giovedì 21 gennaio 2016

Santa Maria

Il Santa Maria sotto il precedente nome di Puseyjones No. 2 (g.c. Mauro Millefiorini)

Motoveliero da carico (goletta) da 399 tsl e 264 tsn, lungo 41,54 metri, largo 8,53 e pescante 3,87. Appartenente alla Società Anonima Stamar di Genova ed iscritto con matricola 1237 al Compartimento Marittimo di Genova.

Breve e parziale cronologia.

24 maggio 1937
Varato come Puseyjones No. 2 dal cantiere di Wilmington (Delaware, USA) della Pusey & Jones Company (numero di cantiere 362).
Luglio 1917
Completato come Puseyjones No. 2 per la compagnia norvegese Thor O. Hannevigs D/S (o Christopher Hannevig) di Horten. Registrato a Horten, con nominativo di chiamata MRHT; stazza lorda e netta originarie 387 (o 398) tsl e 220 tsn.
1920
Venduto alla società A/S Pusey (in gestione ad E. Abrahamsen) di Sandefjord.
1922
Venduto a J. H. Lamey di Sandefjord.
1923
Venduto ai Fratelli Campisi di Siracusa e ribattezzato Maria.
1925
Venduto ad Oreste Puccinelli fu F., di Viareggio.
1932
Ribattezzato Santa Maria, senza cambiare armatore.
1941
Venduto alla Società Anonima “Stamar” Stazione sul Mare, con sede a Genova.
31 ottobre 1942
Requisito a Durazzo dalla Regia Marina ed iscritto nel ruolo del naviglio ausiliario dello Stato.


Due immagini del Puseyjones No. 2 durante la costruzione (g.c. Hagley Museum and Library).




L’affondamento

Alle 7.17 del 14 dicembre 1942 il Santa Maria, al comando del nocchiere di prima classe militarizzato Galliano Magroncini, salpò da Trapani per Tripoli con un carico di benzina in fusti. Si trattava di uno degli ultimi motovelieri inviati in Libia, nelle settimane conclusive della battaglia dei convogli per la Libia, nel tentativo di far giungere a Tripoli qualche ultimo, modesto quantitativo di carburante e munizioni (l’offensiva aeronavale alleata aveva affondato, nella prima metà del mese, diversi mercantili di maggiori dimensioni partiti per la Libia con tali preziosi carichi: i piroscafi Veloce, Audace, Minerva e Palmaiola e la moderna motonave Foscolo).
Il giorno seguente il Santa Maria giunse nel golfo di Hammamet, da dove sarebbe poi dovuto proseguire su rotte costiere per maggior sicurezza (così facevano sempre i motovelieri), e vi diede fondo sottocosta. Mentre si trovava alla fonda, nel pomeriggio dello stesso 15 dicembre, il motoveliero fu assalito da bombardieri angloamericani, che lo colpirono con bombe, affondandolo.
Della ventina di uomini del suo equipaggio, si salvarono in dodici; il comandante Magroncini fu tra i sopravvissuti.
 

Un’altra immagine della nave come Puseyjones No. 2 (g.c. Hagley Museum and Library)


martedì 19 gennaio 2016

Adriatico

L’Adriatico in tempo di pace (foto USMM).

Incrociatore ausiliario, già motonave mista di 1976 tsl, 1069 tsn e 1240 tpl, lunga 78,5 metri (per altre fonti 76 o 81,5), larga 12,20 e pescante 5 o 7,45, con velocità massima di 14 nodi (ma all’epoca della sua perdita, superava di poco i 12 nodi). Appartenente alla Società Anonima di Navigazione Adriatica (con sede a Venezia), iscritto con matricola 51 al Compartimento Marittimo di Bari, nominativo di chiamata IBFB.
Come le gemelle, era stato costruito come nave mercantile, ma fin dalla progettazione era stata prevista la possibilità di armarlo, all’occorrenza, per impiegarlo in guerra.

Breve e parziale cronologia.

