lunedì 8 febbraio 2016

Zeila

La nave con l’originario nome di Haliotis (da www.helderline.nl

Piroscafo cisterna da 1833,50 tsl e 1130 tsn, lungo 75,79 metri, largo 12,23 e pescante 5,90, con velocità di 9 nodi. Appartenente all’Azienda Generale Italiana Petroli (AGIP) con sede a Roma ed iscritto con matricola 1187 al Compartimento Marittimo di Genova; nominativo di chiamata IBHD.

Costruita come Haliotis per una controllata della Shell, questa nave e la gemella Trigonia furono le prime navi della flotta Shell ad essere propulse da macchine le cui caldaie potevano bruciare sia carbone che nafta (anziché solo carbone, come fino a quel momento), ed erano state appositamente ordinate da Marcus Samuel, il fondatore della Shell Transport and Trading Company. Le prestazioni di Haliotis e Trigonia destarono l’attenzione dell’Ammiragliato britannico; in seguito ai buoni risultati ottenuti, tutte le navi della flotta Shell furono convertite alla propulsione mista carbone-nafta e poi, nel giro di pochi anni, alla sola nafta. Di lì a poco anche la Royal Navy, sulla scorta di queste esperienze, decise di abbandonare l’alimentazione a carbone delle proprie navi per passare alla nafta.

Breve e parziale cronologia.

22 febbraio 1898
Varata dai cantieri Armstrong W. G. & Whitworth Co. Ltd. di Low Walker (Newcastle-upon-Tyne) come Haliotis (numero di cantiere 678).
Settembre 1898
Completata per la Anglo-Saxon Petroleum Company Ltd. di Londra, una controllata della Shell Transport and Trading Company (altra fonte indica invece la Shell Transport and Trading Company di Londra nella compagnia proprietaria; in gestione a Marcus Samuel & Co. di Londra). Ha una gemella, la Trigonia. Stazza lorda e netta originarie sono 1659 tsl e 1046 tsn. Bandiera britannica (dal 1901 olandese e porto di registrazione Batavia).
1901 o 1902
Trasferita alla Nederlandsch-Indische Industrie & Handels Maatschappij (avente sede a Balikpapan), anch’essa controllata della Shell. Registrata a Batavia, bandiera delle Indie olandesi, nominativo di chiamata TDNQ (poi TDNG). Stazza lorda e netta risultano essere 1739 tsl e 1070 tsn.
Maggio 1904 (per altra fonte, 1906 o luglio 1907)
Trasferita alla Nederlandsch-Indische Tankstoomboot Maatschappij, un’altra controllata della Shell (creata per gestire parte della sua flotta), con sede a Batavia.
1908 o 1910
Data in gestione alla Anglo-Saxon Oil Company (la compagnia proprietaria rimane la Nederlandsch-Indische Tankstoomboot Maatschappij).
1913
Torna sotto la gestione della Nederlandsch-Indische Tankstoomboot Maatschappij.
1922-1923
Essendo ormai vecchia, viene posta in disarmo ed utilizzata come deposito statico di carburante prima di demolirla, ma si decide poi di rivenderla.
7 novembre 1923
Acquistata dalla Nafta Società Italiana pel Petrolio ed Affini (un’altra controllata della Shell), con sede a Genova, e ribattezzata Nafta (nominativo di chiamata IBHD).
Aprile 1924
Il nome viene mutato in Aureola.
1940
Appartenendo ad una ramificazione italiana di una compagnia avente sede in un Paese nemico (la Shell), l’Aureola viene trasferita all’AGIP e ribattezzata Zeila. Le notizie su questo cambio di nome e proprietà, e sulle sue circostanze, sono incerte; potrebbe anche essere avvenuto nel 1941 o nel 1943. La cessione della nave dalla società Nafta all’AGIP verrà ufficializzata solo il 16 novembre 1943, cioè diversi mesi dopo la sua perdita.
9 gennaio 1941
Requisito a Genova dalla Regia Marina, senza essere iscritto nel ruolo del naviglio ausiliario dello Stato.
16 febbraio 1941
Derequisito.
1° aprile 1941
Nuovamente requisito a Genova dalla Regia Marina, di nuovo senza essere iscritto nel ruolo del naviglio ausiliario dello Stato (da un altro documento risulterebbe invece noleggiato dalla Marina).
 
La nave con il nome di Aureola (g.c. Francesco Di Nitto via Carlo Di Nitto)

