La Capitano Bottego (g.c. Mauro Millefiorini via www.naviearmatori.net) |
Motonave da carico di
2316,17 tsl, 1400,64 tsn e 3118 tpl, lunga 90,22-95,35 metri, larga 12,40 e
pescante 7,50-8,16, con velocità di 16,5 nodi. Di proprietà della Regia Azienda
Monopolio Banane, con sede a Roma; iscritta con matricola 1906 al Compartimento
Marittimo di Genova, nominativo di chiamata IBDL.
Faceva parte di una serie di tre motonavi gemelle (le altre due erano Duca degli Abruzzi e Capitano Antonio Cecchi), tutte battezzate con nomi di esploratori italiani del Corno d’Africa, fatte costruire in Svezia dalla Società Italo-Somala per il trasporto delle banane dalla Somalia italiana. Si trattava in assoluto delle prime navi bananiere costruite per una compagnia italiana; per il trasporto delle banane disponeva di quattro celle frigorifere (isolate con sughero granulato) della capacità di 2872 metri cubi, con due gruppi refrigeratori ad anidride carbonica (alimentati da quattro compressori e prodotti dalla ditta J. & E. Hall Ld. di Dartford) che usavano come fluidi refrigeranti brine ed aria. Le stive erano tre, con una portata lorda di 3118 tpl ed una netta di 1950 tpn.
Faceva parte di una serie di tre motonavi gemelle (le altre due erano Duca degli Abruzzi e Capitano Antonio Cecchi), tutte battezzate con nomi di esploratori italiani del Corno d’Africa, fatte costruire in Svezia dalla Società Italo-Somala per il trasporto delle banane dalla Somalia italiana. Si trattava in assoluto delle prime navi bananiere costruite per una compagnia italiana; per il trasporto delle banane disponeva di quattro celle frigorifere (isolate con sughero granulato) della capacità di 2872 metri cubi, con due gruppi refrigeratori ad anidride carbonica (alimentati da quattro compressori e prodotti dalla ditta J. & E. Hall Ld. di Dartford) che usavano come fluidi refrigeranti brine ed aria. Le stive erano tre, con una portata lorda di 3118 tpl ed una netta di 1950 tpn.
Le non grandi
dimensioni consentivano sia di limitare i costi di pedaggio per
l’attraversamento del Canale di Suez (essendo questi calcolati sulla base del
tonnellaggio delle navi che lo attraversavano), sia di massimizzare il
coefficiente di carico. La velocità, che oscillava tra i 15,5 ed i 16,5 nodi,
era relativamente elevata per delle navi da carico, al fine di minimizzare i
tempi della traversata e preservare così la freschezza del carico di banane: Capitano Bottego e gemelle risultarono
le più veloci navi in servizio sulla rotta tra l’Italia e la Somalia, che
percorrevano in dodici giorni, poco più della metà del tempo impiegato dai
piroscafi postali della società Tirrenia.
Oltre alle stive per
le banane ed altre merci, la Capitano
Bottego e le gemelle erano provviste anche di alcune cabine nelle quali
potevano trovare posto fino a dodici passeggeri (erano destinate ai
concessionari dei terreni somali in cui erano coltivate le banane).
L’apparato propulsivo
della Capitano Bottego era costituito
da due motori diesel a 6 cilindri da 2550 cavalli, su due eliche, che
consentivano una velocità di crociera di 15 nodi ed una massima di 16,5.
La Società Anonima di
Navigazione Italo-Somala era stata fondata nel 1931 (come filiazione della
Neptunia Società Anonima di Navigazione) dall’armatore genovese Andrea Marsano,
che in tempi di crisi per l’armamento italiano – un quarto della flotta
mercantile si trovava in disarmo a causa della Grande Depressione – aveva
deciso di puntare su un mercato relativamente nuovo ed in rapida espansione, ma
ancora poco conosciuto in Italia: quello delle banane, frutto che al contempo aveva
il fascino dell’esoticità ed il vantaggio di essere economicamente alla portata
anche delle classi meno abbienti. Fondata la Italo-Somala, Marsano stabilì
accordi commerciali con i produttori di banane in Somalia (le principali
coltivazioni si trovavano nelle zone di Genale e Villabruzzi e nell’Oltregiuba),
ed ordinò ai cantieri Eriksbergs di Göteborg tre bananiere da 2300 tsl e 3120
tpl, ossia la Capitano Bottego e le
sue due gemelle (stranamente, tuttavia, il Repertorio di Marina Mercantile
dell’Associazione Italiana di Documentazione Marittima e Navale menziona la Capitano Bottego e la Capitano Cecchi come acquistate dalla
società Italo-Somala durante la costruzione; ed il numero del febbraio 1934
della rivista tecnica svedese “Teknisk Tidskrift” indica il proprietario della Capitano Bottego come “A.-b.
Banantrasport, Stockholm” anziché, come per la Duca degli Abruzzi, “S. A. di Navigazione Italo-Somala”. Il
medesimo documento indica anche una stazza lorda e netta leggermente superiori
a quelle che risultano dai registri italiani, 2380 tsl e 1548 tsn).
Dopo pochi anni di
servizio per la società Italo-Somala, la Capitano
Bottego e le sue gemelle vennero acquistate nel 1936 dalla Regia Azienda
Monopolio Banane (R.A.M.B.), un ente pubblico (avente sede a Roma e controllato
dal Ministero delle Colonie) creato nel dicembre 1935 per gestire la
commercializzazione delle banane somale, sulle quali venne istituito un
monopolio di Stato. Questi frutti erano diventati il prodotto più redditizio
della Somalia, dopo che la Grande Depressione aveva dimezzato il prezzo del
cotone (principale prodotto, fino a quel momento, della colonia somala); per
essere competitivi rispetto alle banane prodotte in altri Paesi, tuttavia,
necessitavano della protezione statale, ragion per cui fu creata la R.A.M.B. In
precedenza, a trasportare le banane somale in Italia erano state, oltre
ovviamente alle navi della Italo-Somala, anche quelle della Tirrenia, della
Navigazione Libera Triestina e della britannica Silver Line; tuttavia questi
collegamenti erano giudicati troppo lenti e sporadici, e la capacità di carico
delle navi ad essi destinate troppo ridotta.
Capitano Bottego, Capitano
Cecchi e Duca degli Abruzzi
formarono il nucleo originario della flotta R.A.M.B.; dal progetto delle navi
tipo "Duca degli Abruzzi", e dall’esperienza accumulata grazie al
loro utilizzo, venne poi derivato quello delle più grandi e veloci motonavi
bananiere tipo RAMB (RAMB I, RAMB II, RAMB III, RAMB IV),
costruite in Italia per la Regia Azienda Monopolio Banane nel 1937.
L’imbarco delle
banane avveniva a Mogadiscio (dove confluivano quelle prodotte nel comprensorio
di Villabruzzi) ed alle foci del Giuba; da qui, venivano trasportate a Genova,
Napoli, Venezia e Fiume. Nei viaggi di andata dall’Italia alla Somalia, le
bananiere trasportavano invece merci varie, soprattutto alimenti deperibili per
la popolazione delle colonie. La creazione di una capillare rete di
distribuzione in Italia e nei Paesi amici, insieme ai ridotti tempi di
trasporto ed ai bassi costi di gestione, resero il commercio delle banane
somale estremamente redditizio; nel 1939 il consumo di banane in Italia aveva
raggiunto i 450.000 quintali.
Come le altre navi di
proprietà della Regia Azienda Monopolio Banane, la Capitano Bottego era destinata, in caso di guerra, alla conversione
in incrociatore ausiliario: in particolare, avrebbe dovuto essere armata con
quattro cannoni da 102/45 mm. Questa conversione non poté tuttavia avere luogo,
dal momento che la dichiarazione di guerra la sorprese in Africa Orientale: a
Massaua vi era materiale sufficiente soltanto alla conversione di due unità in
incrociatori ausiliari, e venne impiegato per trasformare la RAMB I e la RAMB II.
