giovedì 15 ottobre 2020

Capitano Bottego

La Capitano Bottego (g.c. Mauro Millefiorini via www.naviearmatori.net)

Motonave da carico di 2316,17 tsl, 1400,64 tsn e 3118 tpl, lunga 90,22-95,35 metri, larga 12,40 e pescante 7,50-8,16, con velocità di 16,5 nodi. Di proprietà della Regia Azienda Monopolio Banane, con sede a Roma; iscritta con matricola 1906 al Compartimento Marittimo di Genova, nominativo di chiamata IBDL.
 
Faceva parte di una serie di tre motonavi gemelle (le altre due erano Duca degli Abruzzi e Capitano Antonio Cecchi), tutte battezzate con nomi di esploratori italiani del Corno d’Africa, fatte costruire in Svezia dalla Società Italo-Somala per il trasporto delle banane dalla Somalia italiana. Si trattava in assoluto delle prime navi bananiere costruite per una compagnia italiana; per il trasporto delle banane disponeva di quattro celle frigorifere (isolate con sughero granulato) della capacità di 2872 metri cubi, con due gruppi refrigeratori ad anidride carbonica (alimentati da quattro compressori e prodotti dalla ditta J. & E. Hall Ld. di Dartford) che usavano come fluidi refrigeranti brine ed aria. Le stive erano tre, con una portata lorda di 3118 tpl ed una netta di 1950 tpn.
Le non grandi dimensioni consentivano sia di limitare i costi di pedaggio per l’attraversamento del Canale di Suez (essendo questi calcolati sulla base del tonnellaggio delle navi che lo attraversavano), sia di massimizzare il coefficiente di carico. La velocità, che oscillava tra i 15,5 ed i 16,5 nodi, era relativamente elevata per delle navi da carico, al fine di minimizzare i tempi della traversata e preservare così la freschezza del carico di banane: Capitano Bottego e gemelle risultarono le più veloci navi in servizio sulla rotta tra l’Italia e la Somalia, che percorrevano in dodici giorni, poco più della metà del tempo impiegato dai piroscafi postali della società Tirrenia.
Oltre alle stive per le banane ed altre merci, la Capitano Bottego e le gemelle erano provviste anche di alcune cabine nelle quali potevano trovare posto fino a dodici passeggeri (erano destinate ai concessionari dei terreni somali in cui erano coltivate le banane).
L’apparato propulsivo della Capitano Bottego era costituito da due motori diesel a 6 cilindri da 2550 cavalli, su due eliche, che consentivano una velocità di crociera di 15 nodi ed una massima di 16,5.
 
La Società Anonima di Navigazione Italo-Somala era stata fondata nel 1931 (come filiazione della Neptunia Società Anonima di Navigazione) dall’armatore genovese Andrea Marsano, che in tempi di crisi per l’armamento italiano – un quarto della flotta mercantile si trovava in disarmo a causa della Grande Depressione – aveva deciso di puntare su un mercato relativamente nuovo ed in rapida espansione, ma ancora poco conosciuto in Italia: quello delle banane, frutto che al contempo aveva il fascino dell’esoticità ed il vantaggio di essere economicamente alla portata anche delle classi meno abbienti. Fondata la Italo-Somala, Marsano stabilì accordi commerciali con i produttori di banane in Somalia (le principali coltivazioni si trovavano nelle zone di Genale e Villabruzzi e nell’Oltregiuba), ed ordinò ai cantieri Eriksbergs di Göteborg tre bananiere da 2300 tsl e 3120 tpl, ossia la Capitano Bottego e le sue due gemelle (stranamente, tuttavia, il Repertorio di Marina Mercantile dell’Associazione Italiana di Documentazione Marittima e Navale menziona la Capitano Bottego e la Capitano Cecchi come acquistate dalla società Italo-Somala durante la costruzione; ed il numero del febbraio 1934 della rivista tecnica svedese “Teknisk Tidskrift” indica il proprietario della Capitano Bottego come “A.-b. Banantrasport, Stockholm” anziché, come per la Duca degli Abruzzi, “S. A. di Navigazione Italo-Somala”. Il medesimo documento indica anche una stazza lorda e netta leggermente superiori a quelle che risultano dai registri italiani, 2380 tsl e 1548 tsn).
 
Dopo pochi anni di servizio per la società Italo-Somala, la Capitano Bottego e le sue gemelle vennero acquistate nel 1936 dalla Regia Azienda Monopolio Banane (R.A.M.B.), un ente pubblico (avente sede a Roma e controllato dal Ministero delle Colonie) creato nel dicembre 1935 per gestire la commercializzazione delle banane somale, sulle quali venne istituito un monopolio di Stato. Questi frutti erano diventati il prodotto più redditizio della Somalia, dopo che la Grande Depressione aveva dimezzato il prezzo del cotone (principale prodotto, fino a quel momento, della colonia somala); per essere competitivi rispetto alle banane prodotte in altri Paesi, tuttavia, necessitavano della protezione statale, ragion per cui fu creata la R.A.M.B. In precedenza, a trasportare le banane somale in Italia erano state, oltre ovviamente alle navi della Italo-Somala, anche quelle della Tirrenia, della Navigazione Libera Triestina e della britannica Silver Line; tuttavia questi collegamenti erano giudicati troppo lenti e sporadici, e la capacità di carico delle navi ad essi destinate troppo ridotta.
Capitano Bottego, Capitano Cecchi e Duca degli Abruzzi formarono il nucleo originario della flotta R.A.M.B.; dal progetto delle navi tipo "Duca degli Abruzzi", e dall’esperienza accumulata grazie al loro utilizzo, venne poi derivato quello delle più grandi e veloci motonavi bananiere tipo RAMB (RAMB I, RAMB II, RAMB III, RAMB IV), costruite in Italia per la Regia Azienda Monopolio Banane nel 1937.
L’imbarco delle banane avveniva a Mogadiscio (dove confluivano quelle prodotte nel comprensorio di Villabruzzi) ed alle foci del Giuba; da qui, venivano trasportate a Genova, Napoli, Venezia e Fiume. Nei viaggi di andata dall’Italia alla Somalia, le bananiere trasportavano invece merci varie, soprattutto alimenti deperibili per la popolazione delle colonie. La creazione di una capillare rete di distribuzione in Italia e nei Paesi amici, insieme ai ridotti tempi di trasporto ed ai bassi costi di gestione, resero il commercio delle banane somale estremamente redditizio; nel 1939 il consumo di banane in Italia aveva raggiunto i 450.000 quintali.
 
Come le altre navi di proprietà della Regia Azienda Monopolio Banane, la Capitano Bottego era destinata, in caso di guerra, alla conversione in incrociatore ausiliario: in particolare, avrebbe dovuto essere armata con quattro cannoni da 102/45 mm. Questa conversione non poté tuttavia avere luogo, dal momento che la dichiarazione di guerra la sorprese in Africa Orientale: a Massaua vi era materiale sufficiente soltanto alla conversione di due unità in incrociatori ausiliari, e venne impiegato per trasformare la RAMB I e la RAMB II.
 
Breve e parziale cronologia.
 