L'affondamento

Il 3 marzo 1943 la Zeila, carica di duemila tonnellate di nafta ed al comando del capitano di lungo corso Ferdinando Bottiglioni, salpò da Spalato per trasferirsi in Sicilia, con vari scali intermedi. Ultimo di essi fu Crotone (per altra fonte, Taranto), da cui la Zeila partì nella notte tra il 22 ed il 23 marzo in convoglio con il piroscafo per recuperi Artiglio, per raggiungere Messina con la scorta delle anziane torpediniere Antonio Mosto (tenente di vascello di complemento Mario Trisolini) ed Angelo Bassini (tenente di vascello Beniamino Mancuso, caposcorta), dei cacciasommergibili tedeschi UJ 2201 e UJ 2204 (questi ultimi erano salpati da Crotone la sera precedente) e di due vedette antisommergibili italiane tipo VAS, oltre ad una quindicina di velivoli tra italiani e tedeschi: un apparato difensivo imponente per una sola nave. Una volta giunta in Sicilia, la vecchia pirocisterna avrebbe dovuto essere immessa nel traffico con la Tunisia; perdute o danneggiate le cisterne moderne, si rispolveravano carrette come la Zeila per un ultimo tentativo di inviare carburante lungo le sempre più insidiate rotte del Canale di Sicilia.
La Zeila, comunque, non giunse nemmeno alla partenza delle rotte per la Tunisia. Durante la navigazione da Taranto a Messina, alle 12.45 dello stesso 23 marzo, i fumi del convoglio vennero avvistati su rilevamento 060° dal sommergibile britannico Unison (tenente di vascello Anthony Robert Daniell), che manovrò per attaccare. Identificate (alle 13.22) le unità del convoglio come «due navi mercantili scortate da una torpediniera vecchio tipo, due grossi pescherecci armati e due MAS», e notato che nel cielo vi erano diversi aerei che pattugliavano la zona, Daniell lanciò quattro siluri dalle 14.09, dalla distanza di 1830 metri.
Uno dei siluri colpì la Zeila sul lato di dritta, a poppavia della plancia: spezzata in chiglia, la vecchia nave s'inabissò nel giro di un minuto (altra fonte indica l'orario dell'affondamento come le 14.20) nel punto 37°57' N e 16°10' E, a quattro miglia per 100° da Capo Spartivento Calabro (altra fonte colloca invece il punto dell'affondamento a 12 miglia per 243° dal Capo, ed a cinque miglia dalla costa).
Dei 24 uomini che componevano l’equipaggio della Zeila (19 marittimi civili e cinque militari della Regia Marina), dieci affondarono con la nave (sette civili e tre militari) e sei rimasero feriti, due dei quali in modo grave. I quattordici superstiti furono recuperati da una VAS, che successivamente li trasbordò sulla Bassini. Fu tra le vittime il regio commissario, sottotenente del Genio Navale Leonardo Pasqua, mentre si salvò il comandante Bottiglioni.

Le vittime:

Enrico Biondi (o Brondi), cuoco, da Lerici (equipaggio civile)
Fernando Borselli, secondo capo meccanico, da Firenze (equipaggio militare) (*)
Giovanni Briguglio, marinaio, da Santa Teresa di Riva (equipaggio militare) (*)
Luigi Chevrier, fuochista, da Genova Nervi (equipaggio civile)
Nicola Decovich, fuochista, da Traù (equipaggio civile)
Giuseppe Donadio, secondo ufficiale di macchina, da Taranto (equipaggio civile)
Giovanni Dravich, garzone, da Zirona (equipaggio civile)
Luigi Ferrari, marinaio cannoniere, da Giulianova (equipaggio militare) (*)
Mario Ottonello, capo fuochista, da Masone (equipaggio civile)
Silvio Paladini, marinaio, da Viareggio (equipaggio civile)
Leonardo Pasqua, sottotenente del Genio Navale, da Augusta (regio commissario)

(*) Militari della Regia Marina deceduti o dispersi a bordo di una nave mercantile non meglio identificata il 23 marzo 1943, data in cui unica nave mercantile ad andare perduta fu la Zeila.

Verbale di naufragio della Zeila (g.c. Michele Strazzeri)

L'Unison, che dopo l’attacco era sceso in profondità (la quota intesa era di 27 metri ma, a causa dell’accidentale disattivazione del profondimetro, il battello britannico scese incontrollatamente fino a colpire il fondale, a 105 metri, per poi “rimbalzare” e risalire fino a 30 metri, dove risultò possibile controllare finalmente l’assetto), venne sottoposto dalle 14.17 alle 17.45 ad una pesantissima caccia, che vide il lancio di ben 133 bombe di profondità da parte dell'UJ 2201 e dell'UJ 2204. Nonostante le impressioni dei due cacciasommergibili tedeschi, che ritennero di aver affondato il sommergibile, quasi nessuna delle bombe era esplosa particolarmente vicina, così gli unici danni che l'Unison dovette lamentare furono la rottura di alcune lampadine. Essendo sceso in profondità subito dopo il lancio, Daniell non aveva potuto osservarne il risultato (anche se aveva avvertito lo scoppio del siluro, tanto violento da scuotere il sommergibile); al ritorno a Malta, apprese il nome della sua vittima ed ebbe la conferma dell’avvenuto affondamento.

Il 30 aprile 1943 la Zeila venne cancellata dai registri del naviglio mercantile. Quasi dieci anni dopo, il 16 febbraio 1952, l'AGIP restituì formalmente – probabilmente a titolo di risarcimento dei danni di guerra – la Zeila alla Shell Italiana, il nuovo nome frattanto assunto dalla società Nafta.
Il relitto della Zeila giace oggi ad una profondità compresa tra i 95 ed i 105 metri, a 1,90 miglia dalla costa di Brancaleone (Calabria).



Alcune immagini del relitto della Zeila come appare oggi (g.c. Marco Papperini)



L'affondamento della Zeila nel giornale di bordo dell'Unison (da Uboat.net):

"1245 hours - Sighted smoke bearing 060°. Started attack.
1322 hours - The enemy was seen to be a convoy made up of two merchant vessels escorted by an older type torpedo boat, 2 large trawlers and two MAS-boats. A large number of aircraft were seen to be patrolling in the area.
1409 hours - Fired four torpedoes from a range of approximately 2000 yards. A hit was heard 1m 43s after firing the first torpedo. P 43 meanwhile had gone to 90 feet but due to an error in drill the depth gauge was shut off. When opened up the depth was 280 feet and going down.
1412 hours - Unison hit bottom at a depth of 345 feet. She bounced off and then rised to 100 feet at which depth a good trim was caught.
1417 hours - Depth charging started.
1600 hours - By now 88 depth charges had been dropped but none had been very close.
1745 hours - Depth charging ceased. A total of 133 had been counted. Only one light bulb had been broken as a result of the depth charging."

