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Il Nicoloso Da Recco (g.c. Carlo Di Nitto, via www.naviearmatori.net) |
Cacciatorpediniere, già esploratore, della classe Navigatori (dislocamento standard 2125 tonnellate, 2760 in carico normale, 2880 a pieno carico).
Dai gemelli il Da Recco, progettato per il ruolo di conduttore di flottiglia e nave ammiraglia del Gruppo esploratori, si distingueva per la tuga poppiera molto più lunga ed ampia (per ospitare gli alloggi per un ammiraglio ed i locali destinati al suo stato maggiore) e per la conseguente mancanza delle ferroguide per il trasporto e la posa di mine, per le quali non vi era spazio sufficiente proprio a causa della sovrastruttura più voluminosa. Insieme all'Usodimare fu inoltre l'unica unità della classe a non essere sottoposta ai radicali lavori di modifica del 1939-1940, che videro l'allargamento dello scafo e la realizzazione di una nuova prua “a clipper”, mantenendo fino alla fine della sua carriera l'aspetto originale con prora verticale.
Durante il conflitto svolse 188 missioni di guerra, di cui 82 di scorta convogli, 13 di posa mine (sempre e solo come unità di scorta delle navi incaricate della posa, non avendo le ferroguide per trasportare e posare quegli ordigni), 9 di caccia antisommergibili, 6 di trasporto, 5 per ricerca del nemico, una di bombardamento contro costa, 28 per esercitazione, 21 di trasferimento e 23 di altro tipo, percorrendo 68.104 (o 68.318) miglia nautiche e trascorrendo 4566 ore in mare e 333 giorni ai lavori. Dopo un iniziale periodo di attività di squadra, fu intensamente impiegato dapprima nella posa di campi minati (ma solo come unità di scorta) e poi nella scorta ai convoglio per il Nordafrica: fu tra i protagonisti di quella tragica epopea.
Il suo motto era "Ardisci e vinci". Fu l'unica delle dodici unità della sua classe a sopravvivere alla guerra.
Breve e parziale cronologia.
14 dicembre 1927
Impostazione presso i Cantieri Navali Riuniti di Ancona.
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Il Da Recco ed il gemello Emanuele Pessagno in costruzione in una foto scattata il 30 giugno 1929 (da www.war-book.ru) |
5 gennaio 1930
Varo presso i Cantieri Navali Riuniti di Ancona.
Due immagini del varo del Da Recco (sopra: dalla pagina Facebook “Cacciatorpediniere classe Navigatori”; sotto: da www.oplon.jimcdn.org)
6 aprile 1930
Durante le prove in mare, svolte nel tratto di mare tra Ancona e le Isole Tremiti, il Da Recco tocca i 41,504 nodi, stabilendo un primato mondiale di velocità e superando di oltre due nodi la velocità stabilita dal contratto; tuttavia queste prove, com'è costume italiano dell'epoca, vengono svolte in condizioni irrealistiche, con dislocamento sensibilmente inferiore a quello che la nave avrebbe in condizioni operative: appena 1770 tonnellate, un migliaio in meno rispetto al dislocamento in carico normale (durante una precedente uscita di prova tra Ancona e Castelfidardo, eseguita con dislocamento di 1863 tonnellate, la velocità massima è stata di 39,29 nodi, con 383 giri per minuto delle eliche ed un consumo orario di 26,17 tonnellate di nafta). Le prove, come mostrano alcune foto dell'epoca, sono eseguite prima ancora dell'installazione dell'armamento principale da 120 mm. In reali condizioni operative, la velocità risulterà essere ben più ordinaria, sui 32-33 nodi (altra fonte, probabilmente erronea, parla di 38 nodi, ridotti a 33 dopo le modifiche di fine anni Trenta).
Il Da Recco durante le prove di velocità al largo di Ancona, nell’aprile 1930 (sopra: dalla pagina Facebook “Cacciatorpediniere classe Navigatori”; sotto: da www.meludo.it)
Notizia del record di velocità del Da Recco sul “West Australian” (da www.trove.nla.gov.au) |
Il Da Recco alle prove di velocità sulla tratta Ancona-Isole Tremiti, il 5 maggio 1930. Notare la mancanza dei complessi binati da 120 mm, prassi comune durante le prove in mare delle unità della Regia Marina, il che però comportava inevitabilmente delle velocità inverosimili rispetto alle reali condizioni operative (Archivio Luce, pagina Facebook “Cacciatorpediniere classe Navigatori”, e www.forums.airbase.ru)
20 maggio 1930
Entrata in servizio, classificato esploratore leggero. La sua costruzione è costata 20.650.000 lire: risulta così il più “economico” dei Navigatori, insieme all'Emanuele Pessagno, mentre otto degli altri gemelli sono costati 20.750.000 lire e due, Ugolino Vivaldi ed Antoniotto Usodimare, ben 21.150.000. Da Recco e Pessagno sono anche le uniche due unità della classe ad usare turbine Tosi e caldaie Odero (le altre usano turbine Parsons o Belluzzo e caldaie Yarrow od Odero).
Assegnato alla I Squadriglia Esploratori, successivamente trasferito alla II.
31 agosto-10 ottobre 1930
Dopo
un breve periodo di addestramento, viene sottoposto a Genova a lavori
di alleggerimento e modifica delle sovrastrutture al fine di
migliorare la stabilità trasversale, che le prove in mare hanno
rivelato essere problematica a causa delle sovrastrutture
relativamente alte e massicce ed all'elevato coefficiente di finezza
dello scafo. Le sovrastrutture prodiere vengono pertanto abbassate di
un livello (cioè di 2,5 metri) ed alleggerite (con anche
l'eliminazione dell'albero prodiero a tripode, sostituito con uno a
fuso, e del proiettore da combattimento del diametro di 90 cm situato
sull'albero stesso) per eliminare i pesi situati in alto, i fumaioli
vengono anch'essi leggermente abbassati (specialmente quello
poppiero) e vengono eliminati alcuni serbatoi laterali per il
carburante situati sopra la linea di galleggiamento, utilizzando al
loro posto i doppi fondi situati a proravia della sala caldaie
prodiera, nei quali vengono installati tre serbatoi trasversali (così
riducendo la riserva di nafta da 630 tonnellate a 533 tonnellate; per
altra fonte, da 460 a 250). I due impanti lanciasiluri trinati in
linea tipo San Giorgio (ciascuno composto da un tubo lanciasiluri
centrale da 450 mm e due laterali da 533 mm) vengono sostituiti, per
lo stesso motivo, con altrettanti impianti binati da 533 mm, più
leggeri. Altre modifiche comprendono inoltre: l'eliminazione delle
cabine dei sottufficiali anziani dal piano più basso delle
sovrastrutture prodiere, per ricavare al loro posto la sala radio e
la centrale di direzione del tiro (munita di due telemetri di tre
metri, collocati su speciali cuscinetti anti-vibrazioni e muniti di
scartometri progettati per misurare le deviazioni nella caduta dei
colpi e di un inclinometro «San Giorgio» per la misurazione
dell'angolo rispetto alla rotta del bersaglio); il rafforzamento
della parte poppiera dello scafo, in seguito ad un cedimento del
fasciame sull'Antonio
Pigafetta; la
realizzazione, nella parte poppiera delle sovrastrutture prodiere, di
una piccola plancia sopraelevata con stazione di direzione del tiro;
la realizzazione, sulla sovrastruttura centrale, di una postazione
chiusa con telemetro di tre metri.
Pur migliorando la stabilità,
questi provvedimenti non risolvono del tutto i problemi di tenuta del
mare dei “Navigatori”; loro conseguenza negativa è la riduzione
della velocità massima, che cala da 38 a 33 nodi (per altra fonte,
30-32).
L'armamento contraereo viene contestualmente potenziato con l'imbarco di due mitragliere binate Breda da 13,2/76 mm, installate sulla plancia, e di due torpedini da rimorchio "Ginocchio".
Prove di velocità al largo di Ancona, 10 ottobre 1930 (Fototeca USMM) |
Dicembre
1930-Marzo 1931
Il Da
Recco è tra le unità
adibite ad appoggiare la crociera aerea transatlantica dall'Italia al
Brasile di Italo Balbo. Le navi assegnate a questo compito, che
compongono la Divisione Esploratori (o "Divisione Navale
dell'Oceano") al comando dell'ammiraglio di divisione Umberto
Bucci (con insegna proprio sul Da
Recco), sono tutte unità
della classe Navigatori, suddivise in tre gruppi disposti lungo la
rotta degli idrovolanti: Da
Recco (capogruppo, capitano
di vascello Antonio Pasetti), Luca
Tarigo (capitano di fregata
Edmondo e Stefano) ed Ugolino
Vivaldi (capitano di
fregata Vincenzo Brunetti) costituiscono il I Gruppo (dislocato alle
Canarie ed assegnato all'Atlantico centrale), Antonio
Da Noli (capogruppo,
capitano di vascello Riccardo Paladini), Leone
Pancaldo (capitano di
fregata Diego Pardo) e Lanzerotto
Malocello (capitano di
fregata Carlo Alberto Coraggio) formano il II Gruppo (dislocato a
Pernambuco, per l'assistenza nella zona americana dell'Atlantico), ed
Emanuele Pessagno
(capogruppo, capitano di vascello Vincenzo Magliocco) ed Antoniotto
Usodimare (capitano di
fregata Ettore Sportiello) formano il III Gruppo (di competenza della
parte africana dell'Atlantico). In tal modo, gli otto esploratori
“copriranno” completamente il tragitto che gli idrovolanti
dovranno percorrere, dall'Africa al Brasile.
Dislocati tutti a
Porto Santo Stefano tra l'ottobre ed il novembre 1930, gli
esploratori salpano da La Spezia scaglionati tra fine novembre ed
inizio dicembre, per raggiungere le rispettive posizioni assegnate,
ed attendervi il passaggio degli idrovolanti; il I e III Gruppo
partono il 1° dicembre 1930, seguendo itinerari differenti, mentre
il II Gruppo li precede di un giorno. Passeranno in mare quasi
quattro mesi; loro compito sarà di aiutare gli aerei ad orientarsi,
fungendo da faro di riferimento di notte (allo scopo, sono stati
muniti di proiettori per illuminare di notte la rotta degli aerei,
che andranno accesi un'ora prima del passaggio dei velivoli e messi
sulla verticale dopo che anche l'ultimo è passato; di giorno lo
stesso servizio verrà svolto emettendo fumo, con inizio 40 minuti
prima del passaggio degli aerei) e fornendo loro rilevamenti
radiogoniometrici di giorno, oltre a mantenere il collegamento aereo
tra gli aerei e le basi a terra (grazie anche al contributo
dell'International Telephone and Telegraph Corporation di New York,
che mette a disposizione tutti gli apparati dell'International System
del Sudamerica), fornire aggiornamenti meteorologici e prestare
soccorso ad eventuali idrovolanti che fossero costretti ad ammarare
nell'oceano, o rifornirli in caso di necessità (per questo scopo,
l'area di oceano che sarà sorvolata dagli idrovolanti è divisa in
tre zone di competenza di ciascun gruppo, a loro volta suddivise in
sotto-zone di competenza delle singole navi).
Il gruppo composto da Da Recco, Vivaldi e Tarigo fa scalo ad Orano il 3 dicembre 1930, a Ceuta il 6 dicembre, a Casablanca l'11 ed a La Luz di Gran Caria il 12; qui le navi si dividono: Da Recco e Tarigo proseguono per Dakar, dove arrivano il 19 dicembre, e Bolama, dove giungono la vigilia di Natale, e dove si dislocano per svolgere la loro attività di appoggio; il Vivaldi rimane invece a La Luz fino al 19 dicembre, quando parte per Dakar (dove arriva l'indomani) e poi proseguire per il punto stabilito per la sua attività di appoggio, raggiungendolo il 31 gennaio.
Il II Gruppo fa scalo a Ceuta (6 dicembre), Casablanca (8 dicembre) e Dakar (11 dicembre) e poi raggiunge Pernambuco (20 dicembre), dove il Pancaldo rimane, mentre il Da Noli prosegue per Bahia ed il Malocello dapprima per Natal e poi per Rio de Janeiro; il III Gruppo fa tappa ad Almeria (3 dicembre), Las Palmas (9 dicembre), Villa Cisneros, Dakar (27 dicembre), Pernambuco, Bahia per poi raggiungere Rio de Janeiro. Il mattino del 3 gennaio 1931 Da Recco, Vivaldi e Tarigo salpano da Bolama, Pessagno ed Usodimare da Dakar, Pancaldo, Da Noli e Malocello da Pernambuco, dirigendo ciascuno nel punto assegnato lungo la rotta degli idrovolanti; a sorvolo avvenuto, dovranno dirigere verso Fernando de Noronha, per poi riunirsi in un unico gruppo in navigazione verso Rio de Janeiro il 15 gennaio.
La crociera aerea Italia-Brasile costituisce la prima trasvolata oceanica in formazione mai compiuta: quattordici idrovolanti Savoia Marchetti S. 55, guidati dallo stesso Balbo, decolleranno da Orbetello (vicino a Grosseto) e raggiungeranno Bahia, in Brasile, facendo scalo intermedio a Cartagena (Spagna), Kenitra (Marocco), Villa Cisneros (Marocco), Bolama (Guinea) e Natal (Brasile).
Due degli idrovolanti sono di riserva, mentre gli altri quattordici sono divisi in quattro squadriglie di tre aerei, ciascuna identificata da un colore (che contraddistingue una fascia dipinta sulle ali): rossa, verde, bianca, nera (quest'ultima, comandata personalmente da Balbo, sarà la prima a partire). Gli equipaggi contano in tutto 56 uomini.
Undici Savoia Marchetti S. 55 (gli altri tre si aggregheranno in Africa) decollano da Orbetello il mattino del 17 dicembre 1930, e dopo aver fatto scalo alle Baleari (dove si verificano i primi problemi a causa di una tempesta ciclonica), in Spagna (Cartagena) ed in Marocco (a Kenitra sulla costa atlantica e poi a Villa Cisneros, nella baia del Rio de Oro), raggiungono il 25 dicembre la baia di Bolama, nella Guinea portoghese. Da qui ripartono tra la mezzanotte e le due di notte del 6 gennaio 1931 per compiere la traversata dell'Oceano Atlantico, tremila chilometri da coprire in venti ore. Le condizioni meteorologiche sono sfavorevoli – gli aerei sono pronti alla partenza fin dal 1° gennaio, ma questa è stata più volte rinviata a causa del maltempo –, ma si decide di partire lo stesso per non perdere il plenilunio. In fase di decollo si verificano purtroppo due gravi incidenti: l'idrovolante I-RECA del capitano Enea Silvio Recagno, dopo essere salito fino a 45 metri di quota, è costretto ad un ammaraggio forzato, che provoca il danneggiamento di un galleggiante e la morte del sergente meccanico Luigi Fois; l'idrovolante I-BOER, del capitano Luigi Boer, è costretto ad un atterraggio forzato dieci minuti dopo il decollo e s'incendia immediatamente, provocando la morte dei quattro uomini dell'equipaggio (oltre al capitano Boer, il tenente Danilo Barbicinti, il sergente maggiore Ercole Imbastari ed il sergente Felice Nensi). Un altro idrovolante, l'I-VALL pilotato dal generale Giuseppe Valle, ha problemi a decollare e riuscirà a partire soltanto un'ora e mezza dopo il resto degli aerei, che tuttavia riuscirà a raggiungere prima dell'arrivo in Brasile (anzi, arriverà prima di alcuni degli altri idrovolanti, sebbene questi siano decollati prima di lui, avendo sapientemente sfruttato i venti delle bassissime quote).
Il Da Recco ed il panfilo Alice dell’Aeronautica durante la trasvolata di Balbo (da www.trasvolatoriatlantici.it)
Le
condizioni meteorologiche sono pessime, rendendo molto difficile il
mantenimento della formazione: buio pesto nelle prime ore di volo,
forti piogge il mattino del 6 gennaio, cielo coperto con piogge
occasionali durante il giorno, e fitte nubi presso la costa
brasiliana. Per le prime sei ore di volo gli idrovolanti la
navigazione avviene esclusivamente attraverso la strumentazione di
bordo. Le autorità brasiliane inviano continuamente agli idrovolanti
bollettini sull'evoluzione della situazione meteo, e Balbo si
mantiene costantemente in contatto con le navi appoggio, con Bolama,
con Natal e con Roma. Due degli idrovolanti, l'I-BAIS (capitano
di fregata Umberto Baistrocchi) e l'I-DONA (capitano Renato
Donadelli), sono costretti ad ammarare in pieno oceano a causa di
avarie, ma entrambi vengono raggiunti e soccorsi, rispettivamente,
da Pessagno e Da
Noli (l'I-DONA, rimorchiato
a Fernando de Noronha, potrà riprendere il volo dopo aver riparato
le avarie ed essersi rifornito, mentre l'I-BAIS dovrà essere
abbandonato dall'equipaggio ed andrà perduto a causa dello stato del
mare).
Alle 19.30 dello stesso giorno i dieci idrovolanti
rimasti raggiungono Porto Natal, in Brasile, dove l'8 gennaio li
raggiunge anche l'I-DONA, riuscito a ripartire dopo aver riparato
l'avaria (non così l'I-BAIS, sfasciatosi dopo essere stato gettato
dalle onde contro lo scafo del Pessagno).
I tremila chilometri tra Bolama e Natal sono stati coperti in 18
ore.
Da Natal gli undici velivoli, dopo aver preso a bordo anche
il generale dell'Aeronautica Aldo Pellegrini (comandante della Scuola
di Navigazione Aerea d'Alto Mare di Orbetello e tra gli organizzatori
della trasvolata), il tenente degli alpini Lino Balbo (nipote di
Italo Balbo) e cinque giornalisti giunti dall'Italia a bordo del
motoveliero noleggiato Aosta
(Nello Quilici del “Corriere Padano”, Adone Nosari del “Giornale
d'Italia”, Ernesto Quadrone della “Stampa”, Michele Intaglietta
della “Gazzetta del Popolo” e Mario Massai del “Corriere della
Sera”; ad un sesto giornalista, Luigi Freddi del “Popolo
d'Italia”, viene impedito di raggiungere Bahia perché considerato
dalle autorità brasiliane “persona non gradita” a causa di suoi
passati articoli giudicati anti-brasiliani), ripartono alle 7.45
dell'11 gennaio per Bahia, dove giungono alle 14.30, dopo aver
seguito la costa brasiliana, e dove ammarano simultaneamente alle
15.35 dopo aver compiuto alcuni giri sopra la città.
Nel porto di Bahia trovano ad attenderli all'ormeggio il Da Recco, il Tarigo, il Vivaldi ed il Da Noli.
Il 13 gennaio i quattro esploratori lasciano Bahia diretti a Rio de Janeiro, destinazione finale della trasvolata (durante la navigazione si ricongiungono con Pancaldo, Pessagno, Usodimare e Malocello), ed il 15 gennaio anche gli idrovolanti ripartono da Bahia diretti verso Rio, distante 1400 km. Qui la formazione di Balbo giunge alle cinque del pomeriggio del 15 gennaio, ammarando nella baia di Guanabara, dopo aver coperto complessivamente 10.350 km (5600 miglia) in 61 ore e mezzo di volo, concludendo trionfalmente la traversata. Esploratori – riunitisi in un'unica formazione proprio quel giorno – ed aerei giungono a Rio simultaneamente: le otto unità della Divisione Navale dell'Oceano imboccano la baia di Guanahara in linea di fila, divisi in due colonne, mentre gli idrovolanti di Balbo sopraggiungono in formazione a cuneo, davanti al Pan di Zucchero, scortati da biplani dell'aviazione brasiliana. Mentre l'idrovolante di Balbo, l'I-BALB, alza la bandiera italiana, gli otto “Navigatori” salutano con 19 salve dei loro 48 pezzi da 120 mm; rendono il saluto anche le batterie brasiliane situate nelle isole e sulle coste della baia, nonché le navi brasiliane presenti alla fonda. Assiste all'arrivo degli idrovolanti un milione di persone.
La trasvolata, oltre che una notevole impresa aviatoria, costituisce un notevole successo propagandistico per il regime fascista, raccogliendo elogi da parte della stampa internazionale e l'apprezzamento di figure del calibro di Charles Lindbergh.
Il
16 gennaio il Da Recco
viene visitato a Rio de Janeiro dal presidente del Brasile, Getúlio
Vargas.
Il 7 febbraio, a impresa aviatoria conclusa, la
Divisione Esploratori inizia il viaggio di ritorno, divisa in due
gruppi: il Da Recco forma
il II Gruppo, insieme a Pessagno,
Vivaldi
ed Usodimare,
che fa scalo in successione a Bahia, Pernambuco e Fernando de
Noronha. Gli esploratori scortano anche il transatlantico Conte
Rosso, sul quale
rimpatriano gli equipaggi degli idrovolanti.
Il 21 febbraio il Da Recco, causa un'avaria ai condensatori, è costretto a rientrare a Pernambuco scortato dal Vivaldi, mentre l'ammiraglio Bucci trasferisce la sua insegna sull'Usodimare, che insieme al Pessagno prosegue e fa scalo a Dakar, Santa Cruz de Tenerife e Ceuta, dove le due unità arrivano il 6 marzo. Riunite così sei delle otto unità della Divisione (Usodimare, Pessagno, Tarigo, Pancaldo, Malocello e Da Noli), queste proseguono la navigazione l'11 marzo e, dopo un ultimo scalo ad Algeri, giungono a Gaeta il 18 marzo 1931.
Riparata
l'avaria, Da Recco
e Vivaldi
lasciano Pernambuco il 27 aprile e raggiungono Dakar il 7 maggio, Las
Palmas il 14 e Ceuta il 20; rientrano infine a La Spezia il 25 (o 27)
maggio 1931.
Nella sua relazione, l'ammiraglio Bucci evidenzia
che, quando il carico di nafta dei Navigatori scende sotto le 250
tonnellate, le sbandate in accostata divengono considerevoli;
su Pessagno e Pancaldo,
in particolare, con carico di nafta ridotto a 120 tonnellate si è
reso necessario l'allagamento di alcuni depositi per mantenere la
stabilità.
Gli equipaggi degli esploratori sono rimasti in missione per 109 giorni, 37 dei quali (in media) in navigazione.
Al ritorno da questa crociera inizia per il Da Recco l'attività di squadra, con frequenti esercitazioni e crociere in porti esteri del Mediterraneo.
Sopra: la Divisione Esploratori arriva a Rio de Janeiro; sotto: Italo Balbo ne passa in rassegna gli equipaggi dopo l’arrivo (Fototeca USMM)
Il Da Recco riceve la visita del presidente del Brasile a Rio de Janeiro, il 16 gennaio 1931 (sopra: dal volume USMM “Esploratori leggeri classe Navigatori”, via g.c. Marcello Risolo e www.naviearmatori.net; sotto: dalla pagina Facebook “Cacciatorpediniere classe Navigatori”)
Il presidente del Brasile sale sul Da Recco (fototeca USMM) |
6 settembre 1931
Alle sei del mattino il Da Recco (capitano di vascello Antonio Pasetti) salpa da La Maddalena diretto a La Spezia, dove deve rientrare dopo aver passato due settimane impegnato in esercitazioni nell'alto e medio Tirreno insieme al resto della Divisione Esploratori dell'ammiraglio Bucci. Durante la navigazione nel mare in tempesta, al traverso della Gorgona, un'onda di eccezionali dimensioni spazza la coperta del Da Recco e trascina in mare tutte le imbarcazioni ed anche sette uomini che si trovavano in coperta per issare il segnale nominativo per il riconoscimento da parte del semaforo della Gorgona: il giovane sottotenente di vascello Domenico Ravera (22 anni, da Genola), un sottufficiale, un sottocapo e quattro marinai. I marinai Pietro Confalonieri ed Americo Bombai ed il cannoniere Giuseppe Toniolo (tutti ventunenni), scagliati dalle onde contro le sovrastrutture, rimangono seriamente feriti riportando fratture e contusioni.
Il comandante Pasetti ordina subito di fermare le macchine e poi di rivolgere la prua al mare, in modo da evitare le onde al traverso che provocano pericolose sbandate; ma il recupero degli uomini in mare è ostacolato dalla perdita di tutte le imbarcazioni. Il sottotenente di vascello Ravera, sebbene seriamente ferito ad entrambe le gambe, riesce a raggiungere a nuoto una delle imbarcazioni e ad arrampicarvisi a bordo, dopo di che issa a bordo altri quattro uomini, tra cui il marinaio torpediniere Giuseppe Serini (anch'egli ventunenne), seriamente contuso all'anca sinistra; non riesce invece a ritrovare il sottufficiale ed il sottocapo, ormai scomparsi tra le onde. Con difficile manovra il Da Recco si affianca all'imbarcazione – che è priva di remi – e ne prende a bordo gli occupanti, a partire da quelli feriti più gravemente; il sottotenente di vascello Ravera è l'ultimo a salire a bordo. Il medico di bordo provvede a prestare le prime cure.
Per due ore il Da Recco continua ad incrociare nella zona in cerca dei due dispersi, ma senza successo; alla fine, quando sopraggiungono altri due esploratori della Divisione, affida ad essi il compito di proseguire le ricerche e dirige a tutta forza verso La Spezia, dove arriva alle 13.30. Subito si reca a bordo a mezzo di un motoscafo, prima ancora che la nave si ormeggi, l'ammiraglio Roberto Monaco di Longano, comandante militare marittimo dell'Alto Tirreno (informato dell'incidente per radio), cui il comandante Pasetti riferisce nei particolari sull'accaduto.
Ormeggiatosi al Molo Lagora (od al Molo Foraneo), il Da Recco sbarca i feriti, che sono subito trasportati in ambulanza all'Ospedale militare marittimo, dove l'indomani saranno visitati dal comandante Pasetti e dagli ammiragli Bucci, Monaco, Fausto Gambardella (comandante della 1a Squadra Navale) e Leopoldo Novaro (comandante dell'Arsenale di La Spezia).
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Articolo del “Corriere della Sera” sull’incidente (g.c. Andrea Tirondola) |
Novembre 1931
Partecipa ai festeggiamenti per il cinquantesimo della fondazione dell'Accademia Navale di Livorno.
8
dicembre 1931
Ormeggiato
di poppa alla calata Gadda del porto di Genova, il Da
Recco riceve a Genova
la bandiera di combattimento, insieme ai gemelli Ugolino
Vivaldi, Alvise
Da Mosto, Antonio
Da Noli, Antoniotto
Usodimare, Emanuele
Pessagno, Leone
Pancaldo e Lanzerotto
Malocello, nel corso di una
cerimonia solenne cui partecipano anche il cardinale Carlo Dalmazio
Minoretti, che benedice le bandiere, il senatore Eugenio Broccardi
(podestà di Genova) e l'ammiraglio Bucci. Le bandiere sono offerte
dalla città di Genova e dai paesi natali dei navigatori cui le navi
sono intitolate: quella del Da
Recco dal Comune di
Recco.