1933
Varata dai cantieri Eriksbergs Mekaniska Verkstads Aktiebolag di Göteborg (Svezia).
Novembre 1933
Completata per la Società Anonima di Navigazione Italo-Somala.
Impiegata, insieme alle gemelle, nel trasporto delle banane tra l’Italia e la Somalia: la rotta seguita all’andata è Genova-Port Said-Mogadiscio, al ritorno Mogadiscio-Suez (imbarco pilota)-Port Said (rifornimento)-Napoli-Genova. Le partenze sono organizzate in modo che una delle tre motonavi parta ogni dieci giorni; al termine di ogni viaggio, la motonave sosta cinque giorni a Genova prima di partire per il viaggio successivo.
Nel gennaio 1934 la rivista “Trasporti e lavori pubblici” pubblicherà un articolo sulle tre nuove bananiere: «La Società Italo-Somala avrà quanto prima al completo, a servizio della nostra Colonia Somala, l'esercizio di tre motonavi per trasporto banane, comunemente chiamate «Bananiere». (…) La prima nave della serie, già in servizio da oltre quattro mesi, porta il nome caro a tutti zii italiani: «Duca degli Abruzzi». La seconda, battezzata «Capitano Bottego», è entrata in servizio verso la metà di novembre, la terza ed ultima «Capitano Cecchi» sarà consegnata tra qualche mese. Queste navi bananiere sono le prime del tipo che entrano a far parte della nostra Marina mercantile, ma per perfezione e modernità di impianti e per l'organizzazione della linea ad esse affidata, danno, già fin d'ora, pieno affidamento di pratica riuscita. Hanno modesto tonnellaggio, 2315 tonn. di stazza lorda, ed elevata velocità, da 15,5 a 16 nodi in servizio corrente, requisiti importanti dal lato commerciale dell'impresa. Ed infatti, la piccola mole della nave, oltre a limitare i diritti per il passaggio obbligato del Canale di Suez, permette più facilmente di lavorare ad alto coefficiente di carico, sia dalla Somalia all'Italia, sia al ritorno coi limitati quantitativi di merci che dall'Italia vengono spediti alla Somalia, tenuto anche conto della concorrenza fatta da altre linee regolari. E la elevata velocità, insieme agli impianti di aereazione e di refrigerazione, ed alle opportune sistemazioni delle stive, permette di portare le banane nel minor tempo possibile e nelle condizioni migliori. dai luoghi di produzione ai centri di smercio. Per gli impianti di refrigerazione queste unità possono definirsi navi refrigerate, e non navi frigorifere, come taluno ha erroneamente affermato. Esse hanno cioè le stive, destinate al trasporto di carico deperibile, mantenute ad una temperatura conveniente, mediante circolazione di aria raffreddata, ciò che è ben altra cosa dell'avere le stive efficacemente isolate termicamente e provviste di serpentine di liquido incongelabile, come le navi frigorifere. La sistemazione è particolarmente adatta per la buona conservazione delle banane, ed in genere di tutte le frutta, che, più ancora della bassa temperata, abbisognano di un'appropriata ventilazione, che in questo caso deve ottenersi con aria preventivamente raffreddata, dato il clima caldo che incontra la nave nel suo viaggio. Quanto alla linea, le navi bananiere fanno viaggi diretti da Mogadiscio all'Italia (Napoli e Genova), fermando soltanto a Suez, per imbarcare il pilota, ed a Port Said per rifornirsi di combustibile. In partenza da Genova, senza fermare neppure a Napoli, esse vanno dirette a Mogadiscio, con il solo scalo intermedio di Porto Said, ed impiegano 12 giorni soltanto nell'intera traversata. Le partenza si susseguono regolarmente ogni 10 giorni, e la fermata più lunga è quella di Genova, capo linea, di 5 giorni. Il servizio rappresenta, quindi, il più rapido collegamento fra l'Italia e la Somalia italiana, ove si pensi che fino ad oggi la linea più rapida era quella postale, mantenuta dalla Società Tirrenia, che impiega una ventina di giorni da Genova a Mogadiscio, e cioè circa il doppio di quanto si è realizzato col servizio delle bananiere. E poichè queste hanno anche sistemazioni comodissime per una dozzina di concessionari dei terreni produttori di banane in Somalia, è da augurarsi che possano quanto prima ottenere il guidone postale. La Società Italo-Somala non è sovvenzionata, o comunque premiata dal Governo; non ha neppure usufruito di premi di costruzione e d'armamento, avendo fatto costruire le sue navi all'estero, in Svezia (1). Prima ancora di ordinare i tipi «Duca degli Abruzzi» la Italo-Somala ha svolto un lento ed intelligente lavoro di preparazione, organizzando i mezzi di introduzione, di distribuzione e di smercio delle banane somale in Italia, avvalendosi, pel trasporto di alcune navi estere. Con queste ha potuto crearsi una preziosa esperienza tecnica ed economica, e studiare con cognizione di causa i requisiti dei bastimenti e del servizio. Soltanto dopo un lungo periodo di preparazione si è lanciata nell'impresa. La lodevole iniziativa, quindi, è del tutto privata, è nata spontaneamente, si è sviluppata e concretata senza aiuti di sorta, doppio merito in tempi così poco favorevoli per il traffico marittimo. (1) Abbiamo già commentato la cosa nel numero scorso. La ragione della preferenza concessa ai cantieri esteri sta nel fatto che appunto in Svezia era stata costruita una delle navi estere della quale la Società era rimasta molto soddisfatta nel periodo di prova dell’impresa. Tuttavia questa ragione non giustifica la esclusione dei Cantieri italiani, da tutti riconosciuti pienamente idonei alla costruzione di navi di qualsiasi specialità».
1936
Venduta al Ministero delle Colonie (dall’anno seguente, Ministero dell’Africa Italiana) – Regia Azienda Monopolio Banane, con sede a Roma (secondo www.promotorimuseimare.org, tuttavia, la Capitano Bottego e le gemelle non sarebbero state vendute alla R.A.M.B., bensì requisite d’autorità dal governo italiano e trasferite a tale compagnia).
 
(g.c. Pietro Berti via www.naviearmatori.net)

