Alle
sette di sera l'Oyleric,
durante un viaggio da Dublino a Beaumont (Texas) via Brixham al
comando del capitano Livingstone, trae in salvo l'equipaggio della
goletta statunitense Valkyrie,
disalberata da una violenta tempesta a 900 miglia da Bermuda.
L'Oyleric
recupera il comandante della Valkyrie,
capitano Henry Rose (al comando della goletta da quattro anni), altri
undici uomini e due bambine di tre e quattro anni, figlie di uno di
essi; ai loro soccorritori i naufraghi raccontano la loro odissea. La
vecchia goletta, costruita 37 anni prima, era partita il 23 ottobre
da Providence (Rhode Island) diretta a Brava (Isole di Capo Verde) in
servizio di linea con dodici uomini di equipaggio, quattro passeggeri
(comprese le due bambine) ed un carico di legname e merci varie (la
nave era carica a metà). Una prima tempesta l'ha costretta a gettare
l'ancora nella baia di Narraganset, e solo il 26 ottobre la Valkyrie
è potuta uscire nell'Atlantico per affrontare il viaggio di 3600
miglia verso le Isole di Capo Verde; poco dopo essersi lasciata alle
spalle Block Island, la nave è incappata in un'altra tempesta che
per cinque giorni ha tormentato la sua navigazione – condotta con
un fiocco, una randa di cappa ed una tormentina – nella Corrente
del Golfo, fino ad essere disalberata verso le due di notte del 4
novembre. Dapprima il vento ed il mare hanno asportato il bompresso e
rotto l'albero di trinchetto, che tuttavia è rimasto inizialmente in
piedi; il capitano Rose si è arrampicato su un pennone per fissare
il sartiame, ma poco dopo l'albero maestro si è spezzato ed è
caduto in mare, trascinando con sé anche l'albero di trinchetto. Due
membri dell'equipaggio – un marinaio ed un mozzo – sono scomparsi
in mare dopo che la furia delle onde ha travolto la piccola
imbarcazione, l'unico mezzo di salvataggio della Valkyrie,
in cui si erano calati nel tentativo di rattoppare la murata della
goletta, che aveva iniziato ad imbarcare acqua.
Gettati
in mare i rimasugli dell'alberatura per alleggerire la nave,
l'equipaggio ha faticosamente tenuto la Valkyrie
a galla con le pompe per 35 ore (le mani del capitano Rose sono
coperte di vesciche per il continuo pompare) fino all'arrivo
dell'Oyleric;
durante la giornata del 4 novembre un piroscafo era già passato
nella zona senza notare il relitto galleggiante della goletta, mentre
in seguito all'avvistamento dell'Oyleric
l'equipaggio della Valkyrie
ha acceso dei fumogeni da segnalazione, riuscendo così ad attirarne
l'attenzione. A bordo della petroliera i naufraghi ricevono
immediatamente ogni attenzione; sono tutti in buone condizioni e le
due bambine non si sono nemmeno rese conto del pericolo che hanno
corso, tanto che un'ora prima dell'arrivo dell'Oyleric
la più grande delle due ha detto al padre di portare in coperta i
bagagli “perché
presto prenderemo il treno”
(portato in coperta per accontentarla, anche il bagaglio viene
trasbordato sulla nave soccorritrice: unico oggetto salvato dal
naufragio, oltre al sestante ed al cronometro del capitano Rose).
L'Oyleric
sbarca i naufraghi a Five Fathom Hole il mattino del 9 novembre, dopo
di che riparte subito per completare il viaggio. Il console
statunitense a St. George, Fred Robertson, organizza il rimpatrio dei
naufraghi, trasferiti lo stesso 9 novembre dal piroscafo Daisy
(che ha precedentemente portato sull'Oyleric,
ancorata al lago dell'East End di Five Fathom Hole, i funzionari
doganali P. W. G. Shelley, F. J. Robertson e C. Randolph Hayward, che
hanno sbrigato le pratiche doganali necessarie allo sbarco dei
naufraghi) sulla nave passeggeri Fort
St. George,
diretta a New York; il capitano Rose esprimerà a nome proprio e
dell'equipaggio la sua gratitudine per la gentilezza e cortesia
mostrate dall'equipaggio dell'Oyleric
dopo il salvataggio.
1934
Il
nominativo di chiamata radio diventa GRFB.
1937
Acquistata
dalla Ditta G. M. Barbagelata di Genova e ribattezzata Genoano.
Registrata presso il Compartimento Marittimo di Genova, nominativo di
chiamata IBGP.
Il
Messico in guerra
Al
pari di più di duecento altre navi mercantili italiane, il 10 giugno
1940 la Genoano,
al comando del capitano di lungo corso spezzino Anselmo Macera, si
ritrovò bloccata al di fuori del Mediterraneo, a migliaia di
chilometri dalla madrepatria che lo scoppio della guerra aveva reso
irraggiungibile: più precisamente a Tampico, importante porto
petrolifero del Messico situato sul fiume Panuco, ad una decina di
miglia dalla foce. In quel medesimo porto si trovavano o dove si
rifugiarono dopo la dichiarazione di guerra altre sette petroliere
italiane: l'Americano
(appartenente anch'essa alla flotta Barbagelata), la Fede,
l'Atlas,
la Marina
Odero,
la Tuscania,
la Stelvio,
la Lucifero e
la Vigor;
un'altra, la Giorgio
Fassio,
era a Veracruz. Per tutte, la sorte fu la stessa: l'internamento in
acque messicane, ossia proprio a Tampico, per la durata delle
ostilità.
Insieme
alle otto navi italiane erano presenti a Tampico, ed egualmente
internati fin dal settembre 1939, anche quattro bastimenti tedeschi:
l'Orinoco,
il Phrygia,
il Rhein e
l'Idarwald.
Gli
equipaggi delle navi internate a Tampico vivevano confinati a bordo
dei loro bastimenti: potevano scendere a terra e visitare la
popolazione locale solo dietro autorizzazione del comandante, e solo
in gruppi. Nonostante questo e la vigilanza delle “Oficinas de
Población”, in meno di un anno non pochi marittimi italiani
riuscirono a metter su famiglia con donne del posto.
Nondimeno,
non tutti erano rassegnati a passare la guerra in Messico. Nella
notte del 16 novembre 1940 le quattro navi tedesche tentarono di
salpare da Tampico per raggiungere la Germania, violando il blocco
britannico; la partenza avrebbe dovuto essere furtiva, ma in realtà
migliaia di abitanti del posto, e probabilmente anche qualche membro
del locale consolato britannico, vi assisterono. Mantenere il segreto
era del resto impresa ardua, le navi avevano già ottenuto i
documenti per la partenza (la destinazione dichiarata erano “porti
della Spagna”) e due cannoniere della Marina messicana avevano
l'ordine di accompagnarle fino ai limiti delle acque territoriali
messicane. Già nel pomeriggio precedente i bastimenti tedeschi
avevano acceso le caldaie, ed era ben presto circolata voce che si
sarebbero recati al largo per rifornire di provviste e di carburante
gli U-Boote e le “navi corsare” tedesche operanti in Atlantico.
Questo
tentativo finì male: non appena giunse al largo,
il Phrygia s'imbatté
in un cacciatorpediniere statunitense della “pattuglia di
neutralità” che lo illuminò con i proiettori; scambiandolo per
una nave britannica, l'equipaggio del Phrygia incendiò
la sua nave ed aprì le prese a mare per evitare la cattura. Le altre
tre navi fecero dietrofront e tornarono precipitosamente in porto.
Una
decina di giorni più tardi, le navi italiane e tedesche internate a
Tampico rinnovarono i preparativi per un'apparente prossima partenza,
mentre tre cacciatorpediniere statunitensi della “pattuglia di
neutralità” incrociavano nelle acque antistanti il porto
messicano. Le navi si rifornirono di carburante ed accesero le
caldaie poco dopo la mezzanotte del 25 novembre, ma prima dell'alba
le caldaie vennero spente – come indicato dal fumo che aveva smesso
di uscire dai fumaioli – ed i rimorchiatori che prima erano in
attesa accanto ai bastimenti dell'Asse come se fosse stato richiesto
il loro intervento per la partenza se ne andarono, anche se le navi
italiane e tedesche avevano tenuto tutte le luci accese. I
giornalisti dell'«Associated
Press»
aggiunsero che negli uffici della capitaneria di porto era stato
riferito che le navi dell'Asse avevano già preparato i documenti per
l'autorizzazione a partire, ma che non era possibile fornire
informazioni su quando dovessero salpare. Inoltre, circolava notizia
che personale dei consolati italiano e tedesco a Città del Messico
fosse al lavoro già alle due di notte, apparentemente in contatto
con Tampico. Entrambi i consolati, interpellati, risposero che erano
stati fatti dei preparativi a bordo delle navi, ma che non avevano
informazioni su quando sarebbero partite.
Il
secondo tentativo di fuga da parte delle navi tedesche ebbe infine
luogo il 3 dicembre, quando il Rhein e
l'Idarwald (l'Orinoco rimase
in porto) tentarono nuovamente la sorte; ma finì ancor peggio della
prima volta. Entrambi i bastimenti tedeschi furono pedinati da
cacciatorpediniere statunitensi della “pattuglia di neutralità”,
che non li attaccarono né ne ostacolarono attivamente la
navigazione, ma che segnalarono in chiaro la loro posizione alla
radio, così permettendone l'intercettazione da parte di navi da
guerra Alleate. L'8 dicembre l'Idarwald,
intercettato dall'incrociatore britannico Diomede,
fu autoaffondato dal proprio equipaggio; tre giorni dopo toccò la
stessa sorte al Rhein,
intercettato dalla cannoniera olandese Van
Kinsbergen.
Questo
secondo fallimento pose fine ad ogni altra velleità di fuga dal
Messico. La Genoano,
le altre petroliere italiane e l'Orinoco se
ne rimasero a Tampico.
Questa
situazione perdurò fino alla primavera del 1941. Il 30 marzo di
quell'anno gli Stati Uniti, pur essendo neutrali, procedettero alla
confisca di tutti i bastimenti mercantili dell'Asse presenti nei
propri porti; diversi paesi dell'America latina, spesso su pressione
angloamericana, si prepararono a fare lo stesso, e gli equipaggi di
numerosi mercantili italiani internati in questi stati, in base agli
ordini ricevuti dalle autorità italiane, sabotarono od
autoaffondarono le loro navi prima che potessero essere catturate.
Il
Messico colse l'occasione, disponendo anch'esso la confisca delle
dodici navi dell'Asse presenti a Tampico e Veracruz, per incrementare
la propria modesta flotta petroliera: con la cattura delle dieci
cisterne italiane che si trovavano nei suoi porti, infatti, il
tonnellaggio complessivo delle navi cisterna sotto bandiera messicana
sarebbe quadruplicato, passando da 29.445 tsl a 117.591 tsl, con una
capacità complessiva di 1.162.000 barili di greggio.
Il
Messico aveva nazionalizzato le proprie riserve petrolifere pochi
anni prima, espropriandole alle compagnie straniere e creando una
propria compagnia petrolifera controllata dallo Stato, la Petróleos
Mexicanos S. A. (Pemex), ma risentiva di una carenza di navi cisterna
adeguate a trasportare il petrolio per poter adeguatamente sviluppare
tale industria, che venne così “risolta”.
La
nazionalizzazione delle risorse petrolifere messicane, decisa il 18
marzo 1938 dal presidente Lázaro Cárdenas del Río, aveva destato
profondi malumori nel Regno Unito, negli Stati Uniti e nei Paesi
Bassi, le cui compagnie petrolifere avevano fino a quel momento
sfruttato i giacimenti messicani: nonostante Cárdenas si fosse
offerto di indennizzare pienamente le compagnie colpite, queste
avevano reagito organizzando un vero e proprio embargo contro i
prodotti petroliferi messicani, le cui esportazioni si erano
dimezzate. I governi britannico ed olandese avevano appoggiato il
boicottaggio del petrolio messicano organizzato dalle rispettive
compagnie petrolifere, portando ad un deterioramento delle relazioni
diplomatiche con il Messico, mentre quello statunitense era stato
relativamente meno acceso nell'appoggio alle sue, in quanto il
presidente Franklin Delano Roosevelt intendeva perseguire nei
confronti del Messico una politica di “buon vicinato” per averlo
dalla sua parte in un conflitto che intuiva essere ormai imminente.
Nondimeno, l'“embargo” aveva colpito duramente la Pemex, portando
ad una situazione paradossale: il Messico, Paese all'epoca tra i più
antifascisti al mondo (insieme all'Unione Sovietica era stato l'unico
Paese ad inviare aiuti militari alla Repubblica spagnola nella guerra
civile contro i nazionalisti, mentre Francia e Regno Unito erano
rimasti a guardare mentre Italia e Germania inviavano ai franchisti
ingenti e decisivi rinforzi di truppe e materiale militare: caduta
poi la Repubblica, era stato il Messico ad accoglierne ed ospitarne
il governo in esilio, insieme a decine di migliaia di profughi), si
era ritrovato ad avere come principali acquirenti del suo petrolio
proprio l'Italia fascista e la Germania nazista, tra i pochi Paesi a
non aver aderito all'“embargo” petrolifero contro il Messico
deciso dal blocco anglo-olandese-statunitense, di cui erano
avversari.
Proprio
alla cantieristica italiana si era inizialmente rivolta la Pemex per
risolvere il problema della mancanza di petroliere (anch'esso legato
alla nazionalizzazione dei giacimenti ed alle sue conseguenze: prima
della nazionalizzazione il petrolio messicano era solitamente
trasportato da navi straniere, ma dopo di essa quasi nessun armatore
era stato più disposto a noleggiare le sue petroliere alla Pemex per
non incorrere nell'ira dei colossi petroliferi
anglo-olandesi-statunitensi): nel 1939 aveva ordinato all'Ansaldo di
Genova tre grandi e moderne motonavi cisterna
battezzate Minatitlan, Panuco e Poza
Rica,
ma lo scoppio della guerra ne aveva rallentato la costruzione, e nel
1941 le tre petroliere furono confiscate dal governo italiano per
essere impiegate nel trasporto di carburante in Africa
Settentrionale. Secondo qualche fonte secondaria messicana, anzi, fu
proprio la confisca delle tre petroliere in costruzione in Italia a
spingere il governo messicano a confiscare le navi italiane presenti
nelle sue acque; ma ciò sembra poco probabile, la maggior parte
delle fonti messicane non indicano in ciò la causa di tale
decisione.
