per finire, secchi d'acqua gelata su di lui. Quasi un programma vero e proprio d'annientamento fisico e morale”.

Anche in queste condizioni, i prigionieri trovarono la forza per escogitare degli atti di sabotaggio ai danni dei loro carcerieri: ad esempio, inserendo degli stracci nelle tubature (destinate ad un impianto chimico) che venivano poi saldate, in modo da otturarle.

Altri sottocampi, come quello di Neuhaus (Hildesheim), erano viceversa caratterizzati da condizioni nettamente migliori: questo piccolo Arbeitskommando era composto da poco più di una trentina di soldati italiani, sorvegliati da un caporale tedesco zoppo che, a differenza dei suoi commilitoni di Hilkerode, era di buon carattere, al punto di non chiudere il cancello neanche di notte. Anche qui i prigionieri erano adibiti al lavoro in fabbrica (in questo caso, dedicata alla produzione di mattonelle di catrame), ma il rancio era più abbondante – due pasti al giorno, cucinati da civili belgi: oltre a pane e margarina, la razione comprendeva anche delle patate bollite – e sui letti a castello c’erano materassi di paglia. L’orario lavorativo era di nove ore al giorno: dalle otto del mattino a mezzogiorno e poi dall’una del pomeriggio alle sei di sera. Anche qui giunsero fascisti italiani a sollecitare l’adesione alla R.S.I., ed anche qui non ebbero successo.

A metà 1944 i prigionieri di Fallingbostel erano 98.380: 25.277 sovietici e 79.928 di altre nazionalità, in maggioranza distaccati nei vari Arbeitskommando. Nel settembre 1944 venne creato, nell’area in cui era esistito lo Stalag XI D, un nuovo campo di prigionia, lo Stalag 357 (qui trasferito da Thorn, in Polonia): alla sua costruzione furono adibiti i prigionieri italiani, mentre gli “ospiti” furono principalmente soldati del Commonwealth, ma anche sovietici, jugoslavi, francesi, polacchi e statunitensi. In tutto 17.000 uomini, con una media di 400 per baracca (ma con cuccette soltanto per 150 a baracca), in condizioni dunque di notevole sovraffollamento; a inizio 1945 la carenza di vitto e medicinali venne aggravata dall’arrivo di centinaia di prigionieri statunitensi catturati nelle Ardenne, che dovettero essere alloggiati in tende. Nell’aprile 1945, dinanzi all’avanzata Alleata, 12.000 prigionieri dello Stalag 357 in buone condizioni fisiche vennero evacuati verso nordest con marce forzate, in colonne di 2000 uomini; giunti a Gresse, ad est dell’Elba, dopo una marcia di dieci giorni, furono qui mitragliati da caccia britannici che li avevano scambiati per truppe tedesche, con diverse decine di morti. Un sergente della RAF convinse l’ormai ex comandante del campo 357, il colonnello Hermann Ostmann, a mandarlo verso ovest per prendere contatto con le truppe britanniche, in modo da arrendersi a queste ultime invece che ai sovietici; così avvenne il 3 maggio 1945. I prigionieri rimasti a Fallingbostel, in tutto 17.000, vennero liberati ancor prima: il 16 aprile 1945, infatti, lo Squadrone "B" dell’11° Reggimento Ussari e lo squadrone da ricognizione dell’8° Reggimento Ussari britannici liberarono lo Stalag XI B e lo Stalag 357: proprio la sezione del campo in cui erano rinchiusi gli italiani fu la prima ad essere raggiunta dai reparti britannici al loro arrivo.

Nel dopoguerra, con un tocco di giustizia poetica, l’ex Stalag XI B venne adibito dai britannici all’internamento dei membri dell’ormai disciolto Partito Nazista, prima di essere impiegato come campo profughi.

In totale, circa 30.000 prigionieri morirono nei campi di Fallingbostel durante la seconda guerra mondiale: nella quasi totalità si trattava di prigionieri sovietici, mentre 734 erano di altre nazionalità, cioè italiani, francesi, polacchi, britannici, belgi, statunitensi, jugoslavi, olandesi, sudafricani, slovacchi e canadesi. Tutti i prigionieri sovietici, e 273 di quelli di altre nazionalità, riposano oggi nel “Cimitero dei Senza Nome” di Oerbke.


Questa fu dunque la sorte dei sottufficiali e marinai italiani catturati al Pireo. Quanto agli ufficiali, separati dalla “bassa forza” a Bad Sulza e trasferiti più ad est, una volta giunti a Leopoli vennero perquisiti ed alloggiati nella cittadella, dove rimasero fino all’inizio del gennaio 1944, tranne gli ufficiali superiori, i quali furono trasferiti tra fine ottobre e inizio novembre a Tschenstochau (Polonia). Nel campo, destinato ai soli ufficiali (ve n’erano 3500, con 150 soldati) vennero organizzati dei corsi di lingue, ingegneria, architettura e diritto e conferenze a tema scientifico o letterario; con i libri in possesso degli ufficiali venne creata una biblioteca. Gli ufficiali prigionieri elessero come loro fiduciario ed anziano del campo (in sostanza, comandante dei prigionieri) il tenente di vascello Giuseppe Brignole, già comandante della Calatafimi, Medaglia d’Oro al Valor Militare per aver attaccato con la sua nave, sola, una preponderante formazione navale francese che stava bombardando Genova, nel giugno 1940.

Vi furono varie visite di ufficiali italiani che avevano aderito alla Repubblica Sociale Italiana (dapprima il colonnello degli alpini Bracco e successivamente il maggiore Marcello Vaccari, anch’egli degli alpini, ex prefetto di Napoli), i quali invitarono i loro “colleghi” a fare altrettanto (Vaccari, per la verità, li esortò a rientrare comunque in Italia e poi decidere il da farsi una volta rimpatriati, il che portò alla sua destituzione e successiva messa sotto inchiesta da parte tedesca); solo il 12 % accettò. Il 2 gennaio gli ufficiali in servizio permanente effettivo, censiti dal comando tedesco, vennero separati dagli altri e trasferiti nel campo di Ari Lager a Deblin, distaccamento dello Stalag 307 di Deblin Irina (distante un paio di chilometri), a sud di Varsavia (tra di essi era anche il tenente di vascello Brignole, che anche nel nuovo campo mantenne l’incarico di “Anziano” fino all’agosto 1944, quando lo cedette al colonnello Arrigo Angiolini, da poco arrivato da un altro campo). A Deblin Irina si trovavano circa 6000 ufficiali prigionieri (c’era anche un distaccamento di soldati della RSI, comandato da un console della MVSN), 1250 erano ad Ari Lager; sia a Leopoli che a Deblin i prigionieri erano sistemati in caserme in muratura con riscaldamento sufficiente, ma questa era l’unica nota positiva. Il cibo infatti scarseggiava, a svantaggio soprattutto di giovani e malati, che deperivano senza possibilità di recupero; i medicinali erano completamente assenti, e sia all’arrivo che durante la permanenza al campo gli ufficiali furono più volte perquisiti dalla Gestapo, venendo denudati, tenuti all’aperto nella neve per 5-6 ore (con temperature di 5-10 gradi sotto zero), e sistematicamente derubati di ogni oggetto di valore o di utilità (macchine fotografiche, binocoli, strumenti nautici, vestiario, posate che sembravano d’argento, denaro e oggetti preziosi): persino le fodere delle giacche e le suole delle scarpe venivano scucite, nell’eventualità che i prigionieri vi avessero nascosto qualche oggetto di valore. Anche in queste condizioni, vennero organizzate conferenze culturali e patriottiche ed intrattenimenti musicali, per tenere alto il morale.

La popolazione polacca cercò generosamente di aiutare i prigionieri italiani, anche a rischio della vita: nonostante la presenza di sentinelle tedesche armate che colpivano chi si avvicinava col calcio del fucile, civili polacchi gettarono in più occasioni pane e mele (ed anche sigarette) ai prigionieri, sia lungo la ferrovia percorsa dai treni che li trasportavano (un treno, grazie alla cessione di vestiario da parte degli ufficiali e di tabacco da parte dei polacchi, poté essere interamente rifornito di provviste dopo tre giorni in cui ne ne erano state fornite dai tedeschi), sia per le vie di Leopoli che all’interno del campo di Deblin, dove civili si avvicinavano ai reticolati con il favore del buio e lanciavano un centinaio di pagnotte per volta all’interno.

Gli ufficiali rimasero prigionieri a Deblin dal 5 gennaio al 12 marzo 1944, quando iniziò il loro trasferimento nello Stalag X-B di Sandbostel, in Germania (precisamente, in Bassa Sassonia), che fu completato il 19 marzo. Un giovane guardiamarina, avendo tentato di nascondersi in una soffitta per scappare, venne scoperto, picchiato, privato delle scarpe, spogliato e rivestito con inadeguati abiti di tela (una volta giunto a Sandbostel, fu condannato a due settimane di carcere duro in isolamento, a pane e acqua). Tutti gli ufficiali, prima della partenza, furono denudati e tenuti in questo stato (e senza cibo) per 12 ore in locali non riscaldati, a temperatura di –10° C. Di nuovo furono derubati di tutti gli oggetti ritenuti “non leciti”, comprese cinghie per pantaloni, oggetti da toilette, coltelli sia da tasca sia da tavola, rasoi di sicurezza, penne stilografiche e sigarette; poi, dopo essere stati tenuti ad aspettare a lungo sotto la pioggia battente, furono chiusi in carri bestiame privi di illuminazione e riscaldamento e sporchi per i precedenti trasporti, e portati così – i vagoni venivano aperti una sola volta al giorno, per la distribuzione del cibo – fino a Bremerforde, a 14 km dallo Stalag X-B, dopo di che dovettero percorrere a piedi, sotto la pioggia, l’ultimo tratto del percorso.

Una volta nel nuovo campo, gli ufficiali vennero nuovamente ispezionati, indi sistemati provvisoriamente in baracche senza infissi, riscaldamento, illuminazione, posti letto od anche solo paglia; dopo la disinfezione (i bagagli, aperti per questa operazione, vennero poi gettati alla rinfusa nel piazzale, sotto la neve ed esposti al vento) ed una doccia, furono trasferiti in nuove baracche non compartimentate, con posti letto ad alveare, dov’erano ammassati mediamente in 280 in una baracca di 22 metri per 11. Poco cibo, molti pidocchi e temperature rigide debilitarono di molto i prigionieri; nell’aprile 1944 i malati in gravi condizioni erano almeno un migliaio, con un elevato tasso di mortalità. Le sentinelle del campo avevano il grilletto facile, e tra marzo e agosto almeno cinque ufficiali caddero sotto i loro colpi.

Nel maggio 1944 il campo fu visitato da funzionari della Croce Rossa Italiana (dottor De Luca e signora Muzi Falcone), il che portò ad un lieve miglioramento delle condizioni di vita (venne distribuita un po’ di paglia per i giacigli); in agosto, tuttavia, quando gli ufficiali si rifiutarono di lavorare per i tedeschi (in base alla Convenzione di Ginevra, gli ufficiali prigionieri non potevano essere costretti a lavorare: ma le autorità tedesche avevano classificato gli italiani «internati militari», anziché «prigionieri di guerra», proprio per eludere tali regole), le condizioni peggiorarono nuovamente.

Nell’estate-autunno del 1944 l’erogazione dell’acqua, non potabile, venne ridotta a poche ore al giorno, talvolta poche decine di minuti (in dodici mesi i prigionieri poterono fare una sola doccia calda di cinque minuti); tutte le coperte sane vennero confiscate per essere distribuite alle truppe territoriali tedesche, recentemente formate. La razione di cibo non forniva neanche le calorie necessarie per un uomo a completo riposo, provocando molte malattie da denutrizione (a seguito delle proteste, la razione fu portata a 500 g di patate al giorno, ma in agosto, dopo il rifiuto di lavorare, fu nuovamente diminuita). La quantità di cibo disponibile veniva leggermente incrementata con le verdure di orticelli coltivati dagli internati e dai pacchi di viveri inviati dalle famiglie in Italia.

A fine agosto 1944 scoppiò un’epidemia di tipo petecchiale; il campo fu posto in quarantena, ma non vennero forniti medicinali. Vitto e clima provocavano un’elevata incidenza di infezioni intestinali, e le latrine erano mal fatte e del tutto insufficienti (una ogni 50 uomini); si diffuse anche la tubercolosi.

Il servizio postale era lentissimo, a causa dei tempi della censura (in media occorrevano 40 giorni perché una lettera dall’Italia settentrionale fosse consegnata, ma si arrivava anche a 75); molte lettere venivano distrutte senza neanche essere state controllate, per ridurre il lavoro dei censori. Non era possibile scrivere ad autorità diplomatiche, consolari o governative, né a parenti in Germania che non fossero di primo grado, e meno che mai alla Croce Rossa Internazionale, con la quale era proibito ogni contatto. I prigionieri potevano ricevere pacchi dalle famiglie (non più di due al mese, per un peso complessivo di 9 kg), ma il loro invio dall’Italia settentrionale (sotto controllo tedesco) subiva frequenti sospensioni, mentre le spedizioni dall’Italia meridionale (sotto controllo angloamericano) divennero possibili solo a partire dal novembre 1944; in tutto, soltanto un terzo dei pacchi spediti raggiunse i destinatari. Il Servizio Assistenza Internati della Repubblica Sociale Italiana inviò a sua volta delle provviste; complessivamente, durante la permanenza al campo ogni internato ricevette da tale Servizio 3 kg di riso, 2 kg di galletta, due scatole di latte condensato, 500 grammi di zucchero ed altrettanti di marmellata. Verso la fine del 1944 la tabella alimentare subì forti riduzioni, di 500-600 grammi giornalieri. Per cuocere il cibo c’era un pentolino ogni sei uomini e poco carbone, la cui razione giornaliera fu ridotta nell’autunno del 1944 a 676 grammi a persona (compreso anche quello destinato al riscaldamento).