Isole Dahlak, aprile 1941
 
L’ingresso dell’Italia nella seconda guerra mondiale, il 10 giugno 1940, sorprese la Capitano Bottego a Massaua, in Eritrea.
Fu questa una sorte comune per le unità che componevano la flotta della Regia Azienda Monopolio Banane, intente com’erano a fare ininterrottamente la spola tra l’Italia ed i suoi possedimenti nel Corno d’Africa. Delle tre motonavi della serie "Duca degli Abruzzi", soltanto la Capitano Cecchi si trovava in Mediterraneo: la terza unità, la Duca degli Abruzzi, era infatti anch’essa in Africa Orientale, in Somalia. Insieme ad esse rimasero bloccate in A.O.I. anche tre delle quattro RAMB: la RAMB I, la RAMB II e la RAMB IV, tutte intrappolate a Massaua come la Capitano Bottego. Quasi tutte le navi della flotta R.A.M.B. erano così destinate a seguire l’infausta sorte dell’Africa Orientale Italiana in quella disastrosa guerra.
Se vale il detto “mal comune mezzo gaudio” (cosa di cui si può in verità dubitare), le navi della Regia Azienda Monopolio Banane bloccate in A.O.I. avevano la magra consolazione di avere numerosa compagnia. Erano infatti più di trenta le navi mercantili dell’Asse che lo scoppio della guerra aveva bloccato a Massaua: oltre alla Capitano Bottego ed alle tre RAMB, c’erano i piroscafi passeggeri Nazario Sauro, Giuseppe Mazzini, Colombo ed Urania; i piroscafi da carico PiaveVesuvioMoncalieriXXIII MarzoAduaBrentaRomolo GessiTripolitania; le motonavi ArabiaIndia ed Himalaya; le navi cisterna PrometeoAntonia C.Riva Ligure e Clelia Campanella; il piroscafetto Impero; i piroscafi tedeschi CoburgOderBertram RickmersLiebenfelsWartenfelsFrauenfelsLichtenfelsGeraOliva e Crefeld (queste ultime internate in quel porto amico fin dall’entrata in guerra del loro Paese, nel settembre del ’39).
Per i mesi a venire, tutte queste navi non poterono fare altro che dondolarsi pigramente all’ormeggio, aspettando l’evolversi degli eventi a terra. La maggior parte dei marittimi italiani e tedeschi vennero sbarcati e chiamati alle armi nella Marina, nell’Esercito o nell’Aeronautica che combattevano in Africa Orientale, lasciando soltanto equipaggi ridotti a bordo delle navi.
La Capitano Bottego passò dunque mesi e mesi inattiva nel porto di Massaua; il 7 febbraio 1941 fu requisita a Massaua dalla Regia Marina ed iscritta nel ruolo del naviglio ausiliario dello Stato, categoria navi onerarie (termine che definiva le navi impiegate come trasporti), ma non è chiaro se sia mai stata impiegata come tale, dal momento che nel febbraio 1941 avrebbe potuto al massimo compiere qualche viaggio di cabotaggio lungo la costa eritrea (ammesso che ve ne fosse l’esigenza).
Circondate da terre in mano nemica ed impossibilitate a ricevere aiuto dall’Italia, le forze italiane in Africa Orientale, dopo le prime vittorie dell’estate 1940 (conquista della Somalia britannica, presa di alcune fortezze e città di confine del Sudan e del Kenya), dovettero passare sulla difensiva ed attendere la controffensiva britannica, che infatti prese il via nel gennaio 1941 con un duplice attacco, da sud sul fronte somalo e da nord su quello eritreo.
Verso la fine di quel mese, la battaglia di Agordat, nell’Eritrea settentrionale, si risolse sfavorevolmente per le truppe italiane, che dopo giorni di aspri combattimenti dovettero ripiegare verso Cheren. Fu a questo punto che si iniziò a tenere seriamente in conto l’eventualità che Massaua potesse essere attaccata nel prossimo futuro.
Già da tempo, tuttavia, il contrammiraglio Mario Bonetti, comandante superiore navale in A.O.I. (Marisupao, che proprio a Massaua aveva il suo quartier generale), stava studiando le misure da adottare per rinforzare le difese di Massaua nel caso di un’offensiva nemica, nonché la sorte che avrebbero dovuto seguire le navi ivi presenti quando la base fosse caduta. I suoi proposito a riguardo, Bonetti li espresse per la prima volta in una lettera a Supermarina del 14 gennaio 1941; dopo aver fatto presente che le difese di Massaua erano adatte a contrastare azioni aeronavali nemiche, ma non certo un attacco di terra in grande stile, l’ammiraglio esponeva i provvedimenti intraprese per sopperire il più possibile a tale carenza e poi le sue proposte relative al destino del naviglio mercantile e militare. In merito alle navi mercantili, il comandante di Marisupao prospettava l’autoaffondamento in massa, per impedire la cattura delle navi ed al contempo ostruire il porto di Massaua in modo da renderlo inutilizzabile ai britannici: «Tutte le altre unità, i piroscafi, i bacini galleggianti, vengono affondati, dopo essere stati opportunamente danneggiati, in modo da ostruire sicuramente il porto di Massaua ed il seno di Dakilia». Il progetto iniziale venne poi pesantemente modificato per quel che riguardava le navi militari, ma non cambiò per quelle mercantili, per le quali d’altra parte non esisteva altra realizzabile prospettiva all’infuori dell’autoaffondamento: il 24 gennaio, in una nuova lettera a Supermarina, Bonetti ribadiva che «ritengo necessario predisporre per la distruzione o inutilizzazione dei numerosi piroscafi nazionali e germanici rifugiati in Mar Rosso. Sono in corso di preparazione cariche esplosive, da distribuire in caso di necessità. Prego volermi comunicare se devo seguire altre direttive, specialmente per quanto riguarda i piroscafi germanici». Il 1° febbraio un’altra lettera di Marisupao a Supermarina concludeva in chiusura «Rimango in ogni modo in attesa di disposizioni sui seguenti punti (…) c) Misure da prendere per la distruzione dei piroscafi e l’inutilizzazione dei porti di Massaua e di Dachilia» ed il 6 febbraio Supermarina confermava che «…Inutilizzazione et affondamento piroscafi deve pure essere assicurato».
Era stato invero deciso dall’ammiraglio Bonetti – e poi confermato da Supermarina con teledispaccio dell’8 febbraio – che le navi in condizione di affrontare una lunga traversata oceanica, e con autonomia bastante a raggiungere un porto amico o neutrale, avrebbero cercato di raggiungere l’Estremo Oriente o l’America Latina violando il blocco britannico: ma tra i 34 bastimenti mercantili immobilizzati da mesi a Massaua, soltanto pochi eletti rispondevano a questa descrizione. Come Bonetti scrisse a Supermarina il 31 gennaio, ribadendolo più estesamente in una lettera del 1° febbraio, «Per quanto riguarda l’uscita in Oceano Indiano dei piroscafi nazionali e germanici (…) Questi piroscafi sono da molti mesi fermi ed hanno la carena in condizioni molto mediocri tanto da poter ritenere che la loro velocità sia in media ridotta del 50 %. L’uscita da Perim è molto problematica data la continua sorveglianza esercitata da unità navali e da stazioni di vedetta e di ascoltazione sull’isola. Anche ammettendo che riuscissero a superare il passo senza opposizione non passerebbero inavvertiti e difficilmente sfuggirebbero alla sorveglianza aerea ed alla successiva caccia delle unità inglesi. Si presenta inoltre molto difficile ricostruirne gli equipaggi, essendo stata la maggior parte del personale, compreso quello tedesco, richiamato nelle varie armi. Difficoltà anche maggiore presenta il rifornimento di viveri e combustibili per completare l’autonomia necessaria per raggiungere i porti neutrali, anche i più prossimi».
Uniche navi mercantili ritenute in grado di affrontare la traversata con qualche probabilità di successo erano le italiane RAMB IRAMB II (entrambe requisite dalla Regia Marina e trasformate in incrociatori ausiliari; la RAMB IV invece era divenuta una nave ospedale), HimalayaIndia e Piave e le tedesche CoburgOderWartenfels e Bertram Rickmers. Tutte le altre, compresa la Capitano Bottego, avrebbero terminato la propria esistenza nelle calde acque del Mar Rosso.
 
