Cacciatorpediniere della classe Sella
(dislocamento standard 1279 tonnellate, a pieno carico 1480
tonnellate).
Il
Crispi
si distingueva dai gemelli per il diverso apparato motore,
costituito da turbine Belluzzo interamente ad azione (due gruppi di
turbine alimentati ciascuno da tre caldaie Thornycroft, per una
potenza complessiva di 35.000 HP, progettati dal professor Giuseppe
Belluzzo, massimo esperto italiano in fatto di turbine) invece che
Parsons come per le altre unità della classe: furono installate
sotto la direzione del tenente colonnello del Genio Navale Pericle
Ferretti, padre dello “snorkel” italiano. Queste turbine, ben
riuscite dal punto di vista progettuale ma realizzate con acciaio di
qualità non adeguata, resero il Crispi
l’unità più veloce della classe alle prove ma diedero prestazioni
complessivamente inferiori, fino alla loro sostituzione con nuove
turbine
dello stesso tipo ma realizzate con materiali migliori.
Troppo
anziano per il servizio di squadra, durante la guerra operò
prevalentemente in Mar Egeo, scortando convogli (tra le isole del
Dodecaneso fino alla caduta della Grecia, e successivamente tra il
Dodecaneso, la Grecia continentale, Creta e le altre isole greche),
svolgendo attività antisommergibili e partecipando a tutti i
principali episodi della guerra aeronavale in quel teatro.
Svolse
243 missioni di guerra (126 di scorta, 9 di trasporto, tre di ricerca
del nemico, tre di bombardamento controcosta, 67 di trasferimento, 31
per esercitazioni e quattro di altro tipo), percorrendo in tutto
42.127 miglia nautiche e trascorrendo 3557 ore in mare e 119 giorni
ai lavori, risultando così uno dei cacciatorpediniere italiani più
attivi nel conflitto (il secondo per numero di missioni svolte, dopo
l’Augusto Riboty).
Il
suo motto era "Con Dio e col re per la patria", coniato
proprio dal politico e patriota eponimo.
Breve
e parziale cronologia.
21
febbraio 1923
Impostazione
presso i cantieri Pattison di Napoli.
12
settembre 1925
Varo
presso i cantieri Pattison di Napoli.
Marzo
1927
Durante
le prove a tutta forza, della durata di tre ore, le macchine del
Crispi
sviluppano una potenza di 35.540 cavalli (massima di 36.700) e
raggiungono una notevolissima velocità media di 38,6 nodi, superando
di molto la velocità prevista dal contratto e facendo della nave la
più veloce della classe (che di per sé risulta già molto più
veloce dei cacciatorpediniere italiani della generazione precedente,
rispetto alla quale i Sella
segnano un netto balzo di qualità per dimensioni, armamento e
velocità), consumando al contempo meno carburante per miglio nautico
percorso rispetto alle classi precedenti. Questo risultato viene
tuttavia raggiunto in condizioni irrealistiche, con la nave molto più
leggera di quanto non sarebbe in reali condizioni operative (il
dislocamento alle prove è di sole 1050 o 1094 tonnellate, con
l’armamento principale ancora non installato): una ingannevole
pratica che diventerà però la prassi durante il periodo
interbellico.
.jpg) |
| Il Crispi durante le prove in mare effettuate nella primavera del 1927, con l’armamento ancora non installato (da www.wiki.lesta.ru) |
29
aprile 1927
Entrata
in servizio, quarta ed ultima unità della classe. Insieme ai gemelli
Quintino Sella,
Giovanni Nicotera
e Bettino Ricasoli
forma la VII Squadriglia Cacciatorpediniere, facente parte della
Squadra Navale. (Altra fonte data l’entrata in servizio al 1°
maggio 1927).
21
ottobre 1927
Riceve
la bandiera di combattimento con una cerimonia svolta a Palermo. Poco
dopo viene dislocato a Lero, nel Dodecaneso, dove nel giugno
successivo sarà raggiunto dai gemelli Giovanni
Nicotera e Bettino
Ricasoli, di ritorno da una
crociera in Mar Nero, con i quali forma la IV (o VII?) Squadriglia
Cacciatorpediniere.
1927-1928
Per
ovviare i problemi di stabilità (dovuti ai pesi eccessivi nelle
sovrastrutture) ed eccessiva leggerezza delle strutture che
affliggono le navi della classe, il Crispi
ed i gemelli vengono sottoposti a lavori di rinforzo delle parti più
deboli dello scafo e delle sovrastrutture, imbarcano un considerevole
quantitativo di zavorra e ricevono delle alette antirollio di
notevoli dimensioni.
In
questo periodo è comandante del Crispi
il capitano di corvetta Priamo Leonardi.
Marzo
1928
In
seguito alla riorganizzazione delle forze navali, la VII Squadriglia
Cacciatorpediniere diviene la IV Squadriglia, facente parte della 1a
Squadra Navale.
Aprile
1928
Crispi,
Sella
e Nicotera
si recano in visita in Spagna, dove dovranno presenziare a Siviglia a
dei festeggiamenti cui parteciperà la famiglia reale spagnola.
19
aprile 1928
Il
Crispi
s’incaglia nello stretto a sud di Maiorca, toccando il fondo con
conseguente deformazione dell’elica sinistra; dev’essere preso a
rimorchio dal Sella
e portato a La Spezia, dove rimarrà in riparazione fino al luglio
dell’anno successivo. (Per altra fonte, l’incidente sarebbe
avvenuto presso lo scoglio della Meloria).
Le
conseguenze dell’incaglio si riveleranno particolarmente gravi e
difficili da risolvere: il Crispi
dovrà più volte tornare in cantiere per altri lavori, e per quasi
due anni non compirà che brevi uscite nel Tirreno per prove.
.jpg) |
| Francesco Crispi, Giovanni Nicotera, Quintino Sella e Bettino Ricasoli a Venezia (g.c. Nedo B. Gonzales, via www.naviearmatori.net) |
1928-1929
Lavori
di modifica dell’armamento: l’impianto singolo prodiero da 120/45
mm e quello binato poppiero vengono sostituiti con due impianti
binati dello stesso calibro, ma più leggeri, analoghi a quelli
adottati sui nuovi cacciatorpediniere della classe Sauro (modello OTO
1926, al posto dei precedenti modello Schneider-Canet-Armstrong
1918).
1930
o 1931
L’armamento
contraereo viene potenziato con l’aggiunta di due mitragliere
singole Breda da 13,2/76 mm in controplancia.
Estate
1930
Compie
una crociera con scali in porti greci e delle isole dell’Egeo.
1931
Altra
crociera in Grecia ed isole dell’Egeo.
1931
Il Crispi,
il capoclasse Quintino
Sella, i più
recenti Nazario
Sauro
e Cesare
Battisti
e l’esploratore Tigre formano
la 2a
Flottiglia Cacciatorpediniere della II Divisione della 1a
Squadra Navale. La II Divisione (al comando dell’ammiraglio Romeo
Bernotti), oltre che dalla 2a
Flottiglia Cacciatorpediniere, è composta dalla 1a
Flottiglia Cacciatorpediniere (esploratore Pantera,
cacciatorpediniere Giovanni
Nicotera, Daniele
Manin,
Aquilone,
Ostro
e Borea),
dall’esploratore Ancona
e dai cacciatorpediniere Nembo,
Euro,
Espero
e Zeffiro.
Agosto
1932
La
IV Squadriglia Cacciatorpediniere, di cui il Crispi
fa parte, viene assegnata alla VI Divisione Navale e trasferita a
Venezia, dove rimarrà per tre anni, adibita a compiti addestrativi.
Il Crispi
continua ad essere afflitto da problemi alle turbine.
.jpg) |
| Il Crispi in entrata a Taranto (g.c. Giacomo Toccafondi) |
1933
Viene
installato un secondo telemetro, di tipo chiuso, ed anche il
telemetro preesistente viene sostituito con uno di tipo chiuso.
1933-1934
Il
Crispi
fa parte della VI Divisione Navale (ammiraglio di divisione Guido
Castiglioni), insieme ai gemelli Quintino
Sella, Giovanni
Nicotera e Bettino
Ricasoli, ai vecchi
incrociatori corazzati San
Giorgio
e San
Marco
(in riserva), all’incrociatore leggero Bari
(nave ammiraglia di Castiglioni) ed agli esploratori Tigre
ed Augusto
Riboty.
In
questo periodo (1934) è comandante in seconda del Crispi
il tenente di vascello Francesco De Robertis, destinato a diventare
celebre regista tra i precursori del neorealismo con i suoi film a
tema navale.
.JPG) |
| Il Crispi a metà anni Trenta (Coll. Maurizio Brescia, via rivista ANMI) |
22
aprile 1934
Il Crispi,
inquadrato nella IV Squadriglia Cacciatorpediniere insieme ai
gemelli Quintino
Sella, Giovanni
Nicotera e Bettino
Ricasoli, al più grande
Tigre
ed ai più moderni Francesco
Nullo
e Daniele
Manin,
ed unitamente alla I Squadriglia Esploratori (Luca
Tarigo, Ugolino
Vivaldi, Antoniotto
Usodimare ed Alvise
Da
Mosto),
alla II Squadriglia Esploratori (Lanzerotto
Malocello, Nicoloso
Da
Recco, Emanuele
Pessagno
e Giovanni
Da
Verrazzano)
ed al posamine Dardanelli,
presenzia alla cerimonia
per la consegna della bandiera di combattimento agli incrociatori
leggeri Alberico
Da
Barbiano, Alberto
Di
Giussano, Giovanni
delle
Bande
Nere,
Bartolomeo
Colleoni
e
Luigi
Cadorna,
nel bacino di San Marco a Venezia.
Estate
1935
Una
grave avaria mette definitivamente fuori uso le turbine
del Crispi.
Ottobre
1935
Viene
rimorchiato a Genova dal rimorchiatore militare Teseo,
per esservi sottoposto alla sostituzione delle turbine.
1936-1937
Durante
lavori svolti presso i Cantieri del Tirreno di Genova, le turbine
avariate vengono sostituite con nuove turbine sempre
Belluzzo, ma di tipo leggermente modificato e realizzate con acciai
di migliori prestazioni, che confermeranno la bontà del progetto
originario.
Inizio
1938
Inviato
in Egeo, visitando anche porti
della Libia. In questo periodo è comandante del Crispi
il capitano di fregata Sergio De Judicibus.
1938
Le
due mitragliere contraeree singole da 13,2/76 mm vengono eliminate e
sostituite con altrettante armi binate dello stesso calibro.
1939
Il
Crispi
ed i gemelli Quintino Sella,
Giovanni Nicotera
e Bettino Ricasoli
formano la IV Squadriglia Cacciatorpediniere, di stanza a Lero e
Rodi, nel Dodecaneso.
Nel
corso di quest’anno il fumaiolo poppiero viene abbassato di circa
1,5-2 metri, e sulla sommità di quello prodiero viene installata
un’“unghia”.
Marzo
1940
La IV Squadriglia
Cacciatorpediniere viene dimezzata in seguito alla vendita alla
Svezia di Nicotera
e Ricasoli.
6
giugno-10 luglio 1940
Il
Crispi,
insieme al Sella,
al posamine ausiliario Lero
ed alle torpediniere Libra,
Lince
e Lira,
partecipa alla posa dei campi minati difensivi del Dodecaneso a
cavallo della dichiarazione di guerra: insieme a Sella,
Lero
ed alle tre torpediniere posa complessivamente dodici campi minati
antinave di trenta mine ciascuno ed uno antisommergibili di 65 mine
(tutte tipo Elia) nelle acque di Lero e sei campi minati antinave di
25 mine ciascuno e due antisommergibili (uno di 25 mine e l’altro
di 50, anche qui tutte tipo Elia come anche per gli sbarramenti
antinave) nelle acque di Rodi; insieme ai soli Sella
e Lero
posa sei campi minati di 25 mine tipo Elia ciascuno nelle acque di
Stampalia.
10
giugno 1940
All’entrata
dell’Italia nella seconda guerra mondiale, il Crispi
(caposquadriglia, capitano di fregata Ugo Ferruta) ed il gemello
Sella
formano la IV Squadriglia Cacciatorpediniere, di base a Rodi (o Lero)
ed alle dipendenze del Comando Militare Marittimo Autonomo dell’Egeo.
Nella
fase iniziale del conflitto i due cacciatorpediniere, che sono le
navi da guerra più potenti del Dodecaneso, sono adibiti alla scorta
dei piccoli convogli che collegano tra loro le isole dell’arcipelago
ed alla ricerca e caccia dei sommergibili.
.jpg) |
| Il Crispi nella baia di Alimia, a Rodi, il 30 giugno 1940. In secondo piano il Sella (g.c. STORIA militare) |
19
novembre 1940
Nella
notte tra il 18 ed il 19 novembre Crispi
e Sella,
su ordine dell’ammiraglio Luigi Biancheri (comandante delle forze
navali del Dodecaneso), bombardano con le loro artiglierie il porto
di Samo, in rappresaglia per un colpo di mano greco condotto la notte
precedente ai danni del piccolo presidio dell’isolotto di Gaidaro,
del quale un marinaio addetto alla locale stazione di vedetta era
stato ucciso ed altri quattro militari catturati da uno sbarco a
sorpresa di una quindicina di marinai ellenici.
Il
mattino seguente una caserma a Porto Vathi, nella medesima isola,
verrà bombardata dalla Regia Aeronautica e tre giorni più tardi una
concentrazione di motovelieri ed unità minori della Marina greca nel
porto di Samo sarà oggetto di un altro attacco aereo e di un nuovo
bombardamento navale ad opera delle torpediniere dell’VIII
Squadriglia. Dopo questo “trattamento”, in effetti, non si
verificheranno più azioni ostili greche ai danni dei presidi del
Dodecaneso.
Inizio
1941
In
vista di una futura operazione della I Flottiglia MAS (che dal marzo
successivo assumerà la più famosa denominazione di X Flottiglia
MAS) contro la baia di Suda, nell’isola di Creta, Crispi
e Sella
vengono modificati per essere impiegati come “avvicinatori” di
mezzi d’assalto: più precisamente vengono installate in coperta a
centro nave delle selle su cui sistemare dei “barchini esplosivi”
tipo MT (“Motoscafo Turismo”, muniti di una carica esplosiva di
370 kg di tritolite T4 sistemata nella prua), fino a sei per nave
(tre su ogni lato), da trasportare fino in prossimità dell’obiettivo
e qui mettere a mare. Vengono altresì installate delle gruette
elettriche per la messa a mare dei barchini.
L’equipaggio
dei cacciatorpediniere, dopo il necessario addestramento, riuscirà a
compiere la manovra di messa in mare dei “barchini esplosivi” in
35 secondi (a barchino, presumibilmente).
La
collocazione di queste attrezzature a centro nave comporta come
rovescio della medaglia, durante la missione, l’impossibilità di
usare i tubi lanciasiluri.
L’idea
di un’azione di mezzi d’assalto contro Suda, utilizzata dai
britannici come base navale per le loro operazioni in Egeo dopo
l’invasione italiana della Grecia nell’autunno precedente, è
stata avanzata per la prima volta da Supermarina il 19 dicembre 1940,
in un documento segreto-riservato-personale indirizzato al capo di
Stato Maggiore, in cui si spiegava che «la
zona dell’Egeo appare in questo momento, per le limitate difese dei
sorgitori utilizzati dal nemico
(…) particolarmente adatta
per l’impiego offensivo degli MT. Risulta quindi indispensabile
inviare al più preso, come previsto, n. 8 MT con relativo personale
a Lero» e si proponeva di
far partire il 24 dicembre da Augusta i cacciatorpediniere Dardo e
Strale, appositamente modificati, con a bordo otto “barchini
esplosivi” da trasferire a Lero ed i relativi piloti, con arrivo
previsto per il 27 dicembre dopo uno scalo a Bengasi per rifornirsi
di acqua e nafta.
Il
sottocapo di Stato Maggiore della Marina, ammiraglio Inigo Campioni,
ha approvato il piano, ed il 21 dicembre Supermarina ha inviato al
Comando Superiore Forze Armate dell’Egeo (Egeomil) un messaggio
segreto per annunciare che «Da
parecchio tempo la R. Marina ha studiato, realizzato e sperimentato
mezzi speciali, destinati ad attaccare le unità nemiche nei porti.
Fra questi mezzi speciali sono da annoverare i motoscafi turismo
(M.T.) (…) L’avvenuta
sistemazione delle forze navali inglesi nella isola di Creta e la
situazione generale in Egeo offrono possibilità di impiego per gli
M.T. (…) È
stato quindi deliberato di inviare al più presto costì
(…) numero 8 M.T. con i
relativi equipaggi. La spedizione è accompagnata dal capitano di
fregata Moccagatta, comandante della Flotmas speciale, il quale Vi
potrà fornire tutti gli schiarimenti relativi a a) caratteristiche
dei mezzi speciali (M.T.), b) modalità d’impiego previste per gli
M.T., c) possibilità di adattamento degli M.T. sui Ct. e sulle
torpediniere, o a rimorchio dei Mas da Voi dipendenti per effettuare
il trasporto dalla base di partenza fino alle acque in cui si
svolgerà l’operazione. Gli M.T. possono essere impiegati di
massima contro unità all’ormeggio in una base. L’operazione
dovrebbe essere compiuta, previe accurate ricognizioni aeree intese a
precisare la posizione e il tipo delle navi e soprattutto la
posizione e l’entità delle ostruzioni retali, seguendo i
sottoscritti criteri di massima: a) favorevoli condizioni
meteorologiche, b) avvicinamento alla base nemica da parte delle
siluranti o dei Mas in notte oscura, in modo da garantire la
sorpresa, c) impiego di tutti gli M.T. in una sola spedizione o al
massimo in due nuclei su 4 M.T., per sfruttare in pieno il fattore
sorpresa e per potere avere buone probabilità di successo
(…)».
Dardo
e Strale recapitano come previsto gli otto MT a Lero a fine dicembre;
con essi ed i relativi piloti giunge anche il capitano di fregata
Vittorio Moccagatta, comandante della X Flottiglia MAS, che ha
pianificato la missione insieme al comandante del reparto di
superficie della X MAS, capitano di corvetta Giorgio Giobbe. Durante
la permanenza nel Dodecaneso i piloti dei barchini si addestrano
intensamente nella baia di Parteni sotto la supervisione del
comandante Moccagatta, navigando e compiendo manovre in formazione e
simulando il superamento di ostruzioni ed attacchi sotto i
riflettori, fino a raggiungere un elevato livello di efficienza.
Vengono altresì eseguite esercitazioni di messa a mare dei
“barchini” dai cacciatorpediniere; in proposito il comandante
Moccagatta, al suo rientro in Italia, scriverà nel suo rapporto che
la messa a mare con le gruette, sia azionate elettricamente che
manualmente, non presenta particolari difficoltà, anche se non è da
ritenersi il sistema ideale, e che il tempo medio per mettere in mare
tre “barchini” con un paio di gruette è di sette minuti.
Moccagatta studia le possibilità operative degli MT e redige una
bozza di ordine d’operazioni in cui, tenendo conto delle fasi
lunari, individua la finestra d’azione tra il 23 ed il 31 gennaio.
La
ricognizione aerea, i cui velivoli volano a 4000 metri, fotografa a
più riprese la baia, permettendo di individuare le batterie costiere
situate sui costoni della baia e tre sbarramenti di ostruzioni
retali, il primo dei quali, ubicato all’imbocco della baia (con il
secondo a poca distanza, mentre il terzo è in fondo alla baia,
vicino al porto), è giudicato agevolmente superabile.
Gennaio
1941
Il
18 gennaio Egeomil emette l’ordine d’operazione M/916, che
dispone che l’attacco dei “barchini esplosivi” contro Suda si
svolga in una notte tra il 24 ed il 31 gennaio (il 23 gennaio,
intanto, il capitano di fregata Moccagatta è stato richiamato in
Italia per assumere il comando della X MAS).
Crispi
e Sella
prendono effettivamente il mare con a bordo gli MT durante questa
finestra, ma vengono poi richiamati in porto dopo poche ore perché
giunge notizia che le navi britanniche obiettivo dell’attacco sono
in partenza, ed il Comando Forze Armate dell’Egeo ha quindi
annullato la missione.
Nelle
altre notti di gennaio non si verificano mai condizioni favorevoli
per un attacco: o le condizioni meteomarine sono inadatte al
trasporto ed alla navigazione degli MT, o non ci sono a Suda bersagli
paganti.
Febbraio
1941
Di
nuovo Crispi
e Sella
prendono il mare con a bordo i “barchini esplosivi” per un nuovo
tentativo di attacco contro Suda, ma di nuovo vengono richiamati alla
base dopo poche ore per ordine del Comando Forze Armate dell’Egeo
perché il numero e tipologia delle navi britanniche di base a Suda
non viene giudicato tale da giustificare un attacco.
25
febbraio 1941
Alle
16.30 Crispi
(capitano di fregata Ugo Ferruta) e Sella
(capitano di corvetta Arturo Redaelli), aventi a bordo un reparto di
camicie nere ed uno di marinai, salpano da Rodi per partecipare alla
riconquista dell’isola di Castelrosso, occupata dai britannici con
un colpo di mano due giorni prima.
L’operazione
britannica, denominata "Abstention", ha preso il via nel
pomeriggio del 23 febbraio, quando i cacciatorpediniere Hereward
(capitano di fregata Charles Woollven Greening) e Decoy
(capitano di fregata Eric George McGregor) sono partiti da Suda con a
bordo duecento “commandos” (appartenenti al No. 50 Middle East
Commando, unità addestrata in Egitto e di stanza a Creta, e
comandati personalmente dal tenente colonnello S. Symons, comandante
di tale reparto) incaricati di impadronirsi dell’isola con uno
sbarco a sorpresa (per altra fonte la partenza sarebbe avvenuta
all’una di notte od all’1.30 del 24).
Castelrosso,
piccola isola (cinque miglia quadrate) abitata da poco più di
duemila greci e facente parte del Dodecaneso italiano dal 1921, dista
75 miglia da Rodi (rispetto alla quale è posta ad est), 170 da Lero
e 140 da Cipro, e solo 3 km dalla costa turca: è l’isola più
orientale del Dodecaneso, nettamente separata dalle altre ed isolata
da ogni altro territorio italiano, il che la rende un bersaglio
ideale. I britannici intendono stabilirvi una base di motosiluranti
(più precisamente, dovrebbero stabilirvi la propria base sette unità
tipo CMB della 10th
MTB Flotilla, inviate dall’Inghilterra con un convoglio che fa il
periplo dell’Africa), dalla quale operare in appoggio alla Grecia,
dopo aver accantonato un ben più ambizioso piano per la conquista di
Rodi; più in generale lo scopo è stabilire una base avanzata nel
Dodecaneso, punto di partenza (con anche l’installazione di una
base aerea) per future operazioni aeronavali nell’Egeo e magari
anche per la conquista di tutto il Dodecaneso, che si spera
indurrebbe anche la Turchia a lasciare la neutralità ed unirsi agli
Alleati (proprio a questo scopo, negli stessi giorni il ministro
degli Esteri britannico Anthony Eden ed il generale John Dill sono
inviati in missione ad Ankara). Già il 21 novembre 1940 il
comandante della Mediterranean Fleet, ammiraglio Andrew Browne
Cunningham, ha prospettato al suo superiore Alfred Dudley Pound,
comandante in capo della flotta britannica, la possibilità di
condurre operazioni di commandos su piccola scala nel Dodecaneso;
Castelrosso, lontana da Rodi e poco difesa, è stata identificata
come il bersaglio ideale (inizialmente le mire di Cunningham si erano
appuntate anche su Caso, dove i britannici pensavano di installare
delle batterie costiere che potessero ostacolare l’utilizzo
dell’aeroporto di Scarpanto, ma un primo tentativo di sbarco
britannico a metà gennaio 1941 era fallito a causa della pronta
reazione italiana).
Il
modesto presidio italiano di Castelrosso consiste in 35 uomini del
Regio Esercito e della Regia Marina addetti alla locale stazione
radio – che trasmette i messaggi della Marina ed anche i telegrammi
privati e quelli meteorologici – e di vedetta, al comando del capo
radiotelegrafista di seconda classe Filippo Mastropaolo, più una
decina tra militi della Guardia di Finanza e carabinieri, con
funzioni di polizia e di delegazione; modestissime le difese.
Il
piano britannico prevede che i commandos conquistino l’isola e
stabiliscano un perimetro difensivo, per poi essere rinforzati dopo
ventiquattr’ore – alle tre di notte del 26 febbraio – da un
reparto di Royal Marines e truppe dell’Esercito (una compagnia del
reggimento Sherwood Foresters, al comando del maggiore L. C. Cooper,
con viveri e munizioni per un mese) che dovranno tenere Castelrosso
respingendo i successivi contrattacchi italiani. Insolitamente e con
scarsa lungimiranza, non è previsto alcun appoggio aereo,
all’infuori di incursioni diversive della RAF sulle basi aeree
italiane di Rodi nelle notti tra il 25 ed il 26 e tra il 26 ed il 27
febbraio.
I
britannici possiedono in verità informazioni piuttosto frammentarie
sulle difese di Castelrosso: la maggior parte sono di fonte francese
e risalgono a metà anni Trenta, quando l’Air France utilizzava il
porticciolo dell’isola come scalo per i suoi idrovolanti da carico.
A parte questo, l’Ammiragliato dispone di poche altre notizie e di
una carta nautica; si è arrivati persino a studiare qualche
cartolina illustrata.
Nel
tardo pomeriggio del 23 febbraio sono partiti da Suda anche gli
incrociatori leggeri Bonaventure
(capitano di vascello Henry Jack Egerton) e Gloucester
(capitano di vascello Henry Aubrey Rowley, nave di bandiera del
contrammiraglio Edward de Faye Renouf), forza di copertura
dell’operazione, mentre il sommergibile Parthian
(capitano di fregata Michael Gordon Rimington) ha effettuato
ricognizione periscopica dei punti prescelti per lo sbarco il 18-19
febbraio e deve fungere da faro durante lo sbarco, guidando i
cacciatorpediniere verso la spiaggia designata con segnali luminosi.
La cannoniera Ladybird
(capitano di corvetta John Fulford Blackburn) è partita da Famagosta
(Cipro) alle 23.30 del 23 febbraio con un drappello di 24 Royal
Marines da sbarcare a Castelrosso quale primo rinforzo ai commandos,
mentre il grosso dei Royal Marines e gli Sherwood Foresters
seguiranno il 26 febbraio, trasportati dal panfilo armato Rosaura
(capitano di vascello R. Spencer) che partirà da Cipro con la scorta
del Bonaventure
e dell’incrociatore leggero australiano Perth
(capitano di vascello Philip Weyland Bowyer-Smith).
Lo
sbarco dei commandos, agevolato dal mare calmo con poco vento, è
iniziato alle due di notte del 25 febbraio: in mancanza di
informazioni sulla presenza di batterie costiere italiane, Decoy
ed Hereward
si sono fermati a circa 200 metri dalla costa; i 200 commandos hanno
preso posto su dieci lance baleniere, ma solo due di esse sono
riuscite alle 3.10 a sbarcare le truppe presso Punta Nifti,
all’estremità orientale dell’isola ed a sud dell’abitato di
Castelrosso, per poi ripetere il tragitto sbarcando un totale di 50
commandos, mentre altre si sono perse nel buio, hanno superato il
punto prestabilito per lo sbarco e sono entrate nel porticciolo
dell’isola, tentato di sbarcare i loro commandos all’estremità
del porto. Qui sono entrate in contatto con una pattuglia italiana e
sono state costrette a ripiegare dal tiro delle mitragliere dei
carabinieri e della stazione radio della Marina, dopo di che sono
ritornate verso i cacciatorpediniere, raggiungendoli nuovamente alle
cinque del mattino con tutte le truppe ancora a bordo. Alle 5.15 il
comandante britannico ha inviato altre quattro baleniere a cercare
l’unico gruppo di commandos sbarcati nel punto giusto per
reimbarcarli, essendo ormai sfumata la sorpresa, ma senza successo;
ha allora deciso di proseguire con la missione e sbarcare tutti i
commandos. Alle 6.20 – ormai a giorno fatto – tre lance hanno
sbarcato un reparto di commandos a supporto del primo gruppo, seguiti
da altri sbarchi protrattisi per un’ora, nella zona del cimitero e
di Punta Nifti.
Il
caos dello sbarco è ben illustrato dalle testimonianze di due
ufficiali imbarcati sulle baleniere: “È
importante notare che il timoniere che ci conduceva verso il punto
convenuto di sbarco era un regatante della squadra di canotaggio
della marina. Io mi trovavo con lui nella prima barca mentre tutti
gli altri ci seguivano con cieca fede nella navigazione decisa da un
così qualificato esponente della Marina. Proseguimmo lentamente fino
a quando intravvedemmo delle sagome scure di alcune costruzioni che
si materializzavano gradualmente ad entrambi i lati e qualcuno
esclamò: " Ma dove diavolo siamo finiti? Ci avevano
detto che la zona di Punta Nifti doveva essere completamente
disabitata!" Quasi immediatamente sentimmo un'intimazione in
italiano seguita da una raffica di proiettili provenienti da armi
portatili leggere, tutto intorno a noi. Il nostro timoniere della
squadra di canotaggio della marina, con un singolare aplomb che gli
derivava dal suo lungo stato di servizio come marinaio,
gridò: "Remate più a fondo con quelle pagaie, bastardi!".
Remando a tutta forza ci guidò indietro oltre alcune distanze oltre
l'incrociatore [sic] Decoy”
e “Entrammo nel porto più
silenziosamente possibile e ammainammo le barche dai blocchi ben
lubrificati. La remata procedeva con coordinazione e le baleniere che
erano state prima ben preparate in ogni dettaglio per raggiungere
terra, andavano avanti silenziosamente ciascuna carica di truppe da
sbarco e da due o tre marinai per riportarle alla nave per la
successiva ondata di sbarchi. Al primo sbarco, la prima imbarcazione
in testa alle altre procedeva troppo lentamente e perciò le barche
successive urtavano tutte una contro l'altra, accumulandosi attorno
alla nostra. Segnalai all'ufficiale della prima barca di procedere
più velocemente. Sfortunatamente, accelerò troppo in fretta e
l'abbrivo le impedì di ridurre nuovamente la velocità e così mi
ritrovai col dilemma se continuare a seguirla a vista o se rimanere
indietro con i ritardatari. Cercando di fare il mio meglio per
entrambe le situazioni, mi ritrovai in pratica a non aver fatto né
l'una, né l'altra cosa, perdendo di vista sia le imbarcazioni dietro
di noi che quella di fronte. Riuscii comunque a raggiungere il punto
fissato per lo sbarco dove vidi le nostre truppe, ma le altre
imbarcazioni si persero per strada, furono viste dal nemico e
bersagliate, sebbene anche loro riuscirono, infine, a sbarcare i loro
uomini in latri punti lungo la costa”.
Dopo
aver aggirato il cimitero, i commandos sbarcati a Punta Nifti hanno
teso un agguato ad un autocarro italiano in viaggio sulla strada tra
Punta Nifti ed il porto, avente a bordo una pattuglia di tre marinai
inviati in avanscoperta dalla stazione di vedetta di Monte Vigla dopo
che sono stati sentiti gli spari nella zona del porto verso le 4.15
(passando vicino alla casa del segretario del delegato, situata
vicino alla zona costiera del Mandracchio, i marinai avevano
avvertito la sua famiglia di rimanere in casa perché stava per
accadere qualcosa); nello scontro due dei marinai italiani sono stati
uccisi ed il terzo gravemente ferito (viene salvato dall’intervento
di Anastasia Arnaoutoglou, vecchia maestra greca che a dispetto della
sua ostilità per la dominazione italiana rischia la sua vita per
soccorrere il ferito e sarà per questo decorata con la Medaglia
d’Argento al Valor Militare). I commandos hanno quindi attaccato
l’abitato di Castelrosso, mentre i cacciatorpediniere sbarcavano
altri commandos nella baia di Navalaka (sulla costa meridionale), ed
hanno occupato rapidamente il palazzo del governatore (che viene
trovato vuoto ma “con il letto ancora caldo”: il governatore sarà
più tardi arrestato insieme ad altri dodici civili italiani), quello
della dogana (dove stabilisce il suo quartier generale il tenente
colonnello Symons), il porto ed altri edifici, tra cui il castello
(da cui alle 6.40 il primo gruppo di commandos ha lanciato un razzo
verde per segnalare ai rinforzi l’avvenuta conquista), una
casermetta ed il locale ufficio dell’Air France.
Alle
5.45 la stazione radio di Castelrosso, che già alle 4.10 aveva
lanciato un segnale di scoperta relativo ad una nave sospetta
avvistata vicino all’isolotto di Ipsili, dà l’allarme e
comunica, frammentariamente, la notizia dello sbarco britannico
chiedendo aiuto a Rodi; alle 5.50 il capo posto Mastropaolo, dopo
aver fatto rendere inutilizzabili le strumentazioni della stazione
radio, si ritira con i rimanenti marinai, carabinieri e guardie di
finanza e quattro civili verso l’altura di Paleocastro, dov’è
stato allestito un caposaldo per resistere in caso di attacco nemico.
Alle 5.30 anche il personale della
stazione di vedetta di Vigla (al comando del secondo capo
radiotelegrafista Giovanni Fresu) si è ritirato
su Paleocastro, presso il forte Vicla; alle 6.15 la Ladybird
è entrata in porto e si è ormeggiata ad una boa, sbarcando altre
truppe nonostante il fuoco delle mitragliatrici che la bersagliavano
da Paleocastro e da Capo Santo Stefano, dov’è rimasto isolato un
piccolo gruppo di italiani.
I
combattimenti, nei quali rimangono uccisi altri sei soldati italiani
e sette sono feriti (gli italiani a più riprese raccolgono le bombe
a mano lanciate dai commandos oltre la barricata preparata per la
difesa e le gettano nuovamente al mittente prima che scoppino, ma
talvolta queste esplodono in mano a chi le ha raccolte), sono
proseguiti fino alle dieci del mattino, quando i 35 superstiti del
presidio, accerchiati, attaccati con armi automatiche e bombe a mano
e cannoneggiati anche dalla Ladybird,
si sono arresi (i due terzi di essi riusciranno poi a fuggire durante
i combattimenti per la riconquista dell’isola, mentre due agenti
del Reparto Informazioni della Marina addetti alla cifratura dei
messaggi rimarranno uccisi durante un tentativo di fuga). Nel corso
di questi combattimenti i commandos hanno lamentato due morti, sette
feriti ed un disperso.
La
popolazione greca di Castelrosso ha accolto i britannici come
liberatori, mostrandosi amichevole e disposta ad aiutare in ogni
modo; gli abitanti hanno acclamato la bandiera britannica che veniva
issata sul palazzo del governo, alle dieci del mattino, ed iniziato a
cantare l’inno nazionale greco (non tutti, però: l’ex sindaco
Ioannis Lakerdis segnalerà clandestinamente agli italiani le
posizioni britanniche per agevolarne gli attacchi, e secondo una
versione le sue indicazioni avrebbero indotto il comando italiano ad
attaccare nella zona del porto, invece di sbarcare sulla costa
meridionale dell’isola come inizialmente previsto). Nel pomeriggio
un caicco italiano adibito al servizio postale, proveniente da Rodi
ed evidentemente non al corrente dell’accaduto, entra a Castelrosso
e viene prontamente catturato.
Il
messaggio trasmesso dalla stazione radio prima di essere sopraffatta
ha tuttavia determinato l’immediata reazione delle forze italiane
del Dodecaneso: già alle sei del mattino dello stesso 25 febbraio
alcuni caccia FIAT CR. 42 fatti decollare dal Comando Superiore Forze
Armate dell’Egeo alle prime luci dell’alba hanno dato inizio agli
attacchi aerei, e tra le 8.30 e le nove alcuni bombardieri italiani
Savoia Marchetti S.M. 79 e S.M. 81 bombardano il porticciolo, il
castello e le alture principali di Castelrosso (dove si sono
trincerati i commandos: specialmente il Paleocastro e la zona nord
del porto), colpendo con una bomba a poppa la Ladybird,
che si trovava nel porticciolo dopo avervi sbarcato il suo drappello
di Royal Marines (che avevano proceduto all’occupazione del porto
ma sono stati successivamente reimbarcati dopo che il comandante dei
commandos ha detto di non aver bisogno di loro), ed inducono le navi
britanniche ad allontanarsi da Castelrosso (la Ladybird,
che ha avuto tre feriti tra l’equipaggio, fa ritorno a Cipro),
privando così i “commandos” della loro copertura e persino del
collegamento radio con Alessandria. Gli attacchi aerei, con
bombardamento e mitragliamento delle posizioni britanniche,
proseguono fino alle 16.30, mentre la ricognizione aerea avvista due
incrociatori in crociera protettiva una sessantina di miglia a sud di
Castelrosso.
Alle
5.16 Crispi
e Sella,
ormeggiati a Lero, hanno ricevuto ordine di accendere le caldaie,
mentre alla Lince
è stato ordinato di spostarsi da Alimnia, dove si trova, a Rodi per
ricongiungersi con la Lupo,
ivi dislocata.
Alle
12.15 del 25 febbraio il Comando Superiore Forze Armate dell’Egeo
ordina la riconquista di Castelrosso, affidando il comando
dell’operazione all’ammiraglio Luigi Biancheri, comandante delle
forze navali del Dodecaneso: a questo scopo partono da Rodi per
prime, alle 15.30, le torpediniere Lupo
(capitano di fregata Francesco Mimbelli) e Lince
(capitano di corvetta Guido Cucchiara), aventi a bordo una compagnia
di fucilieri della 50a
Divisione Fanteria "Regina" da sbarcare a Castelrosso e
l’ammiraglio Biancheri (imbarcato sulla Lince),
intenzionato a dirigere personalmente l’operazione; mezz’ora più
tardi Crispi
e Sella
giungono a Rodi da Lero, imbarcano un reparto di camicie nere del
201° Battaglione CCNN ed uno di marinai di Mariser Rodi e poi
ripartono alle 16.30.
Ricognizioni
aeree sono disposte a sud e ad est di Castelrosso, in un raggio di 70
miglia, a tutela delle unità incaricate dello sbarco contro
eventuali interventi di forze navali nemiche, mentre caccia e
bombardieri eseguono altri attacchi contro le truppe britanniche
attestate nell’isola.
Rallentate
dal mare agitato da maestrale in peggioramento, le siluranti italiane
giungono a Castelrosso solo verso le otto di sera; per prima entra in
porto la Lupo,
che incontra difficoltà nelle operazioni di sbarco a causa del forte
vento e della carenza di imbarcazioni adatte. Intanto, Crispi
e Lupo
cannoneggiano il castello e la stazione radio.
Alle
23.08, sulla scorta delle difficoltà incontrate nello sbarco e di
una segnalazione della Lince
relativa a navi nemiche in avvicinamento, che rischierebbero di
cogliere le unità italiane all’alba (prima del completamento delle
operazioni di sbarco: nella relazione sull’operazione si spiegherà
che "sarebbero occorse
alcune altre ore di sosta a causa dell’ostacolo creato allo sbarco
dal forte vento: e non conveniva farsi trovare con 2 CC.TT. e 2
Torpediniere fermi in porto"),
l’ammiraglio Biancheri decide di reimbarcare le truppe – fino a
quel momento sono stati sbarcati circa 65 uomini del IV Battaglione
del 9° Reggimento Fanteria "Regina" e della 201a
Legione Camicie Nere "Egea" – e tornare a Rodi, per
ritentare lo sbarco di giorno e con migliori condizioni meteomarine.
Prima di andarsene, alle 23.45, le navi italiane imbarcano anche
alcuni civili italiani affluiti nel porto dopo che si era sparsa la
notizia del loro arrivo, ed i marinai sbarcati provvidero a
distruggere la stazione radio.
Nel
frattempo, anche i britannici incontrano difficoltà impreviste: gli
attacchi aerei italiani sul porticciolo di Castelrosso hanno spinto
l’ammiraglio Renouf ad annullare lo sbarco delle truppe da parte
del Rosaura
nelle ore diurne, rimandandolo alle tre di notte del 26, ma la
lentezza del panfilo armato è fonte di ulteriori problemi, mentre
Hereward
e Decoy,
incaricati di scortare il Rosaura,
si ritrovano a corto di carburante a causa di una diversione alla
ricerca delle navi italiane, della cui presenza sono stati informati
dai commandos (ed anche della rotta seguita per arrivare a
Castelrosso, che passava al largo della parte occidentale di Creta,
invece che della parte orientale rivolta verso Caso, che sarebbe
stata più corta di 160 miglia). Dopo aver ricevuto da questi ultimi
la notizia che due navi italiane stanno attaccando la zona a nord del
porto e forse anche sbarcando truppe, il comandante dell’Hereward
ha infatti deciso di intervenire per interromperlo (ed ha anche
ricevuto ordine in tal senso da Renouf), ma invece di andare
immediatamente alla ricerca delle navi italiane ha cercato prima di
ricongiungersi con il Decoy,
che si trovava 35 miglia al largo, scelta che sarà in seguito
pesantemente criticata. I due cacciatorpediniere non riescono a
trovare le navi italiane, la cui presenza porta a modificare i piani,
essendoci il rischio che le possano attaccare il Rosaura
mentre sbarca gli Sherwood Foresters. L’ammiraglio Renouf decide
quindi di posticipare ulteriormente lo sbarco, rimandandolo alla
notte successiva, e cambiare le navi destinate ad effettuarlo.
Il
grosso dei commandos si accampa presso Punta Nifti alle otto di sera,
mentre ufficiali e sentinelle si insediano nel palazzo del
governatore e nella sua abitazione.
.jpg) |
| Specchietto di navigazione del Crispi (dal Bollettino d’Archivio USMM) |
26
febbraio 1941
Alle
2.30 Rosaura
e cacciatorpediniere ricevono ordine di dirigere su Alessandria, dove
il panfilo dovrà trasbordare gli Sherwood Foresters sui
cacciatorpediniere che, frattanto rifornitisi di carburante, li
sbarcheranno a Castelrosso. Nel mentre, i “commandos” possono
contare solo sulle proprie forze.
Alle
6.30 Crispi,
Sella,
Lupo
e Lince
fanno ritorno a Rodi.
Gloucester,
Bonaventure
e Decoy
arrivano ad Alessandria alle otto di sera del 26, mentre Hereward
e Rosaura
vi giungeranno solo alle quattro del mattino del 27; il Rosaura
trasborda quindi i suoi Sherwood Foresters sul Decoy
e sul cacciatorpediniere Hero
(capitano di fregata Hilary Worthington Biggs), mentre il comando
dell’operazione passa al capitano di vascello Everton del
Bonaventure,
essendosi sentito male l’ammiraglio Renouf (il tutto all’insaputa
dell’ammiraglio Cunningham, come sarà mezzo in evidenza dalla
successiva inchiesta). La Ladybird
riceve ordine di rimanere a Famagosta.
Nel
corso della giornata la Regia Aeronautica conduce voli di
ricognizione su Castelrosso, ma non riesce ad accertare l’esatta
consistenza numerica e dislocazione dei reparti britannici.