Esistevano all’interno dei campi degli spacci che vendevano matite, dentifricio, lamette da barba, ma non generi alimentari; i prigionieri potevano farvi compere con il Lagergeld, una valuta che aveva corso esclusivamente all’interno dei campi di prigionia, della quale ricevevano periodicamente somme che variavano a seconda del grado.

Alla fine del gennaio 1945 la maggior parte degli ufficiali fu trasferita nello Stalag X-D di Wietzendorf, sempre in Bassa Sassonia, dove si trovavano in tutto circa 3000 ufficiali italiani, 700 dei quali troppo debilitati per poter essere trasferiti. Un migliaio di ufficiali, ritenuti irriducibili, vennero invece inviati nello Stalag XI-B di Fallingbostel (dove fu di nuovo il tenente di vascello Brignole a ricevere la carica di fiduciario, mentre quella di anziano fu ricoperta dal tenente colonnello Alberto Guzzinati). Il 15 febbraio 1945 una nuova ingiunzione di lavorare, con la minaccia in caso contrario della condanna ai lavori forzati, fu respinta; venne progettato di trasferire allora i prigionieri nel campo di concentramenti di Buchenwald, ma fortunatamente tale piano non poté essere messo in atto poiché le truppe tedesche nella regione, compreso il campo di Fallingbostel, furono rinchiuse in una sacca dalle forze Alleate, e nel pomeriggio del 16 aprile 1945 lo Stalag XI-B venne liberato da reparti della 15ª divisione corazzata britannica. Tre giorni prima era stato liberato anche lo Stalag X-D di Wietzendorf.

I prigionieri italiani liberati dai campi della Germania settentrionale furono concentrati dai britannici nel campo di Munsterlager, nella zona di Hannover (dove di nuovo il comando dei prigionieri andò al tenente di vascello Brignole: questi li divise in nove compagnie e ripristinò molte abitudini militari, tra cui adunate generali, rapporto giornaliero, controllo della libera uscita, servizio di guardia ai cancelli, alza e ammaina bandiera e punizioni per le infrazioni disciplinari), da dove il 30 agosto 1945 ebbe inizio il viaggio di rimpatrio, prima su camion fino a Brunswich, poi in treno fino in Italia.


Furono ben quindici gli uomini del Crispi che non fecero ritorno dalla prigionia.

Del sottocapo meccanico Giuseppe Isetta, da Follo, appena diciottenne, si persero le tracce lo stesso 9 settembre 1943: risulta ufficialmente disperso nella data della cattura del Crispi, stranamente “nel Mediterraneo orientale”, come se fosse morto in mare, e non in Grecia.

Come per innumerevoli altri militari italiani semplicemente svaniti nel caos di quei confusi e tragici giorni, niente è dato sapere sulla sua sorte. Forse, sfuggito alla cattura, si unì alla Resistenza greca e morì combattendo senza che nessuno conoscesse la sua vera identità; forse trovò la morte nel tentativo di tornare fortunosamente in Italia; forse rimase vittima di una rappresaglia tedesca senza mai essere identificato. Forse l’indicazione del “Mediterraneo orientale” come luogo della morte è frutto di un errore amministrativo, forse fa invece riferimento ad una scomparsa avvenuta durante un tentativo di fuga in mare.

Anche il marinaio cannoniere Antonio Formisano, 24 anni, da San Giorgio a Cremano, secondo i dati del Commissariato Generale per le Onoranze ai Caduti in guerra del Ministero della Difesa risulta disperso in prigionia in Germania il 9 settembre 1943; tuttavia gli Archivi di Arolsen, il più grande centro documentazione al mondo sui campi di concentramento della Germania nazista, permettono di avere qualche informazione in più sulla sua sorte successiva. Dopo la cattura al Pireo Antonio Formisano, in circostanze che non è dato conoscere, non finì in un “semplice” campo di prigionia ma in un vero e proprio campo di concentramento: quello di Buchenwald, dove fu classificato “prigioniero politico” e ricevette la matricola 23372, il 15 ottobre 1943.

Da Buchenwald Formisano venne trasferito il 27 giugno 1944 – data in cui un rapporto medico sulle sue condizioni parlava di “lesione al 3° e 4° dito destro con atrofia e paralisi, vista debole all’occhio destro, piedi piatti, dentizione incompleta” – nel Kommando Laura, un sottocampo situato a Lehesten, 30 km a sudest di Saalfeld (Turingia), i cui deportati erano adibiti allo scavo, in una vecchia cava d’ardesia a 900 metri di quota, delle gallerie destinate ad ospitare gli impianti per i test dei missili V2 e per la produzione dell'ossigeno liquido e del nitrogeno da questi usati come carburante. (Da altra fonte il percorso fatto risulterebbe contrario: a metà ottobre 1943 170 militari italiani prigionieri furono trasferiti da Oranienburg al Kommando Laura per essere adibiti insieme ai deportati politici allo scavo delle gallerie, ed il 27 giugno 1944 gli 83 che ancora erano vivi, 21 dei quali in condizioni tali che il medico del campo ne sconsigliava il trasferimento prima di un mese e mezzo, furono mandati a Buchenwald. Tra di essi vi dovevano essere Formisano e, come si vedrà, diversi altri membri dell’equipaggio del Crispi).


Documenti del campo di concentramento relativi ad Antonio Formisano (Arolsen Archives)


Aperto il 21 settembre 1943 (dopo il bombardamento di Peenemünde dell’agosto precedente, che aveva portato alla decisione di trasferire sottoterra gli impianti) ed attivo fino al 13 aprile 1945, “Laura” aveva inizialmente 200 detenuti ma questo numero crebbe rapidamente fino a 1200 nel dicembre 1943, per poi dimezzarsi da lì alla fine della guerra; in 540 vi morirono. Dal settembre 1943 all'inizio dell'aprile 1944 i prigionieri lavorarono allo scavo delle gallerie sotterranee della fabbrica in condizioni infernali, lavorando fino allo sfinimento tra i morti provocati oltre che da fatica e maltrattamenti dai continui incidenti, alloggiati in hangar esposti al vento e al freddo, con poco cibo e nessuna assistenza sanitaria. Nell'aprile 1944, quando gli impianti divennero operativi, le condizioni di vita ebbero un certo miglioramento, ma la mortalità rimase considerevole. La produzione rimase inferiore a quanto preventivato dai tedeschi, anche grazie ai sabotaggi operati dai prigionieri a rischio della vita.

Successivamente Formisano fu nuovamente trasferito in un altro famigerato campo di concentramento, Dora-Mittelbau, vicino a Nordhausen. In questo campo, creato nella tarda estate del 1943 ed attivo fino all’aprile 1945, i prigionieri, 60.000 in tutto, erano impiegati nella costruzione dei missili V1 e V2: vivevano e lavoravano in condizioni disumane, nelle gallerie sotterranee scavate nella roccia del monte Kohnstein, nel gruppo degli Harz (sempre in Turingia), dov’era stata delocalizzata la produzione delle V1 e V2 per sottrarle ai bombardamenti aerei Alleati dopo le incursioni della RAF sugli impianti di Peenemünde, dove le “super-armi” erano state sviluppate, nell’agosto del 1943. Il bombardamento di Peenemünde aveva avuto luogo tra il 17 ed il 18 agosto 1943, e già dieci giorni dopo, il 28 agosto, i primi deportati erano arrivati nel neocostituito campo di Dora, sorto inizialmente come sottocampo (Arbeitslager) del campo di concentramento di Buchenwald. Nel gennaio 1944, essendo stata ormai completata buona parte delle gallerie, ebbe inizio l’attività di assemblaggio delle V1 e V2; dal momento che i deportati impiegati nella fase iniziale dei lavori di realizzazione delle gallerie – sovietici, polacchi e francesi – erano in gran parte morti di freddo e di fame, ed i rimanenti erano indeboliti o considerati “poco qualificati”, furono trasferite a Dora aliquote di prigionieri prelevati da altri campi. Quando questi furono diventati troppo numerosi per poter essere tutti alloggiati nelle gallerie, si iniziarono a realizzare baracche sulle alture circostanti; il 28 ottobre 1944 Dora-Mittelbau divenne un campo di concentramento autonomo, con una quarantina di sottocampi dipendenti sparpagliati per i monti Harz. Vennero realizzate altre gallerie, per trasferire sottoterra, al riparo dai bombardamenti, anche depositi di carburante e fabbriche di aerei.

La maggior parte dei prigionieri erano sovietici, polacchi e francesi, ma c’erano anche 1500 italiani, per la metà militari catturati dopo l’8 settembre e per metà oppositori politici (contraddistinti dal triangolo rosso): i primi erano giunti nel dicembre 1943. I militari italiani trasferiti a Dora indossavano la stessa divisa degli altri deportati, il tristemente famoso “pigiama a righe”, contraddistinto però dalla scritta «I.M.I.»; ma il trattamento non differiva minimamente da quello degli altri deportati. Le SS li chiamavano sprezzantemente “Badoglio” o “maccaroni”.

Impiegati nello scavo delle gallerie, i prigionieri lavoravano quattordici ore al giorno, con pochissimo cibo (un solo pasto al giorno, al mattino: una zuppetta, una tazza di caffè d’orzo annacquato, un pezzetto di pane), tormentati dai pidocchi e senza vedere la luce del sole per mesi; dormivano in letti a castello di legno, senza coperte, respirando continuamente polvere. Chi commetteva infrazioni di qualsiasi tipo – sabotaggio, ma anche soltanto tentare di rubare un po’ di cibo in più o di riposarsi un poco – era punito davanti a tutti, con la fustigazione o l’impiccagione, a seconda del “reato” commesso. Ciononostante, molti furono gli atti di sabotaggio commessi da quei prigionieri, che nella sconfitta della Germania – e quindi anche nel fallimento delle sue nuove armi – riponevano tutte le speranze di salvezza: i congegni di controllo delle V2 potevano essere facilmente messi fuori uso, ed i difetti non sarebbero stati scoperti fino al momento del lancio. Infatti, ben un quinto delle V1 prodotte non riuscì neanche a partire, mentre delle V2 addirittura la metà esplose al momento del lancio, e metà di quelle partite non raggiunse mai l’Inghilterra.