Nella summenzionata lettera a Supermarina del 14 gennaio, l’ammiraglio Bonetti notava che le difese di Massaua sul fronte a terra risultavano più deboli di quelle sul fronte a mare; e prevedeva che qualora il fronte a terra fosse ceduto per primo, l’estrema difesa della Marina si sarebbe svolta nell’arcipelago delle Dahlak, un dedalo di oltre 120 tra isole ed isolette che si estende nel mare antistante Massaua. A questo scopo, «tempestivamente saranno spostati negli ancoraggi interni di Dahlach Chebir piroscafi con combustibili, acqua, viveri e tutti i materiali, armi e mezzi ritenuti necessari per continuare la resistenza ed i natanti necessari per continuare i rifornimenti alle altre isole». Il 1° febbraio 1941 Marisupao dava infatti notizia a Supermarina che «È in corso il rifornimento di acqua, viveri ecc. sui piroscafi che dovranno costituire una base di rifornimento nell’ancoraggio interno di Dahlach Chebir». Il 27 febbraio, in una lettera inviata sia a Supermarina che al Comando Superiore delle Forze Armate in Africa Orientale, Bonetti scriveva: «Nell’eventualità che la base navale di Massaua possa divenire inutilizzabile per le unità, è stata disposta la costituzione di una base sussidiaria alle isole Dahlach, trasportando colà munizioni, combustibili, viveri, siluri ecc. (…) I piroscafi dislocati al Gubbet, quando la posizione divenisse insostenibile, saranno affondati sul posto. Eguale sorte seguiranno le unità ausiliarie, rimorchiatori, cisterne ecc.».
Delle isole Dahlak, la più grande era Dahlak Kebir (nota anche come Grande Dahlak, distante 24 miglia da Massaua; avente un’estensione di 760 kmq, è l’isola più vasta di tutto il Mar Rosso, ed ha una popolazione che oggi assomma a 2500 persone, rendendola anche la più popolosa isola dell’arcipelago), nella quale a fine gennaio l’ammiraglio Bonetti, per sventare possibili sbarchi britannici che avrebbero così rischiato di scardinare il sistema difensivo del Canale Sud di Massaua, aveva fatto inviare una compagnia mitraglieri con un totale di 300 uomini (l’isola era inoltre munita di una batteria antinave con quattro cannoni da 120/45 mm). Altre isole che ospitavano installazioni militari erano Harmil, sede di una batteria da 120/45 mm (quattro pezzi) ma situata in posizione alquanto isolata rispetto al resto dell’arcipelago; Difnein, dove sorgeva una stazione di vedetta; Dur Gaam, dotata di due batterie con un totale di quattro cannoni da 120/45 mm; Nocra, capoluogo dell’arcipelago e sede del più grande campo di concentramento dell’A.O.I. (vi erano imprigionati soldati, prelati, notabili e funzionari del dissolto impero etiope ed altri prigionieri politici etiopi); Cavet, sede di un’altra stazione di vedetta (poi ritirata); Sheik-el-Abu, ove si trovavano un’altra stazione di vedetta e due complessi antiaerei da 76/50 mm; Pagliai, anch’essa sede di stazione di vedetta (poi ritirata perché ritenuta poco utile e troppo esposta a possibili attacchi britannici); Dehel, armata con una batteria da 120/45 mm (quattro pezzi) ed una da 152/53 mm (tre pezzi); Shumma, dotata di quattro pezzi da 120/45 mm; Sheik-Said (Isola Verde), armata con quattro cannoni contraerei da 76/40 mm; Assarca Kebir, armata con due pezzi antiaerei da 76/30 mm; Dilemmi, unita alla terraferma durante la bassa marea e difesa da tre pezzi da 120/45 mm e nidi di mitragliatrici.
A Nocra, capoluogo dell’arcipelago, sorgeva una stazione radio; le batterie situate nelle varie isole erano comandate da ufficiali di Marina e collegate tra di loro con radiosegnalatori.
 
Intanto, la situazione in Africa Orientale andava rapidamente precipitando: al sud, nel febbraio 1941 era caduta la Somalia italiana, mentre in marzo le forze del Commonwealth avevano riconquistato la Somalia britannica, avanzando intanto nell’Etiopia meridionale puntando su Addis Abeba (che fu poi presa il 6 aprile); dilagava intanto anche l’insurrezione dei guerriglieri etiopi (“Arbegnoch”). Al nord, dopo la sconfitta di Agordat le forze italiane si attestarono a difesa sulle montagne di Cheren: qui si combatté, dal 2 febbraio al 27 marzo, la battaglia decisiva per le sorti dell’Eritrea, la più lunga e sanguinosa battaglia dell’intera campagna africana, costata quasi 40.000 tra morti e feriti da ambo le parti. Dopo essere state respinte dalle truppe italiane ed eritree per quasi due mesi, alla fine di marzo le forze anglo-indiane riuscirono infine a sfondare le linee italiane; quattro giorni dopo fu presa Asmara. La strada per Massaua era aperta.
A Massaua, l’ammiraglio Bonetti aveva dato attuazione ai suoi piani relativi al trasferimento o distruzione del naviglio.
Tra la fine di febbraio e la fine di marzo 1941 le poche navi che avevano scafi e macchine in buone condizioni, velocità non troppo bassa ed autonomia sufficiente lasciarono Massaua per tentare di raggiungere porti amici o benevolmente neutrali in Francia (per i sommergibili) ed in Giappone (per le navi di superficie). Arrivarono in Giappone la RAMB II e la nave coloniale Eritrea, partite intorno al 20 febbraio; la motonave Himalaya, salpata il 1° marzo, raggiunse il Brasile, da dove poi proseguì per la Francia; i quattro sommergibili di base a Massaua (PerlaGuglielmottiArchimede e Ferraris) riuscirono tutti a trasferirsi a Bordeaux. Finì male, invece, la traversata delle restanti unità che avevano tentato di forzare il blocco britannico: la RAMB I fu affondata in Oceano Indiano dall’incrociatore neozelandese Leander, dopo un breve combattimento, il 27 febbraio (una settimana dopo la sua partenza); il Coburg, partito il 17 febbraio, si autoaffondò nell’Oceano Indiano il 4 marzo dopo essere stato intercettato dall’incrociatore pesante HMAS Australia; ancor meno strada fecero l’Oder ed il Bertram Rickmers, entrambi intercettati da navi britanniche e autoaffondati prima ancora di poter uscire dal Mar Rosso (l’uno il 24 marzo, l’altro il 30). Il Wartenfels, partito il 26 febbraio, riuscì soltanto a raggiungere Diego Suarez, nel Madagascar controllato dalla Francia di Vichy (in quello stesso porto si era rifugiata poche settimane prima, fuggendo da Chisimaio alla caduta della Somalia, anche la Duca degli Abruzzi). India e Piave, partiti rispettivamente il 24 e il 30 marzo, furono costretti a rifugiarsi ad Assab (Eritrea) a causa rispettivamente del maltempo e di un’avaria di macchina; in seguito alla notizia dell’intercettazione di Oder e Bertram Rickmers, ricevettero l’ordine di restare ad Assab ed autoaffondarvisi.
Questa fu dunque la sorte dei bastimenti che tentarono di fuggire dall’Africa Orientale Italiana prima che fosse troppo tardi. Per le altre navi, impossibilitate a lasciare l’Eritrea, non rimase che impedire che cadessero intatte in mano nemica. I sei cacciatorpediniere ancora efficienti partirono per una missione senza ritorno contro Porto Sudan, mentre per il naviglio mercantile ed ausiliario venne attuato l’autoaffondamento in massa.
 