Nondimeno, si prepara la spedizione per la riconquista dell’isola:
Crispi
e Sella
vengono dislocati ad Alimnia, Lupo,
Lince
ed i MAS 541
e 546
a Rodi.
I
commandos sono concentrati in maggioranza vicino a Punta Nifti, salvo
che per pattuglie e vedette; il morale è basso per il mancato arrivo
dei rinforzi e la scarsità delle provviste (avevano ricevuto viveri
solo per ventiquattr’ore, essendo questa la durata della missione
nelle previsioni, e adesso sono rimaste loro da mangiare solo pochi
sacchetti di gallette biscottate catturate agli italiani a
Paleocastro).
27
febbraio 1941
Alle
00.20 il motoveliero requisito Sant'Antonio,
carico di viveri e materiale ed incaricato di coadiuvare le
operazioni di sbarco, parte per Castelrosso al comando di un tenente
di vascello; all’alba tre aerei vengono inviati in ricognizione
sistematica in un raggio di 90 miglia a sud e ad est di Castelrosso
(i voli di ricognizione continueranno fino al tramonto, gli aerei
impegnati si daranno il cambio in volo).
Alle
sei del mattino Lupo
e Lince
ripartono da Rodi con le truppe incaricate di riprendere Castelrosso
(una compagnia di fucilieri del IV Battaglione del 9° Fanteria, un
reparto di marinai e due cannoni anticarro da 47/32, per un totale di
240 o 258 uomini), e con i MAS
546 (capo sezione, tenente
di vascello Antonio March) e 541
(guardiamarina Guido Cosulich) a rimorchio; sulla Lince
si trova sempre l’ammiraglio Biancheri, che comanda la spedizione.
Alle
sette del mattino (le 7.10 per altra fonte), intanto, il Decoy
(con a bordo metà degli Sherwood Foresters) ed il cacciatorpediniere
Hasty
(capitano di corvetta Lionel Rupert Knyvet Tyrwhitt) lasciano
Alessandria per Castelrosso, seguiti dopo un’ora e mezza da
Bonaventure,
Perth,
Hero
(con a bordo l’altra metà degli Sherwood Foresters) e dal
cacciatorpediniere Jaguar
(capitano di corvetta John Franklin William Hine). Decoy
e Hero
devono sbarcare gli Sherwood Foresters a Castelrosso e recuperare i
commandos.
Lupo,
Lince
ed i MAS, che procedono tenendosi lontane dalla costa turca, giungono
davanti a Castelrosso alle nove del mattino; alle 9.20, mollato il
rimorchio dei due MAS, le torpediniere accostano per l’entrata da
ovest, e dieci minuti dopo osservano fumogeni e razzi di segnalazione
Very sollevarsi dal Monte Vigla, segnale di allarme lanciato dalle
vedette britanniche sull’altura per allertare i compagni: queste
ultime pensano addirittura che le due navi italiane avvistate siano
degli incrociatori (poco dopo vengono intercettati segnali radio
emessi da una stazione molto vicina). Alle 9.35 la Lince
entra per prima in porto ed alle 10.10 dà inizio allo sbarco,
coadiuvata dal MAS 541,
mentre la Lupo
rimane al largo; adesso il tempo è buono e lo sbarco delle truppe
imbarcate sulla Lince
viene completato in mezz’ora, mentre da terra truppe britanniche
attestate nel cimitero di Castelrosso, a Punta Nifti e nell’isolotto
di San Giorgio sparano raffiche di mitragliatrice contro la Lupo,
causando alcuni feriti e destando la reazione dei cannoni della
torpediniera, che riduce rapidamente i britannici al silenzio. Poi,
anche la Lupo
– da cui hanno frattanto scostato il MAS
546 ed il Sant'Antonio
– entra in porto e sbarca le sue truppe. In tutto, le due
torpediniere sbarcano 240 tra soldati e marinai imbarcati a Rodi e
poi due plotoni aggiuntivi di trenta marinai ciascuno, avendo il
podestà e la popolazione di Castelrosso raccontato all’ammiraglio
Biancheri (sceso a terra con i primi soldati per informarsi sulla
situazione), esagerando, che i britannici nell’isola sono più di
500, sebbene privi di artiglieria. La forza da sbarco è affidata al
comando del tenente colonnello Ruggero Fanizza e del capitano di
corvetta Alberto Mannini (quest’ultimo comanda i reparti di
marinai, oltre un centinaio).
Notando
una certa dispersione delle forze causata dai primi feriti e dalla
necessità di trasporto dei materiali, Biancheri chiede ai suoi
superiori rinforzi tali da consentire di completare la riconquista di
Castelrosso in giornata.
Le
due torpediniere escono dal porto ed appoggiano l’avanzata delle
truppe sbarcate con le loro artiglierie, colpendo la zona portuale,
la stazione radio, il palazzo del governatore e quello della dogana
(e poi Punta Nifti ed il ciglio delle alture, da cui partono di
quando in quando raffiche di mitragliatrice), provocando tre morti e
sette feriti tra i commandos. Scena così descritta dal maggiore
Rose, vicecomandante dei commandos: "Lo
stato maggiore dei commandos intendeva dormire negli uffici della
Dogana mettendo di guardia un servizio di sentinelle. Tutti erano
piuttosto stanchi e iniziarono a dormire dalle ore 20.30.
Improvvisamente alle ore 21.00 si accese una luce abbagliante
nell'intero edificio e nell'area esterna del porto circostante. Si
pensava che il nemico avesse lanciato dei fari a paracadute e che
facessero dei bombardamenti di precisione. Queste luci molto forti
dovevano invece senza dubbio provenire da una nave da guerra che
stava entrando ora in porto. Dal momento che ci è servito per
scoprire da dove proveniva la luce a quello dell'inizio del fuoco
passarono pochissimi secondi. I comandanti fecero appena in tempo ad
uscire fuori mentre il soffitto e le pareti crollavano. Seguirono
molte sparatorie. Prima di raggiungere una posizione sicura, corse
lungo qualche strada laterale e inavvertitamente nel raggio di luce
dei riflettori di ricerca. Ritornammo rapidamente sui nostri passi e
ci dividemmo in diverse direzioni. Ci furono delle difficoltà a
riunire lo stato maggiore al buio lungo le strette stradine. Da lì
potemmo vedere la sagoma scura della nave attaccante ad una distanza
di appena 150 metri circa con le luci di ricerca che si muovevano
tutt'attorno come delle lunghe dita di luce che cercavano di
localizzare le nostre truppe. Il rumore e l'effetto esplosivo
devastante è stato estremamente spaventoso".
Nel
giro di poco tempo vengono riconquistati l’abitato ed il castello,
dove sono liberati i soldati italiani del presidio catturati dai
britannici (tra cui capo Mastropaolo ed il primo maresciallo dei
carabinieri; altri, che si erano sottratti alla cattura
nascondendosi, si ricongiungono con le truppe italiane) e catturata
la bandiera britannica che viene portata sulla Lince
come trofeo; entro mezzogiorno la compagnia fucilieri, comandata dal
tenente colonnello Fanizza, s’impossessa dei rilievi del Vigla e
del Paleocastro, mentre il reparto di marinai rastrella l’abitato.
Alcuni
dei commandos vengono catturati, mentre il grosso ripiega verso il
cimitero (dove rimane una compagnia di retroguardia; un’altra è
rimasta isolata dall’altra parte del porto, dietro alla residenza
del governatore) e poi verso Punta Nifti (dov’era stato stabilito
l’accampamento principale dopo lo sbarco), scalando lo strapiombo
di Avlonia e portando con sé parte dei prigionieri, che vengono però
liberati da un battello della Lupo
approdato vicino a Punta Nifti, il cui personale cattura anche alcuni
britannici. L’ammiraglio Biancheri interroga i prigionieri italiani
liberati ed i britannici catturati, organizza lo smistamento dei
materiali e dispone che si presentino tutti gli uomini ed i ragazzi
dai 14 ai 65 anni.
L’attacco
italiano è appoggiato dalla Regia Aeronautica, che conduce continui
voli di ricognizione e bombarda le posizioni britanniche del
Paleocastro e poi di Punta Nifti, paralizzando i movimenti dei
britannici, e dalle artiglierie delle torpediniere, che agiscono ad
intervalli, “più per
sondaggio che per la rivelazione di nemici”.
Non sempre l’intervento dell’Aeronautica è benefico: verso le 13
un velivolo italiano spezzona per sbaglio i reparti italiani che
stanno salendo la montagna, e l’ammiraglio Biancheri deve far del
bello e del buono per farlo smettere e per rimandare avanti i soldati
e marinai che l’attacco “amico” ha indotto a ripiegare verso
l’abitato.
Verso
le 15 Biancheri s’incontra con Fanizza, di ritorno in paese, dopo
di che porta Lupo
e Lince
presso Punta Nifti per colpire da tergo i britannici, che però non
sono visibili, ed organizza il trasporto di provviste, acqua e
munizioni verso la prima linea.
Alle
15.10 il Crispi,
appena rientrato a Rodi da una missione di scorta alla motonave
Calino
proveniente dall’Italia, viene inviato in appoggio alle
torpediniere, giungendo a Castelrosso nel primo pomeriggio con dodici
marinai dei reparti da sbarco; per ordine dell’ammiraglio
Biancheri, il cacciatorpediniere sbarca un altro plotone di trenta
marinai, che va a rinforzare le truppe che combattono nell’isola
(portando il totale dei marinai sbarcati ad oltre 150), mentre i
commandos continuano a resistere a Punta Nifti, ed alle 21.10 viene
fatto partire da Rodi il Sella
con una sezione di lanciafiamme, per snidarli definitivamente. Sempre
da Rodi arrivano due idrovolanti, che portano un plotone di
mortaristi con undici uomini e due mortai da 81 mm come rinforzo alle
truppe attaccanti. L’avanzata italiana procede a rilento, per le
difficoltà legate al terreno montuoso dell’isola e per
l’incompleta conoscenza della situazione; al tramonto i britannici
sono ormai assediati in un pianoro nella parte sudorientale
dell’isola.
Alle
20.30, per intercettare eventuali invii di rinforzi britannici via
mare e per evitare che eventuali forze navali britanniche inviate da
Cipro o da zone vicine in aiuto dei commandos – stanti le chiamate
radio captate al mattino – possano sorprendere le sue navi (con
l’oscurità è venuta a mancare la ricognizione aerea, e dunque la
possibilità di avvistamento e preavviso), l’ammiraglio Biancheri
ordina l’uscita dal porto delle sue unità (passando per il passo
di levante) e le dispone per la ricerca notturna a rastrello, con
Lince
(nave ammiraglia), Crispi
e Lupo
sulla direttrice da Castelrosso fino a trenta miglia a sud con un
intervallo di sei miglia tra una nave e l’altra, i due MAS – che
escono in mare indipendentemente – in posizione ravvicinata ai due
passi d’accesso all’isola, circa tre miglia a sud, ed il
sommergibile Galatea
una ventina di miglia a sudovest di Castelrosso. Su ordine
dell’ammiraglio Biancheri, il Crispi
tiene acceso il proiettore al traverso, illuminando la costa tra
Navalaka e Punta Nifti, ed insieme alla Lince
colpisce con alcune salve – giudicate dall’ammiraglio “ben
dirette” – i punti in
cui potrebbero essere annidati i britannici, sparando una ventina di
colpi.
In
base agli ordini di Biancheri, le siluranti continueranno la crociera
fino alle 3.30 del 28 febbraio, dopo di che dovranno raggiungere gli
approcci di Rodi entro l’alba per non essere tagliate fuori da un
eventuale intervento di forze navali avversarie. La notte è
estremamente buia, il mare quasi calmo, ma dopo mezzanotte si alza un
forte vento ed iniziano frequenti piovaschi.
Ricevuto
l’ordine dell’ammiraglio Biancheri, i due MAS lasciano il porto
di Castelrosso alle 20.10 e si dirigono in sezione verso il punto
quattro miglia a sud del faro di Insili, dove giungono alle 21.30,
fermando quindi i motori ed eseguendo ascolto idrofonico.
Il
mare è calmo, il tempo fosco con piovaschi.
.jpg) |
| Lance del Crispi durante la riconquista di Castelrosso (da La Voce del Marinaio) |
28
febbraio 1941
All’1.22
il Crispi,
mentre procede con rotta verso nord, avvista due navi –
probabilmente cacciatorpediniere – che gli passano di poppa con
rotta 120°; subito lancia il segnale di scoperta ed accosta per
inseguirle, ma queste scompaiono immediatamente nella foschia. Al
contempo vengono osservate segnalazioni luminose azzurre fatte dal
mare e dalla costa orientale dell’isola. L’ammiraglio Biancheri
ordina allora al Sella
di non entrare a Castelrosso, ma rimanere al largo in crociera e se
possibile ricongiungersi con il resto della formazione.
Le
navi avvistate dal Crispi
sono quelle provenienti da Alessandria: i cacciatorpediniere si
raggruppano presso Punta Nifti, mentre gli incrociatori rimangono ad
incrociare più al largo. Quando giungono a Castelrosso, poco dopo
mezzanotte (per altra fonte, alle 23 del 27), Hero
e Decoy
sbarcano nella baia di Navalaka un primo plotone degli Sherwood
Foresters, che tuttavia sulla spiaggia di sbarco, che dovrebbe essere
presidiata dai commandos, trova soltanto munizioni ed equipaggiamento
sparpagliati in disordine, il cadavere di un commando e due sbandati
che informano il maggiore Cooper del contrattacco italiano; poco dopo
vengono incontrati altri quattro commandos, disarmati, scossi e
demoralizzati. Altri commandos segnalano la loro presenza accendendo
fiammiferi e facendo segnali luminosi con torce elettriche, e
trasmettono messaggi che rasentano il panico: “Imbarcarsi adesso o
mai più” e “Suicidio sbarcare altri uomini qui”. La spiaggia
di Punta Nifti appare poco idonea allo sbarco degli Sherwood
Foresters (circa metà dei quali vengono comunque messi a terra prima
che si decida di interrompere lo sbarco), e diverse casse di
munizioni cadono in acqua durante il trasbordo.
Tornato
sul Decoy,
dopo una breve consultazione con i suoi ufficiali Cooper conclude che
la situazione appare compromessa a causa della mancanza di adeguato
supporto aeronavale e di armi pesanti d’accompagnamento e della
scarsità di munizioni, e viene dunque deciso di abbandonare l’isola:
entro le 3.15 il grosso dei commandos, attestatosi su un pianoro
all’estremità orientale dell’isola, viene frettolosamente
reimbarcato sulle navi, che dirigono poi per Suda, mentre gli ultimi
rimasti – non c’è stato il tempo di rintracciare, al buio ed
incalzati dagli italiani, alcune pattuglie ancora in giro per l’isola
– vengono circondati e catturati dagli italiani. Alcuni riusciranno
a sottrarsi alla cattura ed a raggiungere fortunosamente la costa
turca, o moriranno nel tentativo.
Alle
2.40 il cacciatorpediniere britannico Jaguar,
incaricato di coprire la ritirata delle truppe britanniche da
Castelrosso, si porta all’imboccatura del porticciolo ed avvista il
Crispi
all’ormeggio (per altra fonte, bersaglio di questo attacco
sarebbero stati i MAS; comunque evidente una discrepanza nell’orario,
visto che a quell’ora tutte le navi italiane erano già uscite dal
porto), lanciando contro di esso cinque siluri, nessuno dei quali va
a segno nonostante sulla nave britannica vengano avvertite quattro
esplosioni (sono i siluri che esplodono contro la banchina: due
scoppiano nel porto, uno nel Mandracchio). Poco dopo, il Jaguar
avvista due scie di siluro che gli passano una decina di metri a
poppa; apre il fuoco contro il Crispi
e ritiene a torto di aver messo a segno due colpi, dopo di che il
riflettore si rompe e dev’essere sparato un colpo illuminante, ma a
causa del tempo perso nel frattempo è stato perso il contatto con la
nave italiana ed il duello si conclude così senza vincitori né
vinti.
Lo
scoppio dei siluri lanciati dal Jaguar
contro la banchina ha tuttavia provocato alcune perdite da parte
italiana: l’esplosione ha infatti investito una postazione
mitragliera del Crispi,
ferendo un ufficiale ed uccidendo il sottocapo nocchiere Carlo
Gianotti, di 19 anni, da Sassari, ed il marinaio S.D.T. Cataldo
Palumbo, di 22 anni, da Pulsano. Palumbo sarà sepolto nel cimitero
di Castelrosso, mentre il corpo di Gianotti, gettato in mare
dall’esplosione, non sarà mai ritrovato; entrambi saranno decorati
con la Croce di Guerra al Valor Militare alla memoria, con
motivazione «Facente parte
di un reparto da sbarco nell’isola di Castelrosso per controbattere
la occupazione nemica perdeva la vita per azione di fuoco nemica,
mentre si trovava al posto di guardia alla sua mitragliatrice».
Nel
frattempo, il peggioramento delle condizioni meteomarine induce ad
ordinare ai MAS di rientrare a Rodi, mentre le altre siluranti si
spostano dapprima verso sud e poi verso ovest, con rotte oblique (in
modo da facilitare un incontro con il nemico) ed alternate,
continuando la ricerca.
Alle
2.55 (per altra fonte le 2.53), mentre procede a dieci nodi su rotta
100° (verso est), il Crispi
avvista al traverso a sinistra, a 2000-2500 metri di distanza (che è
la distanza massima di avvistamento, date le condizioni di
visibilità) su beta approssimato 50°-60°, un’unità avente rotta
120° che dalla sagoma allungata identifica come un incrociatore (il
comandante Ferruta scriverà nel suo rapporto che aveva «due
alberi inclinati verso poppa e due fumaioli o sovrastrutture ben
distaccate e relativamente basse… ritengo fosse un incrociatore
contraereo sebbene la sagoma richiamasse il tipo Edinburgh»;
per altra versione una vedetta avrebbe avvistato due sagome, una
delle quali identificata come un incrociatore classe Coventry);
lancia il segnale di scoperta e poi accosta subito a sinistra con
tutta la barra verso la nave avversaria. Quando la prua del Crispi
è nella sua direzione, il comandante Ferruta fa lasciare cinque
gradi di barra e con un angolo di circa 15° lancia a breve
intervallo due siluri dal lato di dritta, da circa mille metri di
distanza. Poi, fa nuovamente mettere tutta la barra a sinistra e
portare le macchine sull’avanti tutta.
L’“incrociatore”
non manifesta reazioni e scade rapidamente verso la poppa del Crispi,
il cui comandante decide di continuare l’accostata a sinistra per
seguirlo – allo scopo, fa ridurre le macchine a mezza forza – e
lanciare altri due siluri dall’altro lato, ma prima di portarla a
termine perde di vista la nave nemica. Poco dopo, però, avvista
sempre a sinistra una sagoma di incrociatore, forse sempre la stessa
nave di prima che ha invertito la rotta e si presenta adesso di
controbordo: il comandante Ferruta fa lasciare la barra, ma ben
presto si rende conto che la nave avversaria si sta adesso
rapidamente spostando verso sinistra, avvicinandosi. Prende pertanto
la decisione di lanciare i siluri dal lato sinistro, raggiungendo la
direzione dell’angolo di mira con un’accostata a sinistra e
facendo mettere tutta la barra da quel lato; la rapidità rotatoria
della prua, tuttavia, è di poco superiore a quella con cui si sposta
il bersaglio, e così il Crispi
raggiunge a fatica l’angolo di mira di 25°. A questo punto,
essendo la sagoma dell’unità nemica vicinissima, il Crispi
lancia un terzo siluro dal lato sinistro da soli 500 metri di
distanza. Subito dopo, il comandante Ferruta fa mettere la barra a
dritta ed ordina con i timpani la massima forza alle macchine. In
quel momento la nave avvistata accende due proiettori, illuminando in
pieno il Crispi,
apre subito il fuoco con intenso tiro battente ed illuminante di
cannoni e mitragliere (per altra versione avrebbe anche invertito la
rotta per avvicinarsi), e Ferruta ordina di rispondere al fuoco: la
mitragliera da 40 mm di sinistra del Crispi
apre immediatamente il fuoco, e poco dopo anche il complesso poppiero
da 120 mm spara la prima salva, ma un problema tecnico fa sì che le
prime salve siano sparate con poca accuratezza e manchino il
bersaglio.
L’accostata
della nave italiana sulla dritta porta rapidamente la sua poppa in
direzione del proiettore dell’unità nemica, ed il comandante
Ferruta dà ordine di scontrare la barra, ma il timoniere lo informa
che il timone si è inceppato e non risulta più possibile muoverlo;
Ferruta gli dice di provare a muovere la ruota nei due sensi, mentre
la nave nemica continua a sparare sul Crispi,
tirando anche diversi colpi illuminanti che accendono bengala sul
cielo del cacciatorpediniere italiano, davanti alla prua. Alla luce
del proiettore sono ben visibili colonne d’acqua di fianco alla
plancia, a proravia ed a pochi metri dallo scafo verso poppa; Ferruta
ritiene che siano sollevate da colpi da 100 mm, ed in effetti è
così, perché la nave sconosciuta non è un incrociatore, ma di
nuovo il Jaguar.
Verso poppa sono ben visibili le vampe delle mitragliere quadrinate
del cacciatorpediniere britannico, che sparano senza sosta; nel
mentre, il timoniere del Crispi
riesce finalmente a manovrare il timone, e la nave può così
invertire l’accostata.
Poco
dopo, un proiettile da 40 mm sparato da una mitragliera del Crispi
colpisce il proiettore poppiero del Jaguar;
secondo il rapporto di Ferruta «pur
restando acceso il suo fascio luminoso risulta ridottissimo e
inefficace», mentre da
parte britannica si parla di una sua completa inutilizzazione
imputandola però non al tiro del Crispi,
ma ad un’avaria verificatasi proprio in quel momento. In ogni caso,
l’eliminazione del proiettore rende inefficace il tiro dei cannoni
del Jaguar,
inducendolo così a rompere il contatto (secondo Ferruta, tuttavia,
«restano i numerosi
illuminanti e quasi certamente un altro proiettore che consentono
ancora al nemico qualche salva della quale odo il rumore ma non vedo
i colpi di caduta»). (Per
altra versione, dopo l’inutilizzazione del proiettore il Jaguar
avrebbe tentato di ritrovare l’avversario sparando un colpo
illuminante, ma nel frattempo il Crispi
si era dileguato approfittando dell’oscurità).
Le
macchine del Crispi
muovono a 320 giri in aumento, e la nave smette di zigzagare ed
assume rotta
180°. Il
cacciatorpediniere britannico continua il tiro illuminante per altri
dieci minuti, ma i bengala si accendono a poppavia. In tutto il
combattimento è durato un quarto d’ora; il Crispi
ha sparato cinque salve con i pezzi da 120 mm (l’ufficiale di
rotta, che ha funto da direttore del tiro, riterrà di aver messo
almeno due colpi a segno nella zona prodiera) e varie raffiche con le
mitragliere da 40 mm.
(Secondo
un’altra versione, nonostante le rotte di controbordo avessero
portato ad un rapido allontanamento delle due unità, la nave
britannica avrebbe invertito la rotta ed inseguito il Crispi,
continuando a lanciare illuminanti per un quarto d’ora).
Da
bordo del Crispi
è stata osservata una grossa nube sul fianco dell’“incrociatore”
dopo il lancio dei siluri, il che induce a ritenere che uno di essi
abbia colpito: il nostromo ed il capo silurista assicurano a Ferruta
di aver visto una vampata sorgente dal mare presso la nave britannica
molto prima che aprisse il tiro, e l’artificiere nei depositi
munizioni ed il personale di guardia nelle sale caldaie riferiscono
di aver avvertito allo scafo, poco dopo il lancio dei siluri, l’eco
distinto di una esplosione prima che il Crispi
aprisse il fuoco. Il comandante in seconda e l’ufficiale di rotta
asseriranno di aver visto spegnersi definitivamente il proiettore
molto basso sul mare, dichiarandosi certi che non si trattasse di
bengala illuminanti, e riterranno di aver avuto contro due unità
nemiche, delle quali una più arretrata avrebbe eseguito il tiro
illuminante. L’ammiraglio Biancheri riterrà l’esito del lancio
incerto, pur senza escludere del tutto che i siluri possano aver
colpito. In realtà, nessuna delle armi è andata a segno (per una
versione, i primi due siluri lanciati contro lo Jaguar
sarebbero passati sotto il suo scafo senza esplodere, a quota troppo
profonda, perché difettosi).
Il
Jaguar
riterrà, altrettanto erroneamente, di aver colpito il Crispi
con due salve, ma in realtà la nave italiana non ha subito che lievi
danni da schegge.
A
bordo del Crispi
nel breve duello si sono registrati due feriti, colpiti dai
proiettili da 12,7 mm sparati dalle mitragliere del Jaguar:
il capo elettricista Saulle Politi, ferito mentre si trovava vicino
al portello della dinamo, ed il torpediniere Wladimiro Urbani, che si
trovava vicino al tubo lanciasiluri che non ha lanciato. Al termine
del combattimento il comandante Ferruta viene informato che i due
feriti, pur perdendo sangue, sono ancora ai loro posti di
combattimento e non vogliono muoversi; ordina al comandante in
seconda di scendere dalla plancia per prestare loro soccorso. Un
altro marinaio, servente alla mitragliera, ha riportato escoriazioni
per due colpi di mitragliatrice che gli hanno sfiorato la fronte;
l’ufficiale addetto al tiro ha evitato di stretta misura di essere
colpito gettandosi sul ponte dopo che una raffica di mitragliera è
passata appena sopra la sua testa. Sia Politi che Urbani riceveranno
la Medaglia di Bronzo al Valor Militare (per Politi la motivazione
sarà "Ferito ad una
gamba da un colpo di mitragliatrice durante un combattimento notturno
a distanza ravvicinata, restava al suo posto in coperta presso il
locale dinamo rifiutando ogni medicazione, finché ad azione ultimata
non interveniva l’ufficiale in 2a.
Esempio di alto sentimento del dovere e di coraggio";
per Urbani, "Ferito ad
un braccio da un colpo di mitragliatrice, durante un’azione
notturna a distanza ravvicinata, si faceva legare l’arto offeso,
rifiutandosi di lasciare il suo posto di combattimento, finché, ad
azione cessata, non interveniva l’ufficiale in 2a;
manifestazione di alto sentimento del dovere e di coraggio").
Nel
frattempo anche la Lince,
che si trovava a pochi chilometri intenta all’inseguimento di
quelle che ritiene essere alcune piccole unità nemiche, è giunta in
appoggio del Crispi,
ma l’infittirsi dei piovaschi le fa perdere il contatto con
l’avversario; il MAS 541
osserva il cannoneggiamento da lontano, ma non porta a fondo
l’attacco perché incerto sulla reale possibilità di distinguere
gli amici dai nemici. L’ammiraglio Biancheri scriverà nella sua
relazione: «L’importanza
dello scontro del Crispi, che si svolgeva a poche migliaia di metri
mi ha consigliato di accorrere [con
la Lince]
là dove la preda era maggiore; tenuto anche conto della ridotta
efficienza delle artiglierie, poiché un pezzo era disarmato (essendo
30 uomini sbarcati a CASTELROSSO) e l’avaria di una turbodinamo
impediva l’impiego del proiettore. La posizione dell’incrociatore
nemico era ben visibile attraverso il suo tiro ed i proiettori.
Ordinai che tutte le siluranti facessero rotta verso ponente per
portare più violento l’attacco e nello stesso tempo per non
lasciarla tagliar fuori all’alba. Disgraziatamente l’infittirsi
dei piovaschi ha permesso alle navi nemiche di accostare e rompere
contatto prima che Lince e Lupo potessero giungere al lancio».
Alle
3.02 il MAS 546,
mentre procede isolato verso Rodi, avvista sulla sinistra a ridotta
distanza una torpediniera che riconosce come italiana, che defila di
controbordo (probabilmente la Lince).
Cinque minuti dopo avvista sulla sinistra, a circa 4000 metri di
distanza a 60° dalla prua, l’accensione di un proiettore, seguita
da quella di alcuni illuminanti e da rumore di cannonate; compreso
che si tratta di unità avversarie e non sapendo dove sia il MAS
541, dirige per l’attacco
isolatamente. Alle 3.13 il MAS
546 avvista due unità in
linea di fila (ritenute essere incrociatori: una delle sagome sembra
avere due fumaioli), una delle quali ha i proiettori accesi e puntati
sul Crispi:
portatosi all’attacco dal lato opposto rispetto al Crispi,
alle 3.15 lancia in rapida successione due siluri con beta piuttosto
stretto (35°-40°) contro la seconda nave britannica – sempre il
Jaguar,
che sta in quel momento facendo fuoco sul cacciatorpediniere italiano
– da 700-800 metri di distanza, ma non colpisce (l’ammiraglio
Biancheri giudicherà comunque che la sua azione abbia agevolato il
disimpegno del Crispi).
Lupo
e Sella
non avvistano le navi britanniche, limitandosi ad avvistare i
bagliori degli illuminanti da grande distanza.
Alle
3.30, ormai perso il contatto con l’avversario, tutte le navi
dirigono su Rodi, come da ordini; alla stessa ora il Galatea,
che ha osservato il duello tra Crispi
e Jaguar
credendo che fosse un cannoneggiamento contro la costa, avvista due
cacciatorpediniere diretti verso di lui, ma nel dubbio che siano
italiani s’immerge senza attaccare (le due navi ripassano poco dopo
nei pressi e da parte italiana si riterrà poi che fossero i due
“incrociatori” britannici). Le navi italiane entreranno a Rodi
alle sette del mattino.
Una
ricerca notturna da parte dei cacciatorpediniere britannici Nubian,
Hasty
e Jaguar
tra Rodi e Castelrosso, sulla base di un contatto radar e
dell’intercettazione di traffico radio nella zona, risulta
infruttuosa.
Il
mattino del 28 la riconquista di Castelrosso giunge al termine, le
truppe italiane completano il rastrellamento dell’isola catturando
alcuni militari britannici sbandati ed il materiale abbandonato dai
commandos in ritirata. La ricognizione aerea, all’alba, non trova
più traccia delle navi nemiche, al pari degli aerosiluranti fatti
decollare per attaccarle.
I
superstiti della spedizione britannica vengono sbarcati dalle loro
navi a Suda (o La Canea) all’alba del 1° marzo, insieme a 12
prigionieri italiani ed al carico di posta prelevato dal caicco
catturato.
Le
perdite nei combattimenti sono ammontate in tutto a tre (per altra
fonte cinque) morti, undici feriti, sette dispersi e 20 (per altra
fonte 40) prigionieri tra i britannici, ed otto morti, undici o
quindici feriti e dieci o dodici tra dispersi e prigionieri per gli
italiani (altra fonte parla di un totale di 14 morti e 12
prigionieri, altra di 52 feriti). I morti di entrambe le parti
verranno sepolti insieme nel cimitero dell’isola.
29
abitanti (greci) di Castelrosso verranno deportati a Rodi, poi a Coo
ed infine a Brindisi dove saranno processati e condannati a varie
pene detentive per aver aiutato i commandos britannici durante la
breve occupazione dell’isola (“attività contro lo Stato”).
L’ammiraglio
Biancheri concluderà nella sua relazione: "Un
incrociatore nemico reagì violentemente cannoneggiando il Crispi; ma
questo nostro C.T. rispose con efficacia danneggiando l’incrociatore
e riuscendo a disimpegnarsi
(…) Siluranti, Mas e
Motonavicelle sbarcarono rapidamente le truppe; torpediniere
bombardarono e mitragliarono a terra con gran precisione; un Mas
attaccò l’incrociatore che faceva fuoco sul Crispi lanciandogli
due siluri dal lato opposto; il che probabilmente giocò molto al
disimpegno del Crispi (…)
Il comportamento dei
Comandanti e degli equipaggi impegnati fu degno delle migliori
tradizioni. Il Comandante Ferruta, del Crispi, manovrò con perfetta
calma e con grande audacia, riuscendo a lanciare 3 dei 4 siluri, a
eseguire un tiro preciso e regolare (come ho personalmente osservato)
e a disimpegnarsi con valore. La sua nave fu colpita soltanto da
pochi colpi di mitragliatrice, che hanno fatto due feriti".
A Rodi i soldati e
marinai distintisi nel contrattacco saranno decorati al valore: tra
gli altri ricevono la Medaglia di Bronzo al Valor Militare, a
vivente, il comandante Ferruta del Crispi
(con motivazione «Comandante
di squadriglia di cacciatorpediniere, in una tenace azione di ricerca
notturna, scoperta una forza navale nemica, col suo
cacciatorpediniere attaccava risolutamente un incrociatore lanciando
due siluri, invertiva poi la rotta rinnovando l’attacco ed il
lancio di un terzo siluro a distanza serrata. Fatto segno a
vivacissimo fuoco, manovrava con perfetta calma riuscendo a
disimpegnarsi, e nel frattempo rispondeva con le artiglierie e
mitragliatrici, danneggiando l’incrociatore nemico. Esempio di alta
capacità e di cosciente valore»),
il sottotenente di vascello Giuseppe Oriana del Crispi
(«Coadiuvava il comandante
nella manovra per un duplice consecutivo attacco e lancio notturno
contro un incrociatore nemico; nel combattimento a breve distanza che
ne seguiva, fatto aprire il fuoco delle armi, restava esposto sulle
ali di plancia, dimostrando coraggio e sprezzo del pericolo»),
il sottotenente di fanteria Luigi Garattoni, distintosi durante i
combattimenti per la riconquista di Castelrosso,
ed alla memoria il sottocapo radiotelegrafista Eligio Troiano,
rimasto ucciso durante l’iniziale attacco dei commandos. La Croce
di Guerra al Valor Militare andrà tra gli altri al sottocapo
radiotelegrafista Mario Mecchia del presidio di Castelrosso, per aver
opposto efficace difesa ed essersi poi sottratto alla cattura; al
sottocapo radiotelegrafista Giovanni Fresu, per il suo ruolo nella
difesa dell’isola; al sottocapo silurista Carmelo Sapienza, al
marinaio segnalatore Carlo Panzacchi ed ai marinai Bernardo Di
Ruocco, Augusto Negri e Renzo Sammovigo, offertisi volontari per
partecipare allo sbarco e distintisi nei combattimenti; ai sottocapi
torpedinieri Antonio Bianchini e Renato Pedemonte, per il loro ruolo
nelle operazioni di sbarco.
Ben
diverso il giudizio sul fallimento dell’operazione
da parte britannica; l’ammiraglio Cunningham giudicherà
"Abstention" come "un
affare marcio [ch]e
dà poco merito a tutti"
ed incolperà Renouf per l’accaduto, accusandolo di aver “ceduto
nel bel mezzo dell’operazione”, mentre una commissione
d’inchiesta della Royal Navy attribuirà il fallimento
dell’operazione al controllo dei cieli da parte italiana (la Regia
Aeronautica ha potuto operare del tutto indisturbata, senza
incontrare un singolo aereo britannico durante l’intera operazione,
pur lamentando la perdita di un S.M. 81 abbattuto dal tiro contraereo
britannico, il cui equipaggio viene salvato da un idrovolante da
soccorso italiano) e concluderà che il comandante dell’Hereward,
dopo essere stato informato dai commandos dell’arrivo delle navi
italiane nella notte tra il 25 ed il 26 febbraio, non avrebbe dovuto
perdere tempo riunendosi con il Decoy
(che si trovava più al largo) prima di andare alla loro ricerca, ma
invece agire subito, accusandolo di scarsa aggressività ed imputando
alla sua indecisione il fallimento dello sbarco della forza
principale. Unico risvolto positivo per i britannici, la cattura di
un cifrario italiano Y-I e di alcuni messaggi in codice, consegnati
il 4 marzo alla sezione crittografica di Heliopolis (vicino al Cairo)
ed utilizzati, dopo tre mesi di studio da parte di un esperto
arrivato dal Regno Unito, per decifrare i messaggi trasmessi dal
Dodecaneso.
Lo
stesso 28 febbraio il primo ministro britannico Winston Churchill,
avuta notizia del fallimento dell’operazione, scriverà al suo
ministro degli Esteri Anthony Eden, che si trova al Cairo, un
telegramma per chiedere chiarimenti: “Sono
piuttosto perplesso per qualcosa che ancora non sono riuscito ad
accertare su quanto accaduto a Castelrosso.
Il rapporto su Castelrosso
non spiega esattamente quanti uomini siano effettivamente sbarcati;
dove sono sbarcati; quanta distanza hanno percorso; cos’hanno
fatto; che prigionieri hanno fatto; quante perdite hanno subito; come
sia stato possibile che il nemico abbia potuto rafforzare la sua
presenza dal mare nel momento in cui si supponeva che noi avessimo la
supremazia marittima; quali sono state le forze navali e militari che
hanno rafforzato il nemico; quando e dove sono arrivati; com’è
stato possibile che quando era già stata annunciata la conquista
dell’isola, si sia scoperto solo allora che una grande nave da
guerra nemica fosse entrata in porto; se abbiamo mai conquistato il
porto e le difese attorno ad esso.
È cresciuta anche l’ansietà
a causa dei numerosi attacchi aerei.
Questo era prevedibile?
Da dov’è provenuto?
Dagli Italiani o dai
Tedeschi? Prego
accertare questi dettagli.
Per queste ragioni è di
vitale importanza capire l’intera sequenza di questo piano per Lei
e i nostri militari”.
Il
7 marzo il comandante in capo delle forze britanniche in Medio
Oriente fornirà maggiori informazioni sull’accaduto, cercando
tuttavia di indorare la pillola, tanto che Churchill scriverà
seccato in una lettera al suo principale consigliere militare e
collegamento con lo Stato Maggiore generale, generale Hastings Lionel
Ismay, “Mi sono è stato
riferito solamente delle mistificazioni circa questa operazione ed è
compito dello Stato Maggiore far maggior chiarezza. Voglio sapere
come sia stato possibile che la Marina abbia consentito lo sbarco di
così tanti rinforzi, quando in un affare del genere tutto dipende
esclusivamente dalla capacità della Marina di isolare tutta l’isola.
È necessario chiarire questo punto per impedire che questo possa
ripetersi in occasione di operazioni più importanti. Nessuno
dovrebbe far preoccupare la nostra nazione che ci sostiene in
qualsiasi maniera ed è pertanto indispensabile che simili situazioni
non abbiano a ripetersi mai più”.
Cunningham viene così costretto a fornire maggiori dettagli ed a
dare spiegazioni su come la Mediterranean Fleet non sia riuscita ad
isolare Castelrosso ed a dare adeguato appoggio ai commandos;
Esercito e Marina britannici si incolpano a vicenda per l’accaduto:
il primo fa presente che una efficace difesa di Castelrosso è stata
ostacolata dalla vicinanza delle basi aeree italiane a Rodi, la
seconda lamenta la condotta dei commandos, che ha lasciato molto a
desiderare.
Cunningham
scriverà poi in una lettera al suo superiore, il primo lord del mare
Alfred Dudley Pound: “La
presa e l’abbandono di Castelrosso è un’operazione fallita che
non dà credito a nessuno. Gli Italiani sono stati incredibilmente
intraprendenti e non solo hanno bombardato l’isola, ma hanno
cannoneggiato con precisione gli obiettivi e sbarcato le loro truppe
dagli incrociatori [sic].
Per qualche imprevisto, non
ha funzionato il sistema radio dell’esercito e ci siamo così
trovati senza alcuna informazione su quello che stava succedendo.
Questi commandos che abbiamo sono armati con un fucile mitragliatore
ed un tirapugni, sì che non risulta che si possano difendere se
seriamente attaccati [quella
di Cunningham era un’iperbole ma in effetti i commandos inviati a
Castelrosso disponevano solo di armamento leggero: tre mitragliatrici
Bren, 70 fucili, 18 fucili mitragliatori Thompson, 45 pistole Mauser
ed un certo numero di coltelli].
Avevo inviato ulteriori 25 marines armati di mitragliatrici a bordo
del Ladybird, ma qualche pazzoide ha poi dato l’ordine di
reimbarcarli. L’unica cosa che possiamo dire è che da questa
esperienza abbiamo imparato molto e che non ripeteremo gli stessi
errori”.
Verranno
avviate inchieste sia a livello governativo che nelle forze armate,
ed il 12 marzo si terrà ad Alessandria una riunione interforze per
discutere a fondo dell’accaduto; la Royal Navy sarà chiamata in
causa per non essere riuscita ad isolare Castelrosso impedendo ogni
intervento delle forze navali italiane. Churchill incalzerà ancora:
“Quali altre misure disciplinari dobbiamo prendere su questo
deplorevole caso di operazioni sbagliate che sono accadute dopo ben
18 mesi di esperienza in guerra?”.
Sopra,
copertina del “Mattino Illustrato” che celebra la riconquista di
Castelrosso; sotto, i funerali dei caduti nella battaglia (da La Voce
del Marinaio)
24
marzo 1941
Il
Crispi
(capitano di fregata Ugo Ferruta) ed il Sella
(capitano di corvetta Arturo Redaelli) vengono inviati a Stampalia
(l’isola più occidentale del Dodecaneso) per un nuovo tentativo di
attacco contro il naviglio mercantile e militare britannico presente
nella baia di Suda con i motoscafi esplosivi tipo MT della X
Flottiglia MAS. Partendo da Stampalia tra le 16.30 e le 17.30, i due
cacciatorpediniere possono giungere sei miglia a nord della penisola
di Capo Acrotiri, punto designato per mettere a mare i barchini
esplosivi, tra le 23 e le 24, dopo una navigazione di circa sei ore e
mezzo.
Dopo
i tentativi abortiti a gennaio e febbraio, nella terza decade di
marzo le condizioni meteorologiche sono diventate favorevoli
all’impiego degli MT e la ricognizione aerea ha mostrato che la
baia è particolarmente affollata; il mattino del 25 gli ultimi voli
di ricognizione vi avvisteranno l’incrociatore pesante York
(entrato per rifornirsi dopo aver scortato da Alessandria a Malta il
convoglio MW. 6, giunto nell’isola il 23 marzo), l’incrociatore
leggero Gloucester,
l’incrociatore antiaerei Calcutta
(cui proprio nella notte tra il 25 ed il 26 si aggiungerà il
similare Coventry,
entrato all’1.20 del 26 per rifornirsi di carburante dalla nave
cisterna Pericles),
il cacciatorpediniere Hasty,
la cisterna militare Cherryleaf,
la nave appoggio Doumana
e ben dodici navi mercantili, tra cui le navi cisterna Pericles,
Desmoulea
e Marie
Maersk
oltre a diversi bastimenti greci di più modeste dimensioni.