Don Luigi Pasa, cappellano militare nel campo di Wietzendorf, così scriveva alle autorità vaticane, l’8 maggio 1945, riferendo dei deportati trasferiti da Dora-Mittelbau giunti a Wietzendorf pochi giorni prima: «…Ma nella massa che assomma tante copie di sofferenze quali neppur gli anni avvenire potranno del tutto rivelare sono facilmente individuabili e, per i segni fisici ed esteriori, i bigio-rigati provenienti dai lavori delle gallerie di Dora (Nordhausen) la cui tragedia va ricordata accanto a quelle vissute nei campi di Buckenwalde e di Belen. Sono circa 400 qui giunti la mattina del 4 maggio dal campo di Belen, dove erano stati trasferiti l’11 aprile (dopo l’abbandono di Dora sotto l’incalzare delle Armate Alleate) con un viaggio durato sei giorni ed effettuato in carri bestiame aperti, a più di 100 per carro, sotto la pioggia, senza cibo, seminando la strada ferrata di morti. Eppure avevano motivo di reputarsi fortunati i partiti da Dora, quando si sapeva che gli ultimi dei loro compagni, a seguito della impossibilità di trasporto, erano stati eliminati dalla mitragliatrice delle S. S. Dora, a circa 4 km. da Nordhausen in Turingia, era uno dei centri di fabbricazione dei V1 V2, altrimenti nota con il nome di Mittelwerok. Ivi furono fatti affluire già alla fine del 1943 internati politici di tutte le nazionalità, e nel dicembre dello stesso anno, circa 600 tra militari e politici italiani; il numero poi crebbe fino a 1300. Il primo lavoro consistette nella costruzione della galleria sotterranea, anzi del complesso di gallerie da adibirsi a cantiere per uno sviluppo di due km e mezzo di profondità per m. 200 di lunghezza. Tale opera venne realizzata con un sistema di lavoro forzato nella sua espressione più brutale e selvaggia, durata fino al 1 maggio 1944. In questo frattempo dei 25.000 adibiti ai lavori, moltissimi passarono più di 3 mesi senza mai vedere la luce del sole. Addensati nelle gallerie graveolenti di gas acetilene, sotto lo stillicidio della roccia, con un vitto affatto insufficiente (la ben nota razione dell’internato) privi di qualsiasi assistenza estranea e perfino di quella religiosa, senza alcuna notizia della famiglia, della Patria, del mondo, erano costretti al pesante lavoro dei minatori per 12 (e alle volte per 18) ore consecutive e con la non meno grossa appendice di due appelli, che significavano altre quattro ore sottratte al riposo. Dire queste cose è però dir nulla. Bisogna cavare dalle loro bocche, che a dire il vero non sono facili al racconto, la narrazione di quello che hanno sofferto, perché possiamo credere ai nostri orecchi noi, che pur abbiamo vissuto la vita di prigionia. Ogni frase, ogni particolare è una pennellata, che incupisce il calvario di questi sepolti vivi. Ci limitiamo a riferire alcuni appunti relativi alle loro condizioni generali di vita e di lavoro. Quelli del primo scaglione, non appena giunti sul posto, furono spogliati totalmente e vennero loro tolte le divise, gli indumenti e tutti gli oggetti che ancora avevano. Fu loro dato un vestito a larghe righe bianco-azzurre, il tipico vestito da galeotto e questo, che molti di essi portano ancora, caratterizza il rigore, cui erano sottoposti, più grave che in qualsiasi penitenziario. Il Comando del campo era affidato alle SS i quali si servivano per la disciplina di un corpo di criminali comuni tedeschi portanti i contrassegni dei loro delitti. Durante il lavoro invece erano sottoposti al controllo dei dirigenti civili o tecnici delle imprese esecutrici, sempre pronti a scaricare sui lavoratori qualsiasi responsabilità per guasti, rotture, ecc. ed a minacciare le feroci pene comminate per sabotaggio. SS, criminali comuni, dirigenti civili e controlli tecnici gareggiavano fra loro nei maltrattamenti. Oltre le ingiurie più umilianti e le percosse dispensate di continuo per motivi più futili o addirittura senza motivo venivano inflitte quotidianamente in serie le punizioni per così dire disciplinari costituite dalla fustigazione. Parecchi recano nel corpo e anche nel volto i segni dello staffile, subiti spesso per un pretesto qualsiasi, altre volte per motivi addirittura ignorati. La ferocia ed i metodi si esprimevano in modo particolare con la minaccia delle rappresaglie e con la punizione collettiva. Tutti hanno negli occhi le quotidiane impiccagioni, specialmente dei russi e la fucilazione, avvenuta verso al fine del 1943 di 7 alpini rei di aver chiesto anche per loro un supplemento (mezzo litro) di minestra di rape, di cui beneficiavano gli internati di altre nazionalità, adibiti allo stesso lavoro di perforazione. Tutto ciò per tacere delle più crudeli e raffinate sevizie escogitate dai feroci aguzzini. Nessun conforto, neppure di quelli minimi e indispensabili, che si realizzano nelle circostanze più misere della vita era lor concesso, non un giaciglio stabile, che ogni sera dovevano affidarsi alla sorte, non acqua né per bere, né per lavarsi, mentre l’insufficiente vitto era raccolto e consumato in vecchi barattoli da loro raccolti nell’immondezzaio. Tali condizioni di vita, anche solo accennate, fanno agevolmente ritenere, come conseguenza ineliminabile, l’alta mortalità subita. In proposito i sopravvissuti non hanno, anche per il rigoroso distacco in cui erano tenuti i vari gruppi, dati precisi. Ma qualche particolare può essere tragicamente significativo. Il sergente Vimercati Carlo di Cremano sul Naviglio (Milano) ed il caporale Mantovani Silvano di Mantova, mi asseriscono che dei 14 componenti del loro Komandos solo essi due sono oggi superstiti. Da varie risultanze, che sarebbe troppo lungo riferire, può ritenersi che – specie fra i lavoratori adibiti alla perforazione – la percentuale dei decessi abbia superato il 50%. Praticamente essendo nulla ogni assistenza sanitaria, i lavoratori dovevano portarsi al posto di lavoro anche se ammalati. Quando non erano più in grado di muoversi, venivano portati dai compagni al luogo dell’infermeria, che però abitualmente li rifiutava, accusandoli, senza neppure visitarli, di simulazione. E intanto ogni giorno morivano sul giaciglio di fortuna, ed al vicino incombeva portare fuori, al mattino, la spoglia del compagno e così, centinaia di corpi denudati si accatastavano ogni giorno nelle gallerie e uscivano solo morti alla luce del sole per venire portati a bruciare nel crematorio. Tale vita era resa più angosciosa dall’ignoranza della lingua e dalla mancanza di interpreti, dalla promiscuità di elementi di altre nazionalità, nei cui confronti i tedeschi ostentavano un trattamento meno astioso che per gli italiani, e specialmente dall’assoluta privazione di qualsiasi assistenza spirituale e religiosa e di qualsiasi collegamento epistolare con la famiglia e la Patria». Un sopravvissuto francese avrebbe ricordato: “Non vedevamo la luce del giorno che una volta alla settimana, in occasione dell'appello della domenica. Nel tunnel il freddo e l'umidità erano intensi. L'acqua che filtrava dalle pareti provocava una macerazione nauseante. Il fracasso inaudito che regnava lì dentro fu causa di veri crolli psicologici: rumore di macchine, rumore di martelli pneumatici, la campanella della locomotiva, continue esplosioni, tutto rimbombava e si ripercuoteva in un'eco senza fine nel chiuso del tunnel”.

In tutto, circa 20.000 prigionieri morirono a Dora-Mittelbau; a inizio aprile 1945 i superstiti vennero trasferiti, parte in treno e parte a piedi con marce forzate (le tristemente note “marce della morte”), verso Ravensbrück, Sachsenhausen e Bergen-Belsen, così che soltanto poche centinaia di superstiti scheletriti erano a Dora quando il campo fu liberato dalle forze statunitensi l’11 aprile 1945. Secondo i documenti disponibili, gli "internati militari italiani" che finirono in questo campo furono 861: ne morirono 304, e tra questi fu quasi certamente anche Antonio Formisano, la cui esatta data di morte sembra tuttavia essere sconosciuta. Un documento di fine ottobre 1944 attesta che si trovava prigioniero a Dora-Mittelbau; poi più nulla.


Il sergente S.D.T. Mario Genasi da Crespellano, il marinaio radiotelegrafista Dante Gozzini da Milano ed il sottocapo furiere Sibante Pagano da Riomaggiore riuscirono a sottrarsi alla cattura, od a fuggire, e si unirono alla Resistenza greca, ma il loro destino fu tragico: ricatturati dopo poche settimane e considerati non più come prigionieri di guerra o “internati militari”, ma come partigiani, subirono il trattamento a questi riservato dai nazisti e vennero fucilati nel poligono di Kesariani, vicino ad Atene, il 22 novembre 1943, insieme ad alcuni granatieri catturati in analoghe circostanze. Genasi aveva da poco compiuto 23 anni, Pagano era di un anno più giovane, Gozzini compiva diciannove anni proprio il giorno della sua morte. Furono sepolti nel cimitero di Atene, da dove in seguito i loro resti vennero traslati in sacrari in Italia o nei cimiteri dei rispettivi paesi natali.

Il sergente S.D.T. Mario Genasi (da www.storiaememoriadibologna.it)

Secondo una fonte avrebbe fatto parte dell’equipaggio del Crispi anche il sottocapo cannoniere Angelo Mosetti, 22 anni, da Savogna d’Isonzo, anch’egli fucilato a Kesariani il 22 novembre 1943 (per altra versione sarebbe deceduto in prigionia nella medesima data “per causa imprecisata” nell’ospedale da campo 536, in Grecia, e sepolto ad Atene). L’Albo dei caduti e dispersi della Marina Militare nella seconda guerra mondiale indica invece il suo reparto come “Cherca”, ma sembra abbastanza probabile un errore (non si vede come un militare di stanza a Cherca potesse essere finito in Grecia dopo l’armistizio) e che anche Mosetti facesse effettivamente parte dell’equipaggio del Crispi ed abbia condiviso la sorte di Genasi, Gozzini e Pagano.


Il marinaio Giovanni Dimini, di 21 anni, da San Lorenzo d’Albona, fu imprigionato in successione nello Stalag III D, nello Stalag IX C e nello Stalag IV B.

Lo Stalag III D era situato a Lichterfelde, sobborgo di Berlino: sorto nel 1938 come accampamento per 1400 lavoratori delle ferrovie tedesche originari dei Sudeti, l’anno successivo era stato parzialmente affittato dalla Wehrmacht, che ne aveva fatto un campo di prigionia, inviandovi un primo gruppo di 2600 prigionieri. La denominazione di Stalag III D venne attribuita al campo nell’agosto 1940; i primi prigionieri erano polacchi, mentre con l’invasione della Francia il gruppo più numeroso divenne quello dei francesi (nel gennaio 1941 questi ultimi erano 18.160, su un totale di 18.172 prigionieri dello Stalag III D). In totale lo Stalag III D “ospitò” fino a 58.000 prigionieri: oltre agli italiani, anche belgi, britannici, francesi, jugoslavi, sovietici, polacchi, cecoslovacchi e statunitensi. Caratteristica abbastanza insolita di questo campo era che un vero e proprio campo principale non esisteva, se non come unità amministrativa: i prigionieri erano suddivisi in una miriade di sottocampi (Zweiglager) e campi di lavoro (Arbeitskommando) situati in varie zone di Berlino o nei dintorni della città, venendo adibiti alla realizzazione di rifugi antiaerei od al lavoro nelle fabbriche di armamenti od in altre ditte minori della zona. I principali sottocampi erano a Falkensee, Zossen (Groß Schulzendorf), Friesack (Wutzetz, Damm I, Damm II), Neuruppin (Wustrau I, Wustrau II), Zietenhorst e Kirchhain/Niederlausitz. Il campo era servito da due ospedali, i Reservelazarett 119 di Neukölln e 128 di Berlino-Biesdorf. Con l’armistizio di Cassibile e l’operazione "Achse" per la neutralizzazione delle forze armate italiane, furono gli italiani a diventare il gruppo più numeroso allo Stalag III D: nel dicembre 1943, infatti, erano 30.519 gli “internati militari italiani” registrati presso questo campo; più tardi il loro numero salì a 38.000. Venivano impiegati nell’industria bellica e nella rimozione delle macerie causate dai bombardamenti; molti morirono per malnutrizione e malattie.

Dello Stalag IX C si è già detto in precedenza; lo Stalag IV B, situato al confine tra la Sassonia ed il Brandeburgo, era uno dei più grandi campi di prigionia di tutta la Germania. Situato a pochi chilometri dalla cittadina di Mühlberg, a nord di Dresda, era stato creato nel settembre 1939 e copriva una superficie di una trentina di ettari; i primi “ospiti” erano stati 17.000 soldati polacchi catturati durante l’invasione tedesca del loro Paese, che per due mesi rimasero accampati all’aperto od in tende prima di essere trasferiti in altri campi. Nel maggio 1940 iniziarono ad arrivare prigionieri francesi, ed un anno dopo britannici ed australiani catturati in Grecia ed a Creta e poi sovietici catturati nelle fasi iniziali di “Barbarossa”; nel settembre 1943 seguirono altri britannici, australiani, neozelandesi e sudafricani già prigionieri in Italia, trasferiti in Germania dopo l’occupazione tedesca della Penisola, e con essi gli ex alleati italiani. In tutto, per lo Stalag IV B passarono circa 300.000 prigionieri di 33 nazionalità diverse.

Nell’aprile 1941 fu costruito presso un campo d’addestramento militare a Zeithain, ad una decina di km di distanza, un sottocampo denominato inizialmente Stalag 304, poi Stalag IV-H ed infine (dal 1942) Stalag IV B Zeithain: realizzato impiegando prigionieri francesi e jugoslavi e destinato ai prigionieri sovietici in vista dell’invasione dell’URSS lanciata due mesi dopo, ne “accolse” 11.000 tra giugno e luglio, ma questi morirono in massa di fame e di tifo nei mesi successivi (fino a settembre non furono costruite nemmeno le baracche in cui dormire), tanto che ad aprile 1942 solo 3279 erano ancora in vita. In seguito arrivarono altri prigionieri sovietici catturati nelle offensive del 1942, che continuarono ad avere un’alta mortalità (in tutto, a Zeithain morirono tra i 25.000 ed i 30.000 prigionieri sovietici); alla fine del 1942 i circa 10.000 prigionieri sovietici ancora in condizioni di salute relativamente buone vennero trasferiti in Belgio, e nel febbraio 1943 Zeithain fu trasformato in un campo ospedale, lo Stalag IV-B/H, che nella parte principale “ospitava” ancora prigionieri sovietici affetti da tubercolosi, che continuavano a morire al ritmo di 10-20 al giorno. Un’altra sezione, più piccola, era riservata ai prigionieri malati di altre nazionalità, tra cui centinaia di polacchi e jugoslavi, portati da altri campi.

Nel settembre 1943 una sezione del campo fu adibita al ricovero di prigionieri italiani malati; circa 900 di essi morirono nel campo in conseguenza della scarsa igiene, del poco cibo e dell’insufficiente assistenza medica, e furono sepolti in tombe individuali nel cimitero militare di Jacobsthal, a differenza dei sovietici che erano sepolti in fosse comuni.

Giovanni Dimini morì per malattia l’8 marzo 1944 nell’ospedale militare di Zeithain e fu sepolto nel locale cimitero militare italiano.