Come menzionato più sopra, l’ammiraglio Bonetti aveva contemplato, nella probabilissima eventualità che Massaua cadesse per effetto di un attacco da terra, la possibilità di prolungare la resistenza per qualche tempo nelle Isole Dahlak, dove sarebbe stata creata una sorta di base navale temporanea che avrebbe dovuto resistere il più a lungo possibile dopo la caduta di Massaua. A questo scopo vennero trasferite da Massaua alle Dahlak alcune navi mercantili nonché unità minori e ausiliarie, cariche di rifornimenti che sarebbero dovuti servire a prolungare la resistenza nelle isole: tra queste navi era anche la Capitano Bottego, che venne dislocata a Nocra (Nokra). Oltre ad essa, andarono alle Dahlak i piroscafi Nazario Sauro, Giuseppe Mazzini, Urania e Tripolitania, la nave cisterna Prometeo, i rimorchiatori militari Ausonia (d’altura), MalamoccoPorto Venere e Panaria (di uso locale); alcune fonti indicano tra le unità trasferite alle Dahlak anche i rimorchiatori militari Formia e San Paolo. Tutte le navi si andarono ad ancorare nel Gubbet Mus Nefit, il grande “mare interno” dell’isola di Dahlak Kebir: un vasto golfo/laguna di forma circolare, quasi interamente racchiuso dalle propaggini stesse dell’isola di Dahlak Kebir, con una profondità variabile tra i pochi metri ed un massimo di 184 (più profondo del mare aperto che circonda le isole) e l’unico sbocco sul mare aperto, verso nordest, parzialmente chiuso dall’isola di Nocra. Quest’ultima, enormemente più piccola di Dahlak Kebir (con un’aerea di appena 6,5 kmq), appare una continuazione naturale delle due penisole di Dahlak Kebir che la cingono a nord ed a sud, lasciando soltanto due canali tra tali penisole e Nocra che consentivano alle navi di accedere a quella baia riparata, dove potevano considerarsi al sicuro da attacchi navali e subacquei.
 
L’epilogo di Massaua italiana si consumò nei primi giorni dell’aprile 1941.
Il 5 aprile la 7a Brigata Indiana si congiunse con la Briggs Force, proveniente da Port Sudan, fuori Massaua. I britannici inviarono per due volte all’ammiraglio Bonetti un’intimazione di resa, che venne respinta entrambe le volte; l’8 aprile un primo attacco contro la piazzaforte da parte della 7a Brigata Indiana venne respinto, ma un contemporaneo attacco della 10a Brigata Indiana, supportato da carri armati del 4th Royal Tank Regiment, riuscì a sfondare le difese italiane sul lato occidentale del perimetro. Attacchi da parte di reparti della Francia Libera sopraffecero le posizioni italiane sul lato sudoccidentale, mentre gli aerei britannici – che avevano ormai il dominio incontrastato dei cieli – bombardavano le postazioni d’artiglieria italiane.
Nel pomeriggio dell’8 aprile, Massaua si arrese. Tutti i mercantili rimasti nel porto si erano autoaffondati: i primi il 2 aprile, gli ultimi l’8, proprio mentre le truppe anglo-franco-indiane irrompevano in città.
Proprio il 2 aprile, intanto, aerei della Royal Air Force avevano lanciato un’incursione contro le navi italiane ormeggiate nel Gubbet Mus Nefit: il Giuseppe Mazzini, colpito in pieno, era affondato, e secondo qualche fonte venne incendiata e affondata anche la cisterna Prometeo. Bombe davvero sprecate, quelle: per parafrasare Francesco Ferruccio, gli aerei britannici “uccisero” – senza saperlo, d’altra parte – navi già “morte”, destinate a raggiungere coi propri mezzi, di lì a pochi giorni, il fondo del mare.
L’autoaffondamento di massa delle navi rifugiate alle Dahlak iniziò infatti due giorni più tardi: ad aprire la serie fu l’Urania, che si autoaffondò in acque relativamente basse, tanto da restare in gran parte emergente. Il 6 aprile toccò proprio alla Capitano Bottego: l’equipaggio della motonave scelse acque più profonde per l’autoaffondamento, e la bananiera affondò in trentadue metri d’acqua nel Gubbet Mus Nefit, vicino all’isola di Nocra (secondo una fonte inglese, la Bottego si sarebbe autoaffondata al largo dell’“isola Dulac”: sembra in realtà che questo nome non sia che una corruzione di Dahlak), lasciando affiorare soltanto la punta di uno dei suoi alberi (che in condizioni di bassa marea emergeva per una ventina di centimetri dalla superficie del mare).
Altra fonte, probabilmente erronea, data invece l’autoaffondamento della Capitano Bottego all’8 aprile 1941.
Lo stesso giorno della Capitano Bottego si autoaffondarono anche il Tripolitania ed il Nazario Sauro (quest’ultimo era ormeggiato a circa un miglio dalla Capitano Bottego quando si autoaffondò); l’8 aprile si autoaffondò la Prometeo – ammesso che non fosse già stata affondata dai bombardieri britannici sei giorni prima –, mentre gli equipaggi dei rimorchiatori attesero più a lungo: AusoniaMalamoccoPorto Venere e Panaria si autoaffondarono tutti tra il 14 e il 15 aprile, poco prima che le truppe britanniche sbarcassero a Nocra.
 