All'atto
della nazionalizzazione del 1938 la flotta petrolifera messicana era
composta da una sola nave cisterna, la San
Ricardo
(ribattezzata nel 1939 18
de Marzo),
cui nel 1940 se ne erano aggiunte altre tre con l'acquisto delle
norvegesi Binta
e Bisca
e della tedesca Tina
Asmussen,
ribattezzate Cerro
Azul,
Tampico
e Juan
Casiano:
flotta sempre troppo sparuta e che la guerra mondiale aveva reso
difficile incrementare, sia con l'acquisto di navi esistenti che con
nuove costruzioni, in quanto tutto era assorbito dalle esigenze del
conflitto.
Su
disposizione del presidente messicano Manuel Ávila Camacho per
tramite della Segreteria della Marina (Secretaría
de Marina),
il contrammiraglio Luis Hurtado de Mendoza fu inviato dal Ministro
della Guerra Lázaro Cárdenas del Rio a confiscare le navi dell'Asse
presenti nei porti del Messico, alla testa di reparti del 31°
Battaglione Fanteria (31°
Batallón de Infantería).
Il
1° aprile 1941, pertanto (altra fonte parla del 2 aprile, ma si
tratta probabilmente di un errore), drappelli della Marina messicana
abbordarono e catturarono la Genoano e
le altre navi cisterna italiane presenti nel porto di Tampico, con
l'eccezione dell'Atlas,
che venne autoaffondata dal suo equipaggio. L'autoaffondamento
dell'Atlas fu
anzi citato da parte messicana – come già fatto negli Stati Uniti,
dove quasi tutte le navi italiane erano state sabotate dai loro
equipaggi – come ragione del provvedimento di sequestro delle navi:
si disse che la decisione era stata presa dal governo messicano per
ragioni di sicurezza nazionale, dopo aver appreso la notizia di
quanto accaduto sull'Atlas.
Su ciascuna nave fu posto un distaccamento di fanteria di Marina con
compiti di vigilanza. Il generale messicano Francisco Luis Urquizo,
che all'epoca aveva il suo comando a Tampico, avrebbe ricordato nelle
sue memorie come il contrammiraglio Hurtado de Mendoza “…ottimo
conversatore, portava invariabilmente il discorso sul modo rapido ed
energico con cui aveva effettuato il simultaneo sequestro di tutte le
navi con truppe del 31° Battaglione, che più tardi furono rilevate
dalla Fanteria di Marina”.
Fu
questo uno dei primi atti compiuti da parte del Governo messicano in
relazione alla seconda guerra mondiale.
Questa
mossa fu giustificata ed ufficializzata dal presidente messicano
Manuel Ávila Camacho con un decreto di requisizione firmato pochi
giorni più tardi, l'8 aprile 1941 (e pubblicato il 10 aprile sul
Diario Oficial de la Federación,
l'equivalente messicano della Gazzetta Ufficiale), facendo richiamo
al “diritto d'angheria”, in base al quale una nazione in guerra –
ma il Messico era neutrale – poteva requisire forzosamente per le
proprie necessità il naviglio mercantile appartenente a nazioni
straniere che si trovasse nelle proprie acque territoriali, a patto
di indennizzarne adeguatamente i proprietari.
Il
decreto di requisizione era formato da quattro articoli: «Art.
1 La Segreteria delle Relazioni Estere notificherà ai rappresentanti
diplomatici degli Stati belligeranti, la cui bandiera inalberano le
navi che sono immobilizzate nei porti nazionali, che il Governo degli
Stati Uniti del Messico sequestra quelle navi per usarle nello
scambio commerciale e marittimo d'altura e di cabotaggio; Art. 2 La
Segreteria della Marina procederà ad immatricolare e munire della
bandiera nazionale le navi sequestrate, e ovviamente formulerà un
dettagliato inventario delle stesse; Art. 3 La Segreteria di Governo
emetterà la documentazione necessaria affinché gli ufficiali e gli
equipaggi delle navi sequestrate permangano nel Paese per la durata
del presente stato di emergenza o troverà un mezzo sicuro per
riportarli nei loro Paesi di origine. Gli ufficiali e gli equipaggi
sbarcati riceveranno l'attenzione che si conviene; Art. 4 La
Segreteria della Finanza e del Credito Pubblico determinerà
l'indennizzo corrispondente per ciascuno dei bastimenti sequestrati,
dando ai loro proprietari l'intervento appropriato secondo le nostre
leggi. Gli indennizzi verranno pagati alla fine della guerra, con un
interesse aggiuntivo per il tempo che sarà intercorso tra la data
del decreto e quella del pagamento».
Come
motivi per l'applicazione del diritto d'angheria pur essendo il
Messico neutrale, Ávila Camacho indicò i gravi disturbi causati
dalla guerra al commercio marittimo del Messico, il modo in cui era
condotto il conflitto, ignorando i diritti delle nazioni neutrali, ed
il quasi completo annientamento del commercio marittimo messicano per
mancanza di mezzi di trasporto: secondo il presidente messicano,
l'applicazione, da parte di uno Stato neutrale, del diritto
d'angheria rappresentava solo una piccola compensazione per il
trattamento che in quella guerra aveva subito lo stato stesso di
neutralità (queste motivazioni furono fatte proprie dal Comitato
consultivo economico-finanziario interamericano, che con la sua
risoluzione del 26 aprile 1941 riconobbe implicitamente il diritto
dei governi americani di applicare il diritto d'angheria). Un'altra
giustificazione che fu addotta era che le autorità messicane
volessero evitare che si verificassero anche in Messico atti di
sabotaggio come quelli compiuti nei giorni precedenti dagli equipaggi
dei bastimenti dell'Asse che si trovavano immobilizzati nelle acque
di altri Paesi americani.
L'ambasciatore
messicano presso gli Stati Uniti, Francisco Castillo Nájera, affermò
in una lettera scritta il 4 aprile al segretario di Stato
statunitense Cordell Hull che le navi erano state sequestrate perché
i loro equipaggi stavano “pianificando
attività di sabotaggio contro i porti messicani”;
nello stesso testo del decreto dell'8 aprile si indicava tra le
motivazioni “i
numerosi atti di sabotaggio effettuati nei primi mesi dell'anno in
corso in vari Paesi del continente americano, da parte di equipaggi
di navi belligeranti”.
Anche il libro "Historia General de la Secretaría de la
Marina-Armada de México" afferma che il sequestro fu compiuto
“per
prevenire atti di sabotaggio che avrebbero potuto danneggiare sia i
porti nazionali che le navi stesse”.
Il generale Francisco Luis Urquizo, all'epoca comandante dell'8a Zona
Militare con quartier generale proprio a Tampico, scrisse nel suo
libro di memorie "Tres de Diana" che “…una
tale misura [la
confisca delle navi] era
giusta, perché solo a Tampico c'erano undici navi italiane e
tedesche con un totale di novecento uomini di equipaggio tra tutte.
Questo costituiva un pericolo, e sarebbe stata necessaria una rigida
e costosa vigilanza militare per le navi ed i loro equipaggi,
vigilanza che non sarebbe stata ricompensata dalla nostra stessa
neutralità”.
Qualche fonte messicana accenna anche a sabotaggi o danneggiamenti
che sarebbero stati compiuti dagli equipaggi su alcune navi, senza
però aggiungere nulla di specifico (salvo che per l'Atlas).
Altra
motivazione addotta era che le navi italiane e tedesche fossero in
una “situazione illegale” essendo rimaste in porti messicani per
un periodo maggiore rispetto a quello concesso dal diritto
internazionale.
Sempre
allo scopo di legittimare la confisca delle navi, qualche giorno
prima di emettere il decreto di sequestro la Segreteria per le
Relazioni Estere (equivalente al Ministero degli Esteri) del Messico
aveva inviato un avvertimento ai Ministeri degli Esteri di Italia e
Germania, informandoli che le autorità di quel Paese avrebbero
sequestrato le navi straniere immobilizzate nei loro porti per
impiegarle nel commercio e nel traffico marittimo d'altura e di
cabotaggio, ed intimando loro, se intendevano evitarlo, di far
lasciare alle loro navi le acque messicane. Se vi fossero rimaste,
una volta decorso il tempo stabilito queste sarebbero state
confiscate; tale disposizione non era attuabile, visto che se le navi
dell'Asse avessero lasciato il Messico sarebbero state certamente
intercettate e catturate od affondate da navi alleate. Decorso dunque
il limite di tempo concesso senza che le navi fossero partite, fu
emesso il decreto sequestro; il presidente Ávila Camacho ordinò al
generale Heriberto Jara, segretario della Marina, di prendere
possesso delle navi italiane e tedesche.
Il
sequestro delle navi rappresentò anche un gesto di avvicinamento del
governo messicano a quello statunitense: già il 31 marzo, dando la
notizia della confisca delle navi italiane e tedesche negli Stati
Uniti ed in altri Paesi americani, alcuni giornali statunitensi
avevano riferito che il Messico pianificava di prendere in custodia
le navi italiane e tedesche presenti nei suoi porti, in un atto “di
difesa continentale e di solidarietà con gli Stati Uniti”.
L'azione, da parte di distaccamenti armati della Marina messicana,
era correttamente annunciata per la notte successiva.
Il
governo messicano si impegnò ad utilizzare le navi sequestrate in
base ai diritti ad esso conferito dalle leggi internazionali come
Paese neutrale, ed a corrispondere agli armatori italiani, a guerra
finita, un congruo indennizzo per l'utilizzo delle loro navi da parte
del Messico; gli armatori protestarono ugualmente per la confisca e
presentarono una richiesta di protezione, che venne sospesa dal
Dipartimento Legale del Ministero della Marina messicana.
Il
numero dei marittimi italiani (in maggioranza) e tedeschi a bordo
delle navi confiscate in Messico è variamente indicato da fonti
differenti in 306 (i soli italiani), o 352, o 555 (italiani e
tedeschi), oppure poco meno di 600 tra italiani e tedeschi (quasi 500
sulle navi sequestrate a Tampico, quasi 100 su quelle sequestrate a
Veracruz), oppure “oltre novecento” tra italiani e tedeschi nella
sola Tampico (ma questa è probabilmente un'esagerazione).
Sbarcati
dalle navi, rimasero inizialmente in libertà a Tampico, considerati
dalla legge messicana «migranti temporanei» e sottoposti alla
vigilanza e responsabilità dei rispettivi consolati, che avevano
trattato con le autorità locali affinché i marittimi rimanessero in
libertà e che provvidero ad alloggiarli in alberghi del luogo;
nell'ottobre 1941 le autorità messicane emisero un decreto con
istruzioni per la permanenza in Messico degli equipaggi delle navi
confiscate. Tra le altre cose si affermava che, essendo gli equipaggi
composti da marittimi civili, dovessero essere soggetti alla
legislazione messicana sul lavoro; con il cambio di nazionalità
delle loro navi, il contratto di lavoro dei componenti degli
equipaggi aveva legalmente termine, e la nazione ricevente (cioè il
Messico) aveva l'obbligo di rimpatriarli presso il porto di
registrazione di ciascuna nave e di pagare loro un indennizzo di
importo equivalente a tre mesi di salario. La Segretaria del Governo
(equivalente messicano del Ministero dell'Interno) emise i documenti
necessari affinché gli ufficiali e gli equipaggi delle navi italiane
e tedesche rimanessero in Messico in stato di libertà fino alla fine
della guerra, o finché non fosse stato possibile reperire un mezzo
sicuro per il loro rimpatrio.
I
marittimi italiani rimasero a Tampico per quasi un anno, dopo di che
il governo messicano decise di trasferirli via treno nella capitale
ed in altre città dell'interno. Furono inviati a Guadalajara, dove
continuarono a godere di libertà di movimento all'interno della
città, e ad essere mantenuti dalle rispettive ambasciate. Il già
citato generale Francisco Luis Urquizo così rievoca quei tempi nel
suo libro "Tres de Diana": “I
novecento marinai italiani e tedeschi sbarcarono [dopo
la confisca delle navi], sciamando
per le vie del porto senza alcuna occupazione; la maggior parte erano
giovani e forti, si mescolavano con i nostri connazionali. E con
abilità suscitarono grande simpatia nella popolazione. Erano in
numero maggiore rispetto ai soldati che sorvegliavano la piazza: un
pericolo nascente su cui bisognava vigilare. Dopo lunghe
negoziazioni, ottenemmo che gli equipaggi delle navi italiane e
tedesche confiscate si trasferissero a Guadalajara. Dar loro l'addio
alla stazione ferroviaria rappresentò un momento commovente. Erano
riusciti a fare amicizia con molta gente. Si sentivano lontani dalle
loro navi, dai loro nuovi amici, forse dai loro amori. Vedevano la
guerra avvicinarsi e presagivano, forse, una lunga prigionia”.
Secondo
una fonte, il trasferimento da Tampico a Guadalajara venne deciso in
risposta ai timori dell'ambasciata italiana, preoccupata dalla
possibilità che i marittimi italiani, se fossero rimasti a Tampico
(zona all'epoca paludosa), avrebbero potuto essere contagiati dalla
malaria, che vi era endemica. A Guadalajara gli internati furono
alloggiati in una scuola provvisoriamente adattata per riceverli,
situata all'incrocio tra le vie Mexicaltzingo e Niños Héroes;
dall'ambasciata italiana ricevevano giornalmente 5 pesos
e 60 centavos (centesimi)
al giorno – una somma notevole, per il Messico dell'epoca – per
provvedere al proprio sostentamento. Anche qui non ebbero difficoltà
a stringere rapporti cordiali con la popolazione locale.
Su
proposta del presidente di una squadra locale, il
Club Deportivo Atlas de Guadalajara,
i marinai italiani formarono anche una squadra di calcio; i suoi
componenti divennero soci del Club Atlas,
dal cui presidente ricevevano due-tre pesos al mese, e conobbero
Eduardo “Che” Valdatti, uno dei più famosi calciatori messicani
dell'epoca.
Anche
la permanenza degli internati a Guadalajara giunse però al termine:
con il rafforzamento delle relazioni tra Messico e Stati Uniti ed il
peggioramento di quelle tra Messico ed Asse, ed in vista delle
celebrazioni del quarto centenario della fondazione di Guadalajara
(che avrebbero visto affluire in città una massa di visitatori che
avrebbe reso più difficile tenere sotto controllo i marittimi
stranieri), si decise di trasferire gli equipaggi della Genoano e
delle altre navi in un luogo dove potessero essere meglio
sorvegliati. Come pretesto per il trasferimento fu addotto il cattivo
comportamento di alcuni dei marittimi; un rapporto del Departamento
de Investigación Política y Social (DIPS), un'agenzia di
polizia/sicurezza e di intelligence, lamentava che i marittimi
italiani e tedeschi fossero “pericolosi”, che passassero il loro
tempo nelle osterie e nei biliardi e che nessuno desiderasse
lavorare, dato che non mancavano loro i soldi (“…fu
loro proposto un piano per il trasferimento in una zona di Jalisco,
affinché lavorassero la terra (…) dissero
che non potevano accettare la proposta perché le compagnie
proprietarie delle navi continuavano a coprire i loro salari”).