La cerimonia inizia alle 10.30 con la celebrazione della
messa da parte del reverendo Ambrogio Nebiolo, cappellano della
1a Squadra
Navale, al cospetto delle autorità civili e militari; alle 11 il
cardinale Minoretti sale a bordo del Da
Noli, nave ammiraglia della
Divisione Esploratori, ed impartisce la benedizione alle otto
bandiere di combattimento, dopo di che il podestà Broccardi
pronuncia un discorso e l'ammiraglio Bucci esprime un breve
ringraziamento. Si tiene poi la cerimonia dell'alzabandiera; le otto
bandiere sono issate a riva dell'alberetto poppiero di ciascuna nave,
al grido di "Viva il re" da parte degli equipaggi, mentre i
cannoni sparano le salve regolamentari per la celebrazione e la folla
assiepata sui moli acclama. Alle 11.35 la cerimonia ha termine e le
autorità prendono parte ad un rinfresco offerto dal Comando della
Divisione Esploratori a bordo del Da
Noli.
1932
Il
timone viene sostituito con uno di maggiori dimensioni, per
migliorare le qualità evolutive.
1932
Compie crociere in Mediterraneo, visitando porti della Spagna e della Libia.
1933
Altra crociera in Mediterraneo, nella quale visita Alessandria d'Egitto.
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Il Da Recco in transito presso il ponte girevole di Taranto negli anni Trenta (da La Voce del Marinaio) |
22 aprile 1934
Il Da Recco , inquadrato nella II Squadriglia Esploratori insieme ai gemelli Lanzerotto Malocello, Emanuele Pessagno e Giovanni Da Verrazzano, ed unitamente alla I Squadriglia Esploratori (formata dai gemelli Luca Tarigo, Ugolino Vivaldi, Antoniotto Usodimare ed Alvise Da Mosto) nonché alla IV Squadriglia Cacciatorpediniere (Francesco Crispi, Quintino Sella, Giovanni Nicotera, Bettino Ricasoli, Tigre, Francesco Nullo, Daniele Manin) ed al posamine Dardanelli, presenzia alla cerimonia per la consegna della bandiera di combattimento agli incrociatori leggeri Alberico Da Barbiano, Alberto Di Giussano, Giovanni delle Bande Nere, Bartolomeo Colleoni e Luigi Cadorna, nel bacino di San Marco a Venezia.
1936
Al comando del capitano di corvetta (?) Costanzo Casana, il Da Recco partecipa ad operazioni in Mar Rosso durante la guerra d'Etiopia.
9 settembre 1936
Al comando del capitano di vascello Gustavo Strazzeri (caposquadriglia della I Squadriglia Esploratori della 2a Squadra Navale) il Da Recco salpa da La Spezia diretto a Tangeri, dove deve rilevare il gemello Da Noli in qualità di stazionario, nel difficile quadro determinato dallo scoppio della guerra civile spagnola.
12
settembre 1936
Arriva
a Tangeri.
17-20 settembre 1936
Scorta la motonave Aniene (nominativo temporaneo assegnato alla spagnola Ebro, rifugiatasi a Genova allo scoppio della guerra civile e requisita dal governo italiano per trasportare rifornimenti per i nazionalisti) in navigazione verso Vigo.
3 ottobre 1936
Scorta il transatlantico Oceania, in navigazione da Buenos Aires a Napoli, ed il piroscafo Città di Bengasi, in navigazione in direzione opposta e diretto a Vigo.
4
ottobre 1936
Rilevato
dal gemello Pigafetta,
lascia Tangeri per rientrare in Italia.
6 ottobre 1936
Arriva a La Spezia.
28-29 dicembre 1936
Il Da Recco scorta da Palma di Maiorca (dov'è arrivato il 25 dicembre da La Spezia e da dove riparte il 28) a Cadice (dove giunge il 29) il piroscafo Tevere (comandante militare capitano di corvetta di complemento Giuseppe Sardi), avente a bordo 776 militari del Corpo Truppe Volontarie (54 ufficiali, 63 sottufficiali, 659 soldati) diretti in Spagna per combattere a fianco dei nazionalisti nella guerra civile, 24 autocarri, 6 automobili e materiale vario.
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(dalla pagina Facebook “Cacciatorpediniere classe Navigatori”) |
29 dicembre 1936
Al termine della missione di scorta al Tevere, il Da Recco trasporta da Tangeri a Cadice il contrammiraglio Angelo Iachino (comandante del Gruppo navi italiane in acque spagnole), che in qualità di rappresentante della Marina italiana deve partecipare ad una conferenza avente lo scopo di definire le modalità per l'aiuto navale dell'Italia e della Germania alla Marina nazionalista spagnola, da tenersi a Cadice il 30 dicembre a bordo dell'incrociatore pesante Canarias, nave ammiraglia della Marina nazionalista.
Oltre a Iachino, partecipano alla riunione il capitano di vascello Giovanni Remedio Ferretti, capo della missione navale italiana in Spagna; il contrammiraglio Hermann von Fischel, quale rappresentante della Marina tedesca; l'ammiraglio Juan Cervera, capo di Stato Maggiore della Marina nazionalista; ed il capitano di vascello (poi contrammiraglio) Francisco Moreno, comandante della flotta nazionalista, nonché i rispettivi capi di Stato Maggiore.
L'ammiraglio Cervera, dopo aver sottolineato che la direzione della guerra sul mare deve rimanere di competenza degli spagnoli, procede ad esporre una serie di richieste, alcune sensate ed altre decisamente irrealistiche: la cessione da parte della Marina italiana di sei esploratori e sei cacciatorpediniere dei più moderni, da impiegare nella guerra contro il traffico repubblicano; l'aiuto italiano per il potenziamento di Maiorca come base aeronavale, dalla quale dovranno poter operare gli incrociatori nazionalisti; il minamento delle acque territoriali spagnole per colpire indiscriminatamente il traffico diretto in Spagna, anche quello destinato alla popolazione civile, in modo da danneggiare la resistenza dei repubblicani (e contemporaneamente, per essere pronti a reagire ad un'analoga ritorsione da parte repubblicana, l'allestimento di gruppi di dragamine nei principali porti nazionalisti).
L'ammiraglio Iachino fa presente che l'Italia non può cedere cacciatorpediniere ai sensi del Trattato di Londra del 1936 e del Trattato di Washington del 1929, che vietano la cessione di unità navali a Paesi belligeranti, per non parlare del precedente che si verrebbe a creare e delle potenziali ripercussioni internazionali; inoltre rileva come la presenza in mare di uno dei due incrociatori pesanti in mano ai nazionalisti (Canarias e Baleares) si è finora mostrata sufficiente a scoraggiare le navi repubblicane dall'uscire dai porti. L'ammiraglio von Fischel concorda con il collega italiano ed aggiunge che anche la Germania non può cedere cacciatorpediniere, avendone troppo pochi. Dinanzi all'insistenza di Cervera, che chiede se non altro la cessione di qualche cacciatorpediniere di tipo antiquato per la protezione antisommergibili degli incrociatori, i due rimandano ulteriori discussioni fino a quando non sarà stato accertato se sommergibili sovietici operano in Mediterraneo in appoggio a quelli repubblicani, che finora sono apparsi poco efficaci; Iachino promette di prendere in considerazione il trasferimento alla Marina nazionalista di alcuni sommergibili, che opererebbero con equipaggi misti.
Vengono escluse azioni di bombardamento navale contro centri o batterie costiere, dato il dispendio di munizioni e la scarsa efficacia di azioni del genere (unica eccezione viene fatta per l'eventualità di bombardare il porto di Valencia), ed evidenziata l'opportunità di intercettare le navi da guerra repubblicane quando queste uscissero dai porti, facendo affidamento sulla maggior potenza delle artiglierie delle navi in mano ai nazionalisti, e di lanciare attacchi aerei e di motosiluranti contro Malaga, nonché la necessità di potenziare la base di Ceuta per dislocarvi un incrociatore nazionalista con l'incarico di proteggere i convogli che attraversano lo stretto di Gibilterra con truppe nazionaliste.
Sul tema del blocco dei porti repubblicani, viene sottolineata la necessità di intensificare l'attività di intercettazione delle navi al servizio della Repubblica, fermando “quanti più piroscafi possibili onde dare la sensazione di una grande vigilanza e spaventare i contrabbandieri”. Viene inoltre stabilita la necessità di precisare, da parte del comando nazionalista, le modalità per il fermo e l'ispezione delle navi neutrali, per evitare differenze di trattamento che possano dar luogo ad incidenti diplomatici (in precedenza il comportamento delle navi nazionaliste è stato alquanto disomogeneo: i comandanti non hanno ordini chiari, l'ammiraglio Moreno fa esercitare il diritto di visita anche al di fuori delle acque territoriali mentre l'ammiraglio Cervera ha dato ordini in senso contrario). Cervera s'impegna ad emanare chiare direttive in merito, ed assicura che chiederà all'ambasciata britannica il permesso di visitare le navi britanniche.
Infine, viene concordata una maggiore collaborazione informativa e stabilito che l'Italia manterrà sommergibili in agguato sulla costa orientale spagnola, impiegherà dragamine con base a Palma di Maiorca (navi ed equipaggi spagnoli, con attrezzature per dragaggio italiane) e condurrà voli per ricognizione e bombardamento dalla medesima base, mentre la Germania impiegherà dragamine sulla costa occidentale e meridionale della Spagna (e su quella settentrionale del Marocco) e svolgerà anch'essa attività di ricognizione e bombardamento con i propri aerei facendo base a Melilla.
Interessanti le osservazioni di Iachino sulle sue controparti: “l'ammiraglio Cervera, richiamato dalla posizione ausiliaria in cui era stato posto per limiti di età una settimana prima della rivoluzione, è un vecchietto vivace ed intelligente (…) talvolta un po' troppo precipitoso nelle sue conclusioni, onde gli occorre sovente di dover contromandare le sue decisioni dopo un più maturo esame della questione (…) L'ammiraglio Moreno (…) è giovane, energico e risoluto, dimostra intelligenza e visione esatta delle cose nonché sicura conoscenza della dottrina della guerra navale. L'ammiraglio von Fischer [sic] è giovane, proviene dagli ufficiali sommergibilisti che si sono fatti un nome durante la passata guerra; è stato a lungo in Adriatico ed in Mediterraneo dove ha affondato vari piroscafi. È serio, intelligente ma un po' lento e non dimostra grande energia ed attività”. Circa le unità navali nazionaliste, “sembrano abbastanza efficienti ma difettano di pulizia e rassetto: il personale è tutto nuovo e poco esercitato; non è tutto fidato dal punto di vista politico e si fanno continuamente epurazioni che finiscono con fucilazioni (…) Il servizio r.t. sulle navi spagnole è molto mediocre sia per il materiale che per il personale operatore il quale è ben poco scrupoloso poiché i radiotelegrafisti sono stati il nerbo della rivoluzione rossa”.
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(foto Paolo De Siati, da “Le navi del re. Immagini di una flotta che fu” di Achille Rastelli, via Marcello Risolo e www.naviearmatori.net) |
25 marzo 1937
Mentre il Da Recco si trova a Tangeri, un gruppo di suoi marinai assalta e devasta la redazione del giornale filorepubblicano “Democrazia”, che ha pubblicato commenti offensivi nei confronti dei soldati italiani del Corpo Truppe Volontarie in seguito alla battaglia di Guadalajara.
1937-1938
Nuovamente dislocato a Tangeri, Cadice, Malaga, Palma di Maiorca ed altri porti del Mediterraneo occidentale durante la guerra civile spagnola, con il compito di controllare il traffico da e per la Spagna (secondo alcuni siti avrebbe compiuto “pattugliamenti di neutralità” nel Mediterraneo occidentale partendo da Tangeri e Cadice).
In questo periodo presta servizio sul Da Recco il palombaro Mario Marino, futura Medaglia d'Oro al Valor Militare.
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Foto aerea del Da Recco (dalla pagina Facebook “Cacciatorpediniere classe Navigatori”) |
Agosto-Settembre 1937
In seguito a pressanti richieste da parte dei comandi spagnoli nazionalisti, i quali sostengono, esagerando di molto, che l'Unione Sovietica stia per rifornire le forze repubblicane spagnole con oltre 2500 carri armati, 3000 “mitragliatrici motorizzate” e 300 aerei, Mussolini ordina il blocco navale del Canale di Sicilia, per impedire l'invio di rifornimenti dall'Unione Sovietica (Mar Nero) alle forze repubblicane spagnole.
Il 3 agosto Francisco Franco ha chiesto urgentemente a Mussolini di usare la sua flotta per fermare un grosso “convoglio” sovietico appena partito da Odessa e diretto nei porti repubblicani; sulle prime era previsto il solo impiego di sommergibili, ma Franco è riuscito a convincere Mussolini ad impiegare anche le navi di superficie. Nel suo telegramma Franco afferma: «Tutte le informazioni degli ultimi giorni concordano nell'annunciare un aiuto possente della Russia ai rossi, consistente in carri armati, dei quali 10 pesanti, 500 medi e 2 000 leggeri (sic), 3 000 mitragliatrici motorizzate, 300 aerei e alcune decine di mitragliatrici leggere, il tutto accompagnato da personale e organi del comando rosso. L'informazione sembra esagerata, poiché le cifre devono superare la possibilità di aiuto di una sola nazione. Ma se l'informazione trovasse conferma, bisognerebbe agire d'urgenza e arrestare i trasporti al loro passaggio nello stretto a sud dell'Italia e sbarrare la rotta verso la Spagna. Per far ciò, bisogna, o che la Spagna sia provvista del numero necessario di navi o che la flotta italiana intervenga ella stessa. Un certo numero di cacciatorpediniere operanti davanti ai porti e alle coste dell'Italia potrebbe sbarrare la rotta del Mediterraneo ai rinforzi rossi: la cattura potrebbe essere effettuata da navi battenti apertamente bandiera italiana, aventi a bordo un ufficiale e qualche soldato spagnolo, che isserebbero la bandiera nazionalista spagnola al momento stesso della cattura. Invierò d'urgenza un rappresentante a Roma per negoziare questo importante affare. Nell'intervallo, e per impedire l'invio delle navi che saranno già in rotta per la Spagna, prego il governo italiano di sorvegliare e segnalare la posizione e la rotta delle navi russe e spagnole che lasciano Odessa. Queste navi devono essere sorvegliate e perquisite da cacciatorpediniere italiani che segnaleranno la loro posizione alla nostra flotta. Vogliate trasmettere in tutta urgenza al Duce e a Ciano l'informazione di cui sopra e la nostra richiesta, unita all'assicurazione dell'indefettibile amicizia e della riconoscenza del generalissimo alla nazione italiana».
Il blocco navale viene ordinato da Roma il 7 agosto ed ha inizio due giorni più tardi; oltre ai sommergibili, inviati sia al largo dei Dardanelli che lungo le coste della Spagna, prendono in mare gli incrociatori Diaz e Cadorna, otto cacciatorpediniere ed altrettante torpediniere che si posizionano nel Canale di Sicilia e lungo le coste del Nordafrica francese. Cacciatorpediniere e torpediniere operano in cooperazione con quattro sommergibili ed un sistema di esplorazione aerea a maglie strette (idrovolanti dell'83° Gruppo Ricognizione Marittima, di base ad Augusta) e sono alle dipendenze dell'ammiraglio di divisione Riccardo Paladini, comandante militare marittimo della Sicilia; successivamente verranno avvicendati da altre siluranti e dalla IV Divisione Navale (incrociatori leggeri Armando Diaz, Alberto Di Giussano, Luigi Cadorna, Bartolomeo Colleoni). Sono complessivamente ben 40 le navi mobilitate per il blocco: i quattro incrociatori della IV Divisione, l'esploratore Aquila, dieci cacciatorpediniere (Freccia, Dardo, Saetta, Strale, Fulmine, Lampo, Espero, Ostro, Zeffiro e Borea), 24 torpediniere (Cigno, Canopo, Castore, Climene, Centauro, Cassiopea, Andromeda, Antares, Altair, Aldebaran, Vega, Sagittario, Astore, Sirio, Spica, Perseo, Giuseppe La Masa, Generale Carlo Montanari, Ippolito Nievo, Giuseppe Cesare Abba, Generale Achille Papa, Nicola Fabrizi, Giuseppe Missori e Monfalcone) e la nave coloniale Eritrea. Altre due navi, gli incrociatori ausiliari Adriatico e Barletta, camuffati da spagnoli Lago e Rio, hanno l'incarico di visitare i mercantili sospetti avvistati dalle navi da guerra in crociera.
Il dispositivo di blocco è articolato in più fasi: informatori ad Istanbul segnalano all'Alto Comando Navale le navi sovietiche, o di altre nazionalità ma sospettate di operare al servizio dei repubblicani, che passano per il Bosforo; ad attenderle in agguato per primi vi sono i sommergibili appostati all'uscita dei Dardanelli. Se le navi superano indenni questo primo ostacolo, vengono segnalate alle navi di superficie ed ai sommergibili in crociera nel Canale di Sicilia e nello Stretto di Messina; qualora dovessero riuscire ad evitare anche questo nuovo pericolo (possibile soltanto appoggiandosi a porti neutrali) troverebbero ad aspettarle altre navi da guerra in crociera nelle acque della Tunisia e dell'Algeria. Infine, come ultima barriera per i bastimenti che riuscissero ad eludere anche tale minaccia, altri sommergibili sono in agguato lungo le coste della Spagna.
In base all'ordine generale d'operazioni numero 1, gli incrociatori, l'Eritrea e parte dei cacciatorpediniere devono compiere esplorazione pendolare sul meridiano 16° E, cooperando con gli aerei da ricognizione che conducono esplorazione sistematica per parallelo; altri cacciatorpediniere formano uno sbarramento esplorativo tra Lampedusa e le propaggini meridionali del banco di Kerkennah (nei pressi di Sfax), mentre le torpediniere conducono esplorazione a rastrello tra Pantelleria e Malta, lungo l'asse del Canale di Sicilia. Adriatico/Lago e Barletta/Rio compiono esplorazione a triangolo presso Capo Bon; Aquila, Fabrizi, Missori, Montanari, Monfalcone, Nievo, Papa e La Masa compiono vigilanza sistematica nello stretto di Messina.
Il blocco si protrae dal 7 agosto al 12 settembre con intensità variabile; nel periodo di maggiore attività sono contemporaneamente in mare nel Canale di Sicilia 12 navi di superficie, 5 sommergibili e 6 aerei. Gli ordini per le navi di superficie sono di avvicinare e riconoscere tutti i mercantili avvistati, specialmente quelli privi di bandiera (e che non la issano subito dopo averne ricevuto l'intimazione dalle unità italiane), quelli che di notte procedono a luci spente, quelli con bandiera sovietica o spagnola repubblicana, quelli che hanno in coperta carichi di natura palesemente militare, e quelli che sono stati specificamente indicati per nome dal Comando Centrale. Se un mercantile viene riconosciuto come al servizio della Spagna repubblicana, la nave italiana che l'ha avvistato deve seguirlo e segnalarlo al sommergibile più vicino, che dovrà poi procedere ad affondarlo. Se quest'ultimo fosse impossibilitato a farlo, spetterebbe alla nave di superficie il compito di seguire il mercantile fino a notte, tenendosi in contatto visivo, per poi silurarlo una volta calata l'oscurità. I piroscafi identificati come “contrabbandieri” di notte devono invece essere subito affondati.
Se venisse incontrato un mercantile repubblicano a grande distanza dalle acque territoriali della Tunisia, la nave che lo avvista deve chiamare sul posto uno tra Rio e Lago oppure una nave da guerra spagnola nazionalista (parecchie di queste sono appositamente dislocate nel Mediterraneo centrale) che provvederanno a catturarlo. Ordini tassativi sono emanati per evitare interferenze o incidenti con bastimenti neutrali (il che talvolta obbliga a seguire un mercantile “sospetto” per tutto il giorno al fine di identificarlo, dato che talvolta quelli diretti nei porti repubblicani usano bandiere false), e questo, insieme all'intensità del traffico navale nel Canale di Sicilia, rende piuttosto complessa e delicata la missione delle navi che partecipano al blocco.
Nei primi giorni del blocco sono particolarmente attivi i cacciatorpediniere di base ad Augusta. Dopo i primi successi, però, ci si rende conto che il sistema di vigilanza nel Canale di Sicilia non funziona come dovrebbe: diversi piroscafi al servizio dei repubblicani lo aggirano avvicinandosi di giorno ai settori in cui incrociano le navi italiane, aspettando il buio per entrare nelle acque territoriali della Tunisia e poi attraversando nottetempo la zona di maggior pericolo seguendo la costa, o sostando nei porti francesi in attesa dell'alba. Di conseguenza, il Comando della Regia Marina dispone delle crociere di cacciatorpediniere nella fascia costiera compresa tra 10 e 30 miglia dalla costa tunisina tra Capo Tenes e La Galite, per completare il dispositivo esistente intensificando la sorveglianza nel Canale di Sardegna allo scopo di intercettare le navi repubblicane quando lasciano le acque territoriali della Tunisia per raggiungere i loro porti di destinazione.
Il Da Recco (insieme al gemello Pancaldo ed ai più piccoli Turbine, Euro, Ostro e Zeffiro) è uno dei cacciatorpediniere adibiti a queste missioni, della durata di tre giorni, operando in sezione con l'Euro e con base alternativamente a Cagliari e Palma di Maiorca.
Siccome queste crociere si svolgono in aree dov'è possibile che i cacciatorpediniere italiani incontrino navi da guerra repubblicane, una sezione di incrociatori (a turno, Attendolo-Eugenio di Savoia, Trento-Trieste, Attendolo-Bande Nere) viene tenuta costantemente a Cagliari pronta ad intervenire in appoggio ai cacciatorpediniere, in caso di scontro con superiori formazioni navali repubblicane. Se i cacciatorpediniere dovessero invece incontrare piroscafi riconosciuti come repubblicani (od al loro servizio) al di fuori delle acque territoriali francesi, dovranno tenersi in contatto visivo fino al calar del sole, dopo di che dovranno avvicinarsi col buio ed affondarlo con il siluro. In caso di riconoscimento notturno, se l'identificazione risulterà inequivocabile, dovranno affondarlo subito.
Durante queste crociere, i cacciatorpediniere intercetteranno solo tre navi identificate sicuramente come repubblicane od al servizio dei repubblicani. Nondimeno, il blocco navale italiano (del tutto illegale, dato che l'Italia non è formalmente in guerra con la Repubblica spagnola) si rivela un pieno successo: sebbene le navi effettivamente affondate o catturate siano numericamente poche, l'elevato rischio comportato dalla traversata a causa del blocco italiano porta in breve tempo alla totale interruzione del flusso di rifornimenti dall'Unione Sovietica alla Spagna repubblicana. Soltanto qualche mercantile battente bandiera britannica o francese riesce a raggiungere i porti repubblicani, oltre a poche navi che salpano dalla costa francese del Mediterraneo e raggiungono Barcellona col favore della notte. Entro settembre, l'invio di mercantili con rifornimenti per i repubblicani dall'Unione Sovietica attraverso il Bosforo è praticamente cessato, tanto che i comandi italiani si possono ormai permettere di ridurre di molto il numero di navi in mare per la vigilanza, essendo quest'ultima sempre meno necessaria e non volendo provare troppo le navi in una zona dove c'è spesso maltempo con mare grosso. Ad ogni modo, le navi assegnate al blocco vengono mantenute nelle basi siciliane, pronte a riprendere il mare qualora dovesse manifestarsi una ripresa nel traffico verso la Spagna.
Oltre alla grave crisi nei rifornimenti di materiale militare, che si verifica proprio nel momento cruciale della conquista nazionalista dei Paesi Baschi (principale centro di produzione di armi tra le regioni in mano repubblicana), il blocco ha un impatto notevole anche sul morale dei repubblicani, tanto nella popolazione civile (il cui morale va deteriorandosi per la difficoltà di procurarsi beni di prima necessità) quanto nei vertici politico-militari, che si rendono conto di come, mentre i nazionalisti ricevono dall'Italia supporto incondizionato, persino sfacciato, con largo dispiego di mezzi, l'aiuto di Francia e Regno Unito alla causa repubblicana non sembra andare al di là delle parole (in alcuni centri repubblicani si svolgono anche aperte manifestazioni contro queste due nazioni, da cui i repubblicani si sentono abbandonati).
Il blocco italiano impartisce dunque un durissimo colpo ai repubblicani, ma scatena anche gravi tensioni internazionali (specie col Regno Unito) e feroci proteste sulla stampa spagnola repubblicana ed internazionale, con accuse di pirateria – essendo, come detto, un'operazione in totale violazione di ogni legge internazionale – nei confronti della Marina italiana, ripetute anche da Winston Churchill. Il governo britannico, invece, evita di accusare apertamente l'Italia, dato che il primo ministro Neville Chamberlain intende condurre una politica di “riavvicinamento” verso l'Italia per allontanarla dalla Germania; anche questo fa infuriare i repubblicani, che hanno fornito ai britannici prove del coinvolgimento italiano (prove che i britannici peraltro possiedono già, dato che l'Operational Intelligence Center dell'Ammiragliato intercetta e decifra svariate comunicazioni italiane relative alle missioni “spagnole”), solo per vedere questi ultimi fingere di attribuire gli attacchi ai soli nazionalisti spagnoli.
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(da “La guerra italiana sul mare” di Giorgio Giorgerini) |
8 agosto 1937
Il Da Recco e l'Euro partono da Cagliari per la prima crociera di sorveglianza contro il traffico repubblicano tra La Galite e Capo Ténès.
12 agosto 1937
Da Recco ed Euro tornano a Cagliari.
14 agosto 1937
Da Recco ed Euro lasciano Cagliari per un'altra crociera di vigilanza tra Capo Ténès e La Galite.
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(da www.war-book.ru) |
17 agosto 1937
Da Recco ed Euro concludono la missione entrando a Palma di Maiorca.
Nel settembre 1937 Francia e Regno Unito organizzeranno la Conferenza di Nyon per contrastare la “pirateria sottomarina”: gli occhi di tutti sono puntati sull'Italia, anche se questa non viene accusata direttamente (tranne che dall'Unione Sovietica, ragion per cui l'Italia, sebbene invitata, rifiuta di partecipare alla conferenza). Se ufficialmente i britannici non parlano apertamente di coinvolgimento italiano, attraverso i canali diplomatici questi fanno pervenire al ministro degli Esteri italiano, Galeazzo Ciano, l'irritazione per alcuni incidenti che hanno coinvolto proprio navi britanniche (il cacciatorpediniere HMS Havock è stato attaccato, ancorché senza risultato, dal sommergibile italiano Iride), ragion per cui il 12 settembre si decide di sospendere il blocco per non incrinare le relazioni con il Regno Unito. Nel periodo 7 agosto-12 settembre, le navi italiane hanno avvicinato e identificato ben 1070 bastimenti mercantili, di svariate nazionalità. Da questo momento, sarà incombenza unicamente della Marina franchista impedire che altri rifornimenti raggiungano i porti repubblicani.
Ottobre 1937
Trasferito alla 2a Squadra Navale, imbarca il contrammiraglio Angelo Iachino (comandante delle forze navali italiane nelle acque spagnole) ed il suo stato maggiore.