Breve e parziale cronologia.
1933
Varata dai cantieri
Eriksbergs Mekaniska Verkstads Aktiebolag di Göteborg (Svezia).
Novembre 1933
Completata per la
Società Anonima di Navigazione Italo-Somala.
Impiegata, insieme
alle gemelle, nel trasporto delle banane tra l’Italia e la Somalia: la rotta
seguita all’andata è Genova-Port Said-Mogadiscio, al ritorno Mogadiscio-Suez
(imbarco pilota)-Port Said (rifornimento)-Napoli-Genova. Le partenze sono
organizzate in modo che una delle tre motonavi parta ogni dieci giorni; al
termine di ogni viaggio, la motonave sosta cinque giorni a Genova prima di
partire per il viaggio successivo.
Nel gennaio 1934 la
rivista “Trasporti e lavori pubblici” pubblicherà un articolo sulle tre nuove
bananiere: «La Società Italo-Somala avrà
quanto prima al completo, a servizio della nostra Colonia Somala, l'esercizio
di tre motonavi per trasporto banane, comunemente chiamate «Bananiere». (…)
La prima nave della serie, già in
servizio da oltre quattro mesi, porta il nome caro a tutti zii italiani: «Duca
degli Abruzzi». La seconda, battezzata «Capitano Bottego», è entrata in servizio
verso la metà di novembre, la terza ed ultima «Capitano Cecchi» sarà consegnata
tra qualche mese. Queste navi bananiere sono le prime del tipo che entrano a
far parte della nostra Marina mercantile, ma per perfezione e modernità di
impianti e per l'organizzazione della linea ad esse affidata, danno, già fin
d'ora, pieno affidamento di pratica riuscita. Hanno modesto tonnellaggio, 2315
tonn. di stazza lorda, ed elevata velocità, da 15,5 a 16 nodi in servizio corrente,
requisiti importanti dal lato commerciale dell'impresa. Ed infatti, la piccola
mole della nave, oltre a limitare i diritti per il passaggio obbligato del
Canale di Suez, permette più facilmente di lavorare ad alto coefficiente di carico,
sia dalla Somalia all'Italia, sia al ritorno coi limitati quantitativi di merci
che dall'Italia vengono spediti alla Somalia, tenuto anche conto della concorrenza
fatta da altre linee regolari. E la elevata velocità, insieme agli impianti di
aereazione e di refrigerazione, ed alle opportune sistemazioni delle stive,
permette di portare le banane nel minor tempo possibile e nelle condizioni migliori.
dai luoghi di produzione ai centri di smercio. Per gli impianti di
refrigerazione queste unità possono definirsi navi refrigerate, e non navi
frigorifere, come taluno ha erroneamente affermato. Esse hanno cioè le stive,
destinate al trasporto di carico deperibile, mantenute ad una temperatura conveniente,
mediante circolazione di aria raffreddata, ciò che è ben altra cosa dell'avere
le stive efficacemente isolate termicamente e provviste di serpentine di
liquido incongelabile, come le navi frigorifere. La sistemazione è
particolarmente adatta per la buona conservazione delle banane, ed in genere di
tutte le frutta, che, più ancora della bassa temperata, abbisognano di
un'appropriata ventilazione, che in questo caso deve ottenersi con aria
preventivamente raffreddata, dato il clima caldo che incontra la nave nel suo
viaggio. Quanto alla linea, le navi bananiere fanno viaggi diretti da
Mogadiscio all'Italia (Napoli e Genova), fermando soltanto a Suez, per
imbarcare il pilota, ed a Port Said per rifornirsi di combustibile. In partenza
da Genova, senza fermare neppure a Napoli, esse vanno dirette a Mogadiscio, con
il solo scalo intermedio di Porto Said, ed impiegano 12 giorni soltanto
nell'intera traversata. Le partenza si susseguono regolarmente ogni 10 giorni,
e la fermata più lunga è quella di Genova, capo linea, di 5 giorni. Il servizio
rappresenta, quindi, il più rapido collegamento fra l'Italia e la Somalia
italiana, ove si pensi che fino ad oggi la linea più rapida era quella postale,
mantenuta dalla Società Tirrenia, che impiega una ventina di giorni da Genova a
Mogadiscio, e cioè circa il doppio di quanto si è realizzato col servizio delle
bananiere. E poichè queste hanno anche sistemazioni comodissime per una dozzina
di concessionari dei terreni produttori di banane in Somalia, è da augurarsi che
possano quanto prima ottenere il guidone postale. La Società Italo-Somala non è
sovvenzionata, o comunque premiata dal Governo; non ha neppure usufruito di premi
di costruzione e d'armamento, avendo fatto costruire le sue navi all'estero, in
Svezia (1). Prima ancora di ordinare i tipi «Duca degli Abruzzi» la
Italo-Somala ha svolto un lento ed intelligente lavoro di preparazione, organizzando
i mezzi di introduzione, di distribuzione e di smercio delle banane somale in
Italia, avvalendosi, pel trasporto di alcune navi estere. Con queste ha potuto crearsi
una preziosa esperienza tecnica ed economica, e studiare con cognizione di causa
i requisiti dei bastimenti e del servizio. Soltanto dopo un lungo periodo di preparazione
si è lanciata nell'impresa. La lodevole iniziativa, quindi, è del tutto privata,
è nata spontaneamente, si è sviluppata e concretata senza aiuti di sorta,
doppio merito in tempi così poco favorevoli per il traffico marittimo. (1)
Abbiamo già commentato la cosa nel numero scorso. La ragione della preferenza
concessa ai cantieri esteri sta nel fatto che appunto in Svezia era stata
costruita una delle navi estere della quale la Società era rimasta molto
soddisfatta nel periodo di prova dell’impresa. Tuttavia questa ragione non
giustifica la esclusione dei Cantieri italiani, da tutti riconosciuti
pienamente idonei alla costruzione di navi di qualsiasi specialità».
1936
Venduta al Ministero
delle Colonie (dall’anno seguente, Ministero dell’Africa Italiana) – Regia
Azienda Monopolio Banane, con sede a Roma (secondo www.promotorimuseimare.org,
tuttavia, la Capitano Bottego e le
gemelle non sarebbero state vendute alla R.A.M.B., bensì requisite d’autorità
dal governo italiano e trasferite a tale compagnia).
(g.c. Pietro Berti via www.naviearmatori.net) |
Isole Dahlak, aprile 1941
L’ingresso
dell’Italia nella seconda guerra mondiale, il 10 giugno 1940, sorprese la Capitano Bottego a Massaua, in Eritrea.
Fu questa una sorte
comune per le unità che componevano la flotta della Regia Azienda Monopolio
Banane, intente com’erano a fare ininterrottamente la spola tra l’Italia ed i
suoi possedimenti nel Corno d’Africa. Delle tre motonavi della serie "Duca
degli Abruzzi", soltanto la Capitano
Cecchi si trovava in Mediterraneo: la terza unità, la Duca degli Abruzzi, era infatti anch’essa in Africa Orientale, in
Somalia. Insieme ad esse rimasero bloccate in A.O.I. anche tre delle quattro
RAMB: la RAMB I, la RAMB II e la RAMB IV, tutte intrappolate a Massaua come la Capitano Bottego. Quasi tutte le navi della flotta R.A.M.B. erano
così destinate a seguire l’infausta sorte dell’Africa Orientale Italiana in
quella disastrosa guerra.