Altre preoccupazioni riguardavano la sicurezza politica e l'ordine
sociale; gli ispettori Federali
Francisco Martinez e Francisco Urrutia avevano riferito al Segretario
dell'Interno Miguel Alemán Valdés che scoppiavano spesso risse fra
i marinai, e che questi contribuivano alla “trasgressione della
morale pubblica” frequentando le prostitute e stringendo relazioni
con le cameriere delle osterie e le ragazze dei quartieri poveri.
Martinez ed Urrutia segnalavano il fastidio delle autorità locali
per la quasi totale mancanza di vigilanza sui marittimi stranieri; le
misure di controllo consistevano esclusivamente in un controllo
giornaliero, del tutto insufficiente secondo Julio Serrano Castro,
capo del Servizio d'Ispezione della Segreteria del Lavoro, dato che
ciò non era servito ad evitare fughe. Serrano Castro aggiungeva che
la permissività dei funzionari del servizio immigrazione aveva
permesso il nascere di una serie di attività illecite, più
precisamente di spionaggio e di propaganda; era noto, diceva il
funzionario messicano in un rapporto, che gli ufficiali riferivano
quotidianamente ai loro consolati le informazioni che raccoglievano.
Questi ultimi erano tenuti in grande considerazione presso tutti i
cittadini italiani, tedeschi e giapponesi residenti in città. In
generale si rilevò un crescendo, nelle segnalazioni degli ispettori
e dei servizi di informazione, nei toni allarmistici; il fatto, ad
esempio, che i marittimi tedeschi leggessero un giornale tedesco
stampato in Messico fu ritenuto prova sufficiente del loro
coinvolgimento in “attività di propaganda”. Le segnalazioni
sulla “pericolosità” dei marittimi si alternavano alle lamentele
sul loro disinteresse nei confronti del lavoro. Alla fine si concluse
che la permanenza dei marittimi dell'Asse a Guadalajara od in una
qualsiasi altra grande città del Messico rappresentasse un problema
per la pubblica sicurezza, e che fosse desiderabile evitare il
contatto tra i marittimi e la popolazione messicana.
Nel
febbraio del 1942 venne pertanto presa la decisione di internare i
marittimi italiani e tedeschi nell'ex fortezza San Carlos di Perote,
nello stato di Veracruz, dov'era stata allestita una “stazione
migratoria” – ossia una sorta di centro accoglienza per
immigrati, anche se ovviamente gli equipaggi delle navi confiscate
non erano propriamente “immigrati” – in quanto la loro
“situazione migratoria” risultava incerta (erano stati
considerati dapprima “migranti temporanei” e poi “immigrati
condizionali”). In sostanza, quello di Perote era un campo
d'internamento (anche se la legge messicana faceva una netta
distinzione tra i campi d'internamento, considerati luoghi di
reclusione forzata, e le “stazioni migratorie”, considerati
luoghi di “residenza temporanea” per stranieri che dovevano
essere espulsi perché sprovvisti dei requisiti legali per la
permanenza in Messico); i marittimi dell'Asse passarono sotto la
responsabilità del DIPS. Il trasferimento da Guadalajara alla
fortezza San Carlos avvenne nella notte dell'8 febbraio 1942, sotto
la scorta di forze Federali
e di agenti della DIPS; giunsero così a Perote 520 internati, di cui
277 erano italiani e 243 erano tedeschi, tutti appartenenti agli
equipaggi delle navi. L'età media dei marittimi italiani qui
internati era di 35 anni; il più giovane ne aveva 16, il più
anziano 60.
Il
primo articolo del regolamento interno di Perote affermava che “si
destina il forte di San Carlos nella città di Perote, Veracruz, come
luogo di residenza degli stranieri che per causa di forza maggiore
non possono essere espulsi in base all'articolo 185 della Legge
Generale di Popolazione in vigore”.
La fortezza era considerata ufficialmente come un luogo di detenzione
temporanea per i marittimi, in attesa di poterli rimpatriare. Le
negoziazioni per il rimpatrio avevano dato scarsi risultati, ed era
ormai previsto che “temporanea” avrebbe significato “fino alla
fine della guerra”. Per ospitare gli internati (era prevista una
“capienza” di 200 famiglie), la fortezza di San Carlos aveva
subito lavori di miglioramento dei pavimenti, degli impianti
elettrici e dei servizi igienici, anche se queste modifiche si
rivelarono poi comunque insufficienti. Le autorità messicane
fornivano agli internati il necessario per vivere; ciascuno riceveva
una paga giornaliera di 1,50 pesos, ed un rapporto della Croce Rossa
del 16 agosto 1942, in seguito ad un'ispezione della fortezza,
riferiva che “il
cibo è eccellente. Gli acquisti vengono fatti nel mercato locale da
un internato ed [il
cibo] viene
cucinato dagli internati stessi. I pasti sono serviti in grandi
mense”.
Il
governatore di Jalisco, Silvano Barba Gonzalez, chiese agli internati
di trovare un lavoro in quanto il governo messicano faticava a pagare
le spese per il loro mantenimento, e successivamente le autorità
messicane decisero che gli internati avrebbero lavorato durante il
periodo di internamento nella fortezza: le attività inizialmente
proposte erano la carpenteria, la produzione di salsicce, di pasta e
di conserve di frutta e di legumi, e la fabbricazione di cordami.
Nell'individuare tali attività si era tenuto conto delle capacità
dei marittimi internati; avrebbero provveduto alla produzione di cibo
i membri del personale di cucina delle navi, mentre marinai e
macchinisti avrebbero potuto dedicarsi ai cordami ed alla
carpenteria. Qualcuno dei marinai, d'altronde, aveva già messo in
piedi per suo conto qualche piccola attività del genere. Il progetto
proposto dalle autorità messicane, tuttavia, fu respinto dagli
internati all'unanimità: in parte perché non era stato specificato
quanto sarebbero stati pagati per tale lavoro, anzi, non era nemmeno
stato precisato se sarebbero stati pagati; in parte perché, come
riferirono i rappresentanti dei marinai, i marittimi non erano
disposti a lavorare fino a quando non fossero stati rimessi in
libertà. Essendo internati civili e non prigionieri di guerra,
potevano rifiutarsi di lavorare: la Convenzione di Ginevra, infatti,
prevedeva che soltanto i prigionieri di guerra potessero essere
obbligati a lavorare, mentre era responsabilità dello Stato ospite
il mantenimento degli internati civili. Naufragò così il progetto
per l'impiego dei marittimi internati in attività produttive.
I
marittimi si diedero autonomamente una loro organizzazione interna,
al di là delle direttive governative; potevano lasciare Perote per
motivi personali (matrimoni) o per ricoveri ospedalieri (a seconda
della gravità, erano inviati nell'ospedale di Jalapas, capitale
dello stato di Veracruz, oppure direttamente a Città del Messico),
previo rilascio di un permesso speciale. I marittimi che sposavano
donne messicane o che avevano figli da loro potevano fare richiesta
per essere rimessi in libertà e per avviare le pratiche per la
naturalizzazione: molti di costoro sarebbero rimasti in Messico anche
dopo la fine della guerra, stabilendovisi definitivamente.
Con
la dichiarazione di guerra del Messico ai Paesi dell'Asse, il 22
maggio 1942 (decisa proprio, come si vedrà in seguito, in
conseguenza del siluramento di alcune petroliere ex italiane, ed ora
messicane, da parte degli U-Boote tedeschi), i marittimi italiani e
tedeschi divennero, da cittadini di Paesi belligeranti in un Paese
neutrale, cittadini di Paesi nemici; nella sostanza, però, la loro
situazione non cambiò di molto.
A
partire dal giugno 1942, ai marittimi delle navi confiscate andò ad
aggiungersi, nel forte di Perote, una nuova categoria di internati:
cittadini di Paesi dell'Asse – in maggioranza tedeschi –
arrestati per reati di spionaggio, sabotaggio, disobbedienza agli
ordini di internamento ed altri reati “politici”; rimasero
comunque una minoranza (su 605 internati che in tutto furono
“ospitati” nella fortezza, solo 85 appartenevano a questa
categoria).
La
fortezza di San Carlos era presidiata da una guarnigione estremamente
ridotta: il perimetro della fortezza era vigilato da un numero di
soldati dell'Esercito che variava tra 15 e 25, mentre le entrate e le
uscite erano sorvegliate da quattro o più agenti della DIPS. Il
giornalista messicano Jorge Sandoval Piñó, che visitò Perote alla
fine del 1942, rimase stupito da un corpo di guardia tanto ridotto
per una popolazione di internati tanto grande; scrisse in un suo
articolo: “…ciò
che più sorprenderà è che 586 internati sono sorvegliati da niente
più che il colonnello Tello, due aiutanti, tre ispettori del Governo
ed un picchetto di truppe Federali. C'è qualcosa di ancor più
sorprendente: il colonnello Tello non usa la pistola”.
In generale, la carenza della vigilanza rimase un problema costante
della “stazione migratoria” di Perote, mostrando il lassismo
delle autorità verso la presunta “pericolosità” degli
internati. Un autoproclamato Comitato Antifascista di Perote denunciò
alle autorità che “…nella
fortezza di San Carlos (…) si
sta commettendo un gran numero di irregolarità, le anomalie che vi
si riscontrano, sono queste, si gioca a carte su vasta scala, ci si
ubriaca, di notte i tedeschi e gli italiani escono con il permesso
del comandante della fortezza e tornano prima dell'alba in stato di
ubriachezza”.
Gli internati riuscivano senza molti problemi ad entrare ed uscire a
dispetto di quella che sarebbe dovuta essere una ferrea vigilanza; il
generalizzato lassismo delle autorità responsabili della “stazione
migratoria” di Perote andò poi gradualmente calando a fronte delle
proteste della stampa e dei “comitati antifascisti” locali. Il
contrabbando di alcol nella fortezza a quanto pare costituì un
problema non da poco per le autorità locali, che lo combatterono con
divieti e restrizioni sia verso gli internati che verso la
popolazione del luogo, nonché modificando i turni di guardia per
fare in modo che ci fossero sempre degli agenti del DIPS (ritenuti
più affidabili dei soldati) tra coloro che vigilavano sugli
internati, ad ogni ora.
Il
già citato giornalista Jorge Sandoval Piñó, nella sua visita,
osservò la vita quotidiana degli internati a San Carlos: si pranzava
a mezzogiorno; dopo pranzo, si giocava a calcio; alle 16.30 o 17.30,
a seconda del giorno, si faceva l'appello. Gli italiani avevano
mantenuto la numerazione degli equipaggi delle navi, mentre i
tedeschi avevano inventato una nuova numerazione per i loro uomini.
La cena era alle 18, dopo di che gli internati commentavano le
notizie riportate su giornali; era questo “il secondo evento più
importante” della giornata. Alle 21 veniva suonato il silenzio e si
andava a dormire.
Le
autorità avevano autorizzato gli internati ad “autogestire” la
loro vita e l'organizzazione interna della stazione, scrisse Piñó,
perché esse non disponevano delle risorse e dell'organizzazione per
provvedere alle esigenze di base degli internati, quindi preferivano
che fossero loro a provvedere da sé con il denaro che veniva loro
fornito per il sostentamento. Gli internati versavano il loro
sussidio giornaliero in un fondo comune, che veniva utilizzato per
acquistare le provviste, così dividendo le spese per il cibo; le
provviste erano fornite da don Darío, un ricco commerciante di
Perote. Il sistema funzionava bene, i pasti erano abbondanti;
Sandoval Piñó scrissò in proposito che “i
tedeschi mangiavano patate a tonnellate, e gli italiani non potevano
vivere senza gli spaghetti”.
Gli
internati bevevano caffè e fumavano, “anche troppo”; a
mezzogiorno il pranzo di ciascuno consisteva in “quattro
o cinque costolette, una montagna di patate al vapore ed un'altra di
legumi cotti”.
Per quanto riguardava la sistemazione degli internati, la parte
anteriore dell'edificio principale del complesso fortificato era la
più abbandonata, mancando persino di tetti e di pavimenti in alcuni
punti; gli alloggi degli internati occupavano gli altri tre lati
dell'edificio, mentre l'ufficio e l'appartamento del colonnello Tello
erano sistemati nella parte alta. L'ala sinistra era occupata dagli
internati italiani e giapponesi, quella destra dai tedeschi. Sandoval
Piñó osservò anche che “tra
i marinai italiani c'erano solidarietà e coesione – normalmente
vivevano in gruppi di 2 o 3 – ma non tra i tedeschi, una parte di
essi erano stati isolati dal resto, erano gli autoproclamati
antifascisti”.
Nel
marzo 1943 i marittimi italiani vennero trasferiti dalla fortezza di
Perote all'ex azienda agricola (hacienda)
San Antonio ad Irapuato, nello stato di Guanajuato, lasciando a
Perote i soli tedeschi e così dimezzando la popolazione complessiva
della fortezza. Sulla vita degli internati all'ex hacienda
rimangono pochi documenti; uno di essi, un rapporto della DIPS,
menzionava che i marittimi si recavano spesso nel villaggio a giocare
a carte, scommettere, ed ubriacarsi.
In
seguito, le autorità messicane assegnarono ai marittimi italiani dei
posti di lavoro affinché potessero guadagnare il denaro necessario a
sostentarsi finché non fosse stato possibile il loro rimpatrio;
contemporaneamente, essendo in tal modo i marittimi divenuti
economicamente autosufficienti, le medesime autorità interruppero
l'erogazione dei sussidi loro concessi dalla data di confisca delle
navi. L'indennizzo per i marittimi fu calcolato dalla Segreteria del
Lavoro (equivalente messicano del Ministero del Lavoro) e pagato
dalla Tesoreria e Credito Pubblico alla fine della guerra,
scontandone l'ammontare già anticipato prima del pagamento e con
l'aggiunta degli interessi.
Anselmo
Macera, ultimo comandante della Genoano,
non fece mai più ritorno in Italia: morì in Messico durante
l'internamento, l'8 novembre 1941.
Dopo
il sequestro il possesso della Genoano,
al pari di quello delle altre navi, passò inizialmente alla
Segreteria della Marina messicana, che inviò a bordo dei bastimenti
sequestrati, al posto degli equipaggi italiani frattanto sbarcati, i
propri uomini: per ordine del contrammiraglio Hurtado de Mendoza, che
aveva preso in consegna le navi per ordine superiore, queste ultime
vennero subito “presidiate” da uomini della Fanteria di Marina e
da ufficiali del "Cuerpo General" (cioè ufficiali di
vascello) e di macchina; inoltre, il Dipartimento delle Comunicazioni
Navali (Departamento
de Comunicaciones Navales)
assegnò dei propri radiotelegrafisti alle stazioni radio di ciascuna
nave. Tali misure “erano
state rese necessarie dallo stato in cui alcune delle navi erano
state trovate”.