27 novembre 1930
Impostata nei Cantieri Riuniti dell’Adriatico di Monfalcone (numero di costruzione 244).
4 aprile 1931
Varata nei Cantieri Riuniti dell’Adriatico di Monfalcone.
18 giugno 1931
Completata per la Puglia Società Anonima di Navigazione a Vapore, con sede a Bari. Può trasportare 22 passeggeri in prima classe, 24 in seconda e 22 in terza (per altra fonte 72 in tutto); fa parte di una serie di sette motonavi gemelle (tipo «Brioni») costruite dai CRDA per la società Puglia (le altre sono BarlettaBrindisiBrioniZara, Lero e Monte Gargano).
Alle prove raggiunge la velocità di 15,8 nodi.
1932
Trasferita alla Società di Navigazione San Marco (con sede a Venezia), compagnia nella quale il 21 marzo 1932 è confluita con altre compagnie adriatiche la società Puglia, che il 4 aprile cambia nome in Compagnia Adriatica di Navigazione .
1935
Noleggiata per trasportare truppe e rifornimenti in Africa Orientale nel corso della guerra d’Etiopia.
15 settembre 1936
Requisita dalla Regia Marina, riceve il nominativo fittizio di Lago e viene impiegata in quattro missioni (nella prima, partendo da La Spezia e giungendo a Lisbona e Huelva; nelle altre tre, partendo da La Spezia e Cagliari e raggiungendo Siviglia e Melilla) durante la guerra civile spagnola.
1° gennaio 1937
La compagnia armatrice muta nome in Società Anonima di Navigazione Adriatica.
13 febbraio 1937
Ultimate le missioni in Spagna, torna al servizio civile, venendo impiegata sulla linea Venezia-Trieste-Pola-Lussino-Zara-Sebenico-Spalato-Ragusa-Cattaro-Antivari-San Giovanni di Medua-Durazzo-Valona-Brindisi-Bari-Macedonia-Barletta-Bari.
1° marzo 1937
Nuovamente requisita dalla Regia Marina, viene armata.
1° aprile 1937
Iscritta nel ruolo del naviglio ausiliario dello Stato come incrociatore ausiliario.
19 aprile 1937
Torna ad operare nell’ambito della guerra civile spagnola: nuovamente sotto il falso nome di Lago, si alterna con la gemella Barletta (avente anch’essa un nome fittizio, Rio) in missioni di pattugliamento delle coste mediterranee spagnole e nel Mediterraneo occidentale. Successivamente, issata temporaneamente bandiera spagnola, viene dislocata a Favignana per partecipare al blocco del Canale di Sicilia, fino al 7 settembre 1937. Durante il periodo a Favignana Adriatico e Barletta, con i loro finti nomi spagnoli e bandiere anch’esse spagnole, compiono crociere di ricerca e contrasto al traffico mercantile repubblicano, specie nel Canale di Tunisi e nello Stretto di Messina, punti obbligati di passaggio per le navi provenienti dai porti sovietici in Mar Nero. Per rifornire di nafta i due incrociatori ausiliari, nonché alcune “navi corsare” nazionaliste cui è stato concesso l’uso della base, viene inviata a Favignana la petroliera spagnola Mina Piquera (anche questa sotto falso nome: Ariane).
16 luglio 1937
L’Adriatico, scortato dal cacciatorpediniere Carlo Mirabello, trasporta a Ceuta un contingente di militari italiani inviati in aiuto alle truppe franchiste.
10 novembre 1937
Tornata sotto bandiera italiana, ma ancora requisita, l’Adriatico viene assegnata alla Forza Navale di Tobruk, per il controllo del Mediterraneo centro-orientale.
18 giugno 1938
Dopo essere stata disarmata (nel suo servizio come incrociatore ausiliario non ha colto alcun risultato), inizia la prima di tredici missioni di trasporto da Gaeta a Cadice, con rifornimenti per le forze nazionaliste spagnole.
Marzo 1939
Torna a prestare servizio per la società Adriatica.
6-7 aprile 1939
L’Adriatico partecipa alle operazioni di occupazione dell’Albania, assegnata al II Gruppo Navale, quello principale, incaricato dello sbarco a Durazzo: oltre all’Adriatico, impiegata come trasporto, lo compongono altri cinque mercantili (la gemella Barletta, i piroscafi Aquitania, Palatino, Toscana e Valsavoia), gli incrociatori pesanti Zara, Pola, Fiume e Gorizia, i cacciatorpediniere Vittorio AlfieriAlfredo OrianiVincenzo Gioberti e Giosuè Carducci, le torpediniere Lupo, Lince, Libra e Lira, la nave appoggio idrovolanti Giuseppe Miraglia – carica di carri armati –, la nave officina Quarnaro e le cisterne militari Tirso ed Adige. Il II Gruppo (ammiraglio di divisione Sportiello; truppe da sbarco al comando del generale Guzzoni) deve sbarcare il grosso delle forze, incaricate di conquistare Tirana. Le navi da guerra giungono a Durazzo già nel pomeriggio del 6 aprile, mentre quelle mercantili ed ausiliarie (ossia le navi con le truppe ed i materiali da sbarcare) solo alle 4.50 del 7, con mezz’ora di ritardo a causa della nebbia incontrata. Alle 5.25 ha inizio lo sbarco, che procede pur con qualche inconveniente (ordini di precedenza non rispettati per il ritardo di alcuni trasporti, impossibilità per alcuni di essi di entrare in porto a causa dell’eccessivo pescaggio).
6 aprile 1939
Compie un viaggio straordinario da Trieste a Bari via Venezia, Fiume e Valona.
24 aprile 1939
Terminata l’ultima missione di trasporto truppe d’occupazione da Brindisi a Durazzo, fa ritorno a Napoli.
2 maggio 1939
Torna in servizio civile, sulla linea Adriatico-Soria-Alessandria.
6 giugno 1939
Trasferita sulla linea Bari-Brindisi-Valona-Brindisi-Bari-Brindisi-Porto Edda-Brindisi-Bari, alternata alla linea per la Dalmazia e l’Albania.
29 agosto 1939
Nuovamente requisita, a Venezia, dalla Regia Marina.
5 novembre 1939
Derequisita ed avviata a lavori a Venezia.
14 novembre 1939
Ultimazione dei lavori.
15 novembre 1939
Lascia Venezia diretta a Bari. Verrà impiegata dall’Adriatica sulla linea n. 54 (Adriatico-Pireo-Istanbul).
8-11 aprile 1940
Sottoposta a nuovi lavori, sempre a Venezia.
1° maggio 1940
Durante la neutralità italiana, l’Adriatico viene fermata ed ispezionata da navi britanniche nelle acque territoriali della Turchia.
11 maggio 1940
Requisita dalla Regia Marina a Venezia.
1° giugno 1940
Iscritta nel ruolo del naviglio ausiliario dello Stato come posamine, e dotata di ferroguide per il trasporto e la posa di 90 mine.
10 giugno 1940
All’entrata in guerra dell’Italia, l’Adriatico fa parte del Gruppo Navi Ausiliarie Dipartimentali del Comando Militare Marittimo Sicilia, insieme al gemello Brioni, al posamine Buccari, alla cisterna per nafta Prometeo, alle cisterne per acqua Brenta, Bormida e Verde ed alla nave servizio fari Scilla.
6 giugno-10 luglio 1940
L’Adriatico partecipa alla posa di numerosi campi minati nelle acque della Sicilia: due sbarramenti antisommergibili di 45 mine ciascuno (tipo Elia) al largo di Palermo (insieme alle torpediniere Andromeda ed Aldebaran); due sbarramenti antinave, anch’essi di 45 mine tipo Elia, al largo di Castellammare del Golfo (sempre insieme ad Andromeda ed Aldebaran); due sbarramenti antinave ed uno antisommergibile, tutti di 45 mine tipo Elia o tipo Bollo, a nord di Trapani, uno antinave di 50 mine e due antisommergibile (uno di 45 mine e l’altro di 50) tra Marettimo e Levanzo, e due sbarramenti antisom di 50 mine ciascuno tra Marettimo e Favignana, tutti con mine tipo Elia o tipo Bollo (insieme, di volta in volta, alle torpediniere Andromeda, Alcione, Aldebaran, Aretusa, Airone ed Ariel); tre sbarramenti antinave di 50 mine ciascuno (tipo Bollo) al largo di Porto Empedocle.
1940
Trasformato in incrociatore ausiliario, armato con due cannoni da 120/45 mm e due mitragliere binate da 13,2 mm (ciò secondo il volume dell’USMM sulla difesa del traffico con l’Africa Settentrionale; per altra fonte, invece, l’armamento originario fu di due pezzi da 102/45 mm e quattro mitragliere singole da 13,2 mm, divenuto nel 1941 due pezzi da 100/45 mm, due mitragliere singole da 13,2 mm e due mitragliere singole da 20/65 mm; sarebbero stati presenti anche due scaricabombe per bombe di profondità).
Adibito a compiti di scorta convogli, principalmente lungo le coste italiane e nel Mare Adriatico.
28 luglio 1941
Alle 18.35 il sommergibile britannico Utmost (capitano di corvetta Richard Douglas Cayley) avvista, a 9 miglia per 330° (con rotta stimata 160° e velocità 8 nodi), l’Adriatico ed il piroscafo  Federico, che questi sta scortando da Napoli a Messina, al largo della costa occidentale della Calabria.
Avvicinatosi a soli 640 metri, l’Utmost lancia due siluri contro il Federico, che viene colpito ed affonda immediatamente nel punto 39°28’ N e 15°52’ E. L’Adriatico, dopo aver vanamente contrattaccato con venti bombe di profondità (nessuna delle quali esplode vicina al sommergibile), procede al recupero dei naufraghi; tutti gli uomini del Federico vengono tratti in salvo, tranne uno.
10 agosto 1941
Scorta da Patrasso a Brindisi il piroscafo Zena e la motonave Città di Alessandria, con personale militare che rimpatria.
7 ottobre 1941
Dislocato ad Augusta per scortare i posamine ausiliari (ex traghetti ferroviari) Reggio ed Aspromonte, incaricati di posare tre campi minati antisommergibili a nord dello stretto di Messina. Assieme all’Adriatico, scorterà i due posamine la torpediniera Cigno (capitano di corvetta Nicola Riccardi), avente la direzione dell’operazione.
Le quattro navi salpano da Augusta per la posa dei primi due sbarramenti il 7 ottobre.
8 ottobre 1941
Posa dei primi due sbarramenti. Subito le navi tornano ad Augusta, dove Reggio ed Aspromonte imbarcano le mine del terzo sbarramento.
10 ottobre 1941
Posa del terzo sbarramento, sempre con Adriatico e Cigno come scorta.
14 ottobre 1941
Alle 12.10, mentre l’Adriatico sta scortando la nave cisterna Cassala in navigazione da Napoli a Messina, il fumo prodotto dalle due navi viene avvistato (su rilevamento 350°), in posizione 40°27’ N e 14°21’E (a sud della baia di Napoli), dal sommergibile britannico Unique (tenente di vascello Anthony Foster Collett). Alle 12.36 il sommergibile avvista le due navi, a otto miglia per 335°, mentre stanno cambiando rotta per attraversare la Bocca Piccola. Portatosi in posizione d’attacco, l’Unique lancia quattro siluri da 3200 metri, alle 13.14; le navi italiane, però, avvistano le armi e manovrano di conseguenza: l’Adriatico evita un siluro, la Cassala due, e nessuno di essi va così a segno. La vecchia torpediniera Giuseppe Missori e le unità del III Gruppo Antisom vengono inviate a dare la caccia all’Unique, senza risultato (intanto è sceso in profondità e si è allontanato verso sudest).
23 novembre 1941
L’Adriatico salpa da Reggio Calabria alle 17.30 (17 per altra fonte), diretto a Bengasi; dovrà seguire una rotta che lo tenga ad almeno 190 miglia di distanza da Malta. Prima di partire da Reggio Calabria, il suo armamento è stato rafforzato da due mitragliere da 20 mm del Regio Esercito.
24 novembre 1941
Mentre l’Adriatico è in navigazione, il sommergibile Luigi Settembrini rileva agli idrofoni, a 105 miglia per 125° da Malta, la Forza K britannica – incrociatori leggeri Aurora e Penelope e cacciatorpediniere Lance e Lively – uscita in mare da Malta per intercettare convogli italiani. Supermarina, avvisata dal Settembrini, ordina il dirottamento di tutti i convogli in zona; l’Adriatico, ricevuto l’ordine (che è per esso di rifugiarsi ad Argostoli), dirige per Argostoli.
25 novembre 1941
Arriva ad Argostoli alle dieci del mattino.
A cadere vittima della Forza K sarà il convoglio «Maritza», in navigazione dal Pireo a Bengasi (e che non ha ricevuto l’ordine di dirottamento perché aventi le radio sintonizzate sulla frequenza sbagliata), con l’affondamento dei piroscafi tedeschi Maritza e Procida nonostante la difesa opposta dalle torpediniere di scorta Lupo e Cassiopea.