Come aveva previsto l’ammiraglio Bonetti, Massaua cadde prima delle Dahlak, che rimasero così, insieme alla piccola base navale di Assab (situata molto più a sud, avrebbe resistito fino a giugno) l’ultimo baluardo italiano nel Mar Rosso. Ritenendo che un prolungamento del controllo italiano delle Dahlak avrebbe impedito alle navi britanniche di muoversi liberamente nei canali tra le isole e la costa eritrea, nonché di dragare i campi minati presenti in quelle acque, Bonetti aveva ordinato di attuare le disposizioni, già emanate, per il prolungamento della resistenza nell’arcipelago. Il mattino dell’8 aprile, poche ore prima che Massaua cadesse, aveva lasciato quel porto dietro suo ordine un convoglio di rimorchiatori e bettoline cariche di rifornimenti, diretti a Nocra; comandava il convoglio il vicecomandante del Comando Marina di Massaua, capitano di corvetta Renato Pierantoni, designato comandante delle forze incaricate di difendere le Dahlak.
L’organizzazione difensiva dei vari passaggi, canali e sbarramenti era piuttosto efficace, ma risentiva di un gravissimo punto debole, che vanificava completamente la resistenza delle isole dopo la caduta di Massaua: nel Canale Nord tra l’arcipelago e la costa, la difesa era resa possibile solo dal tiro incrociato delle batterie delle isole Dehel e Dur Gaam e di quello delle batterie sulla costa eritrea. Se queste ultime cadevano in mano nemica, com’era appunto avvenuto con la presa di Massaua, i cannoni di Dehel e Dur Gaam da soli non erano in grado di tenere il canale sotto il loro tiro per tutta la sua ampiezza: il naviglio britannico impegnato nel traffico tra Massaua e Porto Sudan attraverso il Canale Nord non doveva fare altro che tenersi lontano dalle isole e vicino alla costa. Veniva così meno qualsivoglia potenziale offensivo delle Dahlak contro i movimenti britannici. Le batterie italiane situate nelle varie isole potevano soltanto starsene a guardare.
Fu appunto questo che avvenne.
Nei giorni immediatamente successivi la caduta di Massaua, i posti di vedetta delle isole di Difnein e Sheik-el-Abu segnalarono attività di dragamine sottocosta lungo il Canale Nord: i britannici stavano infatti dragando la rotta costiera nella parte del canale che si trovava al di fuori della portata delle artiglierie di Dehel e Dur Gaam, in modo da farvi passare le loro navi senza pericolo. Qualche giorno dopo, le stazioni di vedetta avvistarono anche dei mercantili che, nella medesima zona in cui si erano visti i dragamine, imbarcavano e sbarcavano truppe e materiali. Il tenente di vascello Signorini, comandante del presidio di Dehel, scrisse nel suo rapporto che i dragamine furono visibili da quell’isola in alcune occasioni; lontanissimi (a più di 20 km), appena visibili all’orizzonte verso ovest-sud-ovest, risultavano difficilmente telemetrabili ed in ogni caso erano non solo fuori tiro, ma persino fuori portata visiva dei cannoni da 102/45 di Dehel. Trascorso qualche giorno, il presidio di Dehel ebbe modo di assistere allo svilupparsi di un traffico piuttosto nutrito di navi britanniche da e per Massaua: convoglietti di 2-4 mercantili che navigavano molto distanti gli uni dagli altri, scortati da un paio di piccole navi da guerra, probabilmente dragamine di squadra o cannoniere, che il tenente di vascello Signorini giudicò somiglianti agli sloops della classe Bridgewater. Gli artiglieri di Dehel, di nuovo, potevano soltanto assistere impotenti al passaggio delle navi nemiche: quelle che passavano più “vicine” non transitavano mai a meno di 21-22 km dalla batteria «Eritrea», la più avanzata tra quelle presenti nell’isola, ben al di fuori della portata dei suoi cannoni. Signorini intuì che le navi britanniche seguivano una rotta costiera dragata al di fuori della gittata dei cannoni delle isole, e che «difficilmente il nemico avrebbe intrapreso rischiose operazioni navali per la cattura o la neutralizzazione delle batterie delle isole, la cui presenza non disturbava il suo traffico, ma avrebbe piuttosto atteso di prenderle per fame». Ad ogni modo, il giovane ufficiale si proponeva di resistere sull’isola il più a lungo possibile, fino all’esaurimento delle sue riserve di provviste e di quelle che fossero state mandate da Nocra.
I britannici erano così consapevoli dell’inutilità di un attacco diretto contro le Dahlak che non fecero neppure il minimo tentativo di invadere l’arcipelago: si limitarono a inviare di tanto in tanto qualche aereo a compiere ricognizioni, lanciare bombe o mitragliare le posizioni italiane, e ad aspettare che le isole cadessero per fame, senza colpo ferire. Ora che i britannici controllavano la costa, era soltanto questione di tempo: prima o poi cibo e acqua sarebbero finiti.
Di questo si rendeva conto anche il capitano di corvetta Pierantoni, che non tardò a trarne le logiche conclusioni. Il 14 aprile ordinò di sgomberare alcune delle isole minori, trasferendone il personale a Nocra e nelle altre isole maggiori; due giorni dopo, impartì a tutte le isole l’ordine di rendere inutilizzabili le batterie e di cessare ogni atteggiamento offensivo. Il 19 aprile ordinò di smobilitare il personale indigeno, che venne trasferito con dei sambuchi a Nocra o direttamente sulla costa eritrea. Scrive in proposito la storia ufficiale dell’USMM: «Gli ascari furono nella quasi totalità fedeli e disciplinati fino all’ultimo momento; parecchi si separarono dai nostri con manifesta costernazione ed esprimendo l’augurio di rivedere presto la bandiera italiana in Eritrea. Ciascuno fu munito di dichiarazione del servizio prestato e della data fino alla quale aveva ricevuto la paga dall’amministrazione italiana».
Il 13 aprile, Supermarina aveva inviato a Marina Assab un messaggio da ritrasmettere alle Dahlak: «Allorché viveri cominceranno a difettare distruggere impianti e munizioni e mettetevi in comunicazione con Massaua per consegnarvi. In caso impossibilità trasmettere avvertite». A causa della difficoltà di stabilire il collegamento tra Assab e le Dahlak, tuttavia, il messaggio raggiunse il destinatario solo dopo che il comandante Pierantoni aveva fatto sabotare le batterie.
Disimpegnate queste “incombenze”, Pierantoni decise di tagliar corto e mandare lui stesso a Massaua un ufficiale per negoziare coi britannici la resa delle Dahlak. I britannici accettarono, e risposero inviando due dragamine: uno a Nocra, per imbarcare il personale ivi concentrato e portarlo a Massaua (erano probabilmente tra questo personale anche gli equipaggi delle navi autoaffondate nel Gubbet Mus Nefit), e l’altro con la consegna di fare il giro delle isole e raccogliere i vari presidi italiani sperduti qua e là, portando anch’essi a Massaua (a bordo del dragamine venne imbarcata un’apposita commissione britannica). L’ufficiale britannico che prese contatto con i vari comandanti italiani confermò che da parte britannica non c’era nessuna intenzione di invadere le isole, che prima o poi sarebbero cadute per fame; ed avvisò che i presidi che avessero rifiutato di consegnarsi sarebbero stati abbandonati a sé stessi e che, una volta finiti i viveri, avrebbero dovuto arrangiarsi a raggiungere Massaua con i propri mezzi. (Un’altra fonte fa un racconto un po’ più colorito: girando per le isole, il dragamine informò flemmaticamente i diversi presidi italiani, a mezzo megafono, che potevano tranquillamente scegliere tra consegnarsi prigionieri o restare liberi nelle isole: se non che nel secondo caso sarebbero stati ovviamente lasciati senza cibo né acqua, in quelle aride isole dove l’acqua era sempre giunta soltanto a mezzo di navi cisterna inviate da Massaua).
I britannici gestirono la faccenda della resa delle Dahlak con tutta calma: i due dragamine girarono le isole senza fretta, tanto che gli ultimi presidi vennero prelevati soltanto nella seconda metà del maggio 1941, a un mese e mezzo dalla caduta di Massaua.
Approfittò di questa lentezza il nuovo comandante superiore della Marina in Africa Orientale, capitano di vascello Guglielmo Bolla, comandante di Marina Assab. Caduta Massaua e catturato l’ammiraglio Bonetti, il 14 aprile Supermarina aveva investito Bolla, che comandava l’ultima base navale rimasta in A.O.I., del comando di tutte le forze della Marina rimaste nella colonia in via di disgregazione. Il giorno seguente, in risposta al messaggio di Supermarina da ritrasmettere alle Dahlak del 13 aprile, Marina Assab aveva comunicato: «Non è possibile comunicare con isole Dahlach. Sto organizzando due sambuchi con elementi fidati per inviare viveri e restare loro disposizione». Il 16 Supermarina aveva risposto approvando tale iniziativa, ed aggiungendo: «Esaminate possibilità effettuare sgombero personale su Assab o su costa saudita previa sanzione Vicerè e distruzione batterie. Qualora sgombero citato non sia possibile comunicate personale opere Dahlach attenersi disposizioni impartite (…) consegnandosi Massaua allorché viveri difetteranno e previa distruzione impianti». Il 19 aprile, Assab era finalmente riuscita a mettersi in contatto radio con le Dahlak, ed aveva comunicato: «Mi risulta presenza sottotenente di vascello Valbruzzi su isola Dur Gaam, capitano di corvetta Pierantoni su isola Cubari e tenente di vascello Battistella su Harmil, tutti con nuclei personale. Impartite vostre disposizioni tentare ripiegare su Assab o costa saudita o Massaua. Invio sambuchi con viveri per tentare prima soluzione. Isole avvisate attendono».
Avuta notizia della decisione di Pierantoni di negoziare la resa delle Dahlak, il comandante Bolla prese l’iniziativa di tentare di recuperare almeno una frazione del personale presente nelle isole: organizzò due spedizioni di tre sambuchi ciascuna, armati da personale di sicuro affidamento, che mandò nell’arcipelago con l’incarico di cercare di raggiungere qualcuna delle isole prima dei britannici, di prelevare quanti più uomini possibile e di portarli ad Assab. I primi tre sambuchi riuscirono a portare a termine la loro missione, mentre del secondo gruppo soltanto uno fece ritorno ad Assab; gli altri due furono sorpresi e catturati dal dragamine britannico che girava per le isole per prelevare i presidi italiani. In questo modo vennero sottratti alla cattura e portati ad Assab quattro ufficiali ed una sessantina di altri uomini.
Il personale di alcune altre isole – tra cui Shumma e Dilemmi – respinse l’invito dei dragamine britannici a consegnarsi e raggiunse invece la terraferma con mezzi propri, ma qui arrivato venne a sua volta fatto prigioniero.
 