Se vale il detto “mal
comune mezzo gaudio” (cosa di cui si può in verità dubitare), le navi della
Regia Azienda Monopolio Banane bloccate in A.O.I. avevano la magra consolazione
di avere numerosa compagnia. Erano infatti più di trenta le navi mercantili
dell’Asse che lo scoppio della guerra aveva bloccato a Massaua: oltre alla Capitano Bottego ed alle tre RAMB,
c’erano i piroscafi passeggeri Nazario
Sauro, Giuseppe Mazzini, Colombo ed Urania; i piroscafi da carico Piave, Vesuvio, Moncalieri, XXIII Marzo, Adua, Brenta, Romolo Gessi e Tripolitania;
le motonavi Arabia, India ed Himalaya; le navi cisterna Prometeo, Antonia C., Riva Ligure e Clelia
Campanella; il piroscafetto Impero; i piroscafi tedeschi Coburg, Oder, Bertram Rickmers, Liebenfels, Wartenfels, Frauenfels, Lichtenfels, Gera, Oliva e Crefeld (queste ultime internate in quel porto amico fin
dall’entrata in guerra del loro Paese, nel settembre del ’39).
Per i mesi a venire,
tutte queste navi non poterono fare altro che dondolarsi pigramente
all’ormeggio, aspettando l’evolversi degli eventi a terra. La maggior parte dei
marittimi italiani e tedeschi vennero sbarcati e chiamati alle armi nella
Marina, nell’Esercito o nell’Aeronautica che combattevano in Africa Orientale,
lasciando soltanto equipaggi ridotti a bordo delle navi.
La Capitano Bottego passò dunque mesi e
mesi inattiva nel porto di Massaua; il 7 febbraio 1941 fu requisita a Massaua dalla
Regia Marina ed iscritta nel ruolo del naviglio ausiliario dello Stato,
categoria navi onerarie (termine che definiva le navi impiegate come trasporti),
ma non è chiaro se sia mai stata impiegata come tale, dal momento che nel
febbraio 1941 avrebbe potuto al massimo compiere qualche viaggio di cabotaggio
lungo la costa eritrea (ammesso che ve ne fosse l’esigenza).
Circondate da terre
in mano nemica ed impossibilitate a ricevere aiuto dall’Italia, le forze
italiane in Africa Orientale, dopo le prime vittorie dell’estate 1940
(conquista della Somalia britannica, presa di alcune fortezze e città di
confine del Sudan e del Kenya), dovettero passare sulla difensiva ed attendere
la controffensiva britannica, che infatti prese il via nel gennaio 1941 con un
duplice attacco, da sud sul fronte somalo e da nord su quello eritreo.
Verso la fine di quel
mese, la battaglia di Agordat, nell’Eritrea settentrionale, si risolse
sfavorevolmente per le truppe italiane, che dopo giorni di aspri combattimenti
dovettero ripiegare verso Cheren. Fu a questo punto che si iniziò a tenere
seriamente in conto l’eventualità che Massaua potesse essere attaccata nel
prossimo futuro.
Già da tempo,
tuttavia, il contrammiraglio Mario Bonetti, comandante superiore navale in
A.O.I. (Marisupao, che proprio a Massaua aveva il suo quartier generale), stava
studiando le misure da adottare per rinforzare le difese di Massaua nel caso di
un’offensiva nemica, nonché la sorte che avrebbero dovuto seguire le navi ivi
presenti quando la base fosse caduta. I suoi proposito a riguardo, Bonetti li
espresse per la prima volta in una lettera a Supermarina del 14 gennaio 1941;
dopo aver fatto presente che le difese di Massaua erano adatte a contrastare
azioni aeronavali nemiche, ma non certo un attacco di terra in grande stile,
l’ammiraglio esponeva i provvedimenti intraprese per sopperire il più possibile
a tale carenza e poi le sue proposte relative al destino del naviglio
mercantile e militare. In merito alle navi mercantili, il comandante di
Marisupao prospettava l’autoaffondamento in massa, per impedire la cattura
delle navi ed al contempo ostruire il porto di Massaua in modo da renderlo
inutilizzabile ai britannici: «Tutte le
altre unità, i piroscafi, i bacini galleggianti, vengono affondati, dopo essere
stati opportunamente danneggiati, in modo da ostruire sicuramente il porto di
Massaua ed il seno di Dakilia». Il progetto iniziale venne poi pesantemente
modificato per quel che riguardava le navi militari, ma non cambiò per quelle
mercantili, per le quali d’altra parte non esisteva altra realizzabile
prospettiva all’infuori dell’autoaffondamento: il 24 gennaio, in una nuova
lettera a Supermarina, Bonetti ribadiva che «ritengo necessario predisporre per la distruzione o inutilizzazione dei
numerosi piroscafi nazionali e germanici rifugiati in Mar Rosso. Sono in corso
di preparazione cariche esplosive, da distribuire in caso di necessità. Prego
volermi comunicare se devo seguire altre direttive, specialmente per quanto
riguarda i piroscafi germanici». Il 1° febbraio un’altra lettera di
Marisupao a Supermarina concludeva in chiusura «Rimango in ogni modo in attesa di disposizioni sui seguenti punti (…) c) Misure da prendere per la distruzione dei
piroscafi e l’inutilizzazione dei porti di Massaua e di Dachilia» ed il 6
febbraio Supermarina confermava che «…Inutilizzazione
et affondamento piroscafi deve pure essere assicurato».
Era stato invero
deciso dall’ammiraglio Bonetti – e poi confermato da Supermarina con
teledispaccio dell’8 febbraio – che le navi in condizione di affrontare una
lunga traversata oceanica, e con autonomia bastante a raggiungere un porto
amico o neutrale, avrebbero cercato di raggiungere l’Estremo Oriente o
l’America Latina violando il blocco britannico: ma tra i 34 bastimenti mercantili
immobilizzati da mesi a Massaua, soltanto pochi eletti rispondevano a questa
descrizione. Come Bonetti scrisse a Supermarina il 31 gennaio, ribadendolo più
estesamente in una lettera del 1° febbraio, «Per quanto riguarda l’uscita in Oceano Indiano dei piroscafi nazionali
e germanici (…) Questi
piroscafi sono da molti mesi fermi ed hanno la carena in condizioni molto
mediocri tanto da poter ritenere che la loro velocità sia in media ridotta del
50 %. L’uscita da Perim è molto problematica data la continua sorveglianza
esercitata da unità navali e da stazioni di vedetta e di ascoltazione
sull’isola. Anche ammettendo che riuscissero a superare il passo senza
opposizione non passerebbero inavvertiti e difficilmente sfuggirebbero alla
sorveglianza aerea ed alla successiva caccia delle unità inglesi. Si presenta
inoltre molto difficile ricostruirne gli equipaggi, essendo stata la maggior
parte del personale, compreso quello tedesco, richiamato nelle varie armi.
Difficoltà anche maggiore presenta il rifornimento di viveri e combustibili per
completare l’autonomia necessaria per raggiungere i porti neutrali, anche i più
prossimi».
Uniche navi
mercantili ritenute in grado di affrontare la traversata con qualche
probabilità di successo erano le italiane RAMB I, RAMB II (entrambe
requisite dalla Regia Marina e trasformate in incrociatori ausiliari; la RAMB IV invece era divenuta una
nave ospedale), Himalaya, India e Piave e le tedesche Coburg, Oder, Wartenfels e Bertram
Rickmers. Tutte le altre, compresa la Capitano
Bottego, avrebbero terminato la propria esistenza nelle calde acque del Mar
Rosso.