Il marinaio Giovanni Dimini in una foto scattata durante la prigionia (da www.alboimicaduti.it)

Il marinaio fuochista Giuseppe Greco, di 23 anni, da Linguaglossa, fu dichiarato disperso in prigionia in Germania il 28 ottobre 1944. Di lui non si seppe più nulla.

Il sottocapo cannoniere Attilio Givossi, di 25 anni, da Pola, finì come Antonio Formisano a Buchenwald e poi nell’inferno di Dora-Mittelbau: di lui si conosce però la data di morte, avvenuta il 31 dicembre 1944. Fu sepolto a Sangerhausen, nella Sassonia-Anhalt.

Il marinaio Antonio Sgherza, da Mofetta, che proprio l’8 settembre 1943 aveva compiuto 21 anni, morì anch’egli in prigionia il 31 dicembre 1944, ma in Grecia.

Il marinaio cannoniere Luciano Gennari, nato a Calestano nel 1923, ebbe un percorso analogo a quelli di Antonio Formisano ed Attilio Givossi: il 25 ottobre 1943 arrivò a Buchenwald, da dove il 27 giugno 1944 fu trasferito al Kommando Laura ed il 25 luglio 1944 a Dora-Mittelbau. Nuovamente trasferito a Mittelbau II ed ad Ellrich, sottocampi di Dora, vi morì il 3 gennaio 1945, forse per la tubercolosi da cui, secondo un documento del campo del 27 giugno 1944, era probabilmente affetto.



Documenti di Luciano Gennari nell’archivio del campo di concentramento (Aroldsen Archives)


Il marinaio cannoniere Nicola Schingaro, 22 anni, da Bari, fu dichiarato disperso in prigionia in Germania pochi giorni dopo, il 15 gennaio 1945. Non è stato possibile rintracciare alcuna informazione sui campi in cui fu imprigionato.

Il marinaio fuochista Spartaco Bilaghi, 23 anni, da Piombino, morì in prigionia a Gera, in Turingia, il 23 gennaio 1945.

Il marinaio Paolo Barbieri, nato a Castel San Giovanni il 24 dicembre 1922, fu l’ennesimo marinaio del Crispi che, dopo essere stato inizialmente imprigionato in un “normale” campo di prigionia (lo Stalag IX C), venne trasferito dapprima a Buchenwald (il 15 ottobre 1943), quindi al Kommando Laura (il 27 giugno 1944) e poi a Dora-Mittelbau (il 29 ottobre 1944), dove morì il 13 marzo 1945.

Documenti da “Häftling” di Paolo Barbieri (Aroldsen Archives)


Il marinaio fuochista Pietro Papi, di 21 anni, da Novellara, morì in un bombardamento aereo il 14 marzo 1945 durante la prigionia a Gladbach, nel Nordreno-Westfalia. Sepolta inizialmente a Gladbach e trasferita negli anni Cinquanta nel Cimitero militare italiano d’onore a Francoforte sul Meno, la sua salma è stata rimpatriata nel 2021 su richiesta della famiglia (che in precedenza ignorava dove fosse sepolta), venendo tumulata nel cimitero del suo paese natale.


Sopra, il marinaio fuochista Pietro Papi e la pietra d’inciampo collocata presso quella che era la sua abitazione; sotto, la cerimonia di sepoltura a Novellara dopo il rimpatrio dei resti dalla Germania (da www.istoreco.re.it)


L’ultimo membro dell’equipaggio del Crispi a morire in prigionia fu il marinaio fuochista Mariano Longo, 24 anni, da Catania. Il suo percorso fu lo stesso di Antonio Formisano, Attilio Givossi, Luciano Gennari e Paolo Barbieri: dopo essere stato inizialmente imprigionato nello Stalag IX C, il 15 ottobre 1943 fu trasferito a Buchenwald, da qui il 27 giugno 1944 al Kommando Laura e successivamente a Dora-Mittelbau. Venne dichiarato disperso in prigionia il 25 marzo 1945: di lui non si seppe più nulla.




Documenti del campo di concentramento relativi a Mariano Longo (Aroldsen Archives)



Secondo fonti greche, il 17 settembre 1943 membri dell’organizzazione “Apollo” della Resistenza ellenica avrebbero fornito all’equipaggio italiano del Crispi degli esplosivi per sabotare la nave, che sarebbe stata così messa fuori uso per due mesi. Di quest’azione non vi è traccia nei diari di guerra (KTB) del Comando navale tedesco dell’Egeo; a quanto risulta l’equipaggio del Crispi, come quelli delle altre navi italiane catturate al Pireo, venne sbarcato già il 9 settembre, dunque non sarebbe dovuto essere possibile un atto di sabotaggio otto giorni più tardi, a meno che a commetterlo non fossero stati quegli uomini che i tedeschi obbligarono inizialmente a rimanere a bordo per aiutare il nuovo equipaggio tedesco a familiarizzare con la nave. Vero è che l’ex Crispi venne dichiarato in grado di prendere il mare il 30 ottobre 1943, circa un mese e mezzo dopo il presunto sabotaggio, ma comunque prima degli ex Solferino, Castelfidardo e Calatafimi, e solo due giorni dopo gli ex Turbine e San Martino (secondo una fonte tedesca, anzi, Crispi e Turbine sarebbero state le unità in migliori condizioni tra quelle catturate al Pireo ed a Creta dopo l’armistizio). Il già citato volume USMM “Navi militari perdute” afferma che sul Crispi fu compiuto “qualche atto di sabotaggio” subito prima della cattura, il 9 settembre 1943.

Sorge spontaneo il dubbio che vi possa essere un legame tra questo sabotaggio – se effettivamente avvenne, con successo o meno – ed il trattamento particolarmente brutale riservato dai tedeschi a diversi membri dell’equipaggio del Crispi, quattro dei quali furono fucilati nel novembre 1943 (Mario Genasi, Dante Gozzini, Sibante Pagano, Angelo Mosetti) mentre altri cinque (Antonio Formisano, Attilio Givossi, Luciano Gennari, Paolo Barbieri, Mariano Longo) finirono, classificati come “prigionieri politici” anziché “internati militari”, dapprima nel famigerato campo di concentramento di Buchenwald e poi in quello di Dora-Mittelbau, ove trovarono la morte.


Incorporato nella Kriegsmarine ed armato da un equipaggio tedesco, l’ormai ex Crispi entrò in servizio sotto bandiera tedesca il 30 ottobre 1943; inizialmente ribattezzato – il 25 o 30 ottobre, a seconda delle fonti – TA 17, dove TA stava per "Torpedoboot Ausland", ossia torpediniera di origine straniera, il successivo 16 (o 18) novembre venne ribattezzato TA 15 (sigla fino a quel momento portata dalla ex Calatafimi, che divenne TA 19), mentre la sigla TA 17 andò alla ex San Martino. (Il motivo di questo contorto cambio di nomi, deciso dal Comando superiore della Kriegsmarine e che ha comprensibilmente generato non poca confusione circa l’impiego iniziale di queste unità, non è molto chiaro).

Fu quindi assegnato insieme a TA 14TA 16TA 17TA 18 e TA 19 (rispettivamente ex TurbineCastelfidardoSan MartinoSolferino e Calatafimi, dopo la sistemazione definitiva delle sigle alfanumeriche) alla neocostituita 9. Torpedobootsflottille (9a Flottiglia Torpediniere, dapprima al comando del capitano di fregata Walter Riede e poi, dal 15 marzo 1944, dal parigrado Hans Dominik), creata ad Atene il 20 settembre 1943 (per altra fonte al Pireo il 4 ottobre 1943) e composta interamente da unità ex italiane; le navi di questa flottiglia vennero destinate a compiti di scorta, trasporto truppe e prigionieri, posa di mine e supporto a sbarchi nell’Egeo.

I tedeschi che presero in consegna le siluranti catturate al Pireo le trovarono in condizioni pessime, sporche, malandate, “vandalizzate” ed infestate dai parassiti. Nei loro rapporti il comandante della 9. Torpedobootsflottille, il capo servizio Genio Navale della flottiglia ed i comandanti delle singole unità elencarono una pletora di problemi: dopo la loro cattura le navi erano state sistematicamente saccheggiate dalle autorità navali tedesche, al punto che non c’erano più attrezzi né parti di ricambio; i sistemi di monitoraggio del livello di acqua, aria e carburante in caldaia erano insufficienti, costringendo a regolarsi manualmente ed in base all’esperienza; i cavi elettrici erano in pessimo stato e soggetti a continui cortocircuiti verso massa; gli impianti di bordo apparivano “malandati” e “trascurati”, valvole, rubinetti e mandrini erano bloccati (a volte in posizione aperta ed a volte chiusa), le tubature perdevano, caldaia e serbatoi erano arrugginiti ed insabbiati. I macchinisti italiani trattenuti ad Atene asserirono che le navi in missione non superassero mai i 15 nodi, e che per il rischio di perdite di vapore, gli impianti fossero azionati dal ponte superiore; i cannoni non venivano usati da tempo.

Come se non bastasse, la qualità dei lavori effettuati dai cantieri navali greci era bassa, gli uffici tedeschi ad Atene erano intenti a scaricare vicendevolmente le loro responsabilità e frapporre ostacoli burocratici ai comandi operativi (per ottenere un collegamento telefonico fu necessario rivolgersi a ben sei dipartimenti diversi), ed il personale giunto dalla Germania per formare i nuovi equipaggi era giudicato inesperto, indisciplinato ed inadeguato al compito per carattere e capacità. Comandanti ed ufficiali di macchina lamentarono come i comandi di terra liquidassero le loro richieste ed i loro reclami, per non dover agire, con il commento che “dopotutto gli italiani andavano per mare con quelle stesse navi”.

Le navi presero il mare la prima volta il 30 settembre 1943, ma solo il 4 novembre, dopo i necessari lavori, quattro unità (tra cui l’ex Crispi, all’epoca ancora TA 17) furono giudicate abbastanza efficienti da tentare una prima esercitazione di navigazione in formazione e di tiro con le artiglierie. Le vibrazioni provocate dal fuoco dei cannoni furono sufficienti a causare avarie di macchina su tutte e quattro le navi. Il 6 novembre il capoflottiglia Riede dichiarò che le navi erano “limitatamente pronte ad operazioni belliche”, mentre il comandante della TA 17, ex Crispi, annotava sul diario di bordo che «Nonostante la mia mancanza di fiducia nella nave a causa delle sue cattive condizioni strutturali in termini di dispositivi di sicurezza, stabilità, etc. ..., nonostante la mancanza di qualsiasi addestramento al combattimento, ... Con il rapporto K.B. di oggi mi assumo la responsabilità... Il comandante e l’equipaggio hanno ben chiaro che una missione con questa nave è un gioco d’azzardo».


L’armamento della TA 15 venne modificato dai nuovi proprietari: l’impianto lanciasiluri poppiero da 533 mm venne rimosso (e quello prodiero fu adattato all’impiego di siluri tedeschi), mentre l’armamento contraereo venne potenziato con l’installazione di un cannone Bofors Flak 28 da 40/56 mm (installato al posto di una mitragliera Oerlikon da 20 mm situata sul ponte di poppa, durante lavori protrattisi dal 18 al 28 ottobre 1943) e due mitragliere singole Breda M1939 da 37/54 mm (installate al posto dell’impianto lanciasiluri poppiero), cui a inizio 1944, dinanzi all’intensificarsi dell’offesa aerea angloamericana, venne aggiunta una mitragliera quadrinata C/38 Flakvierling da 20/65 mm (per altra versione, sarebbe stata aggiunta anche un’ulteriore mitragliera da 20 mm, mentre le mitragliere da 13,2/76 mm tornarono sulla plancia). Quattro lanciabombe per bombe di profondità vennero sistemati attorno alla sovrastruttura poppiera; venne installato anche un radar FuMo 28, e le ferroguide per le mine vennero adattate al trasporto ed alla posa di mine tedesche. Fu eliminato l’alberetto poppiero con il relativo telemetro e proiettore.

Lo stato dell’apparato motore andò rapidamente deteriorandosi, tanto che all’inizio del 1944 la nave si ritrovò a navigare con la sola turbina sinistra funzionante e di conseguenza una velocità massima di soli 15 nodi (rispetto ai 28 nodi che, in considerazione dell’età e del logorio, erano risultati essere la sua velocità massima all’epoca dell’entrata in servizio nella Kriegsmarine): nondimeno, venne mantenuta in servizio a causa della penuria di naviglio militare tedesco in Egeo.

Sotto bandiera tedesca, l’ormai ex Crispi continuò a fare quello che aveva fatto fino all’armistizio: scortare convogli in Mar Egeo. Al suo comando venne destinato il tenente di vascello Karlheinz Vorsteher.

Divenuta operativa il 6 novembre 1943, la TA 17 (non ancora ribattezzata TA 15) svolse la prima missione sotto bandiera tedesca dall’11 al 14 novembre 1943, durante la battaglia di Lero.