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(g.c. Giacomo Toccafondi) |
1° gennaio 1938
Il Da Recco (capitano di vascello Sergio Fontana), di stanza a Tangeri insieme al Pigafetta (capitano di fregata Sesto Sestini), viene raggruppato nella neocostituita VI Divisione Navale (contrammiraglio Alberto Marenco di Moriondo) che comprende tutte le navi italiane dislocate nelle acque della Spagna: oltre a Da Recco e Pigafetta, l'esploratore Quarto (nave ammiraglia) ed i cacciatorpediniere Francesco Nullo e Daniele Manin, entrambi dislocati a Palma di Maiorca.
1938
Assegnato come capo flottiglia alla Divisione Scuola Comando, con base ad Augusta, insieme al gemello Ugolino Vivaldi, alle torpediniere Castore, Cigno, Centauro, Circe, Calliope, Climene, Clio, Calipso, Pallade, Polluce, Partenope e Pleiadi, agli incrociatori leggeri Giovanni delle Bande Nere e Luigi Cadorna ed alla 7a, 9a e 10a Squadriglia MAS.
5 maggio 1938
Il
Da Recco (capitano
di vascello Sergio Fontana) partecipa alla rivista navale «H»,
organizzata nel Golfo di Napoli in occasione della visita in Italia
di Adolf Hitler: vi partecipa quasi tutta flotta italiana, con le due
squadre navali (la 1a al
comando dell'ammiraglio Arturo Riccardi e la 2a al
comando dell'ammiraglio Vladimiro Pini) per un totale di due
corazzate (Giulio Cesare
e Conte di Cavour),
18 incrociatori (i sette incrociatori pesanti della I e III Divisione
e gli undici incrociatori leggeri della II, IV, VII e VIII Divisione:
vale a dire tutti gli incrociatori moderni tranne il Raimondo
Montecuccoli, che si trova
in Estremo Oriente), sette “esploratori leggeri” classe
Navigatori e 16 cacciatorpediniere della VII, VIII, IX e X
Squadriglia, la squadra sommergibili dell'ammiraglio Antonio Legnani
con ben 85 unità, la flottiglia torpediniere con 16 unità (più
il Da Recco che
funge da conduttore di flottiglia), la I Flottiglia MAS con 24 unità
(Squadriglie IV, V, VIII, IX, X e XI), la nave bersaglio
radiocomandata San
Marco con
la
sua nave guida Audace e
varie unità a disposizione del Comando in Capo di Napoli: per la
sicurezza, i cacciatorpediniere Borea
e Zeffiro,
le torpediniere Castelfidardo, Curtatone, Francesco
Stocco, Nicola
Fabrizi e Giuseppe
La
Masa
dell'VIII Squadriglia Torpediniere e gli “avvisi scorta” Orsa,
Procione,
Orione
e Pegaso
della IV Squadriglia Torpediniere, nonché le navi
scuola Cristoforo Colombo ed Amerigo Vespucci,
il panfilo di Benito Mussolini Aurora,
la nave reale Savoia,
6 navi appoggio, 13 navi cisterna, una nave officina e 15
rimorchiatori. Vi sono infine una vedetta, quattro motobarche e sei
rimorchiatori-dragamine, in parte armati dalla Guardia di Finanza,
adibiti alla vigilanza costiera, e 72 idrovolanti impiegati per lo
stesso scopo.
La 1a Squadra Navale è composta dalla I, V e VIII Divisione Navale con la VII, VIII e IX Squadriglia Cacciatorpediniere, la 2a Squadra dalle Divisioni II, III, IV e VII con la I Flottiglia Esploratori e la X Squadriglia Cacciatorpediniere; ad esse si aggiungono la Squadra Sommergibili, la Flottiglia Torpediniere e la I Flottiglia MAS.
Il Da Recco è capo flottiglia della Flottiglia Torpediniere (costituita dalle unità della Divisione Scuola Comando), composta dalle Squadriglie Torpediniere IX (Astore, Spica, Canopo e Cassiopea), X (Sirio, Sagittario, Perseo e Vega), XI (Castore, Cigno, Centauro, Climene) e XII (Altair, Andromeda, Antares, Aldebaran).
Sono presenti ben quattordici navi passeggeri, tra cui i transatlantici Rex (il più grande e veloce transatlantico italiano), Roma, Saturnia ed Esperia, divise in tre gruppi e cariche di delegazioni straniere, ospiti e turisti che possono così seguire la rivista dal mare.
I movimenti della flotta per la rivista iniziano nelle prime ore del 5 maggio; Mussolini arriva al porto alle dieci del mattino e sale per primo sulla Conte di Cavour, ormeggiata al Molo San Vincenzo, dove mezz'ora più tardi accoglie Hitler, Vittorio Emanuele III ed il principe Umberto. I due reali hanno dato il benvenuto al dittatore tedesco alla stazione di Napoli Mergellina e l'hanno poi accompagnato al porto in processione tra una nutrita folla, tra ali di soldati schierati con il saluto romano, bandiere italiane e tedesche, aquile imperiali, stendardi e svastiche. Al loro arrivo in porto, le navi ormeggiate li salutano con salve d'artiglieria; altre salve di saluto sono eseguite da tutte le navi mentre la motolancia che porta Hitler e Vittorio Emanuele sulla Cavour si avvicina alla corazzata.
Le navi prendono poi il mare: il Da Recco è la prima nave a lasciare il porto, seguito dalla Flottiglia Torpediniere e poi dalle due squadre navali, il tutto in meno di mezz'ora. La flotta dirige quindi verso sud a 20 nodi, con le corazzate fiancheggiate su entrambi i lati dagli incrociatori, a loro volta fiancheggiati dai cacciatorpediniere. Sulla formazione incrociano gli aerei.
Al cospetto di Hitler e Mussolini, imbarcati sulla Conte di Cavour, la flotta si esibisce in una serie di manovre sincronizzate ad alta velocità; gli incrociatori accostano in fuori e tre sommergibili eseguono un attacco simulato contro le corazzate. Al largo di Capri seguono attacchi simulati di torpediniere (occultate, prima di attaccare, dalle dense cortine fumogene stese dal Da Recco e da altre unità sottili: le torpediniere attaccano il fianco della squadra e poi si allontanano a tutta forza) ed evoluzioni della squadra, indi prove di tiro da parte di incrociatori e cacciatorpediniere con bersaglio il San Marco, da una distanza di 18 km (due idrovolanti catapultati dalle navi osservano e riferiscono i risultati del tiro); poi tutte le navi defilano a ridotta distanza dalle corazzate, effettuando il saluto alla voce.
La flotta di superficie incontra poi i sommergibili che procedono in superficie su dieci colonne, occupando un rettangolo di 2,5 km per 4; questi compiono un'immersione rapida di massa a venti metri e successiva riemersione, dopo di che effettuano una salva di undici colpi perfettamente sincronizzata, sempre in formazione.
Il Da Recco il 5 maggio 1938 (sopra: foto Aldo Fraccaroli via Coll. Luigi Accorsi e www.associazione-venus.it; sotto: da www.fleetphoto.ru)
8-10 giugno 1938
Il Da Recco assume nelle acque delle Baleari la scorta della motonave Aniene, diretta a Siviglia con 700 tonnellate di materiali per le forze aeree operanti in Spagna. Lasciata Palma di Maiorca (dov'è giunta da La Spezia il 5) l'8 giugno, l'Aniene raggiunge Siviglia il 10 giugno; il Da Recco la scorta fino a Ceuta.
22 giugno 1938
A sud delle Baleari il Da Recco assume la scorta del piroscafo Stelvio (nome fittizio assegnato allo spagnolo Domine, impiegato nel trasporto di rifornimenti per le truppe nazionaliste dall'Italia alla Spagna), partito da La Spezia e diretto a Cadice con a bordo 427 militari e 1200 tonnellate di materiali.
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(da www.regiamarina.net) |
25 giugno 1938
Lo Stelvio arriva a Cadice; il Da Recco l'ha scortato fino a Ceuta.
29 giugno 1938
Il Da Recco assume nuovamente la scorta dello Stelvio, ripartito da Cadice per tornare a La Spezia.
1° luglio 1938
Lo Stelvio arriva a La Spezia.
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Il Da Recco a La Spezia nel 1938 (Istituto Luce, via Coll. Luigi Accorsi e www.associazione-venus.it) |
10 luglio 1938
A sud delle Baleari il Da Recco assume nuovamente la scorta dello Stelvio, partito da La Spezia per Cadice con 401 militari e 100 tonnellate di materiali vari. Lo scorta fino all'altezza di Ceuta; lo Stelvio raggiunge Cadice il 14 luglio.
5
settembre 1938
Riclassificato
cacciatorpediniere, come tutti i “Navigatori”, ed assegnato come
caposquadriglia alla XVI Squadriglia Cacciatorpediniere, di base a
Taranto (per altra fonte, La Spezia) e facente parte della 2a
Squadra Navale.
Insieme all'Antoniotto
Usodimare sarà uno
degli unici due “Navigatori” (su un totale di dodici unità) a
non ricevere l'ultima fase di grandi lavori di modifica (sostituzione
della prua dritta con una di tipo “oceanico” ed allargamento
dello scafo), che migliorarono la stabilità delle altre unità della
classe, aumentandone leggermente le dimensioni (250 tonnellate di
dislocamento in più) e l'autonomia ma riducendone la velocità di
3-4 nodi.
Marzo 1939
Inviato a Tripoli.
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Il Da Recco a La Spezia nel 1939 (foto Edizioni Pucci-La Spezia, via Coll. Luigi Accorsi e www.associazione-venus.it) |
6-7
marzo 1939
In seguito
alla notizia che il 5 marzo la flotta spagnola repubblicana è
salpata dalla sua base di Cartagena, nella fase conclusiva della
guerra civile spagnola (il conflitto terminerà di lì a meno di un
mese), lo Stato Maggiore della Regia Marina, sospettando che questa
possa essere diretta in Mar Nero per consegnarsi all'Unione
Sovietica, organizza dall'alba del 6 marzo un vasto dispositivo di
esplorazione e sorveglianza aeronavale nel Mediterraneo
centro-occidentale, volto a sbarrare la fuga alle navi repubblicane.
La partenza della flotta repubblicana da Cartagena è stata provocata da un'insurrezione filofranchista in città, a sua volta innescata dagli eventi in corso nella capitale: a Madrid il colonnello Segismundo Casado, presidente del Consiglio Nazionale di Difesa e comandante dell'Esercito del Centro, considerando la guerra ormai persa e volendo tentare di raggiungere una pace negoziata con Francisco Franco ha compiuto un colpo di stato rovesciando il governo di Juan Negrín, ritenuto troppo oltranzista perché intenzionato a continuare la resistenza fino alla fine. La maggior parte dei comandanti militari repubblicani hanno aderito all'iniziativa di Casado, ed in breve tempo i golpisti sono riusciti ad assumere il controllo di quasi tutto il territorio ancora in mano ai repubblicani; anche a Cartagena, il mattino del 15 marzo, ufficiali che condividono la visione di Casado ed elementi filofranchisti hanno scatenato una rivolta, della quale i nazionalisti tentano di approfittare inviando da Malaga e Castellon un convoglio di 16 navi con 20.000 truppe da sbarcare a Cartagena.
I capi rivoltosi, impadronitisi dell'Arsenale, del porto e di alcune batterie costiere, hanno intimato alla flotta repubblicana, comandata dall'ammiraglio Miguel Buiza Fernández-Palacios, di lasciare immediatamente Cartagena, minacciando in caso contrario di aprire il fuoco su di essa con le batterie costiere: poco dopo mezzogiorno del 5 marzo, pertanto, l'ammiraglio ha preso il mare con tutte le navi ancora efficienti, ossia gli incrociatori Miguel de Cervantes, Méndez Nuñez e Libertad (nave ammiraglia di Buiza), i cacciatorpediniere Ulloa, Escano, Gravina, Almirante Antequera, Almirante Miranda, Lepanto, Almirante Valdés e Jorge Juan ed i sommergibili C.2 e C.4. Sulle navi si sono imbarcati anche 600 profughi civili. Alla decisione di partire, dopo l'ultimatum presentato dal generale Rafael Barrionuevo (autoproclamatosi governatore militare di Cartagena al servizio dei nazionalisti), ha contribuito anche un'incursione aerea da parte dell'aviazione nazionalista, che il mattino del 5 ha gravemente danneggiato i cacciatorpediniere Sánchez Barcáiztegui e Lazaga e meno seriamente il Gravina. (A Cartagena, tuttavia, a differenza che altrove le truppe rimaste fedeli al governo Negrín riusciranno nel pomeriggio stesso a riprendere il controllo della situazione, neutralizzando i rivoltosi, respingendo il tentativo di sbarco nazionalista ed affondando il piroscafo Castillo de Olite, carico di truppe franchiste, con la morte di quasi 1500 uomini).
Il governo franchista, saputo della partenza della flotta, ha contattato quello italiano chiedendo di impedire alle navi repubblicane di raggiungere l'URSS, ma i comandi italiani si sono già attivati in tal senso per conto proprio, ponendo in atto piani predisposti già da tempo proprio per scongiurare una tale eventualità.
All'alba
del 6 marzo la X Squadriglia Cacciatorpediniere
(Maestrale, Grecale, Libeccio e Scirocco;
capitano di vascello Mario Rossi), partita da La Spezia, viene
inviata ad ispezionare le acque tra Capo Granitola, Pantelleria e la
Tunisia (nel Canale di Sicilia), in cooperazione con aerei, mentre le
torpediniere Orsa, Procione, Spica ed Orione,
partite da Cagliari, fanno lo stesso tra la Sardegna e le coste
del Nordafrica, in cooperazione con aerei decollati dalla base
cagliaritana di Elmas. Nella tarda mattinata dello stesso giorno gli
aerei di base nelle Baleari avvistano la flotta repubblicana al largo
di Algeri per poi pedinarla per il resto del giorno, fino al largo di
Biserta.
Il mattino del 7 marzo prende il mare da Tripoli, dove
si trova in visita da tre giorni, anche la Divisione Scuola Comando
(ammiraglio Angelo Iachino), formata dal Da
Recco (capoflottiglia delle
torpediniere), dall'incrociatore leggero Giovanni
delle Bande Nere (nave
ammiraglia di Iachino) e dalle Squadriglie Torpediniere I (Airone,
Alcione,
Aretusa,
Ariel),
VIII (Lupo,
Lince,
Libra,
Lira),
XI (Cigno,
Castore,
Centauro,
Climene)
e XII (Altair,
Andromea,
Antares,
Aldebaran),
che si posiziona ad est del Canale di Sicilia e si mette alla ricerca
della flotta spagnola nelle acque comprese tra la Sicilia, Malta e
Tripoli (lungo la direttrice Tripoli-Malta est-Capo delle Correnti).
Partecipano alle ricerche aerei decollati da Sicilia, Sardegna e
Baleari; le unità sottili di base a Tripoli e Rodi vengono tenute
pronte ad uscire in mare.
L'ordine
è di localizzare le navi repubblicane e, una volta trovate, di
mantenere il contatto, senza attaccare: l'intercettazione, se si
renderà necessaria, sarà compiuta dalle forze della 1a Squadra
Navale, al comando dell'ammiraglio Arturo Riccardi. Ne fanno parte la
I Divisione Navale dell'ammiraglio Ettore Sportiello (incrociatori
pesanti Zara, Pola, Fiume e Gorizia più
i cacciatorpediniere Vittorio Alfieri, Alfredo
Oriani, Vincenzo
Gioberti e Giosuè
Carducci della IX
Squadriglia), a questo scopo trasferita da Taranto ad Augusta il
mattino del 7 marzo, e la V Divisione Navale, composta dalle
corazzate Giulio
Cesare e Conte
di Cavour e dalla VII
Squadriglia Cacciatorpediniere (Freccia, Dardo, Saetta, Strale),
trasferitasi contestualmente da Taranto a Messina; a Messina
l'ammiraglio Riccardi, con insegna sulla Cavour,
assume la direzione delle operazioni. Le disposizioni ricevute
prevedono di ricorrere alle armi soltanto se le navi repubblicane
opporranno resistenza: si vuole infatti dirottare la flotta
repubblicana ad Augusta, non affondarla.
In realtà, tuttavia,
la flotta repubblicana non ha nessuna intenzione di andare in Unione
Sovietica. La loro destinazione è il Nordafrica francese: dopo una
notte d'incertezza circa la situazione politico-militare in Spagna,
il comandante della flotta, temendo un ammutinamento degli equipaggi
in caso di ritorno a Cartagena e nuovi attacchi aerei in altri porti
repubblicani meno difesi, ha deciso di rifugiarsi in territorio
neutrale. Anche volendo, le navi repubblicane non dispongono di
carburante sufficiente per raggiungere il Mar Nero.
Dapprima le navi repubblicane si presentano davanti ad Orano, in Algeria, dove l'ammiraglio Buiza chiede alle autorità francesi il permesso di entrare in porto e farvisi internare; queste ultime, tuttavia, respingono la richiesta e dicono a Buiza di raggiungere Biserta, in Tunisia. Qui le navi spagnole – sempre pedinate dagli aerei italiani durante il loro trasferimento – possono finalmente entrare; le autorità francesi provvedono immediatamente a sequestrarle, sbarcandone gli equipaggi ed internandoli in un campo di concentramento vicino a Maknassy.
Quando il Comando della Regia Marina viene a sapere, lo stesso 7 marzo, che la flotta repubblicana è entrata a Biserta e che il locale Comando navale francese l'ha fatta disarmare, le misure messe in atto per intercettare la flotta repubblicana vengono annullate, non essendo più necessarie, e tutte le navi rientrano in porto. Tre settimane più tardi le navi repubblicane, prese in consegna da equipaggi franchisti, saranno consegnate alla Marina nazionalista spagnola, mentre parte degli equipaggi repubblicani sceglieranno l'esilio in terra francese.
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Il Da Recco guida le torpediniere della Scuola Comando alla ricerca della flotta spagnola (da www.oplon.jimcdn.com) |
7-9 aprile 1939
Il Da Recco partecipa all'occupazione di San Giovanni di Medua durante le operazioni per l'invasione dell'Albania (Operazione "Oltre Mare Tirana", OMT), inquadrato nel I Gruppo Navale (al comando dell'ammiraglio di divisione Angelo Iachino), insieme all'incrociatore leggero Giovanni delle Bande Nere (nave ammiraglia), ai cacciatorpediniere Folgore e Fulmine, alle torpediniere Polluce e Pleiadi, alla nave cisterna e da sbarco Garigliano ed al grosso piroscafo Umbria (altra fonte afferma che di questo gruppo avrebbe fatto parte il Baleno e non il Fulmine, e che il 9 aprile vi si sarebbe aggregato anche l'incrociatore leggero Luigi Cadorna). Le navi di questo gruppo sono incaricate di sbarcare due compagnie del Reggimento "San Marco" e tre battaglioni di bersaglieri (il III Battaglione dell'8° Reggimento Bersaglieri, il VI Battaglione del 6° Bersaglieri ed il XXVIII Battaglione del 9° Bersaglieri), al comando del colonnello Arturo Scattini.
Lo sbarco, preceduto da un bombardamento navale, viene contrastato dai difensori albanesi (circa 200, secondo quanto riferito dagli informatori) con vivo fuoco di fucileria e qualche mitragliatrice, che causano qualche perdita; alcune navi intervengono coi loro cannoni in supporto delle truppe da sbarco e risolvono rapidamente la situazione in favore di queste ultime, che riescono così a sopraffare la resistenza albanese e ad occupare San Giovanni di Medua nel giro di un'ora circa. Sbarcano per primi gli uomini del "San Marco", e poi i bersaglieri; anche il Bande Nere ha a bordo dei bersaglieri, che deve trasbordare su dei pescherecci inviati da Brindisi, ma tale operazione subisce alcuni ritardi a causa dei fondali bassi e del ritardo nell'arrivo dei pescherecci stessi. Date le ridotte dimensioni e ricettività delle strutture portuali, parte delle truppe devono essere sbarcate sulla spiaggia, anziché nel porto. Molti dei bersaglieri, provenienti da un mondo contadino, vedono il mare per la prima volta in questa occasione: l'ammiraglio Iachino annoterà nel suo rapporto che, non volendo essi entrare in acqua, vengono improvvisati dei pontiletti di sbarco che permettono alle truppe di scendere sulla spiaggia con le loro biciclette e motociclette senza bagnarsi.
Il giorno seguente la colonna del colonnello Scattini, avanzando verso nord senza incontrare molta resistenza, conquista Scutari, suo obiettivo principale.
In tutto la flotta italiana dispiega per l'invasione dell'Albania ben due corazzate (Giulio Cesare e Conte di Cavour), otto incrociatori (i pesanti Zara, Pola, Fiume e Gorizia ed i leggeri Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi, Giuseppe Garibaldi, Giovanni delle Bande Nere, Luigi Cadorna), 17 cacciatorpediniere, 16 torpediniere, la nave portaidrovolanti Giuseppe Miraglia, dodici sommergibili e numerose unità minori ed ausiliarie, divise in quattro gruppi; a Valona, Durazzo, San Giovanni di Medua e Santi Quaranta vengono sbarcati complessivamente 11.300 uomini e 130 carri armati, che avranno rapidamente ragione della debole resistenza offerta dal piccolo esercito albanese, conquistando l'intero Paese nel volgere di pochi giorni.
Successivamente il Da Recco torna a Taranto come caposquadriglia della XVI Squadriglia Cacciatorpediniere.
11 maggio 1939
Partecipa alla rivista navale tenuta a Napoli in onore del principe reggente Paolo di Jugoslavia.
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Il Da Recco in uscita da Napoli l’11 maggio 1939, durante la rivista in onore di Paolo di Jugoslavia (da www.war-book.ru) |
22 ottobre 1939
Lascia Taranto diretto a Lero; rimarrà nel Dodecaneso fino al 30 aprile 1940.
1939
Assume il comando del Da Recco e della XVI Squadriglia Cacciatorpediniere il capitano di vascello Ugo Salvadori, 42 anni, da Casale Marittimo.
Il capitano di vascello Ugo Salvadori (dal “Dizionario Biografico Uomini della Marina 1861-1946”, di Paolo Alberini e Franco Prosperini) |
Maggio 1940
Torna a Taranto, sempre come caposquadriglia della XVI Squadriglia Cacciatorpediniere. Con essa, e con l'VIII Divisione Navale alle cui dipendenze la squadriglia è posta, partecipa ad operazioni in Albania nel maggio 1940.
1940
Vengono imbarcate due tramogge per bombe di profondità da 50 e 100 kg (poco dopo verrà eliminata la torpedine da rimorchio), e paramine tipo C per il dragaggio in corsa.
Il Da Recco a Tangeri insieme ad un U-Boot tedesco poco prima dello scoppio della guerra (da “The Second World War at Sea in Photographs” di Phil Carradice) |
10 giugno 1940
All'entrata dell'Italia nella seconda guerra mondiale, il Da Recco (capitano di vascello Ugo Salvadori) è caposquadriglia della XVI Squadriglia Cacciatorpediniere, che forma unitamente ai gemelli Emanuele Pessagno, Luca Tarigo ed Antoniotto Usodimare.
La squadriglia è alle dipendenze dell'VIII Divisione Navale dell'ammiraglio Antonio Legnani (incrociatori leggeri Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi), inquadrata nella 1a Squadra Navale con base a Taranto.
12 giugno 1940
Alle
due di notte il Da Recco,
insieme al resto della XVI Squadriglia Cacciatorpediniere (Pessagno
ed Usodimare)
ed all'VIII Divisione Navale (incrociatori leggeri Luigi
di Savoia Duca degli Abruzzi
e Giuseppe Garibaldi),
nonché alla I Divisione Navale (incrociatori pesanti Zara,
Fiume
e Gorizia)
ed alla IX Squadriglia Cacciatorpediniere (Vittorio
Alfieri, Alfredo
Oriani, Vincenzo
Gioberti, Giosuè
Carducci), salpa da Taranto
alle 00.20 per un pattugliamento in Mar Ionio in appoggio ad una
formazione navale (incrociatore pesante Pola,
III Divisione Navale, XI e XII Squadriglia Cacciatorpediniere) uscita
da Messina per intercettare due incrociatori britannici
(il Caledon ed
il Calypso)
avvistati da aerei della ricognizione marittima a sud di Creta,
diretti verso ovest: gran parte della Mediterranean Fleet, al pari di
una squadra navale francese, è infatti uscita in mare a caccia,
infruttuosa, di naviglio italiano nel Mediterraneo orientale. Il
Calypso
sarà affondato quello stesso giorno dal sommergibile Alpino
Bagnolini.
Alle 9, dato che nuovi voli di ricognizione non sono
più riusciti a trovare le navi nemiche, tutte le unità italiane
ricevono ordine di tornare in porto. Durante la navigazione di
ritorno nel Mar Ionio si verificano ben cinque infruttuosi attacchi
subacquei contro gli incrociatori della I e della VIII Divisione: i
cacciatorpediniere della scorta contrattaccano e ritengono di aver
danneggiato od affondato i sommergibili attaccanti, ma si sbagliano.
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Il Da Recco alla fonda a Taranto nel 1940 (dalla pagina Facebook “Cacciatorpediniere classe Navigatori”) |
7 luglio 1940
Il
Da Recco
salpa da Taranto alle 14.10 insieme a Pessagno
ed Usodimare
(coi quali forma la XVI Squadriglia Cacciatorpediniere) ed alla IV
Divisione Navale (incrociatori leggeri Alberico
Da Barbiano, Alberto
Di Giussano, Luigi
Cadorna ed Armando
Diaz, al comando
dell'ammiraglio di divisione Alberto Marenco di Moriondo), nonché
alle Divisioni Navali V (corazzate Giulio
Cesare e Conte
di Cavour) e VIII
(incrociatori leggeri Luigi
di Savoia Duca degli Abruzzi
e Giuseppe Garibaldi,
al comando dell'ammiraglio di divisione Antonio Legnani), ed alle
Squadriglie Cacciatorpediniere VII (Freccia,
Dardo,
Saetta
e Strale),
VIII (Folgore,
Fulmine,
Lampo,
Baleno),
XIV (Vivaldi,
Da Noli,
Pancaldo)
e XV (Pigafetta
e Zeno),
cioè l'intera 1a
Squadra Navale dell'ammiraglio Inigo Campioni, per fornire sostegno a
distanza ad un convoglio di quattro mercantili (più un quinto
aggregatosi da Catania) salpati da Napoli alle 19.45 del 6 e diretti
a Bengasi.