Nella summenzionata
lettera a Supermarina del 14 gennaio, l’ammiraglio Bonetti notava che le difese
di Massaua sul fronte a terra risultavano più deboli di quelle sul fronte a
mare; e prevedeva che qualora il fronte a terra fosse ceduto per primo,
l’estrema difesa della Marina si sarebbe svolta nell’arcipelago delle Dahlak,
un dedalo di oltre 120 tra isole ed isolette che si estende nel mare antistante
Massaua. A questo scopo, «tempestivamente
saranno spostati negli ancoraggi interni di Dahlach Chebir piroscafi con
combustibili, acqua, viveri e tutti i materiali, armi e mezzi ritenuti
necessari per continuare la resistenza ed i natanti necessari per continuare i
rifornimenti alle altre isole». Il 1° febbraio 1941 Marisupao dava infatti
notizia a Supermarina che «È in corso il
rifornimento di acqua, viveri ecc. sui piroscafi che dovranno costituire una
base di rifornimento nell’ancoraggio interno di Dahlach Chebir». Il 27
febbraio, in una lettera inviata sia a Supermarina che al Comando Superiore
delle Forze Armate in Africa Orientale, Bonetti scriveva: «Nell’eventualità che la base navale di Massaua possa divenire
inutilizzabile per le unità, è stata disposta la costituzione di una base
sussidiaria alle isole Dahlach, trasportando colà munizioni, combustibili,
viveri, siluri ecc. (…) I
piroscafi dislocati al Gubbet, quando la posizione divenisse insostenibile,
saranno affondati sul posto. Eguale sorte seguiranno le unità ausiliarie,
rimorchiatori, cisterne ecc.».
Delle isole Dahlak,
la più grande era Dahlak Kebir (nota anche come Grande Dahlak, distante 24
miglia da Massaua; avente un’estensione di 760 kmq, è l’isola più vasta di
tutto il Mar Rosso, ed ha una popolazione che oggi assomma a 2500 persone,
rendendola anche la più popolosa isola dell’arcipelago), nella quale a fine
gennaio l’ammiraglio Bonetti, per sventare possibili sbarchi britannici che
avrebbero così rischiato di scardinare il sistema difensivo del Canale Sud di
Massaua, aveva fatto inviare una compagnia mitraglieri con un totale di 300
uomini (l’isola era inoltre munita di una batteria antinave con quattro cannoni
da 120/45 mm). Altre isole che ospitavano installazioni militari erano Harmil,
sede di una batteria da 120/45 mm (quattro pezzi) ma situata in posizione
alquanto isolata rispetto al resto dell’arcipelago; Difnein, dove sorgeva una
stazione di vedetta; Dur Gaam, dotata di due batterie con un totale di quattro
cannoni da 120/45 mm; Nocra, capoluogo dell’arcipelago e sede del più grande
campo di concentramento dell’A.O.I. (vi erano imprigionati soldati, prelati,
notabili e funzionari del dissolto impero etiope ed altri prigionieri politici
etiopi); Cavet, sede di un’altra stazione di vedetta (poi ritirata);
Sheik-el-Abu, ove si trovavano un’altra stazione di vedetta e due complessi
antiaerei da 76/50 mm; Pagliai, anch’essa sede di stazione di vedetta (poi ritirata
perché ritenuta poco utile e troppo esposta a possibili attacchi britannici);
Dehel, armata con una batteria da 120/45 mm (quattro pezzi) ed una da 152/53 mm
(tre pezzi); Shumma, dotata di quattro pezzi da 120/45 mm; Sheik-Said (Isola
Verde), armata con quattro cannoni contraerei da 76/40 mm; Assarca Kebir,
armata con due pezzi antiaerei da 76/30 mm; Dilemmi, unita alla terraferma
durante la bassa marea e difesa da tre pezzi da 120/45 mm e nidi di
mitragliatrici.
A Nocra, capoluogo
dell’arcipelago, sorgeva una stazione radio; le batterie situate nelle varie
isole erano comandate da ufficiali di Marina e collegate tra di loro con
radiosegnalatori.
Intanto, la
situazione in Africa Orientale andava rapidamente precipitando: al sud, nel
febbraio 1941 era caduta la Somalia italiana, mentre in marzo le forze del
Commonwealth avevano riconquistato la Somalia britannica, avanzando intanto
nell’Etiopia meridionale puntando su Addis Abeba (che fu poi presa il 6
aprile); dilagava intanto anche l’insurrezione dei guerriglieri etiopi
(“Arbegnoch”). Al nord, dopo la sconfitta di Agordat le forze italiane si
attestarono a difesa sulle montagne di Cheren: qui si combatté, dal 2 febbraio
al 27 marzo, la battaglia decisiva per le sorti dell’Eritrea, la più lunga e sanguinosa
battaglia dell’intera campagna africana, costata quasi 40.000 tra morti e
feriti da ambo le parti. Dopo essere state respinte dalle truppe italiane ed
eritree per quasi due mesi, alla fine di marzo le forze anglo-indiane
riuscirono infine a sfondare le linee italiane; quattro giorni dopo fu presa
Asmara. La strada per Massaua era aperta.
A Massaua,
l’ammiraglio Bonetti aveva dato attuazione ai suoi piani relativi al
trasferimento o distruzione del naviglio.
Tra la fine di
febbraio e la fine di marzo 1941 le poche navi che avevano scafi e macchine in
buone condizioni, velocità non troppo bassa ed autonomia sufficiente lasciarono
Massaua per tentare di raggiungere porti amici o benevolmente neutrali in
Francia (per i sommergibili) ed in Giappone (per le navi di superficie).
Arrivarono in Giappone la RAMB II e
la nave coloniale Eritrea,
partite intorno al 20 febbraio; la motonave Himalaya, salpata il 1° marzo, raggiunse il Brasile, da dove poi
proseguì per la Francia; i quattro sommergibili di base a Massaua (Perla, Guglielmotti, Archimede e Ferraris) riuscirono tutti a trasferirsi
a Bordeaux. Finì male, invece, la traversata delle restanti unità che avevano
tentato di forzare il blocco britannico: la RAMB I fu affondata in Oceano Indiano dall’incrociatore
neozelandese Leander, dopo un
breve combattimento, il 27 febbraio (una settimana dopo la sua partenza);
il Coburg, partito il 17
febbraio, si autoaffondò nell’Oceano Indiano il 4 marzo dopo essere stato
intercettato dall’incrociatore pesante HMAS Australia; ancor meno strada fecero l’Oder ed il Bertram
Rickmers, entrambi intercettati da navi britanniche e autoaffondati prima
ancora di poter uscire dal Mar Rosso (l’uno il 24 marzo, l’altro il 30).
Il Wartenfels, partito il 26
febbraio, riuscì soltanto a raggiungere Diego Suarez, nel Madagascar
controllato dalla Francia di Vichy (in quello stesso porto si era rifugiata
poche settimane prima, fuggendo da Chisimaio alla caduta della Somalia, anche
la Duca degli Abruzzi). India e Piave, partiti rispettivamente il 24 e il 30 marzo, furono
costretti a rifugiarsi ad Assab (Eritrea) a causa rispettivamente del maltempo
e di un’avaria di macchina; in seguito alla notizia dell’intercettazione
di Oder e Bertram Rickmers, ricevettero l’ordine di restare ad Assab ed autoaffondarvisi.
Questa fu dunque la
sorte dei bastimenti che tentarono di fuggire dall’Africa Orientale Italiana
prima che fosse troppo tardi. Per le altre navi, impossibilitate a lasciare
l’Eritrea, non rimase che impedire che cadessero intatte in mano nemica. I sei
cacciatorpediniere ancora efficienti partirono per una missione senza ritorno
contro Porto Sudan, mentre per il naviglio mercantile ed ausiliario venne
attuato l’autoaffondamento in massa.