Un’altra immagine dell’Haliotis (da www.vallejogallery.com)

 

giovedì 4 febbraio 2016

Leone


Il Leone (g.c. Giorgio Parodi via www.naviearmatori.net

Cacciatorpediniere, già esploratore leggero, capoclasse della classe Leone (dislocamento standard di 1773 tonnellate, in carico normale 2003 tonnellate, a pieno carico 2203 o 2648).
La classe Leone (informalmente nota anche come classe “Belve”, per i nomi delle unità che la componevano), pensata come uno sviluppo degli ottimi esploratori della classe Mirabello, dei quali era una versione potenziata ed ingrandita, doveva essere in origine composta da cinque unità (Leone, Tigre, Pantera, Leopardo e Lince); la sua costruzione fu ordinata dalla Regia Marina in piena prima guerra mondiale, il 18 gennaio 1917, ma la mancanza di materie prime (soprattutto acciaio) impedì di impostare le unità della classe prima del 1921, anche perché nel frattempo l’ordine era stato inizialmente annullato (essendo finita la guerra) salvo essere replicato il 30 ottobre 1920. A quel punto un nuovo problema, la mancanza di fondi, aveva costretto a ridurre le previste cinque unità a sole tre, cancellando la costruzione di Leopardo e Lince; e rallentò di molto anche la costruzione di Leone, Tigre e Pantera, che richiese ben tre anni.


Il Leone durante le prove di velocità, il 7 giugno 1924 (g.c. Giorgio Parodi via www.naviearmatori.net)

Due gruppi di turbine Parsons della potenza di 42.000 HP (oltre 45.000 alle prove), alimentate da quattro caldaie Yarrow a nafta, permettevano l’eccellente velocità – per l’epoca – di 31-32 nodi (33,73 alle prove, ma con dislocamento inferiore a quello standard) ed un’autonomia di 2070 miglia a 18 nodi, 1623 miglia a 20 nodi e 534 miglia a 31 nodi; il tempo di approntamento, da caldaie spente, era di quattro ore, per l’epoca pienamente rispondente alle necessità. In generale, le prestazioni dell’apparato motore erano più che buone, sebbene non rappresentassero una grande novità rispetto ai precedenti Mirabello; a dimostrazione della loro bontà, dopo sedici anni di servizio e la conseguente usura queste navi raggiungevano ancora velocità attorno ai 29 nodi. I Leone presentavano inoltre buone caratteristiche di stabilità ed abitabilità (i locali dell’equipaggio erano foderati in legno, con pavimenti in linoleum, e riscaldati da caloriferi; per i capi carico vi erano dei camerini così come per gli ufficiali – tranne il comandante, che aveva un piccolo appartamento –, e vi erano due quadrati per i sottufficiali ed uno per gli ufficiali).
L’armamento principale, per l’epoca, era notevole: otto cannoni da 120/45 mm (Cante-Schneider-Armstrong Mod. 1918/1919) in quattro impianti binati scudati disposti lungo l’asse longitudinale (uno sul castello di prua, uno tra i due fumaioli, uno tra i due impianti lanciasiluri ed uno a poppa), con ampi campi di tiro su entrambi i lati ed anche in ritirata; superiori, sia nel numero che nel calibro, a quelli dei cacciatorpediniere loro contemporanei, dunque confacenti ai compiti affidati agli esploratori (eguagliare i cacciatorpediniere nemici in velocità, e superarli in armamento). Quale armamento contraereo – dopo la lezione, appresa in guerra, sulle potenzialità offensive dell’aereo – erano dotate di due cannoncini da 76/40 mm (Mod. 1916 R. M.) piazzati ai lati del castello; stranamente scarso invece l’armamento silurante, dato che i sei tubi lanciasiluri (in due impianti trinati) erano da 450 mm anziché, come ormai in quasi tutte le altre Marine, da 533 o 550 mm (ma a correggere questo “errore” si provvide dopo qualche anno).

La nave nel 1933 (Giorgio Ramperti via Giuseppe Celeste e www.associazione-venus.it

Completavano l’armamento bombe di profondità e due torpedini da rimorchio (in funzione antisommergibili) ed era possibile sistemare a bordo ferroguide per l’imbarco e la posa di 70 mine tipo Vickers od 82 mine tipo Bollo (il che avrebbe però reso inutilizzabile l’armamento in coperta).
Il lungo lasso di tempo intercorso tra la progettazione (1917) ed il completamento (1924) fece dei Leone delle unità concettualmente superate già all’epoca della loro entrata in servizio, quando ormai il diffondersi dell’aereo rendeva impossibile una “guerriglia navale” tra siluranti come quella svoltasi in Adriatico durante la Grande Guerra, e per la quale gli esploratori leggeri erano concepiti; tuttavia si rivelarono robusti, veloci, marini, affidabili e potentemente armati, e svolsero un lungo ed utile servizio come conduttori di flottiglia durante il periodo interbellico.
Paradossalmente la loro dislocazione in Mar Rosso, durante il secondo conflitto mondiale, fece sì che si trovassero coinvolti proprio in una “guerriglia navale” in un mare ristretto e contro unità sottili nemiche, proprio come in Adriatico venticinque prima, dunque proprio nel ruolo per cui erano stati concepiti. Ma ora dovevano combattere contro navi ben più moderne e recenti, e supportate da aerei.

Il Leone svolse in guerra dieci missioni, percorrendo in tutto 2388 miglia.

Breve e parziale cronologia.

23 novembre 1921
Impostazione nei cantieri Gio. Ansaldo & C. di Sestri Ponente (Genova); numero di costruzione 657.
1° ottobre 1923
Varo nei cantieri Gio. Ansaldo & C. di Sestri Ponente (Genova).