Il convoglio, formato dai trasporti
truppe Esperia e Calitea e
dalle moderne motonavi da carico Marco
Foscarini, Vettor
Pisani e Francesco
Barbaro (quest'ultima
aggregatasi da Catania, da dov'è partita a mezzogiorno del 7),
trasporta complessivamente 232 veicoli, 10.445 tonnellate di
materiali vari, 5720 tonnellate di carburante e 2190 uomini, ed ha la
scorta diretta della II Divisione Navale (incrociatori
leggeri Giovanni delle
Bande Nere e Bartolomeo
Colleoni, al comando
dell'ammiraglio di divisione Ferdinando Casardi), della X Squadriglia
Cacciatorpediniere (Maestrale, Grecale, Libeccio, Scirocco)
e di sei torpediniere (le
moderne Orsa, Procione, Orione e Pegaso della
IV Squadriglia e le vetuste Rosolino
Pilo e Giuseppe
Cesare
Abba,
queste ultime aggregatesi da Catania insieme alla Barbaro)
e la scorta a distanza dell'incrociatore pesante Pola,
delle Divisioni Navali I (incrociatori pesanti Zara,
Fiume
e Gorizia,
al comando dell'ammiraglio di divisione Pellegrino Matteucci), III
(incrociatori pesanti Trento
e Bolzano,
al comando dell'ammiraglio di divisione Carlo Cattaneo) e VII
(Eugenio di Savoia,
Emanuele Filiberto Duca
d'Aosta, Muzio
Attendolo, Raimondo
Montecuccoli, al comando
dell'ammiraglio di divisione Luigi Sansonetti) e delle Squadriglie
Cacciatorpediniere IX (Vittorio
Alfieri, Alfredo
Oriani, Vincenzo
Gioberti, Giosuè
Carducci), XI (Aviere,
Artigliere,
Geniere
e Camicia Nera),
XII (Ascari,
Lanciere,
Carabiniere
e Corazziere)
e XIII (Granatiere,
Bersagliere,
Fuciliere,
Alpino):
la 2a Squadra
Navale, al comando dell'ammiraglio di squadra Riccardo Paladini,
imbarcato sul Pola.
Le unità della 2a Squadra sono partite il 7 luglio da Augusta (Pola e XII Squadriglia, partiti alle 18.40), Palermo (VII Divisione e XIII Squadriglia, partite alle 12.35) e Messina (I e III Divisione, partite rispettivamente alle 14.10 e 15.45 con la IX e XI Squadriglia). La VII Divisione con la XIII Squadriglia deve offrire protezione a distanza contro forze navali britanniche provenienti da Malta, il resto della 2a Squadra contro forze provenienti da est: i due gruppi sono pertanto posizionati rispettivamente 45 miglia ad ovest e 35 miglia ad est del convoglio.
Comandante superiore in mare è l'ammiraglio di squadra Inigo Campioni, comandante della 1a Squadra Navale, con bandiera sulla Cesare. La XVI Squadriglia Cacciatorpediniere è alle dipendenze della IV Divisione, mentre la VII Squadriglia è alle dipendenze della V Divisione, e l'VIII dell'VIII Divisione.
In origine il convoglio era scortato dalla sola IV Squadriglia Torpediniere, ma il 7 luglio Supermarina è stata informata dell'uscita da Gibilterra, alle otto di quel mattino, della Forza H britannica con due corazzate, l'incrociatore da battaglia Hood, la portaerei Ark Royal, tre incrociatori leggeri e 13 cacciatorpediniere, ed ha dunque deciso di far uscire in mare l'intera flotta a protezione del convoglio, oltre a rinforzarne la scorta diretta con la II Divisione e la X Squadriglia.
Il gruppo di sostegno di cui fa parte il Da Recco (ossia l'intera 1a Squadra) dovrà operare a partire dalle sette dell'8 luglio, partendo da un punto situato a 45 miglia per 20° dal convoglio e procedendo a 20 nodi, in modo da guadagnare “terreno” rispetto al convoglio fiancheggiandolo nella parte di traversata in cui maggiore è il rischio di intervento da parte di forze navali nemiche.
Il piano stabilito da Supermarina prevede che il convoglio proceda a 14 nodi, con rotta apparente verso Tobruk, fino a giungere in un punto situato 245 miglia a nordovest di Bengasi, dove dovrà puntare su quest'ultimo porto. Dopo un centinaio di miglia il convoglio si scinderà in due gruppi, uno formato da Esperia e Calitea, che proseguiranno a 18 nodi, ed uno formato dale altre motonavi, che proseguiranno invece a 14 nodi.
Oltre all'impiego della quasi totalità della flotta di superficie suddivisa nei gruppi sopra descritti, il dispositivo di difesa del convoglio prevede l'invio in agguato di quattro sommergibili sulla congiungente Derna-Capo Krio, di tre ad est-nord-est di Alessandria e di Quattro tra la congiungente Capo Lilibeo-Capo Blanc e la congiungente Capo Passero-Malta-Zuara. Gli idrovolanti della Ricognizione Marittima forniranno protezione antisommergibili alla flotta alla sua partenza ed al ritorno a Taranto, ed al convoglio ed alla sua scorta durante la navigazione; altri idroricognitori condurranno voli di ricognizione tra Malta ed il Canale di Sicilia e nel Mediterraneo orientale, mentre l'Armata Aerea effettuerà voli di ricognizione ad ampio raggio nel Mediterraneo centrale, orientale ed occidentale e su Malta, bombarderà tale isola e terrà le squadriglie da bombardamento pronte all'azione ed impiegherà i caccia per la scorta aerea della flotta al largo della Sicilia e nel Golfo di Taranto il 7 ed il 9 luglio. L'Aeronautica della Libia, infine, condurrà ricognizioni su Alessandria, attaccherà le navi alla fonda in rada e sorveglierà le acque tra Gaudo e Ras el Tin.
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Il Da Recco emette una cortina fumogena (foto Massimo Messina, via www.meludo.it) |
8 luglio 1940
Alle 00.40 Supermarina comunica all'ammiraglio Campioni che da rilevazioni radiogoniometriche risulterebbe che alle 20 della sera precedente forze navali britanniche, provenienti da Alessandria ed aventi rotta verso Malta, si trovavano 60 miglia a nord di Ras el Tin (45 miglia ad est della formazione italiana), e che la ricognizione aerea ha avvistato a Malta cinque mercantili diretti ad Alessandria.
Ricevuto il messaggio di Supermarina all'1.50, paventando un incontro con le forze britanniche dopo l'alba, Campioni ordina al convoglio di passare dalla rotta 147° (per Bengasi) a 180°, per un eventuale dirottamento su Tripoli; la VII Divisione modifica anch'essa la rotta per dirigersi verso il convoglio. Campioni ordina inoltre al gruppo “Pola” di trovarsi per le 5.30 in posizione adatta per congiungersi con il gruppo “Cesare”, ed alla IV Divisione di catapultare due idroricognitori alle prime luci dell'alba per esplorare l'area compresa tra i rilevamenti 90° e 140°, fino ad una distanza di cento miglia dalla Cesare.
Alle cinque del mattino Attendolo e Montecuccoli catapultano i loro idrovolanti da ricognizione, ma questi non trovano traccia delle forze nemiche.
Alle 7.10, dato che i due ricognitori catapultati non hanno trovato nulla, Campioni ordina al convoglio di rimettersi in rotta per Bengasi, ed alla VII Divisione di accompagnarlo.
Durante la mattinata – probabilmente tra le 6.45 e le 8, anche se l'orario esatto non è noto a causa del successivo affondamento del Phoenix; una fonte indica invece l'orario nelle 5.15 – il sommergibile britannico Phoenix (capitano di corvetta Gilbert Hugh Nowell) lancia alcuni siluri contro Cesare e Cavour scortate da Freccia, Dardo, Saetta e Strale, in posizione 35°36' N e 18°28' E (o 35°40' N e 18°20' E; circa duecento miglia ad est di Malta). L'attacco avviene da grande distanza; le armi mancano i loro bersagli e non vengono nemmeno avvistate, sebbene il Phoenix, in un messaggio trasmesso al suo comando di flottiglia (in cui riferisce di aver attaccato due corazzate scortate da quattro cacciatorpediniere), rivendichi un possibile siluro a segno.
Alle 12.15 Supermarina informa Campioni che un nutrito gruppo navale nemico ha lasciato Alessandria alle 16 del giorno precedente (in realtà, questo è avvenuto a mezzanotte). Nelle ore successive le navi britanniche, in navigazione verso ovest, vengono finalmente avvistate da aerei della Ricognizione Marittima della Cirenaica e da un idrovolante catapultato dal Duca degli Abruzzi, ed attaccate ripetutamente dai reparti da bombardamento.
Alle 14.30, con il convoglio ormai al sicuro da un intervento di forze navali nemiche (raggiungerà indenne Bengasi tra le 18 e le 22), le navi delle due squadre navali italiane iniziano la navigazione di rientro, ma alle 15.20, sulla scorta degli avvistamenti aerei delle ultime ore (che parlano di tre corazzate ed otto cacciatorpediniere, a sud di Candia), l'ammiraglio Campioni decide di dirigere per intercettare le navi nemiche, prima con la 2a e poi anche con la 1a Squadra Navale. Di questa decisione dà notizia a Supermarina alle 16; scopo di Campioni è di impegnare le forze avversarie in combattimento almeno un'ora prima del tramonto, per impedire loro di bombardare Bengasi, dove si trovano le navi del convoglio impegnate nelle operazioni di scarico, all'alba dell'indomani.
La flotta britannica in mare, al comando dell'ammiraglio Andrew Browne Cunningham, consiste in tre corazzate (Warspite, Malaya e Royal Sovereign), una portaerei (la Eagle), cinque incrociatori leggeri (Orion, Neptune, Sydney, Liverpool, Gloucester) e 17 cacciatorpediniere (Nubian, Mohawk, Decoy, Hasty, Hero, Hereward, Stuart, Decoy, Hostile, Hyperion, Ilex, Dainty, Defender, Janus, Juno, Vampire e Voyager). Si tratta praticamente dell'intera Mediterranean Fleet, uscita da Alessandria non per bombardare Bengasi bensì a protezione di due convogli in navigazione da Malta ad Alessandria (operazione «MA 5»): uno lento, di quattro mercantili capaci di 9 nodi, ed uno veloce, di tre mercantili capaci di 13 nodi.
La flotta britannica è divisa in tre gruppi: la Forza A del viceammiraglio John Tovey, composta dai cinque incrociatori ed un cacciatorpediniere; la Forza B sotto il diretto comando di Cunningham, composta dalla Warspite con cinque cacciatorpediniere; e la Forza C del viceammiraglio Henry Pridham-Wippell, composta da Eagle, Malaya, Royal Sovereign ed undici cacciatorpediniere. Quattro dei cacciatorpediniere, denominati Forza D, sono stati poi distaccati per rinforzare la scorta dei convogli.
Alle 18.20 Supermarina, che a differenza dell'ammiraglio Campioni ha avuto modo di apprendere, tramite la crittografia, la reale consistenza e finalità dei movimenti britannici, ordina a Campioni di non ingaggiare la flotta avversaria, e di attenersi alle istruzioni vigenti per la notte ed il giorno seguente; dopo aver ricevuto e decifrato questo dispaccio, alle 19.20 Campioni ordina alla flotta (1a e 2a Squadra, mentre la VII Divisione riceve ordine di rientrare per conto proprio) di accostare per 330° per rientrare alle basi. Durante l'accostata le navi vengono attaccate da alcuni velivoli con una dozzina di bombe, rispondendo con intenso tiro contraereo. Le bombe cadono vicine agli incrociatori, ma non causano danni.
Alle 22 arrivano nuovi ordini: Supermarina teme che la Mediterranean Fleet intenda lanciare un attacco aeronavale contro le coste italiane il pomeriggio successivo (quando si verrà a trovare ad est della Sicilia), perciò ordina alle forze in mare di riunirsi nel punto 37°40' N e 17°20' E, 65 miglia a sudest di Punta Stilo, entro le 14 del 9 luglio. Insieme a questi ordini, trasmessi a mezzo radio cifrato, Supermarina invia anche un telegramma con maggiori informazioni sugli spostamenti dell'avversario (avvistati incrociatori in posizione 37°20' N e 16°45' E, una corazzata e cacciatorpediniere in 37°00' N e 17°00' E, due corazzate, una portaerei e cacciatorpediniere in 36°20' N e 17°00' E; sommergibile nemico avvistato in posizione 35°40' N e 18°05' E) e sui provvedimenti presi (cinque sommergibili italiani si troveranno nella zona compresa tra meridiani 17°00' e 17°40' E ed i paralleli 35°50' e 37° N, le forze aeree di base in Puglia e Sicilia attaccheranno il nemico dall'alba) che tuttavia raggiungerà Campioni solamente alle 3.30 del 9 perché trasmesso inizialmente con una tabella cifrata non in possesso dell'ammiraglio, il che costringe a ritrasmetterlo una seconda volta, dopo essersi accorti dell'errore.
Nel frattempo Cunningham, che al momento della partenza ignorava del tutto la presenza in mare della flotta italiana (in questa occasione, il servizio informazioni italiano ha funzionato meglio di quello britannico, come egli stesso ammetterà in seguito), ha appreso per la prima volta dei movimenti italiani alle 8.07 dell'8 luglio, da un messaggio trasmesso dal Phoenix dopo il suo fallimentare attacco (il sommergibile ha comunicato di aver lanciato contro due corazzate scortate da quattro cacciatorpediniere aventi rotta 180° in posizione 35°36' N e 18°28' E, a circa 150 miglia per 140° da Capo Spartivento); intuendo che le navi italiane fossero in mare a protezione di un convoglio diretto in Libia, ha richiesto al comando di Malta di inviare dei ricognitori a cercare la flotta italiana, ed alle 15.10 questi hanno avvistato due corazzate, sei incrociatori e sette cacciatorpediniere, pur commettendo un grossolano errore nella stima della loro posizione (corretto è invece l'apprezzamento della rotta). Sulla scorta di queste informazioni, alle 17.30 Cunningham ha deciso di puntare verso Taranto alla massima velocità possibile (solo 20 nodi, il massimo che possa raggiungere la vecchia Royal Sovereign) per frapporsi tra la flotta italiana e la sua base, ordinando a tutti i gruppi dipendenti di trovarsi alle 14 dell'indomani nel punto 36°30' N e 17°40' E (sessanta miglia a nord-nord-ovest del punto di riunione deciso da Supermarina per le forze italiane), in posizione favorevole per dare battaglia.
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Il Da Recco prima della battaglia di Punta Stilo, il 9 luglio 1940 (dalla pagina Facebook “Cacciatorpediniere classe Navigatori”) |
9 luglio 1940
All'1.23 il gruppo formato dal Pola e dalla I Divisione accosta verso nord. La navigazione notturna si svolge senza grossi inconvenienti, salvo due fallimentari attacchi siluranti contro la III Divisione.
Verso
le 4.30, la XV Squadriglia Cacciatorpediniere avvista delle grosse
ombre verso est, il lato da cui si prevede che possa essere il
nemico, e lo comunica all'ammiraglio Campioni. Si tratta degli
incrociatori pesanti della III Divisione (Trento, Trieste e Bolzano)
che stanno passando ad est del gruppo «Cesare»
a seguito di un ordine dell'ammiraglio Paladini: questi ha infatti
precedentemente ordinato alla III Divisione di proseguire verso nord
dalle 00.45 sulla destra della I Divisione, al fine di evitare sia
d'imbattersi nella VII Divisione, che essendo in rotta verso lo
stretto di Messina si trova sulla sinistra, sia di attraversare una
zona in cui alle 22.10 Supermarina ha segnalato la presenza di due
sommergibili nemici. Quest'ordine contrasta tuttavia con quanto
ordinato in precedenza da Campioni, ma la cosa più grave è che
Paladini, ritenendo che il suo superiore abbia intercettato l'ordine
(inviato a mezzo radiosegnalatore), non lo ha informato: di
conseguenza Campioni, che non ha intercettato il messaggio, ritiene
che le sagome avvistate appartengano a navi nemiche e manda la XV
Squadriglia ad attaccarle, impartendo poco dopo analogo ordine anche
alla VIII Squadriglia. Zeno
e Pigafetta
lanciano così due siluri contro gli incrociatori della III
Divisione, fortunatamente senza colpirli; i cacciatorpediniere della
VIII Squadriglia riconoscono invece il profilo delle navi “nemiche”
come quello di incrociatori classe Trento,
permettendo così di chiarire l'equivoco senza danni.
Alle sei
del mattino l'ammiraglio Campioni autorizza le Squadriglie
Cacciatorpediniere VIII, XV e XVI (e più tardi anche la XIII: in
totale tredici unità), a corto di carburante, a raggiungere le basi
della Sicilia orientale (per la XVI Squadriglia, Augusta) per
rifornirsi rapidamente di nafta e poi ricongiungersi con la flotta
alle 14, nel punto di riunione 37°40' N e 17°20' E, od al più
tardi alle 16.
Le unità della XVI Squadriglia non faranno però in tempo a ricongiungersi col grosso delle forze navali prima che la battaglia cominci, e ne resteranno così escluse (qualche sito Internet afferma però che il Da Recco avrebbe partecipato alla reazione contraerea contro gli attacchi aerei lanciati contro la flotta italiana dopo la battaglia, segno – se vero – che dopo la fine dello scontro era riuscito a ricongiungersi alla flotta).
Terminata l'inconclusiva battaglia, passata alla storia come di Punta Stilo, la flotta italiana si avvia alle proprie basi. La XVI Squadriglia, insieme alle Squadriglie Cacciatorpediniere VII, VIII IX, XI, XIV e XV (36 unità in tutto), alla corazzata Conte di Cavour, agli incrociatori pesanti Pola, Zara, Fiume e Gorizia ed agli incrociatori leggeri Alberico Da Barbiano, Alberto Di Giussano, Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi, rientra ad Augusta nel pomeriggio del 9 luglio. Poco dopo mezzanotte, però, a seguito dell'intercettazione e decifrazione di messaggi radio britannici che facevano presagire un imminente attacco di aerosiluranti contro il naviglio ormeggiato ad Augusta, Supermarina ordina a tutte le navi di lasciare la base: dopo essersi frettolosamente rifornite, le unità ripartono per le basi di assegnazione. La XVI Squadriglia Cacciatorpediniere, insieme alla XV Squadriglia ed a Duca degli Abruzzi e Garibaldi, lascia Augusta alle 17.05, diretta a Taranto.
30 agosto 1940
Il
Da Recco salpa
da Augusta alle 19 per condurre un rastrello antisommergibili nel
Golfo di Taranto, con i gemelli Ugolino
Vivaldi, Antonio
Da Noli, Emanuele
Pessagno ed Antoniotto
Usodimare. Scopo del
rastrello è dare la caccia al sommergibile nemico che alle 12.30 del
giorno precedente ha attaccato infruttuosamente un convoglio –
formato dai mercantili Mauly, Bainsizza, Col
di Lana, Città
di
Bari, Maria
Eugenia, Gloriastella e Francesco
Barbaro, partiti da Napoli
per Tripoli nell'ambito dell'operazione «Trasporto Veloce Lento» e
scortati dai
cacciatorpediniere Maestrale, Grecale, Libeccio e Scirocco e
dalle torpediniere Orsa, Procione, Orione e Pegaso –
in navigazione a sud dello stretto di Messina, 20 miglia a sud di
Capo dell'Armi.
Alle 20.25 (o 20.55) i cinque cacciatorpediniere
italiani iniziano il rastrello disponendosi in linea di fronte, ad
una distanza di quattro miglia l'uno dall'altro (da sinistra a
dritta, nell'ordine, Da
Noli – il più
vicino a Capo Spartivento, che è alla sinistra delle navi
–, Vivaldi, Da
Recco, Usodimare e Pessagno,
il più lontano dalla costa), e procedendo a 19 nodi su rotta 55°,
lungo il rilevamento ottenuto dalla rilevazione radiogoniometrica. La
notte è particolarmente buia, serena ma senza luna; il mare è
calmo.
Alle 23.50 è il Vivaldi ad avvistare un sommergibile, il britannico Oswald, quindici miglia a sudest di Capo Spartivento: la nave manovra immediatamente per speronarlo, affondandolo e recuperandone poi 52 naufraghi.
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Il Da Recco rientra da una missione nell’estate 1940 (foto Coll. A. Barilli, da “Esploratori leggeri classe Navigatori” dell’USMM, via g.c. Marcello Risolo e www.naviearmatori.net) |
31 agosto-2 settembre 1940
Il
Da Recco
partecipa all'uscita in mare della flotta a contrasto dell'operazione
britannica «Hats».
La XVI Squadriglia Cacciatorpediniere cui
appartiene (con Emanuele
Pessagno ed Antoniotto
Usodimare) parte da Taranto
alle sei del mattino del 31 agosto insieme alla IX Divisione
(corazzate Littorio,
nave di bandiera dell'ammiraglio di squadra Inigo
Campioni, e Vittorio
Veneto), alla V Divisione
(corazzate Duilio, Conte
di Cavour e Giulio
Cesare, quest'ultima
aggregatasi solo il 1° settembre a causa di avarie), alla I
Divisione (incrociatori pesanti Zara, Pola, Fiume e Gorizia),
all'VIII Divisione (incrociatori leggeri Luigi
di Savoia Duca degli Abruzzi e Giuseppe
Garibaldi),
all'incrociatore pesante Pola
(nave di bandiera dell'ammiraglio Angelo Iachino, comandante della
2a Squadra)
ed ad alle Squadriglie Cacciatorpediniere VII
(Freccia, Dardo, Saetta, Strale),
VIII (Folgore, Fulmine, Lampo, Baleno),
IX (Alfieri,
Oriani,
Gioberti,
Carducci),
X (Maestrale, Grecale, Libeccio e Scirocco),
XIII (Granatiere, Bersagliere, Fuciliere, Alpino)
e XV (Antonio
Pigafetta, Alvise
Da Mosto, Giovanni
Da Verrazzano e Nicolò
Zeno).
Complessivamente, all'alba del 31 prendono il mare da Taranto, Brindisi e Messina quattro corazzate, 13 incrociatori della I, III (Trento, Trieste e Bolzano, da Messina), VII (Eugenio di Savoia, Raimondo Montecuccoli, Muzio Attendolo, Emanuele Filiberto Duca d'Aosta, da Brindisi) e VIII Divisione e 39 cacciatorpediniere (oltre a quelli già menzionati, anche Aviere, Artigliere, Geniere e Camicia Nera della XI Squadriglia, e Lanciere, Carabiniere, Ascari e Corazziere della XII Squadriglia).
«Hats»
consiste in varie sotto-operazioni: trasferimento da Gibilterra ad
Alessandria, per rinforzare la Mediterranean Fleet, della
corazzata Valiant,
della portaerei Illustrious e
degli incrociatori Calcutta e Coventry;
invio di un convoglio da Alessandria a Malta e di uno da Nauplia a
Porto Said; bombardamenti su basi italiane in Sardegna e nell'Egeo.
Supermarina ha saputo che sia la Mediterranean Fleet (da Alessandria)
che la Forza H (da Gibilterra) sono uscite in mare, e si è accordata
con la Regia Aeronautica per attaccare la prima con le forze navali
di superficie ed attacchi aerei e la seconda con aerei e
sommergibili.
La XVI Squadriglia è di scorta all'VIII
Divisione; al largo di Taranto questa si unisce alla VII Divisione,
scortata dalla XV Squadriglia, per effettuare un rastrello nel Mar
Ionio.
Alle 14.35 del 31, in posizione 37°47' N e 18°25' E, il
sottotenente di vascello Geoffrey Deryck Nicholson Milner, ufficiale
di guardia sul sommergibile britannico Parthian (capitano
di corvetta Richard Micaiah Towgood Peacock), avvista due navi
appartenenti al gruppo composto da VII e VIII Divisione, che in quel
momento procede con la XVI Squadriglia disposta a proravia degli
incrociatori e la XV Squadriglia posizionata in linea di fila sul
lato sinistro. Alle 14.39 il Parthian si
avvicina per attaccare la nave più a destra, ma alle 14.42
interrompe l'attacco, avendola identificata come un
cacciatorpediniere classe Navigatori (anche il secondo è una nave di
questo tipo, e nel frattempo ne sono stati avvistati altri tre); un
minuto dopo, però, avvista gli incrociatori dell'VIII Divisione,
identificati erroneamente come della classe Zara,
a 7300 metri di distanza, pertanto riprende l'attacco. La velocità
dei bersagli è stimata in 24 nodi.
Superato lo schermo della XV Squadriglia (che procede in linea di fila, Pigafetta in testa, sul fianco sinistro della formazione, mentre la XVI Squadriglia precedono gli incrociatori) passandole sotto, alle 14.52 (in posizione 37°45' N e 18°22' E secondo le fonti britanniche e 37°45' N e 18°35' E per quelle italiane, circa 105 miglia ad est-sud-est di Capo Spartivento) il Parthian lancia sei siluri da appena 320 metri di distanza, dopo di che scende in profondità. Benché sul Parthian vengano avvertite due esplosioni dopo 13 e 16 secondi, nessuna delle armi è andata a segno: una vedetta sul Duca degli Abruzzi ha avvistato il periscopio del sommergibile a soli trecento metri di distanza, poi la “bolla di lancio” generata dal lancio dei siluri e poi due scie; i siluri vengono tutti evitati.
Il
secondo incrociatore passa sulla verticale del Parthian
quando questi si trova a 18 metri; alle 15.07 ha inizio il
contrattacco, ma vengono lanciate soltanto nove bombe di profondità,
nessuna delle quali esplode vicina. Alle 16.10 il sommergibile non
rileva più rumore di macchine, e quando alle 17.20 torna a quota
periscopica le navi italiane non sono più in vista.
Le due
Squadre Navali italiane (la 1a Squadra,
al comando dell'ammiraglio Inigo Campioni – con insegna
sulla Littorio –,
è composta dalle Divisioni V, VII, VIII e IX e dalle Squadriglie
Cacciatorpediniere VII, VIII, X, XIII, XV e XVI; la 2a Squadra
dal Pola,
dalle Divisioni I e III e dalle Squadriglie Cacciatorpediniere IX, XI
e XII), riunite, dirigono per lo Ionio orientale con rotta 150°. Le
forze navali sono però uscite in mare troppo tardi, hanno l'ordine
di evitare uno scontro notturno ed hanno una velocità troppo bassa
(20 nodi), ed hanno l'ordine di cambiare rotta e raggiungere il
centro del Golfo di Taranto se non riusciranno ad entrare in contatto
con il grosso nemico entro il tramonto. Tutto ciò impedisce alle
forze italiane di intercettare quelle britanniche; alle 16
Supermarina ordina un cambiamento di rotta, che impedisce alla
2a Squadra,
che si trova in posizione più avanzata della 1a,
di proseguire verso le forze nemiche (l'ammiraglio Iachino,
comandante la 2a Squadra,
ha chiesto ed ottenuto alle 16.30 libertà di manovra per dirigere
contro le forze britanniche, segnalate alle 15.35 a 120
miglia di distanza, ma alle 16.50 tale autorizzazione viene
annullata; comunque la 2a Squadra
non sarebbe egualmente riuscita a raggiungere le unità avversarie).
Alle 17.27 la 2a Squadra
riceve l'ordine d'invertire la rotta ed assumere rotta 335° e
velocità 20 nodi, come la 1a Squadra.