(Per
altra fonte, il 24 marzo la ricognizione aerea avrebbe rilevato
l’arrivo a Suda di un convoglio di dodici o sedici mercantili,
scortati da tre cacciatorpediniere. Secondo la storia ufficiale
dell’USMM, il mattino del 25 ricognitori che avevano sorvolato la
baia di Suda avevano segnalato la presenza di un incrociatore, due
cacciatorpediniere e dodici mercantili, mentre nel pomeriggio di
quello stesso giorno, mentre Crispi
e Sella
erano già in navigazione verso Creta, un ultimo volo di ricognizione
aveva accertato la presenza di un incrociatore ed otto mercantili,
numero però aumentato con l’arrivo di York
e Gloucester,
di ritorno dall’operazione MC. 9, alle 14 del 25 marzo. I due
incrociatori, dopo essersi riforniti di carburante, si sono
ormeggiati entro il recinto protettivo delle reti parasiluri).
Egeomil
ha quindi quindi deciso di procedere con un terzo tentativo nella
notte tra il 25 ed il 26 marzo, emanando un nuovo ordine
d’operazione.
Crispi
e Sella
giungono a Stampalia nel pomeriggio del 24 marzo, e vanno ad
ancorarsi accanto al posamine ausiliario Lero,
sul quale sono alloggiati i piloti dei barchini: il Crispi
a sinistra, il Sella
a dritta.
Lo
stesso giorno ammara a Stampalia un idrovolante con disegni preparati
sulla base degli ultimi rilievi fotografici della ricognizione aerea,
che indicano le posizioni aggiornate delle ostruzioni e delle navi
presenti nella baia (lo York
è all’ancora vicino all’imbocco della baia, vicino agli
sbarramenti, con navi cisterna e navi appoggio ormeggiate nei
pressi).
25
marzo 1941
In
mattinata giunge l’ordine di partire per la missione contro Suda
(per altra versione questo sarebbe giunto solo alle 17.30 di quel
giorno, ma questo risulterebbe in realtà essere stato l’orario
della partenza), ma prima che possa avere esecuzione dei bombardieri
britannici attaccano l’ancoraggio di Stampalia e colpiscono il Lero
con delle bombe da 15 kg; anche Crispi
e Sella
subiscono lievi danni da schegge, due barchini esplosivi sono messi
fuori uso e si lamentano un totale di sette morti e dieci feriti. Tra
le vittime anche un marinaio del Crispi,
il ventunenne Salvatore Palomba, da Torre del Greco; altri tre membri
dell’equipaggio del cacciatorpediniere rimangono feriti.
L’attacco
non fermerà l’operazione contro Suda: semmai rafforza la volontà
degli incursori della X MAS di colpire i britannici per vendicare i
compagni caduti. I marinai realizzano delle targhette con i nomi dei
morti, e le applicano agli scafi dei barchini esplosivi, ridotti
adesso a sei.
Crispi
(capitano di fregata Ugo Ferruta) e Sella
(capitano di corvetta Arturo Redaelli) partono da Stampalia alle 17,
trasportando ciascuno tre “barchini esplosivi” tipo MT. I piloti
dei barchini sono il tenente di vascello Luigi Faggioni (comandante),
il sottotenente di vascello Angelo Cabrini, il capo meccanico di
terza classe Tullio Tedeschi, il capo cannoniere di terza classe
Alessio De Vito, il secondo capo meccanico Lino Beccati ed il
sergente cannoniere Emilio Barberi; rimane in riserva il capo
meccanico di terza classe Fiorenzo Capriotti.
Giunti
alle 23.30 nel punto “X”, sei miglia a nord della penisola di
Acrotiri (dieci, o per altra fonte quindici, miglia a nordovest
dell’imbocco della baia di Suda), Crispi
e Sella
mettono a mare i sei barchini che alle 23.41 (per altra fonte alle
23.55, per altra ancora, decisamente erronea, alle 3.30 del 26
marzo), dopo aver ricevuto gli ultimi auguri di buona fortuna,
partono per una missione di sola andata, procedendo in linea di fila
a 6 nodi su rotta 230°, mentre i cacciatorpediniere invertono la
rotta per rientrare alla base. La manovra di messa a mare degli MT ha
richiesto pochi minuti. Il mare è calmo, il tempo buono, la luna
assente, con notte buia sebbene stellata e un po’ fosca per una
leggera nebbiolina che sale dal mare, il che favorirà
l’avvicinamento dei barchini; il sorgere del sole è previsto per
le 5.18, pertanto la missione dovrà essere portata a termine prima
di allora.
La
baia, stretta (tra i 2 ed i 4 km) e profonda 15 km (situata sulla
costa settentrionale dell’isola, da Punta Monaco a Capo Drepano,
con l’imboccatura verso est, è caratterizzata da pendii aridi e
scoscesi sulle coste settentrionali e meridionali, e boschi di ulivi
sulla costa occidentale, più pianeggiante; presso l’imboccatura si
trova un isolotto, detto isolotto di Suda e sormontato da rupi
biancastre, ed i fondali sono di 10-12 metri all’inizio ma di
70-120 metri nella parte centrale), è protetta da tre barriere di
reti ed ostruzioni, le prime due delle quali sono costituite da reti
che uniscono l’isolotto di Suda alla costa, mentre la terza è
formata da reti parasiluri all’interno della baia vera e propria.
Una prima barriera è situata all’imbocco della baia, la seconda
circa mezzo miglio più avanti (vicino ai forti che sorvegliano
l’accesso), la terza all’estremità della baia, a protezione
delle navi ancorate; gli MT sono stati modificati appositamente per
scavalcarle.
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| Il tenente di vascello Luigi Faggioni (La Spezia, 1909-Chiavari, 1991), comandante dei sei incursori della X Flottiglia MAS che attaccarono la baia di Suda con altrettanti barchini esplosivi. Entrato in Marina nel 1928, fu imbarcato sulle siluranti per alcuni anni ed ebbe il suo primo comando nel 1937, sui MAS, per poi divenire aiutante di bandiera dell’ammiraglio Eugenio di Savoia-Genova. Assegnato alla I Flottiglia MAS nel giugno 1940, ebbe l’incarico di formare, addestrare e comandare il gruppo di incursori che condusse l’attacco a Suda, per il quale fu decorato di Medaglia d’Oro al Valor Militare con motivazione "Comandante di un reparto di Mezzi Navali d'Assalto, penetrava di notte, alla testa delle sue unità, nell'interno di una munita base nemica e, con sangue freddo esemplare, dopo aver superato tre ordini di ostruzioni e sbarramenti, le guidava all'attacco, riuscendo ad affondare un incrociatore pesante e due grandi piroscafi. Mirabile esempio di audacia, congiunta con la più salda ed eroica determinazione di portare a termine la missione affidatagli per la gloria della Patria e della Marina". Rilasciato dalla prigionia nel gennaio 1945 e promosso intanto a capitano di corvetta, durante le fasi finali del conflitto fu comandante in seconda di Mariassalto, successore della X Flottiglia MAS come reparto d’assalto della Marina italiana cobelligerante con gli Alleati. Continuò la sua carriera nel dopoguerra, ricoprendo vari incarichi tra cui il comando del Centro Subacquei ed Incursori del Varignano, quello della base navale di La Spezia e quello del Comando Militare Marittimo Autonomo della Sardegna, fino al 1970, raggiungendo il grado di ammiraglio di squadra. |
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| Il sottotenente di vascello Angelo Cabrini (Pavia, 1917-Roma, 1987). Entrato nell’Accademia Navale di Livorno nel 1936, nel febbraio 1940 fu imbarcato sull’incrociatore Duca degli Abruzzi e nel giugno successivo fu assegnato a richiesta alla I Flottiglia MAS, dove divenne pilota di barchino esplosivo. Pilota dell’MT 2, fu protagonista dell’affondamento dello York, per il quale ricevette la MOVM con motivazione "Coraggioso e tenace operatore di mezzi d’assalto di superficie, con altri valorosi già compagni dei rischi e delle fatiche di un durissimo addestramento, dopo una difficile navigazione forzava una ben munita base navale avversaria superando un triplice ordine di ostruzioni. Nella rada violata, quando già era imminente l’alba, con freddezza pari al coraggio, attendeva, riunito ai compagni, che il comandante della spedizione procedesse al riconoscimento ravvicinato degli obiettivi e li assegnasse all’audacia dei suoi uomini. Una volta ottenuto il via, si lanciava con saldo animo all’assalto contro un incrociatore pesante nemico affondandolo con l’azione concomitante di un altro assalitore e coronando del successo, con l’alto spirito aggressivo, la concezione teoricamente perfetta dell’impresa. Degno in tutto delle più pure tradizioni di eroismo della Marina italiana". Rilasciato dalla prigionia nel marzo 1945, partecipò agli ultimi mesi di guerra con Mariassalto e poi allo sminamento dell’Alto Adriatico nel dopoguerra. Come Faggioni proseguì la carriera nel dopoguerra e come lui ebbe il comando del Centro Subacquei ed Incursori del Varignano e del Comando Militare Marittimo Autonomo della Sardegna, nonché delle Scuole CEMM di Taranto, dell’Accademia di Livorno e della III Divisione Navale, raggiungendo il grado di ammiraglio di squadra. Fu posto in ausiliaria per limiti di età nel 1977. |
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| Il capo meccanico di terza classe Tullio Tedeschi (Isernia, 1910-1987). Arruolatosi volontario in Marina nel 1927, prestò servizio su cannoniere, cacciatorpediniere e sommergibili salendo in grado da marinaio meccanico a capo meccanico di terza classe, partecipando alla Guerra d’Etiopia per poi passare sui MAS sul finire degli anni Trenta. Entrato nella I Flottiglia MAS nel 1940, divenne pilota di barchino esplosivo e protagonista con Cabrini dell’affondamento dello York, per il quale ricevette la MOVM con motivazione "Coraggioso e tenace operatore di mezzi d'assalto di superficie, con altri valorosi già compagni dei rischi e delle fatiche di un durissimo addestramento, dopo una difficile navigazione, forzava una ben munita base navale avversaria, superando un triplice ordine di ostruzioni. Nella rada violata, quando già imminente era l'alba, con freddezza pari al coraggio attendeva, riunito ai compagni, che il Comandante della spedizione procedesse al riconoscimento ravvicinato degli obiettivi e li assegnasse all'audacia dei suoi uomini. Una volta ottenuto il via si lanciava con saldo animo all'assalto contro un incrociatore pesante nemico affondandolo, con l'azione concomitante di un altro assalitore e coronando con successo, con l'alto spirito aggressivo, la concezione teoricamente perfetta dell'impresa. Degno in tutto delle più pure tradizioni di eroismo della Marina italiana". Rilasciato dalla prigionia nel marzo 1944, entrò a far parte di Mariassalto fino alla fine della guerra; si congedò nel 1947 con il grado di capo di prima classe. Morì, per coincidenza della Storia, appena un mese prima di Cabrini, col quale condivideva il merito dell’affondamento dello York. |
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| Il secondo capo meccanico Lino Beccati (Porto Tolle, 1913-Roma, 1999). Arruolatosi volontario in Marina nel 1931, partecipò ad una campagna in Oceano Indiano sulla nave idrografica Ammiraglio Magnaghi, poi fu destinato alla I Squadriglia MAS a La Spezia e durante la guerra d’Etiopia prestò servizio, come il futuro compagno d’armi Tullio Tedeschi, presso il Centro Comunicazioni della Marina di Asmara. Fu successivamente trasferito sulla corazzata Giulio Cesare e nel 1940 entrò a far parte della I Flottiglia MAS; a Suda colpì con il suo barchino la nave cisterna Pericles, ricevendo la MOVM con motivazione "Coraggioso e tenace operatore di mezzi d'assalto di superficie, con altri valorosi - già compagni nei rischi e nelle fatiche di un durissimo addestramento - dopo difficile navigazione forzava una ben munita base navale avversaria, superando un triplice ordine di ostruzioni. Nella rada violata, quando già era imminente l'alba, con freddezza pari al coraggio, attendeva riunito ai compagni che il Comandante della spedizione procedesse al riconoscimento ravvicinato degli obiettivi e li assegnasse all'audacia dei suoi uomini. Una volta ottenuto il via, si lanciava con saldo animo all'assalto contro grossa petroliera affondandola e coronando così del successo, con l'alto spirito aggressivo, la concezione teoricamente perfetta dell'impresa. Degno in tutto delle più alte tradizioni di eroismo della Marina italiana". Rilasciato dalla prigionia nel febbraio 1945, continuò a lungo la carriera in Marina, diventando ufficiale e direttore di macchina di varie unità negli anni Cinquanta e raggiungendo nel 1963 il grado di capitano di corvetta del Corpo Equipaggi Militari Marittimi. |
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| Il sergente cannoniere Emilio Barberi (Forte dei Marmi, 1917-2002). Entrato in Marina nel 1935, nella seconda metà degli anni Trenta prestò servizio su siluranti e sommergibili, partecipando alle guerre d’Etiopia e di Spagna ed alla conquista dell’Albania; allo scoppio del secondo conflitto mondiale era imbarcato su un MAS, e nell’ottobre 1940 iniziò l’addestramento come operatore di mezzi speciali. Alcune fonti accreditano a lui, invece che a Beccati, il danneggiamento della Pericles; ricevette la MOVM con motivazione "Coraggioso e tenace operatore di mezzi d’assalto di superficie, con altri valorosi, già compagni nei rischi e nelle fatiche di un durissimo addestramento, dopo difficile navigazione forzava una ben munita base navale avversaria, superando un triplice ordine di ostruzioni. Nella rada violata, quando già era imminente l’alba, con freddezza pari al coraggio, attendeva riunito ai compagni che il comandante della spedizione procedesse al riconoscimento ravvicinato degli obiettivi e li assegnasse all’audacia dei suoi uomini. Una volta ottenuto il via, si lanciava con saldo animo all’assalto contro grossa petrolifera affondandola e coronando così del successo, con l’alto spirito aggressivo, la concezione teoricamente perfetta dell’impresa. Degno in tutto delle più alte tradizioni di eroismo della Marina italiana". Rientrato dalla prigionia nell’aprile 1945, proseguì la carriera assolvendo vari incarichi sia a bordo che a terra, tra cui due periodi al Centro Subacqueo del Varignano. Divenuto ufficiale CEMM, lasciò il servizio attivo con il grado di capitano di corvetta. |
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| Il capo cannoniere di terza classe Alessio De Vito (Summonte, 1906-1982). Arruolatosi volontario in Marina a soli sedici anni, partecipò nel 1923 all’occupazione di Corfù a bordo della corazzata Giulio Cesare; negli anni successivi alternò periodi d’imbarco a corsi di perfezionamento e nella seconda metà degli anni Trenta partecipò alla guerra d’Etiopia ed all’invasione dell’Albania. Trasferito a domanda nei mezzi d’assalto, ottenne a Suda la MOVM con motivazione "Coraggioso e tenace operatore di mezzi d'assalto di superficie, con altri valorosi - già compagni nei rischi e nelle fatiche di un durissimo addestramento - dopo difficile navigazione forzava una ben munita base navale avversaria, superando un triplice ordine di ostruzioni. Nella rada violata, quando già era imminente l'alba, con freddezza pari al coraggio, attendeva riunito ai compagni che il Comandante della spedizione procedesse al riconoscimento ravvicinato degli obiettivi e li assegnasse all'audacia dei suoi uomini. Una volta ottenuto il via, si lanciava con saldo animo all'assalto contro grossa petroliera affondandola e coronando così del successo, con l'alto spirito aggressivo, la concezione teoricamente perfetta dell'impresa. Degno in tutto delle più alte tradizioni di eroismo della Marina italiana". Fu l’ultimo degli incursori di Suda a rientrare dalla prigionia, nel giugno 1946, a guerra finita da più di un anno. A fine 1947 fu collocato in ausiliaria a richiesta, con il grado di capo cannoniere di prima classe, venendo in seguito promosso sottotenente CEMM della riserva. |
26
marzo 1941
I
barchini giungono all’imbocco della baia di Suda alle 2.30, dopo
due ore e mezza di navigazione; viene avvistato un cacciatorpediniere
britannico che sta pattugliando l’accesso alla baia, ed i barchini
passano sulla sua dritta a soli 150 metri di distanza, senza essere
visti.
Non
appena l’apertura della baia è ben visibile, il tenente di
vascello Faggioni ordina di accostare a dritta e dirige per passare
al centro dell’apertura esistente tra Punta Suda e l’omonimo
forte. Dopo qualche minuto Faggioni osserva delle segnalazioni
luminose con luci azzurre da Punta Spada a Forte Suda, e risposta da
quest’ultimo; essendo evidente che quello specchio d’acqua è
oggetto di particolare attenzione, decide quindi di passare fra
l’isolotto e la costa settentrionale ed ordina di accostare a
dritta, ordine che viene prontamente eseguito dagli MT sempre
rimanendo in formazione di marcia.
A
questo punto Faggioni avvista inaspettatamente una settantina di
metri di prua una prima fila di ostruzioni, costituita da gavitelli e
situata a tre miglia dal fondo della baia, non segnalata nelle
informazioni ricevute prima di partire; ne dà subito avviso agli
altri barchini ed imbocca il varco esistente tra due gavitelli,
azionando a metà il blocco di sollevamento delle eliche e passando
senza problemi, seguito dagli altri MT in linea di fila. Il primo
sbarramento, poco affiorante ed a maglie piuttosto larghe (c’è uno
spazio di due metri tra un gavitello e l’altro, e la catena che li
collega non è affiorante), viene così superato agevolmente. Ultimi
a passare sono Cabrini e Beccati, incaricati di far saltare le
ostruzioni qualora queste non fossero superabili; i barchini
proseguono poi con i motori al minimo.
Pochi
minuti dopo Faggioni avvista la seconda fila di ostruzioni, distante
500 metri dalla prima e costituita da ostruzioni galleggianti e reti
parasiluri sostenute da gavitelli cilindrici ogni due metri, che
dirige per aggirare passando a ridosso del forte, dove ci sono scogli
affioranti le cui forme possono facilmente essere confuse con quelle
dei barchini; azionato stavolta tutto il blocco di sollevamento delle
eliche, riesce anche stavolta a passare senza grossi problemi, alle
2.45 circa. Il barchino del sergente Barberi, che segue Faggioni,
rimane invece impigliato, perdendo la fascetta ed il salvagente;
riesce però a recuperare il salvagente ed a superare le ostruzioni,
dopo di che passano anche gli altri barchini, senza ulteriori
problemi, mentre Faggioni li aspetta a motore fermo nella zona
d’ombra creata dall’isolotto. La densa foschia permette ai
barchini di passare senza essere visti da riva, nonostante alcuni
proiettori setaccino le acque della baia in prossimità del secondo
sbarramento (secondo fonti britanniche, i proiettori e le luci delle
ostruzioni esterne e degli sbarramenti retali erano state accese due
ore prima dell’arrivo del Coventry
per agevolarne l’entrata nella baia, e furono spente poco dopo il
suo arrivo).
Una
volta che tutti e cinque i suoi sottoposti sono passati, Faggioni si
rimette alla testa del gruppo ed accosta a sinistra, per portarlo più
in mezzo alla baia. Mancando poco più di due ore e mezza alle prime
luci dell’alba (previste per le 5.18), e tenendo conto delle
possibili perdite di tempo che potrebbero scaturire dal superamento
della terza ostruzione, Faggioni ordina di aumentare i giri e poi
assume rotta 290°, verso la testata settentrionale dell’ostruzione,
situata circa tre miglia in fondo alla baia. Alle 2.55 vengono viste
sulla sinistra, piuttosto alte sul mare, due luci che sulle prime
Faggioni scambia per i fari di un’automobile in transito sulla
strada costiera, ma che comprende poi essere in realtà i proiettori
di manovra di una nave da guerra, che setacciano per vari minuti il
centro della baia. I barchini proseguono per la loro rotta, e dopo
qualche minuto i proiettori li superano senza notarli, ed illuminano
un grosso gavitello da ormeggio in fondo al porto.
Alle
4.30 (4.15 per altra fonte) Faggioni avvista le grosse boe di testata
dell’ultima barriera (che dista circa tre miglia dalla seconda),
unite alla costa, in prossimità di un piccolo edificio in muratura,
da una catenaria di una sessantina di metri; l’ostruzione è del
tipo a sfera, collegata da gomiti ad astuccio, non superabile con
mezzi silenziosi, dunque Faggioni cerca un varco e lo trova tra
l’ultima boa e la costa settentrionale, il che consente ai barchini
di aggirare l’ostruzione a lento moto (per altra versione, i piloti
dei barchini sollevano la grossa catena che collega l’ultima boa
all’estrema destra con uno spuntone di roccia, a pochi metri da
terra, e passano con i barchini sotto di essa: passano così vicini
alla riva da sentire chiaramente le voci delle sentinelle nella
piccola costruzione, ma non vengono notati; per altra ancora il terzo
sbarramento, distante 400 metri dal secondo, sarebbe stato costituito
da reti parasiluri sostenute da boe cilindriche distanti un metro e
mezzo l’una dall’altra, e sarebbe stato superato nel volgere di
circa quattro minuti alzando i blocchi ed abbassando i cilindri con
il peso del corpo). Superato quest’ultimo ostacolo, i barchini
accostano subito a sinistra e si portano verso il centro della baia
seguendo rotta parallela all’ostruzione; pochi minuti dopo Faggioni
segnala agli altri di fermare i motori ed avvicinarsi al suo barchino
usando i remi. Il sergente Barberi sussurra a Faggioni: “Ma davvero
siamo già dentro?”. Si beve cognac e zucchero
per vincere la stanchezza, si parla con freddezza e lucidità.
Sono
le 4.45 e gli hanno già raggiunto il punto di partenza per
l’attacco, all’estremità della baia: sono in anticipo rispetto
alle condizioni di luce ottimali per l’attacco, quindi Faggioni
decide di aspettare. Le masse scure delle navi all’ancora sono
visibili a poche centinaia di metri: servendosi di un potente
binocolo di fabbricazione tedesca, il tenente di vascello Faggioni
avvista la sagoma di un incrociatore (lo York)
a trecento metri di distanza sulla sinistra, una petroliera sulla sua
destra ed un gruppo di mercantili a proravia. Compie una breve
ricognizione avvicinandosi da solo alle navi per osservarle meglio,
quindi sceglie i bersagli più grossi e li assegna ai suoi uomini,
passando a turno il binocolo a Cabrini ed agli altri per far loro
osservare bene la posizione di ogni bersaglio.
Lo
York,
dal quale proviene rumore di turboventilatori, viene assegnato a
Cabrini e Tedeschi, con Faggioni e Beccati in riserva qualora i primi
due dovessero fallire, ed i mercantili in fondo alla baia a De Vito e
Barberi (per altra fonte solo Faggioni sarebbe rimasto in riserva,
pronto a colpire se qualcuno dei suoi uomini avesse mancato il
bersaglio, mentre a Beccati sarebbe stata assegnata subito la nave
cisterna Pericles,
ormeggiata davanti all’abitato di Suda, ed a De Vito e Barberi due
navi più piccole, probabilmente un’altra nave cisterna ed un
cacciatorpediniere; per un’altra a Cabrini e Tedeschi fu assegnato
lo York,
a Beccati e Barberi una nave cisterna mentre Faggioni e De Vito
rimasero in riserva; per un’altra ancora a Cabrini e Tedeschi fu
assegnato lo York,
a Barberi la Pericles
mentre De Vito e Beccati ebbero inizialmente l’ordine di rimanere
vicini a Faggioni, che dopo aver visto York
e Pericles
colpiti ordinò a Beccati di attaccare un’altra nave cisterna, dopo
di che attaccarono anche Faggioni e De Vito). In attesa delle prime
luci che rendano un po’ più visibili i bersagli, Faggioni ricorda
ai suoi uomini il punto di riunione in cui dovranno ritrovarsi dopo
l’attacco; dopo circa un quarto d’ora si rende necessario
riavviare i motori per contrastare l’effetto della corrente, che fa
scarrocciare i barchini verso la porta della rete parasiluri.
Lo
York
è ormeggiato circa 200 metri all’interno dell’ostruzione, con la
prua indietro ed un angolo di 90° rispetto ai barchini, mentre i
mercantili sono sparpagliati più indietro (uno di essi è circa
cento metri sottovento rispetto agli MT). Cabrini e Tedeschi dovranno
attaccare per primi, non appena le condizioni di visibilità lo
consentiranno, mentre gli altri barchini dovranno andare all’attacco
non appena avranno sentito la prima esplosione (secondo i rapporti di
De Vito e Barberi; Faggioni nel suo rapporto scrive invece che
l’ordine era di partire all’attacco non appena avessero sentito
Cabrini e Tedeschi partire all’attacco dello York).
Intenzione di Faggioni sarebbe stata di tenere anche De Vito, oltre a
sé stesso e Beccati, inizialmente in riserva nel caso Cabrini e
Tedeschi fallissero l’attacco contro lo York,
ma quando torna dal giro di ricognizione finale non lo trova più: De
Vito, infatti, ha sentito i rumori degli altri barchini che partivano
all’attacco e si è messo a sua volta in cerca di un bersaglio
(quando si incontreranno nuovamente dopo la cattura e Faggioni gli
chiederà spiegazioni, De Vito asserirà che l’allontanamento di
Barberi verso il suo bersaglio l’ha indotto in errore circa la
direzione in cui si sono spostati gli altri barchini e che, avendo
tentato di riunirsi con Faggioni senza però trovarlo, quando Cabrini
e Tedeschi sono partiti contro lo York
lui è partito verso una massa scura risultata poi essere un tratto
di costa, per poi cambiare bersaglio ed attaccare un mercantile).
I
barchini si dividono ed alle cinque del mattino, mentre il cielo
inizia a schiarirsi e sullo York
iniziano ad esservi segni di risveglio (si sente fischiare la sveglia
e dal fumaiolo prodiero esce fumo: Faggioni teme che i fischi non
indichino la sveglia ma il posto di manovra per uscire, il che lo
spinge ad ordinare di attaccare senza ulteriore indugio) e si
accendono le luci verdi e rosse al centro dello sbarramento (segno
probabile che la porta della rete parasiluri sta per aprirsi per
lasciar uscire una nave), Faggioni dà ordine a Cabrini e Tedeschi di
partire all’attacco: “Ragazzi, l’incrociatore se ne va, non c’è
più tempo da perdere”.
I
barchini si avvicinano alle navi a velocità minima, per poi
accelerare quando sono a 500 metri dal bersaglio; Cabrini e Tedeschi
puntano a velocità minima contro lo York,
che oltre ad essere l’obiettivo più importante è anche la nave
più vicina alla barriera. Si avvicinano fino a riuscire a
distinguere nettamente la nave; una volta giunti a circa 300 metri,
essendo ancora troppo buio (anche per via della costa alta, e per
giunta lo York
è mimetizzato, il che rende ancor più difficile distinguerlo), si
fermano in attesa di un po’ di luce. Passato un quarto d’ora,
alle 5.30 Cabrini, dopo essersi assicurato che anche Tedeschi riesca
a vedere il bersaglio, dà ordine di attaccare, temendo che i
britannici li avvisterebbero se attendessero ancora; i due barchini
procedono affiancati con tutto il gas aperto finché, giunti a 70-80
metri dall’incrociatore britannico, i due piloti bloccano il timone
per evitare che il mezzo devi dalla rotta (Cabrini punta al centro
dell’incrociatore, Tedeschi a poppavia del secondo fumaiolo),
portano la velocità al massimo, tolgono la sicura alla carica
esplosiva e si gettano in acqua.
Sullo
York
l’ufficiale di servizio ed altri uomini di guardia avvertono alle
5.11 (per altra fonte, alle 4.46) rumore di motori ad alta velocità
generato dai barchini in avvicinamento, ma pensano che si tratti di
aerei; alcune vedette avvistano le scie dei barchini, ma prima che
possano dare l’allarme i due motoscafi esplosivi colpiscono
l’incrociatore a centro nave, allagando entrambe le sale macchine
ed una sala caldaie e privando la nave del vapore e della corrente
elettrica. Completamente al buio, lo York
sbanda subito a dritta ed inizia ad affondare di poppa; in tarda
mattinata, preso a rimorchio da un rimorchiatore e dall’Hasty,
verrà portato a poggiare su un bassofondale (profondità cinque
metri) per evitare che vada completamente perduto. Due membri
dell’equipaggio rimangono uccisi nella sala caldaia B, mentre un
ufficiale e quattro marinai sono feriti. Cabrini, mentre ancora si
sta arrampicando sul salvagente, sente distintamente il rumore
dell’impatto dei barchini contro lo scafo dello York,
seguito a pochi secondi di distanza da quello degli scoppi dei
congegni taglia-barchini e quindi da una violenta esplosione
subacquea. Ne trae la conclusione che le due cariche esplosive siano
detonate molto vicine e quasi contemporaneamente, e subito dopo vede
lo York
assumere un forte sbandamento; sente poi altre esplosioni, in numero
addirittura superiore a quello dei barchini impiegati (alcune mine
presenti nella baia esplodono infatti perché investite dalle
esplosioni dei barchini). Direttosi verso la riva, verrà catturato
ad una quarantina di metri da essa da un battello proveniente da un
mercantile e portato a terra, dove ritroverà Tedeschi, Beccati e
Barberi.
Anche
Tedeschi, subito dopo essersi gettato in acqua, avverte due colpi
affiancati provocati dall’impatto dei barchini e dall’esplosione,
e non fa in tempo ad arrampicarsi sul suo zatterino (ci si appoggia
con lo stomaco) prima di essere investito dall’onda d’urto, che
gli schiaffeggia violentemente le gambe. Vede lo York
sbandare lentamente, appoppandosi, ed avverte distintamente i rumori
degli altri quattro barchini che vanno all’attacco; alla sua
sinistra riconosce nettamente, tra le altre esplosioni, quella
dell’MT che ha attaccato una petroliera di 19.000 tonnellate
(probabilmente la Pericles).
Si mette a nuotare verso la costa sudorientale della baia,
appesantito dall’acqua entrata nella pelliccia della tuta Belloni,
che si è rotta; vede lo York
continuare ad affondare appoppato e sbandato a sinistra, mentre la
nave cisterna, a soli 50 metri di distanza, affonda rapidamente.
Verso le 6.45 viene avvistato da una pattuglia britannica quando si
trova ad una trentina di metri dalla riva, catturato e subito
interrogato; nota che il cacciatorpediniere britannico di vigilanza
foranea ha preso lo York
e cerca di portarlo in secco.
Faggioni
osserva una singola esplosione sullo York,
seguita dall’apertura del fuoco da parte delle batterie contraeree,
e subito dopo sente un’altra esplosione sulla dritta, da lui
attribuita al barchino di Barberi; a questo punto Beccati, che si
trovava alla sua sinistra, gli chiede di poter partire contro una
grossa petroliera che Faggioni gli ha precedentemente indicato, ma
l’ufficiale gli dice di aspettare ed entrambi si avvicinano: una
volta che Beccati è in grado di distinguere chiaramente il
bersaglio, si lancia all’attacco (Beccati scriverà nel rapporto
che Faggioni, al ritorno di un ultimo giro di ricognizione, gli ha
ordinato di attaccare una petroliera di circa 1500 tonnellate, con
notevole sottostima delle sue dimensioni). La petroliera in questione
è la moderna motonave cisterna norvegese Pericles
di 8324 tsl, arrivata a Suda alle 11.30 del precedente 15 marzo con
il convoglio AN 19, salpato da Alessandria l’11 marzo, ed adibita
da allora al rifornimento delle navi da guerra britanniche che fanno
scalo nella baia.
Sentiti
i rumori dei motori dei barchini di Cabrini e Tedeschi portati a
tutta forza, Beccati porta il suo barchino a circa 300 metri dalla
nave cisterna e, una volta udite le esplosioni dei barchini che
colpiscono lo York,
dà tutto gas al motore puntando al centro della nave, blocca il
timone, toglie la sicura a 80 metri di distanza e si getta quindi in
acqua. Prima di salire sul suo zatterino, avverte il rumore della
carica “taglia-barchino”, e mentre ancora ha le gambe in acqua
sente una forte esplosione e, alzando la testa, vede una grossa
colonna di fumo ed acqua sollevarsi e la nave sbandare. Il barchino
ha colpito la Pericles
a poppa (secondo Faggioni; per altra fonte, a centro nave),
incendiandola, squarciando lo scafo ed infliggendo gravi danni.
Sulla
Pericles,
che ha appena finito di rifornire l’incrociatore antiaerei Coventry
alle 5.10, viene avvertito un allarme aereo e l’equipaggio di 31
uomini si precipita in coperta; circa cinque minuti dopo un barchino
la colpisce nella cisterna esterna dritta numero 2, e la conseguente
esplosione coinvolge anche la cisterna centrale numero 3 e la
cisterna esterna di sinistra numero 2. Dalle cisterne squarciate
zampilla la nafta, ed il locale pompe viene parzialmente allagato; la
nave sbanda di circa 40° a dritta e l’equipaggio (tutti sono
rimasti illesi), temendo che stia per capovolgersi, inizia ad
abbandonarla. La maggior parte dei marittimi prendono posto nella
scialuppa di dritta, mentre altri mettono a mare una zattera (i cui
occupanti vengono successivamente presi a bordo dalla scialuppa) ed
altri ancora si gettano direttamente in mare, venendo poi ripescati
da un rimorchiatore che li porta a terra. Successivamente, essendosi
la Pericles
adagiata sul fondale con apparente cessazione del rischio di
capovolgimento, il comandante Paul Rikard Paulsen tornerà a bordo
insieme ad alcuni dei suoi uomini ed aprirà le valvole delle
cisterne di sinistra, riuscendo così a controbilanciare lo
sbandamento e riportare la nave in assetto; l’equipaggio tornerà
così a bordo al completo. A bordo troveranno un motore a sei
cilindri e pezzi di barchino MT in coperta proprio sopra la zona
dell’impatto, dove l’esplosione ha creato uno squarcio di circa
1,8 metri sotto la linea di galleggiamento; anche sul lato sinistro
si è prodotta una spaccatura verticale di tre metri di lunghezza, ed
anche il ponte è percorso da una crepa. La maggior parte delle
cisterne sono allagate, ed i tentativi di espellere l’acqua che ha
invaso il locale pompe l’indomani mattina risulteranno infruttuosi.
Gran parte dell’equipaggio della Pericles
crederà erroneamente che la nave sia stata colpita da un siluro
d’aereo.
Intanto,
Faggioni vede che lo York
è fortemente sbandato a dritta, avvolto da una nube di fumo, ma
sembra stentare ad affondare, dunque decide di attaccarlo a sua
volta: prima di partire all’attacco, tuttavia, compie un ultimo
giro con il binocolo e così facendo avvista una nave da guerra
mimetizzata che spunta da dietro la petroliera colpita da Beccati: si
tratta dell’incrociatore Coventry,
che era affiancato alla Pericles
per rifornirsi, ha scostato alle cinque ed adesso sta cercando di
allontanarsi e raggiungere a lento moto l’uscita della baia,
sparando in tutte le direzioni. Faggioni decide di attaccare il
Coventry,
che sta accelerando, dunque accosta a dritta, accelera a sua volta e
punta su di essa; sbloccato il timone, accosta un po’ a sinistra
per correggere la mira, poi lo blocca nuovamente, porta la velocità
al massimo e si getta in acqua. Tuttavia, proprio per via della
velocità dell’incrociatore il barchino – pensato per colpire
bersagli statici, e non per compiere brusche virate mentre procede ad
elevata velocità – manca il bersaglio e va ad esplodere contro una
banchina del porto.
Secondo
la ricostruzione dello storico Giorgio Giorgerini nel suo libro
“Attacco dal mare”, invece, la Pericles
sarebbe stata colpita da ben due barchini, non quello di Beccati
bensì quelli di De Vito e Barberi, che l’avrebbero colpita su
entrambi i lati all’insaputa l’uno dell’altro: ciò in quanto
una notizia trasmessa nel dopoguerra dall’Ammiragliato britannico
alla Marina italiana affermava che la Pericles
sarebbe stata sventrata su entrambi i lati. Fonti norvegesi
menzionate più oltre, tuttavia, nel descrivere in dettaglio i danni
subiti dalla Pericles
parlano chiaramente di squarcio su un solo lato.
Barberi
ha ricevuto da Faggioni l’ordine di attaccare una nave cisterna che
si trova sul lato opposto della baia, davanti all’abitato di Suda,
partendo all’attacco non appena lo York
sarà stato colpito; portatosi in posizione, a pochi metri da riva,
manovrando con i remi, dopo quella che è parsa un’attesa
interminabile Beccati ha udito i motori di due MT ad alta velocità e
poi un’esplosione subacquea, dopo di che è partito a sua volta
all’attacco. Puntato il barchino al centro del suo bersaglio, ha
tolto la sicura, bloccato il timone e lasciato il motore a mezzo
regime (essendo già molto vicino) prima di gettarsi in acqua, tra
esplosioni di mine e fuoco della contraerea. Ha giudicato di aver
colpito la petroliera attaccata, che ha visto sensibilmente appruata;
è riuscito a raggiungere la riva, ma qui è stato poco dopo
catturato.
De
Vito, rimasto vicino a Faggioni e Beccati mentre Cabrini, Tedeschi e
Barberi si portavano in posizione d’attacco, circa un quarto d’ora
dopo che Faggioni si è allontanato per un giro di ricognizione ha
sentito un rumore ed un altro banchino che partiva all’attacco; ha
allora deciso di trovarsi un bersaglio, evitando i mercantili alla
fonda perché memore di un avvertimento del comandante Moccagatta, “è
meglio affondare un mezzo piroscafo alla banchina che una grande nave
in rada”. Attraversata a buona andatura la linea dei mercantili, ha
avvistato una sagoma nera bassa e lunga che ha identificato come una
nave da guerra (più tardi, con la luce del sole, ha scoperto
trattarsi effettivamente di un incrociatore antiaerei e due
cacciatorpediniere), ed ha deciso di attaccarla; trovandosi già alla
distanza giusta, ha compiuto le manovre del caso ed ha lanciato il
barchino all’attacco, dopo di che si è gettato in acqua. Ha fatto
appena in tempo a salire sul suo zatterino quando un mercantile è
stato colpito a ridotta distanza da lui, sulla sinistra, per poi
affondare rapidamente; continuando ad osservare il suo barchino, l’ha
visto sobbalzare ed accostare nettamente a dritta, dopo di che l’ha
perso di vista, ma ha continuato a seguire il rumore del motore
finché poco dopo ha sentito le due detonazioni del taglia-barchino e
della carica esplosiva, il che l’ha indotto a ritenere che abbia
colpito uno dei mercantili che aveva superato poco prima.
Anche
la Pericles,
con il locale pompe e diverse cisterne allagate, dev’essere portata
a poggiare sui bassifondali per scongiurarne l’affondamento,
perdendo gran parte del carico di carburante (5000 tonnellate secondo
alcune fonti, mentre il sito Warsailors dedicato alla Marina
Mercantile norvegese afferma che la nave avesse a bordo 12.324
tonnellate di carburante caricate ad Haifa, delle quali 9329 vennero
scaricate a terra o trasbordate su altre navi, pertanto ne andarono
perdute 2995 tonnellate; fonti britanniche parlano invece della
perdita di sole 500 tonnellate).
.png) |
| La Pericles danneggiata (da “Attacco sul mare. Storia dei mezzi d’assalto della Marina italiana” di Giorgio Giorgerini) |
Altri
due barchini, oltre a quello di Faggioni, mancano i bersagli (per
altra fonte, un secondo barchino avrebbe colpito la Pericles
anche sull’altro lato): uno dei due esplode contro una banchina,
mentre l’altro, rimasto inesploso ed immobilizzato per avaria al
motore, sarà recuperato intatto dai britannici su una spiaggia, dove
viene osservato da Cabrini, Tedeschi, Beccati e Barberi mentre sono
condotti prigionieri a La Canea (sarà esaminato dai britannici e
così descritto in una relazione: “…consisteva
di un guscio a testuggine lungo 14 piedi con poco pescaggio; aveva un
solo sedile ed era munito di un motore a 6 cilindri con due eliche.
Portava un carico di 500 libbre di esplosivo nel compartimento
cilindrico di prua”).
Le
batterie contraeree a terra e le artiglierie antiaeree delle navi,
pensando ad un attacco aereo, iniziano a sparare alla cieca contro il
cielo; qualcuna colpisce anche due dei barchini che non hanno
raggiunto i bersagli.
Faggioni,
mentre nuota vigorosamente verso la costa settentrionale, viene
raggiunto da un battellino che lo cattura e lo porta a bordo di una
nave, dove gli vengono offerti whisky, tè e sigarette e viene
aiutato a togliersi la tuta di gomma. Verso le dieci del mattino,
scortato da un ufficiale armato di pistola e due sentinelle, viene
portato a terra; lungo il tragitto passa vicino alla Pericles
che perde nafta da uno squarcio, e vede lo York
incagliato con la prua, la poppa a pelo d’acqua, la torre poppiera
alla massima elevazione, gente indaffarata a bordo ed “una specie
di cisterna” affiancata sul lato dritto. L’ufficiale britannico
lo accompagna fino al barchino intatto arenatosi sulla spiaggia
(Faggioni nota che è senza salvagente, con la maniglia di scoppio
tirata ed il timone bloccato in posizione centrale e che è
sprovvisto di orologio e bussola), e con la pistola puntata gli
chiede se sia pericoloso toccarlo; Faggioni risponde affermativamente
e poi, interrogato insistentemente sul funzionamento del congegno
esplosivo e su come disinnescarlo, rifiuta di rispondere. Viene poi
riunito con gli altri cinque incursori, tutti prigionieri.
Né
lo York
né la Pericles
torneranno mai in servizio. Lo York,
rimasto emergente con le sovrastrutture, l’armamento e parte della
coperta, di fatto ridotto a batteria contraerea statica (senza
energia elettrica non può azionare le pompe e nemmeno muovere le
torri dei cannoni: da Alessandria sarà inviato il sommergibile Rover
per fornire all’incrociatore semiaffondato l’energia elettrica
necessaria a poter muovere almeno i cannoni contraerei, ma il 24
aprile il Rover
sarà seriamente danneggiato da un attacco aereo e si deciderà di
rinunciare a tentare il recupero dello York),
verrà ulteriormente danneggiato dalla Luftwaffe il 24 aprile, il 6
ed il 18 maggio, durante la battaglia di Creta, e poi definitivamente
reso inutilizzabile dai britannici con cariche esplosive il 22 maggio
1941, dopo aver rimosso parte dell’armamento che fu riutilizzato
per potenziare le difese terrestri nell’isola (il relitto sarà
recuperato, rimorchiato in Italia e demolito a Bari nel 1952),
privando così la Mediterranean Fleet del suo unico incrociatore
pesante.
La
Pericles,
alleggerita del carico di carburante (in parte trasferito sulla
Cherryleaf
il 28-29 marzo e tra il 4 ed il 6 aprile) e rattoppata alla meglio
(l’8 aprile viene condotto un altro tentativo di prosciugare
l’acqua che ha invaso il locale pompe, ma senza successo), lascerà
Suda alle 11.30 dell’11 aprile 1941, con la scorta del peschereccio
armato antisommergibili Moonstone
ed a rimorchio di un cacciatorpediniere (per altra versione, con i
propri mezzi), diretta a Porto Said: avendo ricevuto ordine dal
locale Comando britannico di partire al più presto per Port Said, la
nave lascerà Suda così precipitosamente da lasciare a terra 6
membri dell’equipaggio, che si trovano a terra e non riescono a
risalire a bordo in tempo. Unitasi la sera stessa dell’11 aprile al
convoglio AS. 25, se ne dovrà separare il 13 a causa di una burrasca
frattanto scoppiata, che le impedisce di tenere il passo delle altre
navi, scortata dallo sloop britannico Grimsby.