Sopra, il Leone pronto al varo (g.c. Aldo Cavallini via www.naviearmatori.net); sotto, varato (Archivio Storico Ansaldo, via Maurizio Brescia e www.associazione-venus.it)


8 febbraio 1924
Entrata in servizio.


Due immagini della nave durante le prove in mare al largo di Genova, nel 1924 (sopra, Archivio Storico Ansaldo, via Maurizio Brescia e Dante Flore; sotto, Coll. Maurizio Brescia; entrambe da www.associazione-venus.it).


6 marzo 1925
Insieme a Tigre e Pantera, va a formare il Gruppo Autonomo Esploratori Leggeri. Le tre unità svolgono un breve periodo di addestramento integrato di squadriglia.
4 aprile-22 settembre 1925
Le tre unità, sotto il comando del capitano di vascello Domenico Cavagnari (futuro capo di Stato Maggiore della Marina), imbarcato sul Pantera (è invece comandante del Leone il capitano di fregata Francesco De Orestis), compiono una crociera di rappresentanza in Spagna, Portogallo, Regno Unito, Norvegia, Danimarca, Unione Sovietica, Finlandia, Estonia, Lettonia, Germania, Paesi Bassi, Belgio, Francia, Algeria e Libia. Dopo la partenza da La Spezia (4 aprile 1925), vengono toccati i porti di Valenza (6-9 aprile), Almeria (10-11 aprile), Malaga (11-15 aprile), Cadice (15-23 aprile), Lisbona (24-27 aprile), Vigo (28-29 aprile), Portsmouth (1-8 maggio), Bristol (9-12 maggio), Liverpool (13-17 maggio), Glasgow (18-24 maggio), Edimburgo (26 maggio-3 giugno), Bergen (4-10 giugno), Oslo (11-17 giugno), Copenhagen (17-24 giugno), Leningrado (25-29 giugno, una delle prime visite di un Paese occidentale alla Russia post-rivoluzionaria, dopo anni di isolamento), Helsinki (30 giugno-4 luglio), Reval (4-6 luglio), Riga (6-8 luglio), Brema (10-14 luglio), Amsterdam (15-21 luglio), Gand (21-27 luglio), Ostenda (27-31 luglio; i comandanti degli esploratori si recano a Bruxelles dove sono ricevuti dal re del Belgio Alberto I), Le Havre (1-6 agosto), Lorient (7-12 agosto), Bordeaux (13-20 agosto), Santander (21-25 agosto; qui le navi sono visitate dai reali di Spagna), Gibilterra (27-28 agosto), Orano (29 agosto-2 settembre) e Tripoli (4-15 settembre). In ogni porto l’accoglienza, da parte sia delle autorità che della popolazione locale, è molto cordiale, tranne che a Brema, dove il trattamento riservato è piuttosto freddo, forse per la guerra ancora troppo vicina. Navi ed equipaggi danno ottima prova di sé, sia nell’affrontare ogni impedimento lungo nella navigazione, che nelle visite nei porti.
Lasciata Tripoli, i tre esploratori fanno scalo a Napoli dal 16 al 21 settembre ed infine concludono la crociera (soprannominata dai marinai “crociera delle belve”) a La Spezia, dove giungono il 22 settembre 1925 dopo aver percorso in tutto 12.000 miglia.
Metà anni Venti
Svolge con i gemelli una crociera in Egeo.
1928
Altra crociera di rappresentanza con Tigre e Pantera, questa volta in Spagna.
1928-1931
Il Leone è conduttore di flottiglia della 1a e 2a Flottiglia Cacciatorpediniere.
1930-1931
Lavori di rimodernamento; i 6 tubi lanciasiluri DAAN-Whitehead da 450 mm vengono sostituiti con 4 San Giorgio da 533 mm, in due impianti binati, e vengono imbarcati due cannoncini Vickers-Armstrong da 40/39 mm a potenziamento dell’armamento contraereo.
15 settembre 1932
Assume il comando del Leone, e diviene caposquadriglia della Squadriglia Esploratori, il capitano di fregata (poi capitano di vascello da novembre) Carlo Bergamini, futuro ammiraglio di squadra (comandante delle forze da battaglia nel 1942-1943) e Medaglia d’oro al Valor Militare. Nello stesso periodo prestano servizio sul Leone le future MOVM Mario Ruta (tenente di vascello, quale ufficiale di rotta) e Mario Mastrangelo (capitano di corvetta, quale comandante in seconda).
Bergamini resterà comandante del Leone fino all’aprile 1934.

Il Leone a Gaeta nel luglio 1933 (g.c. Nedo B. Gonzales, via www.naviearmatori.net

Luglio 1933
Prende parte alle manovre navali nel Golfo di Gaeta.
1935-1936
Il Leone ed i due gemelli vengono sottoposti a lavori di adattamento per l’impiego in climi tropicali (vengono dotati di impianti di condizionamento dell’aria e di refrigerazione dei depositi munizioni) e subiscono l’eliminazione di due cannoni da 76/40 mm per allungare di alcuni metri il castello, allo scopo di ricavare un nuovo locale per i compressori dei macchinari dell’impianto di condizionamento. Viene anche leggermente incrementata la scorta di carburante; il dislocamento diviene di 2000 tonnellate standard, 2150 in carico normale e 2648 a pieno carico.
Completati i lavori, Leone (al comando del capitano di fregata Giuseppe Manfredi), Tigre e Pantera vengono assegnati alla Divisione Navale Africa Orientale (che oltre ad essi comprende gli incrociatori leggeri Bari, Taranto e Quarto, i cacciatorpediniere Francesco Nullo e Daniele Manin, le torpediniere Audace, Generale Antonio Cantore e Giacinto Carini, i sommergibili Luigi Settembrini, Ruggero Settimo, Narvalo, Tricheco, Salpa e Serpente, le navi appoggio sommergibili Alessandro Volta ed Antonio Pacinotti e l’incrociatore ausiliario Arborea) e dunque dislocati in Eritrea.