L’equipaggio della Capitano Bottego, con ogni probabilità, venne prelevato da Nocra nella seconda metà dell’aprile 1941, insieme al resto del personale civile e militare italiano concentratosi in quell’isola, da uno dei due dragamine britannici inviati da Massaua, e sbarcato in quel porto.
Inizialmente, gli equipaggi dei mercantili autoaffondatisi in Eritrea, così come numerosi altri civili italiani (sospettati di poter compiere atti di spionaggio o sabotaggio ai danni delle forze occupanti britanniche, o di appoggiare la resistenza da parte delle bande di militari italiani isolati che rifiutavano di arrendersi), vennero imprigionati in campi d’internamento stabiliti sul territorio eritreo; qui rimasero per oltre un anno e mezzo, finché, il 15 novembre 1942, molti di essi furono imbarcati a Massaua sul piroscafo britannico Nova Scotia, per essere trasferiti in Sudafrica, ove erano situati campi di prigionia più grandi ed organizzati (tra cui quello di Zonderwater, che già “ospitava” 60.000 italiani).
Il 16 novembre 1942 il Nova Scotia lasciò Massaua diretto a Durban e Port Elizabeth (Sudafrica) con a bordo 769 o 780 tra internati civili (che costituivano la grande maggioranza, marittimi compresi) e prigionieri di guerra italiani, 130 guardie sudafricane, 114 uomini di equipaggio civile, undici artiglieri della Royal Navy addetti alle armi di bordo e quindici passeggeri (nove militari e sei civili).
Alle 7.07 del 28 novembre 1942 il Nova Scotia, mentre navigava isolato a sudest di Lourenço Marques, fu colpito da tre siluri lanciati dal sommergibile tedesco U 177 (tenente di vascello Robert Gysae) ed affondò in fiamme nel giro di dieci minuti, lasciando il tempo di mettere a mare soltanto quattro zattere sovraccariche, e nessuna lancia. Dopo l’affondamento l’U 177 si avvicinò per interrogare i naufraghi ma, sentite delle voci in italiano, recuperò due uomini che si rivelarono essere due marittimi italiani: Gysae lasciò allora la zona e chiese ordini al comando (poche settimane prima un altro sommergibile venutosi a trovare in una situazione simile – l’U 156, affondatore del piroscafo Laconia carico di prigionieri italiani –, era stato attaccato da aerei mentre soccorreva i naufraghi, il che aveva spinto il comandante della flotta subacquea tedesca, Karl Dönitz, a vietare ai suoi sommergibilisti ogni altro tentativo di soccorso a superstiti di navi da loro affondate), ma gli fu ordinato, proprio per evitare il ripetersi di un caso Laconia, di proseguire nella missione. Il comando della flotta subacquea tedesca avvertì le autorità portoghesi (Lourenço Marques, la terra più vicina, era una colonia portoghese), che inviò l’avviso Alfonso De Albuquerque da Lourenço Marques. La nave portoghese, giunta sul posto il 30 novembre, riuscì però a salvare solo 181 o 194 superstiti, tra cui 117 o 130 internati italiani: molti di quelli che non erano affondati con la nave erano scomparsi in mare, annegati dopo aver esaurito le forze o mangiati dagli squali. I naufraghi furono sbarcati in Mozambico, dove alcuni di essi si stabilirono e rimasero, mentre altri riuscirono a tornare in Italia.
Il mare gettò sulle spiagge di Zinkwazi (Natal, Sudafrica) le salme di oltre 120 vittime, che furono sepolte in tre fosse comuni presso Hillary, vicino a Durban.
Tra i 650 internati e prigionieri italiani che perirono nell’affondamento del Nova Scotia, oltre ottanta erano marittimi appartenenti agli equipaggi delle navi autoaffondate a Massaua e alle Dahlak nell’aprile 1941. Non è noto se fossero tra di essi anche dei marinai della Capitano Bottego: per la maggior parte dei marittimi internati scomparsi sul Nova Scotia, negli elenchi delle vittime, non è infatti indicata la nave su cui erano imbarcati prima dell’internamento.
 
La Capitano Bottego rimase sul fondale del Gubbet Mus Nefit. Dopo la presa di Massaua, i britannici si misero subito all’opera per recuperare le navi ivi autoaffondate, al duplice scopo di liberare il porto per poterlo utilizzare, e se possibile di riparare e riutilizzare qualcuna di quelle navi. Allo scopo venne chiesto l’aiuto, dopo l’entrata in guerra degli Stati Uniti (7 dicembre 1941), di un esperto di recuperi statunitense, il capitano di vascello Edward Ellsberg: giunto a Massaua nell’aprile 1942, fu appunto questo ufficiale a dirigere il recupero della maggior parte dei relitti che ingombravano il porto eritreo. Mentre a Massaua ferveva questa attività di recupero, Ellsberg fu invitato dal tenente di vascello Fairbairn, pilota britannico del porto di Massaua, ad esaminare anche i relitti delle navi autoaffondatesi alle Dahlak; essendo molto preso dai recuperi a Massaua, per risparmiare tempo Ellsberg decise di compiere il suo esame mediante osservazione aerea, accettando un invito del maggiore Featherstonehaugh della RAF, ufficiale di collegamento tra il suo comando e l’O.E.T.A.. A bordo di un velivolo della RAF, Ellsberg e Featherstonehaugh compirono dunque un volo di ricognizione su Dahlak Kebir, verificando il numero, la posizione, la profondità e lo stato delle navi autoaffondate in quel porto: dall’aereo, Ellsberg poté vedere attraverso le chiare acque del Gubbet i relitti di tutte e sei le navi mercantili che giacevano sui fondali di quella baia. Due di esse, Urania e Tripolitania, erano del tutto o in parte emergenti, essendosi autoaffondate in acque relativamente basse; le altre quattro – BottegoSauroMazziniPrometeo – giacevano invece in acque più profonde ed erano completamente sommerse, salvo che per la sommità degli alberi (almeno per tre di esse, mentre non è chiaro se della quarta affiorasse qualcosa). Il recupero delle navi autoaffondate alle Dahlak rivestiva per gli Alleati minore priorità, dal momento che i loro relitti, a differenza di quelli di Massaua, non rappresentavano un intralcio ad alcunché, ed anche perché la maggior profondità a cui la maggior parte di essi giacevano rendevano un recupero impossibile, o quanto meno fortemente antieconomico, con i mezzi dell’epoca. Faceva eccezione il Tripolitania: questa nave, affondata senza uso di esplosivi (Ellsberg scrisse nelle sue memorie che tutte le navi autoaffondate alle Dahlak erano state affondate semplicemente aprendo le prese a mare, senza uso di esplosivi; ma ciò sembrerebbe essere contraddetto quanto meno dallo stato del relitto dell’Urania, che presenta nello scafo squarci causati da esplosioni interne) sulla verticale di un pendio sottomarino oltre il quale il fondale scendeva bruscamente, affondando si era andata a posare sulla piattaforma soprastante il pendio, in acque basse, anziché – come probabilmente sarebbe stata intenzione dell’equipaggio – nelle acque ben più profonde “ai piedi” del pendio, dove sarebbe risultata irrecuperabile come la Bottego e le altre navi. Giacendo su bassifondali, in assetto di navigazione e senza squarci nello scafo, il Tripolitania poté essere agevolmente essere tamponato, prosciugato e riportato a galla in appena una settimana, tra fine ottobre ed inizio novembre 1942, per poi essere successivamente riparato e rimesso in servizio (navigò ancora fino agli anni Sessanta). Non vennero invece toccati l’Urania – forse perché, rovesciandosi su un fianco, si era danneggiato eccessivamente, al punto da rendere il recupero difficile ed antieconomico – né tanto meno Bottego, SauroMazziniPrometeo.
 