Alle
22.30 del 31 la formazione italiana, che procede a 20 nodi, riceve
l'ordine di impegnare le forze nemiche lungo la rotta 155°, a nord
della congiungente Malta-Zante, dunque deve cambiare la propria rotta
per raggiungerle (o non potrebbe prendere contatto con esse),
dirigendo più verso sudovest (verso Malta) e superando la
congiungente Malta-Zante. Il mattino del 1° settembre, tuttavia, il
vento, già in aumento dalla sera precedente, dà origine ad una
violenta burrasca da nordovest forza 9; le forze italiane si
allontanano nuovamente dal Golfo di Taranto per cercare di nuovo
quelle avversarie lungo la rotta 155° ma con l'ordine di non
oltrepassare la congiungente Malta-Zante, il che tuttavia le tiene
lontane dalle rotte possibili da Alessandria a Malta. Verso le 13 la
burrasca costringe la flotta italiana a tornare alle basi, perché i
cacciatorpediniere non sono in grado di tenere il mare
compatibilmente con le necessità operative (non potendo restare in
formazione né usare l'armamento). Poco dopo la mezzanotte del 1°
settembre le unità italiane entrano nelle rispettive basi; tutti i
cacciatorpediniere sono stati danneggiati (specie alle
sovrastrutture) dal mare mosso, alcuni hanno perso degli uomini in
mare.
Le navi verranno tenute pronte a muovere sino al
pomeriggio del 3 settembre, ma non si concretizzerà alcuna nuova
occasione.
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Il Nicoloso Da Recco, a sinistra, e l’Antoniotto Usodimare nell’estate del 1940 (dalla pagina Facebook “Cacciatorpediniere classe Navigatori”) |
29
settembre-1° ottobre 1940
Il
Da Recco lascia
Taranto la sera del 29 settembre, insieme a Pessagno
ed Usodimare
(la XVI Squadriglia) nonché all'incrociatore pesante Pola,
alle Divisioni I (incrociatori pesanti Zara, Fiume, Gorizia),
V (corazzate Giulio Cesare e Conte
di Cavour), VII
(incrociatori leggeri Muzio Attendolo e Raimondo Montecuccoli,
da Brindisi), VIII (incrociatori leggeri Giuseppe
Garibaldi e Luigi
di Savoia Duca degli Abruzzi)
e IX (corazzate Littorio e Vittorio
Veneto) e le Squadriglie
Cacciatorpediniere VII (Dardo, Saetta, Strale),
X (Maestrale, Grecale, Libeccio e Scirocco),
XIII (Granatiere, Bersagliere, Alpino)
e XV (Da Mosto, Da
Verrazzano) (il Pola con
la I Divisione e 4 cacciatorpediniere partono alle 18.05 e le altre
unità alle 19.30) e da Messina la III Divisione con 4
cacciatorpediniere per contrastare un'operazione britannica in corso,
la «MB. 5», consistente nell'invio a Malta degli
incrociatori Liverpool e Gloucester con
1200 uomini e rifornimenti e nel contemporaneo invio da Porto Said al
Pireo del convoglio «AN. 4», il tutto con l'uscita in mare delle
corazzate Valiant e Warspite,
della portaerei Illustrious,
degli incrociatori York, Orion e Sydney e
di undici cacciatorpediniere a copertura dell'operazione.
Alle
18.05 del 29 settembre escono in mare da Taranto il Pola (nave
di bandiera dell'ammiraglio Angelo Iachino, comandante la
2a Squadra),
la I Divisione con Zara, Fiume e Gorizia e
la IX Squadriglia Cacciatorpediniere
(Oriani, Alfieri, Gioberti, Carducci)
più l'Ascari della
XII Squadriglia, seguiti alle 19.30 dalle Divisioni V
(corazzate Giulio
Cesare e Conte
di Cavour), VI
(corazzata Duilio),
VII (incrociatori leggeri Muzio
Attendolo e Raimondo
Montecuccoli, da Brindisi),
VIII (incrociatori leggeri Giuseppe
Garibaldi e Luigi
di Savoia Duca degli Abruzzi)
e IX (corazzate Littorio –
nave di bandiera dell'ammiraglio Inigo Campioni, comandante la
1a Squadra
– e Vittorio Veneto)
e dalle Squadriglie Cacciatorpediniere VII (Dardo, Saetta, Strale),
X (Maestrale, Grecale, Libeccio, Scirocco),
XIII (Granatiere, Bersagliere, Alpino),
XV (Da Mosto, Da Verrazzano)
e XVI (Pessagno, Usodimare).
Si tratta di uno dei più imponenti dispiegamenti di forze da parte
della Marina italiana nel corso del conflitto.
La formazione
uscita da Taranto assume rotta 160° e velocità 18 nodi, riunendosi
con le navi provenienti da Messina alle 7.30 del 30 settembre. In
mancanza di elementi sufficienti ad apprezzare la composizione ed i
movimenti della Mediterranean Fleet ed in considerazione dello
svilupparsi di una burrasca da scirocco (che
avrebbe reso impossibile una navigazione ad alta velocità verso sud
da parte dei cacciatorpediniere) Supermarina decide di rinunciare a
contrastare l'operazione ed ordina alle unità in mare di invertire
la rotta alle 6.25 del 30 ed incrociare dapprima tra i paralleli 37°
e 38°, poi (dalle 10.30) 38° e 39° ed alle 14 fare rotta verso
sudovest sino a raggiungere il 37° parallelo, poi, alle 17.20, di
rientrare alle basi.
Alle 12.43, intanto, la Vittorio Veneto avvista il periscopio del sommergibile britannico Regent (capitano di corvetta Hugh Christopher Browne) che alle 12.24 ha avvistato la squadra italiana in posizione 38°09' N e 18°17' E e si è avvicinato per attaccare, ed alle 13.39 ha lanciato cinque siluri contro la Duilio, venendo poi ad affiorare accidentalmente a causa di una perdita di assetto provocata dal lancio. Nessuno dei siluri va a segno; il contrattacco dei cacciatorpediniere inizia soltanto alle 14.05 e non arreca danni al Regent, frattanto sceso a 90 metri di profondità, in quanto le bombe di profondità esplodono lontane.
Navigando nella burrasca, la flotta italiana raggiunge le basi tra l'una e le quattro del mattino del 1° ottobre, vi si rifornisce in fretta e rimane in attesa di un'eventuale nuova uscita per riprendere il contrasto, ma in base alle nuove informazioni ottenute ciò risulterà impossibile, pertanto, alle 14.00 del 2 ottobre, le navi riceveranno l'ordine di spegnere le caldaie.
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Il Da Recco ed un altro cacciatorpediniere nel 1940 (Coll. Luigi Accorsi, via www.associazione-venus.it) |
11-12 novembre 1940
Il Da Recco si trova ormeggiato in Mar Piccolo a Taranto (banchina torpediniere/banchina di Porta Ponente) insieme al resto della XVI Squadriglia (Pessagno e Usodimare) ed a numerose altre unità (incrociatori pesanti Trieste e Pola, incrociatori leggeri Duca degli Abruzzi e Garibaldi, nave portaidrovolanti Giuseppe Miraglia, rimorchiatore di salvataggio Teseo, posamine Vieste, cacciatorpediniere Freccia, Dardo, Saetta, Strale, Maestrale, Grecale, Libeccio, Scirocco, Geniere, Camicia Nera, Carabiniere, Corazziere, Ascari, Lanciere, torpediniere Pallade, Polluce, Partenope e Pleiadi), quando la base viene attaccata da aerosiluranti britannici che affondano la corazzata Conte di Cavour e pongono fuori uso la Littorio e la Duilio.
Mentre gli aerosiluranti attaccano le corazzate, cinque bombardieri attaccano a più riprese le unità presenti in Mar Piccolo, a scopo diversivo, sganciando complessivamente una sessantina di bombe.
Alle 23.15 dell'11 le navi in Mar Piccolo aprono il fuoco contro alcuni aerei che sganciano bombe da una quota valutata in 500 metri; gli ordigni inquadrano i posti d'ormeggio dei cacciatorpediniere.
Tra le 23.30 e le 23.40 altri due aerei, da quote comprese tra i 500 ed i 900 metri, sganciano diverse bombe che cadono 20-30 metri a proravia dei cacciatorpediniere ormeggiati all'estremità orientale della linea degli ormeggi. Alle 00.30, infine, un ultimo bombardiere, preceduto da due bengalieri, sgancia da circa 900 metri un grappolo di 6 bombe, delle quali 4 cadono in mare tra Trento e Miraglia, una colpisce il Trento senza esplodere, ed una cade in mare tra la prua del Duca degli Abruzzi ed i cacciatorpediniere ormeggiati alle boe. Il Da Recco non subisce danni, mentre il Pessagno subisce alcuni danni alla carena per effetto dell'esplosione di alcune bombe cadute in mare a poca distanza.
22 novembre 1940
In questa data due membri dell'equipaggio del Da Recco, il marinaio cannoniere Pietro Bertolozzi ed il marinaio Giuseppe D'Adamo, entrambi ventenni (Bertolozzi originario di Bagnolo Mella, D'Adamo di Portovenere), muoiono a bordo della nave, ed un terzo, il ventitreenne marinaio Valerio Gardella da Neirone, risulta essere deceduto a terra il giorno seguente. Non è stato possibile risalire alle cause di queste morti; in questa data il Da Recco si trovava in porto a Taranto, e non vi furono attacchi aerei. Sembra probabile si sia verificato un incidente non meglio precisabile.
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Il Da Recco in transito nel canale navigabile di Taranto nel 1940 (dalla pagina Facebook “Cacciatorpediniere classe Navigatori”) |
28 novembre 1940
Il Da Recco, insieme ai gemelli Antonio Pigafetta ed Emanuele Pessagno (insieme ai quali forma la XVI Squadriglia Cacciatorpediniere), al ben più vecchio cacciatorpediniere Augusto Riboty ed alle torpediniere Angelo Bassini e Generale Marcello Prestinari (queste ultime sono incaricate di precedere i cacciatorpediniere eseguendo dragaggio in corsa), salpa da Brindisi alle 2.45 per eseguire un'azione di bombardamento contro le installazioni militari greche sulla costa settentrionale e nordorientale di Corfù.
Le navi iniziano il bombardamento alle 7.58 e lo concludono alle 8.57, dopo aver sparato in tutto circa 1600 colpi da 102 e 120 mm, da distanze comprese tra i 3 ed i 9 km. I risultati del cannoneggiamento vengono giudicati come soddisfacenti (per altra fonte, il bombardamento non avrebbe prodotto effetti apprezzabili), mentre la reazione delle batterie costiere greche è valutata come debole (per altra fonte, del tutto assente); le navi italiane rientrano a Brindisi alle 14.50 per rifornirsi di munizioni.
Quella del 28 novembre è la prima delle tredici azioni di bombardamento controcosta effettuate da navi da guerra italiane durante la campagna di Grecia: lo Stato Maggiore della Marina, poco convinto – a ragione – dell'efficacia di azioni di questo tipo (come ha potuto constatare dall'osservazione dei risultati di analoghe azioni di bombardamento navale britanniche contro obiettivi costieri italiani in Africa Settentrionale, che hanno in genere causato danni piuttosto limitati), ha alla fine ceduto – per considerazioni di natura “etica e politica” – alle insistenti pressioni dell'Esercito, che da tempo richiede che la Marina bombardi con le sue navi obiettivi costieri sul fronte greco-albanese.
Per altra fonte il Da Recco non avrebbe partecipato a quest'azione.
6-7 dicembre 1940
Il Da Recco (capitano di vascello Ugo Salvadori) partecipa ad un'altra azione di bombardamento controcosta sulle coste albanesi.
9 dicembre 1940
In seguito alle perdite subite nella “Notte di Taranto”, le due Squadre Navali vengono fuse in una sola Squadra. La XVI Squadriglia Cacciatorpediniere rimane sempre alle dipendenze dell'VIII Divisione.
18 dicembre 1940
Nel primo pomeriggio il Da Recco (capitano di vascello Ugo Salvadori) partecipa, insieme agli incrociatori leggeri Eugenio di Savoia e Raimondo Montecuccoli (VII Divisione) ed ai cacciatorpediniere Emanuele Pessagno, Antonio Pigafetta, Alvise Da Mosto, Giovanni Da Verrazzano, Nicolò Zeno ed Augusto Riboty, ad un'azione di bombardamento lungo la costa greco-albanese, contro posizioni greche nella zona di Lukova, località costiera situata trenta chilometri a nord del Canale di Corfù.
Le navi italiane sono divise in due gruppi: i due incrociatori più Da Recco, Pessagno, Pigafetta e Riboty (che formano la XVI Squadriglia Cacciatorpediniere, cui è temporaneamente aggregato il vecchio Riboty) sparano contro Lukova (i due incrociatori tirano in tutto 160 colpi da 152 mm contro la strada costiera, arrestando l'avanzata ellenica e dando così alla 51a Divisione Fanteria "Siena" il tempo di riorganizzarsi; i greci mettono frettolosamente in batteria alcuni di cannoni di piccolo calibro appartenenti a batterie campali e rispondono al fuoco con una quindicina di salve, ma non causano niente più che lievi danni da schegge agli incrociatori ed al Pigafetta), mentre Zeno, Da Mosto e Da Verrazzano bersagliano la strada costiera più a nord, bloccando il traffico che si svolge lungo di essa e facendo così fallire il tentativo dei greci di avanzare su Valona dalla Val Sushitza.
L'azione
di fuoco si protrae dalle 14.24 alle 14.58. Le batterie costiere
greche (altra fonte parla di alcuni cannoni di piccolo calibro messi
rapidamente in batteria per l'occasione) reagiscono con sedici salve
di due colpi ciascuna, nessuna delle quali va a segno (subiscono
lievi danni da schegge, col ferimento non grave di tre uomini,
il Pigafetta
e gli incrociatori).
Quest'azione, sollecitata dal generale
Giovanni Messe (comandante il Corpo d'Armata Speciale, dislocato nel
settore costiero del fronte), contribuirà al fallimento
dell'offensiva ellenica contro Valona e varrà al comandante
Salvadori la Croce di Guerra al Valor Militare (motivazione: "Al
comando di unità complessa, dirigeva ed eseguiva importanti azioni
di bombardamento costiero ottenendo visibili effetti distruttivi sul
nemico ed efficace protezione delle nostre truppe combattenti lungo
il litorale").
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Un’altra immagine del Da Recco nel 1940 (foto Aldo Fraccaroli, via Coll. Luigi Accorsi e www.associazione-venus.it) |
1940-1941
Lavori di modifica dell'armamento: vengono eliminate le due mitragliere singole Vickers-Terni Mod. 1917 da 40/39 mm e le quattro Breda binate da 13,2/76 mm, mentre vengono installate due mitragliere singole Scotti-Isotta Fraschini Mod. 1939 da 20/70 mm e sette, anch'esse singole, Breda Mod. 1940 da 20/65 mm.
Gli impianti lanciasiluri binati vengono sostituiti con altrettanti trinati, in linea.
9-10 gennaio 1941
Nella notte tra il 9 ed il 10 e per l'intera giornata del 10 la XVI Squadriglia Cacciatorpediniere (caposquadriglia il Da Recco), insieme alla XV Squadriglia ed alla VII (Eugenio di Savoia) e VIII Divisione Navale (Duca degli Abruzzi), compie una crociera protettiva nel Canale d'Otranto a tutela del traffico con l'Albania in seguito alla notizia di movimenti navali britannici nel Mediterraneo centrale (le navi britanniche sono in mare per l'operazione «Excess», volta a rifornire Malta con due convogli da Gibilterra ed Alessandria, ma questo Supermarina non può saperlo con certezza, pertanto dispone la crociera protettiva nel Canale d'Otranto a scopo precauzionale.
4
marzo 1941
Nel
pomeriggio il Da Recco,
partito da Brindisi, partecipa ad un'altra azione di
bombardamento navale a supporto delle operazioni sul fronte
greco-albanese, insieme al Pessagno,
alle torpediniere Altair
ed Aretusa
ed agli incrociatori leggeri Giuseppe
Garibaldi e Luigi
di Savoia Duca degli Abruzzi dell'VIII
Divisione. Le navi italiane cannoneggiano le località costiere di
Pikerasi e Borsh ed il ponte di Dorshit, obiettivo strategico in quel
settore del fronte da distruggere ad ogni costo, cosa che nelle
settimane precedenti l'Aeronautica, nonostante diversi tentativi, non
è riuscita a fare. Nella loro azione di bombardamento, le navi
italiane si spingono fino a 3500 metri dalla costa.
Quest'azione non sfugge alla ricognizione aerea britannica, e circa quindici minuti dopo l'inizio del tiro da parte di Duca degli Abruzzi e Garibaldi, si presentano sul cielo della formazione italiana dodici bombardieri Bristol Blenheim dell'84th e 211st Squadron della Royal Air Force, scortati da 10 caccia Hawker Hurricane e 17 Gloster Gladiator. I Blenheim attaccano gli incrociatori sganciando una cinquantina di bombe da una quota di 3500 metri, senza successo, mentre le due unità reagiscono con il tiro dei loro pezzi contraerei da 100 mm; subito dopo la scorta aerea della formazione italiana, costituita da 15 caccia FIAT G. 50, ingaggia gli assalitori, e nella successiva battaglia aerea vengono abbattuti due Hurricane e due G. 50.
Terminato
l'attacco aereo, le navi italiane riprendono la loro azione di
bombardamento, che si conclude con la distruzione di due arcate del
ponte di Dorshit; così completata la missione, la formazione rientra
a Brindisi senza essere ulteriormente molestata.
Per
quest'azione il comandante Salvadori riceverà la Medaglia di Bronzo
al Valor Militare (motivazione: "Comandante
di Squadriglia di cacciatorpediniere, di scorta ad una Divisione di
incrociatori che effettuava in pieno giorno un'ardita ed efficace
azione di bombardamento contro importanti posizioni della costa
nemica, assolveva i suoi compiti con serenità, prontezza ed
ardimento. Fatte segno le unità al suo comando a ripetuto fuoco da
parte delle numerose batterie terrestri e dei bombardieri nemici,
affrontava la situazione con elevato spirito combattivo, proseguendo
con coraggio e audacia nell'assolvimento della missione").
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Il Da Recco ad inizio 1941 (dalla pagina Facebook “Cacciatorpediniere classe Navigatori”) |
26 marzo 1941
Alle 19 (per altra fonte alle 21) il Da Recco (capitano di vascello Ugo Salvadori), insieme al Pessagno (capitano di fregata Carlo Giordano), col quale forma la XVI Squadriglia, ed agli incrociatori leggeri Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi (capitano di vascello Vittorio Bacigalupi) e Giuseppe Garibaldi (capitano di vascello Stanislao Caraciotti) della VIII Divisione (ammiraglio di divisione Antonio Legnani, con insegna sul Duca degli Abruzzi), salpa da Brindisi per raggiungere un punto di riunione situato circa 55 miglia a sudest di Capo Spartivento Calabro.
Contemporaneamente prendono il mare anche la corazzata Vittorio Veneto (capitano di vascello Giuseppe Sparzani), scortata dai cacciatorpediniere Maestrale (capitano di vascello Ugo Bisciani), Grecale (capitano di fregata Edmondo Cacace), Libeccio (capitano di fregata Enrico Simola) e Scirocco (capitano di fregata Domenico Emiliani) della X Squadriglia (poi sostituiti da Granatiere, Bersagliere, Fuciliere ed Alpino della XIII Squadriglia, comandati rispettivamente dal capitano di vascello Vittorio De Pace e dai capitani di fregata Giuseppe De Angioy, Alfredo Viglieri e Giuseppe Marini), da Napoli, gli incrociatori pesanti Zara (capitano di vascello Luigi Corsi), Pola (capitano di vascello Manlio De Pisa) e Fiume (capitano di vascello Giorgio Giorgis) della I Divisione (al comando dell'ammiraglio di divisione Carlo Cattaneo, con insegna sullo Zara) con i cacciatorpediniere Vittorio Alfieri (capitano di vascello Salvatore Toscano), Alfredo Oriani (capitano di fregata Vittorio Chinigò), Vincenzo Gioberti (capitano di fregata Marc'Aurelio Raggio) e Giosuè Carducci (capitano di fregata Alberto Ginocchio) della IX Squadriglia, da Taranto, e gli incrociatori pesanti Trento (capitano di vascello Alberto Parmigiano), Trieste (capitano di vascello Umberto Rouselle) e Bolzano (capitano di vascello Francesco Maugeri) della III Divisione (al comando dell'ammiraglio di divisione Luigi Sansonetti, con insegna sul Trieste) con i cacciatorpediniere Ascari (capitano di fregata Marco Calamai), Corazziere (capitano di vascello Carmine D'Arienzo) e Carabiniere (capitano di fregata Giacomo Sicco) della XII Squadriglia da Messina. Comandante della squadra italiana è l'ammiraglio di squadra Angelo Iachino, imbarcato sulla Vittorio Veneto.
Inizia così l'operazione «Gaudo», un'incursione contro il traffico britannico nel Mediterraneo orientale, a nord di Creta. La partenza è avvenuta col favore del buio per meglio tutelarne la segretezza; la I e la VIII Divisione, con le rispettive squadriglie di cacciatorpediniere, dovranno riunirsi 55 miglia a sudest di Capo Spartivento Calabro formando un unico gruppo.
Dopo la riunione, la flotta italiana dovrà dirigere verso la Libia per trarre in inganno eventuali ricognitori britannici, finché, giunta in un punto prestabilito al largo di Capo Passero, si dividerà nuovamente nei due gruppi che avrebbero poi diretto verso i rispettivi obiettivi.
La I e la VIII Divisione (insieme ai sei cacciatorpediniere della IX e XVI Squadriglia), riunite sotto il comando dell'ammiraglio Cattaneo, devono portarsi a nord di Creta, passando tra Cerigotto e Capo Spada, poi proseguire sino a giungere a 30 miglia a sud di Stampalia per la loro puntata offensiva; la Vittorio Veneto e la III Divisione, insieme alla XII e XIII Squadriglia Cacciatorpediniere (sette unità), devono invece raggiungere le acque di Gaudo, a sud di Creta, per compiervi una scorreria. Entrambi i gruppi sono incaricati di attaccare i convogli britannici in navigazione tra la Grecia e l'Egitto (nell'ambito dell'operazione britannica «Lustre»), se in condizioni di superiorità, per poi fare rapidamente alle basi ritorno dopo aver inflitto il maggior danno possibile. Qualora siano avvistate da superiori forze avversarie prima di arrivare nelle acque di Creta, le navi italiane dovranno abortire l'operazione, venendo a mancare la sorpresa.
L'ordine d'operazione per il Gruppo «Zara», formato dalla I e VIII Divisione con le relative squadriglie di cacciatorpediniere, recita «Gruppo Zara composto I e VIII Divisione navale lasci base prime ore giorno X-1 et regoli propri movimenti in modo trovarsi alle 20.00 giorno X-1 in punto lat. 35°46' e long. 19°34' et diriga poi per passare ore 04.00 giorno X fra Cerigotto et Capo Spada alt Prosegua quindi per levante fino at meridiano Capo Tripiti e poi per scoglio Karavi dove dovrà trovarsi ore 08.00 giorno X alt Da tale punto diriga per ripassare fra Capo Spada e Cerigotto et quindi per punto miglia 90 a ponente di Cerigotto dove dovrà trovarsi ore 13.30 giorno X et quindi per rientro basi alt In caso avvistamento unità nemiche attaccare a fondo soltanto se in condizioni favorevoli di relatività di forze alt». La segretezza dell'operazione «Gaudo», fondamentale per la sua riuscita, è però svanita prima ancora del suo inizio: l'aumento delle ricognizioni effettuate dalla Regia Aeronautica in Mar Egeo è stato notato dall'ammiraglio Andrew Browne Cunningham, comandante della Mediterranean Fleet; ed i ricognitori decollati da Malta hanno avvistato la I Divisione a Taranto, base che fino ad allora, dopo la notte di Taranto, era stata abbandonata da ogni nave maggiore. Intuendo che la Marina italiana stia preparando una mossa contro i convogli britannici per la Grecia, Cunningham ha ordinato che le ricognizioni sulle principali basi navali italiane e sulle probabili rotte che la flotta italiana potrebbe seguire vengano aumentate sino al massimo possibile, e disloca in quelle acque tutti i sommergibili disponibili.
Le decrittazioni, da parte di “ULTRA”, di comunicazioni della Luftwaffe in cui si annuncia che questa darà ad una forte squadra navale italiana che dovrà presto effettuare una scorreria in Egeo, hanno dato a Cunningham la conferma circa le sue supposizioni; infine, il 25 marzo “ULTRA” ha intercettato una comunicazione di Supermarina (partita da Roma e diretta a Rodi) in cui si dice che «Oggi 25 marzo est giorno X meno 3». Tra il 25 ed il 26, ulteriori intercettazioni hanno aggiunto informazioni a quelle già note ai britannici, pur non componendo ancora un quadro particolarmente nitido.
Cunningham ha subito preso tutti i provvedimenti del caso, ordinando ricognizioni aeree su Taranto, Napoli, Brindisi e Messina per il pomeriggio del 27, la sospensione di ogni traffico da e per la Grecia – tranne i convogli «AG 8», già partito il 26 marzo da Alessandria per la Grecia con la scorta di due incrociatori antiaerei e tre cacciatorpediniere, e «GA 8» (un mercantile, l'incrociatore leggero Bonaventure e due cacciatorpediniere), che sarebbe partito il 29 seguendo la rotta opposta ed arrivando ad Alessandria due giorni dopo (senza il Bonaventure, affondato dal sommergibile italiano Ambra) –, il ritiro di tutte le unità di vigilanza in servizio a Suda ed al Pireo per porle sotto la protezione delle difese locali, l'immediato stato di allerta per tutta la Mediterranean Fleet; l'uscita dal Pireo, il 27 marzo (il giorno prima di quello fissato per l'operazione italiana), della 7th Cruiser Division (Forza B) dell'ammiraglio Henry Pridham-Wippell per un pattugliamento del mare attorno a Gaudo, isolotto a sud di Creta (le navi di Pridham-Wippell salperanno la sera del 27, con l'ordine di essere 30 miglia a sud di Gaudo per le 6.30 del 28), l'invio dei sommergibili Rover e Triumph in probabili punti di passaggio della squadra italiana, il rinforzo delle difese contraeree di Suda (con l'invio dell'incrociatore antiaereo Carlisle), il potenziamento delle squadriglie di aerosiluranti di Creta e della Cirenaica (e si preparano anche reparti di bombardieri Bristol Blenheim).
27 marzo 1941
Alle 10.30 del 27 la I e la VIII Divisione (con IX e XVI Squadriglia) si riuniscono 55 miglia a sudest di Capo Passero, poi si posizionano 16 miglia a poppavia della Vittorio Veneto, che è a sua volta preceduta di 7 miglia dalla III Divisione. La foschia ed il vento di scirocco ostacolano il mantenimento della formazione, mentre non vi sono difficoltà nel mantenere la velocità prefissata.
La navigazione prosegue senza incidenti – ma nella preoccupante assenza della poderosa scorta aerea tedesca prevista: non si vedono che idrovolanti CANT Z. 506 che forniscono per qualche ora scorta antisommergibile, e più tardi qualche aereo tedesco in lontananza che passa senza dar segno d'aver visto le navi – sino alle 12.25, quando il Trieste annuncia che la III Divisione è stata localizzata da un idroricognitore britannico Short Sunderland (un velivolo del 230th Squadron RAF decollato dalla base greca di Scaramanga, ai comandi del capitano pilota Donovan Gerhard Bohem). Compreso che la sorpresa, presupposto fondamentale per la riuscita della missione, non c'è più, Iachino domanda quindi a Supermarina se debba annullare la missione e rientrare alla base; in una concitata riunione si conclude che la sorpresa è venuta a mancare, ma che il ricognitore non ha avvistato che una porzione della squadra italiana, pertanto si decide di proseguire, preferendo rischiare una trappola, che far sembrare ai tedeschi (che hanno sollecitato un atteggiamento più offensivo da parte della Marina italiana, in risposta a cui è stata pianificata l'operazione «Gaudo») ed a Mussolini che la Marina si ritiri alle prime difficoltà.