La nave nel 1935 (commons.wikimedia.org)  

27 aprile 1938
Rientrato in Italia per un breve periodo, il Leone subisce un incendio mentre è ormeggiato a La Spezia; per impedire che le fiamme raggiungano i depositi munizioni con conseguenze catastrofiche, occorre allagare tali depositi.
1938
Durante i lavori di riparazione dell’incendio, riceve un potenziamento dell’armamento contraereo (vengono aggiunte due mitragliere binate Breda Mod. 31 da 13,2/76 mm e due o quattro mitragliatrici singole Colt da 6,5 mm), stante l’accresciuta minaccia posta dall’arma aerea rispetto agli ormai lontani tempi della sua entrata in servizio. Viene installata una stazione di direzione del tiro.
Settembre 1938
Viene riclassificato cacciatorpediniere, analogamente a Tigre e Pantera, ed insieme ad essi viene assegnato alla V Squadriglia Cacciatorpediniere, di base a Massaua.
27 gennaio 1939
Ultimati i lavori, torna a Massaua. Non rivedrà più l’Italia.
1939
In seguito a nuovi lavori, le mitragliatrici da 13,2 e 6,5 mm vengono sostituite da due mitragliere binate Breda da 20/65 mm Mod. 1935.

Il Leone nel 1934 (Giorgio Ramperti via Giuseppe Celeste e www.associazione-venus.it).

10 giugno 1940
All’ingresso dell’Italia nel secondo conflitto mondiale, il Leone fa parte della V Squadriglia Cacciatorpediniere, di base a Massaua, insieme ai gemelli Tigre e Pantera.
24 giugno 1940
Il Leone parte da Massaua e va incontro al sommergibile Archimede, sul quale esalazioni di cloruro di metile hanno avvelenato più di metà dell’equipaggio (6 uomini sono morti, 8 sono impazziti e 24 sono gravemente intossicati), e vi trasferisce un gruppo di uomini mandati a rimpiazzare i membri dell’equipaggio intossicati e riportare il sommergibile alla base di Assab. Il Leone prende inoltre a bordo gli uomini intossicati e li porta a terra per le cure.

Visto da poppa (Coll. Francesco Bucca, via www.associazione-venus.it

27 giugno 1940
In mattinata il Leone lascia Massaua insieme al Pantera ed alla vecchia torpediniera Giovanni Acerbi, per andare in soccorso al sommergibile Perla, incagliatosi dopo che perdite di cloruro di metile hanno intossicato larga parte dell’equipaggio. L’Acerbi dovrebbe se possibile disincagliare e prendere a rimorchio il Perla, mentre Leone e Pantera fornirebbero appoggio e sostegno; qualora ciò risultasse impossibile, le unità dovrebbero recuperare l’equipaggio del sommergibile.
Il Leone deve però tornare indietro quasi subito, a causa di avarie. (Anche Acerbi e Pantera rientreranno più tardi alla base, in seguito all’avvistamento di una superiore formazione navale britannica diretta verso il Perla; il sommergibile scamperà però alla distruzione e potrà essere disincagliato e riparato dopo alcuni giorni).
27-28 giugno 1940
Leone, Tigre, Pantera ed i più piccoli cacciatorpediniere Nazario Sauro e Daniele Manin compiono un’uscita in mare alla ricerca di naviglio britannico, senza risultati.
6-7 settembre 1940
Inviato assieme a Tigre, Battisti e Manin a cercare il convoglio britannico «BS. 4», proveniente da Suez e scortato dall’incrociatore leggero Leander, dall’incrociatore antiaereo Carlisle, dal cacciatorpediniere Kingston e dagli sloops Grimsby, Auckland, Clive e Parramatta. Durante la missione vengono lanciati siluri contro un cacciatorpediniere britannico, che viene tuttavia mancato.
19 settembre 1940
Salpa da Massaua insieme a Pantera, Battisti e Manin per attaccare il convoglio britannico «BN 5», formato da 23 trasporti con la scorta dell’incrociatore leggero neozelandese Leander e degli sloops Auckland (britannico), Yarra (australiano) e Parramatta (australiano).

Un’altra immagine del Leone (g.c. STORIA militare)