L’affondamento

Dopo la distruzione del convoglio «Maritza» da parte della Forza K, Supermarina sospese temporaneamente ogni partenza per la Libia, per verificare quali errori avessero permesso tale accadimento. L’offensiva britannica in Nordafrica (operazione «Crusader») era però in pieno svolgimento, ed urgeva l’invio di rifornimenti alle forze italo-tedesche che dovevano affrontarla; per questo motivo, dopo pochi giorni si decise di far proseguire per la Libia tutte le navi che erano state dirottate in porti greci ed italiani il 24 novembre. Tra queste anche l’Adriatico, che era al suo primo viaggio verso la Libia.
L’incrociatore ausiliario, al comando del capitano di corvetta Emanuele Campagnoli, lasciò Argostoli alle 23 del 29 novembre 1941, diretto a Bengasi. A bordo vi erano 98 uomini, tra equipaggio (che comprendeva 33 marittimi della società Adriatica e 40 militari della Regia Marina) e pochi militari del Regio Esercito di passaggio, ed un carico di 366 tonnellate di carburante in fusti per il Regio Esercito, la Regia Aeronautica e l’AGIP.
A protezione dei numerosi convogli in mare tra Italia e Libia (tra il 28 ed il 30 novembre presero il mare quattro convogli, nonché quattro cacciatorpediniere ed un sommergibile in missione di trasporto) fu disposta l’uscita in mare di un consistente gruppo di supporto, che comprendeva la corazzata Duilio, le Divisioni Navali VII (incrociatori leggeri Emanuele Filiberto Duca d’Aosta, Muzio Attendolo e Raimondo Montecuccoli) e VIII (incrociatore leggero Giuseppe Garibaldi) e le Squadriglie Cacciatorpediniere XI e XIII.
Al contempo, il fitto traffico navale italiano nel Mediterraneo centrale non sfuggì né agli avvistamenti da parte di ricognitori e sommergibili britannici (uno di questi ultimi, il Thunderbolt del capitano di corvetta Cecil Bernard Crouch, avvistò proprio l’Adriatico diretto verso sud – in posizione 36°06’ N e 19°19’ E, pur sovrastimandone la stazza in 6000 tsl – il mattino del 30 novembre, ma non riuscì ad avvicinarsi abbastanza da poter attaccare), né alle decrittazioni di “ULTRA”.
Nel mattino del 30 novembre salparono pertanto da Malta la Forza K (capitano di vascello William Gladstone Agnew), formata dagli incrociatori leggeri Aurora (nave di bandiera del comandante Agnew) e Penelope (capitano di vascello Angus Dacres Nicholl) e dal cacciatorpediniere Lively (capitano di corvetta William Frederick Eyre Hussey), e la Forza B (contrammiraglio Rawlings), formata dagli incrociatori leggeri Ajax e Neptune e dai cacciatorpediniere Kingston e Kimberley.
La partenza della Forza B e della Forza K fu notata e segnalata prima dal sommergibile Tricheco e poi da ricognitori della Regia Aeronautica, ma nel pomeriggio del 30 il Garibaldi venne immobilizzato da una grave avaria alle caldaie, e dopo qualche ora – dato che l’incrociatore avariato necessitava della protezione della Duilio, il che avrebbe lasciato in mare la sola VII Divisione, numericamente inferiore alle Forze B e K se queste si fossero riunite – tutto il gruppo di protezione ricevette ordine di rientrare a Taranto.
Ai convogli in mare non rimase che affidarsi alla buona sorte: risorsa scarsissima, da parte italiana, in quell’autunno del 1941.