In seguito a ciò, la formazione italiana, poco dopo le 14, accosta per 150° (prima la rotta era 134°) per ingannare il ricognitore, e mantiene questa rotta sino alle 16, dopo di che riaccosta per 130°, e poi – alle 19.30 – per 98° portando la velocità a 23 nodi, così da giungere nel punto prestabilito a sud di Gaudo all'alba del 28. Alle 22 Supermarina annulla l'attacco a nord di Creta, dato che la ricognizione ha rivelato che non c'erano convogli da attaccare (ed anche per il rischio che gli incrociatori del gruppo «Zara» vengano attaccati da forze britanniche, di cui si ha contezza dopo l'avvistamento del Sunderland), pertanto la I e VIII Divisione ricevono l'ordine di ricongiungersi con la Vittorio Veneto e la III Divisione all'alba del giorno seguente, al largo di Gaudo ed a sudovest di Creta («Destinatari V. VENETO per Squadra e Zara per Divisione alt Modifica ordine di operazione gruppo Cattaneo si riunisca dopo alba domani 28 corrente gruppo Iachino alt Programma Iachino resta invariato»). In base a rilevazioni radiogoniometriche, si ritiene che in quella zona si troveranno, il giorno seguente, alcuni incrociatori leggeri e cacciatorpediniere britannici.
Intanto, alle 19, il grosso della Mediterranean Fleet – le corazzate Barham, Valiant e Warspite, la portaerei Formidable e nove cacciatorpediniere, cioè la Forza A e la Forza C – è salpato furtivamente da Alessandria, sotto il comando di Cunningham, per intercettare la formazione di Iachino. Unico intoppo nel piano britannico, la bassa velocità (19-20 nodi) che la forza navale deve tenere per non lasciare indietro la Warspite, che ha aspirato della sabbia nell'uscire dal porto con conseguenze ostruzione dei condensatori dell'apparato evaporatore. Ciò ritarderà la riunione tra le Forze A e C e la Forza B di Pridham-Wippell, impedendo che tali forze riunite incontrino quelle di Iachino già nella giornata del 28 marzo. Da parte italiana si è all'oscuro di tutto ciò.
28 marzo 1941
Alle 6.35 del mattino, un idroricognitore catapultato dalla Vittorio Veneto avvista la Forza B britannica (formata dagli incrociatori leggeri Orion, Ajax, Perth e Gloucester e dai cacciatorpediniere Vendetta, Hasty, Hereward ed Ilex, sotto il comando dell'ammiraglio Henry Pridham-Wippell), in navigazione con rotta stimata 135° e velocità 18 nodi una quarantina di miglia ad est-sud-est dall'ammiraglia italiana. Alle 6.57, mentre la III Divisione riceve l'ordine di assumere rotta 135° e velocità 30 nodi per raggiungere gli incrociatori britannici, poi ripiegare verso la Vittorio Veneto ed attirarli così verso la corazzata, il resto della formazione italiana (comprese la I e VIII Divisione, che devono così convergere verso sudest con le altre navi) aumenta la velocità a 28 nodi (in quel momento il gruppo «Zara» – che si sarebbe dovuto congiungere con la Vittorio Veneto all'alba – è in leggero ritardo; alle 6.30 è circa 16 miglia a nordovest delle altre unità, ed alle 6.57 riceve ordine dalla Vittorio Veneto di aumentare la velocità).
Alle 7.55 la III Divisione avvista la Forza B, ma dato che anche quest'ultima vuole tentare di attirare le navi italiane verso il grosso della Mediterranean Fleet (che è una novantina di miglia più ad est), e dunque si ritira verso est, la manovra pianificata da Iachino non si concretizza, ed al contrario sono le navi italiane ad inseguire quelle britanniche. Comincia così scontro di Gaudo: tra le 8.12 e le 8.55 la III Divisione insegue la Forza B cannoneggiandola con i propri cannoni da 203, ma non riesce a mettere a segno alcun colpo e alla fine, dato che le distanze restano costanti, interrompe l'inseguimento dietro ordine di Iachino.
Intanto, alle 8.37, il Pessagno comunica al comando della I Divisione di non poter sviluppare una velocità superiore ai 25 nodi, causa un'avaria ad una caldaia; il messaggio viene intercettato anche da Iachino, che alle 8.38 ordina pertanto al gruppo «Zara» di assumere rotta 300° e di ridurre la velocità a 20 nodi.
Concluso il vano inseguimento e scambio di cannonate – al quale la I e VIII Divisione, non ancora ricongiuntesi al resto della formazione, non hanno potuto partecipare –, le navi italiane alle 8.55 accostano per 270° ed assumono rotta 300° e velocità di 28 nodi, ora tallonate a distanza dalla Forza B, che tiene informato il resto della Mediterranean Fleet dei movimenti delle unità italiane. Quando se ne accorge, alle 10.02 l'ammiraglio Iachino ordina alla III Divisione di proseguire sulla sua rotta, mentre la Vittorio Veneto e le altre navi invertono la rotta (assumendo rotta 90°) per sorprendere alle spalle la Forza B (portandosi ad est delle navi britanniche e poi accostando verso sud), porla tra due fuochi (la III Divisione ed il resto della formazione italiana) e così impedirne la ritirata. L'esecuzione di questa manovra viene però temporaneamente ritardata in quanto, alle 10.10, lo Zara lancia un segnale di scoperta col quale riferisce di aver avvistato fumo o alberatura sospetta per 300°; Iachino attende che tale avvistamento venga chiarito, ma alle 10.34 lo Zara annulla il segnale di scoperta e la manovra riprende.
Le unità della Forza B sono però più a nord di quanto ritenuto (e segnalato) e per questo l'incontro avviene alle 10.50: alle 10.56 la Vittorio Veneto apre il fuoco da 23.000 metri e la Forza B, attaccata sul lato opposto dalla III Divisione, accosta immediatamente verso sud e si ritira inseguita dalle navi italiane, ma le distanze vanno aumentando ed il tiro della Vittorio Veneto risulta inefficace. Solo l'Orion ed il Gloucester (per altre fonti anche il Perth) subiscono lievi danni per proiettili caduti vicini. Alle 10.57 vengono avvistati sei aerei che si rivelano poi essere aerosiluranti britannici Fairey Albacore (decollati dalla Formidable), che alle 11.18 passano all'attacco: la Vittorio Veneto accosta sulla dritta, e la XIII Squadriglia si porta in posizione adatta ad impedire l'attacco, aprendo intenso tiro contraereo; alle 11.25 gli aerosiluranti lanciano, ma devono farlo da una distanza eccessiva, e nessun siluro va a segno.
L'attacco aerosilurante ha però obbligato le navi italiane a cessare il fuoco, consentendo alla Forza B di sfuggire ad una situazione di grave pericolo. In tutto, le navi di Iachino hanno sparato 94 colpi da 381 mm e 542 da 203 mm.
In questa zona le navi di Iachino dovrebbero fruire della copertura aerea dei caccia di Rodi (dodici caccia FIAT CR. 42 dell'Aeronautica dell'Egeo, muniti di serbatoi supplementari per incrementarne l'autonomia, di base a Scarpanto), ma questi velivoli non si fanno vedere (per altra fonte sono presenti sul cielo della formazione, ma solo saltuariamente ed in numero modesto, nel corso della mattinata); intervengono invece due aerei tedeschi (gli unici che si vedranno durante tutta la battaglia), due Junkers Ju 88 che tentano valorosamente d'ingaggiare i tre caccia Fairey Fulmar di scorta agli aerosiluranti. Il violento scontro aereo finisce male per i tedeschi: uno Ju 88 viene abbattuto, l'altro viene messo in fuga. Le navi italiane non si accorgono neanche dell'intervento degli Ju 88.
Frattanto, alle 11.07, la I Divisione avvista un sommergibile a 3000 metri per 280°, comunicandolo alla nave ammiraglia; probabilmente si tratta di un falso allarme.
Successivi messaggi e segnalazioni, che confermano l'assenza di traffico convogliato britannico da attaccare, ed insieme ad essi l'ormai conclamata assenza della copertura aerea e la continua diminuzione delle scorte di carburante dei cacciatorpediniere, portano l'ammiraglio Iachino, alle 11.40, a disporre rotta verso nordovest: si torna alla base.
Se in mattinata l'appoggio dato dai CR. 42 dell'Aeronautica dell'Egeo è stato pressoché inconsistente, nel pomeriggio esso cessa del tutto e definitivamente: col rapido allontanamento della flotta italiana in direzione di Taranto, infatti, questa si viene presto a trovare al di fuori dei limiti dell'autonomia dei CR. 42, anche se questi impiegano serbatoi supplementari.
Nel pomeriggio del 28 marzo, la flotta italiana viene lungamente sorvolata da un idroricognitore britannico. Lo pilota il capitano di corvetta Bolt, dello Stato Maggiore di Cunningham, catapultato dalla Warspite: durante la sua missione ha modo di aggiornare il suo ammiraglio circa posizione, composizione, rotta e velocità delle navi italiane, con notevole accuratezza.
Cunningham si è reso conto che la formazione di Iachino, più veloce della sua, rischia di sfuggire facilmente all'inseguimento (del quale non sa nemmeno di essere oggetto): sempre che non si provveda a rallentarla. Questo si può fare danneggiando qualche nave, lanciando attacchi di bombardieri ed aerosiluranti dalle basi di Creta e dalla Formidable. Cunningham, pertanto, ordina ripetuti attacchi aerei contro le navi di Iachino. Nel corso del pomeriggio, un totale di 30 bombardieri Bristol Blenheim della RAF (decollati da basi aeree della Grecia) e 18 aerosiluranti Fairey Albacore e Fairey Swordfish della Fleet Air Arm (decollati dall'aeroporto di Maleme, a Creta, e dalla Formidable) effettua rispettivamente cinque e tre attacchi sulla formazione italiana.
Alle 13.23 la I Divisione si trovava a 56 miglia per 266° da Gaudo. Alle 15.17 il gruppo «Zara» viene attaccato da sei bombardieri britannici Bristol Blenheim (che attaccarono lo Zara ed il Garibaldi), attacco che si ripete alle 15.26, alle 16.30 ed infine alle 16.44. Nello stesso lasso di tempo anche la Vittorio Veneto e la III Divisione vengono più volte attaccate da aerei (rispettivamente tre e due volte): un solo attacco causa danni, ma sufficienti a scatenare la sequenza degli eventi che porterà al disastro.
Alle 15.19, infatti, tre aerosiluranti britannici attaccano la Vittorio Veneto, mentre dei caccia attaccano le unità della XIII Squadriglia mitragliandone la coperta; anche dei bombardieri in quota partecipano all'attacco. Il violento fuoco contraereo dei cacciatorpediniere della XIII Squadriglia colpisce uno degli aerosiluranti, pilotato dal capitano di corvetta John Dalyell-Stead: proprio questo velivolo, prima di cadere in mare uccidendo i tre uomini del suo equipaggio, riesce a portarsi a meno di 1000 metri dalla Vittorio Veneto ed a lanciare un siluro, che colpisce la corazzata a poppa. Alle 15.30 la Vittorio Veneto, che ha imbarcato 4000 tonnellate d'acqua, si immobilizza nel punto 35°00' N e 22°01' E; dopo sei minuti può rimettere in moto, ma solo alle 17.13 riesce a sviluppare una velocità di 19 nodi.
La squadra di Iachino fa rotta verso Taranto, distante 420 miglia, ed alle 16.38 l'ammiraglio, prevedendo che nuovi attacchi aerei si scateneranno al tramonto, ordina che le altre unità si posizionino intorno alla danneggiata Vittorio Veneto per proteggerla da altri attacchi. Per quanto riguarda il gruppo «Zara», Iachino ordina alla I Divisione di avvicinarsi alla Vittorio Veneto, mentre dà all'VIII Divisione libertà di manovra per rientrare subito a Brindisi.
Da Recco, Pessagno, Duca degli Abruzzi e Garibaldi, pertanto, lasciano la formazione e dirigono per proprio conto verso la base pugliese (secondo alcuni siti Internet, la decisione di lasciare l'VIII Divisione libera di rientrare direttamente a Brindisi sarebbe stata dovuta all'avaria al Pessagno, che con il Da Recco era l'unica unità di scorta di questa Divisione; di questo non si fa però parola nella storia ufficiale dell'USMM). Non saranno quindi coinvolti nei successivi drammatici eventi della serata e della notte: il siluramento del Pola, immobilizzato da un nuovo attacco di aerosiluranti britannici; l'invio in suo soccorso dell'intera I Divisione con la IX Squadriglia; l'annientamento della I Divisione da parte delle corazzate della Mediterranean Fleet, in un vero e proprio tiro a segno notturno nel quale le navi italiane sono massacrate prima di poter abbozzare una reazione. Così si conclude la battaglia di Capo Matapan: affondati lo Zara, il Pola, il Fiume, l'Alfieri, il Carducci; seriamente danneggiato l'Oriani; oltre 2300 i morti tra gli italiani, contro perdite sostanzialmente nulle da parte britannica. La peggior sconfitta nella storia della Marina italiana.
(Per altra fonte, dopo il siluramento della Vittorio Veneto Da Recco e Pessagno sarebbero stati inviati a nord del gruppo principale per fronteggiare un possibile attacco di siluranti provenienti da tale direzione, rimanendovi fino all'alba, quando le navi avrebbero ripreso la formazione compatta più utile alla difesa contro gli attacchi aerei; sembra probabile un errore).
29 marzo 1941
All'1.18, quando il tragico destino della I Divisione si è ormai consumato, l'ammiraglio Iachino richiama l'VIII Divisione perché si riunisca entro le otto, nel punto a 60 miglia per 139° da Capo Colonne, al gruppo composto da Vittorio Veneto e III Divisione. Viene fatta eccezione per il Pessagno, che in considerazione dei problemi non ancora risolti all'apparato motore viene lasciato proseguire per Brindisi.
L'VIII Divisione (Da Recco compreso) raggiunge puntualmente il resto della squadra, prendendo posizione sulla sinistra della Vittorio Veneto, mentre la III Divisione viene disposta sulla dritta e la X Squadriglia Cacciatorpediniere (Maestrale, Grecale, Libeccio, Scirocco), frattanto inviata da Messina su richiesta dell'ammiraglio Iachino, viene messa in posizione di scorta sulla sinistra dell'VIII Divisione. Assunta così la formazione di marcia diurna, la squadra navale viene raggiunta alle 6.23 da cinque bombardieri tedeschi Junkers Ju 88 che ne assumono la scorta aerea; più tardi arrivano anche aerei da caccia tedeschi e – quando già le navi sono nel Golfo di Taranto – una pattuglia tre caccia italiani. Nella giornata del 29, durante la navigazione nel Golfo di Taranto, si alterneranno in tutto sul cielo delle navi italiane 53 aerei da caccia, 45 bombardieri e 6 aerosiluranti dell'Aeronautica della Sicilia e della IV Squadra Aerea di base in Puglia, nonché 19 Junkers Ju 88 ed undici caccia Messerschmitt Bf 110 del X Corpo Aereo Tedesco. Dopo tre giorni in cui la mancanza di protezione aerea ha avuto risultati catastrofici, questo eccesso di copertura quando ormai non è nemmeno più necessaria appare quasi beffardo.
Alle 9.08 la squadra italiana assume rotta 343°, mettendo la prua verso Taranto, ed alle 9.40 l'ammiraglio Iachino, avendo ricevuto dall'Oriani un messaggio con cui questi riferisce di necessitare di rimorchio per le conseguenze dei danni subiti, distacca Maestrale e Libeccio per andare in sua assistenza.
Prima dell'arrivo della squadra a Taranto, che avverrà poco dopo le 15.30, l'VIII Divisione viene distaccata per raggiungere Brindisi insieme a Grecale e Scirocco.
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Il Da Recco nel 1941 (g.c. Giorgio Micoli via www.naviearmatori.net) |
15 aprile 1941
Il capitano di vascello Salvadori cede il comando del Da Recco e della XVI Squadriglia al quarantanovenne parigrado Antonio Muffone.
20
aprile 1941
Il Da
Recco (capitano di
vascello Antonio Muffone, caposquadriglia della XVI Squadriglia
Cacciatorpediniere), insieme ai gemelli Emanuele
Pessagno (capitano di
fregata Pietro Scammacca) della XVI Squadriglia Cacciatorpediniere ed
Alvise Da Mosto (capitano
di fregata Gian Giacomo Ollandini), Antonio
Pigafetta (capitano di
vascello Mario Mezzadra, caposquadriglia della XV
Squadriglia), Giovanni
Da Verrazzano (capitano
di fregata Ugo Avelardi) e Nicolò
Zeno (capitano di fregata
Riccardo Piscicelli) della XV Squadriglia Cacciatorpediniere ed agli
incrociatori leggeri Raimondo
Montecuccoli (capitano
di vascello Arturo Solari), Eugenio
di Savoia (capitano di
vascello Giuseppe Lubrano, nave di bandiera dell'ammiraglio
Ferdinando Casardi), Muzio
Attendolo (capitano di
vascello Giorgio Conti) ed Emanuele
Filiberto Duca d'Aosta (capitano
di vascello Franco Rogadeo) della VII Divisione, molla gli ormeggi a
Taranto, alle 2.50, per prendere parte all'operazione di posa della
prima tratta («S 11») della prima spezzata («S 1», che si
estenderà dal punto 37°00' N e 11°08' E al punto 37°27' N e
11°17' E) del campo minato «S» del Canale di Sicilia (ad est di
Capo Bon). Alle 2.55 la formazione supera le ostruzioni foranee: in
testa Da Recco,
Pessagno, Pigafetta
e Zeno,
in posizione di scorta avanzata notturna, poi le unità incaricate di
posare le mine: prima i quattro incrociatori in linea di fila (in
testa l'Eugenio di Savoia,
nave ammiraglia) e per ultimi Da
Mosto e Da
Verrazzano in
posizione di scorta arretrata notturna. Le mine sistemate sulla
coperta delle navi sono occultate con sferzi mimetizzati con strisce
bianche; si pone grande attenzione nel non fare fumo, per non essere
avvistati da aerei avversari. La formazione, al comando
dell'ammiraglio di divisione Ferdinando Casardi, prosegue tenendosi
al largo della costa, zigzagando nello stretto di Messina.
Alle
3.50, ad ovest di Trapani, la formazione s'imbatte in una petroliera
isolata che procede oscurata verso nord; la nave defila lungo gli
incrociatori e poi accosta a sinistra, passando tra Da
Mosto e Da
Verrazzano, così vicino da
costringere quest'ultimo a compiere una manovra d'emergenza per non
entrare in collisione.
All'alba la formazione viene modificata:
gli incrociatori rimangono in linea di fila, mentre Da
Recco e Pessagno
passano in posizione di scorta ravvicinata a dritta, Zeno
e Pigafetta
in posizione di scorta ravvicinata a sinistra, e Da
Mosto e Da
Verrazzano in scorta
laterale a dritta ed a sinistra.
Alle 6 le navi italiane
riducono la velocità a 14 nodi; a causa della scarsa visibilità,
l'ammiraglio Casardi decide di proseguire a velocità ridotta in
attesa di migliori condizioni, tali almeno da riconoscere la costa,
prima di procedere alla posa delle mine, a costo di ritardarla. Alle
6.27, sette minuti dopo l'arrivo di un idrovolante che funge da
scorta antisommergibile (i caccia previsti non decolleranno invece da
Pantelleria a causa della foschia), è possibile riportare la
velocità a 18 nodi, ed alle 6.52 le navi incaricate della posa
(cioè Da Mosto, Da
Verrazzano ed
incrociatori) iniziano la manovra per disporsi in linea di fronte,
con distanza di 300 metri tra gli incrociatori e 200 tra
gli incrociatori ed i cacciatorpediniere, posizionati sui lati
esterni. Da Recco,
Pessagno, Pigafetta
e Zeno,
zigzagando, assumono la scorta prodiera e laterale delle navi
impegnate nella posa.
Tra le 7.07 e le 7.41 viene eseguita la
posa delle mine, che si svolge senza particolari problemi esclusa
l'esplosione prematura di 22 ordigni. L'Attendolo posa
124 boe esplosive e 37 mine ad antenna, il Duca
d'Aosta ed
il Montecuccoli
posano ciascuno 112 mine ad antenna, l'Eugenio
di Savoia posa 124 boe
esplosive e 37 mine ad antenna, e Da
Mosto e Da
Verrazzano posano
ciascuno 122 boe strappanti.
Alle 7.52 la formazione inizia la
navigazione di ritorno.
Alle 9.25 il Da
Mosto avvista una mina
e la affonda a colpi di mitragliera. Alle 9.51 il Pessagno,
che occupa la posizione «A» di dritta, alza bandiera verde per
dare l'allarme di avvistamento sommergibile, quindi accosta a dritta
e poco dopo inizia a lanciare bombe di profondità (ne lancia
tredici, otto da 100 kg e cinque da 50 kg), mentre la formazione
esegue un'accostata d'urgenza di 50° a sinistra, per poi tornare
sulla rotta originaria una volta a distanza di sicurezza dal presunto
avvistamento. Il Da
Mosto, essendo rimasto
indietro per affondare la mina, non può partecipare all'azione
antisommergibile. In seguito Casardi (che giudicherà la reazione dei
cacciatorpediniere «pronta, decisa e condotta con slancio e
perizia») riterrà che l'unità nemica sia stata “almeno
fortemente danneggiata”, ma è più probabile che si sia trattato
di un falso allarme.
Alle 10.35 vi è un nuovo allarme antisom:
il Pigafetta
(posizione «B» a sinistra) avvisa la scia di un siluro, dà
l'allarme e piomba sul sommergibile attaccante insieme allo Zeno
(che è nella posizione «A»). Zeno e
Pigafetta
lanciano rispettivamente quattro e nove bombe di profondità (tutte
da 50 kg quelle dello Zeno,
mentre quelle del Pigafetta
sono cinque da 50 kg e quattro da 100 kg), fino alla comparsa di
grosse chiazze di nafta.
Alle 10.50 l'ammiraglio Casardi, in
base agli ordini prestabiliti, ordina a Da
Mosto e Da
Verrazzano di
raggiungere Trapani per rifornirsi e poi aspettare nuovi ordini. Tra
le 22 e le 00.30, la VII Divisione ed i restanti cacciatorpediniere,
tra cui il Da Recco,
si ormeggiano nel porto di Messina.
Sullo sbarramento «S 11»
andranno perduti il piroscafo francese S.N.A.
7 (27
aprile 1941), i piroscafi britannici Parracombe (2
maggio 1941) ed Empire
Song (9
maggio 1941) e probabilmente il sommergibile britannico Usk (forse
intorno al 2 maggio 1941).
22
aprile 1941
Alle 21
(per altra fonte alle 00.15 del 23), Da
Recco e Pessagno,
scortando Attendolo
e Duca d'Aosta,
lasciano Messina alla volta di Augusta, dove i due incrociatori
devono imbarcare le mine destinate alla posa del secondo tratto («S
12» e «S 13») della prima spezzata («S 1») dello sbarramento
«S».
23 aprile 1941
Da Recco, Pessagno, Attendolo e Duca d'Aosta entrano ad Augusta alle cinque del mattino, e qui i due incrociatori iniziano ad imbarcare le mine. L'operazione dura più del previsto, a causa di avarie alle gruette dell'Attendolo, terminando infine alle 10.30.
Alle 11.20 Da Recco, Pessagno, Pigafetta e Zeno, scortando Attendolo, Montecuccoli, Duca d'Aosta ed Eugenio di Savoia, salpano da Augusta diretti verso lo Stretto di Messina. Nel primo tratto della navigazione le navi sono scortate da aerei da caccia per protezione contro attacchi aerei nemici; per tutta la durata del giorno fruiscono inoltre di scorta antisommergibili da parte di velivoli della ricognizione marittima.
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(da www.history.navy.mil via Marcello Risolo) |
24 aprile 1941
Alle cinque, in mare aperto, la formazione viene raggiunta anche da Da Mosto e Da Verrazzano, provenienti da Trapani.
Alle 4.27, intanto, le navi di Casardi sono arrivate in zona; di nuovo la visibilità è mediocre, pertanto si attende di poter meglio determinare la propria posizione prima di procedere alla posa. Verso le sei del mattino viene avvistata la vecchia torpediniera Simone Schiaffino (capitano di corvetta Riccardo Argentino), che dopo aver svolto un rastrello antisommergibili preventivo nell'area designata per la posa è rimasta sul posto ad attendere la VII Divisione per segnalarle il punto in si trova il primo tratto dello sbarramento, come da ordini.
Alle 6.24 sopraggiungono otto caccia, che assumono la scorta aerea della formazione; alle 6.37 il Pigafetta avvista una mina, che viene affondata a colpi di mitragliera dallo Zeno. Alle 6.52, migliorata la visibilità, le navi iniziano a manovrare per portarsi in linea di fronte a distanza ravvicinata, come previsto, ed alle 7.34 iniziano la posa delle mine. L'operazione, svoltasi regolarmente, ha termine alle 9. La posa avviene in linea di fronte con, da sinistra verso dritta, Da Mosto, Da Verrazzano, Eugenio di Savoia, Montecuccoli, Duca d'Aosta ed Attendolo; la distanza tra le navi è di 300 metri. Da Mosto e Da Verrazzano posano ciascuno 82 mine ad antenna (sfalsate e regolate per 3 metri di profondità) ad intervalli di 150 metri su una distanza di 6,6 miglia, mentre gli incrociatori posano 144 mine ad antenna ciascuno (le file di mine sono denominate, dal Da Mosto all'Attendolo, da «G» a «N»). Anche in questo caso la posa viene effettuata a 14 nodi dopo di che Da Mosto e Da Verrazzano accelerano gradualmente a 18 nodi ed accostano di 30° in fuori per poi assumere la posizione di scorta laterale.
Tutto sembra procedere come previsto, ma alle 7.54 la Simone Schiaffino – cui Casardi ha appena accordato il permesso di lasciare l'area dopo che, concluso un rastrello antisommergibile preventivo, era rimasta sul posto ad attendere la VII Divisione come da ordini – urta una delle mine del primo tratto ed affonda in tre minuti, portando con sé 79 dei 118 uomini dell'equipaggio. I naufraghi vengono recuperati dallo Zeno.
Dopo la fine della posa il Montecuccoli, come da ordini ricevuti da Casardi, viene lasciato libero di proseguire per La Spezia scortato da Da Recco e Pessagno, mentre le altre navi si avviano sulla rotta di rientro. Alle ore 20, Da Recco e Pessagno lasciano il Montecuccoli per raggiungere Messina e poi Taranto, dove si trovano le altre navi. Qui si preparano a prendere parte alla successiva operazione di posa di mine (linee «d», «e», «f» e «i» del nuovo sbarramento difensivo «T» al largo di Tripoli).