21 settembre 1940
Non avendo trovato il convoglio, i cacciatorpediniere devono tornare a mani vuote alla base.
20-21 ottobre 1940
LeonePantera ed i più piccoli Nazario Sauro e Francesco Nullo della III Squadriglia vengono inviati ad intercettare il convoglio britannico «BN 7», formato da 32 mercantili (partiti da Aden il 19 ottobre alla volta di Suez) scortati dall’incrociatore leggero neozelandese Leander, dal cacciatorpediniere britannico Kimberley, dagli sloops YarraAuckland ed Indus, rispettivamente australiano, britannico ed indiano, e dai dragamine britannici Derby e Huntley (nonché da una cinquantina di aerei da caccia e bombardieri di Aden). Il convoglio, diretto verso nord, è stato avvistato il 19 ottobre da un aerosilurante italiano Savoia Marchetti S. 79, ed il 20 ottobre il Comando Marina di Massaua ha disposto la partenza dei sei cacciatorpediniere per intercettarlo. Il piano prevede che i meno veloci ma meglio armati Leone e Pantera (che formano la prima sezione, al comando del capitano di fregata Paolo Aloisi del Pantera) distraggano la scorta, permettendo a Sauro e Nullo (che costituiscono la seconda sezione) di superare lo schermo protettivo e lanciare i loro siluri contro le navi mercantili. Partite la sera del 20 ottobre, le due sezioni di cacciatorpediniere, dopo essere transitate nel canale di nord est dell’arcipelago delle Dahlak, si separano alle 21.15.
Il Pantera avvista per primo il fumo prodotto dalle navi del convoglio (con mare calmo e bene illuminato dalla luce lunare), a prora dritta, alle 23.21 (per altra versione alle 2.19 di notte del 21 ottobre: la differenza è causata verosimilmente dal diverso fuso orario), circa 35 miglia a nord-nord-ovest dell’isoletta di Jabal al-Tair: come da piano, il Pantera comunica al Sauro l’avvistamento, poi la sezione costituita da Leone e Pantera manovra a 22 nodi per posizionare i bersagli tra sé e la luna, in modo che appaiano meglio visibili.
Poco dopo lo Yarra avvista a sua volta il Pantera e, non sapendo di quale nave si tratti, effettua il segnale di riconoscimento; il Pantera risponde lanciando due coppiole di siluri, alle 23.31 ed alle 23.34, e sparando alcune salve di artiglieria contro il convoglio (nessun proiettile va a segno, anche se alcune schegge danneggiano una scialuppa del mercantile capoconvoglio). Il Leone, che segue il Pantera di 800 metri, non riesce ad inquadrare alcun bersaglio, così non lancia nessun siluro.
Lo Yarra e l’Auckland, avvistati i siluri, contrattaccano e dirigono verso i due cacciatorpediniere italiani, che a questo punto ripiegano, sparando con i loro complessi poppieri. Ritenendo a torto di aver messo due siluri a segno, e quindi di aver completato con successo la missione, Leone e Pantera dirigono per rientrare alla base; al loro inseguimento, mentre Yarra ed Auckland vengono richiamati per restare col convoglio, si pongono il Kimberley (che, trovandosi in coda al convoglio, accelera a 33 nodi e vira verso nordest per avvicinarsi) ed il Leander (che, trovandosi sul lato sinistro del convoglio, vira verso sudest). I due cacciatorpediniere, però, riescono a rompere il contatto ed allontanarsi verso ovest-sud-ovest; raggiungeranno indenni Massaua attraverso il Canale Sud.
Nel frattempo, dopo aver ricevuto il segnale di scoperta del PanteraSauro e Nullo si allontanano dalla zona mentre la prima sezione attacca, poi manovrano per portarsi in posizione favorevole per attaccare, ma non riescono a trovare il convoglio fino all’1.48. A quel punto il Sauro esegue un duplice attacco silurante, senza risultato; poi si ritira insieme al Nullo, inseguiti da Kimberley e Leander. Durante il ripiegamento il Nullo subisce un’avaria al timone, rimane indietro e perde il contatto con il Sauro: inseguito dal Kimberley, verrà da questo affondato dopo un duro combattimento.
3-5 dicembre 1940
Leone, Tigre, Sauro e Manin, così come il sommergibile Ferraris, vengono mandati a cercare un convoglio, che non riescono a trovare.
2-3 febbraio 1941
Tigre, Leone e Pantera attaccano un convoglio britannico e ritengono di aver silurato due mercantili, ma in realtà nessuna nave nemica è stata colpita.
27 marzo 1941
Muore in Eritrea il tenente del Genio Navale Giacomo Giannone, appartenente all’equipaggio del Leone.

Il Leone nei primi anni di servizio (da www.marina.difesa.it


Uno scoglio non segnato

Come per gli altri cacciatorpediniere di Massaua, la lunga vita del Leone si avviò all’epilogo con la primavera del 1941; il loro tramonto coincise con quello dell’Africa Orientale Italiana, colonia sprovvista di ogni collegamento con la madrepatria, circondata da territori in mano nemica e condannata dunque al crollo nel giro di meno di un anno, in caso di guerra. Così avvenne.
Occupata la Somalia già in febbraio ed invasa parte dell’Etiopia, il 27 marzo le truppe del Commonwealth avevano sfondato a Cheren, aprendosi così la via per Asmara e Massaua.
Quest’ultima aveva i giorni contati; così pure le navi, italiane e tedesche, che si trovavano da mesi nel suo porto.
Il contrammiraglio Mario Bonetti, comandante delle forze navali italiane in Africa Orientale, dovette così eseguire un “triage” delle unità militari e mercantili sotto il suo comando: quelle aventi autonomia sufficiente per tentare una lunga traversata, sarebbero partite per la Francia o per il Giappone (così fecero i quattro sommergibili, la nave coloniale Eritrea, gli incrociatori ausiliari RAMB I e RAMB II ed otto mercantili, con alterne fortune); quelle impossibilitate a partire e poco o punto armate, si sarebbero autoaffondate per evitare la cattura ed al contempo bloccare il porto di Massaua (così fecero le unità minori ed ausiliarie e quasi tutti i mercantili); quelle ancora in grado di recare danno al nemico, sarebbero partite in un ultimo e disperato tentativo d’attacco. Il Leone rientrava tra queste ultime.
Il piano steso da Bonetti prevedeva l’impiego di tutti i cacciatorpediniere superstiti in due separati attacchi: Leone, Tigre e Pantera (la V Squadriglia), dotati di maggiore autonomia, avrebbero risalito tutto il Mar Rosso per attaccare Suez (500 miglia più a nord, navigazione che avrebbe richiesto almeno 50 ore); Sauro, Battisti e Manin (la III Squadriglia), più piccoli, avrebbero invece attaccato la più vicina Port Sudan. Compito di tutti era arrecare il maggior danno possibile alle installazioni portuali ed alle navi britanniche che vi si trovassero, per poi raggiungere le coste dell’Arabia Saudita e lì autoaffondarsi (in modo che gli equipaggi potessero sbarcare in Arabia Saudita, Paese neutrale). Il ritorno non era contemplato.
La missione della V Squadriglia sarebbe dovuta avvenire in concomitanza con un’incursione aerea della Luftwaffe, che, con Heinkel He 111 inviati da Creta, avrebbe bombardato Suez. I britannici, immaginando un possibile attacco, avevano inviato a Suez due cacciatorpediniere classe J per aumentare le forze navali là presenti.