Il primo giorno di viaggio trascorse, per l’Adriatico, senza particolari problemi; il tempo avverso costringeva a mantenere una velocità leggermente inferiore ai 12 nodi.
Quando il comandante Campagnoli ricevette i segnali di scoperta della Forza B e della Forza K, calcolò che sarebbe passato di prora rispetto ad esse, al di fuori del loro raggio visivo.
A guidare la ricerca della Forza K, però, era un ricognitore Vickers Wellington munito di radar. Questi, nella notte tra il 30 novembre ed il 1° dicembre, rilevò due possibili obiettivi: uno era il convoglio formato dalla moderna motonave Sebastiano Venier e dal cacciatorpediniere Giovanni Da Verrazzano; l’altro era l’Adriatico.
Inizialmente la formazione del capitano di vascello Agnew cercò il convoglio formato da Venier e Da Verrazzano, di maggiore importanza; non riuscendo però a trovarlo (era stato dirottato proprio per evitare un incontro con la Forza K), dopo qualche ora il comandante britannico si mise invece sulle tracce dell’Adriatico, pedinato continuamente dal Wellington.
L’aereo britannico aveva comunicato per la prima volta l’avvistamento alle 00.52 del 1° dicembre: riferì ad Agnew di essere in vista di una nave mercantile, a 30 miglia per 120° dalla posizione occupata in quel momento dall’Aurora. Più o meno a quell’ora – l’una di notte – l’Adriatico (che alle 22.30 del 30 novembre aveva intercettato un marconigramma del Da Verrazzano, con cui questi riferiva della presenza di un ricognitore sul proprio cielo) avvistò a sua volta l’aereo britannico, lontano, verso est. Poco dopo il velivolo si dileguò nell’oscurità, e la nave italiana non lo vide più.
Un’ora dopo, il Wellington aggiornò sulla situazione, comunicando la nuova posizione dell’Adriatico rispetto alla nave di bandiera di Agnew.
Seguendo le indicazioni del Wellington, l’Aurora avvistò l’Adriatico alle 2.25 del 1° dicembre. La notte era chiara, illuminata dalla luna; la nave italiana si trovava di prora a quelle britanniche, ad una distanza di dodici miglia.
Come spesso fecero in altri casi del genere, i britannici non attaccarono subito, ma manovrarono invece per ridurre le distanze e portarsi contro luna, in modo da attaccare nella posizione più favorevole per colpire con rapidità e sicurezza: Agnew intendeva ridurre le distanze a 5500 metri.
Quando la Forza K (più precisamente, il solo Aurora) aprì infine il fuoco, alle 3.04, da 5030 metri di distanza, la prima salva da 152 mm cadde corta. Agnew fece segnalare all'Adriatico l'intimazione di abbandonare la nave, ma l’incrociatore ausiliario non se ne avvide, e proseguì sulla sua rotta. Allora l’Aurora sparò una seconda salva: questa volta raggiunse il bersaglio, centrando il cannone poppiero da 120 mm dell’Adriatico e rendendolo inservibile. Il comandante Campagnoli fece lanciare subito il segnale di scoperta; poco dopo avvistò, circa 4 km a poppavia del traverso a sinistra, una nave mimetizzata. L’Adriatico si trovava tra la Forza K e la luna – che ne evidenziava così la sagoma, rendendolo un bersaglio perfetto – ed ad una cinquantina di miglia per 350° da Bengasi.
Dopo le prime due salve, l’Aurora cessò il fuoco ed intimò di nuovo – con segnalazione ottica – all’equipaggio dell’Adriatico di abbandonare la nave, per evitare un inutile spargimento di sangue. Il comandante Campagnoli, però, non vide i segnali effettuati dalla nave britannica, ed ordinò invece di aprire il fuoco: essendo la sua una nave militare, per quanto scarsamente armata, riteneva suo dovere rispondere al fuoco, anche se assalito da una forza nemica preponderante.
Erano le 3.15. Dato che il cannone di poppa era stato messo subito fuori uso, sparò solo quello di prua; dopo che questo ebbe sparato due colpi, però, l’Adriatico venne raggiunto da un’altra salva nemica da 152 mm, che incendiò la stiva poppiera e la sala macchine.
Qua e là in coperta si scatenarono degli incendi; alte fiamme salivano anche dalla sala macchine, attraverso gli osteriggi, e poco dopo le macchine stesse si fermarono. A poppa, le munizioni delle riservette detonavano in continui scoppi.
La Forza K cessò di nuovo il fuoco, e questa volta fu Campagnoli ad ordinare spontaneamente di abbandonare la nave: immobilizzato ed in fiamme, con un cannone fuori uso, l’Adriatico non era più in condizione di combattere.
Mentre l’equipaggio calava le imbarcazioni come ordinato, rimasero a bordo il comandante Campagnoli, il comandante in seconda, tenente di vascello Massardo, il direttore di macchina, capitano del Genio Navale Millin, ed il capo cannoniere Benvenuti.
L’archivio segreto, già chiuso parte in una cassa di ferro e parte in un sacco appesantito, venne gettato in acqua; le cartelle e le carte in plancia furono buttate nelle fiamme che divampavano furiose a bordo. Campagnoli ordinò al capo cannoniere Benvenuti di buttare in mare un salvagente anulare, che era rimasto a prua.
Ormai l’Adriatico era in fiamme da poppa fino al locale di prima classe, che il fumo aveva riempito; le riservette di munizioni in coperta continuavano ad esplodere.
Il comandante Campangoli fu l’ultimo ad abbandonare la nave, scendendo su una delle scialuppe; poco dopo, alle quattro del mattino del 1° dicembre, l’Adriatico esplose ed affondò nel punto 32°52’ N e 20°35’ E, 56 miglia a nord di Bengasi.

La maggior parte dell’equipaggio si era imbarcata sulle lance, ma altri uomini si erano gettati in mare con indosso solo i salvagente, e galleggiavano aggrappati a rottami, od a bordo di alcuni zatterini.
Sopraggiunse il Lively (che Agnew aveva distaccato per finire l’Adriatico alle 3.40, mentre Aurora e Penelope si erano allontanati per non trovarsi nel raggio operativo degli aerei dell’Asse con il sorgere del sole), che passò tra i naufraghi offrendosi di recuperare tutti: gli occupanti delle lance, però, rifiutarono recisamente il salvataggio, per non essere fatti prigionieri. Ventuno uomini (due ufficiali e 19 tra sottufficiali e marinai), che si trovavano in acqua senza alcun sostegno, accettarono invece di essere salvati, e furono così recuperati dal Lively, che si allontanò poi dalla zona dello scontro insieme al resto della Forza K (prima di rientrare a Malta, le navi britanniche intercettarono ed affondarono anche la nave cisterna Iridio Mantovani ed il cacciatorpediniere Alvise Da Mosto, che la scortava).
A soccorrere i superstiti furono mandate la nave ospedale Aquileia ed il cacciatorpediniere Giovanni Da Verrazzano, salpato da Bengasi il mattino del 1° dicembre; per tutta la mattina il luogo dell’affondamento dell’Adriatico fu sorvolato da idrovolanti CANT Z. 501 e CANT Z. 506, con il duplice compito di assistere nella ricerca dei naufraghi e di fornire scorta antisommergibile al Da Verrazzano.
Giunto sul posto, il cacciatorpediniere recuperò altri 66 sopravvissuti. In tutto undici uomini, tra membri dell’equipaggio e militari di passaggio dell’Esercito, risultarono morti (tre) o dispersi (otto). Per altra fonte, invece, il numero totale di imbarcati era di 96 uomini, dei quali 9 morirono e 87 sopravvissero (21 recuperati dal Lively e 66 dal Da Verrazzano).