Come menzionato più
sopra, l’ammiraglio Bonetti aveva contemplato, nella probabilissima eventualità
che Massaua cadesse per effetto di un attacco da terra, la possibilità di
prolungare la resistenza per qualche tempo nelle Isole Dahlak, dove sarebbe
stata creata una sorta di base navale temporanea che avrebbe dovuto resistere
il più a lungo possibile dopo la caduta di Massaua. A questo scopo vennero
trasferite da Massaua alle Dahlak alcune navi mercantili nonché unità minori e
ausiliarie, cariche di rifornimenti che sarebbero dovuti servire a prolungare
la resistenza nelle isole: tra queste navi era anche la Capitano Bottego, che venne dislocata a Nocra (Nokra). Oltre ad essa,
andarono alle Dahlak i piroscafi Nazario
Sauro, Giuseppe Mazzini, Urania e Tripolitania, la nave cisterna Prometeo, i rimorchiatori militari Ausonia (d’altura), Malamocco, Porto Venere e Panaria (di uso locale); alcune
fonti indicano tra le unità trasferite alle Dahlak anche i rimorchiatori
militari Formia e San Paolo. Tutte le navi si andarono ad
ancorare nel Gubbet Mus Nefit, il grande “mare interno” dell’isola di Dahlak
Kebir: un vasto golfo/laguna di forma circolare, quasi interamente racchiuso
dalle propaggini stesse dell’isola di Dahlak Kebir, con una profondità
variabile tra i pochi metri ed un massimo di 184 (più profondo del mare aperto
che circonda le isole) e l’unico sbocco sul mare aperto, verso nordest,
parzialmente chiuso dall’isola di Nocra. Quest’ultima, enormemente più piccola
di Dahlak Kebir (con un’aerea di appena 6,5 kmq), appare una continuazione
naturale delle due penisole di Dahlak Kebir che la cingono a nord ed a sud,
lasciando soltanto due canali tra tali penisole e Nocra che consentivano alle
navi di accedere a quella baia riparata, dove potevano considerarsi al sicuro
da attacchi navali e subacquei.
L’epilogo di Massaua
italiana si consumò nei primi giorni dell’aprile 1941.
Il 5 aprile la 7a Brigata
Indiana si congiunse con la Briggs Force, proveniente da Port Sudan, fuori
Massaua. I britannici inviarono per due volte all’ammiraglio Bonetti
un’intimazione di resa, che venne respinta entrambe le volte; l’8 aprile un
primo attacco contro la piazzaforte da parte della 7a Brigata
Indiana venne respinto, ma un contemporaneo attacco della 10a Brigata
Indiana, supportato da carri armati del 4th Royal Tank
Regiment, riuscì a sfondare le difese italiane sul lato occidentale del
perimetro. Attacchi da parte di reparti della Francia Libera sopraffecero le
posizioni italiane sul lato sudoccidentale, mentre gli aerei britannici – che
avevano ormai il dominio incontrastato dei cieli – bombardavano le postazioni
d’artiglieria italiane.
Nel pomeriggio dell’8
aprile, Massaua si arrese. Tutti i mercantili rimasti nel porto si erano
autoaffondati: i primi il 2 aprile, gli ultimi l’8, proprio mentre le truppe
anglo-franco-indiane irrompevano in città.
Proprio il 2 aprile,
intanto, aerei della Royal Air Force avevano lanciato un’incursione contro le
navi italiane ormeggiate nel Gubbet Mus Nefit: il Giuseppe Mazzini, colpito in pieno, era affondato, e secondo
qualche fonte venne incendiata e affondata anche la cisterna Prometeo. Bombe davvero sprecate,
quelle: per parafrasare Francesco Ferruccio, gli aerei britannici “uccisero” –
senza saperlo, d’altra parte – navi già “morte”, destinate a raggiungere coi
propri mezzi, di lì a pochi giorni, il fondo del mare.
L’autoaffondamento di
massa delle navi rifugiate alle Dahlak iniziò infatti due giorni più tardi: ad
aprire la serie fu l’Urania, che si
autoaffondò in acque relativamente basse, tanto da restare in gran parte
emergente. Il 6 aprile toccò proprio alla Capitano
Bottego: l’equipaggio della motonave scelse acque più profonde per
l’autoaffondamento, e la bananiera affondò in trentadue metri d’acqua nel
Gubbet Mus Nefit, vicino all’isola di Nocra (secondo una fonte inglese, la Bottego si sarebbe autoaffondata al
largo dell’“isola Dulac”: sembra in realtà che questo nome non sia che una
corruzione di Dahlak), lasciando affiorare soltanto la punta di uno dei suoi
alberi (che in condizioni di bassa marea emergeva per una ventina di centimetri
dalla superficie del mare).
Altra fonte,
probabilmente erronea, data invece l’autoaffondamento della Capitano Bottego all’8 aprile 1941.
Lo stesso giorno della
Capitano Bottego si autoaffondarono
anche il Tripolitania ed il
Nazario Sauro (quest’ultimo era
ormeggiato a circa un miglio dalla Capitano
Bottego quando si autoaffondò); l’8 aprile si autoaffondò la Prometeo – ammesso che non fosse
già stata affondata dai bombardieri britannici sei giorni prima –, mentre gli
equipaggi dei rimorchiatori attesero più a lungo: Ausonia, Malamocco, Porto Venere e Panaria si autoaffondarono tutti
tra il 14 e il 15 aprile, poco prima che le truppe britanniche sbarcassero a
Nocra.
Come aveva previsto
l’ammiraglio Bonetti, Massaua cadde prima delle Dahlak, che rimasero così, insieme
alla piccola base navale di Assab (situata molto più a sud, avrebbe resistito
fino a giugno) l’ultimo baluardo italiano nel Mar Rosso. Ritenendo che un
prolungamento del controllo italiano delle Dahlak avrebbe impedito alle navi
britanniche di muoversi liberamente nei canali tra le isole e la costa eritrea,
nonché di dragare i campi minati presenti in quelle acque, Bonetti aveva
ordinato di attuare le disposizioni, già emanate, per il prolungamento della
resistenza nell’arcipelago. Il mattino dell’8 aprile, poche ore prima che
Massaua cadesse, aveva lasciato quel porto dietro suo ordine un convoglio di
rimorchiatori e bettoline cariche di rifornimenti, diretti a Nocra; comandava
il convoglio il vicecomandante del Comando Marina di Massaua, capitano di corvetta
Renato Pierantoni, designato comandante delle forze incaricate di difendere le
Dahlak.
L’organizzazione
difensiva dei vari passaggi, canali e sbarramenti era piuttosto efficace, ma
risentiva di un gravissimo punto debole, che vanificava completamente la
resistenza delle isole dopo la caduta di Massaua: nel Canale Nord tra
l’arcipelago e la costa, la difesa era resa possibile solo dal tiro incrociato
delle batterie delle isole Dehel e Dur Gaam e di quello delle batterie sulla
costa eritrea. Se queste ultime cadevano in mano nemica, com’era appunto
avvenuto con la presa di Massaua, i cannoni di Dehel e Dur Gaam da soli non
erano in grado di tenere il canale sotto il loro tiro per tutta la sua
ampiezza: il naviglio britannico impegnato nel traffico tra Massaua e Porto
Sudan attraverso il Canale Nord non doveva fare altro che tenersi lontano dalle
isole e vicino alla costa. Veniva così meno qualsivoglia potenziale offensivo
delle Dahlak contro i movimenti britannici. Le batterie italiane situate nelle
varie isole potevano soltanto starsene a guardare.
Fu appunto questo che
avvenne.