Il tenente di vascello Karlheinz Vorsteher, comandante della TA 15 (da www.ww2gravestone.com)

Una delle conseguenze più amare della cattura al Pireo ed a Creta delle siluranti italiane dell’Egeo fu che queste navi, consegnate intatte e riarmate da equipaggi tedeschi, poterono essere subito utilizzate contro i loro ex proprietari: le guarnigioni italiane delle isole dell’Egeo, che tra il settembre ed il novembre 1943 vennero eliminate, una dopo l’altra, dalle forze tedesche.
Il presidio che resisté più a lungo e con più accanimento fu quello di Lero, ove aveva sede la più grande base navale italiana dell’Egeo: difesa da 8300 italiani (per la maggior parte marinai), al comando del contrammiraglio Luigi Mascherpa, e da 4000 britannici sbarcati dopo l’armistizio al comando del generale di brigata Robert Tilney, l’isola resisté a quasi cinquanta giorni di pesanti bombardamenti da parte della Luftwaffe, durante i quali venne affondato anche l’
Euro, ultimo cacciatorpediniere rimasto in mani italiane nell’Egeo.
Il 12 novembre, infine, ebbe inizio la battaglia finale: mezzi navali sbarcarono truppe tedesche sulle coste di Lero, mentre aerei della Luftwaffe vi paracadutavano centinaia di paracadutisti. Lasciata Salamina nella notte tra l’11 ed il 12, fu proprio la 
TA 15, insieme a TA 14TA 17 e TA 19 (nonché alla motosilurante S 55, ad una quindicina di cacciasommergibili della 21. Unterseebootsjägd-Flottille del capitano di corvetta Günther Brandt, ad una dozzina di motodragamine della 12. Räumsboots-Flottille del tenente di vascello Luitwin Mallmann ed al posamine ausiliario Drache, quest’ultimo con ruolo di nave comando), a scortare il convoglio di navi mercantili e motozattere che trasportò e sbarcò a Lero, tra l’11 ed il 12 novembre, le truppe della 22a Divisione Fanteria tedesca (Kampfgruppe "Müller", dal nome del suo comandante, generale Friedrich-Wilhelm Müller), ed a fornire appoggio allo sbarco con le sue artiglierie. Per la neonata 9. Torpedobootsflottille, al comando del capitano di fregata Riede, questa rappresentò la prima missione operativa: l’attacco contro Lero, pronto già da metà ottobre, era anzi stato rimandato proprio nell’attesa dell’approntamento delle siluranti italiane catturate al Pireo, che sarebbero divenute operative a partire dal 5 novembre.
Le piccole unità con a bordo le truppe del Kampfgruppe "Müller" si trasferirono dalla Grecia continentale alle isole di Coo e
Calino, punti di partenza dell’assalto contro Lero, muovendosi di giorno, con la scorta delle torpediniere e delle altre unità sopra citate ed una nutrita copertura aerea di caccia della Luftwaffe; il trasferimento avvenne a tappe, passando per le isole di Nasso, Amorgo, Levita e Stampalia. Entro il 10 novembre, tutte le unità erano concentrate a Coo e Calino, da dove il giorno seguente mossero per Lero.
La flottiglia d’invasione era suddivisa in due gruppi: quello occidentale, partito da Coo (conquistata dai tedeschi il 4 ottobre), era composta dalle motozattere 
F 123F 129 e F 331 e da due piccoli mezzi da sbarco per la fanteria, scortati dai cacciasommergibili UJ 2101 e UJ 2102 e dal motodragamine R 210 (il tutto sotto il comando del tenente di vascello Hansjürgen Weissenborn); quello orientale, partito in parte da Coo ed in parte da Calino (occupata dai tedeschi il 7 ottobre), era formato dalle motozattere F 370 e F 497, da due mezzi da sbarco per fanteria e da dodici imbarcazioni minori, scortate dal cacciasommergibili UJ 2110 e dal motodragamine R 195 (al comando del tenente di vascello Kampen). La TA 15 e le altre "Torpedoboote Ausland" della 9a Flottiglia dovevano fornire supporto ad entrambi i gruppi, che complessivamente trasportavano circa 1600 soldati del II Battaglione del 16° Reggimento Fanteria (Infanterie-Regiment 16) e del II Battaglione del 65° Reggimento Granatieri (Grenadier-Regiment 65), divisi equamente tra i due gruppi. Per l’eterogeneità, le ridotte dimensioni e la vulnerabilità delle unità che la componevano, la flottiglia era stata ironicamente soprannominata dagli uomini che ne facevano parte “la crociata dei bambini”.

Alle 00.15 del 12 novembre TA 15 (al comando del tenente di vascello Karlheinz Vorsteher e con a bordo il capoflottiglia, capitano di fregata Walter Riede), TA 14 (tenente di vascello Hans Dehnert), TA 17 (tenente di vascello Helmuth Düvelius) e TA 19 (tenente di vascello Jobst Hahndorff) salparono dal Pireo per appoggiare lo sbarco; fecero rifornimento a Sira, dove tale operazione richieste ben nove ore perché mal preparata e dove dovettero lasciare la TA 14 immobilizzata da un’avaria (riparata la quale poté riprendere il mare l’indomani alle quattro del mattino), dopo di che si divisero: la TA 15 ad ovest di Lero, le altre due ad est dell’isola.
Aerei britannici avvistarono ambedue i gruppi già all’1.20 del 12, ma i Comandi britannici del Levante non si resero conto di ciò che quell’avvistamento significava, nonostante i decrittatori di “ULTRA” avessero già intercettato e decifrato, nei giorni precedenti, comunicazioni tedesche da cui risultava che l’attacco contro Lero era previsto per il 12 novembre. Quelle piccole e poco armate unità, e con esse le vetuste "Torpedoboote Ausland" incaricate di appoggiarle, sarebbero state agevolmente annientate anche solo da una squadriglia di cacciatorpediniere, ma i Comandi britannici, timorosi di incappare nei campi minati (che già avevano causato dolorose perdite nelle settimane precedenti), non ne mandarono neanche uno. L’operazione tedesca poté così procedere senza incontrare alcun contrasto; la scorta del convoglietto occidentale, anzi, s’imbatté “per strada” nel piccolo dragamine britannico 
BYMS 72 e lo catturò, mentre alle 3.30 (per altra fonte le 2.35) del 12 novembre la TA 14 (per altra fonte la TA 17) incontrò per caso la motosilurante britannica MTB 307 (in navigazione da Castelrosso a Lero) al largo di Calino, aprendo il fuoco contro di essa e mettendola in fuga. Alle 4.45 tutte le motosiluranti britanniche di base ad Alinda presero il mare a tutta forza per intercettare un piroscafo che era stato avvistato 4-5 miglia a sudest di Lero; non lo trovarono, ma più tardi, mentre dirigevano verso nord, avvistarono al largo di Farmaco due cacciatorpediniere che ritennero erroneamente britannici (erano, in realtà, tedeschi). Alle cinque del mattino la motolancia britannica ML 456, in pattugliamento ad est della baia di Alinda, avvistò il gruppo orientale e si avvicinò per scoprire di cosa si trattasse: constatato che si trattava di dieci mezzi da sbarco e due cacciatorpediniere, andò all’attacco, ma fu respinta e danneggiata dall’R 195, ripiegando nella baia di Alinda ove sbarcò alcuni feriti.
I primi sbarchi avvennero alle 4.30 del mattino del 12, nella baia di Palma ed a Pasta di Sopra, sulla costa nordorientale di Lero; successivamente altre truppe vennero sbarcate nella baia di Pandeli, vicino alla città di Lero. In avvicinamento a Lero,
TA 14 e TA 15 vennero prese sotto il tiro, piuttosto preciso, della batteria italiana San Giorgio, e dovettero mantenersi nei pressi dei mezzi da sbarco e coprirli con cortine fumogene, rispondendo al contempo al fuoco con le loro artiglierie.
Il primo tentativo di sbarco del gruppo occidentale, alle 5.43, venne respinto dal tiro delle batterie costiere italiane (costringendo anche ad annullare contestualmente un pianificato lancio di paracadutisti nella stessa zona); per ordine del comandante della 9
a Flottiglia, TA 14 e TA 15 guidarono un secondo tentativo di sbarco alle 12.45, preceduto da altri bombardamenti da parte di Jukers Ju 87 “Stuka” contro le batterie costiere italiane all’estremità sudoccidentale dell’isola, ma anche questo venne annullato quando il tiro delle batterie costiere iniziò a mettere colpi a segno su mezzi da sbarco. Anche l’appoggio di TA 17 e TA 19, che avevano lasciato il loro settore sulla costa orientale per dare manforte al gruppo occidentale, non modificò la situazione: nel pomeriggio il gruppo occidentale tentò ancora una volta di sbarcare le proprie truppe, stavolta con l’appoggio di tutte e quattro le torpediniere della 9a Flottiglia (che cannoneggiarono le batterie italiane con le loro artiglierie), ma anche questo tentativo fu respinto, e la TA 17 incassò un colpo da 120 o 152 mm nel locale caldaie numero 3, con due vittime (secondo il diario operativo della Divisione Operazioni dello Stato Maggiore della Kriegsmarine, vennero colpite sia la TA 17 che la TA 18: la prima ebbe i cannoni posti fuori uso dal tiro italiano, mentre la seconda dovette ridurre la velocità a dodici nodi a causa di un colpo in caldaia); anche la F 370 venne immobilizzata e dovette essere presa a rimorchio, mentre sulla TA 15 gli apparati per la direzione del tiro furono messi fuori uso dal violento contraccolpo provocato dal fuoco delle sue stesse artiglierie. La TA 17 mise in luce seri problemi di stabilità, tanto che dopo essere sbandata durante una brusca virata, fu necessario girare la ruota in senso contrario per ripristinare l’assetto.

Le torpediniere vennero poi inviate a Sira per rifornirsi di carburante, mentre le unità da sbarco si ritiravano momentaneamente a Calino. Venne notato da parte tedesca che “sfortunatamente le macchine delle torpediniere non sono all’altezza delle necessità dell’operazione, pertanto le torpediniere devono essere utilizzate principalmente come trasporti veloci”. A Sira si scoprì che l’acqua destinata alle caldaie era inadatta allo scopo per l’eccessiva durezza e salinità, il che rese necessario mandare le torpediniere al Pireo la sera del 13 novembre; durante la navigazione incontrarono mare forza 6 che ne evidenziò una volta di più i problemi di stabilità, tanto che fu giudicato che virare sulla rotta di avvicinamento per il Pireo avrebbe comportato un serio rischio di naufragio, e le torpediniere finirono col ridossarsi a Serifo.
Meglio andò al gruppo orientale: nonostante la reazione delle batterie costiere italiane ed i contrattacchi delle truppe britanniche, i mezzi di quel gruppo riuscirono a sbarcare abbastanza truppe da creare una testa di sbarco, poi rinforzata col lancio di un battaglione di paracadutisti.
Il 14 novembre le quattro torpediniere della 9
a Flottiglia vennero rimandate al Pireo, dove giunsero a mezzogiorno, in ritardo sulla tabella di marcia per via delle avverse condizioni del mare; tutte e quattro le unità risultarono fuori uso a causa dei danni causati dalle batterie di Lero e di quelli provocati dallo stato del mare, ma l’ammiraglio Lange ordinò al comandante della flottiglia “In relazione alla situazione dell’operazione Taifun, la flottiglia deve entrare in azione. Tentate di ripartire dal Pireo il prima possibile”. Venne deciso che TA 16, appena entrata in servizio, e TA 17, dopo alcuni brevi lavori, sarebbero salpate a mezzanotte con 166 uomini del Reggimento "Brandenburg" da portare a Calino, ma poco dopo la partenza entrambe le navi dovettero tornare in porto, la TA 17 per perdite dell’acqua di alimentazione delle caldaie, la TA 16 per avarie al timone ed eccessivo consumo di carburante. Successivamente venne deciso di inviare un intero battaglione "Brandenburg", imbarcandolo sulla TA 17, che sarebbe partita da sola, sul Drache e sul motodragamine R 211, che sarebbero salpati insieme, mentre la TA 16 sarebbe rimasta al Pireo per lavori (per altra fonte, nella notte tra il 15 ed il 16 novembre TA 15 e TA 16 trasportarono a Calino parte del III Battaglione del 1° Reggimento "Brandenburg", mentre il resto fu trasportato per via aerea con trimotori Ju 52; la notte successiva, essendo stata la TA 16 immobilizzata da un’avaria di macchina, la TA 15/TA 17 compì un altro viaggio da sola, trasportando rinforzi, munizioni ed altri rifornimenti e poi rientrando con feriti e prigionieri).
La storia ufficiale della Marina italiana (volume USMM "Attività dopo l’armistizio – Tomo II – Avvenimenti in Egeo") menziona ripetutamente i cacciatorpediniere ex italiani nella sua descrizione della battaglia di Lero:

  • a pagina 224, il volume scrive che i primi colpi di cannone sparati dalle difese costiere di Lero furono tirati alle prime luci dell’alba del 12, verso ponente, dalle batterie Ducci (sita sul Monte Cazzuni ed armata con quattro pezzi da 152/50 mm) e San Giorgio (ubicata sul Monte Scumbarda e munita di tre cannoni da 152/40 mm), le quali misero così in fuga un convoglio formato da «circa 6 Mz. [motozattere] scortate da due Ct., probabilmente gli ex italiani catturati al Pireo, che dirigevano verso l’isola da Sudovest», mentre i primi colpi sparati nella zona di levante furono esplosi dalla batteria PL 127 (situata sul Monte Maraviglia ed armata con quattro cannoni da 90/53 mm) che, dopo aver ricevuto dal Comando britannico un allarme relativo a forze provenienti da est, aveva avvistato a circa 15 miglia di distanza una formazione composta da due cacciatorpediniere ed una ventina di motozattere, e di aver poi avvistato alcune altre motozattere a sole 3-4 miglia verso Santa Marina, sparando una salva in tale direzione «più che altro per richiamare l’attenzione delle batterie navali del settore»;