Dinanzi al peggioramento delle condizioni meteomarine la cisterna
danneggiata farà rotta per Alessandria il mattino del 14, ma alle
8.30 di quel giorno i suoi motori si fermeranno per avaria ed il
comandante darà ordine all’equipaggio di salire in coperta,
trasferendo 15 uomini (6 mediante la scialuppa poppiera di sinistra e
9 su una barca del Grimsby)
sul Grimsby.
Circa due ore dopo lo scafo della Pericles,
indebolito dai danni causati dall’attacco di Suda, si spezzerà in
due 35 miglia a nordovest di Alessandria e sarà abbandonato dal
resto dell’equipaggio (dieci uomini, comandante compreso), nella
motolancia di sinistra (anche loro saranno recuperati dal Grimsby
e sbarcati ad Alessandria il 15 aprile); i due tronconi, rimasti a
galla, verranno finiti a cannonate nel pomeriggio dal Grismby,
da un cacciatorpediniere e da un aereo. Il troncone prodiero sarà
duro a morire, richiedendo ben 70 colpi di cannone, due siluri e due
bombe d’aereo prima di inabissarsi.
Viene
talvolta affermato che altre due navi mercantili sarebbero state
danneggiate (oppure una nave mercantile di 12.000 tsl; c’è chi
parla persino di tre mercantili per complessive 32.000 tsl), avendo
Barberi ritenuto di aver colpito una seconda petroliera (affermerà
nel suo rapporto di aver osservato l’indomani mattina
«l’incrociatore
(…) terribilmente sbandato
e appoppato, una cisterna era scomparsa riempiendo la baia di nafta,
un’altra cisterna era anch’essa colpita e sbandata ma ancora
galleggiante»), ma di
questo non vi è conferma nella documentazione britannica, che parla
di due esplosioni pressoché simultanee su York
e Pericles
seguite poco dopo da tre esplosioni nel porto che non avrebbero
interessato alcuna nave.
Tutti
e sei i piloti dei barchini, che dopo gli attacchi si sono messi a
nuotare verso il punto di riunione, vengono catturati dai britannici
entro le sette del mattino, come del resto preventivato fin
dall’inizio, e condotti al comando di polizia della Canea, da dove
saranno poi trasferiti alle quattro del pomeriggio dello stesso 26
marzo nel forte di Paleocastro, in celle separate, e poi avviati alla
prigionia in Egitto e Palestina; tutti saranno decorati con la
Medaglia d’Oro al Valor Militare e Tedeschi, De Vito, Beccati e
Barberi saranno anche promossi. Riceveranno invece la Medaglia
d’Argento al Valor Militare il comandante Ferruta del Crispi
(con motivazione «Comandante
di sezione di cacciatorpediniere destinata a trasportare mezzi
speciali d’assalto all’imboccatura di munita base navale, portava
a vittorioso compimento l’azione nel corso della quale, lanciate
verso il loro destino di gloria le imbarcazioni, venivano distrutti
un incrociatore e due navi avversarie. Rientrava poi alla base
sfuggendo con perizia e sicurezza a tutte le insidie. Esempio di
audace determinazione e di elevate virtù militari»)
ed il collega Redaelli del Sella.
Il bollettino di guerra 294 del 28 marzo annuncerà: “Nella
notte sul 26 marzo, mezzi navali d'assalto della Regia Marina sono
penetrati nella baia di Suda (Creta) e vi hanno attaccato forze
navali e trasporti alla fonda, infliggendo gravi perdite al nemico.
Una nave da guerra nemica è affondata”.
I
britannici, pensando a torto che i barchini siano stati rilasciati da
un sommergibile, inviano i cacciatorpediniere Hasty
ed Ilex
a dare la caccia all’inesistente unità subacquea al largo della
baia di Suda.
L’attacco
a Suda costituisce il primo successo della X Flottiglia MAS, oltre
che la prima operazione effettuata dal suo reparto di superficie; il
giorno seguente, dopo aver esaminato i risultati di nuove
ricognizioni aeree condotte sulla baia di Suda, l’ammiraglio
Biancheri comunicherà a Supermarina ed a Mussolini che sono stati
affondati un incrociatore e “uno o più” mercantili.
L’ammiraglio
Cunningham commenterà in merito nelle sue memorie: “Fu
proprio a Suda che, nelle
prime ore del 26 marzo, ricevemmo un duro colpo allorchè il porto
venne attacco da sei veloci motoscafi esplosivi.
L’incrociatore York fu gravemente danneggiato e, con i
locali caldaie e macchina allagati, dovette essere portato a secco.
Non aveva vapore né forza per esaurire l’acqua , per
l’illuminazione o per brandeggiare le torri. Anche la
cisterna Pericles fu colpita ed ebbe uno squacio a metà
nave, quantunque la parte maggiore del prezioso carico non venisse
perduta. Il nostro unico incrociatore con cannoni da 203 era
dunque fuori combattimento: ancora una volta dovemmo scontare la pena
per l’insufficiente difesa di una base navale (…)
Mi ha sempre meravigliato
quanto gli italiani siano bravi in questo tipo di attacchi
individuali. Hanno certo uomini capaci delle più valorose imprese”.
.jpg)
.jpg)
Alcune
immagini del relitto dello York,
scattate nella primavera-estate del 1941 (nell’ordine: da
www.anmicarrara.it,
www.passionepaneraiwatch.forumfree.it,
Coll. Pierre Kosmidis, ed Archivio Centrale dello Stato)
29-30
aprile 1941
La sera
del 29 il Crispi
(capo formazione, capitano di fregata Ugo Ferruta) e le torpediniere
Libra
e Lince salpano
da Lero per intercettare il convoglio britannico «GA. 15», partito
da Suda alle 11 del 29 aprile e diretto ad Alessandria con 6232
militari e 4699 tra infermiere, prigionieri italiani, civili, feriti
leggeri, personale della RAF e della Royal Navy, marittimi della
Marina Mercantile e personale consolare evacuato dalla Grecia. Si
tratta degli ultimi britannici evacuati dalla Grecia (quella a Suda è
stata una sosta intermedia), nell’ambito dell’operazione "Demon":
il loro imbarco è avvenuto nella confusione più completa, mentre i
combattimenti infuriavano a pochi chilometri dalle spiagge.
Formano
il convoglio i
mercantili Delane, Thurland Castle, Comliebank, Corinthia (unico
greco, gli altri sono tutti britannici), Itria e Ionia e la
nave cisterna militare Brambleleaf,
scortati dall’incrociatore antiaereo Carlisle (capitano
di vascello Thomas Claud Hampton), dai
cacciatorpediniere Kandahar (capitano
di fregata William Geoffrey Arthur Robson), Kingston (capitano
di corvetta Philip Somerville), Decoy (capitano
di fregata Eric George McGregor) e Defender (capitano
di corvetta Gilbert Lescombe Farnfield), dallo
sloop Auckland (capitano
di fregata John Graham Hewitt) e dalla corvetta Hyacinth (tenente
di vascello Frank
Clifford Hopkins), con l’appoggio della Forza B costituita dagli
incrociatori leggeri Orion (nave
ammiraglia del viceammiraglio Henry
Pridham-Wippell), Ajax, Perth e Phoebe e
dai cacciatorpediniere Nubian, Hasty ed Hereward.
Da Alessandria ha preso il mare per fornire copertura al convoglio,
alle tre del pomeriggio del 29 aprile, anche il grosso della
Mediterranean Fleet, al comando del contrammiraglio Bernard Rawlings:
la compongono le corazzate Valiant e Barham,
la portaerei Formidable ed
i
cacciatorpediniere Stuart, Greyhound, Vendetta, Vampire, Voyager e Waterhen.
Dopo
la partenza da Suda, il convoglio ha fatto rotta verso est a dieci
nodi in direzione del Canale di Caso; alle due del pomeriggio del 29
è stato raggiunto dalla Forza B, dopo di che ha doppiato Capo Sidero
(estremità nordorientale di Creta) ed imboccato il Canale di Caso
dopo il calare dell’oscurità. Pridham-Wippell ha deciso di passare
ad est di Creta perché tale rotta è più breve, anche se più
esposta ad eventuali attacchi italiani provenienti dal Dodecaneso:
ritiene infatti che dopo la pesante sconfitta subita un mese prima a
Capo Matapan, la Marina italiana non tenterà attacchi di superficie,
se non con sole siluranti nelle ore notturne.
Tra le 23.15 del
29 e le tre di notte del 30 Crispi,
Lince
e Libra effettuano
diversi attacchi siluranti contro il convoglio nel Canale di Caso. Il
Crispi lancia
due siluri senza successo contro un cacciatorpediniere, pur ritenendo
di aver probabilmente colpito; lo stesso fa la Libra,
che crede erroneamente di aver silurato una nave nemica, mentre
la Lince ritiene
di aver colpito con due siluri un grosso cacciatorpediniere. In
realtà, nessun siluro è andato a
segno. Nubian, Hasty ed Hereward reagiscono
con un intenso fuoco che mantiene a distanza gli attaccanti; sul lato
opposto anche il Decoy avvista
quella che ritiene essere una motosilurante ed apre il fuoco contro
di essa, ma questa si dilegua subito nell’oscurità. Dopo una
violenta azione di fuoco protrattasi per circa un’ora, alle tre di
notte le unità italiane riescono a disimpegnarsi ed allontanarsi.
Successivamente
il convoglio verrà attaccato di nuovo da cinque MAS, che saranno
però costretti a rinunciare all’attacco dalla violenta reazione
della scorta, che li inseguirà a lungo.
Nessuna unità, da ambo
le parti, è stata danneggiata; raggiunto alle sei del 30 aprile da
una forza di copertura che comprende le corazzate Valiant
e Barham,
la portaerei Formiable
e sei cacciatorpediniere, il convoglio raggiungerà Alessandria il 1°
maggio. I britannici crederanno di essere stati attaccati da
motosiluranti.
11
maggio 1941
Crispi,
Sella
ed alcune unità minori trasportano dal Dodecaneso a Sira le truppe
della 50a
Divisione Fanteria "Regina" destinate all’occupazione
dell’isola.
L’occupazione
delle Cicladi (oltre a Sira anche Amorgos, Anaphi, Ios, Naxos,
Pharos, Thera, Mitilene, Scio e Polikandros), in seguito alla resa
della Grecia, ha avuto inizio il 30 aprile e verrà completata
soltanto il 20 maggio: vi partecipano Crispi,
Sella,
MAS e varie unità minori ed ausiliarie, che, scrive la storia
ufficiale della Marina, «non
ebbero, si può dire, neppure un giorno di pace».
L’intenso traffico necessario all’occupazione di tutte le isole
non produce ad ogni modo incidenti di rilievo, e non subisce alcuna
perdita.
Maggio
1941
Durante la
battaglia di Creta (operazione "Merkur"), il Crispi
ed il Sella,
al pari delle altre unità navali alle dipendenze del Comando Forze
Armate dell’Egeo (le torpediniere Lupo,
Lince,
Libra
e Lira,
i MAS
520, 523, 536, 540, 542 e 546 e
quattro sommergibili), vengono messe a disposizione dell’ammiraglio
Karlgeorg Schuster, comandante navale tedesco in Egeo, per compiti di
scorta ed appoggio alla conquista di Creta, in seguito a richiesta
avanzata dai Comandi tedeschi al Comando Supremo italiano.
Partecipano inoltre, tra fine aprile ed inizio maggio,
all’occupazione delle isole minori situate a nord di Creta e lungo
la costa meridionale della Grecia.
22
maggio 1941
In seguito
a richiesta avanzata il pomeriggio precedente dall’alto comando
tedesco, il Crispi
(capo formazione) parte dal Pireo alle cinque del mattino
insieme al gemello Sella
ed alle torpediniere Lince,
Libra e Monzambano trasportando
truppe tedesche (alcuni battaglioni rinforzati di Gebirgsjäger, cioè
truppe alpine) dirette a Maleme (per altra fonte, a Candia od a
Suda), a rinforzo dei reparti che vi stanno già sostenendo duri
combattimenti nell’ambito dell’operazione «Merkur» per la
conquista dell’isola (dopo che il giorno precedente altri due
convogli di caicchi diretti a Creta, carichi di truppe tedesche e
scortati dalle torpediniere Lupo e Sagittario,
sono l’uno semidistrutto e l’altro costretto al rientro da
attacchi britannici). La situazione a Candia, per le forze tedesche,
è critica, e da parte tedesca è stato richiesto a Marisudest (il
Comando Gruppo Navale Italiano dell’Egeo Settentrionale) che le
cinque navi, che dopo la partenza dal Pireo hanno assunto rotta verso
sud, sbarchino le truppe in aperta spiaggia, nelle vicinanze di
Maleme, dove i tedeschi sono più in difficoltà.
Alle 8.15,
però, l’avvistamento, da parte della ricognizione aerea, di una
grossa formazione navale britannica – la Forza D – composta da
quattro incrociatori leggeri (Naiad, Perth, Carlisle e Calcutta)
e tre cacciatorpediniere (Nubian, Kandahar e Kingston),
le stesse navi nelle quali sta per imbattersi il convoglio
della Sagittario (che
grazie alla reazione della torpediniera si porrà in salvo al
completo, ricevendo però ordine di rientro), costringe ad ordinare
alle cinque navi di tornare in porto. Subito dopo l’inversione di
rotta, alle 8.45, le unità vengono anche accidentalmente attaccate
da una formazione di bombardieri in picchiata Junkers Ju. 87 “Stuka”
dello St.G.2 della Luftwaffe, che le scambiano per nemiche:
il Sella viene
di poco mancato da una bomba, che cade in mare qualche metro a
poppavia sulla dritta, e viene poi anche mitragliato dallo stesso
aereo che ha sganciato l’ordigno, subendo lievi danni ma diverse
perdite tra l’equipaggio (tre morti e 15 feriti) e le truppe
tedesche imbarcate (due morti e 17 feriti).
(Secondo
il libro "Target Corinth Canal" di Platon Alexiades,
invece, soltanto il Sella sarebbe
tornato indietro, a causa dei danni causati dagli Stukas; il Crispi e
le altre navi sarebbero invece proseguite verso Creta, giungendo a
destinazione senza ulteriori inconvenienti).
28
maggio 1941
Il Crispi
(caposcorta, capitano di fregata Ugo Ferruta) viene assegnato insieme
alle torpediniere Lince,
Libra
e Lira
ed a sei MAS (MAS
520, MAS
523, MAS
536, MAS
540, MAS
542, MAS
546), alla scorta di un
convoglio incaricato di trasportare a Creta il corpo di spedizione
italiano (il I e II Battaglione del 9° Reggimento Fanteria della
50a Divisione
Fanteria "Regina", al comando rispettivamente dei maggiori
Alessandro Ruta e Francesco Lillo; due compagnie della Regia Marina;
un drappello di carabinieri; un reparto di camicie nere; la 3a
Compagnia Carri L3/35 del CCCXII Battaglione Meccanizzato Misto
dell'Egeo con un totale di tredici carri armati leggeri L3/35; la 50a
Compagnia Cannoni Controcarro da 47/32 mm con un totale di sei
cannoni M35 di tale calibro; una compagnia mortai da 81 mm con un
totale di 6 mortai Mod. 35 da 81/14 mm; un plotone di fanti di Marina
del Reggimento "San Marco"; in totale 2585 uomini
dell’Esercito e 500 della Marina con equipaggiamenti, viveri e
munizioni per cinque giorni, tra 205 e 400 muli a seconda delle
fonti, due automobili Fiat 508C, due autocarri SPA Dovunque 35, nove
motociclette Moto Guzzi, sei cannoni Mod. 13 da 65/17 mm, 46
mitragliatrici Fiat-Revelli Mod. 35 da 8 mm, 18 mortai Brixia Mod. 35
da 45 mm) inviato sull’isola per dare manforte alle truppe tedesche
impegnate da giorni in duri combattimenti contro le truppe del
Commonwealth, che stanno perdendo terreno ma hanno inflitto
pesantissime perdite agli invasori: l’invio di questo corpo di
spedizione, al comando del colonnello Ettore Caffaro del 9°
Fanteria, è stato deciso da Mussolini quando le sorti della
battaglia apparivano ancora incerte, ed è stato accettato dai
tedeschi nella speranza che possa distrarre, se non truppe Alleate,
quanto meno i partigiani cretesi che hanno preso a loro volta le
armi contro gli invasori.
La possibilità di un intervento
italiano è stata prospettata per la prima volta in una
riunione tenutasi ad Atene il 22 maggio, presso il comando della 4.
Luftflotte, alla presenza del generale Alexander Löhr (comandante la
4. Luftflotte), dell’ammiraglio Schuster, del capitano di vascello
Corso Pecori Giraldi (comandante di Marisudest) e del tenente di
vascello Fellner, ufficiale di collegamento tedesco presso il
Comando Forze Armate dell’Egeo (Egeomil). Fellner, giunto in aereo
da Rodi, ha chiesto a Pecori Giraldi di interessarsi per una
partecipazione italiana alla battaglia di Creta, da concretizzarsi
mediante uno sbarco nella parte orientale dell’isola da attuarsi
con truppe e mezzi prelevati dal Dodecaneso. La proposta ha
incontrato l’iniziale perplessità di Pecori Giraldi, preoccupato
dalla continua presenza di consistenti forze navali britanniche nelle
acque in cui si dovrebbe svolgere lo sbarco.
Durante
la riunione l’ammiraglio Schuster ha anche espresso il suo
dispiacere per dover “restituire” ad Egeomil le unità navali
ricevute “in prestito” (Crispi,
Sella,
Lupo, Lince, Libra
e Lira),
necessarie al Comando dell’Egeo per scortare i suoi convogli, ed il
generale Löhr ha detto che “la
situazione delle truppe a Creta non è chiara e pertanto l’intervento
italiano sarebbe assai gradito”,
augurandosi “che possa
verificarsi entro il minor tempo possibile”.
La sera del 22 maggio Egeomil ha ricevuto un telegramma dal capo di
Stato Maggiore generale, generale Ugo Cavallero, con la richiesta
“Telegrafate se ritenete
possibile partecipare operazioni Mercurio con un Reggimento fanteria
rinforzato aut con forze maggiori alt Caso affermativo prendere
diretti accordi con comando tedesco alt scegliete i migliori reparti
che debbono in questa occasione tenere alto come sempre prestigio
nostra bandiera alt Cavallero”;
l’indomani il generale Ettore Bastico, governatore del Dodecaneso,
ha risposto di aver già detto a Fellner che per un’operazione del
genere occorrerebbe sguarnire le difese del Dodecaneso, dal momento
che in caso contrario non sarebbero disponibili che due battaglioni
rinforzati di fanteria. Bastico ha anche ribadito che la presenza
della flotta britannica renderebbe l’operazione difficile e
rischiosa, e che sarebbe meglio aspettare prima che la situazione
migliori a favore dei tedeschi; ma ciò vanificherebbe il senso
stesso dell’intervento italiano, richiesto urgentemente dai
tedeschi proprio per migliorare la difficile situazione. Cavallero ha
risposto la sera stessa del 23 maggio ordinando a Bastico di
procedere con la spedizione mediante due battaglioni di fanteria
rinforzati e da servizi, prendendo accordi diretti con i Comandi
tedeschi; il 24 maggio Egeomil ha informato il Comando della 4.
Luftflotte che il corpo di spedizione italiano, che dopo lo sbarco
passerà alle dirette dipendenze del Comando tedesco, sarà composto
da 80 ufficiali, 2200 tra sottufficiali e soldati, dodici cannoni da
47/32; una batteria di cannoni da 65/15, sei mortai, tredici carri
armati L. 13, sette automezzi, 226 quadrupedi, cinque giornate di
viveri e munizioni e tre tonnellate di carburante. Il 25 maggio
Bastico, su richiesta di Cavallero, ha riferito al Comando Supremo
che il corpo di spedizione partirà da Rodi alle 18 del 27, per
sbarcare nel pomeriggio del 28 nella baia di Sitia (la più orientale
della costa settentrionale di Creta, a quindici miglia da Capo
Sidero) da dove le truppe avanzeranno poi verso sudovest per occupare
Ierapetra, come richiesto dai tedeschi, che vogliono così evitare un
possibile sbarco di truppe britanniche in quella zona. (La scelta di
sbarcare nel primo pomeriggio, anziché all’alba come abituale per
gli sbarchi, è stata dettata dall’esigenza di fare il modo che il
convoglio si trovi nel Canale di Caso ad un’ora in cui la
ricognizione aerea potrà garantire che il Mediterraneo orientale sia
libero da naviglio nemico). Bastico ha anche sollecitato Cavallero ad
inviare altre unità navali per rimpiazzare le unità danneggiate nei
giorni precedenti, come il Sella e
la Lupo,
ma il capo di Stato Maggiore generale ha risposto il 26 che
“Imprescindibili necessità
operative degli altri scacchieri impediscono attuale sostituzione o
rinforzo vostre unità navali. Sono certo che Comandanti Ufficiali ed
equipaggi sapranno supplice con volontà e l’animo alla scarsità
dei mezzi”. Non molto
migliore è stata la risposta alla richiesta di Bastico, avanzata il
23 maggio, di ricevere rinforzi di aerei d’attacco e da caccia:
sono stati inviati a Rodi soltanto sei bombardieri CANT Z. 1007
bis.
(Ciò secondo lo storico Francesco Mattesini; secondo il
volume USMM "La difesa del traffico con l’Albania, la Grecia e
l’Egeo", invece, l’idea di una partecipazione di truppe
italiane alla battaglia di Creta sarebbe stata inizialmente avanzata
dai comandanti della Marina e dell’Aeronautica del Dodecaneso,
ammiraglio Luigi Biancheri e generale Ulisse Longo, raccogliendo
subito il consenso del locale comando dell’Esercito e del
governatore Bastico. I comandi tedeschi, cui venne offerta la
partecipazione delle truppe del Dodecaneso il 21 maggio, avrebbero
inizialmente respinto tale proposta, salvo poi mutare del tutto
avviso in seguito al fallimento dei tentativi d’inviare a Creta
truppe via mare ed all’aggravarsi della situazione delle truppe
paracadutate ed aerotrasportate impegnate nei combattimenti, finendo
col sollecitare l’invio di rinforzi da parte italiana il 26 maggio.
“ULTRA”
doveva avere intercettato delle comunicazioni relative alle iniziali
proposte di partecipazione italiane, visto che già il 22 maggio,
prima ancora che venissero accettate, segnalò ai Comandi britannici
che un reggimento italiano sarebbe probabilmente sbarcato a Capo
Sidero).
Il 25 maggio è stata condotta un’esercitazione di
sbarco a Rodi con esiti tutt’altro che soddisfacenti, ma si è
deciso di procedere ugualmente.
L’eterogeneo ed improvvisato
convoglio, salpato da Rodi alle 17 del 27 maggio al comando del
capitano di vascello Aldo Cocchia (che in un volo di ricognizione
condotto personalmente il 26 maggio ha scelto la zona dello sbarco),
è formato dai una moltitudine di piccole unità frettolosamente
racimolate nel Dodecaneso ed adattate alla meglio: i piroscafetti
costieri Giorgio
Orsini e Tarquinia,
il piroscafetto lagunare Giampaolo,
i rimorchiatori Aguglia ed Impero,
il piroscafo fluviale Porto
di Roma (trasformato
in nave da sbarco carri armati), le piccole motonavi
frigorifere Assab ed Addis
Abeba, i
motopescherecci Sant'Antonio, San Giorgio, Plutone e Navigatore,
la piccola nave cisterna Nera ed
i cisternini portuali CG
89 e CG
167.
Il capitano di vascello Cocchia, nelle sue memorie, descriverà
questa improvvisata flottiglia come “insieme
eterogneo e pittoresco del quale facevano parte navi mercantili
requisite, altre noleggiate, alcune iscritte regolarmente nei quadri
del R. Naviglio, certo le più modeste e le più brutte navi che
abbiano mai solcato i mari”;
la storia ufficiale dell’USMM non si esprime molto diversamente:
“…un convoglio che era
quanto di più vario, raccogliticcio ed “arrangiato” si potesse
immaginare: i gazolini [motopescherecci], lenti
e di scarsa capienza; le due [navi] frigorifere,
di discreto tonnellaggio, utilizzabili solo in coperta essendo le
stive suddivise in celle; il vaporetto lagunare, dotato, sì, di un
cannone da 76, ma inadatto alla navigazione in mare aperto; la
cisterna, piccolissima e anch’essa inadatta al mare aperto; i due
rimorchiatori requisiti, lenti e privi di stive. Ottimi invece i due
piroscafetti, l’Orsini ed il Tarquinia (…) Ottima
anche la nave fluviale, il Porto di Roma, sulla quale furono
imbarcati i carri armati leggeri. Da tenere inoltre presenti le
mancanze o insufficienze di locali adatti al riparo delle truppe (la
navigazione richiedeva circa 24 ore), di servizi igienici, di cucine,
e infine, di mezzi di comunicazione R.T. tra nave e nave”.
La
decisione di impiegare questi mezzi è stata presa in considerazione
del fatto che navi di grande tonnellaggio, oltre ad essere più
vulnerabili, dovrebbero fermarsi al largo della costa e trasbordare
truppe e materiali sulle imbarcazioni per effettuare lo sbarco;
pertanto si è preferito utilizzare navicelle in grado di portarsi
direttamente all’incaglio sulla spiaggia, onde sbarcare più
rapidamente truppe e mezzi corazzati. Le unità prescelte sono state
racimolate e concentrate a Rodi in sole quarantott’ore – questo
il tempo intercorso tra la decisione di agire e l’ora fissata per
la partenza del convoglio – dal locale Comando della Zona Militare
Marittima; ad ognuna di esse è stato assegnato un ufficiale di
Marina come comandante militare. L’unità più “grande” è
il Tarquinia,
di 749 tsl; la più piccola il Plutone,
di 50 tsl. Per la scorta, non essendo disponibili Sella e Lupo che
necessitano di riparazioni, sono state scelte le unità restituite
dal Comando Marina Sud-Est: Libra, Lince, Lira e Crispi,
insieme ai sei MAS ed alla torpediniera Aldebaran,
momentaneamente trasferita da Marisudest per disposizione del Comando
tedesco.
Data
la scarsa efficienza delle unità di scorta, e ritenendo che il
rischio di un attacco navale britannico sia maggiore nelle ore
notturne, è stato deciso che la navigazione del convoglio da Rodi a
Sitia dovrà avvenire in modo da attraversare il Canale di Caso di
giorno, in modo da fruire della protezione dell’Aeronautica
dell’Egeo e della Luftwaffe, con arrivo previsto a Sitia per le 16
del 28 maggio, dopo 137 miglia di navigazione (seguendo una rotta
diretta il tragitto sarebbe di 122 miglia, ma l’ammiraglio
Biancheri, in considerazione delle condizioni dei natanti, ha
ritenuto più opportuno far costeggiare al convoglio le isole di Caso
e Scarpanto per tutta la loro lunghezza, a costo di allungare il
percorso di 15 miglia). La scelta di sbarcare le truppe all’estremità
orientale di Creta (la più vicina al Dodecaneso), benché la
battaglia si stia svolgendo nella parte occidentale, è dovuta alla
necessità di ridurre al minimo la lunghezza della navigazione, data
la scarsa adeguatezza dei mezzi scelti ad una lunga navigazione con
truppe a bordo. Le navi sono state munite di passerelle di sbarco ed
adattate alla meglio per la bisogna; i soldati – imbarcati insieme
all’equipaggiamento tra le 6 e le 18 del 27 maggio – sono
sistemati dove c’è spazio in coperta, con i salvagente indosso,
senza adeguati servizi igienici.
Il Crispi e
le tre torpediniere raggiungono il convoglio all’alba del 28, al
largo dell’isola di Saria (estremità settentrionale di Scarpanto,
vicino all’imbocco del Canale di Caso), passando quindi alle
dirette dipendenze del capitano di vascello Cocchia; la notte
precedente l’hanno trascorsa incrociando nel Canale di Scarpanto,
insieme all’Aldebaran.
Dall’alba
gli aerei dell’Aeronautica dell’Egeo conducono meticolose
ricognizioni a nord ed a sud di Creta, fino al Canale di Caso, a Suez
e ad Alessandria; in tutto vengono impiegati ben quattordici
aerosiluranti Savoia Marchetti S.M. 79 “Sparviero”, due S. 84 e
due CANT Z. 1007 bis del 41°, 50° e 92° Gruppo. Al contempo, 23
caccia italiani FIAT CR. 42 e caccia tedeschi Messerschmitt Bf 110
dello ZG. 26, partendo dalle basi di Rodi e Scarpanto, vigilano sul
convoglio (e successivamente sull’area dello sbarco), mentre tutti
i rimanenti aerei del Dodecaneso – caccia, bombardieri ed
aerosiluranti – sono tenuti pronti nelle basi a decollare su
allarme.
Il tempo è buono, sebbene soffi un vento di maestrale
piuttosto teso; il convoglio procede con grande lentezza, a soli
7-7,5 nodi di velocità media (durante la notte precedente, solo 5-6
nodi a causa del forte vento), e per omogeneizzare ed aumentare la
velocità le unità più lente vengono prese a rimorchio da quelle
più veloci (nel primo pomeriggio del 28, perciò, la Lince riceve
l’ordine di prendere a rimorchio la nave più lenta del convoglio,
onde ottenere un pur minimo incremento della bassissima velocità).
Anche i MAS
536 e 542,
partiti insieme al convoglio (gli altri quattro si uniranno invece ad
esso nel pomeriggio del 28, dopo un agguato nel Canale di Caso che
hanno dovuto lasciare a causa delle avverse condizioni del mare),
vengono presi a rimorchio dall’Orsini,
per risparmiare carburante.
Si
intende portare la velocità ad otto nodi, per raggiungere Creta
prima di incappare in una forza britannica di tre incrociatori e sei
cacciatorpediniere – segnalata alle 13.10 dalla ricognizione aerea,
in navigazione lungo la costa settentrionale di Creta e diretta a
tutta forza verso nordovest, ossia verso il Canale di Caso (per altra
versione, alle 12.37 secondo la ricognizione si trovava 145 miglia a
sudest di Scarpanto) – che entro le 17 potrebbe raggiungere la
formazione italiana davanti a Sitia: si tratta della Forza B
britannica, al comando dell’ammiraglio Henry Bernard Hughes
Rawlings e composta dagli incrociatori leggeri Ajax,
Orion
e Dido
e dai cacciatorpediniere Jackal,
Imperial,
Havock,
Hotspur,
Hereward,
Decoy
e Kimberley,
proveniente da Alessandria e diretta ad Heraklion per imbarcare
truppe britanniche da evacuare.
Per
accorciare la rotta, essendo il convoglio in ritardo (causa la
lentezza delle operazioni di partenza e la bassa velocità tenuta
durante la notte: seguendo le rotte costiere prescritte, si
giungerebbe a Sitia non prima del tramonto), il capitano di vascello
Cocchia decide di tagliare rispetto a quella prevista, evitando di
costeggiare Caso e Scarpanto e facendo rotta diretta da Saria a Sitia
alla massima velocità possibile (cioè, appunto, otto nodi),
riducendo così la lunghezza del percorso da 137 a 122 miglia.
Mancando la maggior parte delle unità da sbarco di apparecchiature
radio, i MAS fungono da collegamento, portando gli ordini da un’unità
all’altra della bizzarra flottiglia. Qualcuna delle imbarcazioni
più lente, rimaste in posizione arretrata, devia verso l’isola di
Caso; raggiungeranno Creta l’indomani.
Alle
14 il Crispi viene
distaccato con il compito di precedere il convoglio e distruggere a
cannonate il faro e la stazione di Capo Sidero, per evitare che
possano dare l’allarme; alle 15.45 dello stesso 28, quando il
convoglio è giunto in vista di Capo Sidero e della baia di
Sitia, Libra, Lince e Lira vengono
richiamate per ordine superiore per essere destinate ad un nuovo
incarico, lasciando così il convoglio con la scorta del solo Crispi,
che è intanto di ritorno dalla sua missione, e dei MAS. (Secondo un
articolo di Aldo Cocchia sulla “Rivista Marittima” del luglio
1951, invece, il Crispi
avrebbe lasciato la formazione alle 16, avendo ricevuto da Rodi
ordine di bombardare il faro di Capo Sidero, e si sarebbe riunito ad
essa alle 16.15). Alle 16 il convoglio passa al largo delle rovine
del faro di Capo Sidero, ed il capoconvoglio Cocchia ordina un ultimo
aumento di velocità mentre diviene visibile la baia di Sitia; alle
16.45 Cocchia ordina al convoglio di aprirsi a ventaglio e le
navicelle lo eseguono, mollano i rimorchi e si dirigono verso la
spiaggia, mentre il Crispi
prende posizione per cannoneggiare con le sue artiglierie da 120 mm
gli eventuali focolai di resistenza (non sarà necessario), rimanendo
sulle macchine. Alle 16.50 Cocchia ordina alle navicelle di portarsi
ad incagliare; dieci minuti dopo Orsini,
Tarquinia,
Assab,
Porto di Roma,
Sant'Antonio
e Navigatore
vanno ad incagliarsi i spiaggia, mentre il Giampaolo
si ormeggia all’unico pontiletto in legno. Anche le altre unità
del convoglio raggiungono poi la spiaggia, mentre i MAS si dispongono
in agguato all’imboccatura della baia; ultime a giungere sono
Plutone
e G.S.
170,
rimorchiate da Assab
ed Addis Abeba.
Lo
sbarco avviene senza incidenti e senza contrasto; per primi giungono
a terra i marinai delle compagnie da sbarco (al comando del tenente
di vascello Cruciani) ed i carri armati, che occupano subito i
capisaldi prestabiliti, poi le altre truppe dell’Esercito, usando
le imbarcazioni e, sui motopescherecci, delle specie di “rostri”
realizzati appositamente per agevolare lo sbarco di truppe. I
motopescherecci fanno la spola tra le navi più grandi, incagliatesi
a maggior distanza dalla riva, ed il pontile, traghettandovi truppe e
materiali.
Il
colonnello Caffaro ed il suo stato maggiore scendono a terra con le
prime truppe ed organizzano rapidamente la testa di sbarco.
Alle
17.20 le truppe sono tutte sbarcate (i muli vengono gettati in mare e
raggiungono la riva a nuoto, mentre le operazioni di sbarco del
materiale proseguiranno per tutta la notte, concludendosi quattordici
ore dopo); i marinai del sottotenente di vascello Cruciani entrano
per primi a Sitia occupando i locali del telefono e del telegrafo,
seguiti dalle truppe dell’Esercito che completano l’occupazione
del villaggio, per poi dirigere verso la cresta delle colline che
dominano la baia e la strada per Iraklion. La guarnigione greca,
composta da circa 200 soldati armati di armi automatiche, oppone una
debole resistenza e viene facilmente sbaragliata con l’appoggio dei
carri L della 3a
Compagnia del CCCXII Battaglione, che irraggiatisi a ventaglio dopo
lo sbarco raggiungono e neutralizzano i nidi di mitragliatrici che
fanno fuoco sulle truppe italiane. Vengono così catturati un
centinaio di prigionieri, insieme a parecchio materiale. A questo
punto il Crispi,
non essendo più necessario, viene lasciato libero da Cocchia.
I
carri L3 vengono poi mandati in avanscoperta verso ovest, mentre il
grosso delle truppe si raggruppa a nordovest del paese.
Le
navi britanniche segnalate dai ricognitori saranno attaccate dalla
Luftwaffe nel Canale di Caso verso le 18, due ore dopo il transito
del convoglio italiano che è così scampato di stretta misura a
sicura distruzione.
Le
truppe italiane inizieranno la loro avanzata verso l’interno a
mezzogiorno del 29 maggio, puntando verso Ierapetra, cittadina
situata all’estremità meridionale di Creta, un centinaio di km a
sudovest di Sitia: a Chamairi incappano in un pattuglione greco che
catturano subendo per contro due morti tra le proprie fila, dopo di
che non viene incontrata ulteriore resistenza all’infuori di
qualche sporadica scaramuccia con i partigiani, facilmente respinti.
L’avanzata avviene su due colonne, precedute dalla compagnia carri
L e dalle automobili con a bordo nuclei armati di mitra; la sera del
29 maggio i carri L3 (maggioRe
Alessandro Ruta) entrano ed
Exo Mouliana ed alle sette di sera del 30, dopo aver marciato per 60
km in due giorni su strade malmesse e sotto il sole cocente (il
colonnello Caffaro ha ordinato di proseguire l’avanzata anche con
il buio, fino al raggiungimento dell’obiettivo), incontrano il
primo reparto tedesco (55a
Sezione Motociclisti) al bivio di Ierapetra, dove le truppe italiane
entreranno il giorno seguente, ponendosi a disposizione del
comandante della 5. Gebirgsdivision tedesca, generale Julius Ringel.
L’incontro avviene, secondo i resoconti dell’epoca, con
«cordialità
e cameratismo»;
il comandante del reparto tedesco è sorpreso dalla presenza di
truppe italiane nella zona.
28-29
maggio 1941
Durante
la notte tra il 28 ed il 29 il Crispi,
insieme alla torpediniera Aldebaran
ed a sei MAS, rastrella le acque del Canale di Caso.
Il
mattino del 29 maggio, in seguito alla segnalazione di una nave
nemica danneggiata al largo di Capo Sidero, il Crispi
e l’Aldebaran
vengono fatti salpare alle sette da Alimnia per ordine
dell’ammiraglio Biancheri (contemporaneamente, prendono il mare i
sei MAS da Caso) per intercettarla e finirla. Poco dopo la partenza,
tuttavia, l’Aldebaran
deve tornare in porto per avaria.
La
nave danneggiata è il cacciatorpediniere britannico Hereward,
colpito da bombardieri tedeschi Ju 87 “Stuka” del
III./Sturzkampfgeschwader 2 mentre evacuava truppe da Heraklion:
primi a giungere sul posto sono i MAS, ma prima che questi possano
attaccare, alle 6.45 l’Hereward
esplode ed affonda in posizione 35°20' N e 26°20' E, due miglia a
nord-nord-est di Plaka (Creta; per altra fonte, cinque miglia a sud
di Creta). Il Crispi,
giunto sul posto poco più tardi, recupera la maggior parte dei
naufraghi, mentre altri vengono salvati dai MAS; in tutto vengono
salvati e conseguentemente fatti prigionieri 229 uomini, tra cui 89
membri dell’equipaggio dell’Hereward,
su un totale di 165 membri dell’equipaggio e 450 truppe imbarcate
(per altra versione, “la maggior parte” delle truppe sarebbe
stata tratta in salvo). Tra i superstiti è il comandante, tenente di
vascello William James Munn, mentre tra le vittime vi sono 48 soldati
australiani, tra cui il giocatore di football australiano Leo “Gus”
Young. Alcuni naufraghi passano fino a cinque ore in acqua o su
zattere.
%20e%20Tagliamento%20ad%20Iraklion%20giugno%201941%20(Giorgio%20Parodi).jpg) |
| Il Crispi, sulla sinistra, ed il piroscafo Tagliamento ad Iraklion (Creta) nel giugno 1941 (g.c. Giorgio Parodi, via www.naviearmatori.net) |
30
giugno 1941
Il
capitano di fregata Ferruta lascia il comando del Crispi.
3
luglio 1941
Il
Crispi
scorta da Corinto a Rodi le motonavi Calino
e Calitea.
11
luglio 1941
Il
Crispi
scorta il piroscafo Casaregis
e la motonave Città di
Alessandria da Samo ad
Istmia.
17
luglio 1941
Il
Crispi
scorta il piroscafo Sant'Agata
e le motonavi Città di
Alessandria e Città
di Bastia da Rodi ad
Istmia, via Samo.
4
agosto 1941
Il
Crispi
e l’incrociatore ausiliario Brioni
scortano i piroscafi Italia
ed Aventino,
aventi a bordo 1600 militari nonché merci civili e materiali vari,
dal Pireo a Rodi.
9
agosto 1941
Il
Crispi
scorta il piroscafo Casaregis
e la motonave Città di
Agrigento dal Pireo a Sira.
22
agosto 1941
Il
Crispi
scorta il piroscafo Triton
Maris, carico di materiali
vari italiani e tedeschi, dal Pireo a Salonicco.