Nei giorni
immediatamente successivi la caduta di Massaua, i posti di vedetta delle isole
di Difnein e Sheik-el-Abu segnalarono attività di dragamine sottocosta lungo il
Canale Nord: i britannici stavano infatti dragando la rotta costiera nella
parte del canale che si trovava al di fuori della portata delle artiglierie di
Dehel e Dur Gaam, in modo da farvi passare le loro navi senza pericolo. Qualche
giorno dopo, le stazioni di vedetta avvistarono anche dei mercantili che, nella
medesima zona in cui si erano visti i dragamine, imbarcavano e sbarcavano
truppe e materiali. Il tenente di vascello Signorini, comandante del presidio
di Dehel, scrisse nel suo rapporto che i dragamine furono visibili da
quell’isola in alcune occasioni; lontanissimi (a più di 20 km), appena visibili
all’orizzonte verso ovest-sud-ovest, risultavano difficilmente telemetrabili ed
in ogni caso erano non solo fuori tiro, ma persino fuori portata visiva dei cannoni
da 102/45 di Dehel. Trascorso qualche giorno, il presidio di Dehel ebbe modo di
assistere allo svilupparsi di un traffico piuttosto nutrito di navi britanniche
da e per Massaua: convoglietti di 2-4 mercantili che navigavano molto distanti
gli uni dagli altri, scortati da un paio di piccole navi da guerra,
probabilmente dragamine di squadra o cannoniere, che il tenente di vascello
Signorini giudicò somiglianti agli sloops della classe Bridgewater. Gli
artiglieri di Dehel, di nuovo, potevano soltanto assistere impotenti al
passaggio delle navi nemiche: quelle che passavano più “vicine” non
transitavano mai a meno di 21-22 km dalla batteria «Eritrea», la più avanzata
tra quelle presenti nell’isola, ben al di fuori della portata dei suoi cannoni.
Signorini intuì che le navi britanniche seguivano una rotta costiera dragata al
di fuori della gittata dei cannoni delle isole, e che «difficilmente il nemico avrebbe intrapreso rischiose operazioni navali
per la cattura o la neutralizzazione delle batterie delle isole, la cui
presenza non disturbava il suo traffico, ma avrebbe piuttosto atteso di
prenderle per fame». Ad ogni modo, il giovane ufficiale si proponeva di
resistere sull’isola il più a lungo possibile, fino all’esaurimento delle sue
riserve di provviste e di quelle che fossero state mandate da Nocra.
I britannici erano
così consapevoli dell’inutilità di un attacco diretto contro le Dahlak che non
fecero neppure il minimo tentativo di invadere l’arcipelago: si limitarono a
inviare di tanto in tanto qualche aereo a compiere ricognizioni, lanciare bombe
o mitragliare le posizioni italiane, e ad aspettare che le isole cadessero per
fame, senza colpo ferire. Ora che i britannici controllavano la costa, era
soltanto questione di tempo: prima o poi cibo e acqua sarebbero finiti.
Di questo si rendeva
conto anche il capitano di corvetta Pierantoni, che non tardò a trarne le
logiche conclusioni. Il 14 aprile ordinò di sgomberare alcune delle isole
minori, trasferendone il personale a Nocra e nelle altre isole maggiori; due
giorni dopo, impartì a tutte le isole l’ordine di rendere inutilizzabili le
batterie e di cessare ogni atteggiamento offensivo. Il 19 aprile ordinò di
smobilitare il personale indigeno, che venne trasferito con dei sambuchi a
Nocra o direttamente sulla costa eritrea. Scrive in proposito la storia
ufficiale dell’USMM: «Gli ascari furono
nella quasi totalità fedeli e disciplinati fino all’ultimo momento; parecchi si
separarono dai nostri con manifesta costernazione ed esprimendo l’augurio di
rivedere presto la bandiera italiana in Eritrea. Ciascuno fu munito di
dichiarazione del servizio prestato e della data fino alla quale aveva ricevuto
la paga dall’amministrazione italiana».
Il 13 aprile,
Supermarina aveva inviato a Marina Assab un messaggio da ritrasmettere alle
Dahlak: «Allorché viveri cominceranno a
difettare distruggere impianti e munizioni e mettetevi in comunicazione con
Massaua per consegnarvi. In caso impossibilità trasmettere avvertite». A
causa della difficoltà di stabilire il collegamento tra Assab e le Dahlak,
tuttavia, il messaggio raggiunse il destinatario solo dopo che il comandante
Pierantoni aveva fatto sabotare le batterie.
Disimpegnate queste
“incombenze”, Pierantoni decise di tagliar corto e mandare lui stesso a Massaua
un ufficiale per negoziare coi britannici la resa delle Dahlak. I britannici
accettarono, e risposero inviando due dragamine: uno a Nocra, per imbarcare il
personale ivi concentrato e portarlo a Massaua (erano probabilmente tra questo
personale anche gli equipaggi delle navi autoaffondate nel Gubbet Mus Nefit), e
l’altro con la consegna di fare il giro delle isole e raccogliere i vari
presidi italiani sperduti qua e là, portando anch’essi a Massaua (a bordo del
dragamine venne imbarcata un’apposita commissione britannica). L’ufficiale
britannico che prese contatto con i vari comandanti italiani confermò che da
parte britannica non c’era nessuna intenzione di invadere le isole, che prima o
poi sarebbero cadute per fame; ed avvisò che i presidi che avessero rifiutato
di consegnarsi sarebbero stati abbandonati a sé stessi e che, una volta finiti
i viveri, avrebbero dovuto arrangiarsi a raggiungere Massaua con i propri
mezzi. (Un’altra fonte fa un racconto un po’ più colorito: girando per le
isole, il dragamine informò flemmaticamente i diversi presidi italiani, a mezzo
megafono, che potevano tranquillamente scegliere tra consegnarsi prigionieri o
restare liberi nelle isole: se non che nel secondo caso sarebbero stati
ovviamente lasciati senza cibo né acqua, in quelle aride isole dove l’acqua era
sempre giunta soltanto a mezzo di navi cisterna inviate da Massaua).
I britannici
gestirono la faccenda della resa delle Dahlak con tutta calma: i due dragamine
girarono le isole senza fretta, tanto che gli ultimi presidi vennero prelevati
soltanto nella seconda metà del maggio 1941, a un mese e mezzo dalla caduta di
Massaua.
Approfittò di questa
lentezza il nuovo comandante superiore della Marina in Africa Orientale,
capitano di vascello Guglielmo Bolla, comandante di Marina Assab. Caduta
Massaua e catturato l’ammiraglio Bonetti, il 14 aprile Supermarina aveva
investito Bolla, che comandava l’ultima base navale rimasta in A.O.I., del
comando di tutte le forze della Marina rimaste nella colonia in via di
disgregazione. Il giorno seguente, in risposta al messaggio di Supermarina da
ritrasmettere alle Dahlak del 13 aprile, Marina Assab aveva comunicato: «Non è possibile comunicare con isole
Dahlach. Sto organizzando due sambuchi con elementi fidati per inviare viveri e
restare loro disposizione». Il 16 Supermarina aveva risposto approvando
tale iniziativa, ed aggiungendo: «Esaminate
possibilità effettuare sgombero personale su Assab o su costa saudita previa
sanzione Vicerè e distruzione batterie. Qualora sgombero citato non sia
possibile comunicate personale opere Dahlach attenersi disposizioni
impartite (…) consegnandosi
Massaua allorché viveri difetteranno e previa distruzione impianti». Il 19
aprile, Assab era finalmente riuscita a mettersi in contatto radio con le
Dahlak, ed aveva comunicato: «Mi risulta
presenza sottotenente di vascello Valbruzzi su isola Dur Gaam, capitano di
corvetta Pierantoni su isola Cubari e tenente di vascello Battistella su
Harmil, tutti con nuclei personale. Impartite vostre disposizioni tentare
ripiegare su Assab o costa saudita o Massaua. Invio sambuchi con viveri per
tentare prima soluzione. Isole avvisate attendono».
Avuta notizia della
decisione di Pierantoni di negoziare la resa delle Dahlak, il comandante Bolla
prese l’iniziativa di tentare di recuperare almeno una frazione del personale
presente nelle isole: organizzò due spedizioni di tre sambuchi ciascuna, armati
da personale di sicuro affidamento, che mandò nell’arcipelago con l’incarico di
cercare di raggiungere qualcuna delle isole prima dei britannici, di prelevare
quanti più uomini possibile e di portarli ad Assab. I primi tre sambuchi
riuscirono a portare a termine la loro missione, mentre del secondo gruppo
soltanto uno fece ritorno ad Assab; gli altri due furono sorpresi e catturati
dal dragamine britannico che girava per le isole per prelevare i presidi
italiani. In questo modo vennero sottratti alla cattura e portati ad Assab
quattro ufficiali ed una sessantina di altri uomini.