In seguito il personale della Marina Militare sarebbe stato
sostituito da marittimi della Marina Mercantile, salvo che per gli
ufficiali, che rimasero militari.
Il
Segretario agli Affari Esteri (Ministro degli Esteri) del Messico,
Ezequiel Padilla Peñaloza, formò una commissione mista integrata da
funzionari della Tesoreria, delle Segreterie della Marina e delle
Relazioni Estere e della società Petróleos Mexicanos, con il
compito di redigere l'“inventario” delle navi confiscate, nonché
di ricevere i reclami degli armatori che chiedevano un indennizzo per
la confisca della proprietà. Sul pagamento degli indennizzi, che
sarebbe avvenuto a fine guerra, fu stipulato un accordo l'11 giugno
1941, senza però specificarne l'ammontare. Il 18 luglio, con un
altro accordo con le Segreterie delle Finanze e del Governo, fu
deciso che le spese per il mantenimento in Messico degli equipaggi
fino a fine guerra sarebbero state dedotte dall'indennizzo delle navi
confiscate.
L'8
dicembre 1941, all'indomani dell'entrata in guerra degli Stati Uniti,
la Genoano venne
formalmente confiscata dal Governo messicano e successivamente
trasferita alla Petróleos Mexicanos S.A. (Pemex), con sede a
Tampico, città che divenne anche il suo porto di registrazione. Fu
ribattezzata Faja
de Oro,
dal nome di una zona del Messico particolarmente ricca di giacimenti
petroliferi.
Lo
stesso accadde alle altre petroliere dell'Asse catturate dal Messico;
la Fede
divenne Poza
Rica,
l'Americano
divenne Tuxpam,
la Vigor
fu ribattezzata Amatlán,
la Tuscania
prese il nome di Minatitlán,
la Marina
Odero
divenne Tabasco,
la Lucifero
prese il nome di Potrero
del Llano,
la Stelvio
divenne Ébano,
l'Atlas
fu ribattezzata Las
Choapas
e la Giorgio
Fassio
ricevette il nome di Pánuco.
Le due navi tedesche, Hammel
ed Orinoco,
divennero Oaxaca
e Puebla.
Il cambio dei nomi risale al 2 giugno 1941, come attesta un documento
a firma del generale di brigata J. Salvador S. Sánchez, capo di
Stato Maggiore dell'esercito messicano, per quanto alcune fonti
affermino invece che i nomi sarebbero stati cambiati soltanto l'8
dicembre 1941, in seguito all'attacco giapponese a Pearl Harbour ed
alla conseguente rottura delle relazioni diplomatiche tra il Messico
ed i Paesi dell'Asse.
Prese
in consegna dall'ispettore generale della Pemex, Juan de Dios
Bonilla, il loro comando fu affidato ad ufficiali della Marina
messicana, ed i loro nuovi equipaggi – interamente messicani –
furono formati in parte da personale della fanteria di Marina nonché
da ufficiali di coperta, di macchina e radiotelegrafisti appartenenti
anch'essi alla Armada de México. In particolare, per ordine della
Segreteria della Marina i ruoli di comandante, primo e secondo
ufficiale di coperta, direttore di macchina, primo e secondo
ufficiale di macchina e radiotelegrafista furono ricoperti da
ufficiali dell'Armada. Il comando della Faja
de Oro
fu assunto dal tenente di vascello Pablo Escobio Ruiz, in seguito
sostituito dal parigrado Ramón Sánchez Mena.
La
Faja de Oro in una fotografia datata 2 giugno 1941 (da
www.mexicana.cultura.gob.mx)
Una
volta entrate in servizio sotto bandiera messicana (secondo una fonte
il cambio di bandiera sarebbe avvenuto il 9 aprile 1941), la Faja
de Oro e
le altre cisterne vennero impiegate nel trasporto verso gli Stati
Uniti del petrolio che, estratto dai pozzi della regione di Tampico,
andava ad alimentare lo sforzo bellico Alleato: l'“embargo”
contro il petrolio messicano era giunto al termine, c'erano adesso in
gioco questioni più importanti degli interessi delle compagnie
petrolifere statunitensi.
Nell'aprile
1942 la Faja
de Oro
urtò contro un oggetto sommerso mentre era in navigazione nel Golfo
del Messico: pur essendo scossa violentemente dall'impatto, non
riportò alcun danno. Il terzo ufficiale di macchina Carrascoso, che
si trovava in coperta al momento dell'impatto, dichiarò sotto
giuramento dinanzi alle autorità di Tampico, il 24 aprile, di aver
visto un periscopio seminascosto dalla schiuma subito dopo l'impatto,
mentre altri membri dell'equipaggio concordarono sul fatto che la
nave aveva urtato un oggetto sommerso, ma non furono in grado di
precisare la sua natura. Sapendo però, sulla base di quanto
comunicato da altre navi, che un sommergibile dell'Asse si trovava in
zona, conclusero che era proprio quello l'“oggetto” che la loro
nave aveva speronato, e probabilmente affondato. Avevano torto:
nessun sommergibile italiano o tedesco andò perduto nella zona in
quel periodo. Probabilmente la nave urtò un rottame sommerso, e
l'“avvistamento” del periscopio da parte di Carrascoso non fu che
un abbaglio, frutto della paranoia da U-Boote che attanagliava gli
equipaggi delle navi che navigavano lungo le coste del Nordamerica in
quella sanguinosa primavera del 1942, in cui ogni giorno i
sommergibili dell'Asse mietevano nuove vittime lungo le coste
americane.
.JPG)
Sopra,
notizia sul “Manchester Evening Herald” del 24 aprile 1942 (da
www.manchesterhistory.org);
sotto, la Faja de Oro con
i contrassegni di neutralità dipinti sullo scafo (da
www.centrolombardo.edu.mx)
Paranoia
ben motivata, del resto. A pochi mesi dalla sua confisca, l'ex
Genoano
doveva ritrovarsi suo malgrado protagonista della storia del Messico,
ed a “regalarle” questo posto nella Storia sarebbe stato proprio
un sommergibile tedesco: l'U
106,
del tenente di vascello Hermann Rasch.
Il
15 aprile 1942 l'U
106
salpò dalla base di Lorient, sulla costa atlantica della Francia,
per la sua terza missione di guerra al comando di Rasch, la sesta
dall'inizio della guerra, da svolgere nell'Atlantico occidentale. Il
2 maggio, durante la navigazione verso il Golfo del Messico, il
sommergibile venne attaccato dal cacciatorpediniere statunitense
Broome,
ma non subì danni; tre giorni dopo colse il primo successo della
missione, affondando il piroscafo passeggeri canadese Lady
Drake
una novantina di miglia a nord di Bermuda. Nei giorni successivi,
tuttavia, l'U
106
incrociò inutilmente nelle acque al largo di Capo Hatteras (Florida)
in cerca di bersagli che non c'erano, rilevando al contempo intensa
vigilanza aerea fino a 50 miglia dalla costa: pochi mesi prima quelle
acque erano state ricche di prede poco o punto difese che avevano
regalato numerosi facili successi agli squali di Dönitz, ma adesso
gli statunitensi erano corsi ai ripari, raggruppando il traffico in
un sistema di convogli scortati tra Norfolk e Key West. Il traffico
isolato che aveva consentito quello che i comandanti degli U-Boote
avevano battezzato “secondo periodo felice” era ormai scomparso.
Diversa
era la situazione più a sud, nel Golfo del Messico: qui non era
ancora stato adottato il sistema dei convogli, ed i sommergibili
tedeschi mietevano ancora numerose vittime: ciò spinse Dönitz a
decidere il trasferimento in quella zona dei sommergibili che da
giorni setacciavano le acque della Florida senza avvistare niente,
cioè l'U
106,
l'U
107
e l'U
103.
Da
qualche tempo le regole d'ingaggio dei sommergibili tedeschi erano
diventate particolarmente “elastiche”: era stato ordinato di
attaccare senza preavviso tutte le navi mercantili armate
appartenenti a Paesi sudamericani, con l'eccezione di Argentina e
Cile, nonostante il loro status neutrale; e di attaccare tutti i
mercantili che navigassero nelle acque territoriali degli Stati Uniti
indipendentemente dalla loro nazionalità, perché era da presumersi
che viaggiassero al servizio degli Alleati. Una scelta che avrebbe
avuto conseguenze disastrose per la Germania, spingendo un crescente
numero di Paesi latinoamericani ad unirsi alla coalizione Alleata in
seguito all'affondamento di loro navi ad opera dei sommergibili di
Dönitz.
.jpg) |
Un’altra immagine della Faja de Oro (Universidad Maritima y Portuaria de Mexico) |
Dopo
aver attraversato lo stretto della Florida scendendo da Jacksonville
verso Key West ed essere entrato nel Golfo del Messico, la rotta
dell'U
106
s'incrociò con quella della Faja
de Oro.
Alle 14.50 del 20 maggio, poche ore dopo aver raggiunto la nuova zona
d'agguato a nord del Canale dello Yucatan, il sommergibile di Rasch
avvistò una colonna di fumo che usciva dal fumaiolo di una nave
cisterna: era la Faja
de Oro,
in navigazione in zavorra da Marcus Hook (Pennsylvania) a Tampico. Il
sommergibile iniziò a pedinarla, con l'intenzione di attaccarla
nottetempo col favore del buio. Con una certa sovrastima, il
comandante tedesco giudicò di avere a che fare con una nave cisterna
di 9000 tsl, lunga 140 metri e del pescaggio di 7-8; ritenne
correttamente che fosse vuota od in zavorra.
Al
comando del capitano di corvetta Ramón Sánchez Mena, la Faja
de Oro
aveva scaricato 56.000 barili di greggio a Filadelfia, New York ed
altri porti della costa atlantica degli Stati Uniti (Marcus Hook era
stato l'ultimo); durante il viaggio di andata da Tampico a Baltimora
aveva già eluso un primo attacco subacqueo, aveva assistito
all'incendio di un'altra petroliera ad una decina di miglia da Cape
Lookout ed alle 8.30 del 9 aprile aveva tratto in salvo da alcune
lance i 28 naufraghi di una nave affondata dagli U-Boote, il
piroscafo statunitense Malchace,
silurato alle 3.45 di quella notte dall'U
160
in posizione 34°28' N e 75°56' O a circa 25 miglia da Capo Lookout
e 50 miglia da Capo Hatteras con un'unica vittima tra l'equipaggio.
Doppiato Capo Hatteras alle 14 dello stesso 9 aprile, la Faja
de Oro
aveva sbarcato i superstiti del Malchace
a Baltimora (per altra fonte li aveva trasbordati su un'unità della
vigilanza costiera al largo di Capo Henry) e poi era proseguita in
convoglio fino alla baia di Chesapeake; da lì in poi aveva navigato
da sola e senza scorta, eludendo un altro attacco di sommergibile,
questa volta ritenuto essere italiano dall'equipaggio.
Dopo
aver finito di scaricare il carico a Marcus Hook, la Faja
de Oro
era ripartita il 13 maggio per tornare in Messico, navigando nella
baia del Delaware fino a Capo Henry, per tenersi lontana dal pericolo
degli U-Boote.
L'ufficiale
di macchina Amílcar Carrascosa avrebbe in seguito raccontato ad un
giornalista: “Ed
è qui che le cose hanno iniziato a mettersi male. Era stato ricevuto
l'ordine di partire "in convoglio" e tutti ci chiedevamo
perché dovevamo navigare scortati dalla Marina militare
statunitense, se il Messico non era in guerra. Beh, hanno dato
l'ordine di partire; il pilota americano è salito a bordo e poi
abbiamo scoperto come stavano le cose. Avevano affondato il Potrero
del Llano
[si veda più oltre] e
il nostro governo aveva chiesto spiegazioni. In qualsiasi momento
avremmo potuto entrare in guerra”.
Era giunto l'ordine di navigare a luci spente e dipingere di nero
ogni apertura attraverso la quale la luce avrebbe potuto filtrare
all'esterno, alla stregua di una nave appartenente ad una nazione
belligerante (quelle neutrali dovevano viaggiare completamente
illuminate, come aveva fatto la Faja
de Oro
fino a quel momento): il che avrebbe reso impossibile per gli U-Boote
vedere le grandi bandiere messicane dipinte sui fianchi per
agevolarne il riconoscimento come nave neutrale. La Faja
de Oro
era dunque partita insieme ad un convoglio scortato da
cacciatorpediniere statunitensi, ma nel corso della prima notte era
rimasta progressivamente indietro rispetto alle altre navi, ed entro
l'alba si era ritrovata sola: il comandante Sánchez Mena aveva
allora deciso di proseguire per conto proprio, seguendo una rotta
poco frequentata.
Tra
il 20 ed il 21 maggio la nave venne avvistata quasi
contemporaneamente da ben due sommergibili tedeschi: il già citato U
106
e l'U
753
del capitano di corvetta Alfred Manhardt von Mannstein, che il giorno
precedente aveva colto il primo successo della sua carriera
affondando la nave Liberty statunitense George
Calvert.
Fu
l'U
106
ad attaccare per primo, mentre l'U
753,
avvistato il “collega”, abbandonò l'inseguimento che aveva già
iniziato. Secondo alcune fonti, l'U
106
non riconobbe la nazionalità della Faja
de Oro
a causa dell'oscurità, ma il comandante Sánchez Mena avrebbe in
seguito dichiarato alla stampa che la nave recava quattro grosse
bandiere messicane dipinte sulle murate e ben illuminate, che a poppa
aveva un'altra bandiera messicana di un metro e mezzo per 2,7 e che
la nave era regolarmente illuminata come tutti i bastimenti neutrali.
Alle
4.21 del 21 maggio (ora tedesca), dopo un inseguimento protrattosi
per tutta la notte, il sommergibile di Rasch lanciò dai tubi 3 e 4
due siluri tipo G7e contro la Faja
de Oro:
entrambi con rotta 165°, il primo regolato per colpire a tre metri
di profondità un bersaglio che procedeva a 12 nodi, il secondo per
colpirne a quattro metri di profondità uno che navigava a 12,5 nodi,
nel dubbio sull'esatta stima della velocità della nave. Dopo una
breve corsa, la seconda da delle armi colpì a prua la pirocisterna
messicana in posizione 23°30' N e 84°28' O (o 84°24' O, o 84°25'
O; per altre fonti 23°18' N e 84°14' O, o 23°29'59.99" N e
84°23'59.99" O, o 23.499998' N e 84.3999984' O), tra Key West e
Cuba; nel quadrante DM 4157 secondo la suddivisione dell'Atlantico da
parte dei comandi tedeschi. Il siluro colpì a dritta, distruggendo
parte della prua e del castello di prua, dove si trovavano gli
alloggi dell'equipaggio; la detonazione del siluro fu subito seguita
dall'esplosione di una delle cisterne, e subito si levò un'enorme
fiammata (alta oltre cento metri, secondo quanto scritto da Rasch nel
suo rapporto) e divampò un furioso incendio, alimentato dal vento,
che spingeva le fiamme verso la plancia. Mentre la nave si appruava e
sbandava a sinistra, l'equipaggio si precipitò alle lance, ma gli
ufficiali riuscirono a ristabilire un minimo d'ordine.