I caduti tra l’equipaggio dell’Adriatico:

Salvatore Cavallaro, marinaio, disperso
Giuseppe Cicognani, marinaio fuochista, disperso
Domenico Covacich, sottocapo furiere, disperso
Attilio Di Costanzo, marinaio cannoniere, disperso
Goriano Fulceri, sergente radiotelegrafista, deceduto
Luigi Germani, sottocapo cannoniere, disperso
Giorgio Maraspin, capo elettricista di prima classe, deceduto
Giovanni Sannino, secondo capo meccanico, deceduto
Fabrizio Santucci, marinaio radiotelegrafista, disperso
 

La nave in una cartolina ufficiale della società Adriatica (g.c. Nedo B. Gonzales via www.naviearmatori.net


sabato 16 gennaio 2016

Aquila

La nave sotto bandiera francese, con il precedente nome di Algérie (da www.pages14-18.mesdiscussions.net

Piroscafo da carico da 3386 tsl, 2151 tsn e 4920 tpl, lungo 100,9 metri, largo 14,2 e pescante 6,4, con velocità di 10,5 nodi.
Ex Algérie, era un altro dei tanti mercantili francesi catturati dalle forze dell’Asse nel novembre 1942 (con l’occupazione della Francia di Vichy in risposta agli sbarchi Alleati nel Nordafrica francese) e posti in servizio sotto bandiera italiana o tedesca.

Breve e parziale cronologia.

25 giugno 1910
Varato come Algérie negli Ateliers et Chantiers de France di Dunkerque (numero di cantiere 70).
Luglio 1910
Completato per la Compagnie des Bateaux à Vapeur du Nord, con sede a Dunkerque.
8 agosto 1917
Mentre è in navigazione in zavorra da Calais a Cardiff, l’Algérie viene attaccato e danneggiato dal sommergibile tedesco UB 31 (tenente di vascello Thomas Bieber), due miglia a sudovest di Portland Bill. Nell’attacco perdono la vita due membri dell’equipaggio, i marinai Pierre Marie Liard e Louis Étienne Grenet (poi sepolti nello Strangers Cemetery di Portland).
Alla fine della prima guerra mondiale, l’Algérie sarà uno dei soli quattro superstiti su 19 piroscafi che componevano la flotta della Compagnie des Bateaux à Vapeur du Nord.
4 novembre 1939
Parte da Casablanca con il convoglio «23. KS» (composto in tutto da 11 piroscafi francesi, 4 britannici ed uno jugoslavo, senza scorta).
10 novembre 1939
Giunge a Brest con il convoglio «23. KS».
20 novembre 1939
Salpa da Southend insieme al convoglio «OA. 38» (formato in tutto da 13 piroscafi britannici e 2 francesi, con la scorta dei cacciatorpediniere britannici Witch e Wren).
23 novembre 1939
Il convoglio viene disperso ed i singoli mercantili proseguono verso le rispettive destinazioni.
3 dicembre 1939
Parte da Liverpool con un carico di carbone.
5 dicembre 1939
Forma con altre navi il convoglio «OG. 9» (26 piroscafi britannici ed uno norvegese, oltre all’Algérie, scortati dal cacciatorpediniere britannico Volunteer e dallo sloop Deptford). Successivamente si separa dal convoglio e raggiunge Casablanca.
24 dicembre 1939
Parte da Casablanca con il convoglio «KS. 43» (7 piroscafi francesi, 5 britannici ed un belga, privi di scorta).
30 dicembre 1939
Arriva a Brest con il convoglio «KS. 43».
17 gennaio 1940
Lascia Brest con il convoglio «21. BS» (14 mercantili francesi e due britannici, scortati dall’avviso francese Elan e dai pescherecci armati Minerva, L’Ajaccienne e La Toulonnaise).
23 gennaio 1940
Arriva a Casablanca con il convoglio «KS. 43».
16 marzo 1940
Parte da Casablanca insieme al convoglio «76. KS» (oltre all’Algérie, i piroscafi francesi Cap El Hank, Marcel Schiaffino ed Ophelie, il greco Mount Prionas ed il britannico Paul Emile Javary, senza scorta).
22 marzo 1940
Arriva a Brest con il convoglio «76. KS».
7 aprile 1940
Salpa da Le Verdon insieme al convoglio «46. XS» (5 mercantili francesi, uno britannico ed uno norvegese, scortati dall’avviso Elan e dal peschereccio armato Président Houduce, ambedue francesi).
13 aprile 1940
Arriva a Casablanca con il con il convoglio «46. XS».
1° maggio 1940
Parte da Casablanca con il convoglio «KS. 92» (16 mercantili francesi, 6 britannici, uno greco ed uno polacco, senza scorta) e raggiunge Brest.
12 giugno 1940
Parte da Brest insieme al convoglio «49. B» (5 mercantili francesi, 4 britannici, uno norvegese ed uno olandese, scortati dall’avviso francese La Batailleuse e dal peschereccio armato, pure francese, Terre-Neuve).
19 giugno 1940
Giunge a Casablanca con il convoglio «49. B».
Estate 1942
Al servizio della Francia di Vichy, salpa da Algeri trasportando 2460 tonnellate di manganese per le forze dell’Asse, nascoste sotto un carico di pesce e verdura.
Dicembre 1942
A seguito degli accordi Laval-Kaufmann per la cessione all’Asse di 159 navi mercantili francesi presenti nei porti della Francia mediterranea e del Nordafrica francese, l’Algérie, consegnato al governo italiano e ribattezzato Aquila, entra in servizio sotto bandiera italiana, senza essere requisito dalla Regia Marina (né tanto meno iscritto nel ruolo del naviglio ausiliario dello Stato).