Il personale di
alcune altre isole – tra cui Shumma e Dilemmi – respinse l’invito dei dragamine
britannici a consegnarsi e raggiunse invece la terraferma con mezzi propri, ma
qui arrivato venne a sua volta fatto prigioniero.
L’equipaggio della Capitano Bottego, con ogni probabilità,
venne prelevato da Nocra nella seconda metà dell’aprile 1941, insieme al resto
del personale civile e militare italiano concentratosi in quell’isola, da uno
dei due dragamine britannici inviati da Massaua, e sbarcato in quel porto.
Inizialmente, gli
equipaggi dei mercantili autoaffondatisi in Eritrea, così come numerosi altri
civili italiani (sospettati di poter compiere atti di spionaggio o sabotaggio
ai danni delle forze occupanti britanniche, o di appoggiare la resistenza da
parte delle bande di militari italiani isolati che rifiutavano di arrendersi),
vennero imprigionati in campi d’internamento stabiliti sul territorio eritreo;
qui rimasero per oltre un anno e mezzo, finché, il 15 novembre 1942, molti di
essi furono imbarcati a Massaua sul piroscafo britannico Nova Scotia, per essere trasferiti in
Sudafrica, ove erano situati campi di prigionia più grandi ed organizzati (tra
cui quello di Zonderwater, che già “ospitava” 60.000 italiani).
Il 16 novembre 1942
il Nova Scotia lasciò
Massaua diretto a Durban e Port Elizabeth (Sudafrica) con a bordo 769 o 780 tra
internati civili (che costituivano la grande maggioranza, marittimi compresi) e
prigionieri di guerra italiani, 130 guardie sudafricane, 114 uomini di
equipaggio civile, undici artiglieri della Royal Navy addetti alle armi di
bordo e quindici passeggeri (nove militari e sei civili).
Alle 7.07 del 28
novembre 1942 il Nova Scotia,
mentre navigava isolato a sudest di Lourenço Marques, fu colpito da tre siluri
lanciati dal sommergibile tedesco U
177 (tenente di vascello Robert Gysae) ed affondò in fiamme nel giro
di dieci minuti, lasciando il tempo di mettere a mare soltanto quattro zattere
sovraccariche, e nessuna lancia. Dopo l’affondamento l’U 177 si avvicinò per interrogare i naufraghi ma, sentite
delle voci in italiano, recuperò due uomini che si rivelarono essere due
marittimi italiani: Gysae lasciò allora la zona e chiese ordini al comando
(poche settimane prima un altro sommergibile venutosi a trovare in una
situazione simile – l’U 156,
affondatore del piroscafo Laconia carico
di prigionieri italiani –, era stato attaccato da aerei mentre soccorreva i
naufraghi, il che aveva spinto il comandante della flotta subacquea tedesca,
Karl Dönitz, a vietare ai suoi sommergibilisti ogni altro tentativo di soccorso
a superstiti di navi da loro affondate), ma gli fu ordinato, proprio per
evitare il ripetersi di un caso Laconia,
di proseguire nella missione. Il comando della flotta subacquea tedesca avvertì
le autorità portoghesi (Lourenço Marques, la terra più vicina, era una colonia
portoghese), che inviò l’avviso Alfonso
De Albuquerque da Lourenço Marques. La nave portoghese, giunta sul
posto il 30 novembre, riuscì però a salvare solo 181 o 194 superstiti, tra cui
117 o 130 internati italiani: molti di quelli che non erano affondati con la
nave erano scomparsi in mare, annegati dopo aver esaurito le forze o mangiati
dagli squali. I naufraghi furono sbarcati in Mozambico, dove alcuni di essi si
stabilirono e rimasero, mentre altri riuscirono a tornare in Italia.
Il mare gettò sulle
spiagge di Zinkwazi (Natal, Sudafrica) le salme di oltre 120 vittime, che
furono sepolte in tre fosse comuni presso Hillary, vicino a Durban.
Tra i 650 internati e
prigionieri italiani che perirono nell’affondamento del Nova Scotia, oltre ottanta erano
marittimi appartenenti agli equipaggi delle navi autoaffondate a Massaua e alle
Dahlak nell’aprile 1941. Non è noto se fossero tra di essi anche dei marinai
della Capitano Bottego: per la
maggior parte dei marittimi internati scomparsi sul Nova Scotia, negli elenchi delle vittime, non è infatti indicata la
nave su cui erano imbarcati prima dell’internamento.
La Capitano Bottego rimase sul fondale
del Gubbet Mus Nefit. Dopo la presa di Massaua, i britannici si misero subito
all’opera per recuperare le navi ivi autoaffondate, al duplice scopo di
liberare il porto per poterlo utilizzare, e se possibile di riparare e
riutilizzare qualcuna di quelle navi. Allo scopo venne chiesto l’aiuto, dopo
l’entrata in guerra degli Stati Uniti (7 dicembre 1941), di un esperto di
recuperi statunitense, il capitano di vascello Edward Ellsberg: giunto a
Massaua nell’aprile 1942, fu appunto questo ufficiale a dirigere il recupero
della maggior parte dei relitti che ingombravano il porto eritreo. Mentre a
Massaua ferveva questa attività di recupero, Ellsberg fu invitato dal tenente
di vascello Fairbairn, pilota britannico del porto di Massaua, ad esaminare
anche i relitti delle navi autoaffondatesi alle Dahlak; essendo molto preso dai
recuperi a Massaua, per risparmiare tempo Ellsberg decise di compiere il suo
esame mediante osservazione aerea, accettando un invito del maggiore
Featherstonehaugh della RAF, ufficiale di collegamento tra il suo comando e
l’O.E.T.A.. A bordo di un velivolo della RAF, Ellsberg e Featherstonehaugh
compirono dunque un volo di ricognizione su Dahlak Kebir, verificando il
numero, la posizione, la profondità e lo stato delle navi autoaffondate in quel
porto: dall’aereo, Ellsberg poté vedere attraverso le chiare acque del Gubbet i
relitti di tutte e sei le navi mercantili che giacevano sui fondali di quella
baia. Due di esse, Urania e Tripolitania, erano del tutto o in parte
emergenti, essendosi autoaffondate in acque relativamente basse; le altre
quattro – Bottego, Sauro, Mazzini e Prometeo –
giacevano invece in acque più profonde ed erano completamente sommerse, salvo
che per la sommità degli alberi (almeno per tre di esse, mentre non è chiaro se
della quarta affiorasse qualcosa). Il recupero delle navi autoaffondate alle
Dahlak rivestiva per gli Alleati minore priorità, dal momento che i loro
relitti, a differenza di quelli di Massaua, non rappresentavano un intralcio ad
alcunché, ed anche perché la maggior profondità a cui la maggior parte di essi
giacevano rendevano un recupero impossibile, o quanto meno fortemente
antieconomico, con i mezzi dell’epoca. Faceva eccezione il Tripolitania: questa nave, affondata
senza uso di esplosivi (Ellsberg scrisse nelle sue memorie che tutte le navi
autoaffondate alle Dahlak erano state affondate semplicemente aprendo le prese
a mare, senza uso di esplosivi; ma ciò sembrerebbe essere contraddetto quanto
meno dallo stato del relitto dell’Urania,
che presenta nello scafo squarci causati da esplosioni interne) sulla verticale
di un pendio sottomarino oltre il quale il fondale scendeva bruscamente, affondando
si era andata a posare sulla piattaforma soprastante il pendio, in acque basse,
anziché – come probabilmente sarebbe stata intenzione dell’equipaggio – nelle
acque ben più profonde “ai piedi” del pendio, dove sarebbe risultata
irrecuperabile come la Bottego e
le altre navi. Giacendo su bassifondali, in assetto di navigazione e senza
squarci nello scafo, il Tripolitania poté
essere agevolmente essere tamponato, prosciugato e riportato a galla in appena
una settimana, tra fine ottobre ed inizio novembre 1942, per poi essere
successivamente riparato e rimesso in servizio (navigò ancora fino agli anni
Sessanta). Non vennero invece toccati l’Urania –
forse perché, rovesciandosi su un fianco, si era danneggiato eccessivamente, al
punto da rendere il recupero difficile ed antieconomico – né tanto meno Bottego, Sauro, Mazzini e Prometeo.