Il
secondo siluro, secondo l'apprezzamento di Rasch, colpì la Faja
de Oro
più a poppa ma non esplose perché l'acciarino era difettoso.
Il
rapporto di attacco alla Faja
de Oro
dell'U
106
(Historisches Marinearchiv)
Sulla
nave il secondo ufficiale di macchina Raymundo Casas, smontato dalla
guardia, aveva chiacchierato per un po' con il radiotelegrafista
Manuel Chaboya Saavedra e poi aveva tirato fuori la sua amaca che
aveva appeso a poppa, per riposarsi al fresco (era sera). Alle 20.15
(del 20 maggio: ora messicana, con forte differenza rispetto a quella
dell'U-Boot per via dei diversi fusi orari) fu svegliato di
soprassalto dall'esplosione del siluro, cadendo dall'amaca; messe
subito le scarpe, corse in cabina per recuperare portafogli, camicia,
giubbotto salvagente, berretto ed impermeabile.
Anche
Amílcar Carrascosa, il cui turno di guardia iniziava a mezzanotte,
si era disteso nella sua cuccetta da meno di una ventina di minuti,
dietro suggerimento del direttore di macchina, quando si era
verificato il siluramento. Svegliato da una duplice esplosione, cadde
a testa in giù sul pagliolato, mentre tutt'intorno ogni oggetto che
non era fissato cadeva anch'esso a terra. Sentì odore di bruciato,
si sporse dalla porta e vide la prua in fiamme; vestitosi rapidamente
(solo più tardi si rese conto di aver indossato i pantaloni al
contrario) ed afferrata la valigetta che teneva pronta proprio per
un'evenienza del genere, si precipitò in coperta, tra il crepitio
delle fiamme ed il fischio lacerante della sirena, azionata dal
sartiame dell'albero prodiero, crollato in coperta dopo lo scoppio
del siluro.
Il
radiotelegrafista Chaboya trasmise una richiesta di soccorso, mentre
il direttore di macchina José González Granes scendeva sottocoperta
per fermare le macchine; assistito dal macchinista Reynaldo Rojas
Garciadiego, ebbe cura di raffreddare le caldaie per evitare che
esplodessero a contatto con l'acqua del mare.
Alle
4.33 l'U
106
lanciò un terzo siluro, con rotta 236°, dal tubo 2 da tre miglia di
distanza per finire la Faja
de Oro,
ma l'arma mancò il bersaglio per errato apprezzamento della sua
rotta da parte di Rasch; venti minuti più tardi ne lanciò allora un
quarto (regolato per correre a quattro metri, come anche quello
precedente) dal tubo 5, con rotta 90°, che raggiunse la petroliera a
centro nave, sollevando una colonna di acqua e fumo grigio-biancastra
ed incendiando la nave.
Sotto
la direzione del primo ufficiale Gustavo Martínez Trejo, del terzo
ufficiale Carlos Calcáneo Campos e del pilota Lauro Villagrán,
l'equipaggio prendeva rapidamente posto nelle imbarcazioni di
salvataggio; il comandante Sánchez Mena fu l'ultimo ad abbandonare
la nave insieme al radiotelegrafista Chaboya, che era rimasto al suo
posto continuando a trasmettere il segnale di soccorso fino
all'ultimo.
Amílcar
Carrascosa non poté raggiungere la scialuppa assegnata dal piano di
abbandono della nave, perché situata a prua; s'imbarcò su un'altra
a poppa a dritta (lo sbandamento era tale da ostacolare la messa in
mare delle imbarcazioni sul lato opposto) insieme ad altri membri
dell'equipaggio, tra cui diversi ustionati ed un marittimo che aveva
una larga ferita sopra un sopracciglio. Carrascosa ne assunse il
comando, ma la scialuppa si bloccò a metà discesa. Il secondo
cameriere Andrés Limón Peña tentò intanto di calare una zattera
lì vicino, ma rimase incastrato con la mano in un paranco: con la
mano maciullata ed il terrore di essere trascinato a fondo con la
nave, iniziò a gridare di tagliargli la mano, o di ucciderlo subito.
L'ingrassatore José Garrido suggerì di mozzargli la mano con
un'ascia per liberarlo (non c'era tempo per metodi meno sbrigativi:
tutti ricordavano i racconti dei naufraghi del Malchace
raccolti qualche settimana prima, secondo i quali dopo il primo
siluramento sarebbero passati forse venti minuti prima del colpo di
grazia che avrebbe definitivamente mandato a fondo la nave colpita
insieme a coloro che non fossero riusciti ad abbandonarla), ma
nessuno dei presenti aveva asce o coltelli; Carrascosa ordinò ad
alcuni marinai che si trovavano ancora a bordo di andare a prendere
dei coltelli, dopo di che tentò di liberare la scialuppa lasciando
scorrere il tirante di prua e tagliando quello di poppa. Da ultimo la
lancia scese in acqua, ma sbandando così fortemente da far cadere in
acqua alcuni degli occupanti; altri uomini, rimasti a bordo della
nave, si calarono nella lancia lungo i tiranti, dopo di che tutti
iniziarono a remare per allontanarsi dalla nave agonizzate. Un
marinaio, cereo dalla paura, si rifiutò di remare, e Carrascosa
dovette minacciarlo per convincerlo; lentamente la scialuppa si
allontanò dalla Faja
de Oro,
mentre il comandante Sánchez Mena e gli altri ufficiali
abbandonavano la nave su un'altra imbarcazione sul lato opposto.
Secondo Carrascosa, mentre la sua scialuppa si allontanava il
sommergibile tedesco aprì il fuoco con il cannone contro la
petroliera in affondamento, e diversi colpi caddero in mare vicino
alla lancia, che rimase comunque indenne (siti autorevoli come
Uboat.net ed U-Boot Archiv non fanno tuttavia menzione dell'uso del
cannone da parte dell'U
106,
del quale non c'è traccia neanche nel rapporto riassuntivo
dell'attacco dell'U
106).
Il
macchinista Raymundo Casas Rocha avrebbe poi ricordato: “nel
momento in cui
(…) cominciammo
ad allontanarci dalla nave, il sommergibile sparò un colpo di
cannone circa cinque metri davanti a noi, colpì la cisterna numero
7, sentii un suono rauco e poi diverse detonazioni mentre la cisterna
esplodeva; istantaneamente mi gettai sul fondo della lancia,
aspettando che pezzi di lamiera e rottami ci cadessero addosso”.
Avendo
avvertito delle grida di aiuto provenienti dalla direzione della nave
in fiamme, Carrascosa tornò indietro con la sua scialuppa, ignorando
le proteste isteriche del solito marinaio terrorizzato che gridava
adesso che così facendo sarebbero morti tutti; giunto sul posto,
recuperò dal mare l'ingrassatore Victoriano Mendoza Rangel,
gravemente ustionato ma ancora vivo. Andrés Limón Peña, che
nell'impossibilità di liberarlo era stato gettato in mare insieme
alla zattera su ordine del direttore di macchina González Granes,
era invece già affondato. La scialuppa tornò ad allontanarsi,
mentre l'incendio divampava con crescente violenza e la nave era
scossa da nuove esplosioni, che proiettavano rottami in aria; infine
la sirena tacque.
Alle
5.45 (per altra fonte, poco dopo le 4.30), lentamente, la Faja
de Oro
si capovolse ed affondò a ponente di Capo Sant'Antonio (estremità
occidentale di Cuba), 130 miglia ad ovest/nordovest dell'Avana ed al
largo di Key West. In superficie rimase solo una chiazza di
carburante in fiamme; le scialuppe iniziarono la navigazione verso
Cuba.
Carrascosa
aveva perso nell'affondamento anche il suo gatto, Perico, rimasto
sulla nave: ma all'arrivo in ospedale a Miami avrebbe scoperto di
aver vinto alla lotteria, della quale era riuscito a conservare il
biglietto.
Due
fotografie scattate da Amílcar
Carrascosa
a bordo della lancia (da www.centrolombardo.edu.mx)
Dei
37 uomini che componevano l'equipaggio della Faja
de Oro
(cinque ufficiali della Marina Militare messicana e 32 marittimi
della Marina Mercantile, dipendenti della Pemex), le vittime furono
in tutto dieci, tutte della Marina Mercantile: otto uomini – un
carpentiere, un timoniere, un cameriere, uno sguattero, due fuochisti
e due marinai – furono uccisi dagli scoppi dei siluri; il cameriere
Andrés Limón Peña non fu più ritrovato dopo essere stato gettato
in mare; l'ingrassatore Victoriano Mendoza Rangel morì per le gravi
ustioni riportate su tutto il corpo alcune ore dopo il salvataggio, a
bordo del cutter Nemesis
della Guardia Costiera statunitense, che aveva recuperato i
naufraghi, sei dei quali – oltre a Mendoza – erano feriti.
Il
Nemesis
era salpato da Key West alle 00.55 del 21 maggio (ora statunitense)
con a bordo il tenente medico MacDonald della United States Naval
Reserve e due sottufficiali farmacisti per andare in soccorso dei
naufraghi della Faja
de Oro;
la nave in affondamento e le due scialuppe con i naufraghi vennero
sorvolate verso l'alba da due aerei statunitensi, che indirizzarono
il Nemesis
sul posto ed avvertirono i superstiti che una nave statunitense stava
per arrivare in loro soccorso.
Il
Nemesis
raggiunse le due scialuppe alle 17.34, in posizione 23°23' N e
84°18' O, e ne recuperò i 28 occupanti; mentre il tenente MacDonald
ed i suoi assistenti prestavano soccorso ai feriti, il cutter
setacciò attentamente la zona ed ispezionò ogni rottame
galleggiante, senza trovare traccia dei dispersi, dopo di che lasciò
l'area alle 18.20, diretto a Key West.
Mendoza
fu dichiarato morto alle 22, per ustioni di primo grado, concussione
ed arti spezzati; il suo corpo fu sbarcato a Key West insieme ai
superstiti alle 6.14 del 22 maggio (per altra fonte, il 23 maggio) e
da qui fu trasferito a Miami, sempre insieme ai naufraghi, per
l'assistenza dei quali il locale consolato messicano aveva ricevuto
dalla Pemex 15.000 dollari. Il 28 maggio i sopravvissuti della Faja
de Oro
arrivarono a Houston, mentre la salma di Mendoza fu trasferita a New
Orleans e, dopo aver attraversato il confine, a Laredo; il 30 maggio
il feretro arrivò a Tampico, accolto da una folla di 25.000 persone:
tra di esse funzionari della Pemex, il governatore ad interim dello
stato del Tamaulipas, rappresentanti della Marina e delle
organizzazioni sindacali; l'indomani fu sepolto tra orazioni funebri,
striscioni e l'intonazione dell'inno nazionale. Una grande cerimonia
pubblica in memoria di tutti i morti della Faja
de Oro
era stata tenuta già il 25 maggio in Piazza della Costituzione a
Città del Messico.
Un
sopravvissuto della Faja
de Oro
sarebbe scampato, due anni dopo, all'affondamento di un'altra
petroliera messicana, la Juan
Casiano,
naufragata il 19 ottobre 1944 con la morte di 21 membri
dell'equipaggio.
Sopra,
il Nemesis
si avvicina ai naufraghi della Faja
de
Oro;
sotto, i naufraghi della Faja
de
Oro
a Miami (foto Amílcar
Carrascosa,
via
www.centrolombardo.edu.mx)
.JPG)
Una
settimana prima dell'affondamento della Faja
de Oro,
un altro U-Boot aveva già affondato un'altra petroliera messicana,
la Potrero
del Llano,
anch'essa ex italiana (era la vecchia Lucifero).
Dopo quell'affondamento il presidente messicano Ávila Camacho ed il
segretario agli Esteri Padilla Peñaloza avevano convocato il 14
maggio l'incaricato d'affari svedese Rolf Arfwedsen, che
rappresentava in Messico gli interessi della Germania in seguito alla
chiusura di tutte le rappresentanze diplomatiche italiane, tedesche e
giapponesi avvenuta pochi mesi prima (parimenti, le autorità
diplomatiche svedesi rappresentavano gli interessi messicani nei tre
Paesi dell'Asse in seguito alla chiusura delle rappresentanze
diplomatiche messicane nei loro territori), e gli avevano consegnato
una “formale ed energica” nota di protesta da inviare a Berlino:
in essa si dava alle autorità tedesche una settimana di tempo a
partire dal 14 maggio per fornire spiegazioni e compensare pienamente
il Messico per l'affondamento della petroliera, minacciando in caso
contrario di adottare le misure necessarie richieste dalla dignità
nazionale: «Di
fronte a un attacco così inqualificabile che evidenzia, ancora una
volta, i metodi che le potenze dell'Asse non hanno esitato ad
adottare per condurre le ostilità nell'attuale conflitto, il Governo
messicano eleva immediatamente la sua più energica e formale
protesta. Nel caso in questione, non si tratta solo di un attacco
contrario ai più elementari principi umanitari, ma anche di un fatto
che costituisce una flagrante violazione del diritto internazionale e
delle regole relative all'azione dei sommergibili nei confronti delle
navi mercantili in tempo di guerra, in base al trattato firmato a
Londra il 6 novembre 1936, il Governo Messicano chiede il
risarcimento dei danni causati alla Nazione, parimenti incarica il
Governo Svedese di consegnare il testo della presente ai rispettivi
Governi di Germania, Italia e Giappone, se entro giovedì prossimo,
21 del corrente mese, il Messico non avrà ricevuto dal Paese
responsabile dell'aggressione una completa soddisfazione, nonché
garanzie che il risarcimento dei danni e delle perdite subite sarà
debitamente coperto, il Governo della Repubblica adotterà senza
indugio i provvedimenti richiesti dall'onore nazionale; il Segretario
per le relazioni estere depositerà questa stessa nota nei rispettivi
ministeri degli esteri delle altre repubbliche americane».