  • a pagina 225-226, la composizione delle forze tedesche da sbarco viene stimata in due gruppi, dei quali uno, proveniente da sudovest, formato da circa 6 motozattere scortate da due cacciatorpediniere ex italiani, fu messo in fuga dal tiro delle batterie Ducci e San Giorgio, che avrebbero colpito anche uno dei cacciatorpediniere; dopo essere stato così respinto, il gruppo si sarebbe ritirato verso Calino, sparendo alla vista. L’altro gruppo, formato da numerose motozattere ed altre unità e scortato anch’esso da due cacciatorpediniere, seguì probabilmente una rotta sud-nord lungo la costa orientale di Lero, tenendosi a 7-8 miglia di distanza onde restare fuori tiro per le batterie costiere, ed assunse poi rotta verso ovest, giungendo nella zona dello sbarco con rotta perpendicolare alla costa, approfittando per avvicinarsi dell’oscurità ed emettendo cortine nebbiogene; il gruppo si suddivise in quattro scaglioni, che puntarono rispettivamente sulla costa nordorientale dell’isola (alcune motozattere furono affondate o costrette alla ritirata dalle batterie costiere, ma altre riuscirono a sbarcare le loro truppe), sulla costa ad est di Monte Clidi (giunsero a terra circa quattro motozattere, due delle quali danneggiate dal tiro delle batterie costiere), sulla costa ad est di Monte Appetici (una o due motozattere furono affondate dal tiro delle batterie costiere, ma parte delle truppe giunse egualmente a terra), e sulla costa settentrionale. Quest’ultimo scaglione, formato da piccole unità, si avvicinò da nordest con l’appoggio di due cacciatorpediniere, descritti dal volume USMM come «probabilmente del tipo Calatafimi»; il tiro delle batterie costiere (specialmente la 888 di Blefuti, armata con quattro pezzi da 76/40 mm) respinse le piccole unità, incendiandone due e danneggiandone altre, che si ritirarono verso il largo dietro una cortina nebbiogena stesa dai cacciatorpediniere, i quali spararono contro la costa senza causare danni apprezzabili, mentre uno di essi fu probabilmente colpito dalle batterie costiere;

  • a pagina 233, descrivendo lo sbarco sulla costa ad est di Monte Appetici, si afferma che la batteria Lago (dotata di sei cannoni da 120/45 mm), dopo aver affondato o respinto alcune motozattere, «rivolse il suo tiro contro un gruppo di piccole unità scortate da due Ct. che incrociavano al largo, facendo cortine di nebbia e sparando contro l’isola da grande distanza e con scarsi risultati. Sembra che uno dei Ct. sia stato colpito da una granata. Le unità si ritirarono scomparendo verso il largo ritirandosi dietro cortine di nebbia»;

  • a pagina 234 è riferito che la batteria PL 113, situata sul Monte Zuncona ed armata con quattro pezzi da 76/40 mm, avvistò all’alba del 12 motozattere e cacciatorpediniere tedeschi a nordest ed a sudovest dell’isola; i cacciatorpediniere scomparvero alla vista, mentre le motozattere si avvicinarono alla costa per tentare lo sbarco. Successivamente i cacciatorpediniere aprirono il fuoco contro l’isola, e ciò indusse la PL 113 ad aprire il fuoco a sua volta, colpendo ed affondando una motozattera;

  • a pagina 240 è scritto che nel corso del pomeriggio del 12 un nutrito gruppo di motozattere, scortate da due cacciatorpediniere, tentò di avvicinarsi alla costa occidentale di Lero, probabilmente allo scopo di sbarcare truppe nella baia di Gurna; la batteria Farinata (munita di quattro pezzi da 120/45 mm) aprì il fuoco contro le motozattere e, benché contrastata dal tiro dei due cacciatorpediniere, riuscì a costringere la formazione a ripiegare verso Calino, coprendo la propria ritirata con cortine nebbiogene;

  • a pagina 258, parlando dei combattimenti del 16 novembre, il libro riferisce che all’alba due cacciatorpediniere si avvicinarono alla batteria PL 306 (situata sul Monte Vigla ed armata con due cannoni da 76/40 e sei da 102/35), già duramente colpita nel corso dei giorni precedenti, probabilmente ritenendo che quest’ultima fosse stata ormai ridotta al silenzio; invece due dei suoi cannoni erano ancora utilizzabili ed aprirono il fuoco, «e, secondo quanto riferisce il Cap. Chiantella [capitano d’artiglieria Luigi Chiantella, comandante della batteria], alla terza salva colpivano uno dei Ct. al disopra del galleggiamento, all’altezza del primo fumaiolo. A bordo si sviluppava un incendio. Il Ct. si sottraeva al tiro accostando verso il largo e facendo una cortina di fumo, mentre l’altro Ct. intensificava il tiro contro la batteria che ormai poteva rispondere con un pezzo solo. Poi la cortina di fumo coprì tutti e due i Ct., che più tardi furono visti allontanarsi, l’uno, sbandato sulla dritta, a rimorchio dell’altro».


Tra le navi coinvolte in questi episodi doveva esservi anche l’ex 
Crispi, ma è più difficile stabilire quali di queste azioni abbiano interessato questa specifica unità.

Tra il 15 ed il 16 novembre TA 15, TA 14 e TA 16 trasportarono truppe dal Pireo a Calino.
Lero cadde il 16 novembre, dopo quattro giorni di accaniti combattimenti; la notizia della resa, giunta al Pireo in tarda serata, portò all’annullamento della prevista partenza di 
TA 17Drache e R 211 con il battaglione "Brandenburg", mentre TA 15 e R 211 furono fatti partire dal Pireo alle 23.40 con materiale e rifornimenti per Lero ed Amorgo. Entrata a Portolago e sbarcati i rifornimenti direttamente sulla banchina, alle 16 del 17 novembre la TA 15 lasciò Lero con a bordo una trentina di ufficiali prigionieri (tra cui quasi tutti gli ufficiali della Regia Marina presenti nell’isola, compreso il colonnello commissario Armando Coraucci, già vice governatore di Lero e responsabile degli affari civili) e 40 feriti, raggiungendo il Pireo l’indomani mattina (questo secondo il volume USMM “Avvenimenti in Egeo”, mentre secondo fonte tedesca a bordo c’erano 38 feriti tedeschi e ben 117 prigionieri tra italiani e britannici). Durante il viaggio tutti gli italiani, ufficiali e feriti, vennero radunati nel locale fuochisti, dove l’aria divenne pressoché irrespirabile per l’affollamento, le perdite di vapore dagli assi degli argani e la presenza dei feriti; altri prigionieri, appartenenti alle truppe coloniali britanniche, vennero sistemati nel sottocastello, mentre gli ufficiali britannici trovarono posto in coperta a poppa.

Poco ci mancò che la TA 15 (che qui ancora si chiamava TA 17) venisse affondata da un sommergibile britannico proprio mentre trasportava prigionieri britannici. All’1.06 del 18 novembre lo Sportsman (tenente di vascello Reginald Gatehuse) avvistò un aereo che lanciava un fumogeno sopra l’isola di Donoussa, seguito da un altro a breve intervallo, e poco dopo captò il rumore di una turbina su rilevamento 145°; non passò molto prima che la nave che produceva quel rumore, la TA 15, apparisse da dietro l’isola, ed alla luce della luna fu rapidamente identificata come un cacciatorpediniere. All’1.09, pertanto, lo Sportsman diede inizio alla manovra d’attacco, tenendosi pronto all’immersione; all’1.20, in posizione 37°14' N e 25°40' E (a nordest di Naxos), lanciò sei siluri da 2700 metri contro la nave tedesca che secondo la stima di Gatehouse procedeva a 20 nodi (in realtà, 17) su rotta 285°, dopo di che s’immerse. All’1.26 l’equipaggio dello Sportsman avvertì due esplosioni che furono attribuite a bombe di profondità, seguite da altre due all’1.27 e subito dopo un’altra ancora, nessuna vicino allo Sportsman; la nave tedesca sembrò girare in cerchio nella zona per una decina di minuti per poi riprendere la navigazione, ed all’1.36 il rumore delle sue macchine era scomparso.

In realtà, la TA 15/TA 17 non si accorse dell’attacco e non contrattaccò, limitandosi a rilevare delle esplosioni subacquee. Doveva trattarsi dei siluri stessi dello Sportsman, le stesse esplosioni che Gatehouse ed i suoi uomini avevano erroneamente creduto essere bombe di profondità.


La TA 15 a Lero dopo la resa, novembre 1943. In primo piano un gruppo di prigionieri del Commonwealth, tra cui sono riconoscibili alcuni indiani (da www.albumwar2.com)

(Occorre menzionare che secondo il già citato volume USMM "Avvenimenti in Egeo" l’ex Crispi, insieme ad una delle torpediniere italiane catturate, avrebbe partecipato anche alla battaglia di Coo del 3-4 ottobre 1943, scortando il convoglio che trasportò le truppe tedesche che conquistarono quell’isola. Ciò non è però confermato dalle fonti tedesche, dalle quali non risulta che il Crispi fosse in servizio per la Kriegsmarine già ad inizio ottobre 1943).


La TA 15 in navigazione (g.c. STORIA militare)

Alle 19.20 del 18 novembre 1943 la TA 15 salpò dal Pireo insieme a TA 14 e TA 19 con truppe e rifornimenti diretti a Lero, giungendo nell’isola l’indomani, facendo ritorno al Pireo il 20 e ripartendone il giorno stesso per un’altra missione di trasporto truppe a Lero, dalla quale fece ritorno al Pireo con paracadutisti ed equipaggiamento a bordo all’una di notte del 22 novembre, insieme alla TA 14 (durante la navigazione i due cacciatorpediniere localizzarono ed attaccarono un sommergibile con bombe di profondità al largo di Icaria).

Alle sei del mattino dello stesso 22 ripartì per Portolago insieme alla TA 19 ed ai cacciasommergibili della 21. UJ-Flottille trasportando truppe tedesche destinate all’occupazione di Samo, che raggiunse il giorno seguente: il gruppetto navale tedesco compì un giro “dimostrativo” attorno all’isola ed entrò poi a Porto Vathi, dove sbarcò le truppe ricevendo la resa dei circa 2500 italiani rimasti (gli altri, insieme al generale Mario Soldarelli che comandava il presidio, erano stati evacuati sulla vicina costa turca insieme alle truppe britanniche), segnando l’ultimo atto della campagna del Dodecaneso (durante la quale la TA 15 era stata l’unica “Torpedoboot Ausland” a rimanere sempre operativa: tutte le altre navi erano rimaste fuori uso per periodi più o meno lunghi a causa di danni od avarie). Rientrò quindi al Pireo il 24. Ad inizio dicembre la nave fu sottoposta a lavori nel corso dei quali le due mitragliere Oerlikon da 20 mm ubicate sul castello di prua furono spostate a poppa.

Il 5 (o 6) dicembre 1943 la TA 15, insieme alla TA 16 ed al motodragamine R 211 (per altra fonte all’R 8), salpò dal Pireo per scortare la motonave tedesca Leda (ex italiana Leopardi), con a bordo 500 soldati della Wehrmacht, a Lero e poi a Samo, per poi rientrare al Pireo alle 17.15 dell’8 dicembre. La Leda aveva a bordo 5400 prigionieri italiani imbarcati a Lero e Samo, TA 15 e TA 16 circa 250 soldati della 3a Compagnia del 1° Reggimento Brandenburger.

Alle 22.40 del 7 dicembre il sommergibile britannico Unruly (tenente di vascello John Peton Fyfe) avvistò il convoglietto in posizione 37°52' N e 26°57' E (al largo di Vathi, sull’isola di Samo), ed alle 22.47 si immerse per attaccare. Alle 23.02 (le 22.08 secondo le fonti tedesche, con differenza di fuso orario) l’Unruly lanciò quattro siluri contro la Leda, ma senza risultato; la TA 15 osservò le esplosioni di due siluri contro la costa, con conseguenti colonne d’acqua, e la TA 16 reagì blandamente, lanciando una bomba di profondità alle 23.16 ed altre due dopo due minuti, puramente a scopo intimidatorio e molto lontane dalla reale posizione del sommergibile. Ulteriori ricerche risultarono infruttuose.