30 aprile 1941
La
formazione inizia a muovere alle 4.30, ed alle 5.55 supera le
ostruzioni foranee di Taranto: in testa sono Da
Recco (capitano di
vascello Antonio Muffone), Pessagno (capitano
di fregata Pietro Scammacca), Pigafetta (capitano
di vascello Mario Mezzadra) e Zeno (capitano
di fregata Riccardo Piscicelli) di scorta, seguiti da Eugenio
di Savoia (capitano di
vascello Giuseppe Lubrano, nave di bandiera dell'ammiraglio
Casardi), Duca
d'Aosta (capitano di
vascello Franco Rogadeo), Attendolo (capitano
di vascello Giorgio Conti), Da
Mosto (capitano di
fregata Gian Giacomo Ollandini) e Da
Verrazzano (capitano di
fregata Ugo Avelardi). Tra le 10.10 e le 11.05, al largo di Capo
Colonne, la formazione zigzaga. (Per altra versione, probabilmente
erronea, Da Recco
e Pessagno
sarebbero partiti da Messina, unendosi solo in un secondo momento al
resto del gruppo, partito da Taranto).
Alle 12.45 le navi
entrano in un denso banco di nebbia, che riduce la visibilità a non
più do 600 metri, uscendone solo alle 14.20. Alle 15.30 giunge
sul cielo della formazione una scorta di caccia e bombardieri (prima
vi erano degli aerei da ricognizione marittima), che resteranno sino
al tramonto; alle 16.05 le navi ricominciano a zigzagare, proseguendo
sino alle 20. Durante la sera, alle 21.05, le unità italiane
assistono in lontananza ad un'incursione aerea su Malta.
1° maggio 1941
La formazione arriva nella zona stabilita per la posa, ma la densa foschia (visibilità 5-7 km) complica e ritarda l'individuazione dei punti di riferimento assegnati per iniziare la posa, finché, alle 10.15, viene avvistato il fumo della torpediniera Partenope, mandata da Marilibia a segnare con la sua presenza l'estremità nordoccidentale della linea «f». Alle 10.22, data libertà di manovra a Da Mosto e Da Verrazzano (scortati da Pigafetta e Zeno) per posare la loro linea di mine, gli incrociatori iniziano la manovra per disporsi in formazione di posa; alle 10.52 l'Attendolo ed il Duca d'Aosta iniziano la posa della linea «f» (140 mine tedesche ad antenna disposte su due file sfalsate, con un intervallo di 300 metri tra le due file e di 100 metri tra le mine di una stessa fila); successivamente l'Attendolo e l'Eugenio di Savoia posano la linea «d» e Duca d'Aosta ed Eugenio di Savoia posano la linea «e», entrambe identiche alla «f». Per ordine dell'ammiraglio Casardi, prima dell'inizio della posa di ogni linea il Da Recco lancia due bombe di profondità a scopo intimidatorio, essendo stata segnalata la presenza di un sommergibile nemico non molto lontano.
La posa delle tre file termina alle 12.27; solo cinque mine ad antenna esplodono prematuramente, evento abbastanza comune durante le pose.
Entro le 13 la formazione si è di nuovo riunita, e si mette pertanto in rotta per tornare alla base. Stante la fitta foschia (che ostacola anche l'attività della scorta aerea) ed il conseguente rischio di attacchi da parte di navi nemiche, i cacciatorpediniere vengono posizionati a 4000 metri dagli incrociatori, in posizione di scorta avanzata, per formare uno schermo esplorativo nella più probabile direzione di provenienza di eventuali navi britanniche.
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(da www.meludo.it) |
2 maggio 1941
Alle 5.30, in base ad ordini ricevuti alle 18.30 della sera precedente, l'ammiraglio Casardi distacca Da Recco, Pessagno ed Attendolo perché raggiungano Messina, mentre il resto delle navi entra ad Augusta alle 6.30. Da Recco, Pessagno ed Attendolo arrivano a Messina alle 9.15.
Su questo campo minato potrebbe essere affondato il sommergibile britannico Undaunted, scomparso al largo di Tripoli proprio il 1° maggio 1941 od in data immediatamente successiva. Anche il sommergibile britannico Upholder, scomparso nell'aprile 1942, potrebbe essere capitato su queste mine, sebbene esistano molte altre ipotesi sulla sua fine.
4-5
maggio 1941
Da
Recco, Da
Mosto, Da
Verrazzano, Pigafetta, Zeno,
Eugenio di Savoia (nave
di bandiera dell'ammiraglio Ferdinando Casardi, comandante la VII
Divisione), Duca
d'Aosta ed Attendolo escono
in mare per fornire copertura a due convogli in navigazione tra
l'Italia e la Libia: uno composto dalle
motonavi Victoria, Calitea, Andrea
Gritti, Marco
Foscarini, Sebastiano
Venier, Barbarigo ed Ankara (tedesca),
partite da Napoli all'1.15 del 4 e dirette a Tripoli con la scorta
dei cacciatorpediniere Ugolino
Vivaldi (caposcorta), Lanzerotto
Malocello ed Antonio
Da Noli e delle
torpediniere Orione, Pegaso e Cassiopea;
l'altro formato dal trasporto truppe Marco
Polo e dalle
motonavi Rialto, Reichenfels, Marburg e Kybfels (la
prima italiana, le altre tre tedesche), salpate da Tripoli alle 9.30
del 5 e dirette a Napoli con la scorta delle
torpediniere Procione (caposcorta), Orsa, Centauro, Cigno e Perseo e
dei cacciatorpediniere Fulmine ed Euro.
La VII Divisione viene inviata a proteggere i due convogli in
considerazione della presenza a Malta di alcune unità leggere di
superficie britanniche, che il precedente 16 aprile hanno attaccato e
distrutto il convoglio «Tarigo».
Alle
20.03 del 4 la VII Divisione, con due successive accostate ad un
tempo, prende posizione circa 3 km a proravia del convoglio
«Victoria»
e dispone i cacciatorpediniere in posizione di scorta avanzata. La
VII Divisione, preceduta dai cacciatorpediniere, procede in linea di
fila, mentre il convoglio avanza in tre colonne, con scorta laterale;
l'ammiraglio Casardi ritiene che questa sia la posizione più adatta
affinché gli incrociatori possano reagire contro navi di superficie
britanniche che attacchino nei settori più pericolosi (e più
probabili; sembra invece improbabile un attacco da poppa, data la
posizione e velocità del convoglio, quindi si lascia alla scorta
diretta il compito di proteggere quel lato), senza essere intralciati
dalle manovre di convoglio e scorta diretta, ed in modo tale da
permettere a quest'ultimo di allontanarsi senza perdite. Fino al
tramonto il convoglio gode di forte scorta aerea, svolta sia da
caccia che da bombardieri.
La navigazione notturna si svolge
senza problemi; alle 5.45 del 5 la VII Divisione inizia la manovra
per portarsi sulla congiungente Malta-convoglio, posizione nella
quale resterà per il resto del giorno, procedendo a zig zag e
tenendosi in vista del convoglio. Alle 6.40 sopraggiungono i primi
velivoli della scorta aerea, questa volta composta da idrovolanti da
ricognizione marittima e da bombardieri.
Alle 14.26 viene
avvistato il convoglio «Marco
Polo», e la VII Divisione assume direttrice di marcia 16°,
mantenendosi di prora a tale convoglio, seguitando a zigzagare,
mentre il convoglio «Victoria» si dirige verso Tripoli, dove
giungerà senza alcun danno alle 20.45 dopo aver superato vari
attacchi aerei. Alle 19.50 la Divisione si posiziona 4 km a proravia
del convoglio «Marco Polo», assumendone la scorta. La visibilità
è cattiva per il resto della giornata; la navigazione notturna
procede senza intoppi, con formazione analoga a quella della notte
precedente.
(Secondo www.naval-history.net,
durante questa missione Pigafetta e
Zeno avrebbero
localizzato ed attaccato, il 4 maggio, un sommergibile ad ovest della
Sicilia; vittima di questo attacco potrebbe essere stato l'HMS Usk,
scomparso in quei giorni nelle acque del Canale di Sicilia, ma più
probabilmente questi si perse alcuni giorni prima su un campo minato
al largo di Capo Bon. La storia ufficiale dell'USMM non fa invece
menzione alcuna di quest'azione).
6
maggio 1941
Alle 5.45
la VII Divisione lascia la scorta ravvicinata del convoglio per
portarsi sulla sua sinistra; alle 6.40 viene avvistato il primo aereo
della scorta, mentre la Divisione prosegue a zig zag a 16 nodi. Il
convoglio arriverà a Napoli indenne.
Alle
12.26 Da Recco, Da
Mosto, Da
Verrazzano, Pigafetta, Zeno, Eugenio
di Savoia, Duca
d'Aosta ed Attendolo,
mentre sono in navigazione a 18 nodi ad est della Sicilia, vengono
avvistati in posizione
37°34' N e 15°27' E (su rilevamento 080°) dal sommergibile
britannico Unique (tenente
di vascello Anthony Foster Collett), in agguato all'imboccatura
meridionale dello stretto di Messina. Essendo a nove miglia di
distanza (troppe) a causa di un errore di rotta (alle nove del
mattino, quando è stato fatto il punto sulla base dei punti cospicui
della costa, Collett ha scoperto di trovarsi ben 25 miglia più a
sudest di dove dovrebbe essere), il sommergibile non ha modo di
attaccare.
7 maggio
1941
La formazione
rientra alle basi.
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Il Da Recco ad Augusta nel 1941; dietro di esso Da Mosto e Da Verrazzano (dalla pagina Facebook “Cacciatorpediniere classe Navigatori”) |
11-14 maggio 1941
Il
Da Recco
parte da Palermo alle 18.40 dell'11 maggio, insieme agli incrociatori
leggeri Giovanni delle
Bande Nere, Luigi
Cadorna (della IV
Divisione), Duca degli
Abruzzi e Garibaldi (della
VIII Divisione) ed ai cacciatorpediniere Pessagno, Usodimare,
Bersagliere, Fuciliere, Alpino,
Maestrale e Scirocco (i
tre “Navigatori” scortano l'VIII Divisione, gli altri cinque la
IV Divisione), per fornire protezione a distanza a due convogli: uno
(piroscafi italiani Ernesto e Tembien,
motonavi Giulia e Col
di Lana,
piroscafi tedeschi Preussen e Wachtfels,
scortati dai cacciatorpediniere Dardo, Aviere –
caposcorta –, Geniere, Grecale e Camicia
Nera) in navigazione da
Napoli (da dov'è partito alle due dell'11, dopo essere partito già
l'8 salvo poi rientrare per allarme navale) a Tripoli, dove arriva
alle 11.40 del 13; l'altro (motonavi italiane Victoria, Andrea
Gritti e Barbarigo,
motonave tedesca Ankara,
cacciatorpediniere Vivaldi, Malocello, Saetta e Da
Noli) in navigazione in
direzione opposta: partito da Tripoli alle 19.30 del 12, arriva a
Napoli alle 16.30 del 14.
La IV Divisione raggiunge il convoglio
in navigazione da Napoli a Tripoli alle cinque del mattino del 12
maggio, ma nel pomeriggio dello stesso giorno il Bande
Nere subisce delle
infiltrazioni di acqua salata nei condensatori delle caldaie
poppiere, che alle 17 costringono il Comando della IV Divisione a
trasbordare sul Cadorna,
dopo di che il Bande
Nere rientra a
Palermo, scortato dall'Alpino.
Il
resto della formazione rientrerà a Palermo al termine
dell'operazione.
2
giugno 1941
Il Da
Recco (capitano di vascello
Antonio Muffone, caposquadriglia della XVI Squadriglia
Cacciatorpediniere), parte da Taranto alle cinque del mattino insieme
all'Usodimare
(capitano di fregata Alfonso Galleani), facente parte della XVI
Squadriglia, ai gemelli Pigafetta
(capitano di vascello Mario Mezzadra, caposquadriglia), Da
Mosto (capitano di fregata
Gian Giacomo Ollandini) e Da
Verrazzano (capitano di
vascello Ugo Avelardi) della XV Squadriglia ed agli incrociatori
Eugenio di Savoia
(nave ammiraglia, capitano di vascello Giuseppe Lubrano), Attendolo
(capitano di vascello Giorgio Conti) e Duca
d'Aosta (capitano di
vascello Franco Rogadeo) della VII Divisione (sempre al comando
dell'ammiraglio Casardi), per partecipare alla posa delle nuove linee
dello sbarramento «T», a nordest di Tripoli.
Le navi iniziano a mollare gli ormeggi alle tre di notte, e due ore dopo, in franchia delle rotte di sicurezza, assumono rotta 160° con velocità di 18 nodi. La navigazione procede con mare calmo e brezza da sub; la visibilità è buona. Tra le 8 e le 9 e tra le 14 e le 18.14, quando le navi si trovano a passare vicine alla costa, procedono a zig zag.
Alle 18.10 viene avvistata, a 20.000 metri, la IV Divisione, che dovrà partecipare anch'essa alla posa, e che alle 18.30 assume la sua posizione in formazione: la formano gli incrociatori leggeri Giovanni delle Bande Nere (capitano di vascello Sesto Sestini), nave di bandiera dell'ammiraglio di divisione Guido Porzio Giovanola, ed Alberto Di Giussano (capitano di vascello Giovanni Marabotto) ed i cacciatorpediniere Scirocco (capitano di fregata Domenico Emiliani) e Vincenzo Gioberti (capitano di fregata Marc'Aurelio Raggio), questi ultimi facenti parte anch'essi della XVI Squadriglia Cacciatorpediniere. A posare le mine saranno gli incrociatori nonché Da Mosto e Da Verrazzano, mentre gli altri cacciatorpediniere sono incaricati della scorta.
Proprio alle 18.30, il Da Mosto viene colto da un'avaria di macchina, che gli impedisce di tenere la stessa velocità del resto della formazione. Alle 21.30 la formazione accosta per 197°; alle 21.55 il Pigafetta viene distaccato in assistenza al Da Mosto, e l'ammiraglio Casardi decide di proseguire a 20 nodi (invece di accelerare a 22 come previsto) per non lasciarlo indietro, essendo necessaria la sua partecipazione alla posa.
Alle 22.12 anche lo Scirocco, di scorta avanzata, viene colto da un'avaria, questa volta al timone, ma riesce a ripararla celermente ed a tornare in posizione in 40 minuti.
3 giugno 1941
All'alba la formazione, che a causa dell'avaria del Da Mosto ha accumulato due ore di ritardo, si ritrova senza scorta aerea, perché il ghibli e la scarsa visibilità impediscono agli aerei di decollare ed individuare le navi. Alle 10.05 viene avvistato il fumo emesso dalla torpediniera Castore per segnalare la posizione della posa, ed alle 10.37, dopo aver via via ridotto la velocità, le unità ricevono l'ordine di dividersi nei gruppi stabiliti per la posa.
Alle 11.06 le unità del gruppo «Eugenio» (Eugenio di Savoia, Di Giussano, Bande Nere, Da Mosto e Da Verrazzano; si sono separati Duca d'Aosta, Pigafetta, Gioberti e Scirocco) iniziano a manovrare per assumere rotta e formazione di posa (per la linea «b», linea di fronte con, da sinistra, Bande Nere, poi Di Giussano a 300 metri, poi Eugenio di Savoia a 200 metri da quest'ultimo, quindi Da Mosto a 100 metri da esso); l'Usodimare è colto da avaria al timone, ma la risolve rapidamente. La posa della linea «b» inizia alle 11.31 e finisce alle 12.15, quella della linea «c» (posata invece dall'Attendolo e dall'Eugenio di Savoia) comincia alle 12.22 e termina alle 12.51; entrambe vengono compiute a 10 nodi. Il Da Mosto posa 116 boe strappanti, dopo di che il Da Verrazzano ne posa altre 95 dello stesso tipo e 17 esplosive. Bande Nere, Di Giussano ed Eugenio di Savoia posano rispettivamente 139 mine ciascuno i primi due e 228 boe esplosive il terzo, che poi, al pari dell'Attendolo, posa 88 mine ad antenna per la linea «c».
La linea «b» rappresenta il primo sbarramento di mine multiplo posato da unità italiane, essendo composto da 4 file, di cui 2 di mine antinave ad antenna (con intervallo di 100 metri tra ogni ordigno), una di boe esplosive (60 metri tra ogni boa) ed una di boe strappanti (anch'esse a 60 metri l'una dall'altra), con le armi sfalsate tra le file. Le due file di mine sono distanziate di 300 metri, quella di boe esplosive è a 200 metri dalla seconda fila di mine e la fila di boe strappanti è a 200 metri da quest'ultima. Si tratta di uno sbarramento sostanzialmente indragabile, ma la sua posa richiede grande coordinazione e precisione.
Alle 13.30 le navi del gruppo «Eugenio» giungono nel punto di riunione; il Da Mosto viene inviato a Tripoli per le riparazioni dell'avaria, mentre il Da Verrazzano e le altre navi eseguono evoluzioni fino a quando, alle 14.10, sopraggiunge anche il gruppo «Aosta». A questo punto Casardi ordina di assumere la rotta di rientro e velocità 22 nodi; la visibilità migliora leggermente e progressivamente con l'allontanamento dalla costa.
Alle 14.52 vengono avvistati degli aerei da caccia che si allontanano, ed alle 17 il Di Giussano avvista per poco tempo un ricognitore sconosciuto; alle 23.15 Supermarina comunica del decollo di aerosiluranti da Malta, ma il mare, completamente calmo, non è molto favorevole ad attacchi di questo tipo. La luna, al primo quarto, è alta ed il cielo è sereno, sebbene vi sia foschia bassa. Casardi decide di proseguire sulla rotta temporanea 45°, anziché accostare verso nord come aveva deciso in precedenza, così da mantenere la luna nei settori poppieri e permettere ai cacciatorpediniere di scorta avanzata di tenere d'occhio il settore più pericoloso; per compensare l'allungamento del percorso e giungere comunque all'alba nel raggio operativo dei caccia della Regia Aeronautica, nonché per aumentare la possibilità di manovra, fa incrementare la velocità a 25 nodi. Vi sono due allarmi a seguito di presunti avvistamenti da parte di Usodimare e Bande Nere, ed ogni volta le navi accostano per imitazione di manovra, ma senza aprire il fuoco.
4 giugno 1941
All'1.15, dato che la luna più bassa mette in maggior risalto le sagome delle unità italiane, Casardi ordina di accostare per rotta 70°, in modo da lasciarsi la luna di poppa; tramontata la luna all'1.53, viene assunta rotta nord. La formazione giungerà in porto senza problemi.
Sullo sbarramento «T» capiterà, il 19 dicembre 1941, la Forza K britannica: l'incrociatore leggero Neptune ed il cacciatorpediniere Kandahar affonderanno sulle mine, mentre gli incrociatori leggeri Aurora e Penelope resteranno danneggiati, il primo gravemente.
Giugno 1941
Il capitano di vascello Muffone viene rilevato al comando del Da Recco e della XVI Squadriglia dal parigrado Stanislao Esposito, 42 anni, da Avellino. (Altra fonte data l'assunzione del comando da parte del capitano di vascello Esposito al 26 maggio 1941).
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Il capitano di vascello Stanislao Esposito (da www.movm.it) |
Estate 1941
Dislocato a Palermo per svolgere attività di scorta ai convogli per la Libia. Nei mesi successivi scorterà convogli e navi isolate, salverà naufraghi, darà caccia a sommergibili, effettuerà crociere protettive ed uscite in appoggio ad aerei e navi impegnate nella posa di mine, ed abbatterà diversi aerei nemici.
22 giugno 1941
Da Recco, Pessagno e Usodimare (la XVI Squadriglia) forniscono protezione antiaerea ed antisommergibili alle corazzate Littorio e Duilio, impegnate in un'esercitazione di tiro notturno (con la Duilio che funge da bersaglio) nel Golfo di Taranto.
26 giugno 1941
Il Da Recco alpa da Taranto alle 17.20, insieme a Da Mosto, Da Verrazzano, Pessagno, Pigafetta, Duca d'Aosta (nave di bandiera dell'ammiraglio Casardi) ed Attendolo, per la posa della seconda spezzata («S 2») dello sbarramento minato offensivo «S» nel canale di Sicilia. A posare le mine saranno Pigafetta, Pessagno e gli incrociatori, mentre gli altri cacciatorpediniere li scorteranno.
27 giugno 1941
Vicino ad Augusta Pessagno e Pigafetta vengono distaccati per recarsi a Trapani, dove imbarcheranno le loro mine, mentre il Da Recco e le altre navi entrano ad Augusta alle sei del mattino. Alle 10.17 viene dato l'allarme aereo, essendo stati avvistati velivoli nemici dalle stazioni di vedetta meridionali della piazzaforte di Augusta, quindi Casardi, per non rischiare che le navi siano bombardate in porto con il pericolosissimo carico di mine a bordo, fa partire la formazione con un'ora di anticipo.
28 giugno 1941
Alle 5.10 Pessagno e Pigafetta, provenienti da Trapani, si ricongiungono con il resto della formazione.
Alle 6.54 le navi iniziano la posa delle mine, che concludono alle 7.32; tutto si svolge regolarmente, salvo per lo scoppio prematuro di sei mine. Gli ordigni vengono posati su quattro file parallele (da sinistra a destra, quella posata dal Pigafetta, quella del Pessagno, quella del Duca d'Aosta e quella dell'Attendolo); le mine antidraganti sono regolate per una profondità di tre metri, con intervalli di 120 metri tra un ordigno e l'altro. Le mine sono sfalsate tra le file.
Terminata la posa, Pessagno e Pigafetta vengono nuovamente inviati a Trapani, mentre le altre navi proseguono per Augusta, dove arrivano a mezzanotte.
6 luglio 1941
Il Da Recco salpa da Augusta alle 13.30 insieme a Da Mosto e Da Verrazzano, scortando l'Attendolo ed il Duca d'Aosta. Stavolta l'operazione, ancora una volta al comando dell'ammiraglio Casardi sul Duca d'Aosta, consiste nella posa della terza tratta («S 3», con le spezzate «S 31» e «S 32» per un totale di 292 mine e 444 boe esplosive) dello sbarramento «S» nel Canale di Sicilia. A sud dello stretto di Messina, essendo stata constatata la presenza di un sommergibile, le navi procedono a zig zag, e dalle 15.45 alle 16.33 portano la velocità a 25 nodi.
7 luglio 1941
Alla formazione si uniscono dapprima, alle 5.23, Pessagno e Pigafetta partiti da Trapani, e poco dopo anche la IV Divisione (Bande Nere e Di Giussano scortati da Maestrale, Grecale, Libeccio e Scirocco), partita da Palermo al comando dell'ammiraglio Guido Porzio Giovanola per partecipare alla posa.
Data la scarsa visibilità, l'ammiraglio Casardi tiene i cacciatorpediniere in posizione di scorta ravvicinata anche di notte, e fa zigzagare nelle zone dove più probabile è l'incontro con sommergibili avversari.
Alle 5.37 l'Attendolo catapulta un idrovolante da ricognizione, che poco dopo precipita in mare; gli avieri vengono recuperati dal Da Verrazzano.
Alle 7 le navi (le mine saranno posate dagli incrociatori nonché da Pessagno e Pigafetta) iniziano a manovrare per assumere rotta e formazione di posa (Duca d'Aosta, Attendolo, Bande Nere e Di Giussano, in linea di rilevamento 47°, con Pigafetta all'appoggio del Bande Nere e Pessagno all'appoggio del Di Giussano; durante tale manovra un aereo della ricognizione marittima avvista una mina, che segnala con una fumata verde: uno dei cacciatorpediniere della X Squadriglia viene quindi distaccato per distruggerla), ed alle 7.45 iniziano a posare le mine, terminando alle 8.57. Il Pessagno posa, insieme al Di Giussano (prima il Pessagno e poi l'incrociatore), la linea “V”, la più a destra delle quattro. L'operazione di posa, effettuata alla velocità di 10 nodi, avviene con manovre più complesse del solito, poiché sulla terza e quarta linea devono posare le torpedini prima i cacciatorpediniere e poi gli incrociatori, senza soluzione di continuità nel ritmo e nell'equidistanza; le navi danno comunque prova di buon addestramento ed affiatamento in tali operazioni di precisione, sovente effettuate con pochi elementi per la determinazione della posizione, oltre che in zone pericolose per possibili attacchi nemici.
La VII Divisione dirige poi per Taranto, mentre la IV Divisione verrà lasciata libera di raggiungere Palermo alle 15.11.
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(da www.meludo.it) |
22 luglio 1941
L'ammiraglio Iachino, comandante della Squadra Navale, dispone con una circolare che il Da Recco venga verniciato interamente in grigio scuro, a scopo sperimentale, al pari dei cacciatorpediniere Vivaldi e Libeccio, dopo che alcune esperienze con il cacciatorpediniere Aviere, verniciato in questa tonalità il mese precedente, sembrano aver messo in evidenza dei vantaggi rispetto al grigio cenerino chiaro utilizzato solitamente dalle navi della Regia Marina. Successivi studi più approfonditi mostreranno però che la nuova colorazione non presenta particolari vantaggi.
1-2 agosto 1941
Da Recco, Pessagno, Pigafetta, Da Mosto e Da Verrazzano salpano da Trapani e vengono inviati in appoggio ad una squadriglia di torpediniere mandata ad effettuare rastrellamento notturno nell'ipotesi del passaggio di un convoglio britannico nel Canale di Sicilia, a seguito dell'avvistamento di una forza navale (due corazzate, una portaerei, due incrociatori ed otto cacciatorpediniere) uscita da Gibilterra e diretta verso est. L'allarme rientrerà il 4 agosto, con il ritorno della squadra britannica a Gibilterra.
8 agosto 1941
Il marinaio cannoniere Mario Mamone, 24 anni, da Palermo, rimane ucciso da una scheggia di bomba a bordo del Da Recco, durante un attacco aereo. Verrà decorato alla memoria con la Croce di Guerra al Valor Militare, con motivazione: "Imbarcato su C.T., mentre accorreva, durante una incursione aerea nemica, al suo posto di combattimento, veniva mortalmente colpito da una scheggia di bomba e cadeva nell'adempimento del dovere".
15 agosto 1941
Il Da Recco ed il resto della XVI Squadriglia Cacciatorpediniere (composta ora soltanto da Da Recco, Pessagno ed Usodimare, essendo il Tarigo andato perduto) passano al Gruppo Cacciatorpediniere di Scorta.
19
agosto 1941
Alle due
di notte il Da Recco,
insieme al Vivaldi (caposcorta,
contrammiraglio Amedeo Nomis di Pollone) ed
ai cacciatorpediniere Alfredo
Oriani e Vincenzo
Gioberti, salpa da Napoli
diretto a Tripoli per scortarvi un convoglio veloce composto dai
trasporti truppe Esperia, Marco
Polo (capoconvoglio,
contrammiraglio Francesco Canzonieri), Neptunia ed Oceania.
Il convoglio deve seguire la rotta che passa a ponente di Malta,
passando per il Canale di Sicilia, Pantelleria e le Kerkennah.