Il
giornalista Rino Di Stefano riporta un episodio svoltosi al Pireo
nell’agosto 1941 ed avente per protagonista il sottotenente di
vascello Giuseppe Oriana: “Era
l'agosto del 1941 e Oriana, giovane ufficiale, era imbarcato sul
cacciatorpediniere Crispi, appena entrato nel porto del Pireo, ad
Atene. La città era sotto il controllo dei tedeschi che,
intenzionalmente, ne avevano affamato la popolazione. Letteralmente,
gli ateniesi avevano pochissimo cibo, né potevano procurarsene causa
l'oppressione tedesca. A bordo del Crispi, invece, i militari
italiani avevano vettovaglie in abbondanza. Tanto che, ad un certo
punto, i marinai organizzarono spontaneamente una raccolta di avanzi
che ogni sera mettevano in due grossi bidoni e portavano, di nascosto
dai tedeschi, in un ospizio di vecchi. Una sera, però, mentre era di
guardia Oriana, i marinai vennero bloccati dai tedeschi e gli altri
italiani a bordo, vedendo che i loro camerati erano in difficoltà,
scesero a terra pronti a menare le mani contro i tedeschi. Anche
perché, già da allora, racconta Oriana, tra i due gruppi non
correva buon sangue. In pratica, si stava verificando uno scontro
fisico tra militari alleati. Ciò che suscitò l'immediata reazione
di Oriana fu che alla scena assisteva, impassibile, un tenente della
Werhmacht che comandava il posto di guardia in porto. Oriana, che per
inciso superava il metro e novanta di altezza e aveva un fisico in
proporzione, si precipitò come una furia verso il tenente tedesco
intimandogli di lasciar passare i suoi marinai. L'altro, freddissimo,
gli rispose che aveva l'ordine di non stabilire contatti amichevoli
con la popolazione, ed estrasse la pistola dalla fondina
puntandogliela contro. Oriana, senza pensarci due volte, gli spostò
la mano armata e disse ai suoi uomini di passare oltre il blocco. I
marinai travolsero quindi lo sbarramento e caricarono i due bidoni su
un carro che un vecchietto, come ogni sera, portava all'ospizio. I
tedeschi non reagirono. La folla, invece, che dalla banchina aveva
assistito alla scena, scoppio in un fragoroso applauso verso gli
italiani. A quel punto i tedeschi caricarono i fucili e Oriana,
rendendosi conto che poteva finire male, diede ordine ai suoi uomini
di tornare a bordo. Ma non finì lì. L'indomani mattina Oriana tornò
a terra per controllare gli ormeggi della nave e ad un certo punto
sentì qualcuno dietro di lui. Si voltò e vide il tenente tedesco
della sera prima che, guardandolo dritto negli occhi, gli tendeva la
mano, senza dire una parola. Oriana capì e gliela strinse. Poi il
tedesco si voltò e se ne andò. Era il riconoscimento al coraggio e
al carattere dell'ufficiale italiano”.
 |
| Il sottotenente di vascello Giuseppe Oriana (La Spezia, 1915-Genova, 2007), qui ritratto nell’atto di ricevere la sua terza Croce di Guerra al Valor Militare dall’ammiraglio Raffaele De Courten, capo di Stato Maggiore della Marina, nel 1943. Entrato all’Accademia Navale di Livorno nel 1934 ed uscitone nel 1937 come guardiamarina, fu imbarcato brevemente sull’incrociatore pesante Gorizia e poi sulla nave idrografica Ammiraglio Magnaghi attiva in Mar Rosso nel 1938-1938, venendo promosso a sottotenente di vascello nel 1939. Dopo brevi imbarchi sui cacciatorpediniere Alvise Da Mosto e Daniele Manin ed un tirocinio d’artiglieria, nel dicembre 1939 fu imbarcato sul Crispi, sul quale si trovava allo scoppio della guerra, dapprima come direttore del tiro e poi come ufficiale di rotta. Partecipò sia alla riconquista di Castelrosso, per la quale fu insignito della Medaglia di Bronzo al Valor Militare, che alla missione contro Suda, che gli valse la prima della sue tre Croci di Guerra al Valor Militare (durante questa missione, in qualità di ufficiale di rotta, dovette assicurarsi che la nave seguisse la rotta prestabilita con la massima precisione, in modo da giungere nel punto esatto designato per il rilascio dei barchini). Nell’ottobre 1941, promosso a tenente di vascello, fu trasferito sull’incrociatore leggero Giuseppe Garibaldi, sul quale rimase fino alla fine della guerra. Proseguì la carriera anche nel dopoguerra, raggiungendo il grado di ammiraglio di squadra e ricoprendo tra gli altri gli incarichi di comandante dei cacciatorpediniere Aviere ed Impavido, del Collegio Navale Morosini di Venezia (di cui stilò il nuovo ordinamento), dell’Accademia di Livorno, della IV Divisione Navale e del Dipartimento Militare Marittimo dell’Alto Tirreno. Lasciato il servizio attivo nel 1978 per raggiunti limiti d’età, entrò in politica con la Democrazia Cristiana e fu eletto due volte al Senato, nel 1979 e nel 1983. Ritiratosi a vita privata nel 1987, alla sua morte venti anni più tardi venne sepolto in divisa da ufficiale di Marina, come aveva disposto nelle sue ultime volontà. |
8
settembre 1941
Il
Crispi
e la torpediniera Sirio
scortano le motonavi Calino
e Calitea,
aventi a bordo 1182 militari e 560 tonnellate di materiali vari e
derrate per la popolazione, dal Pireo a Rodi.
10
settembre 1941
Il
Crispi
scorta le motonavi Calino
e Calitea
da Rodi al Pireo.
16
settembre 1941
Crispi,
Sella
e l’incrociatore ausiliario Barletta
scortano le motonavi Città
di Savona e Città
di Marsala, il piroscafo
italiano Monrosa
ed il piroscafo tedesco Yalowa,
carichi di truppe e materiali italiani e tedeschi, dal Pireo a Suda.
19
settembre 1941
Alle
14.30 il sommergibile britannico Torbay
(capitano di corvetta Anthony Cecil Capel Miers) avvista a 9,3 miglia
per 020° a San Giorgio (nel Golfo di Atene) un convoglio di tre navi
mercantili, una delle quali ritenuta essere un incrociatore
ausiliario, scortate da due cacciatorpediniere ed alcuni aerei; si
avvicina a tutta forza per intercettarlo.
Le
navi avvistate dal Torbay
sono Crispi,
Sella
e Barletta
con le motonavi Città di
Marsala e Città
di Savona che
stanno scortando da Suda al Pireo.
Alle
15.10, a 9,6 miglia per 003° da San Giorgio, il Torbay
lancia quattro siluri da 3600 metri di distanza; sebbene Miers
ritenga di aver “forse” colpito con un siluro, nessuna delle armi
va a segno. Alle 15.15 il Crispi
avvista tre scie di siluri in posizione 37°45' N e 23°50' E, e
contemporaneamente un velivolo tedesco della scorta aerea
(appartenente al 126° Gruppo della Luftwaffe) lancia l’allarme nel
quadrante LQ 3846 (posizione 37°37.5' N e 23°55' E). La scorta
passa al contrattacco con il lancio di 14 bombe di profondità, ma il
Torbay
riesce ad allontanarsi indenne.
Il
convoglio arriva al Pireo alle 17.50.
%20e%20Calitea%20(SM).jpg) |
| Il Crispi a Rodi insieme alle motonavi Calino e Calitea (g.c. STORIA militare) |
23
settembre 1941
Alle
15 (per altra fonte, probabilmente erronea, alle 8.40) il
sommergibile britannico Torbay
avvista a dieci miglia per 350° dall’isola di Agios Georgios (al
largo del Golfo di Atene) due aerei in pattugliamento, e poco dopo
del fumo che si rivela ben presto provenire da un mercantile scortato
da un cacciatorpediniere: il mercantile è il grosso rimorchiatore di
salvataggio Cyclops,
mentre il cacciatorpediniere è il Crispi,
che lo sta scortando da Suda al Pireo.
Alle
16.40 il Torbay
accosta per passare ad ovest di Agios Georgios, con rotta diretta
verso la baia di Suda, e Miers si accorge che il Cyclops
è di modeste dimensioni, solo mille tonnellate (in realtà, meno
della metà), ma che sta rimorchiando una grossa chiatta, quindi
inizia ugualmente la manovra d’attacco; alle 17.15, a 11,4 miglia
per 340° da Agios Georgios, lancia due siluri che non vanno a segno,
dopo di che scende in profondità e viene sottoposto a caccia da
parte del Crispi,
senza subire danni.
Alle
19.11 il Torbay
riemerge a 5,7 miglia per 322° da Agios Georgios ed inizia ad
inseguire il piccolo convoglio a tutta velocità, sperando di trovare
il Cyclops
privo di scorta durante la notte; ma alle 20.05, quando lo avvista
nuovamente a 9,6 miglia per 197° da Agios Georgios, il Crispi
c’è ancora, pertanto rinuncia ad attaccare e dirige per rientrare
alla base.
29
settembre 1941
Crispi
e Barletta
scortano la motonave Città
di Agrigento ed il
piroscafo Padenna,
aventi a bordo 1700 tonnellate di carburante per l’Esercito e
l’Aeronautica italiane, dal Pireo a Rodi.
.jpg) |
| Il Crispi in Egeo nel 1941 (Coll. Augusto Del Toro, via g.c. STORIA militare) |
6
ottobre 1941
Il
Crispi
scorta la piccola motonave Tabarca
da Patrasso a Rodi.
7
ottobre 1941
Il
Crispi,
insieme alla torpediniera Cassiopea ed
all’incrociatore ausiliario Barletta,
scortano da Iraklion al Pireo il piroscafo Sant'Agata e
le motonavi Città di
Alessandria e Città
di Savona, cariche di
truppe e materiali.
11
ottobre 1941
Crispi e
Cassiopea
scortano dal Pireo a Rodi le motonavi Calino e Calitea,
con a bordo 120 civili e 1123 militari, nonché 500 tonnellate di
materiali e derrate per la popolazione.
12
ottobre 1941
Il
Crispi
scorta le motonavi Calino
e Calitea
da Rodi al Pireo.
15
ottobre 1941
Il
Crispi
scorta la Tabarca
dal Pireo a Lero.
20
novembre 1941
Il
Crispi
scorta Calino
e Calitea,
aventi a bordo 1194 militari, quadrupedi e 1600 tonnellate di
materiali e merci varie, dal Pireo a Rodi.
Secondo
l’Historisches Marinearchiv, poco dopo mezzogiorno il sommergibile
britannico Thorn
avrebbe avvistato il convoglio in uscita dal Golfo di Atene con rotta
verso sud, in posizione 37°42' N e 23°50' E, senza riuscire ad
attaccarlo perché in posizione sfavorevole. Tuttavia, Uboat.net
identifica invece il convoglio avvistato dal Thorn
come un altro, formato dalle motonavi Città
di Alessandria, Città
di Agrigento e Città
di Savona in navigazione
dal Pireo ad Heraklion con la scorta delle torpediniere Alcione
e Castelfidardo
e dell’incrociatore ausiliario Brioni.
23
novembre 1941
Il
Crispi
scorta Calino
e Calitea
da Rodi a Lero.
12
dicembre 1941
Il
Crispi
scorta da Rodi a Lero i piroscafi Vesta e Dubac.
13
dicembre 1941
Crispi,
Vesta
e Dubac,
ai quali si è aggiunto il piroscafo Ezilda
Croce,
lasciano Lero e raggiungono il Pireo.
16
dicembre 1941
Il
Crispi
scorta il piroscafo Goggiam
e la motonave Apuania
dal Pireo a Rodi.
Due
immagini del Crispi
ormeggiato al Pireo il 24 dicembre 1941 (g.c. Marcello Risolo, via
www.naviearmatori.net)
27
dicembre 1941
Il
Crispi
scorta il Goggiam
e la nave cisterna Arca
da Rodi a Lero.
2
gennaio 1942
Il
Crispi
e la nave scorta ausiliaria F
79 Morrhua
scortano i piroscafi Acilia,
Oreste
e Versilia,
carichi di materiali vari, dal Pireo a Rodi.
10
gennaio 1942
Il
Crispi
scorta la Calino
da Lero a Rodi.
13
gennaio 1942
Alle
3.50 il Crispi
riparte da Rodi scortando nuovamente la Calino
(comandante militare, tenente di vascello Nunzio Lo Faso), avente
adesso a bordo 200 ebrei da portare in Italia. Si tratta di 140
donne, 9 bambini e 51 malati, tutti provenienti dall’Europa
centrale ed orientale (polacchi, tedeschi, slovacchi, cechi,
ungheresi) e naufraghi del Penthco,
un vecchio e malandato piroscafo a ruote bulgaro incagliatosi e poi
naufragato sull’isolotto di Kamila Nisi il 9 ottobre 1940, durante
un travagliato viaggio da Bratislava alla Palestina con ben 520
persone, tra cui 512 ebrei, stipate a bordo in condizioni precarie.
I
naufraghi del Penthco erano
stati avvistati da aerei italiani, recuperati e trasportati a Rodi
già pochi giorni dopo il naufragio, e da allora erano vissuti
sull’isola, dapprima in una tendopoli e poi in una caserma,
risentendo però della scarsità di viveri disponibili nel
Dodecaneso: si è dunque deciso di trasferirli in Italia, dove
saranno internati nei campi di concentramento pugliesi di Alberobello
e Gioia del Colle.
Gli
uomini del Penthco,
rimasti inizialmente a Rodi, saranno trasferiti in Italia in un
secondo momento, a bordo del piroscafo Vesta.
Alle
9.45 dello stesso 13 gennaio Crispi
e Calino
arrivano a Lero.
20
febbraio 1942
Assume
il comando del Crispi
il capitano di fregata Gennaro Coppola, 42 anni, da Massalubrense.
23
febbraio 1942
Il Crispi
e la torpediniera Lira scortano
dal Pireo ad Iraklion il piroscafo Milano ed
il trasporto militare Cherso.
26
febbraio 1942
Crispi e
Lira
scortano la nave cisterna Cerere da
Iraklion a Lero.
4
marzo 1942
Alle
cinque il Crispi
ed il posamine Legnano
salpano da Lero scortando il piroscafo Vesta,
diretto al Pireo.
5
marzo 1942
Il
piccolo convoglio arriva al Pireo alle cinque.
.jpg) |
| Il Crispi al largo della costa occidentale di Lero nel 1942 (USMM) |
7
marzo 1942
Il
Crispi
scorta dal Pireo a Rodi il piroscafo Re
Alessandro e la motonave
Calino,
aventi a bordo 1064 militari e 1056 tonnellate di materiali.
9
marzo 1942
Il
Crispi
scorta la Calino
da Rodi al Pireo, via Lero.
16
marzo 1942
Scorta
dal Pireo a Rodi, insieme alla Lira,
i trasporti truppe Italia ed Aventino.
17
marzo 1942
Crispi
e Lira
scortano Italia
ed Aventino
di ritorno da Rodi al Pireo.
21
marzo 1942
Crispi e
Lira
scortano da Lero al Pireo il piroscafo Goggiam ed
il trasporto militare Asmara.
3
aprile 1942
Il
Crispi
scorta i piroscafi Acilia
ed Assab
da Rodi al Pireo.
12
aprile 1942
Crispi
e Sella
scortano la nave cisterna Alberto
Fassio dal Pireo a Lero.
17
aprile 1942
Crispi
e Sella
scortano l’Alberto Fassio
di ritorno da Lero a Rodi.
1°
maggio 1942
Il
Crispi
posa un campo minato antinave di 25 mine tipo Elia nelle acque di
Rodi.
2
maggio 1942
Il
Crispi
scorta la Calino
da Rodi al Pireo.
22
maggio 1942
Alle otto
del mattino il Crispi e
la torpediniera Rosolino
Pilo partono
da Brindisi per scortare a Bari i piroscafi Balkan (bulgaro)
e Chisone (italiano).
Alle 8.20, poco più di due miglia a nord di Brindisi, in condizioni
di mare calmo e bel tempo, la Pilo avvista
la scia di un siluro (l’arma viene anche vista “delfinare”,
guizzare fuori dall’acqua per un istante), che evita con la
manovra; il Crispi
le ordina di dare la caccia al sommergibile attaccante, mentre
il resto del convoglio prosegue aumentando la velocità.
Sprovvista
di ecoscandaglio, la torpediniera mette a mare la torpedine
da rimorchio ed inizia a girare attorno al luogo del lancio del
siluro, individuabile grazie ad una bolla d’aria; dopo mezz’ora
la torpedine incoccia in qualcosa ed esplode. Poi la Pilo si riunisce
al convoglio, mentre per continuare la caccia vengono inviati sul
posto la torpediniera Orsa (capitano
di corvetta Eugenio Henke) e due aerei della 141a Squadriglia
da Ricognizione Marittima.
L’Orsa attacca
dapprima un oggetto sommerso, nel punto in cui è esplosa la
torpedine da rimorchio della Pilo,
che si rivela però – in base ai rottami venuti a galla dopo il
lancio delle bombe di profondità – essere il relitto di una nave
italiana (palombari inviati sul posto da Marina Brindisi vi
troveranno infatti il relitto dell’incrociatore ausiliario Attilio
Deffenu,
affondato mesi prima); successivamente, sulla base della segnalazione
di un idroricognitore (che ha avvistato una sottile scia di nafta),
si dirige in un punto tredici miglia ad est di Brindisi ed attacca
ripetutamente con bombe di profondità un secondo contatto, che viene
ritenuto essere un vero sommergibile – che procede lentamente ad
una ventina di metri di profondità – ed attaccato, fino
all’emersione di un’enorme bolla d’aria ed alla formazione in
superficie di una vasta chiazza di nafta in posizione 40°29'40"
N e 18°15'50" E. Ciononostante, non risulta che nessun
sommergibile britannico si trovasse nella zona dell’attacco in
questa data, ed i palombari inviati sul luogo del presunto
affondamento non troveranno niente: l’intero attacco è stato
probabilmente un equivoco scatenato dall’immaginazione di vedette
troppo nervose, circostanza del resto tutt’altro che infrequente in
guerra.
24-25
giugno 1942
Secondo
una fonte tedesca, in questa data il Crispi,
insieme al cacciatorpediniere italiano Turbine,
al cacciatorpediniere tedesco ZG
3 Hermes ed
alle torpediniere Castelfidardo
e Solferino,
avrebbe scortato dal Pireo a Creta un convoglio di sette navi
mercantili, per poi fare ritorno al Pireo il 27 giugno scortando tre
mercantili insieme alle stesse navi. Ciò non risulta, tuttavia,
dalla cronologia USMM.
30
giugno 1942
Il
capitano di fregata Gennaro Coppola lascia il comando del Crispi.
Il
Crispi
a Venezia nell’estate 1942, con colorazione mimetica, dopo i
lavori. Il fumaiolo poppiero è stato abbassato (da “Italian
Destroyers of World War II” di Mark Stille e “Mussolini’s Navy”
di Maurizio Brescia)
Estate
1942
Lavori
di potenziamento dell’armamento contraereo: vengono eliminate le
due vecchie mitragliere singole Vickers-Terni 1917 da 40/39 mm (ed il
telemetro poppiero) ed installate quattro più moderne mitragliere
singole Scotti-Isotta Fraschini da 20/70 mm (per altra fonte, Breda
Mod. 1935 da 20/65 mm), due sulla tuga a poppavia degli impianti
lanciasiluri e due a proravia degli stessi, mentre le imbarcazioni
che prima occupavano tale spazio vengono spostate ad un livello
inferiore. Le due mitragliere da 13,2 mm vengono spostate dalla
plancia alla plancetta poppiera, al posto del proiettore, che a sua
volta viene spostato al posto del telemetro rimosso.
Vengono
anche installati due lanciabombe per bombe di profondità; nel corso
del 1942 riceve anche una colorazione mimetica.
Sempre
nell’estate 1942, la IV Squadriglia Cacciatorpediniere viene
rinforzata dai cacciatorpediniere Euro
e Turbine.
27
agosto 1942
Il
Crispi
partecipa ad un’esercitazione al largo di Pola insieme alla nuova
torpediniera di scorta Fortunale,
al sommergibile Fratelli
Bandiera
ed alla motobarca RR
90.
.jpg) |
| Il Crispi ormeggiato al Pireo il 14 settembre 1942 (foto Aldo Fraccaroli, via Bollettino d’Archivio USMM) |
14
settembre 1942
Il
Crispi,
il cacciatorpediniere Giovanni
Da
Verrazzano
ed un cacciasommergibili tedesco salpano dal Pireo per scortare ad
Iraklion, via Suda, la nave cisterna Rondine
e la motonave Città di
Alessandria.
Successivamente
il convoglio si scinde: la Città
di Alessandria per Suda con
il Da
Verrazzano,
la Rondine
per Iraklion con il Crispi,
cui successivamente si riunisce anche il Da
Verrazzano.
15
settembre 1942
Alle
sette del mattino il sommergibile britannico Traveller
(tenente di vascello Michael Beauchamp St. John) avvista il
convoglio, di cui identifica la composizione come un grosso
mercantile, una grossa nave cisterna ed un cacciatorpediniere, a
nordest della baia di Suda, su rilevamento 280°. In navigazione
verso sud, il convoglio entra nella baia di La Canea e viene presto
perso di vista dal Traveller,
che assume poi rotta verso sudest, in direzione di Capo Maleka. Alle
7.15 avvista di nuovo il convoglio, che doppia Capo Maleka passando
vicino alla costa e poi entra nella baia di Suda; la distanza,
tuttavia, è troppo grande per pensare di attaccare.
24
settembre 1942
Il
Crispi
scorta dal Pireo a Rodi la Calino,
con a bordo personale e materiali vari.
30
settembre 1942
Scorta
la Calino
di ritorno da Rodi al Pireo.
7
ottobre 1942
Scorta
il piroscafetto Pola
dal Pireo a Rodi.
20
ottobre 1942
Crispi
e Sella
partono da Samo per scortare a Portolago (per altra fonte a Rodi) il
posamine ausiliario Lero.
Alle
13.30 il sommergibile britannico Thrasher
(tenente di vascello Hugh Stirling Mackenzie) avvista su rilevamento
125°, in posizione 36°26' N e 27°54' E, un cacciatorpediniere
distante otto miglia ed avente rotta 250°. Dieci minuti dopo,
Mackenzie si accorge che si tratta dell’unità di scorta di dritta
di una nave passeggeri di 2000 tsl, in navigazione lungo la linea dei
200 metri al largo della costa nordoccidentale di Rodi, preceduta da
un altro cacciatorpediniere: si tratta di Lero,
Crispi
e Sella
(in realtà, la formazione è in linea di fila, con un
cacciatorpediniere che precede il Lero
e l’altro che lo segue). Il Thrasher
accosta e porta la velocità al massimo, ma sembra difficile riuscire
ad avvicinarsi a meno di 5500 metri prima di lanciare; alle 14.30,
tuttavia, il convoglio accosta proprio verso il Thrasher,
e la distanza cala a 3200 metri.
Alle
14.35 il sommergibile britannico lancia una salva di quattro siluri
contro il Lero:
due vanno a segno (l’orario indicato dalle fonti italiane sono le
14.18), ed il posamine affonda in 17 minuti in posizione 36°26' N e
27°54' E (o 36°24' N e 27°52' E), sei miglia a sudovest di Simi e
tra quell’isola e Rodi.
Mentre
il Sella
recupera l’equipaggio del Lero,
il Crispi
passa al contrattacco con il lancio di 18 bombe di profondità,
nessuna delle quali esplode vicina al Thrasher,
che rimane così indenne, nonostante il Crispi
ritenga di averlo danneggiato. Alle 16 il sommergibile ha anzi modo
di tornare a quota periscopica, avvistando nuovamente Crispi
e Sella,
cui alle 16.30 si uniscono tre MAS. Un quarto d’ora dopo, i due
cacciatorpediniere lasciano la zona e dirigono verso nordovest,
mentre il Thrasher
si ritira verso ovest.
14
novembre 1942
Crispi
e Sella
scortano la Calino
con a bordo truppe, materiali vari e merci civili, dal Pireo a Rodi.
18
novembre 1942
Il
Crispi
e la torpediniera Castore
scortano i piroscafi Polcevera
(avente a bordo 1800 tonnellate di materiale militare e merci per la
popolazione civile), Goggiam
e Goffredo
Mameli
dal Pireo a Rodi.
.jpg) |
| Un’altra immagine del Crispi mimetizzato (USMM) |
27
novembre 1942
Mentre
si trova all’ancora a Lero, il Crispi
(capitano di fregata Gennaro Coppola) viene danneggiato alle 12.20
durante un attacco condotto da sei bombardieri britannici: una bomba
lo colpisce in un locale caldaie a centro nave, sulla dritta,
provocando danni non gravi ma pesanti perdite tra l’equipaggio.
Sedici membri dell’equipaggio rimangono infatti uccisi:
Fernando Araldi, sottocapo silurista,
da Milano
Massimiliano Ardizzon, marinaio
nocchiere, da Chioggia
Bruno Bertolani, marinaio cannoniere,
da Campiglia Marittima
Francesco Cannarsa, marinaio, da
Termoli
Giovanni Di Nucci, marinaio
cannoniere, da Formia
Santino Didoni, marinaio cannoniere,
da Milano
Emilio Doria, marinaio, da Chioggia
Giuseppe Favaretto, sottocapo
infermiere, da Preganziol
Salvatore Fiumara, marinaio
cannoniere, da Alì
Guido Galleschi, sottocapo
radiotelegrafista, da Cascina Terme
Bruno Magni, marinaio cannoniere, da
Roccabianca
Domenico Peluso, marinaio, da Augusta
Daniele Perico, marinaio S.D.T., da
Ponte San Pietro
Pasquale Petrillo, marinaio
cannoniere, da Liberi
Giacomo Valdora, marinaio S.D.T., da
Alassio
Idalio Valona, marinaio meccanico, da
Fumane
Nei
giorni successivi muoiono per le ferite riportate anche il sottocapo
fuochista Vittorio Pedone da Bisceglie (il 29 novembre 1942), il
marinaio Giuseppe Lisco da Bari (il 1° dicembre 1942, a Rodi) ed il
sergente furiere Orlando Vertuani da Portomaggiore (il 6 dicembre
1942, a Lero).
In
totale questo attacco aereo provoca, sul Crispi,
sulle altre unità presenti ed a terra, 15 morti, 13 dispersi e 62
feriti.
Alla
memoria del sergente Vertuani verrà conferita la Medaglia d’Argento
al Valor Militare, con motivazione: "Destinato
a terra dopo un lungo periodo di imbarco su cacciatorpediniere,
chiedeva ed otteneva di reimbarcare sulla propria nave. Nel corso di
violenta azione aeronavale durante la quale si distingueva per
serenità e coraggio, veniva gravemente ferito e lanciato in mare.
Tratto in salvo e trasportato in ospedale, teneva mirabile contegno
e, benché consapevole della prossima fine, si preoccupava unicamente
della sorte toccata all'unità, cui aveva dedicato tutto se stesso.
Nobile esempio di ardire e di assoluta dedizione alla Marina ed alla
Patria". Alla memoria
degli altri diciotto caduti sarà conferita la Croce di Guerra al
Valor Militare, con motivazione "In
lungo periodo d’imbarco su cacciatorpediniere partecipava a
numerose missioni di guerra, dando sempre prova di spirito di
sacrificio ed attaccamento al dovere. Nel corso di aspro
combattimento impegnato dall’unità contro aerei avversari,
immolava alla Patria la propria esistenza".
L’allievo fuochista Luigi Tramonte,
da Castellaneta, rimane gravemente ferito e subisce l’amputazione
di un braccio e di una gamba; per il contegno tenuto verrà decorato
con la Medaglia di Bronzo al Valor Militare ("Imbarcato
su cacciatorpediniere danneggiato da violenta offesa aerea, si
distingueva per serenità e coraggio. Rimasto gravemente ferito
sopportava stoicamente destando l'ammirazione dei presenti
l'amputazione di una gamba e di un braccio. Esempio di sentimento del
dovere e di mirabile forza d'animo"),
decorazione che sarà conferita, a vivente, anche al direttore di
macchina, il genovese capitano del Genio Navale Emilio Castagneto
("Direttore di macchina
di cacciatorpediniere colpito da offesa aerea, dirigeva con calma e
perizia le operazioni per assicurare la galleggiabilità della nave,
mentre perdurava il bombardamento, dando prova di elevate qualità
militari e noncuranza del pericolo"),
ed il capo meccanico di seconda classe Gennaro Di Sarno, da Somma
Vesuviana ("Imbarcato
su cacciatorpediniere gravemente danneggiato da offesa aerea, si
prodigava nelle operazioni di estinzione di violento incendio
sviluppatosi nel locale caldaie, recandovisi volontariamente. Esempio
di sereno ardimento e di elevata dedizione al dovere").
Riceveranno la Croce di Guerra al
Valor Militare, a vivente, il comandante Coppola ("Comandante
di cacciatorpediniere gravemente colpito da una bomba durante un
attacco aereo avversario, con calma e non curanza del pericolo
impartiva le disposizioni di sicurezza riuscendo a far immettere lo
scafo in bacino, e provvedeva quindi ai soccorsi per i feriti"),
il tenente del Genio Navale Direzione Macchine Ernesto Benedetti
("Sottordine al
direttore di macchina di cacciatorpediniere colpito da offesa aerea,
coadiuvava il proprio capo servizio, nelle operazioni per assicurare
la galleggiabilità della nave, mentre perdurava il bombardamento,
dando prova di ottime qualità militari e sprezzo del pericolo"),
il secondo capo meccanico padovano Diego Costa ("Imbarcato
su cacciatorpediniere danneggiato da violenta offesa aerea procedeva
con calma e serenità esemplari alla ricognizione dei locali colpiti,
mentre perdurava l'azione, recando prezioso contributo alla salvezza
dell'unità. Esempio di elevato senso del dovere e di sereno
ardimento"), il
sottocapo furiere torinese Ercole Giacomoni ("Imbarcato
su cacciatorpediniere danneggiato da violenta offesa aerea, nel corso
della quale si distingueva per serenità e coraggio, rimasto
gravemente ferito sopportava con animo sereno le sofferenze e si
preoccupava unicamente della sorte toccata alla sua nave. Esempio di
dedizione al dovere e di virtù militari"),
il secondo capo furiere Carlo Donato da Vernazza, il sergente
segnalatore Gualtiero Barbieri da Argenta, il sergente cannoniere
artificiere Antonio Scamardella da Napoli, il sottocapo cannoniere
Gastone Rugi da Livorno, il sottocapo radiotelegrafista Giuseppe
Signorile da Bari, il nocchiere Pasquale Madera da Torre del Greco, i
marinai Giorgio Albergo da Bari, Giovanni Menegon da Trieste, Mario
Olivieri da Mallarie, Giacomo Passano da Framura, Mario Tomasino da
Palermo, Geremia Morresi da Portocivitanova Marche e Marco Cervini da
Lerici ed i fuochisti Carlo Facchetti da Treviglio, Gino Fusconi da
Ravenna, Giuseppe Greco da Linguaglossa, Filippo Lo Monaco da
Caltanissetta, Mario Maello da Arzignano, David Marconi da
Monsampolo, Dino Cimatti da Terra del Sole ("Imbarcato
su silurante operante in zona d'oltremare, dopo aver partecipato a
numerose missioni di guerra, rimaneva ferito nel corso di
bombardamento aereo nemico, mentre contribuiva validamente alla
salvezza della nave colpita. Esempio di spirito militare e di
coraggio").
Il Crispi
necessiterà di un periodo di lavori in bacino di carenaggio.
Sopra,
feriti dell’attacco aereo del 27 novembre 1942 vengono sbarcati dal
Crispi,
in primo piano (in secondo piano, il Sella),
a Portolago (g.c. STORIA militare); sotto, la tomba del marinaio
S.D.T. Daniele Perico, una delle vittime dell’attacco (g.c. Rinaldo
Monella/www.combattentibergamaschi.it)
8
gennaio 1943
Il Crispi
ed il cacciatorpediniere Turbine scortano
dal Pireo a Rodi i piroscafi Vesta e Bucintoro,
carichi di automezzi, materiali vari e viveri per la popolazione
civile, per un carico complessivo di 1300 tonnellate.
22
aprile 1943
Il
Crispi
partecipa ad un’esercitazione al largo di Pola insieme al
cacciatorpediniere Sebenico,
alla torpediniera Orsa
ed al sommergibile Vettor Pisani.
15
maggio 1943
Il
Crispi
scorta la nave cisterna tedesca Petrakis
Nomikos
da Brindisi a Patrasso.
18
maggio 1943
Il
Crispi
e la torpediniera Castelfidardo
scortano il piroscafo Re
Alessandro da Iraklion
a Rodi.
20
maggio 1943
Il
Crispi
scorta il piroscafo Hermada
da Rodi al Pireo, via Lero.
9
giugno 1943
Il
Crispi
ed un cacciasommergibili tedesco scortano la motonave tedesca Sinfra
da Lero a Rodi.
14
giugno 1943
Il
Crispi
e la torpediniera Solferino
scortano la Sinfra da
Rodi a Salonicco.
15
giugno 1943
Il
Crispi
ed un cacciasommergibili tedesco scortano il piroscafo Ascianghi
e la nave cisterna Cerere
dal Pireo a Rodi, via Lero.
23
giugno 1943
Il
Crispi
scorta la Cerere
dal Pireo a Rodi.
.jpg) |
| In uscita da Portolago (USMM) |
1°
luglio 1943
Il
Crispi
scorta il posamine ausiliario tedesco Bulgaria
da Alimnia a Lero.
6
luglio 1943
Il
Crispi
scorta la Sinfra
a Rodi al Pireo, via Lero.
11
luglio 1943
Crispi,
Solferino
e Calatafimi scortano
dal Pireo a Rodi i piroscafi Hermada,
Ginetto,
Ezilda
Croce,
Dubac e Goggiam.
15
luglio 1943
Crispi,
Solferino
e Calatafimi scortano
la Sinfra dal
Pireo a Salonicco, con scalo intermedio a Lero.
30
luglio 1943
Crispi
e Calatafimi
scortano il piroscafo Palermo
(avente a bordo 2070 tonnellate di munizioni, artiglieria, materiali
vari e merci civili) e la motonave Donizetti
dal Pireo a Rodi.
2
agosto 1943
Crispi
e Calatafimi
scortano la Donizetti
da Iraklion al Pireo, via Lero.
5
agosto 1943
Crispi,
Solferino
e Calatafimi scortano Donizetti ed Ardena dal
Pireo a Rodi.
7
agosto 1943
Crispi,
Solferino
e Calatafimi scortano Donizetti ed Ardena di
ritorno da Rodi al Pireo.
10
agosto 1943
Il
Crispi,
i cacciatorpediniere Euro
e Turbine
e la torpediniera Monzambano
scortano i mercantili Helli, Donizetti e Re
Alessandro dal Pireo a
Rodi.
12
agosto 1943
Crispi,
Turbine, Euro
e Monzambano scortano Helli, Donizetti e Re
Alessandro da Rodi al
Pireo.
23
agosto 1943
Il
Crispi
scorta il piroscafo Prode
dal Pireo a Rodi.
25
agosto 1943
Crispi,
Turbine e
Castelfidardo scortano
dal Pireo a Rodi i mercantili Ardena, Eolo e Sinfra.
4
settembre 1943
Crispi,
Turbine e
due cacciasommergibili tedeschi lasciano Rodi per scortare al Pireo
la Sinfra.
6
settembre 1943
Dopo
aver fatto scalo a Lero, Crispi,
Turbine
e Sinfra arrivano
al Pireo.
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(foto
tratta dalla rivista Interconair Aviazione e Marina n. 17 del 1957,
via Marcello Risolo e www.naviearmatori.net) |
Epilogo
in Egeo
Nel
settembre del 1943 il Crispi,
al comando del capitano di fregata Giuseppe Verzocchi, era
caposquadriglia della IV Squadriglia Cacciatorpediniere, avente base
nel Dodecaneso e formata oltre che dal Crispi dai
cacciatorpediniere Quintino
Sella (capitano di
corvetta Corrado Cini), Euro (capitano
di fregata Vittorio Meneghini) e Turbine
(capitano di corvetta Francesco De Rosa De Leo). Queste quattro
unità, per quanto ormai attempate, costituivano le più potenti navi
da guerra dell’Asse nel settore dell’Egeo, dove erano adibite a
compiti di scorta. La IV Squadriglia dipendeva dal Comando Zona
Militare Marittima dell’Egeo (Mariegeo), con sede a Rodi, ma aveva
la sua base operativa a Lero.
Quando
la notizia dell’avvenuta firma dell’Armistizio di Cassibile, che
poneva fine alle ostilità tra l’Italia e gli Alleati, venne
annunciata al mondo, l’8 settembre 1943, il Crispi non
si trovava però nel Dodecaneso, bensì al Pireo, dov’era giunto
due giorni prima insieme al Turbine,
al termine di una missione di scorta della motonave Sinfra.
Al
Pireo, o più precisamente ad Atene, aveva sede il Comando Gruppo
Navale Egeo Settentrionale (Marisudest), il cui comando era
ricoperto, al momento dell’armistizio, dal capitano di fregata
(facente funzioni di capitano di vascello) Umberto Del Grande. Al
Pireo si trovava un Comando Marina italiano che tuttavia, essendo
situato in territorio sotto controllo tedesco, fungeva piuttosto da
ufficio di collegamento con i Comandi della Kriegsmarine in Egeo, ed
era infatti denominato Maricolleg Pireo. In questa composita
struttura mista italo-tedesca il capitano di fregata Del Grande,
oltre che comandante di Marisudest, era anche capo di Stato Maggiore
italiano del comandante delle forze navali tedesche nell’Egeo
(Admiral Ägäis, incarico ricoperto all’epoca dal viceammiraglio
Werner Lange, che aveva il suo quartier generale ad Atene). Le navi
italiane alle dipendenze di Del Grande erano da questi impiegate in
base agli ordini ricevuti dall’ammiraglio tedesco. Anche la
centrale comunicazioni del Pireo era in mano tedesca: tutte le
comunicazioni dirette dall’Italia a Marisudest e Maricolleg
passavano prima per l’alleato teutonico.
In
seguito alla caduta del regime fascista, il 25 luglio 1943, la
“penetrazione” tedesca nelle strutture di comando italiane si era
andata intensificando: sia a Marisudest che a Maricolleg Pireo erano
giunti ufficiali e personale della Kriegsmarine, con la scusa di un
miglioramento della collaborazione italo-tedesca. In realtà gli alti
comandi tedeschi, prevedendo che la caduta di Mussolini preludesse ad
un tentativo da parte italiana di uscire da quella guerra ormai
perduta, stavano già preparandosi al momento in cui la defezione
italiana si sarebbe concretizzata: e con quel personale approntavano
i nuovi comandi tedeschi che, al momento opportuno, avrebbero
sostituito quelli italiani.
Dato
tutto ciò, la situazione al Pireo all’indomani dell’armistizio
si rivelò particolarmente difficile per i Comandi italiani, che di
fatto avevano tedeschi tutt’intorno ed anche in mezzo a loro.
L’8
settembre 1943 il porto del Pireo era particolarmente affollato di
navi italiane: oltre al Crispi
c’erano un altro cacciatorpediniere, il Turbine (anch’esso
giunto il 6 settembre con la Sinfra e,
al pari del Crispi,
dipendente non da Marisudest ma da Mariegeo, con sede a Rodi); due
torpediniere, Calatafimi e San
Martino; un incrociatore
ausiliario, il Francesco
Morosini; una
motosilurante, la MS
42; otto motovelieri e tre
motovedette del locale gruppo antisommergibili; otto dragamine
ausiliari; tre navi ausiliarie; le navi mercantili Adriana,
Ascianghi,
Arezzo,
Celeno,
Città di Savona,
Pier
Luigi,
Salvatore,
Tarquinia,
Vesta.
Come d’uso, le navi erano sparpagliate in punti diversi del porto,
per quanto possibile lontane le une dalle altre, onde minimizzare i
danni in caso di bombardamento aereo.
Con
la centrale delle comunicazioni in mano tedesca, fu il responsabile
del Comando Militare Marittimo Grecia Occidentale (Marimorea, con
sede a Patrasso), ammiraglio di divisione Giuseppe Lombardi, ad
informare il capitano di fregata Del Grande dell’avvenuto
armistizio, la sera dell’8 settembre, chiedendogli altresì di
darne immediatamente notizia al generale Carlo Vecchiarelli,
comandante dell’11a Armata
(con quartier generale ad Atene) da cui dipendevano tutte le truppe
d’occupazione italiane in Grecia.
Vecchiarelli,
però, sapeva già dell’armistizio: fu proprio lui, anzi, a
confermare ufficialmente la notizia a Del Grande alle 20.30 di quella
sera, aggiungendo che da Roma era stato ordinato che in caso di
ostilità da parte tedesca le navi in mare avrebbero dovuto
raggiungere un porto del Sud Italia, mentre quelle in avaria si
sarebbero dovute autoaffondare.
Di
conseguenza, Marisudest ordinò subito a tutte le navi di approntare
le macchine al moto ma di tenersi anche pronte all’autoaffondamento;
dopo di che Del Grande riunì in consiglio di guerra i suoi ufficiali
superiori: il comandante in seconda di Marisudest, capitano di
fregata Ferdinando Calda; il capo dell’ufficio operazioni, capitano
di fregata Lanfranco Lanfranchi; ed il capo dell’Ufficio Recuperi
Medio Oriente (avente sede ad Atene e subordinato a Marisudest per
gli aspetti disciplinari), maggiore del Genio Navale Guglielmo Giani.
I quattro ufficiali dovettero riconoscere che la tardiva
comunicazione dell’armistizio rendeva impossibile un’azione a
sorpresa volta a trasferire le navi di Marisudest in un porto
italiano, e che con il porto in mano tedesca la loro fuga dal Pireo
sarebbe stata possibile soltanto attraverso un’azione di forza che
avrebbe necessitato del supporto delle truppe del Regio Esercito.
L’organizzazione delle operazioni di autoaffondamento venne
affidata al maggiore Giani.
Per
dissuadere da tentativi di fuga, i comandanti delle navi furono
informati dai tedeschi che il posamine Drache
aveva posato un campo minato fuori dal porto, che le batterie
costiere erano pronte ad aprire il fuoco su qualsiasi nave avesse
tentato la fuga e che quand’anche fossero riusciti a superare
questi ostacoli, la Luftwaffe sarebbe stata sguinzagliata per dar
loro la caccia.
Nel
frattempo, ad Atene, il generale Vecchiarelli aveva intavolato
negoziati con i comandi tedeschi in Grecia; ritenendo che la «netta
inferiorità di armamento»
delle sue truppe avrebbe portato, in caso di resistenza armata alle
pressioni tedesche, ad un inutile spargimento di sangue, nelle prime
ore del 9 settembre il comandante dell’11a Armata
ordinò a tutte le sue truppe di consegnare le armi – salvo quelle
individuali – ai tedeschi, credendo alle promesse tedesche di
rimpatriare le truppe italiane, che sarebbero state sostituite da
reparti della Wehrmacht nel loro compito di occupazione della Grecia.
(Promessa ben presto infranta: tutti gli italiani, Vecchiarelli
compreso, finirono invece in prigionia in Germania). In armonia con
le sue decisioni di rinuncia alla resistenza e di consegna delle
armi, Vecchiarelli ordinò di sospendere i preparativi per la
partenza delle navi italiane al Pireo.
Nella
notte tra l’8 ed il 9 settembre, intanto, un rappresentante
dell’ammiraglio Lange si era recato sia alla sede di Maricolleg
Pireo che a bordo di ciascuna nave italiana presente in porto,
comunicando che l’imboccatura del porto era stata minata e
sbarrata, e che contro qualsiasi nave che avesse tentato di partire
sarebbe stata usata la forza. Truppe corazzate tedesche, nel
frattempo, avevano completamente circondato il Pireo.
Il
capitano di fregata Del Grande si incontrò per due volte con
l’ammiraglio Lange, che gli chiese di cedere le navi alla
Kriegsmarine, ottenendone un rifiuto; infine, alle due di notte del 9
settembre, Del Grande fu “invitato” ad impedire ogni sabotaggio
delle sue navi ed a schierarsi con la Germania. Il comandante di
Marisudest tenne il generale Vecchiarelli al corrente di questi
incontri, ed alla fine quest’ultimo gli inviò un ordine scritto
definitivo circa l’atteggiamento da assumere nei confronti dei
tedeschi: siccome gli accordi presi con i Comandi tedeschi
prevedevano la cessione alla Wehrmacht di tutte le armi in dotazione
alle forze armate italiane in Grecia, anche le navi da guerra
avrebbero dovuto essere consegnate intatte. A Del Grande non rimase
che distruggere tutti i documenti segreti ed organizzare la cessione
delle navi «nella forma
meno umiliante per la Marina e per il personale imbarcato».
A
questo proposito, venne deciso che la consegna di ogni unità non
sarebbe avvenuta direttamente tra il comandante ed i tedeschi, bensì
dapprima tra il comandante ed un ufficiale subordinato, e poi tra
quest’ultimo ed i tedeschi; che gli equipaggi italiani avrebbero
potuto tenere le armi individuali, e che la bandiera italiana sarebbe
stata ammainata soltanto dopo lo sbarco degli equipaggi. Ogni atto di
sabotaggio era proibito.
La
mesta cerimonia ebbe termine entro mezzogiorno del 9 settembre 1943.