Il relitto della Capitano Bottego venne nuovamente
localizzato nel 1946 e, secondo alcune fonti (tra cui il volume USMM "Navi
mercantili perdute"), recuperato dai britannici e demolito nel 1951.
Analoga notizia, errata, viene data anche relativamente alle altre navi
autoaffondatesi alle Dahlak nel 1941 (Prometeo, Nazario Sauro, Giuseppe Mazzini, Urania);
in realtà, la Capitano Bottego e le
altre navi giacciono ancor oggi sui fondali del Gubbet Mus Nefit, là dove si
autoaffondarono nel lontano 1941, con l’unica eccezione del Tripolitania che – essendo stato
affondato in acque troppo basse – era stato recuperato già nel 1942 dallo
specialista statunitense in recuperi Edward Ellsberg.
Secondo un articolo
di Franco Capone pubblicato nel 2005 sulla rivista “Focus”, queste notizie
sarebbero frutto di un equivoco relativo all’entità dei recuperi. Alcune
limitate operazioni di recupero sui cinque relitti del Gubbet vennero infatti
compiute nel dopoguerra dalla società di recuperi Rippon, e poi dalle ditte
italiane Besio e De Paoli negli anni Cinquanta e Sessanta. Questi lavori
riguardarono soltanto l’asportazione dalle navi dei metalli pregiati come
bronzo e rame: vennero dunque rimosse le eliche e poche altre componenti,
lasciando i relitti sostanzialmente intatti; ma la notizia del recupero delle
parti di rame e bronzo dai relitti delle navi affondate nel Gubbet sarebbe
stato interpretata erroneamente da qualche fonte come il recupero delle navi
stesse.
Il colpo di Stato in
Etiopia nel 1974 e la lunga guerra d’indipendenza eritrea (1961-1991), durante
la quale Nocra fu sede di una base militare etiope e poi sovietica (oggi
eritrea), portarono alla chiusura del Gubbet agli stranieri, ed i relitti di
quel “mare interno” caddero nel dimenticatoio per un altro trentennio,
finché negli anni Novanta ebbe inizio una serie di spedizioni da parte dei
subacquei italiani Andrea Ghisotti e Riccardo Melotti sui relitti delle Dahlak.
I due si erano conosciuti negli anni Ottanta; Melotti, nato ad Asmara e
cresciuto in Eritrea, era già stato a Dahlak Kebir, dove aveva visto lui stesso
il relitto semiemergente dell’Urania e
l’albero affiorante del Nazario
Sauro. Già da tempo avevano pianificato di recarsi in quelle acque per
immergervisi ed esplorare quei relitti: conclusasi nel 1991 la lunga guerra
d’indipendenza eritrea, i due si apprestarono a dare attuazione a tali
propositi, acquistando un gommone ed attrezzandolo per lunghe permanenze in
acque prive di punti di appoggio – come appunto le Dahlak – nonché per le
immersioni.
I primi tentativi di
localizzare i relitti, nel 1992 e nel 1994, furono bloccati dai divieti opposti
dalle autorità eritree; nel terzo, nel 1995 (ottenuti i permessi),
l’individuazione si rivelò problematica per via della mancanza di informazioni
sulla sua posizione esatta: la spedizione era in possesso di una relazione
redatta nel dopoguerra da due tecnici di una ditta di recuperi italiani (in cui
si indicavano le condizioni di ciascun relitto) e della mappa dei relitti
realizzata decenni prima (con le posizioni di Bottego, Sauro, Mazzini, Urania e Prometeo),
ma il crollo degli alberi del Nazario
Sauro, che costituivano il punto di riferimento di quest’ultima, l’avevano
resa del tutto inutile (anche l’unico albero affiorante della Capitano Bottego, essendo la sua sommità
realizzata in legno, era da tempo marcito e crollato).
Neanche un esperto
pescatore del luogo poté essere d’aiuto; fu necessario ricorrere
all’ecoscandaglio e proprio con questo strumento, dopo due giorni di ricerche
infruttuose, Ghisotti e Melotti riuscirono finalmente a ritrovare il Nazario Sauro, a partire dal quale,
utilizzando la vecchia mappa che sfruttava come punto di riferimento gli alberi
di questo piroscafo, poterono rintracciare anche gli altri relitti. e ad
immergervisi per la prima volta da decenni. Dopo qualche giorno di esplorazione,
i due subacquei dovettero tornare a Massaua e poi in Italia; tentarono poi di
tornare a Dahlak Kebir nel 1996, ma si scontrarono con la mutata legislazione
eritrea, che vincolava ora il rilascio dei permessi per l’immersione sui
relitti ad una serie di interminabili lungaggini burocratiche. I propositi di
ritorno per quell’anno andarono così in fumo e Ghisotti e Melotti dovettero
attendere fino al 1997 per tornare ad immergersi sui relitti del Gubbet. La
terza spedizione (o piuttosto la seconda) fu condotta servendosi per l’appoggio
del caicco Nobile, battente
bandiera turca, attrezzato per le immersioni ed usato per charter con base a
Massaua, capitanato da Maurizio Pazzelli; fu anche l’ultima.
La Capitano Bottego giace oggi a 32 metri
di profondità, ad un miglio (verso terra) dal relitto del Nazario Sauro ed a mezzo miglio dalla costa; presenta uno
sbandamento sulla dritta di circa dieci gradi. L’acqua attorno al relitto è
molto torbida. Gli alloggi superiori del comandante, la sala nautica, la sala
fumatori ed il locale radio, essendo realizzati in legno, sono da tempo
crollati, mentre i locali interni sono meglio conservati ed ancora ricchi di
suppellettili: vi si trovano caloriferi, lavandini, ventilatori, gabinetti; un
grande lavello nelle cucine contiene ancora posate, vassoi, piatti e bicchieri,
e su un tavolo metallico nello stesso locale si trovano due piatti da portata,
due forchette ed una teiera. Anche la sala macchine è ben conservata, così come
l’officina di bordo, ancora piena di utensili: chiavi ed attrezzi vari ancora
appesi ai pannelli, una mola con relativo banco, un tornio, un trapano a
colonna. Le stive sono vuote, salvo per un certo numero di stivali in gomma; in
un locale interno, vicino al locale agghiaccio, si trova ancora un’elica di
rispetto, mentre le due eliche originarie non ci sono più, asportate dai
recuperanti negli anni Cinquanta.
Il relitto è coperto
da spugne ed antipatari; Ghisotti lo definiva, in un suo articolo, «bello, raccolto, quasi familiare rispetto
alle infinite concatenazioni interne della Nazario Sauro». Secondo
Ghisotti, il relitto della Bottego
sarebbe visitabile senza particolari difficoltà tecniche; tuttavia, dal 2006,
restrizioni imposte dal governo eritreo hanno reso molto difficile accedere al
Gubbet Mus Nefit.
La nave a Genova, in una cartolina della società Italo-Somala (g.c. Aldo Cavallini, via www.naviearmatori.net) |
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