Ed
invece non solo le autorità tedesche si erano rifiutate di ricevere
la nota di protesta (quelle italiane e giapponesi l'avevano ricevuta,
ma non avevano risposto; per altra versione sia l'Italia che la
Germania ignorarono la nota diplomatica messicana, mentre il Giappone
negò ogni coinvolgimento pur scusandosi per l'accaduto, mentre per
altra ancora la Germania si rifiutò di riceverla, l'Italia la ignorò
ed il Giappone porse le sue scuse ma affermò che non fosse stato un
sommergibile nipponico), ma proprio il giorno della scadenza
dell'"ultimatum" di Ávila Camacho, il 21 maggio, era avuto
un secondo siluramento, quello della Faja
de Oro.
La notizia era giunta in Messico da Washington (essendo i superstiti
sbarcati negli Stati Uniti, dopo essere stati salvati dalla Nemesis)
il 22 giugno; il pomeriggio successivo la Pemex annunciò
ufficialmente la notizia dell'affondamento della nave, insieme a
quella errata che 28 dei 37 membri dell'equipaggio fossero morti.
All'inizio
del conflitto il Messico aveva tentato di mantenersi equidistante dai
due schieramenti, mantenendo buoni rapporti sia con il vicino
statunitense che con i Paesi dell'Asse (con la Germania, soprattutto,
esistevano importanti relazioni economiche), ma nel corso del 1941,
pur rimanendo ufficialmente neutrale, il governo di Ávila Camacho
aveva dato segnali di un progressivo avvicinamento agli Stati Uniti
ed alla causa Alleata. Il primo era stato costituito dai
provvedimenti censori intrapresi nel marzo 1941 contro alcuni
giornali filotedeschi, che avevano accusato il segretario agli Affari
Esteri Ezequiel Padilla Peñaloza, favorevole ad un miglioramento dei
rapporti tra Messico e Stati Uniti, di vendere il Paese agli
statunitensi, definendo altresì Roosevelt un “ebreo figlio di
puttana”; questi erano stati seguiti a distanza di pochi giorni
dalla concessione all'aviazione statunitense del diritto di
attraversare lo spazio aereo messicano, e poi dal sequestro delle
navi italiane e tedesche nei porti messicani. Il 7 marzo 1941
Ezequiel Padilla aveva condannato le infiltrazioni naziste in un
discorso al senato messicano, e prospettato la possibilità di
un'alleanza con gli Stati Uniti per contrastare eventuali minacce
esterne al continente americano; poco tempo dopo, il governo
messicano aveva pubblicamente condannato l'invasione italo-tedesca di
Grecia e Jugoslavia. Nel luglio 1941 il governo statunitense aveva
pubblicato una “lista nera” di imprese tedesche compromesse con
il regime nazista, con le quali era vietato fare affari, comprese
alcune attività tedesche aventi sede in Messico; l'ambasciatore
tedesco in Messico aveva invitato il governo messicano a prendere le
distanze da questa decisione, ma la sdegnata risposta era stata che
il Messico non tollerava ingerenze estere nelle proprie decisioni, e
non necessitava di suggerimenti in questioni che erano di sua
esclusiva competenza. Poco dopo, i rapporti commerciali tra Messico e
Germania erano stati troncati.
Queste
azioni avevano comportato un raffreddamento dei rapporti tra Messico
e Germania, con conseguente chiusura dei rispettivi consolati, ma ciò
non aveva dissuaso il governo messicano dal proseguire per la sua
rotta; il 1° settembre 1941, in occasione dell'apertura del
Congresso messicano, sia Ávila Camacho che il presidente del
Congresso avevano attaccato duramente l'Asse, ed in novembre il
codice penale messicano era stato emendato per inasprire le pene per
i reati di sovversione e spionaggio. Il 7 dicembre 1941 il governo
messicano aveva condannato l'attacco giapponese a Pearl Harbour e
quattro giorni dopo aveva rotto le relazioni diplomatiche con i Paesi
dell'Asse, oltre a congelare i conti in banca di italiani, tedeschi e
giapponesi, vietare l'utilizzo di lingue straniere in telegrammi e
chiamate telefoniche a lunga distanza, imporre una stretta
sull'utilizzo delle radio e porre sotto sorveglianza i funzionari
giapponesi, che successivamente vennero consegnati agli Stati Uniti
per essere internati, nel timore che potessero condurre attività di
spionaggio. Sempre nel dicembre 1941 il Messico aveva nominato dei
rappresentanti diplomatici presso i governi in esilio di Polonia,
Norvegia, Belgio e Paesi Bassi, ed il 27 dicembre aveva dichiarato di
non considerare belligeranti i Paesi americani in guerra con Paesi di
altri continenti, accordando il permesso alle loro navi di sostare e
transitare nelle acque territoriali messicane, e consentendo persino
il transito di truppe in caso d'emergenza.
Un
altro provvedimento preso sulla scia dell'attacco a Pearl Harbour era
stato quello di imporre ai marittimi italiani e tedeschi internati a
Guadalajara l'obbligo di firma presso l'ufficio per l'immigrazione
due volte al giorno, anche se di fatto gli internati continuarono a
godere di notevole libertà.
Il
12 gennaio 1942 il Messico aveva formato con gli Stati Uniti una
commissione congiunta per la difesa delle rispettive coste
occidentali contro possibili attacchi giapponesi, ed a metà maggio
era stato accordato agli statunitensi il permesso di installare
attrezzature radar sul territorio messicano, mentre già dal dicembre
1941 era stato concesso di stanziare piccoli distaccamenti di
personale dell'USAAF nelle basi aeree di Tampico, Veracruz e
Tapachula, ed inviare altri distaccamenti ad ispezionare le coste
della Bassa California e stabilirvi due stazioni radio. Il comandante
della Zona militare del Pacifico, generale Lázaro Cárdenas del
Río (ex presidente del Messico dal 1934 al 1940 ed autore della
nazionalizzazione delle risorse petrolifere che aveva portato alla
nascita della Pemex), si era incontrato a più riprese con il
generale John Lesesne DeWitt, comandante in capo delle difese della
costa occidentale degli Stati Uniti, per concordare un piano di
difesa comune e definire le rispettive responsabilità ed aree di
competenza. Il 27 marzo e 7 aprile vennero firmati tra Messico e
Stati Uniti accordi industriali ed altri che consentivano al Messico
di acquistare materiale militare statunitense per modernizzare le
proprie forze armate: a questo scopo veniva concesso credito per
dieci milioni di dollari.
Dopo
che il presidente Roosevelt si era attivato, con successo, per far
cessare l'embargo contro i prodotti petroliferi messicani
(nell'ottobre 1941 erano state anche ristabilite le relazioni
diplomatiche con il Regno Unito, sospese dal 1938 a causa
dell'espropriazione petrolifera), il Messico aveva inoltre
ricominciato ad esportare il proprio petrolio verso gli Stati Uniti,
usando la Faja
de Oro
e le altre petroliere ex italiane trasferite alla Pemex: questa
decisione aveva destato le ire della Germania, che nel marzo 1942
aveva protestato che quel traffico costituiva una violazione della
neutralità messicana ed avvertito che se fosse continuato ci
sarebbero state conseguenze (il che portò molti in Messico a
ritenere, erroneamente, che Faja
de Oro
e Potrero
del Llano
fossero state deliberatamente bersagliate proprio per dare attuazione
a quelle minacce: in realtà, i comandanti dei due U-Boote siluratori
non avevano riconosciuto la nazionalità delle navi attaccate).
La
presenza nel Paese di gruppi non trascurabili di simpatizzanti
dell'Italia e della Germania aveva a lungo dissuaso dall'entrare
direttamente in guerra, ma i siluramenti delle navi messicane fecero
precipitare la situazione, facendo infuriare l'opinione pubblica
dalla quale si levarono a gran voce le richieste di nazionalisti e
militari favorevoli all'entrata in guerra. La sede del Club Tedesco
in Messico venne presa a sassate da gruppi di studenti che ne
distrussero le finestre e causarono altri danni, e lo stesso accadde
a diversi esercizi commerciali di proprietà di tedeschi, mentre il
sindacalista Vicente Lombardo Toledano e l'ex ministro e diplomatico
Narciso Bassols, tra le figure più influenti della sinistra
messicana, richiesero che venisse emessa una dichiarazione di guerra
contro le potenze dell'Asse, proposta avanzata anche dal presidente
del Senato León García; il 20 maggio l'ambasciatore statunitense
George Messersmith scriveva al segretario di Stato Cordell Hull che
sia Ávila Camacho che Padilla erano favorevoli ad entrare in guerra.
.JPG)
Sopra,
la notizia dell’affondamento della Faja de Oro sul “Waikato
Times” del 25 maggio 1942 (da www.paperspast.natlib.gov.nz);
sotto, il giornale messicano “El Nacional” del 27 maggio 1942 (da
www.gob.mx)
2.jpg)
L'affondamento
della Faja
de Oro
fu la goccia che fece traboccare il vaso: dopo aver di nuovo chiesto
soddisfazione al governo tedesco, senza ricevere risposta, il 22
maggio Ávila Camacho convocò il governo e tramite il
sottosegretario agli Interni Adolfo Ruiz Cortines chiese che la
Commissione Permanente del Congresso si riunisse in sessione
straordinaria e gli concedesse il potere di dichiarare guerra e
prendere le misure necessarie. La riunione, tenuta presso la
residenza presidenziale di Los Pinos con la partecipazione di tutti i
membri del governo ed iniziata alle 18.45, si protrasse per oltre tre
ore: Ávila Camacho raccontò, come tutti già sapevano, che due navi
messicane erano state affondate dai sommergibili tedeschi con la
morte di 23 marinai e che il governo tedesco non aveva nemmeno
risposto alla prima nota di protesta inviata dopo l'affondamento
della Potrero
del Llano;
mostrò ai membri del governo la bozza della dichiarazione di stato
di guerra che sarebbe stata inviata al Congresso per l'approvazione.
Unici
membri del governo ad opporsi furono i ministri della Marina,
Heriberto Jara, e degli Interni, Miguel Alemán Valdés. Jara, molto
vicino all'ex presidente Lázaro Cárdenas (da sempre ostile agli
Stati Uniti e fermo difensore della sovranità messicana), obiettò
che l'entrata in guerra avrebbe posto il Messico in una situazione di
subordinazione rispetto al vicino statunitense, data la scarsa
consistenza delle sue forze armate, e che la Marina Mercantile
messicana sarebbe stata molto più esposta ai rischi bellici,
mancando i mezzi necessari alla protezione del naviglio mercantile
(ed aveva ragione: nei mesi successivi quasi metà delle navi
mercantili di bandiera messicana sarebbero state affondate dagli
U-Boote). Era perciò sua opinione che il Messico avrebbe dovuto
appoggiare gli Alleati diplomaticamente ed economicamente, con la
fornitura di petrolio e materie prime, ma senza dichiarare
ufficialmente lo stato di guerra. Alemán, dal canto suo, sottolineò
la debolezza militare del Messico e le conseguenze economiche
negative che, a suo dire, avrebbe avuto l'entrata in guerra. Ávila
Camacho, per mantenere gli equilibri ed accontentare la fazione
“cardenista” che rimaneva più fredda nei confronti della
prospettiva della guerra a fianco degli Stati Uniti, decise di
nominare proprio Lázaro Cárdenas ministro della Guerra. Questi,
certamente, non avrebbe fatto ai vicini statunitensi più concessioni
di quelle strettamente necessarie.
Lo
stesso 22 maggio il Partido de la Revolución Mexicana (partito di
governo, che controllava 172 dei 173 seggi della Camera dei Deputati)
e la Confederación
de Trabajadores de México (CTM, parte integrante del Partido de la
Revolución Mexicana), il più grande sindacato messicano (del quale
Lombardo Toledano era stato segretario fino a pochi mesi prima),
indissero una riunione dei rappresentanti del movimento antifascista
del Messico che portò alla fondazione del Comitato di Difesa
Nazionale contro il nazifascismo.
Il
24 maggio la CTM organizzò su tutto il territorio nazionale
manifestazioni di massa in favore dell'entrata in guerra; gli operai
delle fabbriche di materiale bellico offrirono parte dello stipendio
per aiutare il governo ad acquistare materiale militare e si
dichiararono disponibili a rinunciare alle vacanze di primavera ed a
fare turni straordinari, e lo stesso fecero i dipendenti statali, che
richiesero la propria militarizzazione nonché la dissoluzione di
tutte le organizzazioni “di quinta colonna”. I principali
sindacati organizzarono il boicottaggio dei prodotti dei Paesi
dell'Asse, ed insieme alle organizzazioni di sinistra, vicine
all'Unione Sovietica, premettero per l'entrata in guerra; la CTM, la
Confederación
Nacional Campesina (CNC, principale sindacato dei lavoratori agricoli
messicani), la Confederación
General de Trabajadores, il sindacato petrolifero (affiliato alla
CTM), ed il Partito Comunista Messicano furono tra i più attivi
nell'organizzare manifestazioni in favore dell'intervento e nel
chiedere la confisca di tutte le proprietà di cittadini dell'Asse in
Messico. Gruppi di immigrati ed esuli tedeschi, come “Alemania
Libre” e la “Liga Pro-Cultura Alemana”, dichiararono che in
caso di guerra sarebbero stati dalla parte del Messico. Punto
culminante della campagna in favore dell'entrata in guerra furono i
funerali solenni, celebrati il 24 maggio a Città del Messico,
dell'unico morto della Potrero
del Llano
il cui corpo era stato recuperato; parteciparono alle esequie Ávila
Camacho con la moglie, diversi ministri del governo ed oltre 15.000
persone, e durante la cerimonia furono letti i nomi di tutti i
marittimi scomparsi negli affondamenti di Faja
de Oro
e Potrero
del Llano.
.jpg) |
La processione funebre per i morti di Faja de Oro e Potrero del Llano passa per Hidalgo, diretta a Città del Messico (da www.eluniversal.com.mx) |
Sopra,
il giornale messicano “El Nacional” del 22 maggio 1942 (da
www.gob.mx), e sotto, l’“Excelsior”
(da www.excelsior.com)
2.jpeg)
Alle
dieci di sera del 22 maggio (per altra fonte, il 25 maggio), al
termine della riunione con i membri del governo, Ávila Camacho aveva
chiesto alla Commissione Permanente di indire una riunione speciale
del Congresso per dichiarare lo stato di guerra e chiedere poteri
emergenziali straordinari, riunione che si tenne il 28 maggio 1942;
in quella seduta il presidente messicano presentò alla Camera dei
Deputati un disegno di legge per dichiarare lo stato di guerra, ed il
giorno seguente un altro con il quale si sospendevano alcune garanzie
individuali e si autorizzava l'Esecutivo a legiferare in tutti i rami
della pubblica amministrazione: entrambi furono approvati
all'unanimità tra il 29 ed il 30 maggio. Durante il dibattimento un
deputato, Carlos Samaniego, dichiarò che non si trattava solo “della
perdita di due nostre navi; è la patria messicana che ha subito
l'attacco”;
un altro, Antonio Betancourt Pérez, chiese: “Potrebbe
il Messico sfuggire all'insaziabile voracità e agli istinti
sanguinari di Hitler, Mussolini e Hirohito? No”.