Il
Crispi
e le altre navi caddero così intatte, senza colpo ferire, in mano
tedesca; soltanto i piroscafi Arezzo,
Ascianghi
e Vesta
riuscirono ad autoaffondarsi. Il volume “Navi militari perdute”
dell’Ufficio Storico della Marina Militare indica l’orario della
cattura del Crispi
come le ore 13 circa del 9 settembre, precisando che «il
porto fu subito occupato e sbarrato dai tedeschi. Dato ciò, e in
ottemperanza agli accordi fra il Comando territoriale italiano e
quello tedesco, la nave, sulla quale fu prima compiuto qualche atto
di sabotaggio, dovette essere evacuata».
Le
navi furono prese in consegna dal personale della 21.
U-Jagdflottille, dei Küstenjäger e del Reggimento "Brandenburg",
in attesa che dalla Germania arrivasse il personale della
Kriegsmarine destinato a formarne gli equipaggi; sul Crispi
venne temporaneamente imbarcato anche parte dell’equipaggio del
motodragamine R 210,
che provvide alla rimozione delle granate dai depositi munizioni.
La
storia ufficiale della Marina commenta: «durante
le operazioni di cessione e di affondamento [tre
navi mercantili furono infatti autoaffondate prima del raggiungimento
degli accordi per la cessione] il
contegno degli ufficiali e degli equipaggi fu dignitoso e
disciplinato».
Lo
stesso 9 settembre Marina Lero comunicava a Mariegeo Rodi che «Crispi
– Turbine – Tramaglio – Orsini – Cerere non ancora giunti alt
Pregherei notizie». Invano
il Comando Marina di Lero, nei giorni successivi (almeno fino al 12
settembre), tentò a più riprese di mettersi in contatto radio
col Crispi e
con le altre navi sorprese dall’armistizio al Pireo. Anche Rodi
cercò di contattare quelle navi, che si sapeva essere al Pireo e
prossime alla partenza, per ordinare loro di raggiungere
immediatamente Lero, ed il 10 settembre l’Euro,
unico cacciatorpediniere della IV Squadriglia che si trovasse in quel
momento nel Dodecaneso, tentò di mettersi in contatto radio con il
suo caposquadriglia da Lero; ma ovviamente non ci fu nessuna
risposta.
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A
mezzogiorno dello stesso 9 settembre venne chiusa anche la stazione
radio di Marisudest, già sorvegliata da sentinelle tedesche fin
dalla notte precedente; nei giorni seguenti ebbe inizio il
trasferimento del personale di Marina destinato a terra e di quello
imbarcato sulle navi mercantili verso i campi di prigionia del Reich,
con la falsa promessa del rimpatrio in Italia. Non pochi marinai,
diffidando – a ragione – delle promesse tedesche, riuscirono a
fuggire prima della partenza, trovando rifugio presso famiglie greche
od unendosi alla Resistenza ellenica. Nonostante le pressioni
tedesche per la continuazione della guerra a fianco dell’Asse, la
quasi totalità del personale italiano rimase fedele al governo
legittimo. Il 19 settembre venne arrestato anche il capitano di
fregata Del Grande.
Gli
equipaggi delle navi da guerra, compreso quello del Crispi,
rimasero invece in un primo momento al Pireo, in quanto era
intenzione dei tedeschi di trattenerli, forse per tornare ad armare
le unità ex italiane per le quali vi era penuria di personale
tedesco. Il 14 ottobre 1943, tuttavia, venne deciso che al Pireo
sarebbero rimasti soltanto una settantina di specialisti, che
avrebbero dovuto aiutare il personale della Kriegsmarine a
familiarizzare con le navi italiane; gli altri sarebbero partiti a
loro volta per la prigionia in Germania. Insieme ad essi rimasero in
un primo momento al Pireo anche cinque ufficiali, tra cui il capitano
di fregata Calda ed il maggiore Giani, ed una ventina di uomini di
Marina Pireo; ma il 1° ottobre vennero arrestati anche Calda e
Giani.
Gli
specialisti rimasti al Pireo furono sottoposti ad un’intensa
campagna propagandistica, volta a spingerli ad aderire alla causa
tedesca, che vide la partecipazione di quattro ufficiali italiani
passati con i tedeschi (tra di essi il capitano di fregata Luigi
Pilosio, già comandante di un gruppo di batterie della Marina a
Creta); ma tutti o quasi tutti rimasero fermi nel loro rifiuto.
Secondo
fonte non verificata, alcuni marinai italiani avrebbero continuato a
far parte degli equipaggi delle navi catturate anche sotto bandiera
tedesca, per convinzione o per costrizione. Erminio Bagnasco, nel
libro "In guerra sul mare", scrive che «risulterebbe
che, per poter armare rapidamente (…) le (…) siluranti
italiane (Turbine, Calatafimi ecc.) di cui erano venuti in possesso
in Grecia nei giorni dell’armistizio, i tedeschi siano riusciti,
mediante minacce e promesse, a convincere alcuni elementi “chiave”
degli equipaggi originari, soprattutto personale di macchina, a
rimanere a bordo delle navi prestando la loro opera come “volontari”
nella Kriegsmarine. Non sono stati rintracciati precisi elementi in
merito, se non generiche testimonianze».
Per
l’equipaggio del Crispi iniziava
la lunga odissea della prigionia in Germania, dalla quale non tutti
sarebbero tornati.
La
maggior parte del personale della Regia Marina catturato in Grecia
all’indomani dell’armistizio fu inviato inizialmente nello Stalag
III A di Luckenwalde, a sud di Berlino, dove gli italiani – circa
15.000, tra personale della Marina, dell’Esercito e
dell’Aeronautica – giunsero in treno tra il 29 settembre ed il 3
ottobre 1943. Quello di Luckenwalde era un campo di smistamento, e
per la maggior parte degli italiani che vi passarono rappresentò
soltanto una tappa del loro viaggio verso la prigionia: qui ciascuno
ricevette il proprio numero di matricola; poi, tra l’11 ed il 17
ottobre, i più furono trasferiti a Tarnapol (odierna Ternopil’, in
Ucraina). Alcuni dei prigionieri accettarono qui di aderire alla
Repubblica Sociale Italiana, e furono pertanto trasferiti a
Deblin-Irena (Polonia), poi a Przemyśl (ancora in Polonia) ed infine
a Norimberga, da dove poterono rientrare in Italia nel giugno 1944.
Gli
altri rimasero a Tarnapol fino al dicembre 1943/gennaio 1944, quando
il campo venne sgomberato dinanzi all’avanzata dell’Armata Rossa.
I prigionieri italiani vennero pertanto dispersi in vari altri campi
di prigionia: Siedlice, Deblin, Przemyśl e Tschenstochau
(Czestochowa), in Polonia; Sandbostel, Norimberga e Wietzendorf, in
Germania.
Il
25 settembre 1943 gli equipaggi di
Crispi, Turbine, Castelfidardo, Calatafimi e Solferino,
nonché quello dell’incrociatore ausiliario Francesco
Morosini, furono caricati
su un treno formato da carri bestiame e carri scoperti. Comandante
del personale italiano sul treno era il capitano di fregata
Verzocchi, l’ormai ex comandante del Crispi,
ufficiale di grado più elevato rimasto dopo che Del Grande era stato
già imbarcato su un aereo diretto in Germania.
Il
treno lasciò la stazione di Larissa (Atene) alle 18; il comandante
superiore tedesco aveva detto agli scettici ufficiali italiani che la
destinazione del convoglio era l’Italia settentrionale, ma in
realtà il treno li portava verso la prigionia in Germania. Per
giustificare l’arzigogolato percorso seguito dal treno, fu detto
agli equipaggi italiani che il viaggio sarebbe stato più lungo del
normale a causa degli attacchi dei partigiani jugoslavi, che avevano
distrutto numerosi ponti lungo il percorso.
Gli
equipaggi italiani ormai prigionieri affrontarono così un lungo
carosello per tutta l’Europa
orientale: il treno fece scalo a Salonicco, poi Skopje in Macedonia,
Nic, Sofia, Filippopoli, Sciumla e Provadia in Bulgaria; il 3 ottobre
attraversò il Danubio a Cornovada e poi fece scalo a Galaz
(Bessarabia, Romania). Il 5 ottobre il convoglio transitò per
Fetosta e Tandarei in Transilvania, poi entrò in Ungheria, toccando
Varadino, Seghedino e Nagykanizza; il 10 entrò in Austria e sostò a
Matterburg, dove salirono a bordo soldati tedeschi armati che
assunsero la scorta degli italiani. Furono toccate Vienna e Linz e
infine si entrò in Germania: Norimberga, Iena ed il 12 ottobre Bad
Sulza, in Turingia, a sud di Lipsia.
Qui
le sorti degli italiani si divisero: le vetture ov’erano sistemati
gli ufficiali furono infatti staccate, e venne impedito ogni contatto
tra ufficiali e marinai, al punto che l’attendente di un ufficiale
venne colpito da una fucilata alla spalla per aver cercato di
salutarlo.
Nel
campo di Bad Sulza gli ufficiali ricevettero il loro numero di
matricola di prigionieri, e dovettero consegnare il denaro che
avevano; un ufficiale tedesco li esortò di nuovo a proseguire la
guerra a fianco delle forze tedesche, ma ottenne un compatto rifiuto.
Il
14 ottobre il treno con gli ufficiali ripartì, con scorta armata e
senza più il capitano di fregata Verzocchi, ed attraversò Lipsia,
Dresda, Open per poi entrare in Polonia: Cracovia, Tarnow e la
destinazione finale, Leopoli, dove giunse il 20 ottobre. In questi
sei giorni di viaggio i prigionieri non ricevettero alcun cibo.
Sottufficiali
e marinai rimasero a Bad Sulza, nello Stalag IX C. Questo campo, dal
quale dipendevano numerosi sottocampi (Arbeitskommando) sparpagliati
per una vasta area della Turingia, era stato creato nel febbraio 1940
ed aveva inizialmente ospitato prigionieri polacchi catturati durante
l’invasione del loro Paese; ad essi si erano aggiunti, quattro mesi
dopo, numerosi prigionieri belgi e francesi catturati durante la
conquista tedesca delle rispettive nazioni, ed a fine 1940 erano
arrivati anche soldati britannici catturati a Dunkerque, seguiti
nell’aprile del 1941 da prigionieri jugoslavi e poi da altri
britannici e canadesi catturati in Nordafrica, Italia (1943) ed
Olanda (ottobre 1944). Per ultimi, nel dicembre 1944, arrivarono
soldati statunitensi catturati durante l’offensiva delle Ardenne. I
prigionieri, in tutto 50.000 (oltre alle nazionalità già citate, ed
agli italiani arrivati dopo il settembre 1943, c’erano anche
prigionieri sovietici), lavoravano in varie fabbriche della regione e
nelle miniere di potassio di Mühlhausen. Dipendevano dallo Stalag IX
C anche due ospedali: il grande Reserve-Lazaret IX-C(a) di
Obermassfeld ed il piccolo Reserve-Lazaret IX-C(b) di Meiningen.
La
prima notte dopo il loro arrivo a Bad Sulza, i prigionieri di Marina
italiani giunti dal Pireo la passarono all’addiaccio; il mattino
successivo ricevettero delle patate cotte per il pasto, dopo di che
vennero radunati, ed un ufficiale che parlava italiano pose loro una
scelta: restare nel campo di prigionia; arruolarsi nella Wehrmacht; o
lavorare nelle fabbriche. La maggioranza scelse la terza opzione; i
prigionieri vennero pertanto divisi in gruppi ed inviati a lavorare
in fabbrica in varie località della Turingia, attività che
continuarono a svolgere fino alla loro liberazione, nelle ultime
settimane della guerra.
Il
29 marzo 1945 lo Stalag IX C venne evacuato dinanzi all’avanzata
statunitense: parte dei prigionieri furono costretti a marciare per
quattro settimane prima di essere liberati da truppe statunitensi. I
prigionieri rimasti al campo furono liberati dalla 6a Divisione
corazzata statunitense (facente parte della 3a Armata
del generale Patton) l’11 aprile 1945.
Altri
prigionieri vennero trasferiti da Bad Sulza nello Stalag XI B di
Fallingbostel, in Bassa Sassonia. Questo campo era sorto nel 1937
come villaggio di baracche destinate ad alloggiare gli operai
impegnati nella costruzione della nuova base militare di Bergen; nel
settembre 1939, con lo scoppio della guerra, le baracche erano state
circondate con del filo spinato e la struttura era stata così
trasformata un campo di prigionia. Primi “ospiti”, verso la fine
del 1939, erano stati prigionieri polacchi, seguiti nel 1940 da belgi
e francesi; entro la fine del 1940 i prigionieri dello Stalag XI B
erano già diventati 40.000, di cui però soltanto 2500 erano
effettivamente alloggiati nel campo principale, mentre gli altri
erano dispersi nei numerosi sottocapi di lavoro (Arbeitskommando)
sparpagliati nella regione circostante. All’apice dell’attività,
sarebbero stati ben 1500 gli Arbeitskommando dipendenti dallo Stalag
XI B: in parte i prigionieri erano adibiti a lavori agricoli, in
parte nell’industria, comprese – benché fosse vietato dalla
Convenzione di Ginevra – le fabbriche di munizioni. Il servizio di
guardia era espletato dai militi del Landesschützen-Bataillon 461,
appartenenti alle classi anziane o comunque considerati inadatti al
servizio di prima linea. Nel luglio del 1941, con l’invasione
dell’Unione Sovietica, era sorto un secondo campo denominato Stalag
XI D (o Stalag 321), destinato esclusivamente ai prigionieri
sovietici: questi ultimi, dei quali era pianificato lo sterminio, non
disponevano di baracche, e dovevano dormire in buche scavate nel
terreno, ricevendo al contempo razioni di cibo ampiamente
insufficienti anche per la sola sopravvivenza (queste furono
leggermente aumentate a inizio 1942, in modo da mettere i prigionieri
almeno in condizione di lavorare, ma rimasero ancora largamente
inferiori al necessario, ed i prigionieri continuarono a morire,
adesso di sfinimento). Ben presto i sovietici iniziarono a morire a
decine al giorno, di fame, di malattie e, più tardi, anche di
freddo. Altri 10.000 prigionieri sovietici vennero imprigionati nello
Stalag XI B, dove nel novembre 1941 vennero finalmente costruite
alcune baracche. Sul finire del 1941 gli ufficiali superiori, i
funzionari del Partito Comunista e gli ebrei vennero separati dagli
altri prigionieri e trasferiti nei campi di concentramento di
Sachsenhausen e Neuengamme, dove furono uccisi mediante fucilazione o
nelle camere a gas; in novembre scoppiò in entrambi gli Stalag di
Fallingbostel un’epidemia di tifo, protrattasi fino al febbraio
1942, che incrementò il già elevato tasso di mortalità dei
prigionieri sovietici: fino ad un centinaio di morti al giorno, di
fame e di freddo, durante l’inverno 1941-1942. Nel luglio 1942 lo
Stalag XI D venne soppresso, ed i prigionieri superstiti furono
trasferiti nello Stalag XI D.
Questa
era la situazione quando sul finire del 1943 arrivò a Fallingbostel
un nuovo numeroso gruppo di prigionieri, gli “internati militari”
italiani: sottoposti a maltrattamenti, ebbero il secondo più elevato
tasso di mortalità tra i vari gruppi di prigionieri del campo,
superato soltanto da quello dei sovietici. I malati ed i moribondi
erano confinati in una baracca a parte: “Alla
mattina v'era sempre qualcuno che purtroppo non si muoveva più. Il
poveretto veniva preso, messo in una “finta cassa” da morto e
quindi trasportato fuori con un carretto. Distante dalle baracche
c'era una grande fossa, la cassa veniva posta su un binario, quindi
il fondo della stessa veniva sfilato, il corpo cadeva e subito gli
veniva versata sopra della calce in polvere. Il carretto tornava con
la cassa, vuota, pronta per un altro cadavere, e così via”.
Gli
italiani furono alloggiati in grandi baracche suddivise in dodici
locali, ognuno dei quali conteneva dodici letti a castello a tre
piani, senza materassi: si dormiva sul legno. Il pasto giornaliero
consisteva in un mestolo di acqua e rape, un chilo di pane ed un etto
di margarina da dividere in otto.
Poco
dopo l’arrivo al campo, i prigionieri furono arringati da un
gerarca fascista che promise loro il pronto rimpatrio se avessero
aderito alla Repubblica Sociale Italiana, e pronosticò loro vita
dura e fame se avessero rifiutato. Nondimeno, furono pochi coloro che
aderirono alla RSI.
Anche
gli italiani, dopo l’arrivo a Fallingbostel, furono smistati nei
numerosi Arbeitskommando della regione, andando a svolgere i lavori
più disparati. Le condizioni di vita e di lavoro degli I.M.I.
potevano variare sensibilmente a seconda della propria destinazione:
in alcuni sottocampi, come l’Arbeitskommando 6008 di Hilkerode
(frazione di Duderstadt nella Bassa Sassonia), la vita era difficile.
Il sottocampo era composto da quattro baracche per i prigionieri ed
una adibita a comando tedesco, il tutto circondato da filo spinato;
anche qui i prigionieri erano alloggiati in camerate con letti a
castello a tre piani, scaldate da una grossa stufa. Servizi igienici
inesistenti: un secchio serviva da gabinetto per un’intera baracca;
un altro secchio serviva per contenere cibo e bevande, per l’acqua
con cui lavare i pavimenti e per quella con cui bollire gli indumenti
– sempre le stesse divise indossate al momento della cattura, ormai
logore e strappate: nessun vestito di ricambio fu mai fornito –;
insetti e pidocchi dilagavano. Il corpo di guardia era composto da
una decina di militari tedeschi della III Compagnia del 719°
Battaglione Fanteria. I prigionieri qui distaccati erano adibiti ai
lavori di costruzione di una nuova fabbrica, la Otto-Schickert-Werke
di Rhumspringe (uno stabilimento chimico destinato alla produzione
del perossido di idrogeno); vi era un’unica pausa di mezz’ora
all’ora di pranzo, ma il pranzo non c’era: gli unici pasti
consistevano in una tazza di caffè d’orzo a colazione ed in un
mestolo di acqua e rape, pane e margarina da dividere in otto per
cena. Di domenica i prigionieri non dovevano lavorare, ma il
comandante del campo radunava i prigionieri chiedendo se volessero
aderire alla RSI: ottenendo sempre un rifiuto, li puniva
costringendoli a marciare per un’ora col passo dell’oca. La fame
era tanta, ma quanto meno ai prigionieri era consentito di scrivere a
casa una volta al mese e di ricevere dalle famiglie pacchi con
vestiario e generi alimentari. Sia i militari di guardia che i civili
tedeschi con cui i prigionieri lavoravano non perdevano occasione per
maltrattare gli italiani, sempre insultati e spesso malmenati per
qualche piccolezza; ai prigionieri era persino proibito di
avvicinarsi ai bidoni in cui i cuochi che preparavano i pasti per gli
operai tedeschi gettavano le bucce delle patate, e quando un
artigliere alpino fu sorpreso a rubare le bucce per placare la
terribile fame, venne picchiato a morte. Indeboliti
dall’insufficienza del vitto, molti prigionieri si ammalavano di
dissenteria, tubercolosi od altre malattie, per le quali non
ricevevano alcuna cura (né subivano alcuna maggiorazione delle
magrissime razioni), anche se almeno venivano esentati dal lavoro. Su
450 "internati militari italiani" dell’Arbeitskommando
6008, almeno 51 morirono durante la prigionia. Un sopravvissuto,
militare dell’Esercito, avrebbe così ricordato quella vita
d’inferno: “Da parte
loro i soldati tedeschi non perdevano occasione per ostentare il loro
disprezzo e trattarci da miserabili. “Scheisse Mensch” – uomo
di merda – era il loro normale, eterno modo di interpellarci.
Vestiti con le nostre vecchie uniformi, ormai logore e strappate,
senza uno straccio di coperta per la notte, ricoperti di pidocchi.
Tenuti a trasportare all'alba, per svuotarli in una vasca esterna
alla baracca, i bidoni pieni d'escrementi e orina: tanto colmi che ci
schizzavano ogni volta, e per l'interno giorno ci sentivamo sporchi e
puzzolenti, privi di forza per reagire, camminando e lavorando come
automi. Senza parlare poi delle “mancanze”: il minimo ritardo
alla “conta” del mattino, un allineamento non perfetto in squadra
nell'andata e ritorno dal lavoro, e così via. Erano botte dure sul
momento. E peggio alla sera, rientrati e inquadrati nel cortile,
prima della gavetta d'acqua e rape, dover assistere alla barbara pena
d'un compagno incorso in punizione. Col poveraccio spogliato a petto
nudo, costretto a sollevare pesi su e giù, e per finire, secchi
d'acqua gelata su di lui. Quasi un programma vero e proprio
d'annientamento fisico e morale”.
Anche
in queste condizioni, i prigionieri trovarono la forza per escogitare
degli atti di sabotaggio ai danni dei loro carcerieri: ad esempio,
inserendo degli stracci nelle tubature (destinate ad un impianto
chimico) che venivano poi saldate, in modo da otturarle.
Altri
sottocampi, come quello di Neuhaus (Hildesheim), erano viceversa
caratterizzati da condizioni nettamente migliori: questo piccolo
Arbeitskommando era composto da poco più di una trentina di soldati
italiani, sorvegliati da un caporale tedesco zoppo che, a differenza
dei suoi commilitoni di Hilkerode, era di buon carattere, al punto di
non chiudere il cancello neanche di notte. Anche qui i prigionieri
erano adibiti al lavoro in fabbrica (in questo caso, dedicata alla
produzione di mattonelle di catrame), ma il rancio era più
abbondante – due pasti al giorno, cucinati da civili belgi: oltre a
pane e margarina, la razione comprendeva anche delle patate bollite –
e sui letti a castello c’erano materassi di paglia. L’orario
lavorativo era di nove ore al giorno: dalle otto del mattino a
mezzogiorno e poi dall’una del pomeriggio alle sei di sera. Anche
qui giunsero fascisti italiani a sollecitare l’adesione alla
R.S.I., ed anche qui non ebbero successo.
A
metà 1944 i prigionieri di Fallingbostel erano 98.380: 25.277
sovietici e 79.928 di altre nazionalità, in maggioranza distaccati
nei vari Arbeitskommando. Nel settembre 1944 venne creato, nell’area
in cui era esistito lo Stalag XI D, un nuovo campo di prigionia, lo
Stalag 357 (qui trasferito da Thorn, in Polonia): alla sua
costruzione furono adibiti i prigionieri italiani, mentre gli
“ospiti” furono principalmente soldati del Commonwealth, ma anche
sovietici, jugoslavi, francesi, polacchi e statunitensi. In tutto
17.000 uomini, con una media di 400 per baracca (ma con cuccette
soltanto per 150 a baracca), in condizioni dunque di notevole
sovraffollamento; a inizio 1945 la carenza di vitto e medicinali
venne aggravata dall’arrivo di centinaia di prigionieri
statunitensi catturati nelle Ardenne, che dovettero essere alloggiati
in tende. Nell’aprile 1945, dinanzi all’avanzata Alleata, 12.000
prigionieri dello Stalag 357 in buone condizioni fisiche vennero
evacuati verso nordest con marce forzate, in colonne di 2000 uomini;
giunti a Gresse, ad est dell’Elba, dopo una marcia di dieci giorni,
furono qui mitragliati da caccia britannici che li avevano scambiati
per truppe tedesche, con diverse decine di morti. Un sergente della
RAF convinse l’ormai ex comandante del campo 357, il colonnello
Hermann Ostmann, a mandarlo verso ovest per prendere contatto con le
truppe britanniche, in modo da arrendersi a queste ultime invece che
ai sovietici; così avvenne il 3 maggio 1945. I prigionieri rimasti a
Fallingbostel, in tutto 17.000, vennero liberati ancor prima: il 16
aprile 1945, infatti, lo Squadrone "B" dell’11°
Reggimento Ussari e lo squadrone da ricognizione dell’8°
Reggimento Ussari britannici liberarono lo Stalag XI B e lo Stalag
357: proprio la sezione del campo in cui erano rinchiusi gli italiani
fu la prima ad essere raggiunta dai reparti britannici al loro
arrivo.
Nel
dopoguerra, con un tocco di giustizia poetica, l’ex Stalag XI B
venne adibito dai britannici all’internamento dei membri dell’ormai
disciolto Partito Nazista, prima di essere impiegato come campo
profughi.
In
totale, circa 30.000 prigionieri morirono nei campi di Fallingbostel
durante la seconda guerra mondiale: nella quasi totalità si trattava
di prigionieri sovietici, mentre 734 erano di altre nazionalità,
cioè italiani, francesi, polacchi, britannici, belgi, statunitensi,
jugoslavi, olandesi, sudafricani, slovacchi e canadesi. Tutti i
prigionieri sovietici, e 273 di quelli di altre nazionalità,
riposano oggi nel “Cimitero dei Senza Nome” di Oerbke.
Questa
fu dunque la sorte dei sottufficiali e marinai italiani catturati al
Pireo. Quanto agli ufficiali, separati dalla “bassa forza” a Bad
Sulza e trasferiti più ad est, una volta giunti a Leopoli vennero
perquisiti ed alloggiati nella cittadella, dove rimasero fino
all’inizio del gennaio 1944, tranne gli ufficiali superiori, i
quali furono trasferiti tra fine ottobre e inizio novembre a
Tschenstochau (Polonia). Nel campo, destinato ai soli ufficiali (ve
n’erano 3500, con 150 soldati) vennero organizzati dei corsi di
lingue, ingegneria, architettura e diritto e conferenze a tema
scientifico o letterario; con i libri in possesso degli ufficiali
venne creata una biblioteca. Gli ufficiali prigionieri elessero come
loro fiduciario ed anziano del campo (in sostanza, comandante dei
prigionieri) il tenente di vascello Giuseppe Brignole, già
comandante della Calatafimi,
Medaglia d’Oro al Valor Militare per aver attaccato con la sua
nave, sola, una preponderante formazione navale francese che stava
bombardando Genova, nel giugno 1940.
Vi
furono varie visite di ufficiali italiani che avevano aderito alla
Repubblica Sociale Italiana (dapprima il colonnello degli alpini
Bracco e successivamente il maggiore Marcello Vaccari, anch’egli
degli alpini, ex prefetto di Napoli), i quali invitarono i loro
“colleghi” a fare altrettanto (Vaccari, per la verità, li esortò
a rientrare comunque in Italia e poi decidere il da farsi una volta
rimpatriati, il che portò alla sua destituzione e successiva messa
sotto inchiesta da parte tedesca); solo il 12 % accettò. Il 2
gennaio gli ufficiali in servizio permanente effettivo, censiti dal
comando tedesco, vennero separati dagli altri e trasferiti nel campo
di Ari Lager a Deblin, distaccamento dello Stalag 307 di Deblin Irina
(distante un paio di chilometri), a sud di Varsavia (tra di essi era
anche il tenente di vascello Brignole, che anche nel nuovo campo
mantenne l’incarico di “Anziano” fino all’agosto 1944, quando
lo cedette al colonnello Arrigo Angiolini, da poco arrivato da un
altro campo). A Deblin Irina si trovavano circa 6000 ufficiali
prigionieri (c’era anche un distaccamento di soldati della RSI,
comandato da un console della MVSN), 1250 erano ad Ari Lager; sia a
Leopoli che a Deblin i prigionieri erano sistemati in caserme in
muratura con riscaldamento sufficiente, ma questa era l’unica nota
positiva. Il cibo infatti scarseggiava, a svantaggio soprattutto di
giovani e malati, che deperivano senza possibilità di recupero; i
medicinali erano completamente assenti, e sia all’arrivo che
durante la permanenza al campo gli ufficiali furono più volte
perquisiti dalla Gestapo, venendo denudati, tenuti all’aperto nella
neve per 5-6 ore (con temperature di 5-10 gradi sotto zero), e
sistematicamente derubati di ogni oggetto di valore o di utilità
(macchine fotografiche, binocoli, strumenti nautici, vestiario,
posate che sembravano d’argento, denaro e oggetti preziosi):
persino le fodere delle giacche e le suole delle scarpe venivano
scucite, nell’eventualità che i prigionieri vi avessero nascosto
qualche oggetto di valore. Anche in queste condizioni, vennero
organizzate conferenze culturali e patriottiche ed intrattenimenti
musicali, per tenere alto il morale.
La
popolazione polacca cercò generosamente di aiutare i prigionieri
italiani, anche a rischio della vita: nonostante la presenza di
sentinelle tedesche armate che colpivano chi si avvicinava col calcio
del fucile, civili polacchi gettarono in più occasioni pane e mele
(ed anche sigarette) ai prigionieri, sia lungo la ferrovia percorsa
dai treni che li trasportavano (un treno, grazie alla cessione di
vestiario da parte degli ufficiali e di tabacco da parte dei
polacchi, poté essere interamente rifornito di provviste dopo tre
giorni in cui ne ne erano state fornite dai tedeschi), sia per le vie
di Leopoli che all’interno del campo di Deblin, dove civili si
avvicinavano ai reticolati con il favore del buio e lanciavano un
centinaio di pagnotte per volta all’interno.
Gli
ufficiali rimasero prigionieri a Deblin dal 5 gennaio al 12 marzo
1944, quando iniziò il loro trasferimento nello Stalag X-B di
Sandbostel, in Germania (precisamente, in Bassa Sassonia), che fu
completato il 19 marzo. Un giovane guardiamarina, avendo tentato di
nascondersi in una soffitta per scappare, venne scoperto, picchiato,
privato delle scarpe, spogliato e rivestito con inadeguati abiti di
tela (una volta giunto a Sandbostel, fu condannato a due settimane di
carcere duro in isolamento, a pane e acqua). Tutti gli ufficiali,
prima della partenza, furono denudati e tenuti in questo stato (e
senza cibo) per 12 ore in locali non riscaldati, a temperatura di
–10° C. Di nuovo furono derubati di tutti gli oggetti ritenuti
“non leciti”, comprese cinghie per pantaloni, oggetti da
toilette, coltelli sia da tasca sia da tavola, rasoi di sicurezza,
penne stilografiche e sigarette; poi, dopo essere stati tenuti ad
aspettare a lungo sotto la pioggia battente, furono chiusi in carri
bestiame privi di illuminazione e riscaldamento e sporchi per i
precedenti trasporti, e portati così – i vagoni venivano aperti
una sola volta al giorno, per la distribuzione del cibo – fino a
Bremerforde, a 14 km dallo Stalag X-B, dopo di che dovettero
percorrere a piedi, sotto la pioggia, l’ultimo tratto del percorso.
Una
volta nel nuovo campo, gli ufficiali vennero nuovamente ispezionati,
indi sistemati provvisoriamente in baracche senza infissi,
riscaldamento, illuminazione, posti letto od anche solo paglia; dopo
la disinfezione (i bagagli, aperti per questa operazione, vennero poi
gettati alla rinfusa nel piazzale, sotto la neve ed esposti al vento)
ed una doccia, furono trasferiti in nuove baracche non
compartimentate, con posti letto ad alveare, dov’erano ammassati
mediamente in 280 in una baracca di 22 metri per 11. Poco cibo, molti
pidocchi e temperature rigide debilitarono di molto i prigionieri;
nell’aprile 1944 i malati in gravi condizioni erano almeno un
migliaio, con un elevato tasso di mortalità. Le sentinelle del campo
avevano il grilletto facile, e tra marzo e agosto almeno cinque
ufficiali caddero sotto i loro colpi.
Nel
maggio 1944 il campo fu visitato da funzionari della Croce Rossa
Italiana (dottor De Luca e signora Muzi Falcone), il che portò ad un
lieve miglioramento delle condizioni di vita (venne distribuita un
po’ di paglia per i giacigli); in agosto, tuttavia, quando gli
ufficiali si rifiutarono di lavorare per i tedeschi (in base alla
Convenzione di Ginevra, gli ufficiali prigionieri non potevano essere
costretti a lavorare: ma le autorità tedesche avevano classificato
gli italiani «internati militari», anziché «prigionieri di
guerra», proprio per eludere tali regole), le condizioni
peggiorarono nuovamente.
Nell’estate-autunno
del 1944 l’erogazione dell’acqua, non potabile, venne ridotta a
poche ore al giorno, talvolta poche decine di minuti (in dodici mesi
i prigionieri poterono fare una sola doccia calda di cinque minuti);
tutte le coperte sane vennero confiscate per essere distribuite alle
truppe territoriali tedesche, recentemente formate. La razione di
cibo non forniva neanche le calorie necessarie per un uomo a completo
riposo, provocando molte malattie da denutrizione (a seguito delle
proteste, la razione fu portata a 500 g di patate al giorno, ma in
agosto, dopo il rifiuto di lavorare, fu nuovamente diminuita). La
quantità di cibo disponibile veniva leggermente incrementata con le
verdure di orticelli coltivati dagli internati e dai pacchi di viveri
inviati dalle famiglie in Italia.
A
fine agosto 1944 scoppiò un’epidemia di tipo petecchiale; il campo
fu posto in quarantena, ma non vennero forniti medicinali. Vitto e
clima provocavano un’elevata incidenza di infezioni intestinali, e
le latrine erano mal fatte e del tutto insufficienti (una ogni 50
uomini); si diffuse anche la tubercolosi.
Il
servizio postale era lentissimo, a causa dei tempi della censura (in
media occorrevano 40 giorni perché una lettera dall’Italia
settentrionale fosse consegnata, ma si arrivava anche a 75); molte
lettere venivano distrutte senza neanche essere state controllate,
per ridurre il lavoro dei censori. Non era possibile scrivere ad
autorità diplomatiche, consolari o governative, né a parenti in
Germania che non fossero di primo grado, e meno che mai alla Croce
Rossa Internazionale, con la quale era proibito ogni contatto. I
prigionieri potevano ricevere pacchi dalle famiglie (non più di due
al mese, per un peso complessivo di 9 kg), ma il loro invio
dall’Italia settentrionale (sotto controllo tedesco) subiva
frequenti sospensioni, mentre le spedizioni dall’Italia meridionale
(sotto controllo angloamericano) divennero possibili solo a partire
dal novembre 1944; in tutto, soltanto un terzo dei pacchi spediti
raggiunse i destinatari. Il Servizio Assistenza Internati della
Repubblica Sociale Italiana inviò a sua volta delle provviste;
complessivamente, durante la permanenza al campo ogni internato
ricevette da tale Servizio 3 kg di riso, 2 kg di galletta, due
scatole di latte condensato, 500 grammi di zucchero
ed altrettanti di marmellata. Verso la fine del 1944 la tabella
alimentare subì forti riduzioni, di 500-600 grammi giornalieri. Per
cuocere il cibo c’era un pentolino ogni sei uomini e poco carbone,
la cui razione giornaliera fu ridotta nell’autunno del 1944 a 676
grammi a persona (compreso anche quello destinato al riscaldamento).
Esistevano
all’interno dei campi degli spacci che vendevano matite,
dentifricio, lamette da barba, ma non generi alimentari; i
prigionieri potevano farvi compere con il Lagergeld, una valuta che
aveva corso esclusivamente all’interno dei campi di prigionia,
della quale ricevevano periodicamente somme che variavano a seconda
del grado.
Alla
fine del gennaio 1945 la maggior parte degli ufficiali fu trasferita
nello Stalag X-D di Wietzendorf, sempre in Bassa Sassonia, dove si
trovavano in tutto circa 3000 ufficiali italiani, 700 dei quali
troppo debilitati per poter essere trasferiti. Un migliaio di
ufficiali, ritenuti irriducibili, vennero invece inviati nello Stalag
XI-B di Fallingbostel (dove fu di nuovo il tenente di vascello
Brignole a ricevere la carica di fiduciario, mentre quella di anziano
fu ricoperta dal tenente colonnello Alberto Guzzinati). Il 15
febbraio 1945 una nuova ingiunzione di lavorare, con la minaccia in
caso contrario della condanna ai lavori forzati, fu respinta; venne
progettato di trasferire allora i prigionieri nel campo di
concentramenti di Buchenwald, ma fortunatamente tale piano non poté
essere messo in atto poiché le truppe tedesche nella regione,
compreso il campo di Fallingbostel, furono rinchiuse in una sacca
dalle forze Alleate, e nel pomeriggio del 16 aprile 1945 lo Stalag
XI-B venne liberato da reparti della 15ª divisione corazzata
britannica. Tre giorni prima era stato liberato anche lo Stalag X-D
di Wietzendorf.
I
prigionieri italiani liberati dai campi della Germania settentrionale
furono concentrati dai britannici nel campo di Munsterlager, nella
zona di Hannover (dove di nuovo il comando dei prigionieri andò al
tenente di vascello Brignole: questi li divise in nove compagnie e
ripristinò molte abitudini militari, tra cui adunate generali,
rapporto giornaliero, controllo della libera uscita, servizio di
guardia ai cancelli, alza e ammaina bandiera e punizioni per le
infrazioni disciplinari), da dove il 30 agosto 1945 ebbe inizio il
viaggio di rimpatrio, prima su camion fino a Brunswich, poi in treno
fino in Italia.
Furono
ben quindici gli uomini del Crispi
che non fecero ritorno dalla prigionia.
Del
sottocapo meccanico Giuseppe Isetta, da Follo, appena diciottenne, si
persero le tracce lo stesso 9 settembre 1943: risulta ufficialmente
disperso nella data della cattura del Crispi,
stranamente “nel
Mediterraneo orientale”,
come se fosse morto in mare, e non in Grecia.
Come
per innumerevoli altri militari italiani semplicemente svaniti nel
caos di quei confusi e tragici giorni, niente è dato sapere sulla
sua sorte. Forse, sfuggito alla cattura, si unì alla Resistenza
greca e morì combattendo senza che nessuno conoscesse la sua vera
identità; forse trovò la morte nel tentativo di tornare
fortunosamente in Italia; forse rimase vittima di una rappresaglia
tedesca senza mai essere identificato. Forse l’indicazione del
“Mediterraneo orientale”
come luogo della morte è frutto di un errore amministrativo, forse
fa invece riferimento ad una scomparsa avvenuta durante un tentativo
di fuga in mare.
Anche
il marinaio cannoniere Antonio Formisano, 24 anni, da San Giorgio a
Cremano, secondo i dati del Commissariato Generale per le Onoranze ai
Caduti in guerra del Ministero della Difesa risulta disperso in
prigionia in Germania il 9 settembre 1943; tuttavia gli Archivi di
Arolsen, il più grande centro documentazione al mondo sui campi di
concentramento della Germania nazista, permettono di avere qualche
informazione in più sulla sua sorte successiva. Dopo la cattura al
Pireo Antonio Formisano, in circostanze che non è dato conoscere,
non finì in un “semplice” campo di prigionia ma in un vero e
proprio campo di concentramento: quello di Buchenwald, dove fu
classificato “prigioniero politico” e ricevette la matricola
23372, il 15 ottobre 1943.
Da
Buchenwald Formisano venne trasferito il 27 giugno 1944 – data in
cui un rapporto medico sulle sue condizioni parlava di “lesione
al 3° e 4° dito destro con atrofia e paralisi, vista debole
all’occhio destro, piedi piatti, dentizione incompleta”
– nel Kommando Laura, un sottocampo situato a Lehesten, 30 km a
sudest di Saalfeld (Turingia), i cui deportati erano adibiti allo
scavo, in una vecchia cava d’ardesia a 900 metri di quota, delle
gallerie destinate ad ospitare gli impianti per i test dei missili V2
e per la produzione dell'ossigeno liquido e del nitrogeno da questi
usati come carburante. (Da altra fonte il percorso fatto risulterebbe
contrario: a metà ottobre 1943 170 militari italiani prigionieri
furono trasferiti da Oranienburg al Kommando Laura per essere adibiti
insieme ai deportati politici allo scavo delle gallerie, ed il 27
giugno 1944 gli 83 che ancora erano vivi, 21 dei quali in condizioni
tali che il medico del campo ne sconsigliava il trasferimento prima
di un mese e mezzo, furono mandati a Buchenwald. Tra di essi vi
dovevano essere Formisano e, come si vedrà, diversi altri membri
dell’equipaggio del Crispi).
1.jpg)
Documenti
del campo di concentramento relativi ad Antonio Formisano (Arolsen
Archives)
2.jpg)
3.jpg)
Aperto
il 21 settembre 1943 (dopo il bombardamento di Peenemünde
dell’agosto precedente, che aveva portato alla decisione di
trasferire sottoterra gli impianti) ed attivo fino al 13 aprile 1945,
“Laura” aveva inizialmente 200 detenuti ma questo numero crebbe
rapidamente fino a 1200 nel dicembre 1943, per poi dimezzarsi da lì
alla fine della guerra; in 540 vi morirono. Dal settembre 1943
all'inizio dell'aprile 1944 i prigionieri lavorarono allo scavo delle
gallerie sotterranee della fabbrica in condizioni infernali,
lavorando fino allo sfinimento tra i morti provocati oltre che da
fatica e maltrattamenti dai continui incidenti, alloggiati in hangar
esposti al vento e al freddo, con poco cibo e nessuna assistenza
sanitaria. Nell'aprile 1944, quando gli impianti divennero operativi,
le condizioni di vita ebbero un certo miglioramento, ma la mortalità
rimase considerevole. La produzione rimase inferiore a quanto
preventivato dai tedeschi, anche grazie ai sabotaggi operati dai
prigionieri a rischio della vita.
Successivamente
Formisano fu nuovamente trasferito in un altro famigerato campo di
concentramento, Dora-Mittelbau, vicino a Nordhausen. In questo campo,
creato nella tarda estate del 1943 ed attivo fino all’aprile 1945,
i prigionieri, 60.000 in tutto, erano impiegati nella costruzione dei
missili V1 e V2: vivevano e lavoravano in condizioni disumane, nelle
gallerie sotterranee scavate nella roccia del monte Kohnstein, nel
gruppo degli Harz (sempre in Turingia), dov’era stata delocalizzata
la produzione delle V1 e V2 per sottrarle ai bombardamenti aerei
Alleati dopo le incursioni della RAF sugli impianti di Peenemünde,
dove le “super-armi” erano state sviluppate, nell’agosto del
1943. Il bombardamento di Peenemünde aveva avuto luogo tra il 17 ed
il 18 agosto 1943, e già dieci giorni dopo, il 28 agosto, i primi
deportati erano arrivati nel neocostituito campo di Dora, sorto
inizialmente come sottocampo (Arbeitslager)
del campo di concentramento di Buchenwald. Nel gennaio 1944, essendo
stata ormai completata buona parte delle gallerie, ebbe inizio
l’attività di assemblaggio delle V1 e V2; dal momento che i
deportati impiegati nella fase iniziale dei lavori di realizzazione
delle gallerie – sovietici, polacchi e francesi – erano in gran
parte morti di freddo e di fame, ed i rimanenti erano indeboliti o
considerati “poco qualificati”, furono trasferite a Dora aliquote
di prigionieri prelevati da altri campi. Quando questi furono
diventati troppo numerosi per poter essere tutti alloggiati nelle
gallerie, si iniziarono a realizzare baracche sulle alture
circostanti; il 28 ottobre 1944 Dora-Mittelbau divenne un campo di
concentramento autonomo, con una quarantina di sottocampi dipendenti
sparpagliati per i monti Harz. Vennero realizzate altre gallerie, per
trasferire sottoterra, al riparo dai bombardamenti, anche depositi di
carburante e fabbriche di aerei.