L’operazione prese avvio il 31 marzo 1941. Intorno alle 18 di quel giorno il Leone (al comando del capitano di fregata Uguccione Scroffa), il Tigre (capitano di fregata Gaetano Tortora) ed il Pantera (capitano di vascello Andrea Gasparini, caposquadriglia) salparono da Massaua. La III Squadriglia rimase in porto: data la maggior vicinanza dell’obiettivo, sarebbe dovuta partire il giorno seguente.
Normalmente il Pantera, in qualità di caposquadriglia, sarebbe dovuto procedere in testa: ma a testimonianza della disastrosa condizione in cui versavano queste navi, sia la girobussola che il solcometro di questa unità erano guasti, mentre la sua bussola magnetica era stata messa fuori uso da un fulmine. Unico cacciatorpediniere ad avere bussola magnetica, solcometro, ecoscandaglio e girobussola in efficienza era il Leone, e così toccò ad esso di guidare la formazione, seguito in linea di fila dal Tigre e per ultimo dal Pantera.
La prima insidia della navigazione che attendeva le tre navi non era posta dal nemico, ma dalla natura: Leone, Tigre e Pantera avrebbero infatti dovuto attraversare di notte l’arcipelago delle Dahlak, seguendo una “rotta di sicurezza” (definizione decisamente impropria, date le circostanze) che li avrebbe condotti attraverso il Canale di Nord-Est per uscire dall’arcipelago; superata l’isola di Dohul, avrebbero poi assunto rotta verso nord. Le Dahlak erano e sono caratterizzate da innumerevoli isole ed isolotti e, quel che è peggio, scogli e secche talvolta non segnate sulle carte nautiche: attraversarle di notte con gli strumenti di navigazione in cattivo stato era, probabilmente, non molto meno pericoloso che affrontare gli aerei britannici che si sarebbero avventati sulle navi italiane quando fossero giunte nei pressi di Suez.
Verso le 22 del 31 marzo Leone, Tigre e Pantera si lasciarono al traverso a dritta le isole di Tanam, Wusta ed Isratu (nell’estremità settentrionale dell’arcipelago delle Dahlak), e intorno a mezzanotte si lasciarono al traverso anche l’isolotto di Awali Hutub. A questo punto la zona più pericolosa era stata superata; la V Squadriglia era entrata in acque più profonde e meno insidiose, dove poté anche incrementare la propria velocità (che fu portata a 24 nodi), così da potersi avvicinare a Suez con il favore della notte.
Fu proprio a questo punto che si verificò il disastro.
Improvvisamente, alle 00.30 del 1° aprile, il Leone venne scosso da un forte urto e si immobilizzò dopo pochi metri; Tigre e Pantera, proseguendo a 24 nodi, passarono a fianco del Leone – uno a dritta e l’altro a sinistra – senza che loro accadesse nulla (intanto, gli ecoscandagli continuavano a segnalare profondità ben maggiori di quelle del limite di sicurezza), poi rallentarono e ritornarono verso di esso, prestando la massima attenzione ad eventuali ostacoli.


Il Leone in navigazione in tempo di pace (da www.regiamarinaitaliana.it)

Il Leone era finito contro una formazione madreporica, non segnata sulle carte nautich: due punte madreporiche isolate erano bastate a fermare per sempre la corsa del cacciatorpediniere, circa tredici miglia a nord di Awali Hutub (potrebbe essersi trattato del Fawn Reef, che corrisponde alle caratteristiche descritte – formazione corallina isolata, in mezzo ad un tratto di mare profondo – e vicino alla quale le carte nautiche dell’Ammiragliato britannico indicano oggi la presenza di un relitto: in tal caso, però, le navi italiane avrebbero commesso un grosso errore nella stima della posizione, dato che il Fawn Reef si trova a più di 26 miglia a nord di Awali Hutub, anziché a 13) e 45 miglia a nord di Massaua. Data la loro conformazione, siffatte formazioni sfuggivano spesso agli scandagliamenti; la Regia Marina aveva effettuato infatti ben due campagne idrografiche in quelle acque, ma evidentemente quello scoglio era stato mancato.
L’urto contro lo scoglio madreporico aveva causato gravi vie d’acqua nello scafo del Leone; come se non bastasse, scoppiò anche un violento incendio a prua, nel locale caldaia 4. Gli sforzi dell’equipaggio di arrestare gli allagamenti e domare le fiamme risultarono vani; quest’ultima opera, anzi, peggiorò la situazione, perché l’allagamento del deposito munizioni prodiero, minacciato dall’incendio, causò anche lo spegnimento della caldaia numero 1, l’unica che ancora funzionasse.
Il comandante Scroffa, d’accordo col caposquadriglia Gasparini, dovette giungere alla triste conclusione: il Leone era perduto e non restava ormai altro da fare che accelerarne l’affondamento. Vennero aperte tutte le prese a mare, e l’equipaggio fu trasferito su Tigre e Pantera.
Pur ferito a morte, il Leone si rifiutò ostinatamente di morire. Quando giunse l’alba, la nave galleggiava ancora: pertanto il caposquadriglia Gasparini dovette dare ordine di prendere a cannonate l’unità dipendente, per farla affondare più in fretta.
Dopo aver incassato anche diverse cannonate del Pantera, il Leone sbandò sulla dritta e s’inabissò per sempre alle cinque del mattino del 1° aprile 1941. Tigre, Pantera, Sauro, Battisti e Manin lo avrebbero raggiunto presto sui fondali del Mar Rosso, nel giro di tre giorni.
Il relitto del Leone, affondato in acque non molto profonde, venne avvistato lo stesso 1° aprile da aerei britannici della Fleet Air Arm decollati da Port Sudan (che in precedenza lo avevano già avvistato in navigazione); i britannici conclusero correttamente che la nave dovesse essersi incagliata od autoaffondata (erano accadute entrambe le cose). Alcuni cannoni da 120 mm, recuperati dal relitto, vennero impiegati nell’ultima difesa di Massaua.