Lo
stesso 28 maggio Ávila Camacho, ottenuta l'approvazione del
Congresso e dietro formale proposta del Consiglio dei Segretari di
Stato, proclamò l'esistenza di uno stato di guerra tra il Messico e
le potenze dell'Asse (con effetto, retroattivo, dal 22 maggio), con
un breve comunicato in tre articoli, pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale messicana il successivo 1° giugno (nella stessa data lo
stato di guerra venne notificato a Rolf Arfwedson, in qualità di
rappresentante della Germania in Messico): «Articolo
I. Si dichiara che dal 22 maggio 1942 esiste uno stato di guerra tra
gli Stati Uniti del Messico e la Germania, l'Italia e il Giappone.
Articolo II. Il Presidente della Repubblica renderà la dichiarazione
corrispondente alle notifiche internazionali che procedono. Articolo
III. La presente legge e la dichiarazione presidenziale di cui al
precedente articolo entrano in vigore dalla loro pubblicazione nella
Gazzetta Ufficiale».
Ben
più elaborato era stato il discorso tenuto il 28 maggio da Ávila
Camacho davanti al Congresso per chiedere l'approvazione dello stato
di guerra, diffuso in tutto il Paese attraverso migliaia di
altoparlanti: “Onorevoli
membri del potere legislativo: Mi presento per adempiere, dinanzi a
voi, il più grave dei doveri che incombono su un Capo di Stato:
quella di sottoporre alla Rappresentanza Nazionale la necessità di
ricorrere all'ultima delle risorse che ha un popolo libero per
difendere i propri destini. Come comunicato tempestivamente alla
Nazione dal Governo della Repubblica, durante la notte del 13 del
corrente mese, un sommergibile delle potenze nazifascisti ha silurato
e affondato nell'Atlantico, una petroliera di immatricolazione
messicana, la “Potrero del Llano”. Nessuna considerazione ha
fermato gli aggressori. Né la neutralità del paese a cui
apparteneva la nave, né il fatto che portasse tutti i caratteristici
segni esterni della loro nazionalità, né la precauzione che la nave
viaggiava con il luci accese in modo da rendere ben percepibili i
colori della nostra bandiera; né, per le ragioni del diritto
internazionale e umanitario, il dovere di concedere ai membri della
nave l'occasione di mettersi in salvo.
(…) Non
appena il governo del Messico è venuto a conoscenza dell'attacco, ha
formulato una forte protesta, che è stata trasmessa al Ministero
degli Affari Esteri della Svezia, paese che nel dicembre 1941 ha
accettato di rilevare i nostri interessi in Germania, Italia e
Giappone. In detto documento, il Messico ha stabilito che, se entro
il termine di una settimana, a partire da giovedì 14 maggio, il
Paese responsabile dell'aggressione non avesse provveduto a darci
piena soddisfazione, oltre a darci le garanzie che sarebbe stato
debitamente coperto il risarcimento dei danni subiti, avremmo
adottato i provvedimenti richiesti dall'onore nazionale. Il termine è
scaduto: Italia e Giappone non hanno risposto alla nostra protesta.
Peggio ancora. In un gesto di disprezzo che sottolinea l'offesa e
misura l'arroganza dell'aggressore, la Cancelleria tedesca ha
rifiutato di riceverlo. Ma la slealtà degli Stati totalitari non si
è limitata a questo. Sette giorni dopo l'attacco al “Potrero del
Llano”, è stato effettuato un nuovo attacco. Nella notte di
mercoledì 20, un'altra nostra nave, la “Faja de Oro”, è stata
silurata e affondata al largo delle coste nordamericane, in
circostanze identiche a quelle registrate nel caso precedente. Anche
questa volta abbiamo dovuto piangere la perdita di un valoroso gruppo
di compatrioti. Dei 35 membri dell'equipaggio della nave a cui mi
riferisco, 6 sono scomparsi. I restanti 29, prelevati da un
guardacoste degli Stati Uniti, sono arrivati a Key West la
mattina del 22 corrente: uno di loro è morto a bordo del guardacoste
e sei sono rimasti feriti. Tutti gli sforzi diplomatici sono finiti e
si presenta ora la necessità di fare una rapida Rivoluzione. Prima
di sottoporvi la proposta dell'Esecutivo, desidero dichiarare
solennemente che nessun atto del Governo o del popolo del Messico può
giustificare il duplice attacco delle Potenze totalitarie. La sintesi
degli avvenimenti internazionali succedutisi negli ultimi anni
costituisce la più eloquente dimostrazione dell'atteggiamento
impeccabile del nostro Paese e dell'ingegnosità dell'abuso che ci
viene fatto.
(…) Il
Messico, che dopo aver manifestato la sua simpatia per la causa del
popolo cinese, si era opposto alla guerra d'Etiopia e aveva teso la
sua mano disinteressata e amica alla Spagna repubblicana; il Messico,
che aveva protestato contro l'annessione dell'Austria e contro
l'occupazione della Cecoslovacchia; il Messico, che ha condannato la
violazione della neutralità di Norvegia, Paesi Bassi, Belgio e
Granducato di Lussemburgo, nonché le campagne contro Grecia,
Jugoslavia e Russia, ha anche alzato la voce contro l'attacco a Pearl
Harbor e Manila, e Fedele allo spirito degli impegni assunti alle
conferenze di Panama e dell'Avana, ha subito interrotto le relazioni
diplomatiche con la Germania, l'Italia e il Giappone. Uniti agli
altri popoli liberi di questo emisfero dai vincoli di amicizia
panamericana, spezzati i nostri rapporti con le potenze imperialiste
dell'Europa e dell'Asia, abbiamo cercato di rafforzare la nostra
solidarietà con le democrazie e ci siamo astenuti dall'esercitare
atti di violenza contro i totalitaristi. I cittadini di Germania,
Italia e Giappone, residenti nella Repubblica, godevano di tutte le
garanzie che la nostra costituzione concede agli stranieri. Nessuna
autorità messicana li infastidiva nell'esercizio delle loro attività
lecite; nessuno li ha resi oggetto di persecuzione o misure
coercitive. In altre circostanze, avremmo potuto ritenere che la
nostra pace non fosse direttamente minacciata. Tuttavia, sentivamo
che, all'interno dell'imbarazzante ragnatela in cui si è sviluppata
la storia dei governi nazifascisti, il Messico potesse trovarsi
coinvolto, e suo malgrado, il giorno meno atteso. Ecco perché
abbiamo organizzato la nostra difesa e sorvegliato le nostre coste;
per questo abbiamo fatto i passi necessari per aumentare la nostra
produzione ed è per questo che, in ogni discorso, in ogni atto
pubblico, abbiamo ripetuto l'esortazione a stare all'erta e preparati
all'attacco che poteva arrivare in qualsiasi momento. Il 13 maggio è
arrivato l'attacco. Non determinato e schietto, ma sleale, nascosto e
codardo, inferto nell'oscurità e con l'assoluta sicurezza
dell'impunità. Una settimana dopo l'attacco è stato ripetuto. Di
fronte a questa ripetuta aggressione, che viola tutte le norme del
Diritto delle Nazioni e che implica un sanguinoso oltraggio per la
nostra Patria, un popolo libero e desideroso di mantenere immacolata
la sua esecuzione civile, ha una sola risorsa: quella di accettare
con coraggio la realtà e dichiarare – come proposto dal Consiglio
dei Segretari di Stato e dei Capi dei Dipartimenti Autonomi riunitosi
nella Capitale venerdì 22 del corrente mese – che da questa data
vige lo stato di guerra tra il nostro Paese e la Germania, l'Italia e
il Giappone. Queste parole – Stato di guerra – hanno dato luogo a
interpretazioni così impreviste che è necessario specificarne
dettagliatamente la portata. Naturalmente, ogni motivo di confusione
deve essere eliminato. Lo stato di guerra è la guerra. Sì, la
guerra, con tutte le sue conseguenze; guerra, che il Messico avrebbe
voluto bandire per sempre dai metodi della convivenza civile, ma che
in casi come il presente, e nell'attuale disordine del mondo,
costituisce l'unico mezzo per riaffermare il nostro diritto
all'indipendenza e per conservare intatta la dignità della
Repubblica
(…) Nessuna
considerazione ha impedito agli aggressori di silurare e affondare
nell'Atlantico le navi di bandiera messicana Potrero del Llano e Faja
de Oro. Alla nota energica del Messico, Italia e il Giappone non
hanno risposto. E la Cancelleria tedesca, in un gesto di disprezzo
che sottolinea l'offesa e misura l'arroganza dell'aggressore, ha
rifiutato di accogliere la nostra protesta (…)
Il
Messico, aderendo alla causa delle Nazioni Unite, esprime la ferma
risoluzione di contribuire con tutti i mezzi disponibili alla
vittoria finale delle democrazie, accettando consapevolmente le alte
responsabilità che un popolo libero deve assumersi quando si trova
in pericolo, insieme con il prestigio della sua sovranità, gli
ideali che ne regolano l'esistenza e che sono alla base delle sue
istituzioni, l'onore del suo passato, l'intensa preoccupazione per il
suo presente e l'effettiva garanzia del suo futuro (…)
Sono
il primo ad apprezzare lo sforzo che la situazione in cui ci troviamo
richiederà al Paese. Ma se non facessimo questo sforzo, non
perderemmo qualcosa di infinitamente più prezioso della nostra
tranquillità e delle nostre vite; l'onore del paese, il buon nome
del Messico?”.
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Lo
stato di guerra sulla gazzetta ufficiale dello stato di Veracruz
(Archivio General del Estado de Veracruz) |
Nel
suo discorso al Congresso, Ávila Camacho asserì che niente poteva
giustificare gli attacchi che avevano provocato l'affondamento della
Potrero
del Llano
e della Faja
de Oro,
e che di conseguenza era obbligato a dichiarare che fin dal 22 maggio
esisteva uno stato di guerra tra il Messico, la Germania, l'Italia ed
il Giappone. Il 30 maggio Ávila Camacho pronunciò un discorso alla
nazione, trasmesso alla radio nazionale, in cui spiegava che la via
della diplomazia era chiusa dall'aggressività delle potenze
dell'Asse, e che “Il
Messico nell'attuale guerra si è astenuto da ogni atto di violenza e
non ha risparmiato sforzi per stare lontano dal conflitto;
ciononostante, le potenze dell'Asse hanno commesso ripetuti atti di
aggressione contro la nostra sovranità; una volta esauriti gli
sforzi diplomatici, è impossibile non riconoscere e proclamare,
senza disprezzo dell'onore nazionale e della dignità della Patria,
l'esistenza di uno stato di guerra e quindi si decreta che il Paese è
in stato di guerra con Germania, Italia e Giappone”.
Rimaneva
una non trascurabile opposizione interna sia al governo che al
Congresso, capeggiata dall'ex presidente Lázaro Cárdenas, che
sottolineava che il Messico non era preparato alla guerra e doveva
rimanere neutrale; all'estremo opposto si collocavano il segretario
agli Esteri Padilla e Lombardo Toledano, che avrebbero voluto una
vera e propria dichiarazione di guerra.
Anche
l'opinione pubblica appariva esitante dinanzi alla prospettiva della
guerra: al di là della rabbia destata dai siluramenti delle due navi
cisterna e della diffusa avversione al nazifascismo, ancora nel
maggio 1942 un sondaggio della rivista “Tiempo” attestava che
solo il 40 % dei messicani erano favorevoli alla guerra, mentre il 60
% era contrario, vedendola come estranea agli interessi nazionali e
non desiderando che sangue messicano venisse sparso per gli Stati
Uniti, vicino infido che più volte aveva combattuto con il Messico
nel corso del secolo precedente, strappandogli gran parte dei suoi
territori (secondo alcuni osservatori, addirittura l'85 % della
popolazione messicana rimaneva contraria all'invio di truppe a
combattere per gli angloamericani). C'era persino – e c'è ancora
oggi – chi riteneva che Faja
de Oro
e Potrero
del Llano
fossero state in realtà affondate da sommergibili statunitensi, per
incolpare la Germania e spingere il Messico ad entrare in guerra
dalla parte degli Alleati, nonostante alcuni superstiti della Faja
de Oro
avessero dichiarato di aver sentito dalle scialuppe voci che
parlavano in tedesco provenienti dal sommergibile. Era poi opinione
diffusa che vi fossero altre priorità e che il Messico non fosse
preparato alla guerra.
Anche
molti di coloro che erano favorevoli alla cooperazione con gli Stati
Uniti rimanevano contrari ad una mobilitazione generale, per la quale
mancavano risorse. Fu questo – dopo un ultimo incontro con Padilla
e Cárdenas – ad indurre Ávila Camacho, anziché ad emettere una
vera e propria dichiarazione di guerra, a ricorrere all'espediente di
dichiarare “l'esistenza di uno stato di guerra”: una
dichiarazione di guerra, disse, non sarebbe stata coerente con la
tradizione pacifista del Messico, che nella sua secolare storia non
aveva mai dichiarato guerra ad un altro Paese (né lo avrebbe più
fatto in seguito); non era sua intenzione mandare truppe messicane a
combattere oltremare, bensì cooperare alla difesa del continente
americano contro aggressioni provenienti dall'esterno. Il Messico non
dichiarava guerra all'Asse, dunque, ma piuttosto formalizzava una
situazione di guerra dimostrata dall'affondamento delle petroliere,
che non poteva essere ignorata perché costituiva un'aggressione
militare non provocata; il Messico non entrava in guerra per sua
volontà ma perché “costretto
dai fatti e dalla violenza dell'aggressione… L'atteggiamento che il
Messico assume in questa eventualità si basa sul fatto che la nostra
determinazione scaturisce da un'esigenza di legittima difesa”.
Ad ogni modo, parlando al Congresso Ávila Camacho aveva avuto cura
di precisare che “Conosciamo
i limiti delle nostre risorse belliche e sappiamo che, data
l'enormità delle masse internazionali in conflitto, il nostro ruolo
nel conflitto in corso non consisterà in azioni di guerra
extracontinentali, per le quali non siamo preparati (…)
Sarà
una guerra totale, ma le Forze Armate saranno dedite alla difesa del
territorio nazionale”.
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Il
caso aveva voluto che poco prima del duplice attacco alle petroliere,
nell'aprile 1942, il parlamento messicano avesse approvato
l'istituzione della Giornata della Marina: il 30 aprile 1942 era
stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale messicana il decreto del
presidente Ávila Camacho con cui si fissava la data della nuova
celebrazione come il 1° giugno di ogni anno, anniversario della
prima partenza dal porto di Veracruz – il 1° giugno 1917 – del
piroscafo Tabasco, prima nave mercantile con equipaggio interamente
messicano.