La
maggior parte dei prigionieri erano sovietici, polacchi e francesi,
ma c’erano anche 1500 italiani, per la metà militari catturati
dopo l’8 settembre e per metà oppositori politici (contraddistinti
dal triangolo rosso): i primi erano giunti nel dicembre 1943. I
militari italiani trasferiti a Dora indossavano la stessa divisa
degli altri deportati, il tristemente famoso “pigiama a righe”,
contraddistinto però dalla scritta «I.M.I.»; ma il trattamento non
differiva minimamente da quello degli altri deportati. Le SS li
chiamavano sprezzantemente “Badoglio” o “maccaroni”.
Impiegati
nello scavo delle gallerie, i prigionieri lavoravano quattordici ore
al giorno, con pochissimo cibo (un solo pasto al giorno, al mattino:
una zuppetta, una tazza di caffè d’orzo annacquato, un pezzetto di
pane), tormentati dai pidocchi e senza vedere la luce del sole per
mesi; dormivano in letti a castello di legno, senza coperte,
respirando continuamente polvere. Chi commetteva infrazioni di
qualsiasi tipo – sabotaggio, ma anche soltanto tentare di rubare un
po’ di cibo in più o di riposarsi un poco – era punito davanti a
tutti, con la fustigazione o l’impiccagione, a seconda del “reato”
commesso. Ciononostante, molti furono gli atti di sabotaggio commessi
da quei prigionieri, che nella sconfitta della Germania – e quindi
anche nel fallimento delle sue nuove armi – riponevano tutte le
speranze di salvezza: i congegni di controllo delle V2 potevano
essere facilmente messi fuori uso, ed i difetti non sarebbero stati
scoperti fino al momento del lancio. Infatti, ben un quinto delle V1
prodotte non riuscì neanche a partire, mentre delle V2 addirittura
la metà esplose al momento del lancio, e metà di quelle partite non
raggiunse mai l’Inghilterra.
Don
Luigi Pasa, cappellano militare nel campo di Wietzendorf, così
scriveva alle autorità vaticane, l’8 maggio 1945, riferendo dei
deportati trasferiti da Dora-Mittelbau giunti a Wietzendorf pochi
giorni prima: «…Ma nella
massa che assomma tante copie di sofferenze quali neppur gli anni
avvenire potranno del tutto rivelare sono facilmente individuabili e,
per i segni fisici ed esteriori, i bigio-rigati provenienti dai
lavori delle gallerie di Dora (Nordhausen) la cui tragedia va
ricordata accanto a quelle vissute nei campi di Buckenwalde e di
Belen. Sono circa 400 qui giunti la mattina del 4 maggio dal campo di
Belen, dove erano stati trasferiti l’11 aprile (dopo l’abbandono
di Dora sotto l’incalzare delle Armate Alleate) con un viaggio
durato sei giorni ed effettuato in carri bestiame aperti, a più di
100 per carro, sotto la pioggia, senza cibo, seminando la strada
ferrata di morti. Eppure avevano motivo di reputarsi fortunati i
partiti da Dora, quando si sapeva che gli ultimi dei loro compagni, a
seguito della impossibilità di trasporto, erano stati eliminati
dalla mitragliatrice delle S. S. Dora, a circa 4 km. da Nordhausen in
Turingia, era uno dei centri di fabbricazione dei V1 V2, altrimenti
nota con il nome di Mittelwerok. Ivi furono fatti affluire già alla
fine del 1943 internati politici di tutte le nazionalità, e nel
dicembre dello stesso anno, circa 600 tra militari e politici
italiani; il numero poi crebbe fino a 1300. Il primo lavoro
consistette nella costruzione della galleria sotterranea, anzi del
complesso di gallerie da adibirsi a cantiere per uno sviluppo di due
km e mezzo di profondità per m. 200 di lunghezza. Tale opera venne
realizzata con un sistema di lavoro forzato nella sua espressione più
brutale e selvaggia, durata fino al 1 maggio 1944. In questo
frattempo dei 25.000 adibiti ai lavori, moltissimi passarono più di
3 mesi senza mai vedere la luce del sole. Addensati nelle gallerie
graveolenti di gas acetilene, sotto lo stillicidio della roccia, con
un vitto affatto insufficiente (la ben nota razione dell’internato)
privi di qualsiasi assistenza estranea e perfino di quella religiosa,
senza alcuna notizia della famiglia, della Patria, del mondo, erano
costretti al pesante lavoro dei minatori per 12 (e alle volte per 18)
ore consecutive e con la non meno grossa appendice di due appelli,
che significavano altre quattro ore sottratte al riposo. Dire queste
cose è però dir nulla. Bisogna cavare dalle loro bocche, che a dire
il vero non sono facili al racconto, la narrazione di quello che
hanno sofferto, perché possiamo credere ai nostri orecchi noi, che
pur abbiamo vissuto la vita di prigionia. Ogni frase, ogni
particolare è una pennellata, che incupisce il calvario di questi
sepolti vivi. Ci limitiamo a riferire alcuni appunti relativi alle
loro condizioni generali di vita e di lavoro. Quelli del primo
scaglione, non appena giunti sul posto, furono spogliati totalmente e
vennero loro tolte le divise, gli indumenti e tutti gli oggetti che
ancora avevano. Fu loro dato un vestito a larghe righe
bianco-azzurre, il tipico vestito da galeotto e questo, che molti di
essi portano ancora, caratterizza il rigore, cui erano sottoposti,
più grave che in qualsiasi penitenziario. Il Comando del campo era
affidato alle SS i quali si servivano per la disciplina di un corpo
di criminali comuni tedeschi portanti i contrassegni dei loro
delitti. Durante il lavoro invece erano sottoposti al controllo dei
dirigenti civili o tecnici delle imprese esecutrici, sempre pronti a
scaricare sui lavoratori qualsiasi responsabilità per guasti,
rotture, ecc. ed a minacciare le feroci pene comminate per
sabotaggio. SS, criminali comuni, dirigenti civili e controlli
tecnici gareggiavano fra loro nei maltrattamenti. Oltre le ingiurie
più umilianti e le percosse dispensate di continuo per motivi più
futili o addirittura senza motivo venivano inflitte quotidianamente
in serie le punizioni per così dire disciplinari costituite dalla
fustigazione. Parecchi recano nel corpo e anche nel volto i segni
dello staffile, subiti spesso per un pretesto qualsiasi, altre volte
per motivi addirittura ignorati. La ferocia ed i metodi si
esprimevano in modo particolare con la minaccia delle rappresaglie e
con la punizione collettiva. Tutti hanno negli occhi le quotidiane
impiccagioni, specialmente dei russi e la fucilazione, avvenuta verso
al fine del 1943 di 7 alpini rei di aver chiesto anche per loro un
supplemento (mezzo litro) di minestra di rape, di cui beneficiavano
gli internati di altre nazionalità, adibiti allo stesso lavoro di
perforazione. Tutto ciò per tacere delle più crudeli e raffinate
sevizie escogitate dai feroci aguzzini. Nessun conforto, neppure di
quelli minimi e indispensabili, che si realizzano nelle circostanze
più misere della vita era lor concesso, non un giaciglio stabile,
che ogni sera dovevano affidarsi alla sorte, non acqua né per bere,
né per lavarsi, mentre l’insufficiente vitto era raccolto e
consumato in vecchi barattoli da loro raccolti nell’immondezzaio.
Tali condizioni di vita, anche solo accennate, fanno agevolmente
ritenere, come conseguenza ineliminabile, l’alta mortalità subita.
In proposito i sopravvissuti non hanno, anche per il rigoroso
distacco in cui erano tenuti i vari gruppi, dati precisi. Ma qualche
particolare può essere tragicamente significativo. Il sergente
Vimercati Carlo di Cremano sul Naviglio (Milano) ed il caporale
Mantovani Silvano di Mantova, mi asseriscono che dei 14 componenti
del loro Komandos solo essi due sono oggi superstiti. Da varie
risultanze, che sarebbe troppo lungo riferire, può ritenersi che –
specie fra i lavoratori adibiti alla perforazione – la percentuale
dei decessi abbia superato il 50%. Praticamente essendo nulla ogni
assistenza sanitaria, i lavoratori dovevano portarsi al posto di
lavoro anche se ammalati. Quando non erano più in grado di muoversi,
venivano portati dai compagni al luogo dell’infermeria, che però
abitualmente li rifiutava, accusandoli, senza neppure visitarli, di
simulazione. E intanto ogni giorno morivano sul giaciglio di fortuna,
ed al vicino incombeva portare fuori, al mattino, la spoglia del
compagno e così, centinaia di corpi denudati si accatastavano ogni
giorno nelle gallerie e uscivano solo morti alla luce del sole per
venire portati a bruciare nel crematorio. Tale vita era resa più
angosciosa dall’ignoranza della lingua e dalla mancanza di
interpreti, dalla promiscuità di elementi di altre nazionalità, nei
cui confronti i tedeschi ostentavano un trattamento meno astioso che
per gli italiani, e specialmente dall’assoluta privazione di
qualsiasi assistenza spirituale e religiosa e di qualsiasi
collegamento epistolare con la famiglia e la Patria».
Un sopravvissuto francese avrebbe ricordato: “Non
vedevamo la luce del giorno che una volta alla settimana, in
occasione dell'appello della domenica. Nel tunnel il freddo e
l'umidità erano intensi. L'acqua che filtrava dalle pareti provocava
una macerazione nauseante. Il fracasso inaudito che regnava lì
dentro fu causa di veri crolli psicologici: rumore di macchine,
rumore di martelli pneumatici, la campanella della locomotiva,
continue esplosioni, tutto rimbombava e si ripercuoteva in un'eco
senza fine nel chiuso del tunnel”.
In
tutto, circa 20.000 prigionieri morirono a Dora-Mittelbau; a inizio
aprile 1945 i superstiti vennero trasferiti, parte in treno e parte a
piedi con marce forzate (le tristemente note “marce della morte”),
verso Ravensbrück, Sachsenhausen e Bergen-Belsen, così che soltanto
poche centinaia di superstiti scheletriti erano a Dora quando il
campo fu liberato dalle forze statunitensi l’11 aprile 1945.
Secondo i documenti disponibili, gli "internati militari
italiani" che finirono in questo campo furono 861: ne morirono
304, e tra questi fu quasi certamente anche Antonio Formisano, la cui
esatta data di morte sembra tuttavia essere sconosciuta. Un documento
di fine ottobre 1944 attesta che si trovava prigioniero a
Dora-Mittelbau; poi più nulla.
Il
sergente S.D.T. Mario Genasi da Crespellano, il marinaio
radiotelegrafista Dante Gozzini da Milano ed il sottocapo furiere
Sibante Pagano da Riomaggiore riuscirono a sottrarsi alla cattura, od
a fuggire, e si unirono alla Resistenza greca, ma il loro destino fu
tragico: ricatturati dopo poche settimane e considerati non più come
prigionieri di guerra o “internati militari”, ma come partigiani,
subirono il trattamento a questi riservato dai nazisti e vennero
fucilati nel poligono di Kesariani, vicino ad Atene, il 22 novembre
1943, insieme ad alcuni granatieri catturati in analoghe circostanze.
Genasi aveva da poco compiuto 23 anni, Pagano era di un anno più
giovane, Gozzini compiva diciannove anni proprio il giorno della sua
morte. Furono sepolti nel cimitero di Atene, da dove in seguito i
loro resti vennero traslati in sacrari in Italia o nei cimiteri dei
rispettivi paesi natali.
Secondo
una fonte avrebbe fatto parte dell’equipaggio del Crispi
anche il sottocapo cannoniere Angelo Mosetti, 22 anni, da Savogna
d’Isonzo, anch’egli fucilato a Kesariani il 22 novembre 1943 (per
altra versione sarebbe deceduto in prigionia nella medesima data “per
causa imprecisata” nell’ospedale da campo 536, in Grecia, e
sepolto ad Atene). L’Albo dei caduti e dispersi della Marina
Militare nella seconda guerra mondiale indica invece il suo reparto
come “Cherca”, ma sembra abbastanza probabile un errore (non si
vede come un militare di stanza a Cherca potesse essere finito in
Grecia dopo l’armistizio) e che anche Mosetti facesse
effettivamente parte dell’equipaggio del Crispi
ed abbia condiviso la sorte di Genasi, Gozzini e Pagano.
Il
marinaio Giovanni Dimini, di 21 anni, da San Lorenzo d’Albona, fu
imprigionato in successione nello Stalag III D, nello Stalag IX C e
nello Stalag IV B.
Lo
Stalag III D era situato a Lichterfelde, sobborgo di Berlino: sorto
nel 1938 come accampamento per 1400 lavoratori delle ferrovie
tedesche originari dei Sudeti, l’anno successivo era stato
parzialmente affittato dalla Wehrmacht, che ne aveva fatto un campo
di prigionia, inviandovi un primo gruppo di 2600 prigionieri. La
denominazione di Stalag III D venne attribuita al campo nell’agosto
1940; i primi prigionieri erano polacchi, mentre con l’invasione
della Francia il gruppo più numeroso divenne quello dei francesi
(nel gennaio 1941 questi ultimi erano 18.160, su un totale di 18.172
prigionieri dello Stalag III D). In totale lo Stalag III D “ospitò”
fino a 58.000 prigionieri: oltre agli italiani, anche belgi,
britannici, francesi, jugoslavi, sovietici, polacchi, cecoslovacchi e
statunitensi. Caratteristica abbastanza insolita di questo campo era
che un vero e proprio campo principale non esisteva, se non come
unità amministrativa: i prigionieri erano suddivisi in una miriade
di sottocampi (Zweiglager)
e campi di lavoro (Arbeitskommando)
situati in varie zone di Berlino o nei dintorni della città, venendo
adibiti alla realizzazione di rifugi antiaerei od al lavoro nelle
fabbriche di armamenti od in altre ditte minori della zona. I
principali sottocampi erano a Falkensee, Zossen (Groß Schulzendorf),
Friesack (Wutzetz, Damm I, Damm II), Neuruppin (Wustrau I, Wustrau
II), Zietenhorst e Kirchhain/Niederlausitz. Il campo era servito da
due ospedali, i Reservelazarett 119 di Neukölln e 128 di
Berlino-Biesdorf. Con l’armistizio di Cassibile e l’operazione
"Achse" per la neutralizzazione delle forze armate
italiane, furono gli italiani a diventare il gruppo più numeroso
allo Stalag III D: nel dicembre 1943, infatti, erano 30.519 gli
“internati militari italiani” registrati presso questo campo; più
tardi il loro numero salì a 38.000. Venivano impiegati
nell’industria bellica e nella rimozione delle macerie causate dai
bombardamenti; molti morirono per malnutrizione e malattie.
Dello
Stalag IX C si è già detto in precedenza; lo Stalag IV B, situato
al confine tra la Sassonia ed il Brandeburgo, era uno dei più grandi
campi di prigionia di tutta la Germania. Situato a pochi chilometri
dalla cittadina di Mühlberg, a nord di Dresda, era stato creato nel
settembre 1939 e copriva una superficie di una trentina di ettari; i
primi “ospiti” erano stati 17.000 soldati polacchi catturati
durante l’invasione tedesca del loro Paese, che per due mesi
rimasero accampati all’aperto od in tende prima di essere
trasferiti in altri campi. Nel maggio 1940 iniziarono ad arrivare
prigionieri francesi, ed un anno dopo britannici ed australiani
catturati in Grecia ed a Creta e poi sovietici catturati nelle fasi
iniziali di “Barbarossa”; nel settembre 1943 seguirono altri
britannici, australiani, neozelandesi e sudafricani già prigionieri
in Italia, trasferiti in Germania dopo l’occupazione tedesca della
Penisola, e con essi gli ex alleati italiani. In tutto, per lo Stalag
IV B passarono circa 300.000 prigionieri di 33 nazionalità diverse.
Nell’aprile
1941 fu costruito presso un campo d’addestramento militare a
Zeithain, ad una decina di km di distanza, un sottocampo denominato
inizialmente Stalag 304, poi Stalag IV-H ed infine (dal 1942) Stalag
IV B Zeithain: realizzato impiegando prigionieri francesi e jugoslavi
e destinato ai prigionieri sovietici in vista dell’invasione
dell’URSS lanciata due mesi dopo, ne “accolse” 11.000 tra
giugno e luglio, ma questi morirono in massa di fame e di tifo nei
mesi successivi (fino a settembre non furono costruite nemmeno le
baracche in cui dormire), tanto che ad aprile 1942 solo 3279 erano
ancora in vita. In seguito arrivarono altri prigionieri sovietici
catturati nelle offensive del 1942, che continuarono ad avere un’alta
mortalità (in tutto, a Zeithain morirono tra i 25.000 ed i 30.000
prigionieri sovietici); alla fine del 1942 i circa 10.000 prigionieri
sovietici ancora in condizioni di salute relativamente buone vennero
trasferiti in Belgio, e nel febbraio 1943 Zeithain fu trasformato in
un campo ospedale, lo Stalag IV-B/H, che nella parte principale
“ospitava” ancora prigionieri sovietici affetti da tubercolosi,
che continuavano a morire al ritmo di 10-20 al giorno. Un’altra
sezione, più piccola, era riservata ai prigionieri malati di altre
nazionalità, tra cui centinaia di polacchi e jugoslavi, portati da
altri campi.
Nel
settembre 1943 una sezione del campo fu adibita al ricovero di
prigionieri italiani malati; circa 900 di essi morirono nel campo in
conseguenza della scarsa igiene, del poco cibo e dell’insufficiente
assistenza medica, e furono sepolti in tombe individuali nel cimitero
militare di Jacobsthal, a differenza dei sovietici che erano sepolti
in fosse comuni.
Giovanni
Dimini morì per malattia l’8 marzo 1944 nell’ospedale militare
di Zeithain e fu sepolto nel locale cimitero militare italiano.
Il
marinaio fuochista Giuseppe Greco, di 23 anni, da Linguaglossa, finì anch'egli a Buchenwald, il 15 ottobre 1943, e poi a Dora-Mittelbau. Qui si persero le sue tracce il 28 ottobre 1944, data in cui dai documenti del campo (che attestano tra l'altro che aveva contratto la febbre tifoidea) risulta che fu decretata per lui la "Postsperre", il blocco della corrispondenza postale. Di
lui non si seppe più nulla: certamente morì a Dora come tanti altri.
Il
sottocapo cannoniere Attilio Givossi, di 25 anni, da Pola, finì come
Antonio Formisano a Buchenwald e poi nell’inferno di
Dora-Mittelbau: di lui si conosce però la data di morte, avvenuta il
31 dicembre 1944. Fu sepolto a Sangerhausen, nella Sassonia-Anhalt.
Il
marinaio Antonio Sgherza, da Mofetta, che proprio l’8 settembre
1943 aveva compiuto 21 anni, morì anch’egli in prigionia il 31
dicembre 1944, ma in Grecia.
Il
marinaio cannoniere Luciano Gennari, nato a Calestano nel 1923, ebbe
un percorso analogo a quelli di Antonio Formisano ed Attilio Givossi:
il 25 ottobre 1943 arrivò a Buchenwald, da dove il 27 giugno 1944 fu
trasferito al Kommando Laura ed il 25 luglio 1944 a Dora-Mittelbau.
Nuovamente trasferito a Mittelbau II ed ad Ellrich, sottocampi di
Dora, vi morì il 3 gennaio 1945, forse per la tubercolosi da cui,
secondo un documento del campo del 27 giugno 1944, era probabilmente
affetto.
Documenti
di Luciano Gennari nell’archivio del campo di concentramento
(Aroldsen Archives)
Il
marinaio cannoniere Nicola Schingaro, 22 anni, da Bari, fu dichiarato
disperso in prigionia in Germania pochi giorni dopo, il 15 gennaio
1945. Non è stato possibile rintracciare alcuna informazione sui
campi in cui fu imprigionato.
Il
marinaio fuochista Spartaco Bilaghi, 23 anni, da Piombino, morì in
prigionia a Gera, in Turingia, il 23 gennaio 1945.
Il
marinaio Paolo Barbieri, nato a Castel San Giovanni il 24 dicembre
1922, fu l’ennesimo marinaio del Crispi
che, dopo essere stato inizialmente imprigionato in un “normale”
campo di prigionia (lo Stalag IX C), venne trasferito dapprima a
Buchenwald (il 15 ottobre 1943), quindi al Kommando Laura (il 27
giugno 1944) e poi a Dora-Mittelbau (il 29 ottobre 1944), dove morì
il 13 marzo 1945.
Documenti
da “Häftling”
di Paolo Barbieri (Aroldsen Archives)
Il
marinaio fuochista Pietro Papi, di 21 anni, da Novellara, morì in un
bombardamento aereo il 14 marzo 1945 durante la prigionia a Gladbach,
nel Nordreno-Westfalia. Sepolta inizialmente a Gladbach e trasferita
negli anni Cinquanta nel Cimitero militare italiano d’onore a
Francoforte sul Meno, la sua salma è stata rimpatriata nel 2021 su
richiesta della famiglia (che in precedenza ignorava dove fosse
sepolta), venendo tumulata nel cimitero del suo paese natale.
Sopra,
il marinaio fuochista Pietro Papi e la pietra d’inciampo collocata
presso quella che era la sua abitazione; sotto, la cerimonia di
sepoltura a Novellara dopo il rimpatrio dei resti dalla Germania (da
www.istoreco.re.it)
L’ultimo
membro dell’equipaggio del Crispi
a morire in prigionia fu il marinaio fuochista Mariano Longo, 24
anni, da Catania. Il suo percorso fu lo stesso di Antonio Formisano,
Attilio Givossi, Luciano Gennari e Paolo Barbieri: dopo essere stato
inizialmente imprigionato nello Stalag IX C, il 15 ottobre 1943 fu
trasferito a Buchenwald, da qui il 27 giugno 1944 al Kommando Laura e
successivamente a Dora-Mittelbau. Venne dichiarato disperso in
prigionia il 25 marzo 1945: di lui non si seppe più nulla.
Documenti
del campo di concentramento relativi a Mariano Longo (Aroldsen
Archives)
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5.jpg)
Secondo
fonti greche, il 17 settembre 1943 membri dell’organizzazione
“Apollo” della Resistenza ellenica avrebbero fornito
all’equipaggio italiano del Crispi
degli esplosivi per sabotare la nave, che sarebbe stata così messa
fuori uso per due mesi. Di quest’azione non vi è traccia nei diari
di guerra (KTB) del Comando navale tedesco dell’Egeo; a quanto
risulta l’equipaggio del Crispi,
come quelli delle altre navi italiane catturate al Pireo, venne
sbarcato già il 9 settembre, dunque non sarebbe dovuto essere
possibile un atto di sabotaggio otto giorni più tardi, a meno che a
commetterlo non fossero stati quegli uomini che i tedeschi
obbligarono inizialmente a rimanere a bordo per aiutare il nuovo
equipaggio tedesco a familiarizzare con la nave. Vero è che l’ex
Crispi
venne dichiarato in grado di prendere il mare il 30 ottobre 1943,
circa un mese e mezzo dopo il presunto sabotaggio, ma comunque prima
degli ex Solferino,
Castelfidardo
e Calatafimi,
e solo due giorni dopo gli ex Turbine
e San Martino
(secondo una fonte tedesca, anzi, Crispi
e Turbine
sarebbero state le unità in migliori condizioni tra quelle catturate
al Pireo ed a Creta dopo l’armistizio). Il già citato volume USMM
“Navi militari perdute” afferma che sul Crispi
fu compiuto “qualche atto
di sabotaggio” subito
prima della cattura, il 9 settembre 1943.
Sorge
spontaneo il dubbio che vi possa essere un legame tra questo
sabotaggio – se effettivamente avvenne, con successo o meno – ed
il trattamento particolarmente brutale riservato dai tedeschi a
diversi membri dell’equipaggio del Crispi,
quattro dei quali furono fucilati nel novembre 1943 (Mario Genasi,
Dante Gozzini, Sibante Pagano, Angelo Mosetti) mentre altri sei (Antonio Formisano, Attilio Givossi, Giuseppe Greco, Luciano Gennari, Paolo Barbieri,
Mariano Longo) finirono, classificati come “prigionieri politici”
anziché “internati militari”, dapprima nel famigerato campo di
concentramento di Buchenwald e poi in quello di Dora-Mittelbau, ove
trovarono la morte.
Incorporato
nella Kriegsmarine ed armato da un equipaggio tedesco, l’ormai
ex Crispi entrò
in servizio sotto bandiera tedesca il 30 ottobre 1943; inizialmente
ribattezzato – il 25 o 30 ottobre, a seconda delle fonti – TA
17, dove TA stava per
"Torpedoboot Ausland", ossia torpediniera di origine
straniera, il successivo 16 (o 18) novembre venne ribattezzato TA
15 (sigla fino a quel
momento portata dalla ex Calatafimi,
che divenne TA 19),
mentre la sigla TA 17
andò alla ex San Martino.
(Il motivo di questo contorto cambio di nomi, deciso dal Comando
superiore della Kriegsmarine e che ha comprensibilmente generato non
poca confusione circa l’impiego iniziale di queste unità, non è
molto chiaro).
Fu
quindi assegnato insieme a TA
14, TA
16, TA
17, TA
18 e TA
19 (rispettivamente
ex Turbine, Castelfidardo, San
Martino, Solferino e Calatafimi,
dopo la sistemazione definitiva delle sigle alfanumeriche) alla
neocostituita 9. Torpedobootsflottille (9a Flottiglia
Torpediniere, dapprima al comando del capitano di fregata Walter
Riede e poi, dal 15 marzo 1944, dal parigrado Hans Dominik), creata
ad Atene il 20 settembre 1943 (per altra fonte al Pireo il 4 ottobre
1943) e composta interamente da unità ex italiane; le navi di questa
flottiglia vennero destinate a compiti di scorta, trasporto truppe e
prigionieri, posa di mine e supporto a sbarchi nell’Egeo.
I
tedeschi che presero in consegna le siluranti catturate al Pireo le
trovarono in condizioni pessime, sporche, malandate, “vandalizzate”
ed infestate dai parassiti. Nei loro rapporti il comandante della 9.
Torpedobootsflottille, il capo servizio Genio Navale della flottiglia
ed i comandanti delle singole unità elencarono una pletora di
problemi: dopo la loro cattura le navi erano state sistematicamente
saccheggiate dalle autorità navali tedesche, al punto che non
c’erano più attrezzi né parti di ricambio; i sistemi di
monitoraggio del livello di acqua, aria e carburante in caldaia erano
insufficienti, costringendo a regolarsi manualmente ed in base
all’esperienza; i cavi elettrici erano in pessimo stato e soggetti
a continui cortocircuiti verso massa; gli impianti di bordo
apparivano “malandati” e “trascurati”, valvole, rubinetti e
mandrini erano bloccati (a volte in posizione aperta ed a volte
chiusa), le tubature perdevano, caldaia e serbatoi erano arrugginiti
ed insabbiati. I macchinisti italiani trattenuti ad Atene asserirono
che le navi in missione non superassero mai i 15 nodi, e che per il
rischio di perdite di vapore, gli impianti fossero azionati dal ponte
superiore; i cannoni non venivano usati da tempo.
Come
se non bastasse, la qualità dei lavori effettuati dai cantieri
navali greci era bassa, gli uffici tedeschi ad Atene erano intenti a
scaricare vicendevolmente le loro responsabilità e frapporre
ostacoli burocratici ai comandi operativi (per ottenere un
collegamento telefonico fu necessario rivolgersi a ben sei
dipartimenti diversi), ed il personale giunto dalla Germania per
formare i nuovi equipaggi era giudicato inesperto, indisciplinato ed
inadeguato al compito per carattere e capacità. Comandanti ed
ufficiali di macchina lamentarono come i comandi di terra
liquidassero le loro richieste ed i loro reclami, per non dover
agire, con il commento che “dopotutto gli italiani andavano per
mare con quelle stesse navi”.
Le
navi presero il mare la prima volta il 30 settembre 1943, ma solo il
4 novembre, dopo i necessari lavori, quattro unità (tra cui l’ex
Crispi,
all’epoca ancora TA 17)
furono giudicate abbastanza efficienti da tentare una prima
esercitazione di navigazione in formazione e di tiro con le
artiglierie. Le vibrazioni provocate dal fuoco dei cannoni furono
sufficienti a causare avarie di macchina su tutte e quattro le navi.
Il 6 novembre il capoflottiglia Riede dichiarò che le navi erano
“limitatamente pronte ad operazioni belliche”, mentre il
comandante della TA 17,
ex Crispi,
annotava sul diario di bordo che «Nonostante
la mia mancanza di fiducia nella nave a causa delle sue cattive
condizioni strutturali in termini di dispositivi di sicurezza,
stabilità, etc. ..., nonostante la mancanza di qualsiasi
addestramento al combattimento, ... Con il rapporto K.B. di oggi mi
assumo la responsabilità... Il comandante e l’equipaggio hanno ben
chiaro che una missione con questa nave è un gioco d’azzardo».
L’armamento
della TA 15 venne
modificato dai nuovi proprietari: l’impianto lanciasiluri poppiero
da 533 mm venne rimosso (e quello prodiero fu adattato all’impiego
di siluri tedeschi), mentre l’armamento contraereo venne potenziato
con l’installazione di un cannone Bofors Flak 28 da 40/56 mm
(installato al posto di una mitragliera Oerlikon da 20 mm situata sul
ponte di poppa, durante lavori protrattisi dal 18 al 28 ottobre 1943)
e due mitragliere singole Breda M1939 da 37/54 mm (installate al
posto dell’impianto lanciasiluri poppiero), cui a inizio 1944,
dinanzi all’intensificarsi dell’offesa aerea angloamericana,
venne aggiunta una mitragliera quadrinata C/38 Flakvierling da 20/65
mm (per altra versione, sarebbe stata aggiunta anche un’ulteriore
mitragliera da 20 mm, mentre le mitragliere da 13,2/76 mm tornarono
sulla plancia). Quattro lanciabombe per bombe di profondità vennero
sistemati attorno alla sovrastruttura poppiera; venne installato
anche un radar FuMo 28, e le ferroguide per le mine vennero adattate
al trasporto ed alla posa di mine tedesche. Fu eliminato l’alberetto
poppiero con il relativo telemetro e proiettore.
Lo
stato dell’apparato motore andò rapidamente deteriorandosi, tanto
che all’inizio del 1944 la nave si ritrovò a navigare con la sola
turbina sinistra funzionante e di conseguenza una velocità massima
di soli 15 nodi (rispetto ai 28 nodi che, in considerazione dell’età
e del logorio, erano risultati essere la sua velocità massima
all’epoca dell’entrata in servizio nella Kriegsmarine):
nondimeno, venne mantenuta in servizio a causa della penuria di
naviglio militare tedesco in Egeo.
Sotto
bandiera tedesca, l’ormai ex Crispi continuò
a fare quello che aveva fatto fino all’armistizio: scortare
convogli in Mar Egeo. Al suo comando venne destinato il tenente di
vascello Karlheinz Vorsteher.
Divenuta
operativa il 6 novembre 1943, la TA
17 (non ancora ribattezzata
TA 15)
svolse la prima missione sotto bandiera tedesca dall’11 al 14
novembre 1943, durante la battaglia di Lero.
Una
delle conseguenze più amare della cattura al Pireo ed a Creta delle
siluranti italiane dell’Egeo fu che queste navi, consegnate intatte
e riarmate da equipaggi tedeschi, poterono essere subito utilizzate
contro i loro ex proprietari: le guarnigioni italiane delle isole
dell’Egeo, che tra il settembre ed il novembre 1943 vennero
eliminate, una dopo l’altra, dalle forze tedesche.
Il presidio
che resisté più a lungo e con più accanimento fu quello di Lero,
ove aveva sede la più grande base navale italiana dell’Egeo:
difesa da 8300 italiani (per la maggior parte marinai), al comando
del contrammiraglio Luigi Mascherpa, e da 4000 britannici sbarcati
dopo l’armistizio al comando del generale di brigata Robert Tilney,
l’isola resisté a quasi cinquanta giorni di pesanti bombardamenti
da parte della Luftwaffe, durante i quali venne affondato anche
l’Euro,
ultimo cacciatorpediniere rimasto in mani italiane nell’Egeo.
Il
12 novembre, infine, ebbe inizio la battaglia finale: mezzi navali
sbarcarono truppe tedesche sulle coste di Lero, mentre aerei della
Luftwaffe vi paracadutavano centinaia di paracadutisti. Lasciata
Salamina nella notte tra l’11 ed il 12, fu proprio la TA
15, insieme a TA
14, TA
17 e TA
19 (nonché alla
motosilurante S 55,
ad una quindicina di cacciasommergibili della
21. Unterseebootsjägd-Flottille del capitano di corvetta
Günther Brandt, ad una dozzina di motodragamine della
12. Räumsboots-Flottille del tenente di vascello Luitwin
Mallmann ed al posamine ausiliario Drache,
quest’ultimo con ruolo di nave comando), a scortare il convoglio di
navi mercantili e motozattere che trasportò e sbarcò a Lero, tra
l’11 ed il 12 novembre, le truppe della 22a Divisione
Fanteria tedesca (Kampfgruppe "Müller", dal nome del suo
comandante, generale Friedrich-Wilhelm Müller), ed a fornire
appoggio allo sbarco con le sue artiglierie. Per la neonata 9.
Torpedobootsflottille, al comando del capitano di fregata Riede,
questa rappresentò la prima missione operativa: l’attacco contro
Lero, pronto già da metà ottobre, era anzi stato rimandato proprio
nell’attesa dell’approntamento delle siluranti italiane catturate
al Pireo, che sarebbero divenute operative a partire dal 5
novembre.
Le piccole unità con a bordo le truppe del
Kampfgruppe "Müller" si trasferirono dalla Grecia
continentale alle isole di Coo e Calino,
punti di partenza dell’assalto contro Lero, muovendosi di giorno,
con la scorta delle torpediniere e delle altre unità sopra citate ed
una nutrita copertura aerea di caccia della Luftwaffe; il
trasferimento avvenne a tappe, passando per le isole di Nasso,
Amorgo, Levita e Stampalia. Entro il 10 novembre, tutte le unità
erano concentrate a Coo e Calino,
da dove il giorno seguente mossero per Lero.
La flottiglia
d’invasione era suddivisa in due gruppi: quello occidentale,
partito da Coo (conquistata dai tedeschi il 4 ottobre), era composta
dalle motozattere F
123, F
129 e F
331 e
da due piccoli mezzi da sbarco per la fanteria, scortati dai
cacciasommergibili UJ
2101 e UJ
2102 e
dal motodragamine R
210 (il
tutto sotto il comando del tenente di vascello Hansjürgen
Weissenborn); quello orientale, partito in parte da Coo ed in parte
da
Calino
(occupata dai tedeschi il 7 ottobre), era formato dalle motozattere F
370 e F
497,
da due mezzi da sbarco per fanteria e da dodici imbarcazioni minori,
scortate dal cacciasommergibili UJ
2110 e
dal motodragamine R
195 (al
comando del tenente di vascello Kampen). La TA
15 e le altre
"Torpedoboote Ausland" della 9a Flottiglia
dovevano fornire supporto ad entrambi i gruppi, che complessivamente
trasportavano circa 1600 soldati del II Battaglione del 16°
Reggimento Fanteria (Infanterie-Regiment 16) e del II Battaglione del
65° Reggimento Granatieri (Grenadier-Regiment 65), divisi equamente
tra i due gruppi. Per l’eterogeneità, le ridotte dimensioni e la
vulnerabilità delle unità che la componevano, la flottiglia era
stata ironicamente soprannominata dagli uomini che ne facevano parte
“la crociata dei bambini”.
Alle
00.15 del 12 novembre TA 15
(al comando del tenente di vascello Karlheinz Vorsteher e con a bordo
il capoflottiglia, capitano di fregata Walter Riede), TA
14 (tenente di vascello
Hans Dehnert), TA 17
(tenente di vascello Helmuth Düvelius) e TA
19 (tenente di vascello
Jobst Hahndorff) salparono dal Pireo per appoggiare lo sbarco; fecero
rifornimento a Sira, dove tale operazione richieste ben nove ore
perché mal preparata e dove dovettero lasciare la TA
14 immobilizzata da
un’avaria (riparata la quale poté riprendere il mare l’indomani
alle quattro del mattino), dopo di che si divisero: la TA
15 ad ovest di Lero, le
altre due ad est dell’isola.
Aerei britannici avvistarono
ambedue i gruppi già all’1.20 del 12, ma i Comandi britannici del
Levante non si resero conto di ciò che quell’avvistamento
significava, nonostante i decrittatori di “ULTRA” avessero già
intercettato e decifrato, nei giorni precedenti, comunicazioni
tedesche da cui risultava che l’attacco contro Lero era previsto
per il 12 novembre. Quelle piccole e poco armate unità, e con esse
le vetuste "Torpedoboote Ausland" incaricate di
appoggiarle, sarebbero state agevolmente annientate anche solo da una
squadriglia di cacciatorpediniere, ma i Comandi britannici, timorosi
di incappare nei campi minati (che già avevano causato dolorose
perdite nelle settimane precedenti), non ne mandarono neanche uno.
L’operazione tedesca poté così procedere senza incontrare alcun
contrasto; la scorta del convoglietto occidentale, anzi, s’imbatté
“per strada” nel piccolo dragamine britannico BYMS
72 e
lo catturò, mentre alle 3.30 (per altra fonte le 2.35) del 12
novembre la TA 14
(per altra fonte la TA
17) incontrò per caso
la motosilurante britannica MTB
307 (in
navigazione da Castelrosso a Lero) al largo di Calino,
aprendo il fuoco contro di essa e mettendola in fuga. Alle 4.45 tutte
le motosiluranti britanniche di base ad Alinda presero il mare a
tutta forza per intercettare un piroscafo che era stato avvistato 4-5
miglia a sudest di Lero; non lo trovarono, ma più tardi, mentre
dirigevano verso nord, avvistarono al largo di Farmaco due
cacciatorpediniere che ritennero erroneamente britannici (erano, in
realtà, tedeschi). Alle cinque del mattino la motolancia
britannica ML
456,
in pattugliamento ad est della baia di Alinda, avvistò il gruppo
orientale e si avvicinò per scoprire di cosa si trattasse:
constatato che si trattava di dieci mezzi da sbarco e due
cacciatorpediniere, andò all’attacco, ma fu respinta e danneggiata
dall’R
195,
ripiegando nella baia di Alinda ove sbarcò alcuni feriti.
I
primi sbarchi avvennero alle 4.30 del mattino del 12, nella baia di
Palma ed a Pasta di Sopra, sulla costa nordorientale di Lero;
successivamente altre truppe vennero sbarcate nella baia di Pandeli,
vicino alla città di Lero. In avvicinamento a Lero, TA
14 e TA
15 vennero prese sotto il
tiro, piuttosto preciso, della batteria italiana San Giorgio, e
dovettero mantenersi nei pressi dei mezzi da sbarco e coprirli con
cortine fumogene, rispondendo al contempo al fuoco con le loro
artiglierie.
Il primo tentativo di sbarco del gruppo
occidentale, alle 5.43, venne respinto dal tiro delle batterie
costiere italiane (costringendo anche ad annullare contestualmente un
pianificato lancio di paracadutisti nella stessa zona); per
ordine del comandante della 9a Flottiglia, TA
14 e TA
15 guidarono un
secondo tentativo di sbarco alle 12.45, preceduto da altri
bombardamenti da parte di Jukers Ju 87 “Stuka” contro le batterie
costiere italiane all’estremità sudoccidentale dell’isola, ma
anche questo venne annullato quando il tiro delle batterie costiere
iniziò a mettere colpi a segno su mezzi da sbarco. Anche l’appoggio
di TA 17
e TA 19,
che avevano lasciato il loro settore sulla costa orientale per dare
manforte al gruppo occidentale, non modificò la situazione: nel
pomeriggio il gruppo occidentale tentò ancora una volta di sbarcare
le proprie truppe, stavolta con l’appoggio di tutte e quattro le
torpediniere della 9a Flottiglia
(che cannoneggiarono le batterie italiane con le loro artiglierie),
ma anche questo tentativo fu respinto, e la TA
17 incassò un colpo
da 120 o 152 mm nel locale caldaie numero 3, con due vittime (secondo
il diario operativo della Divisione Operazioni dello Stato Maggiore
della Kriegsmarine, vennero colpite sia la TA
17 che la TA
18: la prima ebbe i cannoni
posti fuori uso dal tiro italiano, mentre la seconda dovette ridurre
la velocità a dodici nodi a causa di un colpo in caldaia); anche
la F 370 venne immobilizzata e dovette essere presa a
rimorchio, mentre sulla TA
15 gli apparati per la
direzione del tiro furono messi fuori uso dal violento contraccolpo
provocato dal fuoco delle sue stesse artiglierie. La TA
17 mise in luce seri
problemi di stabilità, tanto che dopo essere sbandata durante una
brusca virata, fu necessario girare la ruota in senso contrario per
ripristinare l’assetto.
Le
torpediniere vennero poi inviate a Sira per rifornirsi di carburante,
mentre le unità da sbarco si ritiravano momentaneamente a Calino.
Venne notato da parte tedesca che “sfortunatamente
le macchine delle torpediniere non sono all’altezza delle necessità
dell’operazione, pertanto le torpediniere devono essere utilizzate
principalmente come trasporti veloci”.
A Sira si scoprì che l’acqua destinata alle caldaie era inadatta
allo scopo per l’eccessiva durezza e salinità, il che rese
necessario mandare le torpediniere al Pireo la sera del 13 novembre;
durante la navigazione incontrarono mare forza 6 che ne evidenziò
una volta di più i problemi di stabilità, tanto che fu giudicato
che virare sulla rotta di avvicinamento per il Pireo avrebbe
comportato un serio rischio di naufragio, e le torpediniere finirono
col ridossarsi a Serifo.
Meglio andò al gruppo orientale:
nonostante la reazione delle batterie costiere italiane ed i
contrattacchi delle truppe britanniche, i mezzi di quel gruppo
riuscirono a sbarcare abbastanza truppe da creare una testa di
sbarco, poi rinforzata col lancio di un battaglione di
paracadutisti.
Il 14 novembre le quattro torpediniere della
9a Flottiglia
vennero rimandate al Pireo, dove giunsero a mezzogiorno, in ritardo
sulla tabella di marcia per via delle avverse condizioni del mare;
tutte e quattro le unità risultarono fuori uso a causa dei danni
causati dalle batterie di Lero e di quelli provocati dallo stato del
mare, ma l’ammiraglio Lange ordinò al comandante della flottiglia
“In relazione alla
situazione dell’operazione Taifun, la flottiglia deve entrare in
azione. Tentate di ripartire dal Pireo il prima possibile”.