Incaglio

Come tanti altri piroscafi ex francesi, l’Aquila ebbe vita brevissima sulle rotte del Canale di Sicilia: il suo primo viaggio per la Tunisia fu anche l’ultimo. Ma non furono i sempre più agguerriti nemici a porre fine alla sua storia, quanto un catastrofico incidente.
Alle 18 del 29 marzo 1943, infatti, l’Aquila salpò da Napoli insieme ai piroscafi Giacomo C. (italiano) e Charles Le Borgne (tedesco) ed alla nave cisterna Bivona. Solo il Giacomo C. apparteneva alla flotta mercantile italiana d’anteguerra: le altre navi erano, al pari dell’Aquila, mercantili ex francesi. Il carico dell’Aquila consisteva in automezzi, bombe d’aereo e munizioni.
Il convoglio, diretto a Biserta e denominato «SS», era scortato dal cacciatorpediniere Lubiana (capitano di fregata Luigi Caneschi, caposcorta), altra unità di provenienza estera (ex jugoslavo), dalla moderna torpediniera di scorta Tifone (capitano di corvetta Stefano Baccarini), dalla vetusta torpediniera Giuseppe Dezza (tenente di vascello Aldo Cecchi) e da due cacciasommergibili tedeschi, l’UJ 2205 e l’UJ 2208 (questi ultimi due posizionati in retroguardia).
Alle 19 le navi furono in franchia ed ebbe inizio la navigazione.
Raggiunto e superato alle dieci del mattino del 30 dal convoglio «GG», anch’esso composto da piroscafi ex francesi (Nuoro, Crema e Benevento, tutti affondati prima di giungere a destinazione), il convoglio «SS» non ebbe una navigazione fortunata. Dopo neanche ventiquattr’ore di navigazione, infatti, cominciò a perdere pezzi: alle 17.50 del 30 marzo il Giacomo C., troppo lento per proseguire insieme alle altre navi, dovette essere dirottato su Palermo. La Dezza fu distaccata per scortarlo (le due navi giunsero nel porto siciliano alle due di notte del 31).
Il resto del convoglio proseguì nella navigazione, che non fu molestata, cosa quasi incredibile in quel tormentato periodo, da alcun attacco angloamericano. La velocità dei mercantili era esasperantemente bassa, solo sette nodi, ed il mare burrascoso causò forti ritardi che fecero sì che il convoglio doppiasse Capo Bon solo dopo che fu calato il buio.
Atterrate a Ras Mustafà, le sette navi si disposero in linea di fila, su ordine del caposcorta, e proseguirono lungo la costa tunisina (tenendosi molti vicine alla costa, per il pericolo costituito dai campi minati), ma alle 20.45 del 31 marzo, subito dopo che il convoglio aveva superato Capo Bon, il caposcorta Caneschi ordinò di passare in linea di fronte nel seguente ordine, dal largo verso la costa: un cacciasommergibili tedesco, la Bivona, il Le Borgne, l’Aquila ed infine l’altro cacciasommergibili. La Tifone doveva posizionarsi a proravia della Bivona, mentre il Lubiana avrebbe preceduto tutto il convoglio, trovandosi a 2 km per 40° dalla prora sinistra della Tifone (verso terra).
Il tempo non era dei migliori: soffiava un vento fresco da nordovest, in aumento, e la visibilità era scarsa. Ciononostante, comunque, risultava visibile il fanale di Zembretta, l’unico in zona che fosse acceso; il Lubiana cercò di regolare la navigazione con rilevamenti successivi di questo fanale, ma alle 21.42 il cacciatorpediniere s’incagliò all’improvviso presso Ras Ahmer, otto miglia ad ovest di Capo Bon.
Il sinistro era già grave di per sé, ma il peggio fu che i danni subiti fecero mancare la corrente a bordo del Lubiana: così, il caposcorta non poté contattare il convoglio che lo seguiva per avvertirlo del pericolo. Intanto, il vento spirava sempre più forte ed il mare diveniva sempre più burrascoso, peggiorando la situazione.
Solo quando la Tifone passò a portata di voce dalla nave incagliata, Caneschi poté dirle col megafono di accostare a dritta; la torpediniera fece in tempo a fermare anche la Bivona, che la seguì nell’accostata (di 20° a dritta) ed evitò l’incaglio, ma gli altri due piroscafi non risposero alle chiamate che la Tifone effettuava col fanale di segnalazione (Baccarini pensò anche di sparar col cannone poppiero per far capir loro che dovevano allargare, ma alla fine decise di non farlo per non aumentare la confusione), e proseguirono verso la loro rovina.
Il Charles Le Borgne, non capendo quello che Caneschi gli gridava al megafono, s’incagliò circa ottanta metri a dritta del Lubiana; l’Aquila, che lo seguiva nella scia, manovrò per evitare il piroscafo tedesco, ma non ci riuscì e lo speronò a poppa, sul lato sinistro.
Tifone e Bivona, che avevano perso di vista le altre navi nel buio della notte, ridussero la velocità al minimo per aspettarle; alle 22.30 l’Aquila, che aveva almeno evitato l’incaglio, riuscì faticosamente a raggiungere le altre due navi. Arrancava, visibilmente appruato, e la Tifone gli chiese cosa fosse successo, ma non ebbe risposta. A quel punto il comandante della torpediniera, non volendo sostare ancora in acque pericolose, riprese la navigazione verso Biserta senza attendere il Le Borgne (attesa d’altra parte inutile, visto che si era incagliato; di questo, però, Baccarini era all’oscuro).
Il viaggio dell’Aquila, che nella collisione con il Le Borgne – benché questa non fosse stata violenta – aveva riportato uno squarcio a prua, era però giunto al capolinea: il piroscafo imbarcava molta acqua e, per non affondare, dovette portarsi all’incaglio presso Capo Zebib (dove si trovava incagliato anche il piroscafo Benevento del convoglio «GG», danneggiato da motosiluranti poche ore prima) poco dopo le otto del mattino del 1° aprile. La Tifone distaccò uno dei cacciasommergibili tedeschi per assisterlo, poi proseguì per Biserta con la Bivona.
Il sottocapo Alberto Ferrari della Tifone ricordò poi: «Per fortuna il Bivona ci seguiva a vista: le petroliere erano sempre state il nostro debole… Dovevamo attardarci per cercare gli altri (…) finalmente, avvistammo l’Aquila tutto appruato. Il comandante Baccarini pensò che, se quella era in simili condizioni, il Le Borgne non doveva essere da meno. L’Aquila non rispose ai nostri segnali: non sapevamo cosa fosse accaduto: mina, siluro, sinistro a bordo? Ci passò accanto un CSMG [cacciasommergibili, nda; uno dei due UJ tedeschi] (…) Il nostro comandante gli ordinò di assistere l’Aquila e rintracciare l’altro suo collega, se era ancora a galla. (…) L’Aquila arrancava penosamente finché, esausta, andò anch’essa ad arenarsi presso Capo Zebib.»
Non vi furono perdite tra l’equipaggio dell’Aquila.