Il relitto della Capitano Bottego venne nuovamente localizzato nel 1946 e, secondo alcune fonti (tra cui il volume USMM "Navi mercantili perdute"), recuperato dai britannici e demolito nel 1951. Analoga notizia, errata, viene data anche relativamente alle altre navi autoaffondatesi alle Dahlak nel 1941 (PrometeoNazario Sauro, Giuseppe MazziniUrania); in realtà, la Capitano Bottego e le altre navi giacciono ancor oggi sui fondali del Gubbet Mus Nefit, là dove si autoaffondarono nel lontano 1941, con l’unica eccezione del Tripolitania che – essendo stato affondato in acque troppo basse – era stato recuperato già nel 1942 dallo specialista statunitense in recuperi Edward Ellsberg.
Secondo un articolo di Franco Capone pubblicato nel 2005 sulla rivista “Focus”, queste notizie sarebbero frutto di un equivoco relativo all’entità dei recuperi. Alcune limitate operazioni di recupero sui cinque relitti del Gubbet vennero infatti compiute nel dopoguerra dalla società di recuperi Rippon, e poi dalle ditte italiane Besio e De Paoli negli anni Cinquanta e Sessanta. Questi lavori riguardarono soltanto l’asportazione dalle navi dei metalli pregiati come bronzo e rame: vennero dunque rimosse le eliche e poche altre componenti, lasciando i relitti sostanzialmente intatti; ma la notizia del recupero delle parti di rame e bronzo dai relitti delle navi affondate nel Gubbet sarebbe stato interpretata erroneamente da qualche fonte come il recupero delle navi stesse.
Il colpo di Stato in Etiopia nel 1974 e la lunga guerra d’indipendenza eritrea (1961-1991), durante la quale Nocra fu sede di una base militare etiope e poi sovietica (oggi eritrea), portarono alla chiusura del Gubbet agli stranieri, ed i relitti di quel “mare interno” caddero nel dimenticatoio per un altro trentennio, finché negli anni Novanta ebbe inizio una serie di spedizioni da parte dei subacquei italiani Andrea Ghisotti e Riccardo Melotti sui relitti delle Dahlak. I due si erano conosciuti negli anni Ottanta; Melotti, nato ad Asmara e cresciuto in Eritrea, era già stato a Dahlak Kebir, dove aveva visto lui stesso il relitto semiemergente dell’Urania e l’albero affiorante del Nazario Sauro. Già da tempo avevano pianificato di recarsi in quelle acque per immergervisi ed esplorare quei relitti: conclusasi nel 1991 la lunga guerra d’indipendenza eritrea, i due si apprestarono a dare attuazione a tali propositi, acquistando un gommone ed attrezzandolo per lunghe permanenze in acque prive di punti di appoggio – come appunto le Dahlak – nonché per le immersioni.
I primi tentativi di localizzare i relitti, nel 1992 e nel 1994, furono bloccati dai divieti opposti dalle autorità eritree; nel terzo, nel 1995 (ottenuti i permessi), l’individuazione si rivelò problematica per via della mancanza di informazioni sulla sua posizione esatta: la spedizione era in possesso di una relazione redatta nel dopoguerra da due tecnici di una ditta di recuperi italiani (in cui si indicavano le condizioni di ciascun relitto) e della mappa dei relitti realizzata decenni prima (con le posizioni di Bottego, SauroMazziniUrania e Prometeo), ma il crollo degli alberi del Nazario Sauro, che costituivano il punto di riferimento di quest’ultima, l’avevano resa del tutto inutile (anche l’unico albero affiorante della Capitano Bottego, essendo la sua sommità realizzata in legno, era da tempo marcito e crollato).
Neanche un esperto pescatore del luogo poté essere d’aiuto; fu necessario ricorrere all’ecoscandaglio e proprio con questo strumento, dopo due giorni di ricerche infruttuose, Ghisotti e Melotti riuscirono finalmente a ritrovare il Nazario Sauro, a partire dal quale, utilizzando la vecchia mappa che sfruttava come punto di riferimento gli alberi di questo piroscafo, poterono rintracciare anche gli altri relitti.  e ad immergervisi per la prima volta da decenni. Dopo qualche giorno di esplorazione, i due subacquei dovettero tornare a Massaua e poi in Italia; tentarono poi di tornare a Dahlak Kebir nel 1996, ma si scontrarono con la mutata legislazione eritrea, che vincolava ora il rilascio dei permessi per l’immersione sui relitti ad una serie di interminabili lungaggini burocratiche. I propositi di ritorno per quell’anno andarono così in fumo e Ghisotti e Melotti dovettero attendere fino al 1997 per tornare ad immergersi sui relitti del Gubbet. La terza spedizione (o piuttosto la seconda) fu condotta servendosi per l’appoggio del caicco Nobile, battente bandiera turca, attrezzato per le immersioni ed usato per charter con base a Massaua, capitanato da Maurizio Pazzelli; fu anche l’ultima.
 
La Capitano Bottego giace oggi a 32 metri di profondità, ad un miglio (verso terra) dal relitto del Nazario Sauro ed a mezzo miglio dalla costa; presenta uno sbandamento sulla dritta di circa dieci gradi. L’acqua attorno al relitto è molto torbida. Gli alloggi superiori del comandante, la sala nautica, la sala fumatori ed il locale radio, essendo realizzati in legno, sono da tempo crollati, mentre i locali interni sono meglio conservati ed ancora ricchi di suppellettili: vi si trovano caloriferi, lavandini, ventilatori, gabinetti; un grande lavello nelle cucine contiene ancora posate, vassoi, piatti e bicchieri, e su un tavolo metallico nello stesso locale si trovano due piatti da portata, due forchette ed una teiera. Anche la sala macchine è ben conservata, così come l’officina di bordo, ancora piena di utensili: chiavi ed attrezzi vari ancora appesi ai pannelli, una mola con relativo banco, un tornio, un trapano a colonna. Le stive sono vuote, salvo per un certo numero di stivali in gomma; in un locale interno, vicino al locale agghiaccio, si trova ancora un’elica di rispetto, mentre le due eliche originarie non ci sono più, asportate dai recuperanti negli anni Cinquanta.
Il relitto è coperto da spugne ed antipatari; Ghisotti lo definiva, in un suo articolo, «bello, raccolto, quasi familiare rispetto alle infinite concatenazioni interne della Nazario Sauro». Secondo Ghisotti, il relitto della Bottego sarebbe visitabile senza particolari difficoltà tecniche; tuttavia, dal 2006, restrizioni imposte dal governo eritreo hanno reso molto difficile accedere al Gubbet Mus Nefit.
 
La nave a Genova, in una cartolina della società Italo-Somala (g.c. Aldo Cavallini, via www.naviearmatori.net)

 

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