Alle 9.45 dell’8 dicembre un altro sommergibile britannico, il Surf (tenente di vascello Douglas Lambert), quindici minuti dopo aver rilevato dei rumori su rilevamento 084° in posizione 37°45' N e 25°33' E (a nordest di Stenon Mykonou, lo stretto tra le isole di Tinos e Mykonos), avvistò le quattro unità tedesche, scortate da numerosi aerei Arado Ar 196 e Junkers Ju 88: dapprima alle 9.40 avvistò delle alberature, poi alle 9.45 la Leda (di cui stimò la stazza in 3500 tsl), seguita alle 9.48 dalle due torpediniere di scorta, che procedevano sui suoi fianchi. Contro di esse lanciò alle 10.07 quattro siluri da 2740 metri di distanza (il terzo siluro, però, non partì per un guasto). Sceso in profondità dopo il lancio, che fu infruttuoso (anche se il comandante britannico ritenne di aver forse colpito un’unità di scorta), il Surf venne bombardato dalla TA 16 con dieci bombe di profondità, nessuna delle quali esplose vicina. In precedenza, alle 9.17 (o 9.23), il convoglio era stato attaccato al largo di Icaria ed a nordest di Tinos da un altro presunto sommergibile non identificato; la TA 15, non riuscendo a localizzare l’attaccante a causa del contatto sonar poco chiaro, si era limitata a lanciare bombe di profondità a scopo intimidatorio nel punto in cui avevano origine le scie dei siluri. Durante questa caccia il sommergibile tentò di attaccare la stessa TA 15, che reagì con altre bombe di profondità lanciate nella scia (in tutto ne lanciò otto durante l’intera azione). In tutto il convoglio della Leda respinse ben sei attacchi aerei (da parte di cacciabombardieri Bristol Beaufighter) e quattro attacchi subacquei durante la breve traversata da Lero e Samo al Pireo.

Alle 15 del 12 dicembre 1943 la TA 15, insieme alla TA 14, alle motosiluranti S 36 e S 55 ed al motodragamine R 211, salpò dal Pireo per scortare a Vathi (nell’isola di Samo) il posamine ausiliario Drache, avente a bordo 300 soldati tedeschi. Alle 4.05 del giorno seguente il sommergibile britannico Unruly (tenente di vascello John Paton Fyfe) avvistò il piccolo convoglio al largo di Samo, identificando erroneamente il Drache come una nave mercantile; immersosi alle 4.18 per portarsi all’attacco, alle 4.34 l’Unruly lanciò due siluri contro il Drache da 900 metri di distanza, in posizione 37°52’ N e 26°54’ E (nel golfo di Vathi). Nessuna delle armi andò a segno (la TA 15 osservò un’esplosione subacquea nella sua scia alle 4.36, e la TA 14 osservò un siluro attraversare la sua scia), ed il convoglio raggiunse regolarmente la propria destinazione alle 5.15 del 13 dicembre; il Drache sbarcò le truppe che aveva a bordo ed imbarcò un gruppo di prigionieri italiani, ripartendo alle 16 per il Pireo sempre con la scorta di TA 15 e TA 14. Qui giunse alle 6.20 del 14 dicembre.

Tra il 19 ed il 22 dicembre la TA 15, insieme alla TA 14, al motodragamine R 211 ed alla motosilurante S 54, scortò dal Pireo (Salamina) a Samo il posamine Drache, avente a bordo 500 militari tedeschi assegnati alla guarnigione di quell’isola, e lo scortò nel viaggio di ritorno al Pireo con a bordo 600 soldati del Kampfgruppe "Müller".

Nel pomeriggio del 21 dicembre 1943 la TA 15 e la TA 14, appena uscite dal porto di Karlovasi, localizzarono e bombardarono con bombe di profondità il sommergibile britannico Sickle (tenente di vascello James Ralph Drummond), che le aveva poco prima avvistate al periscopio mentre uscivano dal porto, cui si era avvicinato per osservare il naviglio presente. Alcune delle bombe esplosero vicine al Sickle, che tuttavia non riportò che lievi danni (altra fonte parla invece di “danni significativi, specialmente ai motori elettrici”). Anche un altro successivo attacco subacqueo venne respinto dalla reazione della TA 15.


La TA 15 in navigazione (da www.wrecksite.eu)

Alle 9.10 del 23 dicembre 1943 la TA 15 (con a bordo il comandante della 9. Torpedobootflottille), insieme a TA 14R 211 e S 54, salpò da Mudros (Lemno, dove TA 15, R 211 e S 54 si erano trasferite poche ore prima dal Pireo) scortando il piroscafo bulgaro Balkan, diretto al Pireo (per altra fonte, a Salonicco) con un carico di 2200 tonnellate di carbone – di cui vi era ormai grave carenza in Egeo – caricato a Varna nonché due motoscafi da salvataggio sistemati in coperta, KRD.410 Ferdinand Laeisz e KRD.429 Heinrich Tjarks, destinati al Seenotbereichskommando XII. Era presente anche una scorta aerea, con velivoli del Seeaufklärungsgruppe 126, da Mudros a Trikiri.

Sulla TA 15 era già stato dato l’allarme una prima volta dalle 5.15 alle 5.38 e poi di nuovo, per sommergibili, dalle 5.58 alle 6.15. Alle 6.50 la TA 15 si ancorò nella baia di Mudros per rifornirsi di carburante, operazione che non poté essere effettuata perché la bettolina con a bordo il carburante era ancorata in acque troppo basse e secondo il suo comandante ci sarebbe voluto troppo tempo per spostarla (tre ore solo per salpare l’ancora); venne allora deciso di rinunciare al rifornimento (ciononostante, alle 7.54 la S 54 si affiancò brevemente alla TA 15, che le pompò a bordo alcune tonnellate di carburante), e la TA 15 riprese il mare per effettuare una ricerca antisom al largo di Lemno, dove il comando navale locale aveva segnalato un sommergibile al largo di Kompi alle 6.20, unitamente a R 211 e S 54. Alle 8.33 la TA 15 mollò gli ormeggi per assumere la scorta del Balkan.

Alle 9.29 venne dato un nuovo allarme per sommergibili ed alle 10.35 il convoglietto, ancora in fase di uscita dal porto di Mudros, venne avvistato dal sommergibile britannico Sportsman (tenente di vascello Richard Gatehouse), che si avvicinò per attaccare. Alle 11.30, in posizione 39°44' N e 25°16' E, lo Sportsman lanciò tre siluri contro il Balkan dalla distanza di 1460 metri: una delle due armi andò a segno, provocando l’affondamento della nave bulgara in soli sei minuti, a sud di Mudros e tre miglia e mezzo a sud di Kompi. La scorta aerea non avvistò né la bolla di lancio né le scie dei siluri; la TA 15 diede subito inizio al contrattacco, bombardando lo Sportsman con due pacchetti di 5 e 4 bombe di profondità alle 11.39, seguiti da un altro di cinque alle 11.40, uno di sette alle 11.47 ed uno di tre alle 11.49 (anche gli aerei di scorta lanciarono un totale di sei bombe regolate per esplodere a 50 metri di profondità), ma senza arrecare danni al sommergibile britannico, che si allontanò indenne (a subire danni fu invece la stessa TA 15, sulla quale mancò la luce in alcuni locali per effetto degli scossoni provocati dalle esplosioni delle bombe di profondità, oltre che da quella del siluro che aveva colpito il Balkan). Alle 12.13, anzi, lo Sportsman poté anche tornare a quota periscopica per osservare la situazione: trovò la TA 15 a 1800 metri di distanza. Quando il cacciatorpediniere fece per avvicinarsi, alle 12.20, lo Sportsman tornò ad immergersi in profondità, continuando ad allontanarsi, per poi tornare a quota periscopica alle 12.55, essendo diminuito il rumore generato dalle macchine del cacciatorpediniere.

Mentre un totale di nove aerei Arado incrociavano nel cielo per garantire la loro sicurezza, TA 15, R 211 e S 54 recuperarono 68 naufraghi del Balkan (altri tre membri dell’equipaggio risultarono dispersi), dopo di che alle 11.10 ripresero la navigazione verso a Salonicco, dove la TA 15 gettò l’ancora alle 20.08.

Il diario di guerra del Comando navale tedesco dell’Egeo definì la perdita del Balkan e del suo carico di carbone “straordinariamente grave”; la condotta del caposcorta, che era anche il comandante della 9. Torpedobootflottille, fu esaminata a fondo per appurare se avesse fatto tutto il possibile per evitarla.


Un’altra immagine della TA 15 (www.wrecksite.eu)

Tra il 24 ed il 27 dicembre, insieme a TA 14R 211S 54 ed ai cacciasommergibili UJ 2106 e UJ 2110, la TA 15 scortò un convoglio di tre piroscafi (SabineSusanne e Petrella) da Salonicco al Pireo, mentre tra il 31 dicembre 1943 ed il 2 gennaio 1944, insieme a TA 14TA 17 e S 54, scortò la motonave Leda (ex italiana Leopardi) dal Pireo a Rodi (il convoglietto giunse davanti all’imboccatura di quel porto con tempo pessimo, che impedì alla Leda di entrarvi, e le torpediniere dovettero essere mandate a Lero perché a corto di carburante) e poi da Rodi al Pireo.

Il 5 gennaio 1944 la TA 15, insieme ad un’altra TA, venne inviata ad assumere la scorta della nave cisterna Bacchus, proveniente dai Dardanelli e diretta al Pireo. I britannici erano stati preventivamente informati della partenza della Bacchus dai loro servizi d’intelligence, ed avevano inviato il sommergibile Sibyl al largo di Capo Baba e l’Unruly negli approcci orientali del Canale di Doro per intercettarla; quando le due TA raggiunsero la Bacchus, questa aveva già eluso, senza neanche accorgersene, due attacchi subacquei, la prima volta quando era stata avvistata all’uscita dei Dardanelli dal Sibyl, che aveva rinunciato ad attaccare a causa della forte pioggia che limitava eccessivamente la visibilità (esponendolo al rischio di non identificare correttamente il bersaglio ed attaccare una nave turca e neutrale), e la seconda più a sud, al largo di Capo Eskinstambul, quando il sommergibile polacco Dzik le aveva lanciato infruttuosamente quattro siluri da 2100 metri di distanza. L’incontro con le due TA avvenne poco dopo questo attacco; alcune ore più tardi, al calar del buio, anche l’Unruly, che aveva appena raggiunto la sua area d’agguato ad est del Canale di Doro, avvistò il convoglio tedesco e manovrò per condurre un attacco in superficie, ma quando giunse a meno di 1400 metri di distanza venne avvistato dalla TA 15, che costituiva la scorta sul fianco sinistro della Bacchus, e costretto ad immergersi. La TA 15 non riuscì tuttavia a localizzare l’Unruly col sonar, e si limitò a lanciare una singola bomba di profondità; ad ogni modo, anche questo terzo ed ultimo attacco fu sventato, e la Bacchus poté raggiungere indenne il Pireo.

La TA 15 passò il resto del mese di gennaio in cantiere, nel tentativo di risolvere le continue avarie; durante questi lavori, il 12 gennaio, subì la rimozione dell’impianto binato prodiero da 120/45 mm, che sarebbe stato poi reinstallato poco tempo prima della perdita. Alla fine dovette lasciare il cantiere senza aver risolto i suoi cronici problemi di macchina, a causa delle continue incursioni aeree angloamericane che interrompevano i lavori e delle frequenti assenze dei lavoratori greci dei cantieri navali, poco disposti per lavorare per gli occupanti tedeschi, che per giunta li pagavano poco.


(da www.wiki.lesta.ru)

Il 31 gennaio TA 15 (con a bordo il comandante della 9. Torpedoboot-Flottille Walter Riede), TA 14 e TA 16 scortarono i mercantili Sieglinde e Centaur dal Pireo (da dove partirono alle 7.30) a Lero (dove giunsero il 1° febbraio indenni e dove superarono senza danni anche un duplice attacco aereo verificatosi durante le operazioni di scarico a Portolago). Il mattino del 1° febbraio 1944 la TA 15 (sempre al comando di Vorsteher), insieme a TA 14 (tenente di vascello Hans Dehnert) e TA 16 (tenente di vascello Hans Quaet-Faslem), salpò da Lero per scortare a Samo la motonave Leda, carica di munizioni; non appena le navi furono fuori dal porto ebbero inizio gli attacchi aerei, che si protrassero per tutta la giornata. In serata, dopo aver superato indenni quindici attacchi aerei con continue manovre ed il fuoco delle armi antiaeree, il piccolo convoglio entrò a Vathi (o Patmo), per poi ripartire alla volta di Iraklion nelle prime ore del 2 febbraio: durante la notte ripresero tuttavia gli attacchi aerei, nel corso di uno dei quali un aereo britannico, non riuscendo a risollevarsi da una picchiata, si schiantò sul ponte della Leda, scatenando un incendio che ben presto raggiunse il carico di munizioni e ne provocò l’esplosione ed il conseguente affondamento della motonave a nordest di Amorgos. TA 15 e TA 16 ne recuperarono i naufraghi (la TA 15 si affiancò alla Leda in fiamme per recuperarne l’equipaggio), mentre la TA 14 venne gravemente danneggiata da razzi che la colpirono in sala macchine, costringendola a rientrare al Pireo. Il sommergibile olandese Dolfijn assisté all’attacco senza parteciparvi.