L’Aquila ed il Benevento, essendo entrambi incagliati a Capo Zebib, alle 16.09 del 4 aprile vennero anche attaccati da aerei: mentre il Benevento fu colpito a prua da alcune bombe, l’Aquila venne mancato. I successivi tentativi di disincagliare la nave, tuttavia, fallirono, ed alla fine l’Aquila – al pari del Benevento – dovette essere abbandonato dov’era (fu ufficialmente considerato perduto il 9 maggio 1943, data dell’occupazione nemica dell’area di Zebib). Parte dei carichi dell’Aquila e del Benevento poté essere recuperata dopo che il mare si fu calmato, ma l’11 aprile, durante le operazioni di trasbordo, andarono perduti per maltempo ben quattro pontoni semoventi (Siebelfähre) tedeschi (SF 211, SF 212, SF 218 e SF 221).
Anche Lubiana e Le Borgne, che non poterono essere più disincagliati, dovettero essere abbandonati sul posto e considerati perduti.
Merita menzione il fatto che i movimenti del convoglio «SS» non sfuggirono affatto a “ULTRA”: i decrittatori britannici svelarono il programma di viaggio del convoglio e ne seguirono le vicende con continuità dal 29 al 31 marzo, ma il disastro colpì prima delle loro forze aeronavali.


mercoledì 13 gennaio 2016

MAS 552

Il MAS 552 (da www.navyworld.ru

Motoscafo armato silurante della classe MAS 551 (dislocamento di 22 tonnellate, lunghezza 18,70 metri e larghezza 4,60, velocità 41-43 nodi, armati con due tubi lanciasiluri da 450 mm, una mitragliera da 20/65 mm e tramogge per 6 bombe torpedini da getto).

Breve e parziale cronologia.

16 novembre 1940
Impostazione nei Cantieri Riuniti dell’Adriatico di Monfalcone (numero di costruzione 1258).
20 aprile 1941
Varo nei Cantieri Riuniti dell’Adriatico di Monfalcone.
1° giugno 1941
Entrata in servizio.
11 agosto 1942
Il MAS 552 (sottotenente di vascello Rolando Perasso), insieme al resto della XX Squadriglia MAS di cui fa parte (MAS 554, MAS 557, MAS 564), alle Squadriglie MAS XV (MAS 543, 548, 549 e 563) e XVIII (MAS 533, 553, 556, 560 e 562), alla II Flottiglia Motosiluranti (MS 16, MS 22, MS 23, MS 25, MS 26 e MS 31) ed alla 3. Schnellboot-Flotille tedesca (motosiluranti S 30, S 36, S 58 e S 59), viene inviato nel Canale di Sicilia per tendere un agguato al grande convoglio britannico diretto a Malta nell’ambito dell’operazione «Pedestal», consistente nell’invio di un convoglio di 14 mercantili (le navi da carico Almeria Lykes, Melbourne Star, Brisbane Star, Clan Ferguson, Dorset, Deucalion, Wairangi, Waimarama, Glenorchy, Port Chalmers, Empire Hope, Rochester Castle e Santa Elisa e la nave cisterna Ohio) con forte scorta – quattro incrociatori leggeri (Nigeria, Kenya, Cairo e Manchester) e dodici cacciatorpediniere (Ashanti, Intrepid, Icarus, Foresight, Derwent, Fury, Bramham, Bicester, Wilton, Ledbury, Penn e Pathfinder) per la scorta lungo tutto il tragitto, e ben quattro portaerei (Eagle, Furious, Indomitable e Victorious), due corazzate (Rodney e Nelson), tre incrociatori leggeri (Sirius, Phoebe e Charybdis) e dodici cacciatorpediniere (Laforey, Lightning, Lookout, Tartar, Quentin, Somali, Eskimo, Wishart, Zetland, Ithuriel, Antelope e Vantsittart) come ulteriore scorta nella prima metà del viaggio (fino all’imbocco del Canale di Sicilia) – nel tentativo di rifornire Malta, particolarmente alle strette dopo la battaglia di Mezzo Giugno, che ha impedito a quasi tutti i rifornimenti di altri due convogli di raggiungere l’isola assediata.
La XX Squadriglia MAS (tenente di vascello Carlo Paolizza), con il MAS 552, salpa da Pantelleria e raggiunge una zona individuata dai meridiani 11°30’ E e 11°40’ E e dai meridiani 36°24’ N e 36°39’ N, a sud dell’isola ma leggermente più ad est della XVIII Squadriglia. L’ordine è di agire con il massimo spirito offensivo: così sarà.
L’invio dei MAS e delle motosiluranti nel Canale di Sicilia – e precisamente al largo della costa tunisina – fa parte di un vasto dispositivo offensivo predisposto dai comandi italiani: nel Mediterraneo occidentale e centro-occidentale, il convoglio sarà sottoposto ad una serie di attacchi di sommergibili, quindi, giunto nel Canale di Sicilia e superato Capo Bon (col favore della notte), di MAS e motosiluranti italiane e tedesche, oltre che di incessanti attacchi di bombardieri ed aerosiluranti (in tutto, ben 784 velivoli), sia della Regia Aeronautica che della Luftwaffe, sino all’arrivo a Malta. È anche previsto l’intervento (poi abortito) di due divisioni di incrociatori (la III e la VII) per finire quanto rimanesse del convoglio decimato dai precedenti attacchi aerei, subacquei e di mezzi insidiosi. Si svolgerà così la battaglia di Mezzo Agosto, la più grande battaglia aeronavale della guerra del Mediterraneo.
Alle 22 dell’11 agosto il MAS 552 ed il MAS 553, a 6 miglia per 154°da Capo Bon, s’imbattono nel cacciatorpediniere Lanzerotto Malocello, inviato a posare mine nel Canale di Sicilia come ulteriore accorgimento contro «Pedestal»; il MAS 552 lo informa della presenza e posizione del convoglio.
13 agosto 1942
Nelle prime ore della notte, come previsto, scatta l’attacco dei mezzi insidiosi, che, grazie alle condizioni ottimali per una attacco del genere – convoglio frammentato, mare non molto mosso, scarsa visibilità – mietono numerose vittime tra le navi del convoglio, già indebolito e disperso dai precedenti attacchi aerei e subacquei. Dopo aver subito un primo attacco di MAS e motosiluranti, con gravi conseguenze, le navi britanniche entrano nella zona d’agguato della XX Squadriglia MAS e di due motosiluranti tedesche.
Il MAS 552, avvicinatosi al convoglio seguendo i bagliori delle navi incendiate verso Capo Bon, e poi individuando le navi con ascolto idrofonico, attacca per primo alle 3.10, in posizione 36°30’ N e 11°12’ E: benché preso sotto il violento tiro dell’incrociatore leggero Kenya (che si trova a proravia dei mercantili), unico ancora efficiente dei quattro incrociatori che scortavano il convoglio (altri due, Cairo e Manchester, sono stati affondati; il terzo, il Nigeria, si è ritirato con danni gravissimi), il MAS si avvicina rapidamente ad una nave mercantile che il comandante Perasso valuta in 18.000 tsl (sovrastima: le navi del convoglio hanno tutte stazza compresa tra le 7000 e le 13.000 tsl), scortata da un cacciatorpediniere, e le lancia contro i suoi siluri; la nave, colpita, si ferma, mentre il MAS 552 inverte la rotta e si disimpegna rapidamente senza danni.
Nella confusione dei molteplici attacchi notturni, non c’è concordanza su quale nave sia stata silurata dal MAS 552: secondo alcune fonti sarebbe stata – alle 3 di notte, insieme al MAS 554 – la motonave Wairangi (12.400 tsl), colpita da due siluri sul lato sinistro e poi autoaffondata per disposizione del suo comandante, capitano Richard Gordon; per altre, invece, il MAS 552 avrebbe silurato e danneggiato la motonave Brisbane Star (12.791 tsl), una delle poche a raggiungere Malta nonostante i gravi danni; per altre ancora, avrebbe silurato e danneggiato la motonave Rochester Castle di 7795 tsl (che raggiunse Malta e qui affondò per i danni subiti, ma dopo aver sbarcato il carico) e sarebbe poi sfuggito alla violenza reazione del tiro avversario; secondo Peter C. Smith, autore del libro “Pedestal: The Malta Convoy of August 1942”, il MAS 552 ed il MAS 554 avrebbero attaccato contemporaneamente la motonave statunitense Almeria Lykes (7773 tsl) ed uno dei due avrebbe colpito.
La versione che comunque sembra la più accettata dagli storici (tra cui Francesco Mattesini e Giorgio Giorgerini) è che il MAS 552 abbia attaccato il gruppo di testa del convoglio, formato dai mercantili Wairangi e Santa Elisa; avvicinatosi a 400 metri, il MAS 552 avrebbe colpito il Wairangi alle 3.11 con un siluro a poppa dritta (tra la sala macchine e la stiva numero 3), provocandone l’arresto ed immobilizzazione (allagamento in sala macchine, oltre che nella stiva numero 3). Il Wairangi sbandò leggermente sulla sinistra; l’equipaggio tentò inutilmente di rimettere in moto, mentre le pompe si dimostravano insufficienti ad espellere l’acqua che si riversava all’interno attraverso una falla. Poco dopo anche il MAS 554 attaccò, e colpì il mercantile con un altro siluro. Il Wairangi lanciò l’SOS alle 4.10, dopo di che l’equipaggio lo abbandonò, attivando delle cariche esplosive per accelerarne l’autoaffondamento; la nave affondò poco dopo in posizione 36°25’ N e 11°22’ E (l’equipaggio venne recuperato al completo dal cacciatorpediniere Eskimo).
7 marzo 1943
Il MAS 552 salpa da Biserta insieme al MAS 554 ed alle motosiluranti MS 13 e MS 21, per raggiungere la torpediniera scorta Ciclone, che ha urtato delle mine e si trova immobilizzata e gravemente danneggiata al largo di Biserta. Le quattro piccole unità raggiungono la Ciclone verso le 18; grazie al loro ridottissimo pescaggio, che riduce di molto il pericolo delle mine (che ha invece impedito alle torpediniere Groppo e Cigno di prestare soccorso alla Ciclone, dato che sarebbero finite anch’esse sulle mine), i MAS e le motosiluranti possono raggiungere i naufraghi (non solo della Ciclone ma anche dei piroscafi tedeschi Henry Estier e Balzac, appartenenti allo stesso convoglio ed affondati anch’essi, l’uno su mine e l’altro da aerei) sulle zattere e sulle lance, prendere a bordo i primi e prendere a rimorchio le seconde. Mentre il MAS 554 rimane sul posto con il comandante della Ciclone ed altri dieci uomini, in attesa che giungano mezzi per il rimorchio della torpediniera (che affonderà il mattino successivo dopo un vano tentativo di rimorchiarla verso la salvezza), il MAS 552 e le due motosiluranti rientrano a Biserta, dove sbarcano i naufraghi alle 23.30. Della Ciclone vengono tratti in salvo 143 uomini, su un totale di 157 che ne componevano l’equipaggio.