Così il tenente di vascello Ennio Giunchi, allora imbarcato sul Pantera, avrebbe ricordato la perdita del Leone nel suo libro "Ultima missione in Mar Rosso": «Venne la notte. Percorrevamo la rotta di sicurezza nord fra le isole Dahlak e la costa eritrea. I rilievi idrografici vi erano incerti e ci si navigava per niente tranquilli; l’unica “sicurezza” che poteva darci quella rotta era che soltanto la fortuna poteva evitarci di dare in secco. Infatti dalla plancia del Pantera vedemmo d’un tratto il Leone, che procedeva in testa alla linea di fila, ingrandire rapidamente: gli correvamo addosso; facemmo appena in tempo ad accostare e sfilammo lungo il suo bordo di dritta. Ci segnalò che aveva dato in secco. Parve in un primo momento che l’avaria non fosse grave. Ma alte fiamme si levarono al centro della nave, dagli osteriggi di macchina e dai fumaioli, lambendo le teste dei siluri e le riservette delle munizioni. Si decise di abbandonare la nave. (…) Due ore dopo il Leone non era più che un relitto fiammeggiante, il suo equipaggio era in salvo sulle altre navi; il comandante Scroffa aveva preso imbarco sul Pantera, portando con sé, del suo bagaglio, solo la sciabola. Ci recammo (…) ad ancorarci in luogo più sicuro, in attesa del giorno; non si poteva proseguire senza prima cancellare le tracce del nostro passaggio, né si poteva manovrare di notte fra gli scogli per affondare il Leone. Dopo una notte di veglia spuntò un’alba livida, fasciata di nebbia. Tornammo indietro scandagliando finché avvistammo il Leone. L’incendio si era spento, la nave vuota pareva attenderci piena di speranza, attendere i suoi uomini. Dovevamo finirla a cannonate, e ci sentivamo come chi, sperduto nel deserto senza risorse, uccide per pietà il compagno incapace di proseguire. Il Pantera aprì il fuoco, tiro teso, da poco più di mille metri. Con una specie di rabbia sorda Sabbatini metteva a segno tutti i suoi colpi: vedevamo larghi squarci aprirsi nei fianchi del Leone che, rotta la catena dell’ancora, cominciò a derivare e parve d’un tratto volersi difendere. Infatti con stupore, quasi con sgomento, vedemmo d’un tratto un tracciante di mitragliera partire dalla sua ala di plancia; il puntino luminoso fischiò sui nostri fumaioli. Forse una scheggia aveva colpito la leva di sparo dell’arma. Ma quella risposta della nave ferita ci parve un rimprovero della sua anima, alla quale noi marinai crediamo. Sospendemmo il tiro e ci allontanammo; d’un tratto il Leone parve cambiar colore, si capovolse e continuò a galleggiare con la chiglia in alto. Quando guardai di nuovo non lo vidi più.»

Dell’equipaggio del Leone, persero la vita nell’incidente il marinaio silurista Giovanni Melano ed il marinaio torpediniere Dino Pannocchia, che risultarono dispersi.
Il resto dell’equipaggio fu riportato a Massaua da Tigre e Pantera, che abortirono la missione perché il tempo perso a causa del sinistro del Leone impediva di avvicinarsi a Suez col favore della notte (giunsero a Massaua in tarda mattinata). Quando il 2 aprile le due navi ripartirono per attaccare Port Sudan, per non fare più ritorno, il comandante Scroffa era a bordo del Pantera, deciso a vendicare la sua nave; anche altri naufraghi del Leone si erano imbarcati più o meno di soppiatto sulle navi in partenza per l’ultima missione (Tigre, Pantera ed anche Sauro, Battisti e Manin) e ne condivisero la sorte, fino all’affondamento delle unità ed all’internamento in Arabia Saudita. Scroffa, che fu tra gli internati, rientrò in Italia nel marzo 1943 in seguito ad un singolare scambio organizzato tra italiani e britannici e svoltosi in Turchia; ebbe di nuovo il comando di un cacciatorpediniere, il Fuciliere.
Gli altri superstiti del Leone, rimasti a Massaua, caddero in prigionia pochi giorni dopo, l’8 aprile, quando la piazzaforte si arrese alle forze del Commonwealth dopo che ogni nave ancora presente nel suo porto si era autoaffondata. Due degli uomini del Leone morirono durante la lunga prigionia: il marinaio cannoniere Rosario Andronaco morì in India il 18 giugno 1943, ed il marinaio fuochista Giovanni Corciulo morì in Kenya il 30 novembre 1945, a guerra finita.
 
Un’altra immagine del Leone