L'istituzione
di una Giornata della Marina era stata caldeggiata da alcuni
esponenti dell'Armada de Mexico fin dal 1940, ed il relativo accordo
era stato raggiunto l'11 aprile 1942. I preparativi per i
festeggiamenti erano in corso, ed il relativo programma già
definito, quando furono affondate la Faja
de Oro
e la Potrero
del Llano:
la prima celebrazione della Giornata della Marina, che cadde proprio
nella data di pubblicazione del decreto con cui si dichiarava
l'esistenza dello stato di guerra tra il Messico ed i Paesi
dell'Asse, finì così col trasformarsi in una commemorazione dei
marittimi morti nell'affondamento delle due navi cisterna. La sera
del 31 maggio 1942 il tenente di vascello Ramón Sánchez Mena, già
comandante della Faja
de Oro,
narrò alla radio – nel corso del programma radiofonico La
Hora Nacional
– i particolari dell'attacco e affondamento della sua nave.
La
decisione messicana di entrare in guerra, prevedibilmente, fu
favorevolmente accolta dai governi e dalla stampa dei Paesi Alleati.
Il “Sunday Times” di Perth del 24 maggio 1942 scriveva: “Stanco
delle sfuriate siluratrici di Hitler, il Messico dichiarerà
formalmente guerra a lui ed ai suoi alleati giovedì prossimo.
Preannunciata dal risentimento per l'affondamento della nave cisterna
Potrero del Llano, la decisione è stata praticamente chiesta
dall'insensibilità o disattenzione dell'Asse. L'umore messicano,
tempestoso ieri dopo il rifiuto di una richiesta di completa
soddisfazione per l'affare Llano, è stato scioccato fino al punto di
esplodere quando, al largo di Cuba, un sommergibile nemico ha alzato
il periscopio si è portato in posizione, e con assenza ha silurato
una seconda nave cisterna, la Faja de Oro. Prima di affondare, la
nave ha preso fuoco. La maggior parte dell'equipaggio è perito
[sic].
Attonite,
provocate e furiose, le autorità messicane, quando è stata chiesta
loro quale sarebbe stata la reazione, sulle prime hanno inarcato le
sopracciglia, rimanendo silenziose. Poi hanno avviato una speciale
sessione governativa protrattasi per tutta la notte ed hanno risolto
la questione in modo scenografico ma avveduto, dichiarando la guerra
di fatto. Il governo ha chiesto una sessione speciale in Congresso
per ratificare la decisione. Il Congresso sbrigherà le formalità
giovedì”.
Simili
i toni della rivista “Time”, che però tracciava un'analisi più
approfondita, e sorprendentemente veritiera, della situazione interna
messicana: “Il
Messico era sull'orlo della guerra, e l'Asse poteva dare la colpa
soltanto a sé stessa. Il ministro degli Esteri Ezequiel Padilla
aveva già mandato all'Asse un violento ultimatum sul siluramento
della Potrero del Llano. Poi la scorsa settimana, al largo di Cuba,
l'Asse ha commesso l'errore di silurare la nave cisterna Faja de Oro
di 6607 tsl, che il Messico aveva sottratto all'Italia l'anno scorso,
ed il cui comandante si era pubblicamente vantato il mese scorso di
aver speronato ed affondato un sommergibile dell'Asse. Alta tensione.
Gli osservatori a Città del Messico che avevano detto “Tutto ciò
che serve è un altro siluramento”, adesso avevano detto “Ci
siamo!”. Il governo aveva bloccato tutti i cambi in dollari per
evitare la liquidazione di fondi dell'Asse, ed ordinato
l'approntamento di tutte le truppe. Il Banco Germánico aveva pagato
i dipendenti e rimborsato i depositanti. Alcuni dei capi del
movimento cattolico-fascista Sinarquista erano passati a posizioni
pro-guerra ed hanno cercato di persuadere i loro confusi lacché a
seguire il loro voltafaccia. I negozi dell'Asse erano deserti, ed i
cittadini dell'Asse evitavano le strade. Ma nonostante l'alta
tensione, il presidente Manuel Avila Camacho si stava muovendo molto
cautamente. Certamente, la guerra avrebbe dato al suo governo di
destra la possibilità di “unificare” il Messico, estendere il
suo controllo su lavoro, prezzi, risorse economiche, evitare che il
boom economico andasse fuori controllo. Stava venendo spinto verso la
guerra dal ministro degli Esteri Padilla, che in ciò vedeva il
culmine della sua politica emisferica, e dai grandi gruppi sindacali
a guida comunista che volevano una crociata contro il fascismo in
alleanza con la Russia. Ma il presidente Avila Camacho doveva
considerare gli imprenditori messicani, che temevano alte tasse e la
fine del loro boom. Soprattutto, settimana scorsa osservatori in
Messico avevano segnalato che “non c'è ancora entusiasmo… tra il
popolo… c'è accordo in generale sul fatto che i messicani vogliono
che l'Asse perda, ma vogliono che il Messico rimanga non
belligerante… l'85 % della gente comune non ha nessun desiderio di
combattere per il Regno Unito e gli Stati Uniti”. Il presidente
doveva pensare più di due volte alla gente comune del Messico, non
essendo certo un segreto che molti di essi ricordavano favorevolmente
il regime liberale dell'ex presidente Lazaro Cardenas, adesso al
comando della regione della costa occidentale. I gruppi pro-guerra
facevano del loro meglio per convertire in sentimento pro-guerra la
comprensibile rabbia del popolo messicano contro i nazisti che
avevano ucciso 13 dei 35 uomini dell'equipaggio della Potrero del
Llano, e 14 dei 41 della Faja de Oro. (…)
sebbene
preoccupato e diviso internamente, il governo di Avila Camacho ha
intrapreso il passo successivo verso la guerra, convocando una
sessione speciale del Congresso per questa settimana per autorizzare
una formale dichiarazione
[di guerra]. È
iniziato a sembrare probabile che il governo non avrebbe chiesto
guerra aperta contro l'Asse, ma soltanto uno “stato di guerra”.
Internamente, ciò permetterebbe di attuare misure di guerra come la
confisca di tutte le proprietà dell'Asse e la sorveglianza di tutti
i sospetti, il controllo delle comunicazioni (cioè la censura
interna), la sostituzione del governo civile con uno militare, e la
sospensione delle garanzie costituzionali e delle libertà civili. Il
P.R.M., unico partito nazionale, ha cercato di rassicurare il popolo
messicano affermando ufficialmente che nessun soldato messicano
sarebbe stato inviato all'estero. Coloro che speravano di ottenere
l'“unità nazionale” prevedevano che l'ex presidente generale
Cardenas avrebbe partecipato alla riunione governativa della scorsa
settimana, avrebbe votato per la dichiarazione di guerra e sarebbe
stato ricompensato con il posto di Ministro della Difesa. Lazaro
Cardenas non ha partecipato, non è stato ricompensato con niente”.
Di
senso opposto, naturalmente, la reazione tedesca: il 28 maggio la
Deutsches Nachrichtenbüro, principale agenzia stampa della Germania
nazista, pubblicò un “ultimo avvertimento” in cui si affermava:
“Sotto
tutti i segni di un'esaltazione isterica, il governo messicano si
prepara a obbedire ai desideri di Washington e lanciarsi in guerra…
Il governo messicano vuole presentare al Congresso il presunto
affondamento della nave "Potrero del Llano" – che in
realtà è una petroliera italiana rubata – per giustificare una
dichiarazione di guerra? Quindi deve avere ben chiaro che la guerra a
cui non può partecipare militarmente, per il Messico non significa
solo impoverimento ma resa totale agli Stati Uniti, che è
l'opportunità per i capitalisti yankee di tornare in Messico e
riprendere le loro posizioni economiche e politiche per sfruttare il
paese. La sottomissione del governo messicano a Roosevelt favorisce
il vecchio piano di Washington di occupare alcune regioni. La
preziosa lotta per la libertà che i messicani hanno condotto contro
questo piano del loro tradizionale nemico e contro lo sfruttamento da
parte dei capitalisti della borsa e dell'industria di New York
sarebbe resa vana. Il parlamento messicano deve sopportare una grave
responsabilità storica ora che deve affrontare la decisione”.
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Il
1° giugno 1942, in una lettera a Cordell Hull, Padilla descrisse
l'affondamento di Potrero
del Llano
e Faja
de Oro
come un'“indescrivibile
aggressione
commessa contro il Messico”.
L'11
giugno il Messico annunciò la propria adesione ai principi della
Carta Atlantica, e tre giorni dopo l'ambasciatore Castillo Najera
firmò il Patto Atlantico nell'ambito di una cerimonia tenuta alla
Casa Bianca.
Stante
l'impreparazione delle forze armate messicane ad un conflitto su
vasta scala (l'Esercito messicano contava solo 50.000 uomini,
compreso il personale amministrativo e dei servizi, con armamento
inadeguato), e l'avversione della maggioranza della popolazione
all'invio di truppe oltremare, il contributo del Messico allo sforzo
bellico Alleato si concretizzò principalmente nella fornitura di
materie prime, come petrolio, zinco, piombo, argento, rame, antimonio
e mercurio (il Messico divenne il più importante fornitore di
materie prime strategiche degli Stati Uniti nel periodo bellico, e
già da prima della dichiarazione di guerra gli Stati Uniti erano
divenuti il primo importatore di petrolio messicano: il conflitto
finì col dare notevole impulso allo sviluppo dell'industria
messicana, e diede inizio ad un periodo di forte crescita economica
che consentì importanti investimenti nelle infrastrutture ed un
aumento dei salari), e di manodopera (il programma “Braceros”,
avviato nell'agosto 1942, permise ad oltre 300.000 lavoratori
messicani di trasferirsi legalmente negli Stati Uniti, dove trovarono
lavoro nell'agricoltura – principalmente – e nell'industria,
colmando il vuoto lasciato dagli statunitensi partiti per il fronte).
Come annunciato da Ávila Camacho, “il
contributo messicano
[fu] nel
campo
economico; la battaglia sul fronte della produzione”;
il 1942 venne dichiarato “l'anno
dello sforzo”.
Venne
creato un Consiglio Supremo per la Difesa Nazionale e fu istituito il
servizio militare obbligatorio, ma solo allo scopo di difesa del
territorio messicano contro un'eventuale invasione da parte
giapponese (o, molto meno probabilmente, tedesca); senza impiego
rimasero anche i 100.000-150.000 volontari della “Legione dei
Guerriglieri Messicani”, fondata dal politico ed editore Antolín
Jiménez Gamas, ex combattente della guerra civile (aveva combattuto
con Pancho Villa raggiungendo il grado di tenente colonnello e
venendo ferito tre volte) che reclutò tutti i charros
– l'equivalente messicano dei cowboys
statunitensi – disposti a prendere le armi contro un esercito
invasore. I volontari di Jiménez, distribuiti in 250 punti sul
territorio messicano, si addestravano ogni domenica nelle tattiche
della guerriglia, ma la paventata invasione non si verificò.
Venne
istituito anche un sistema di difesa civile e furono tenute nelle
principali città esercitazioni di oscuramento e contro possibili
bombardamenti aerei; inoltre, l'entrata in guerra comportò la
sospensione delle garanzie individuali e la registrazione di tutti
gli stranieri presenti in Messico presso il Ministero degli Interni.
I cittadini italiani, tedeschi e giapponesi che vivevano nei pressi
delle coste od in altre zone dove la loro presenza era ritenuta un
pericolo vennero forzosamente trasferiti altrove.
Un
accordo tra Messico e Stati Uniti stretto nel gennaio 1943 permise a
15.000 messicani che vivevano a nord del Rio Grande di arruolarsi
come volontari nelle forze armate statunitensi e di altri Paesi
alleati. Il Messico divenne beneficiario del programma Lend-Lease e
ricevette dagli Stati Uniti moderne artiglierie contraeree ed aerei
Vought OS2U Kingfisher, Vought F4U Corsair, North American T-6 Texan,
Douglas A-24 Banshee e Beech AT-11 Kansan con cui pattugliare le
proprie coste.
Unico
reparto militare messicano a partecipare attivamente al conflitto fu
la 201a
Squadriglia da Caccia (detta delle “Aquile Azteche”), inviata a
partecipare alla liberazione delle Filippine nell'estate del 1945:
addestrata in Idaho e Texas ed equipaggiata con 25 cacciabombardieri
P-47 “Thunderbolt” di fabbricazione statunitense, operò contro
le forze giapponesi effettuando un totale di 59 missioni, nel corso
delle quali morirono in combattimento cinque dei suoi 35 piloti
(altri tre erano morti durante incidenti verificatisi nel corso
dell'addestramento); in totale, considerando anche il personale di
terra, i membri della Fuerza Aérea Expedicionaria Mexicana furono
trecento. Rimane ad oggi l'unico reparto militare messicano mai
impiegato al di fuori del territorio del Messico.
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Il
monumento ai caduti della Marina Mercantile messicana nella seconda
guerra mondiale: tra di essi figurano anche quelli della Faja de
Oro (Museo Veracruz) |
La Genoano
sul Libro Registro del RINA del 1938
L'affondamento della Faja
de Oro
su Uboat.net
La Barneson
su Tyne Built Ships
Bank Line Ships
La Faja
de Oro
su Histarmar
L'affondamento della Faja
de Oro
su U-Boot Archiv
La Faja
de Oro
su Wrecksite
El Faja
de Oro
U
106
under Hermann Rasch, May 1942 Bahamas patrol
Historia de México, Volume 2
Mexicans at War: Mexican Military Aviation in the Second World War, 1941–1945
The Aztec Eagles: The Forgotten Allies of the Second World War
Hitler's U-Boat War: The Hunters 1939-1942 (Volume 1)
World War II Sea War, Vol 6: The Allies Halt the Axis Advance
LA CREACIÓN DE LA SECRETARÍA DE MARINA Y LA INSTITUCIONALIZACIÓNDEL CUERPO DE INFANTERÍA NAVAL 1940-1964
Café, espías,
amantes i Nazis (México 1941-1942)
Historia General de la Secretaria de Marina, Tomo II
Futuro – Al servicio de America – Abril del 1946
Mexico e Italia. Politica y diplomacia en la epoca del fascismo,1922-1942
Espacio Profundo 132
Discorso del presidente Manuel Ávila Camacho sulla dichiarazione di
guerra ai Paesi dell'Asse
El Sol de Tampico
Argumentación y poder: la mística de la revolución mexicanarectificada
Hermanos, generales y gobernantes: Los Ávila Camacho
Historia de la Revolución Mexicana. 1940-1952: Volumen 7
Recopilación de circulares, oficios-circulares, acuerdos, decretos,leyes y reglamentos, expedidos durante el año de 1941