L’affondamento

Il MAS 552 fu una delle ultime, dimenticate vittime della battaglia dei convogli per la Tunisia.
Il 30 aprile 1943, mentre la guerra in Tunisia stava per volgere al termine, salparono dall’Italia diretti in Nordafrica tre cacciatorpediniere in missione di trasporto, i primi due con truppe a bordo, il terzo con munizioni: il Leone Pancaldo, l’Hermes ed il Lampo (quest’ultimo in navigazione isolata, mentre Hermes e Pancaldo procedevano insieme).
Per tutta la mattinata, i tre cacciatorpediniere vennero sottoposto ad intensi e reiterati attacchi aerei Alleati, e alla fine vennero sopraffatti. Il Pancaldo, centrato da diverse bombe, affondò alle 12.30 a due miglia per 29° da Capo Bon, con la perdita di 199 dei 527 uomini a bordo (tra equipaggio italiano e truppe tedesche); l’Hermes, danneggiato gravemente, riuscì a trascinarsi fino a Tunisi con a bordo decine di vittime e feriti. Il Lampo sarebbe stato anch’esso affondato qualche ora dopo.
Durante gli attacchi aerei, il MAS 552 si trovava a Biserta. Quando il locale Comando Marina venne a sapere di quel che stava accadendo ad Hermes e Pancaldo, diede ordine che alcune piccole unità prendessero il mare per assistere il Pancaldo, che si trovava in condizioni particolarmente critiche; tra questi anche il MAS 552 (sottotenente di vascello Giorgio Bettini), che lasciò Biserta poco dopo le 13 insieme alla motosilurante MS 25 (sottotenente di vascello Antonio Scialdone). Quando si seppe che il Pancaldo era affondato, lo scopo della missione divenne il salvataggio dei naufraghi.
L’aviazione nemica, però, non era disposta a consentirlo. Verso le 15.30 il MAS 552 e la MS 25, mentre erano ancora in navigazione verso il luogo dell’affondamento (si trovavano in quel momento 3 miglia a nord di Zembra), vennero assaliti da ben 22 cacciabombardieri Curtiss P-40 “Kittyhawk” del 2nd e 5th Squadron della South African Air Force, i quali effettuarono numerosi attacchi mitragliando e bombardando con spezzoni le due minuscole unità. Il MAS e la MS attivarono i nebbiogeni, tentando di coprirsi vicendevolmente, ma non servì a nulla; pur difendendosi accanitamente, e riuscendo ad abbattere uno degli aerei attaccanti (secondo una versione, quello del comandante della formazione sudafricana), ebbero alla fine la peggio: il MAS 552 venne centrato da parecchi colpi di mitragliera ed alcuni spezzoni, che causarono gravi danni e dei principi d’incendio, ed affondò poco dopo tre miglia nord di Zembra. La MS 25, gravemente danneggiata, recuperò i superstiti del MAS 552 e fu poi portata ad incagliare a Zembra, dove andò perduta. Otto membri dell’equipaggio del MAS 552 persero la vita.

I caduti del MAS 552:

Giuseppe Cavelli, marinaio cannoniere, deceduto
Armildo Greco, marinaio, deceduto
Francesco Mescolini, sottocapo radiotelegrafista, deceduto
Giovanni Pesca, sottocapo silurista, disperso
Donato Potenza, sottocapo segnalatore, disperso
Bruno Rosettin, marinaio silurista, disperso
Mario Severi, sottocapo motorista, disperso
Marcello Tornaboni, sottocapo motorista, deceduto
 

Il MAS 552, a destra, con i gemelli 553 e 554 della XX Squadriglia MAS (foto USMM, via Marcello Risolo e www.naviearmatori.net