Dopo questa missione, la TA 15 tornò in cantiere; il 17 febbraio, sempre al comando del tenente di vascello Carl-Heinz Vorsteher, avrebbe dovuto scortare un convoglio dal Pireo a Creta ma la missione fu annullata. Il 19 febbraio salpò dal Pireo per scortare a Suda (od Heraklion), via Milo, insieme alla TA 17 (tenente di vascello Helmut Duvelius), i piroscafi Lisa (ex italiano Livenza, carico di 2300 tonnellate di provviste, 1750 di benzina in fusti e 660 di munizioni) ed Agathe (ex italiano Aprilia); ma il 22 febbraio il convoglio venne localizzato da bombardieri Martin Baltimore del 454th Squadron della RAF a sud di Milo. La Luftwaffe inviò a protezione del convoglio alcuni Arado Ar 196, quattro Junkers Ju 88 e due Messerschmitt Bf 109 del 7./JG 27, ed alle 12.25 uno di questi, pilotato dal tenente Hans-Gunnar Culemann, sorvolò le navi agitando l’estremità delle ali ed abbatté un Baltimore (pilotato dal sergente australiano Brian Edward Rawlings, rimasto ucciso con tutto l’equipaggio) che stava pedinando il convoglio a nord-nord-ovest di Heraklion.

Questa scorta aerea poté fare poco quando sul convoglio si abbatté una formazione composta da sei aerosiluranti Bristol Beaufighter del 47th Squadron ed otto bombardieri North American B-25 Mitchell, scortati da altri dieci Beaufighter (otto del 227th Squadron e due del 603rd Squadron) più due (del 47th Squadron) con la specifica funzione di sopprimere, con le loro mitragliatrici, il fuoco contraereo delle navi (per altra versione, i Messerschmitt 109 della scorta aerea erano stati attirati via con un attacco diversivo). Gli aerosiluranti si avvicinarono al convoglio dalla direzione del sole, volando bassi sul mare, e furono accolti dal fuoco contraereo delle navi della scorta, che abbatté un aereo (che precipitò in mare a poppavia della TA 15); ciononostante, il Lisa fu colpito da un siluro. La TA 15 si precipitò in aiuto della nave colpita, fermandosi brevemente a recuperare due avieri britannici appartenenti all’equipaggio dell’aereo abbattuto, e portatasi sottobordo al Lisa ne prese a bordo i feriti, che trasportò ad Heraklion per poi tornare sul posto.

Nella battaglia aerea combattuta sul cielo del convoglio il tenente R. Somerville del 47th Squadron rivendicò l’abbattimento di un Arado Ar 196 alle 14.15 e tre altri piloti di Beaufighter (il maggiore D. B. Bennett del 227th Squadron, il capitano A. P. Pringle ed il sottufficiale P. G. Spooner entrambi del 603rd Squadron) il danneggiamento di altrettanti velivoli dello stesso tipo alle 14.20 (da parte tedesca risultano tre Ar 196 danneggiati, uno del 1./SAGr 12 e due del 4./SAGr 12, ma nessuno abbattuto), mentre i Beaufighters del 227th Squadron subirono l’abbattimento di tre aerei (pilotati dal tenente J. C. Corlett, catturato insieme al suo equipaggio, e dai sergenti R. F. Scarlett e S. B. Appleton, uccisi insieme ai loro equipaggi) ad opera di quello che identificarono come un totale di cinque Ju 88, quattro Messerschmitt 109 e quattro Arado Ar 196 (fu un aereo di questo tipo ad abbattere Appleton, mentre Scarlett e Corlett furono abbattuti dai Messerschmitt; da parte tedesca, un Ar 196 del 4./SAGr 12 rivendicò l’abbattimento di un Beaufighter, il tenente Hans-Joachim Hayessen del 7./JG. 27 rivendicò di averne abbattuti due e TA 15 e TA 17 rivendicarono di averne abbattuto un Beaufighter ciascuna con il loro armamento contraereo); alle 13 quattro Mitchell sorvolarono le navi a bassa quota e vennero inseguiti dai Messerschmitt, che vennero attaccati da una ventina di Beaufighter che volavano anch’essi a quota molto bassa. Nel combattimento che seguì, un razzo colpì la TA 15, provocando un incendio a bordo ed un morto e quindici feriti tra l’equipaggio. (Per altra versione, la TA 15 abbatté due aerei ed evitò due siluri, ma fu danneggiata da colpi di cannoncino in coperta).

Tornata sul posto dopo aver sbarcato ad Heraklion i feriti del Lisa, la TA 15 trovò che l’incendio a bordo del mercantile colpito era ormai fuori controllo: non rimase che recuperare il resto dell’equipaggio ed attendere la fine, che venne due ore dopo, quando il Lisa s’inabissò dieci miglia a nord di Heraklion. Le navi della scorta fecero poi ritorno al Pireo, dove i comandanti di TA 15 e TA 17 furono sottoposti a corte marziale per la loro condotta durante i tentativi di salvare il Lisa, venendo però assolti.


TA 15, a destra, e TA 14 a Samo nel febbraio 1944 (da www.hellenopolonica.blogspot.com)

Il 26 febbraio 1944 la già citata organizzazione “Apollo” della Resistenza greca comunicò agli Alleati che l’ex Crispi era giunto al Pireo con gravi danni, ma tra il 27 ed il 28 febbraio la TA 15 scortò il piroscafo Gertrud dal Pireo a Lero, e l’indomani la nave cisterna Berta (menzionata da alcune fonti anche come Bacchus, nome che aveva portato in precedenza) da Samo a Lero (durante questa missione venne incontrato tempo tanto avverso che la velocità scese a soli cinque nodi); tra il 2 ed il 3 marzo scortò di nuovo la Berta di ritorno da Lero a Samo, mentre tra il 3 ed il 4 marzo trasportò truppe da Lero a Rodi, dove giunse nella notte sul 4, per poi fare ritorno a Lero. Durante questa missione, alle 22.30 del 3 marzo, TA 15, TA 16 e TA 19 (che avevano in bordo in tutto 450 soldati) vennero avvistate al largo di Rodi dalle motosiluranti britanniche MTB 307 (tenente di vascello Lionel Henry Blaxell) e MTB 315 (tenente di vascello Leonard Elliott Newall), che stimarono correttamente che fossero dirette verso Rodi ed attaccarono con i loro siluri da 915 metri, senza successo, per poi ritirarsi sotto la reazione di fuoco delle Torpedoboote Ausland, che interruppero ben presto l’inseguimento per via delle truppe a bordo. Da Rodi le torpediniere tornarono a Lero con 263 militari che si recavano in licenza, poi scortarono il piroscafo Gertrud diretto al Pireo con 3129 prigionieri.

Tra il 4 ed il 5 marzo scortò il Gertrud e trasportò truppe da Lero al Pireo, mentre tra il 7 e l’8 marzo scortò i mercantili Agathe (ex italiano Aprilia) e Suzanne da Santorini ad Heraklion, prendendo il mare il 7 marzo insieme alla TA 19, assumendo la scorta del convoglio – già scortato da unità della 21. U-Jagd-Flottille – il mattino dell’8 al largo dell’isola di Santorini (o Tyros) e raggiungendo Creta dopo il tramonto. I mercantili entrarono in porto, mentre le torpediniere rimasero in rada, dove vennero attaccate da cacciabombardieri.


La TA 15 fu la prima unità della 9. Torpedobootsflottille ad andare perduta: alle 18.34 (per altra fonte, le 19.14) dell’8 marzo 1944, dopo poco più di quattro mesi di servizio sotto bandiera tedesca, venne colpito da tre razzi lanciati da aerei britannici ed affondato a nord di Heraklion, in posizione 35°28,4' N e 25°07,7' E, mentre al comando del tenente di vascello Karlheinz Vorsteher era in navigazione da Heraklion al Pireo insieme alla TA 19 (tenente di vascello Werner Foth).

Le due siluranti, al momento dell’attacco, avevano da poco lasciato Heraklion dove qualche ora prima avevano scortato, insieme ai cacciasommergibili UJ 2101, UJ 2105 e UJ 2106, l’Agathe ed il Suzanne. I tre razzi che colpirono la TA 15 scatenarono un incendio che si estese verso poppa, provocando l’esplosione di munizioni a centro nave e delle bombe di profondità a poppa; il comandante Forsteyer diede l’ordine di abbandonare la nave, ed alle 19.15 questa affondò di poppa, sbandata a sinistra, in posizione 35.4667° N e 25.1167° E, nel quadrante CO 3725.

Sedici membri dell’equipaggio della TA 15 persero la vita (altra fonte parla di 34 vittime); nello stesso attacco fu danneggiata la TA 19, che nondimeno fu in grado di recuperare la maggioranza dell’equipaggio della nave affondata. Secondo informazioni raccolte da “Apollo” e passate agli Alleati, la TA 15 affondò in soli tre minuti, mentre secondi fonti tedesche sarebbero passati 45 minuti tra l’attacco aereo e l’affondamento.

A condurre l’attacco che affondò la TA 15 fu un singolo cacciabombardiere Bristol Beaufighter del 603rd Squadron della Royal Air Force, l’NE 400 (aereo "X" del 603rd Squadron), decollato dalla base libica di Gambut per una missioned d’interdizione notturna (“night intruder”) al largo di Creta ai comandi del capitano Alexander Patrick “Pat” Pringle e munito di radar Air to Surface Vessel (ASV) per l’individuazione di bersagli navali. Il radar ASV non era così preciso da permettere di condurre un attacco in condizioni di completa oscurità, ma nella notte dell’8 marzo, pur essendoci tempo avverso, la luce lunare era sufficiente per vedere una nave dopo averla localizzata a distanza grazie al radar: Pringle localizzò quindi le due TA al radar e si avvicinò seguendo i suoi segnali, per poi condurre l’attacco visivamente.

Uno dei membri dell’equipaggio di Pringle, il navigatore Tony Ross, avrebbe in seguito ricordato: “L'8 marzo partimmo per il nostro lungo e solitario viaggio verso l'estremità orientale di Creta. In assenza di aiuti elettronici alla navigazione, era essenziale un’accurata stima della propria posizione. Il promontorio roccioso di Creta alla fine si profilò nell'oscurità e virammo ad ovest per volare lungo la costa settentrionale, mantenendoci alla quota più bassa consentita dalla visibilità notturna. La luna stava sorgendo e tracciava un lungo sentiero argentato attraverso le tranquille acque scure. L'isola di Dia (quasi esattamente a nord di Heraklion) era appena visibile sulla destra quando il radar mostrò tracce di qualcosa sull'acqua. Virammo descrivendo un ampio arco verso il basso della luna in modo che qualunque cosa fosse nell'acqua sarebbe apparsa tra noi e la luna mentre l'aereo stesso si sarebbe trovato nella parte più scura del cielo. Dopo aver riposizionato l'obiettivo sul radar, iniziammo a pedinarlo. All'improvviso apparvero sagome scure davanti a noi: due grandi navi in linea di fila che si dirigevano verso il porto. Ancora una volta ci allontanammo, questa volta per sferrare un attacco attentamente pianificato. Ci portammo alla giusta quota. Il "Topolino" fu impostato per una salva a 800 iarde e la picchiata ebbe inizio. La distanza calava. Gli scarichi luminosi dei razzi sfrecciarono davanti a noi e sulla nave di testa apparve all'improvviso una brillante luce gialla. Ci allontanammo bruscamente a dritta per evitare di stagliarci contro la luna. Mentre riprendevamo la posizione d'attacco, le fiamme già si levavano alte nel cielo dalla nave condannata. Fu effettuato un altro attacco alla seconda nave, questa volta con i cannoncini perché i razzi erano finiti. Osservammo alcuni colpi a segno, ma nell'oscurità non fu possibile valutare i danni”.


Diverse fonti affermano, erroneamente, che la nave venne successivamente recuperata e rimorchiata al Pireo, dove fu nuovamente affondata (da un attacco aereo mentre si trovava in riparazione, oppure per autoaffondamento da parte dei tedeschi stessi in ritirata) il 12 ottobre 1944, ma si tratta di un errore: affondata in mare aperto (in una zona dove il mare è profondo 400 metri) e non, come affermato da alcuni siti, nel porto di Heraklion, la TA 15 non fu mai recuperata; la nave affondata al Pireo nell’ottobre 1944 (non da aerei ma da cariche esplosive piazzate da partigiani greci) ed erroneamente identificata dai primi rapporti d’intelligence britannici come l’ex Crispi era in realtà la TA 17, ex San Martino.

Parimenti errata è l’asserzione, contenuta nel libro “Improvise and dare” di J. S. Guard, secondo cui la TA 15 sarebbe stata gravemente danneggiata da un attacco di incursori britannici con mine adesive a Lero nella notte tra il 17 ed il 18 giugno 1944 (e poi rimorchiata al Pireo per le riparazioni, venendovi affondata da un bombardamento aereo il 12 ottobre 1944): in quell’attacco furono danneggiate la TA 14 e la TA 17.

È possibile che lo scambio di sigle identificative tra queste Crispi e San Martino, avvenuto nel novembre 1943, sia all’origine di questi equivoci.

Il Francesco Crispi giace tutt’ora sul fondo del Mar Egeo.


(Coll. Guido Alfano, via g.c. Giorgio Parodi e www.naviearmatori.net)


Il Francesco Crispi sul sito della Marina Militare

Il Crispi su Trentoincina

Il Crispi su Wiki.Lesta.ru

La TA 15 su German Navy

La TA 15 sul Historisches Marinearchiv

La TA 15 su Wiki.Lesta.ru

La TA 15 su Navypedia

Discussione sull’affondamento della TA 15 su Warsailors

A History of the Mediterranean Air War, 1940-1945, Volume 5: From the Fall of Rome to the End of the War, 1944-1945

Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare – Anno XXXV – aprile/giugno 2021

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