Venne deciso che TA 16,
appena entrata in servizio, e TA
17, dopo alcuni brevi
lavori, sarebbero salpate a mezzanotte con 166 uomini del
Reggimento "Brandenburg" da portare a Calino,
ma poco dopo la partenza entrambe le navi dovettero tornare in porto,
la TA 17
per perdite dell’acqua di alimentazione delle caldaie, la TA
16 per avarie al timone ed
eccessivo consumo di carburante. Successivamente venne deciso di
inviare un intero battaglione "Brandenburg", imbarcandolo
sulla TA 17,
che sarebbe partita da sola, sul Drache e
sul motodragamine R
211,
che sarebbero salpati insieme, mentre la TA
16 sarebbe rimasta al
Pireo per lavori (per altra fonte, nella notte tra il 15 ed il 16
novembre TA 15
e TA 16
trasportarono a Calino
parte del III Battaglione del 1° Reggimento "Brandenburg",
mentre il resto fu trasportato per via aerea con trimotori Ju 52; la
notte successiva, essendo stata la TA
16 immobilizzata da
un’avaria di macchina, la TA
15/TA
17 compì un altro viaggio
da sola, trasportando rinforzi, munizioni ed altri rifornimenti e poi
rientrando con feriti e prigionieri).
La storia ufficiale della
Marina italiana (volume USMM "Attività dopo l’armistizio –
Tomo II – Avvenimenti in Egeo") menziona ripetutamente i
cacciatorpediniere ex italiani nella sua descrizione della battaglia
di Lero:
a pagina 224, il volume scrive che i
primi colpi di cannone sparati dalle difese costiere di Lero furono
tirati alle prime luci dell’alba del 12, verso ponente, dalle
batterie Ducci (sita sul Monte Cazzuni ed armata con quattro pezzi
da 152/50 mm) e San Giorgio (ubicata sul Monte Scumbarda e munita di
tre cannoni da 152/40 mm), le quali misero così in fuga un
convoglio formato da «circa
6 Mz. [motozattere] scortate
da due Ct., probabilmente gli ex italiani catturati al Pireo, che
dirigevano verso l’isola da Sudovest»,
mentre i primi colpi sparati nella zona di levante furono esplosi
dalla batteria PL 127 (situata sul Monte Maraviglia ed armata con
quattro cannoni da 90/53 mm) che, dopo aver ricevuto dal Comando
britannico un allarme relativo a forze provenienti da est, aveva
avvistato a circa 15 miglia di distanza una formazione composta da
due cacciatorpediniere ed una ventina di motozattere, e di aver poi
avvistato alcune altre motozattere a sole 3-4 miglia verso Santa
Marina, sparando una salva in tale direzione «più
che altro per richiamare l’attenzione delle batterie navali del
settore»;
a pagina 225-226, la composizione
delle forze tedesche da sbarco viene stimata in due gruppi, dei
quali uno, proveniente da sudovest, formato da circa 6 motozattere
scortate da due cacciatorpediniere ex italiani, fu messo in fuga dal
tiro delle batterie Ducci e San Giorgio, che avrebbero colpito anche
uno dei cacciatorpediniere; dopo essere stato così respinto, il
gruppo si sarebbe ritirato verso Calino,
sparendo alla vista. L’altro gruppo, formato da numerose
motozattere ed altre unità e scortato anch’esso da due
cacciatorpediniere, seguì probabilmente una rotta sud-nord lungo la
costa orientale di Lero, tenendosi a 7-8 miglia di distanza onde
restare fuori tiro per le batterie costiere, ed assunse poi rotta
verso ovest, giungendo nella zona dello sbarco con rotta
perpendicolare alla costa, approfittando per avvicinarsi
dell’oscurità ed emettendo cortine nebbiogene; il gruppo si
suddivise in quattro scaglioni, che puntarono rispettivamente sulla
costa nordorientale dell’isola (alcune motozattere furono
affondate o costrette alla ritirata dalle batterie costiere, ma
altre riuscirono a sbarcare le loro truppe), sulla costa ad est di
Monte Clidi (giunsero a terra circa quattro motozattere, due delle
quali danneggiate dal tiro delle batterie costiere), sulla costa ad
est di Monte Appetici (una o due motozattere furono affondate dal
tiro delle batterie costiere, ma parte delle truppe giunse
egualmente a terra), e sulla costa settentrionale. Quest’ultimo
scaglione, formato da piccole unità, si avvicinò da nordest con
l’appoggio di due cacciatorpediniere, descritti dal volume USMM
come «probabilmente del
tipo Calatafimi»; il tiro
delle batterie costiere (specialmente la 888 di Blefuti, armata con
quattro pezzi da 76/40 mm) respinse le piccole unità, incendiandone
due e danneggiandone altre, che si ritirarono verso il largo dietro
una cortina nebbiogena stesa dai cacciatorpediniere, i quali
spararono contro la costa senza causare danni apprezzabili, mentre
uno di essi fu probabilmente colpito dalle batterie costiere;
a pagina 233, descrivendo lo sbarco
sulla costa ad est di Monte Appetici, si afferma che la batteria
Lago (dotata di sei cannoni da 120/45 mm), dopo aver affondato o
respinto alcune motozattere, «rivolse
il suo tiro contro un gruppo di piccole unità scortate da due Ct.
che incrociavano al largo, facendo cortine di nebbia e sparando
contro l’isola da grande distanza e con scarsi risultati. Sembra
che uno dei Ct. sia stato colpito da una granata. Le unità si
ritirarono scomparendo verso il largo ritirandosi dietro cortine di
nebbia»;
a pagina 234 è riferito che la
batteria PL 113, situata sul Monte Zuncona ed armata con quattro
pezzi da 76/40 mm, avvistò all’alba del 12 motozattere e
cacciatorpediniere tedeschi a nordest ed a sudovest dell’isola; i
cacciatorpediniere scomparvero alla vista, mentre le motozattere si
avvicinarono alla costa per tentare lo sbarco. Successivamente i
cacciatorpediniere aprirono il fuoco contro l’isola, e ciò
indusse la PL 113 ad aprire il fuoco a sua volta, colpendo ed
affondando una motozattera;
a pagina 240 è scritto che nel corso
del pomeriggio del 12 un nutrito gruppo di motozattere, scortate da
due cacciatorpediniere, tentò di avvicinarsi alla costa occidentale
di Lero, probabilmente allo scopo di sbarcare truppe nella baia di
Gurna; la batteria Farinata (munita di quattro pezzi da 120/45 mm)
aprì il fuoco contro le motozattere e, benché contrastata dal tiro
dei due cacciatorpediniere, riuscì a costringere la formazione a
ripiegare verso Calino,
coprendo la propria ritirata con cortine nebbiogene;
a pagina 258, parlando dei
combattimenti del 16 novembre, il libro riferisce che all’alba due
cacciatorpediniere si avvicinarono alla batteria PL 306 (situata sul
Monte Vigla ed armata con due cannoni da 76/40 e sei da 102/35), già
duramente colpita nel corso dei giorni precedenti, probabilmente
ritenendo che quest’ultima fosse stata ormai ridotta al silenzio;
invece due dei suoi cannoni erano ancora utilizzabili ed aprirono il
fuoco, «e, secondo quanto
riferisce il Cap. Chiantella [capitano
d’artiglieria Luigi Chiantella, comandante della batteria], alla
terza salva colpivano uno dei Ct. al disopra del galleggiamento,
all’altezza del primo fumaiolo. A bordo si sviluppava un incendio.
Il Ct. si sottraeva al tiro accostando verso il largo e facendo una
cortina di fumo, mentre l’altro Ct. intensificava il tiro contro
la batteria che ormai poteva rispondere con un pezzo solo. Poi la
cortina di fumo coprì tutti e due i Ct., che più tardi furono
visti allontanarsi, l’uno, sbandato sulla dritta, a rimorchio
dell’altro».
Tra
le navi coinvolte in questi episodi doveva esservi anche l’ex Crispi,
ma è più difficile stabilire quali di queste azioni abbiano
interessato questa specifica unità.
Tra
il 15 ed il 16 novembre TA
15, TA
14 e TA
16 trasportarono truppe dal
Pireo a Calino.
Lero
cadde il 16 novembre, dopo quattro giorni di accaniti combattimenti;
la notizia della resa, giunta al Pireo in tarda serata, portò
all’annullamento della prevista partenza di TA
17, Drache e R
211 con il battaglione
"Brandenburg", mentre TA
15 e R
211 furono fatti
partire dal Pireo alle 23.40 con materiale e rifornimenti per Lero ed
Amorgo. Entrata a Portolago e sbarcati i rifornimenti
direttamente sulla banchina, alle 16 del 17 novembre la TA
15 lasciò Lero con a bordo
una trentina di ufficiali prigionieri (tra cui quasi tutti gli
ufficiali della Regia Marina presenti nell’isola, compreso il
colonnello commissario Armando Coraucci, già vice governatore di
Lero e responsabile degli affari civili) e 40 feriti, raggiungendo il
Pireo l’indomani mattina (questo secondo il volume USMM
“Avvenimenti in Egeo”, mentre secondo fonte tedesca a bordo
c’erano 38 feriti tedeschi e ben 117 prigionieri tra italiani e
britannici). Durante il viaggio tutti gli italiani, ufficiali e
feriti, vennero radunati nel locale fuochisti, dove l’aria divenne
pressoché irrespirabile per l’affollamento, le perdite di vapore
dagli assi degli argani e la presenza dei feriti; altri prigionieri,
appartenenti alle truppe coloniali britanniche, vennero sistemati nel
sottocastello, mentre gli ufficiali britannici trovarono posto in
coperta a poppa.
Poco
ci mancò che la TA 15
(che qui ancora si chiamava TA
17) venisse affondata da un
sommergibile britannico proprio mentre trasportava prigionieri
britannici. All’1.06 del 18 novembre lo Sportsman
(tenente di vascello Reginald Gatehuse) avvistò un aereo che
lanciava un fumogeno sopra l’isola di Donoussa, seguito da un altro
a breve intervallo, e poco dopo captò il rumore di una turbina su
rilevamento 145°; non passò molto prima che la nave che produceva
quel rumore, la TA 15,
apparisse da dietro l’isola, ed alla luce della luna fu rapidamente
identificata come un cacciatorpediniere. All’1.09, pertanto, lo
Sportsman
diede inizio alla manovra d’attacco, tenendosi pronto
all’immersione; all’1.20, in posizione 37°14' N e 25°40' E (a
nordest di Naxos), lanciò sei siluri da 2700 metri contro la nave
tedesca che secondo la stima di Gatehouse procedeva a 20 nodi (in
realtà, 17) su rotta 285°, dopo di che s’immerse. All’1.26
l’equipaggio dello Sportsman
avvertì due esplosioni che furono attribuite a bombe di profondità,
seguite da altre due all’1.27 e subito dopo un’altra ancora,
nessuna vicino allo Sportsman;
la nave tedesca sembrò girare in cerchio nella zona per una decina
di minuti per poi riprendere la navigazione, ed all’1.36 il rumore
delle sue macchine era scomparso.
In
realtà, la TA 15/TA
17 non si accorse
dell’attacco e non contrattaccò, limitandosi a rilevare delle
esplosioni subacquee. Doveva trattarsi dei siluri stessi dello
Sportsman,
le stesse esplosioni che Gatehouse ed i suoi uomini avevano
erroneamente creduto essere bombe di profondità.
.jpg) |
La
TA 15 a Lero dopo la resa, novembre 1943. In primo piano un
gruppo di prigionieri del Commonwealth, tra cui sono riconoscibili
alcuni indiani (da www.albumwar2.com) |
(Occorre
menzionare che secondo il già citato volume USMM "Avvenimenti
in Egeo" l’ex Crispi,
insieme ad una delle torpediniere italiane catturate, avrebbe
partecipato anche alla battaglia di Coo del 3-4 ottobre 1943,
scortando il convoglio che trasportò le truppe tedesche che
conquistarono quell’isola. Ciò non è però confermato dalle fonti
tedesche, dalle quali non risulta che il Crispi
fosse in servizio per la Kriegsmarine già ad inizio ottobre 1943).
.jpg) |
La
TA 15 in navigazione (g.c. STORIA militare) |
Alle
19.20 del 18 novembre 1943 la TA
15 salpò dal Pireo insieme
a TA 14
e TA 19
con truppe e rifornimenti diretti a Lero, giungendo nell’isola
l’indomani, facendo ritorno al Pireo il 20 e ripartendone il giorno
stesso per un’altra missione di trasporto truppe a Lero, dalla
quale fece ritorno al Pireo con paracadutisti ed equipaggiamento a
bordo all’una di notte del 22 novembre, insieme alla TA
14 (durante la navigazione
i due cacciatorpediniere localizzarono ed attaccarono un sommergibile
con bombe di profondità al largo di Icaria).
Alle
sei del mattino dello stesso 22 ripartì per Portolago insieme alla
TA 19
ed ai cacciasommergibili della 21. UJ-Flottille trasportando truppe
tedesche destinate all’occupazione di Samo, che raggiunse il giorno
seguente: il gruppetto navale tedesco compì un giro “dimostrativo”
attorno all’isola ed entrò poi a Porto Vathi, dove sbarcò le
truppe ricevendo la resa dei circa 2500 italiani rimasti (gli altri,
insieme al generale Mario Soldarelli che comandava il presidio, erano
stati evacuati sulla vicina costa turca insieme alle truppe
britanniche), segnando l’ultimo atto della campagna del Dodecaneso
(durante la quale la TA 15
era stata l’unica “Torpedoboot Ausland” a rimanere sempre
operativa: tutte le altre navi erano rimaste fuori uso per periodi
più o meno lunghi a causa di danni od avarie). Rientrò quindi al
Pireo il 24. Ad inizio dicembre la nave fu sottoposta a lavori nel
corso dei quali le due mitragliere Oerlikon da 20 mm ubicate sul
castello di prua furono spostate a poppa.
Il
5 (o 6) dicembre 1943 la TA
15, insieme alla TA
16 ed al
motodragamine R 211
(per altra fonte all’R 8),
salpò dal Pireo per scortare la motonave tedesca Leda (ex
italiana Leopardi),
con a bordo 500 soldati della Wehrmacht, a Lero e poi a Samo, per poi
rientrare al Pireo alle 17.15 dell’8 dicembre. La Leda
aveva a bordo 5400 prigionieri italiani imbarcati a Lero e Samo, TA
15 e TA
16 circa 250 soldati della
3a
Compagnia del 1° Reggimento Brandenburger.
Alle
22.40 del 7 dicembre il sommergibile britannico Unruly (tenente
di vascello John Peton Fyfe) avvistò il convoglietto in posizione
37°52' N e 26°57' E (al largo di Vathi, sull’isola di Samo), ed
alle 22.47 si immerse per attaccare. Alle 23.02 (le 22.08 secondo le
fonti tedesche, con differenza di fuso orario) l’Unruly lanciò
quattro siluri contro la Leda,
ma senza risultato; la TA 15
osservò le esplosioni di due siluri contro la costa, con conseguenti
colonne d’acqua, e la TA
16 reagì blandamente,
lanciando una bomba di profondità alle 23.16 ed altre due dopo due
minuti, puramente a scopo intimidatorio e molto lontane dalla reale
posizione del sommergibile. Ulteriori ricerche risultarono
infruttuose.
Alle
9.45 dell’8 dicembre un altro sommergibile britannico,
il Surf (tenente
di vascello Douglas Lambert), quindici minuti dopo aver rilevato dei
rumori su rilevamento 084° in posizione 37°45' N e 25°33' E (a
nordest di Stenon Mykonou, lo stretto tra le isole di Tinos e
Mykonos), avvistò le quattro unità tedesche, scortate da numerosi
aerei Arado Ar 196 e Junkers Ju 88: dapprima alle 9.40 avvistò delle
alberature, poi alle 9.45 la Leda
(di cui stimò la stazza in 3500 tsl), seguita alle 9.48 dalle due
torpediniere di scorta, che procedevano sui suoi fianchi. Contro di
esse lanciò alle 10.07 quattro siluri da 2740 metri di distanza (il
terzo siluro, però, non partì per un guasto). Sceso in profondità
dopo il lancio, che fu infruttuoso (anche se il comandante britannico
ritenne di aver forse colpito un’unità di scorta), il Surf venne
bombardato dalla TA
16 con dieci bombe di
profondità, nessuna delle quali esplose vicina. In precedenza, alle
9.17 (o 9.23), il convoglio era stato attaccato al largo di Icaria ed
a nordest di Tinos da un altro presunto sommergibile non
identificato; la TA 15,
non riuscendo a localizzare l’attaccante a causa del contatto sonar
poco chiaro, si era limitata a lanciare bombe di profondità a scopo
intimidatorio nel punto in cui avevano origine le scie dei siluri.
Durante questa caccia il sommergibile tentò di attaccare la stessa
TA 15,
che reagì con altre bombe di profondità lanciate nella scia (in
tutto ne lanciò otto durante l’intera azione). In tutto il
convoglio della Leda
respinse ben sei attacchi aerei (da parte di cacciabombardieri
Bristol Beaufighter) e quattro attacchi subacquei durante la breve
traversata da Lero e Samo al Pireo.
Alle
15 del 12 dicembre 1943 la TA
15, insieme alla TA
14, alle motosiluranti S
36 e S
55 ed
al motodragamine R 211,
salpò dal Pireo per scortare a Vathi (nell’isola di Samo) il
posamine ausiliario Drache,
avente a bordo 300 soldati tedeschi. Alle 4.05 del giorno seguente il
sommergibile britannico Unruly (tenente
di vascello John Paton Fyfe) avvistò il piccolo convoglio al largo
di Samo, identificando erroneamente il Drache come
una nave mercantile; immersosi alle 4.18 per portarsi all’attacco,
alle 4.34 l’Unruly lanciò
due siluri contro il Drache da
900 metri di distanza, in posizione 37°52’ N e 26°54’ E (nel
golfo di Vathi). Nessuna delle armi andò a segno (la TA
15 osservò un’esplosione
subacquea nella sua scia alle 4.36, e la TA
14 osservò un siluro
attraversare la sua scia), ed il convoglio raggiunse regolarmente la
propria destinazione alle 5.15 del 13 dicembre; il Drache sbarcò
le truppe che aveva a bordo ed imbarcò un gruppo di prigionieri
italiani, ripartendo alle 16 per il Pireo sempre con la scorta di TA
15 e TA
14. Qui giunse alle 6.20
del 14 dicembre.
Tra
il 19 ed il 22 dicembre la TA
15, insieme alla TA
14, al motodragamine R
211 ed alla
motosilurante S 54,
scortò dal Pireo (Salamina) a Samo il posamine Drache,
avente a bordo 500 militari tedeschi assegnati alla guarnigione di
quell’isola, e lo scortò nel viaggio di ritorno al Pireo con a
bordo 600 soldati del Kampfgruppe "Müller".
Nel
pomeriggio del 21 dicembre 1943 la TA
15 e la TA
14, appena uscite dal porto
di Karlovasi, localizzarono e bombardarono con bombe di profondità
il sommergibile britannico Sickle (tenente
di vascello James Ralph Drummond), che le aveva poco prima avvistate
al periscopio mentre uscivano dal porto, cui si era avvicinato per
osservare il naviglio presente. Alcune delle bombe esplosero vicine
al Sickle,
che tuttavia non riportò che lievi danni (altra fonte parla invece
di “danni significativi,
specialmente ai motori elettrici”).
Anche un altro successivo attacco subacqueo venne respinto dalla
reazione della TA 15.
Alle
9.10 del 23 dicembre 1943 la TA
15 (con a bordo il
comandante della 9. Torpedobootflottille), insieme a TA
14, R
211 e S
54, salpò da Mudros
(Lemno, dove TA 15,
R 211
e S
54 si
erano trasferite poche ore prima dal Pireo) scortando il piroscafo
bulgaro Balkan,
diretto al Pireo (per altra fonte, a Salonicco) con un carico di 2200
tonnellate di carbone – di cui vi era ormai grave carenza in Egeo –
caricato a Varna nonché due motoscafi da salvataggio sistemati in
coperta, KRD.410
Ferdinand Laeisz
e KRD.429
Heinrich Tjarks,
destinati al Seenotbereichskommando XII. Era presente anche una
scorta aerea, con velivoli del Seeaufklärungsgruppe 126, da Mudros a
Trikiri.
Sulla
TA 15
era già stato dato l’allarme una prima volta dalle 5.15 alle 5.38
e poi di nuovo, per sommergibili, dalle 5.58 alle 6.15. Alle 6.50 la
TA 15
si ancorò nella baia di Mudros per rifornirsi di carburante,
operazione che non poté essere effettuata perché la bettolina con a
bordo il carburante era ancorata in acque troppo basse e secondo il
suo comandante ci sarebbe voluto troppo tempo per spostarla (tre ore
solo per salpare l’ancora); venne allora deciso di rinunciare al
rifornimento (ciononostante, alle 7.54 la S
54 si
affiancò brevemente alla TA
15, che le pompò a bordo
alcune tonnellate di carburante), e la TA
15 riprese il mare per
effettuare una ricerca antisom al largo di Lemno, dove il comando
navale locale aveva segnalato un sommergibile al largo di Kompi alle
6.20, unitamente a R 211
e S
54.
Alle 8.33 la TA 15
mollò gli ormeggi per assumere la scorta del Balkan.
Alle
9.29 venne dato un nuovo allarme per sommergibili ed alle 10.35 il
convoglietto, ancora in fase di uscita dal porto di Mudros, venne
avvistato dal sommergibile britannico Sportsman (tenente
di vascello Richard Gatehouse), che si avvicinò per attaccare. Alle
11.30, in posizione 39°44' N e 25°16' E, lo Sportsman lanciò
tre siluri contro il Balkan dalla
distanza di 1460 metri: una delle due armi andò a segno, provocando
l’affondamento della nave bulgara in soli sei minuti, a sud di
Mudros e tre miglia e mezzo a sud di Kompi. La scorta aerea non
avvistò né la bolla di lancio né le scie dei siluri; la TA
15 diede subito inizio
al contrattacco, bombardando lo Sportsman con
due pacchetti di 5 e 4 bombe di profondità alle 11.39, seguiti da un
altro di cinque alle 11.40, uno di sette alle 11.47 ed uno di tre
alle 11.49 (anche gli aerei di scorta lanciarono un totale di sei
bombe regolate per esplodere a 50 metri di profondità), ma senza
arrecare danni al sommergibile britannico, che si allontanò indenne
(a subire danni fu invece la stessa TA
15, sulla quale mancò la
luce in alcuni locali per effetto degli scossoni provocati dalle
esplosioni delle bombe di profondità, oltre che da quella del siluro
che aveva colpito il Balkan).
Alle 12.13, anzi, lo Sportsman poté
anche tornare a quota periscopica per osservare la situazione: trovò
la TA 15 a
1800 metri di distanza. Quando il cacciatorpediniere fece per
avvicinarsi, alle 12.20, lo Sportsman tornò
ad immergersi in profondità, continuando ad allontanarsi, per poi
tornare a quota periscopica alle 12.55, essendo diminuito il rumore
generato dalle macchine del cacciatorpediniere.
Mentre
un totale di nove aerei Arado incrociavano nel cielo per garantire la
loro sicurezza, TA 15,
R 211
e S 54
recuperarono 68 naufraghi del Balkan
(altri tre membri dell’equipaggio risultarono dispersi), dopo di
che alle 11.10 ripresero la navigazione verso a Salonicco, dove la TA
15 gettò l’ancora alle
20.08.
Il
diario di guerra del Comando navale tedesco dell’Egeo definì la
perdita del Balkan
e del suo carico di carbone “straordinariamente grave”; la
condotta del caposcorta, che era anche il comandante della 9.
Torpedobootflottille, fu esaminata a fondo per appurare se avesse
fatto tutto il possibile per evitarla.
Tra
il 24 ed il 27 dicembre, insieme a TA
14, R
211, S
54 ed ai
cacciasommergibili UJ
2106 e UJ
2110, la TA
15 scortò un
convoglio di tre piroscafi (Sabine, Susanne e Petrella)
da Salonicco al Pireo, mentre tra il 31 dicembre 1943 ed il 2 gennaio
1944, insieme a TA
14, TA
17 e S
54, scortò la
motonave Leda (ex
italiana Leopardi)
dal Pireo a Rodi (il convoglietto giunse davanti all’imboccatura di
quel porto con tempo pessimo, che impedì alla Leda
di entrarvi, e le torpediniere dovettero essere mandate a Lero perché
a corto di carburante) e poi da Rodi al Pireo.
Il
5 gennaio 1944 la TA 15,
insieme ad un’altra TA, venne inviata ad assumere la scorta della
nave cisterna Bacchus,
proveniente dai Dardanelli e diretta al Pireo. I britannici erano
stati preventivamente informati della partenza della Bacchus
dai loro servizi d’intelligence, ed avevano inviato il sommergibile
Sibyl
al largo di Capo Baba e l’Unruly
negli approcci orientali del Canale di Doro per intercettarla; quando
le due TA raggiunsero la Bacchus,
questa aveva già eluso, senza neanche accorgersene, due attacchi
subacquei, la prima volta quando era stata avvistata all’uscita dei
Dardanelli dal Sibyl,
che aveva rinunciato ad attaccare a causa della forte pioggia che
limitava eccessivamente la visibilità (esponendolo al rischio di non
identificare correttamente il bersaglio ed attaccare una nave turca e
neutrale), e la seconda più a sud, al largo di Capo Eskinstambul,
quando il sommergibile polacco Dzik
le aveva lanciato infruttuosamente quattro siluri da 2100 metri di
distanza. L’incontro con le due TA avvenne poco dopo questo
attacco; alcune ore più tardi, al calar del buio, anche l’Unruly,
che aveva appena raggiunto la sua area d’agguato ad est del Canale
di Doro, avvistò il convoglio tedesco e manovrò per condurre un
attacco in superficie, ma quando giunse a meno di 1400 metri di
distanza venne avvistato dalla TA
15, che costituiva la
scorta sul fianco sinistro della Bacchus,
e costretto ad immergersi. La TA
15 non riuscì tuttavia a
localizzare l’Unruly
col sonar, e si limitò a lanciare una singola bomba di profondità;
ad ogni modo, anche questo terzo ed ultimo attacco fu sventato, e la
Bacchus
poté raggiungere indenne il Pireo.
La
TA 15
passò il resto del mese di gennaio in cantiere, nel tentativo di
risolvere le continue avarie; durante questi lavori, il 12 gennaio,
subì la rimozione dell’impianto binato prodiero da 120/45 mm, che
sarebbe stato poi reinstallato poco tempo prima della perdita. Alla
fine dovette lasciare il cantiere senza aver risolto i suoi cronici
problemi di macchina, a causa delle continue incursioni aeree
angloamericane che interrompevano i lavori e delle frequenti assenze
dei lavoratori greci dei cantieri navali, poco disposti per lavorare
per gli occupanti tedeschi, che per giunta li pagavano poco.
Il
31 gennaio TA 15
(con a bordo il comandante della 9. Torpedoboot-Flottille Walter
Riede), TA 14
e TA 16
scortarono i mercantili Sieglinde
e Centaur dal
Pireo (da dove partirono alle 7.30) a Lero (dove giunsero il 1°
febbraio indenni e dove superarono senza danni anche un duplice
attacco aereo verificatosi durante le operazioni di scarico a
Portolago). Il mattino del 1° febbraio 1944 la TA
15 (sempre al comando
di Vorsteher), insieme a TA
14 (tenente di
vascello Hans Dehnert) e TA
16 (tenente di
vascello Hans Quaet-Faslem), salpò da Lero per scortare a Samo la
motonave Leda,
carica di munizioni; non appena le navi furono fuori dal porto ebbero
inizio gli attacchi aerei, che si protrassero per tutta la giornata.
In serata, dopo aver superato indenni quindici attacchi aerei con
continue manovre ed il fuoco delle armi antiaeree, il piccolo
convoglio entrò a Vathi (o Patmo), per poi ripartire alla volta di
Iraklion nelle prime ore del 2 febbraio: durante la notte ripresero
tuttavia gli attacchi aerei, nel corso di uno dei quali un aereo
britannico, non riuscendo a risollevarsi da una picchiata, si
schiantò sul ponte della Leda,
scatenando un incendio che ben presto raggiunse il carico di
munizioni e ne provocò l’esplosione ed il conseguente affondamento
della motonave a nordest di Amorgos. TA
15 e TA
16 ne recuperarono i
naufraghi (la TA 15
si affiancò alla Leda
in fiamme per recuperarne l’equipaggio), mentre la TA
14 venne gravemente
danneggiata da razzi che la colpirono in sala macchine,
costringendola a rientrare al Pireo. Il sommergibile olandese Dolfijn
assisté
all’attacco senza parteciparvi.
Dopo
questa missione, la TA 15
tornò in cantiere; il 17 febbraio, sempre al comando del tenente di
vascello Carl-Heinz Vorsteher, avrebbe dovuto scortare un convoglio
dal Pireo a Creta ma la missione fu annullata. Il 19 febbraio salpò
dal Pireo per scortare a Suda (od Heraklion), via Milo, insieme alla
TA 17
(tenente di vascello Helmut Duvelius), i piroscafi Lisa
(ex italiano Livenza,
carico di 2300 tonnellate di provviste, 1750 di benzina in fusti e
660 di munizioni) ed Agathe
(ex italiano Aprilia); ma il 22 febbraio il convoglio venne
localizzato da bombardieri Martin Baltimore del 454th
Squadron della RAF a sud di Milo. La Luftwaffe inviò a protezione
del convoglio alcuni Arado Ar 196, quattro Junkers Ju 88 e due
Messerschmitt Bf 109 del 7./JG 27, ed alle 12.25 uno di questi,
pilotato dal tenente Hans-Gunnar Culemann, sorvolò le navi agitando
l’estremità delle ali ed abbatté un Baltimore (pilotato dal
sergente australiano Brian Edward Rawlings, rimasto ucciso con tutto
l’equipaggio) che stava pedinando il convoglio a nord-nord-ovest di
Heraklion.
Questa
scorta aerea poté fare poco quando sul convoglio si abbatté una
formazione composta da sei aerosiluranti Bristol Beaufighter del 47th
Squadron ed otto bombardieri North American B-25 Mitchell, scortati
da altri dieci Beaufighter (otto del 227th
Squadron e due del 603rd
Squadron) più due (del 47th
Squadron) con la specifica funzione di sopprimere, con le loro
mitragliatrici, il fuoco contraereo delle navi (per altra versione, i
Messerschmitt 109 della scorta aerea erano stati attirati via con un
attacco diversivo). Gli aerosiluranti si avvicinarono al convoglio
dalla direzione del sole, volando bassi sul mare, e furono accolti
dal fuoco contraereo delle navi della scorta, che abbatté un aereo
(che precipitò in mare a poppavia della TA
15); ciononostante, il Lisa
fu colpito da un siluro. La TA
15 si precipitò in aiuto
della nave colpita, fermandosi brevemente a recuperare due avieri
britannici appartenenti all’equipaggio dell’aereo abbattuto, e
portatasi sottobordo al Lisa
ne prese a bordo i feriti, che trasportò ad Heraklion per poi
tornare sul posto.
Nella
battaglia aerea combattuta sul cielo del convoglio il tenente R.
Somerville del 47th
Squadron rivendicò l’abbattimento di un Arado Ar 196 alle 14.15 e
tre altri piloti di Beaufighter (il maggiore D. B. Bennett del 227th
Squadron, il capitano A. P. Pringle ed il sottufficiale P. G. Spooner
entrambi del 603rd
Squadron) il danneggiamento di altrettanti velivoli dello stesso tipo
alle 14.20 (da parte tedesca risultano tre Ar 196 danneggiati, uno
del 1./SAGr 12 e due del 4./SAGr 12, ma nessuno abbattuto), mentre i
Beaufighters del 227th
Squadron subirono l’abbattimento di tre aerei (pilotati dal tenente
J. C. Corlett, catturato insieme al suo equipaggio, e dai sergenti R.
F. Scarlett e S. B. Appleton, uccisi insieme ai loro equipaggi) ad
opera di quello che identificarono come un totale di cinque Ju 88,
quattro Messerschmitt 109 e quattro Arado Ar 196 (fu un aereo di
questo tipo ad abbattere Appleton, mentre Scarlett e Corlett furono
abbattuti dai Messerschmitt; da parte tedesca, un Ar 196 del 4./SAGr
12 rivendicò l’abbattimento di un Beaufighter, il tenente
Hans-Joachim Hayessen del 7./JG. 27 rivendicò di averne abbattuti
due e TA 15
e TA 17
rivendicarono di averne abbattuto un Beaufighter ciascuna con il loro
armamento contraereo); alle 13 quattro Mitchell sorvolarono le navi a
bassa quota e vennero inseguiti dai Messerschmitt, che vennero
attaccati da una ventina di Beaufighter che volavano anch’essi a
quota molto bassa. Nel combattimento che seguì, un razzo colpì la
TA 15,
provocando un incendio a bordo ed un morto e quindici feriti tra
l’equipaggio. (Per altra versione, la TA
15 abbatté due aerei ed
evitò due siluri, ma fu danneggiata da colpi di cannoncino in
coperta).
Tornata
sul posto dopo aver sbarcato ad Heraklion i feriti del Lisa,
la TA 15
trovò che l’incendio a bordo del mercantile colpito era ormai
fuori controllo: non rimase che recuperare il resto dell’equipaggio
ed attendere la fine, che venne due ore dopo, quando il Lisa
s’inabissò dieci miglia a nord di Heraklion. Le navi della scorta
fecero poi ritorno al Pireo, dove i comandanti di TA
15 e TA
17 furono sottoposti a
corte marziale per la loro condotta durante i tentativi di salvare il
Lisa,
venendo però assolti.
Il
26 febbraio 1944 la già citata organizzazione “Apollo” della
Resistenza greca comunicò agli Alleati che l’ex Crispi
era giunto al Pireo con gravi danni, ma tra il 27 ed il 28 febbraio
la TA 15
scortò il piroscafo Gertrud
dal Pireo a Lero, e l’indomani la nave cisterna Berta
(menzionata da alcune fonti anche come Bacchus,
nome che aveva portato in precedenza) da Samo a Lero (durante questa
missione venne incontrato tempo tanto avverso che la velocità scese
a soli cinque nodi); tra il 2 ed il 3 marzo scortò di nuovo la Berta
di ritorno da Lero a Samo, mentre tra il 3 ed il 4 marzo trasportò
truppe da Lero a Rodi, dove giunse nella notte sul 4, per poi fare
ritorno a Lero. Durante questa missione, alle 22.30 del 3 marzo, TA
15, TA
16 e TA
19 (che avevano in bordo in
tutto 450 soldati) vennero avvistate al largo di Rodi dalle
motosiluranti britanniche MTB
307 (tenente di vascello
Lionel Henry Blaxell) e MTB
315
(tenente di vascello Leonard Elliott Newall), che stimarono
correttamente che fossero dirette verso Rodi ed attaccarono con i
loro siluri da 915 metri, senza successo, per poi ritirarsi sotto la
reazione di fuoco delle Torpedoboote
Ausland, che interruppero
ben presto l’inseguimento per via delle truppe a bordo. Da Rodi le
torpediniere tornarono a Lero con 263 militari che si recavano in
licenza, poi scortarono il piroscafo Gertrud
diretto al Pireo con 3129 prigionieri.
Tra
il 4 ed il 5 marzo scortò il Gertrud
e trasportò truppe da Lero al Pireo, mentre tra il 7 e l’8 marzo
scortò i mercantili Agathe
(ex italiano Aprilia) e Suzanne
da Santorini ad Heraklion, prendendo il mare il 7 marzo insieme alla
TA 19,
assumendo la scorta del convoglio – già scortato da unità della
21. U-Jagd-Flottille – il mattino dell’8 al largo dell’isola di
Santorini (o Tyros) e raggiungendo Creta dopo il tramonto. I
mercantili entrarono in porto, mentre le torpediniere rimasero in
rada, dove vennero attaccate da cacciabombardieri.
La
TA 15
fu la prima unità della 9. Torpedobootsflottille ad andare perduta:
alle 18.34 (per altra fonte, le 19.14) dell’8 marzo 1944, dopo poco
più di quattro mesi di servizio sotto bandiera tedesca, venne
colpito da tre razzi lanciati da aerei britannici ed affondato a nord
di Heraklion, in posizione 35°28,4' N e 25°07,7' E, mentre al
comando del tenente di vascello Karlheinz Vorsteher era in
navigazione da Heraklion al Pireo insieme alla TA
19 (tenente di vascello
Werner Foth).
Le
due siluranti, al momento dell’attacco, avevano da poco lasciato
Heraklion dove qualche ora prima avevano scortato, insieme ai
cacciasommergibili UJ
2101,
UJ
2105
e UJ
2106, l’Agathe
ed il Suzanne.
I tre razzi che colpirono la TA
15 scatenarono un incendio
che si estese verso poppa, provocando l’esplosione di munizioni a
centro nave e delle bombe di profondità a poppa; il comandante
Forsteyer diede l’ordine di abbandonare la nave, ed alle 19.15
questa affondò di poppa, sbandata a sinistra, in posizione 35.4667°
N e 25.1167° E, nel quadrante CO 3725.
Sedici
membri dell’equipaggio della TA
15 persero la vita (altra
fonte parla di 34 vittime); nello stesso attacco fu danneggiata la TA
19, che nondimeno fu in
grado di recuperare la maggioranza dell’equipaggio della nave
affondata. Secondo informazioni raccolte da “Apollo” e passate
agli Alleati, la TA 15
affondò in soli tre minuti, mentre secondi fonti tedesche sarebbero
passati 45 minuti tra l’attacco aereo e l’affondamento.
A
condurre l’attacco che affondò la TA
15 fu un singolo
cacciabombardiere Bristol Beaufighter del 603rd
Squadron della Royal Air Force, l’NE 400 (aereo "X" del
603rd
Squadron), decollato dalla base libica di Gambut per una missioned
d’interdizione notturna (“night intruder”) al largo di Creta ai
comandi del capitano Alexander Patrick “Pat” Pringle e munito di
radar Air to Surface
Vessel (ASV) per l’individuazione di bersagli navali. Il radar ASV
non era così preciso da permettere di condurre un attacco in
condizioni di completa oscurità, ma nella notte dell’8 marzo, pur
essendoci tempo avverso, la luce lunare era sufficiente per vedere
una nave dopo averla localizzata a distanza grazie al radar: Pringle
localizzò quindi le due TA al radar e si avvicinò seguendo i suoi
segnali, per poi condurre l’attacco visivamente.
Uno
dei membri dell’equipaggio di Pringle, il navigatore Tony Ross,
avrebbe in seguito ricordato: “L'8
marzo partimmo per il nostro lungo e solitario viaggio verso
l'estremità orientale di Creta. In assenza di aiuti elettronici alla
navigazione, era essenziale un’accurata stima della propria
posizione. Il promontorio roccioso di Creta alla fine si profilò
nell'oscurità e virammo ad ovest per volare lungo la costa
settentrionale, mantenendoci alla quota più bassa consentita dalla
visibilità notturna. La luna stava sorgendo e tracciava un lungo
sentiero argentato attraverso le tranquille acque scure. L'isola di
Dia (quasi esattamente a nord di Heraklion) era appena visibile sulla
destra quando il radar mostrò tracce di qualcosa sull'acqua. Virammo
descrivendo un ampio arco verso il basso della luna in modo che
qualunque cosa fosse nell'acqua sarebbe apparsa tra noi e la luna
mentre l'aereo stesso si sarebbe trovato nella parte più scura del
cielo. Dopo aver riposizionato l'obiettivo sul radar, iniziammo a
pedinarlo. All'improvviso apparvero sagome scure davanti a noi: due
grandi navi in linea di fila che si dirigevano verso il porto. Ancora
una volta ci allontanammo, questa volta per sferrare un attacco
attentamente pianificato. Ci portammo alla giusta quota. Il
"Topolino" fu impostato per una salva a 800 iarde e la
picchiata ebbe inizio. La distanza calava. Gli scarichi luminosi dei
razzi sfrecciarono davanti a noi e sulla nave di testa apparve
all'improvviso una brillante luce gialla. Ci allontanammo bruscamente
a dritta per evitare di stagliarci contro la luna. Mentre
riprendevamo la posizione d'attacco, le fiamme già si levavano alte
nel cielo dalla nave condannata. Fu effettuato un altro attacco alla
seconda nave, questa volta con i cannoncini perché i razzi erano
finiti. Osservammo alcuni colpi a segno, ma nell'oscurità non fu
possibile valutare i danni”.
Diverse
fonti affermano, erroneamente, che la nave venne successivamente
recuperata e rimorchiata al Pireo, dove fu nuovamente affondata (da
un attacco aereo mentre si trovava in riparazione, oppure per
autoaffondamento da parte dei tedeschi stessi in ritirata) il 12
ottobre 1944, ma si tratta di un errore: affondata in mare aperto (in
una zona dove il mare è profondo 400 metri) e non, come affermato da
alcuni siti, nel porto di Heraklion, la TA
15 non fu mai recuperata;
la nave affondata al Pireo nell’ottobre 1944 (non da aerei ma da
cariche esplosive piazzate da partigiani greci) ed erroneamente
identificata dai primi rapporti d’intelligence britannici come l’ex
Crispi
era in realtà la TA 17,
ex San Martino.
Parimenti
errata è l’asserzione, contenuta nel libro “Improvise and dare”
di J. S. Guard, secondo cui la TA
15 sarebbe stata gravemente
danneggiata da un attacco di incursori britannici con mine adesive a
Lero nella notte tra il 17 ed il 18 giugno 1944 (e poi rimorchiata al
Pireo per le riparazioni, venendovi affondata da un bombardamento
aereo il 12 ottobre 1944): in quell’attacco furono danneggiate la
TA 14
e la TA 17.
È
possibile che lo scambio di sigle identificative tra queste Crispi
e San Martino,
avvenuto nel novembre 1943, sia all’origine di questi equivoci.
Il
Francesco
Crispi
giace tutt’ora sul fondo del Mar Egeo.
Il Francesco Crispi
sul sito della Marina Militare
Il Crispi
su Trentoincina
Il Crispi
su Wiki.Lesta.ru
La TA 15
su German Navy
La TA 15
sul Historisches Marinearchiv
La TA 15
su Wiki.Lesta.ru
La TA 15
su Navypedia
Discussione sull’affondamento della TA
15 su Warsailors
A History of the Mediterranean Air War, 1940-1945, Volume 5: From the Fall of Rome to the End of the War, 1944-1945
Bollettino d’Archivio dell’Ufficio
Storico della Marina Militare – Anno XXXV – aprile/giugno 2021
Gli italiani riconquistano l’isola di Castelrosso nel Dodecaneso
Operation Abstention
Castelrosso: fasti e declino di un’isola nel Mediterraneo
Baia di Suda, 26 marzo 1941 – L’esordio dei mezzi d’assalto di superficie della X Flottiglia MAS
Missione a Suda
L’attacco a Suda sul sito dell’ANAIM
Combattere
Struggle for the Middle Sea
Davide Doria trova il nonno Emilio
Novellara, ieri la cerimonia per il rientro della salma di Pietro Papi
Pietro Papi
La Pericles
Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, 13 maggio 1952