Alle
13.30 si unisce alla scorta la vecchia torpediniera Giuseppe
Dezza, proveniente da
Trapani, ed alle 14.50 (al largo delle Egadi, poco a nord di
Marettimo), sempre quale rinforzo, anche i
cacciatorpediniere Maestrale, Grecale e Scirocco.
Vi
è inoltre una scorta aerea, presente continuamente durante le ore
diurne fino alle 21 (sia nel Tirreno che nel Canale di Sicilia),
consistente in bombardieri S.M. 79 e caccia FIAT CR. 42 nonché, nel
tardo pomeriggio del 19, idrovolanti CANT Z. 506 (ed in precedenza
anche CANT Z. 501) in funzione antisommergibili.
Il convoglio
procede a zig zag, seguendo la rotta che passa a ponente di Malta,
passando per il Canale di Sicilia, Pantelleria e le Kerkennah.
Nel
tardo pomeriggio il convoglio, che si trova a nord di Pantelleria,
incappa in uno sbarramento di sommergibili britannici, venendo
attaccato pressoché contemporaneamente dall'Urge (tenente
di vascello Edward Philip Tomkinson) e dall'Unbeaten (capitano
di corvetta Edward Arthur Woodward). Quest'ultimo avvista il
convoglio alle 18.18 (inizialmente i soli fumaioli, a 8700 metri di
distanza per 325°; le navi intere alle 18.22, quando la distanza è
scesa a 7315 metri) in posizione 37°02' N e 12°00' E, circa 15
miglia a nord di Pantelleria, ed alle 18.31 lancia tre siluri (un
quarto non parte per un'avaria) contro Esperia
e Marco Polo
da 5945 metri; le armi passano tutte molto a proravia del convoglio,
senza colpire nulla, ed un CANT Z. 501 della 196a Squadriglia
avvista le scie e lancia due bombe contro l'Unbeaten,
che tuttavia è già sceso in profondità dopo il lancio proprio per
via della nutrita scorta aerea.
L'Urge, invece, avvista il convoglio (avente rotta 180°) alle 18.26, nel punto 37°04' N e 11°51' E (una quindicina di miglia a nord-nord-ovest di Pantelleria), a 6400-7315 metri di distanza su rilevamento 30°, e manovra per attaccare, ma alle 18.32 la sua manovra d'attacco viene interrotta da un'accidentale perdita di assetto, e dal contemporaneo avvicinamento ad alta velocità di un grosso cacciatorpediniere, avvisato da un aereo che ha avvistato il sommergibile alle 18.15. Tra le 18.36 e le 19.25 Gioberti e Vivaldi bombardano l'Urge con bombe di profondità, senza riuscire a danneggiarlo, ma costringendolo a ritirarsi verso nordovest ed a rinunciare all'attacco. Prima di questi attacchi, alle 17.20 (a nord di Pantelleria), il Marco Polo ha già evitato due siluri con la manovra, dopo la diramazione del segnale «Scie di siluri a sinistra».
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Una foto scattata dal Da Recco durante una missione di scorta a trasporti truppe: sono riconoscibili Esperia e Marco Polo (foto Massimo Messina, via www.meludo.it) |
20
agosto 1941
All'una di
notte Maestrale e Grecale lasciano
il convoglio per tornare a Trapani, mentre alle 8.30 – quando il
convoglio imbocca la rotta di sicurezza numero 3 (rotta vera 138°) –
si aggregano alla scorta la torpediniera Partenope (con
funzioni di pilotaggio) e due MAS inviati da Tripoli; il convoglio è
inoltre preceduto da un gruppo di dragamine, che già da diverse ore
stanno passando a setaccio quel tratto di mare. Le navi procedono a
17 nodi di velocità, zigzagando fin dall'alba (tranne la Partenope);
pur essendo già sulla rotta di sicurezza, il caposcorta ha preferito
mantenere la formazione di navigazione in mare aperto e lo
zigzagamento, quale ulteriore precauzione contro i molti sommergibili
che si sapeva infestare le acque antistanti le coste della Libia. In
prossimità del punto «A» di atterraggio a Tripoli, l'Oriani lancia
sei bombe di profondità a scopo intimidatorio.
Il convoglio
procede su quattro colonne, due di mercantili e due di navi scorta:
da sinistra, una prima colonna formata da Vivaldi (a
proravia) e Gioberti (a
poppavia), con un MAS sul lato esterno; più a dritta, la colonna
formata da Marco
Polo (a proravia)
ed Esperia (a
poppavia); a dritta di queste, la Neptunia seguita
dall'Oceania (al
traverso a dritta dell'Esperia);
poi un altro MAS (a proravia sinistra della Neptunia)
e, sul lato esterno a dritta, una colonna formata da Da
Recco (a
proravia), Oriani (al
centro) e Scirocco (a
poppavia). La Partenope procede
in testa al convoglio, mentre la Dezza lo
chiude in coda, a poppavia di Esperia ed Oceania.
Il tempo è buono, il mare è calmo.
Fin dall'alba del 20 torna
sul cielo del convoglio la scorta aerea, costituita da due caccia e
da due idrovolanti CANT Z. 501 per scorta antisommergibili.
Tra
le 6.36 e le 7.25 il sommergibile britannico Unique (tenente
di vascello Anthony Richard Hezlet) avvista la Partenope ed
i MAS diretti incontro al convoglio e tre dei dragamine (che passano
a circa un miglio di distanza del sommergibile, più vicini alla
costa): ciò gli permette di dedurre la posizione del canale dragato,
e di posizionarsi vicino al suo imbocco per attendere il previsto
arrivo del convoglio, di cui è stato preavvisato. Alle 9.56 il
sommergibile avvista nel punto 33°03' N e 13°03' E (15 miglia a
nord di Pantelleria), a otto miglia di distanza su rilevamento 305°,
quattro transatlantici in avvicinamento con rotta 155°; alle 10.10
la distanza si è ridotta a 5945 metri, e Hezlet inizia a distinguere
alcune unità della scorta, tra cui un cacciatorpediniere classe
Navigatori ed una torpediniera “classe Partenope”.
Alle 10.19, dopo aver superato lo schermo della scorta,
l'Unique lancia
una salva di quattro siluri da appena 600 metri di distanza, contro
l'Esperia,
per poi scendere subito a 27 metri ed iniziare a ritirarsi verso
nord.
Alle 10.20 l'Esperia viene
colpito in rapida successione da tre siluri (uno a prua, uno al
centro ed uno a poppa), ed inizia rapidamente a sbandare sulla
sinistra.
Il resto del convoglio accosta immediatamente sulla
dritta, come prescritto dalle norme, poi il Marco
Polo segnala alle
altre navi di seguirlo e dirige a tutta forza verso il vicino porto,
preceduto dalla Partenope e
seguito dagli altri trasporti (arriveranno tutti indenni a Tripoli,
alle 12.30).
Pochi minuti dopo il siluramento, i velivoli della
scorta aerea – più precisamente, un idrovolante CANT Z. 501 della
145a Squadriglia
pilotato dal guardiamarina
De Solem –
sganciano alcune bombe contro l'Unique,
circa un chilometro al traverso a sinistra dell'Esperia;
a questo punto il caposcorta Nomis di Pollone, acclarato che la nave
è stata silurata da un sommergibile (prima vi era incertezza, sulle
altre unità, se le esplosioni fossero dovute a siluri oppure a
mine), ordina al Gioberti ed
ai MAS di dare la caccia al sommergibile ed
a Oriani, Dezza e Scirocco di
provvedere al salvataggio dei naufraghi, cui inoltre partecipa con il
suo stesso Vivaldi.
Il Da Recco
riceve inizialmente dal caposcorta l'ordine di accompagnare i
trasporti nella rotta di allontanamento, ma viene poi richiamato
affinché si unisca al Gioberti nella
caccia antisommergibili.
In soli dieci minuti l'Esperia affonda
nel punto 33°03' N e 13°03' E, ad undici miglia per 318° (cioè a
nordovest) dal faro di Tripoli, tra il caos totale dovuto al panico
che ha invaso le truppe imbarcate.
Per un'ora e
mezza Vivaldi, Oriani,
Scirocco e Dezza recuperano
dal mare centinaia di naufraghi; a mezzogiorno sopraggiungono tre
rimorchiatori ed alcuni motovelieri di Marina Tripoli, e dato che le
navi della scorta hanno già recuperato la maggior parte dei
superstiti, ed è pericoloso che si trattenessero ancora in zona
insidiata dai sommergibili con centinaia di naufraghi a bordo, Nomis
di Pollone ordina ad Oriani e Scirocco di
raggiungere Tripoli, e lascia sul posto i rimorchiatori e motovelieri
di Marina Tripoli per completare l'opera di salvataggio, sotto la
protezione della Dezza.
Grazie
all'operato delle unità soccorritrici, ben 1139 dei 1182 uomini
imbarcati sull'Esperia (oltre
il 96 %) vengono tratti in salvo, nonostante la rapidità e caoticità
dell'affondamento.
L'Unique conta quindici esplosioni di bombe di profondità tra le 10.37 e le 11.37, ma nessuna esplode vicina. Tornato a quota periscopica alle 12.30, avvista soltanto un idrovolante ed un motoveliero, pertanto torna in profondità per ricaricare i tubi,
Il
resto del convoglio entra a Tripoli alle 12.30.
21
agosto 1941
Il Da
Recco lascia Tripoli
alle 17 (o 19) insieme a Vivaldi (caposcorta), Oriani,
Gioberti
e Scirocco
(quest'ultimo lascerà il convoglio a Palermo), per scortare a
Napoli Marco
Polo, Neptunia ed Oceania
che rientrano in Italia dopo aver rapidamente scaricato truppe e
rifornimenti.
Durante la notte le navi vengono violentemente
attaccate da aerei, ma le unità della scorta vanificano l'attacco
emettendo cortine fumogene e dirottando la formazione.
23
agosto 1941
Il
convoglio giunge a Napoli alle 7 (per una fonte, i cacciatorpediniere
lo avrebbero però lasciato a Palermo).
Nel suo rapporto, relativamente all'attacco aereo notturno, l'ammiraglio Nomis di Pollone proporrà che per meglio difendersi da simili attacchi la scorta emetta cortine nebbiogene non appena si accende il primo bengala od anche a scopo preventivo, a crepuscolo avanzato, prima ancora che appaia traccia di aerei nemici; che essa navighi con ampi zig zag per impedire agli aerei nemici di determinare la rotta dei piroscafi e per coprire con la nebbia artificiale un'area più vasta; che – laddove le circostanze lo consentano – venga compiuta una considerevole deviazione temporanea dalla rotta, di almeno 45°; che si eviti il tiro di sbarramento e che sia la scorta che i mercantili aprano il fuoco soltanto se gli aerei sono stati avvistati con certezza (altrimenti, il tiro delle navi potrebbe agevolare gli attaccanti nella loro individuazione); che i mercantili non cambino rotta, velocità e formazione, onde non allontanarsi dall'area protetta dalle cortine nebbiogene, manovrando soltanto per evitare i siluri, se osservano dei lanci.
Alcune ore dopo l'arrivo del convoglio, Da Recco, Vivaldi e Malocello salpano da Napoli per unirsi alla scorta delle corazzate Littorio e Vittorio Veneto, salpate da Taranto alle 16 del giorno precedente per intercettazione di forze navali britanniche. È in corso l'operazione britannica «Mincemeat», consistente nell'uscita da Gibilterra di parte della Forza H (la portaerei Ark Royal, la corazzata Nelson, l'incrociatore leggero Hermione e cinque cacciatorpediniere, al comando dell'ammiraglio James Somerville) con lo scopo di bombardare gli stabilimenti industriali ed i boschi di sughero nella Sardegna settentrionale (con gli aerei dell'Ark Royal), posare mine al largo di Livorno (con il posamine veloce Manxman) e dissuadere, con tale dimostrazione di forza, la Spagna dall'entrare in guerra a fianco dell'Asse. I veri obiettivi dell'azione britannica non sono comunque noti a Supermarina, che pensa soprattutto ad un nuovo tentativo britannico di inviare a Malta un convoglio di rifornimenti. Oltre all'uscita in mare delle forze da battaglia, l'alto comando della Regia Marina ha anche dislocato otto sommergibili ed altrettanti MAS in agguato nel Canale di Sicilia ed a nord delle coste algerine.
Alle 17.52 Da Recco, Vivaldi e Malocello si uniscono al largo di Capo Carbonara al gruppo «Littorio» (corazzate Littorio e Vittorio Veneto della IX Divisione e cacciatorpediniere Aviere e Camicia Nera della XI Squadriglia e Granatiere, Bersagliere, Fuciliere ed Alpino della XIII Squadriglia).
Il Vivaldi ha a bordo un gruppo di crittografi di Supermarina, imbarcati a Napoli, che subito dopo il ricongiungimento con la IX Divisione provvede a trasbordare sulla Littorio, la quale a questo scopo si mette alla cappa insieme ai cacciatorpediniere della XIII Squadriglia.
Le navi italiane assumono una rotta che le conduca al centro del Tirreno; durante la notte la formazione deve tenere una velocità di 16-18 nodi, il massimo che la Vittorio Veneto possa sviluppare, a causa di problemi alle macchine della corazzata.
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Un’altra immagine del Da Recco durante una missione di scorta (da www.meludo.it) |
24 agosto 1941
Alle cinque del mattino, risolto il problema, la Vittorio Veneto può tornare a procedere a tutta forza, e con essa il resto della squadra. All'alba si uniscono alla formazione anche i cacciatorpediniere Pigafetta e Da Verrazzano, salpati da Trapani, nonché la III Divisione (incrociatori pesanti Trento, Trieste, Bolzano e Gorizia) e la XII Squadriglia Cacciatorpediniere (Lanciere, Ascari, Corazziere e Carabiniere), partite da Messina alle 9.50, ed i cacciatorpediniere Maestrale e Scirocco, inviati da Palermo.
Tra le 6.30 e le 6.40 Littorio, Vittorio Veneto e Trieste catapultano i loro idrovolanti da ricognizione, che tuttavia non riescono a trovare nulla; alle 11.15 è il Bolzano a catapultare il suo ricognitore, ma con risultati non migliori.
La formazione italiana, al comando dell'ammiraglio di squadra Angelo Iachino, ha l'ordine di trovarsi per le otto del 24 trenta miglia a sud di Capo Carbonara, dato che la Forza H è stata avvistata da un ricognitore alle 9.10 del 23, circa 90 miglia a sud di Maiorca (il ricognitore ne ha stimato la composizione in una corazzata, una portaerei, un incrociatore e quattro cacciatorpediniere, con rotta 270° e velocità 14 nodi), ed alle 19.18 di quel giorno dei rilevamenti radiogoniometrici hanno collocato la Forza H 145 miglia ad ovest di Capo Teulada.
Intorno alle cinque del mattino del 24, dieci Fairey Swordfish dell'Ark Royal attaccano la zona di Coghinas e Tempio Pausania con bombe e spezzoni incendiari, causando però pochissimi danni (una casa distrutta ed un soldato ucciso) nonostante la zona sia ricca di boschi di sughero, mentre alle 7.45 la squadra italiana viene avvistata a sud della Sardegna da un ricognitore britannico, proprio mentre anche la Forza H viena a sua volta localizzata 30 miglia ad est di Minorca, con rotta 105° e velocità 20 nodi.
Sulla base di tale avvistamento, Supermarina (che ha intercettato il segnale di scoperta del ricognitore nemico, informando subito l'ammiraglio Iachino), ritenendo improbabile che le forze italiane possano incontrare quelle britanniche entro il 24, a meno di non uscire dal raggio di copertura della caccia aerea, ordina a Iachino di tenersi ad est del meridiano 8° (salvo, per l'appunto, riuscire ad incontrare la Forza H di giorno ed entro la zona protetta dalla caccia italiana) e di rientrare nel Tirreno nel pomeriggio e di trascorrervi la notte, dopo aver appoggiato la ricognizione che l'VIII Divisione è stata mandata a svolgere nelle acque di Capo Serrat e dell'isola di La Galite; ordina poi alla III ed alla IX Divisione di trovarsi alle dieci del mattino del 25 agosto a 28 miglia per 150° da Capo Carbonara (cioè a sud-sud-est di tale Capo), per ripetere la manovra del 24. Alle 17.20 (o 17.22) le forze britanniche vengono avvistate da un altro ricognitore trenta miglia a sudest di Maiorca, il che conferma che un incontro per il 24 non sarebbe possibile, mentre sarebbe probabile il giorno seguente. La Forza H, infatti, si è trattenuta nelle acque delle Baleari per distogliere l'attenzione della ricognizione italiana dalla missione del Manxman. Non visto, il posamine penetra infatti in Mar Ligure e procede a posare quattro campi minati tra Vada e Livorno, anche se le mine verranno ben presto scoperte e neutralizzate dalla Marina italiana. Alle 13 del 24 l'ammiraglio Somerville, informato dal sommergibile Upholder (che ha infruttuosamente attaccato l'VIII Divisione) della presenza in mare di forze navali italiane a sud della Sardegna, ha deciso di dirigere verso sudest per attaccarle con gli aerei dell'Ark Royal; ma il ricognitore lanciato dalla portaerei non riesce a trovarle, e quando alle 17 circa un bimotore Martin Baltimore decollato da Malta avvista le navi di Iachino trenta miglia a sud della Sardegna, Somerville conclude che è troppo tardi per tentare un attacco aerosilurante.
Durante la notte, in mancanza di nuovi aggiornamenti sul(l'inesistente) convoglio britannico, Supermarina annulla la puntata offensiva dell'VIII Divisione e le ordina di rientrare a Palermo. Intanto il gruppo al comando dell'ammiraglio Iachino, come da ordini, è tornato in Tirreno.
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(da www.meludo.it) |
25 agosto 1941
In mattinata, dato che la ricognizione aerea (che si spinge fino al 3° meridiano) non trova traccia della Forza H, ed il traffico radio britannico sta tornando ai ritmi usuali, Supermarina decide di far rientrare alle basi le proprie forze navali; alle 13.35 (o 13.36), di conseguenza, l'ammiraglio Iachino riceve ordine di rientrare a Napoli con la IX Divisione, e di rimandare la III Divisione a Messina.
La sera del 25 si viene a sapere che all'alba la Forza H è stata avvistata ormai già in acque spagnole, tra Sagunto e Valencia, prima con rotta nord e poi diretta verso sud, accompagnata da numerosi velivoli. Più tardi è stata vista a sud di Capo Sant'Antonio e si sono sentite molte cannonate, probabilmente dovute ad esercitazioni di tiro.
Si è infatti trattata di una “crociera dimostrativa” condotta dalla Forza H lungo le coste spagnole, allo scopo di dissuadere il dittatore spagnolo Francisco Franco dall'entrare in guerra a fianco dell'Asse. Le navi di Somerville rientreranno a Gibilterra nel pomeriggio del 26.
1° settembre 1941
Il Da Recco (caposcorta, capitano di vascello Stanislao Esposito) lascia Napoli per Tripoli alle 22 (per altra fonte alle 24) scortando, insieme ai cacciatorpediniere Dardo, Folgore e Strale, un convoglio composto dalle motonavi Andrea Gritti, Vettor Pisani, Rialto, Sebastiano Venier e Francesco Barbaro. Il convoglio attraversa lo Stretto di Messina ed imbocca la rotta di levante, per tenersi il più possibile al di fuori del raggio d'azione degli aerosiluranti di Malta.
2 settembre 1941
Durante la notte sul 2 settembre, in Tirreno, il convoglio, informato della probabile presenza di un sommergibile nemico, devia dalla rotta, manovra che lo farà passare nello stretto di Messina con tre ore di ritardo. Passato lo stretto, il convoglio si divide in due colonne, con Rialto e Pisani a dritta, Gritti e Barbaro a sinistra, Venier più a poppavia, tra le due colonne, e la scorta tutt'intorno (Da Recco in testa, Freccia e Strale a dritta, Folgore e Dardo a sinistra). La deviazione compiuta in precedenza fa però sì che il convoglio si trovi in acque pericolose – nel raggio d'azione degli aerei britannici di base a Malta – in acque notturne (senza cioè poter fruire della scorta aerea italiana, che vi è solo di giorno), contrariamente alle previsioni iniziali. Al calare della notte, come al solito, la scorta aerea se ne va.
3 settembre 1941
Non appena in franchia dello stretto di Messina, il convoglio assume rotta 116° (mettendo la prua sulla Morea), cioè verso est, per uscire dal cerchio di raggio 160 miglia con centro su Malta (che corrisponde al raggio d'azione dei suoi aerei, che possono colpire nella zona dello stretto e fino a sud di Capo Spartivento, ma non più ad est) prima di assumere rotta sud, onde superare rapidamente il tratto più pericoloso del viaggio. Il ritardo accumulato nello stretto di Messina fa sì che il convoglio si trovi nella zona pericolosa (entro il raggio d'azione degli aerei di Malta) nelle ore notturne, quando non è disponibile la scorta aerea.
Alle 00.25-00.30, 26 miglia a sud/sudest (per 140°) di Capo Spartivento (nel punto 37°33' N e 16°26' E), cioè mentre ancora si trova – per poche miglia – entro il raggio d'azione degli aerei di Malta, il convoglio viene attaccato da nove aerosiluranti Fairey Swordfish dell'830th Squadron F.A.A. decollati da Malta.
Gli aerei, provenienti dal lato sinistro, nonostante la reazione delle artiglierie contraeree delle navi (il Folgore abbatte un aerosilurante), colpiscono Gritti e Barbaro con un siluro ciascuna. La prima, incendiata, esplode dopo pochi minuti uccidendo tutti i 349 uomini a bordo tranne due, mentre la Barbaro viene immobilizzata ma rimane a galla. Il Dardo fornisce assistenza alla Barbaro, avvicinandosi all'1.05 ed imbarcandone il personale di passaggio (9 ufficiali e 294 sottufficiali e soldati del Regio Esercito) tra l'1.40 e le 7 (l'operazione viene interrotta per alcune ore, dalle 3.30 alle 5.15, per via del pericoloso stato del mare), dopo di che viene teso un cavo di rimorchio tra le due navi. In questo frangente sopraggiunge lo Strale, che comunica col Dardo, vi trasborda del personale e poi si allontana a tutta forza verso sudest, ricongiungendosi al resto del convoglio. Il Dardo, rimorchiando la Barbaro, con la scorta dei cacciatorpediniere Ascari e Lanciere appositamente inviati (e successivamente rilevato, nel rimorchio, dai rimorchiatori Titano e Porto Recanati), riuscirà a portarla a Messina, giungendovi alle 18.30 dello stesso giorno.
Il resto del convoglio (Da Recco, Folgore, Strale, Rialto, Pisani, Venier) prosegue. Alle 13.45 il sommergibile britannico Otus (tenente di vascello Richard Molyneux Favell) avvista verso nord due aerei che girano in cerchio, evidentemente sulla verticale di un convoglio: è il convoglio di cui fa parte il Da Recco; il sommergibile s'immerge ed apre i cappelli dei tubi, ed alle 14.12 rileva rumore di macchine a proravia dritta. Alle 14.15 l'Otus avvista il convoglio, di cui apprezza correttamente la composizione come tre mercantili in due colonne, scortati da tre cacciatorpediniere, ed inizia una manovra d'attacco con obiettivo la nave di testa della colonna di dritta (la Rialto), ritenuta erroneamente essere una motonave tipo RAMB. Giunto a 1830 metri di distanza, in posizione 35°40' N e 18°07' E (circa 175 miglia ad est della Valletta) il sommergibile lancia quattro siluri alle 14.30; dopo un minuto e mezzo avverte due colpi sordi a grande distanza. Sceso in profondità subito dopo il lancio, l'Otus viene sottoposto a caccia fino alle 15, con il lancio di 16 bombe di profondità, che non gli arrecano danni.
4 settembre 1941
Il Da Recco ed il resto del convoglio arrivano a Tripoli alle 18.30.
5 settembre 1941
Da Recco (caposcorta, capitano di vascello Stanislao Esposito), Freccia, Folgore e Strale, partono da Tripoli alle 14 per scortare un convoglio formato dal piroscafo Ernesto, dalla nave cisterna Poza Rica e dalla motonave Col di Lana, dirette a Napoli.
6 settembre 1941
Alle 23.55 iniziano attacchi di aerosiluranti britannici. I cacciatorpediniere iniziano manovre evasive e distendono cortine nebbiogene per nascondere i mercantili; Col di Lana e Poza Rica riescono ad evitare i siluri, ma non così l'Ernesto, che viene colpito a prua, una ventina di miglia a nord di Pantelleria. Lo Strale (capitano di corvetta Giuseppe Angelotti) lo raggiunge subito e gli fornisce assistenza, tentando di prenderlo a rimorchio; a causa del tempo fortemente avverso e della forte inclinazione del piroscafo, tali ripetuti tentativi dello Strale falliscono, ed il cacciatorpediniere deve passare il cavo ai rimorchiatori Costante, Marsigli e Montecristo, frattanto inviati da Trapani. Lo Strale rimane con essi per scortarli, mentre il resto del convoglio prosegue (Strale, Ernesto e la torpediniera Circe, unitasi ad essi alle undici del 7 settembre, riusciranno e raggiungere Trapani all'1.30 dell'8).
8 settembre 1941
Da Recco, Freccia, Folgore, Poza Rica e Col di Lana arrivano a Napoli alle quattro (o cinque) del mattino.
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Un'immagine scattata dal Da Recco durante un attacco di aerosiluranti ad un convoglio (foto scattata dal capo segnalatore di seconda classe Massimo Messina, via Giuseppe Messina e it.wikipedia.org) |
16 settembre 1941
Il Da Recco (caposcorta, capitano di vascello Stanislao Esposito) salpa da Taranto alle 20.20, insieme ai cacciatorpediniere Pessagno, Da Noli, Usodimare, Alfredo Oriani e Vincenzo Gioberti, per scortare a Tripoli un convoglio veloce formato dalle motonavi Vulcania, Neptunia ed Oceania, cariche di truppe italiane e tedesche.
Sulla scorta della dolorosa esperienza dell'affondamento dell'Andrea Gritti, il convoglio non segue subito la rotta diretta per Tripoli, mantenendosi invece molto più ad est, in modo da tenersi completamente al di fuori del raggio operativo degli aerosiluranti di base a Malta: deve passare ad est di Malta ed accostare per Tripoli solo quando sarà giunto nei pressi della costa libica, arrivando così a Tripoli con provenienza quasi da est. Inizialmente la navigazione del convoglio si svolge approssimativamente lungo la tangente al cerchio avente centro Malta e raggio 160 miglia; poi, dopo l'accostata, le navi imboccheranno un corridoio stretto tra il predetto cerchio di raggio 160 miglia, a nord, ed i campi minati, a sud.
E proprio nel tratto finale di questo “corridoio”, dove il percorso è obbligato, sono stati inviati in agguato, a seguito di decrittazioni di “ULTRA” su orari e rotte del convoglio, quattro sommergibili britannici: l'Unbeaten (100 miglia ad est di Tripoli), l'Upholder (10 miglia a nordovest dell'Unbeaten) e l'Upright (20 miglia a nordovest dell'Unbeaten), a formare uno sbarramento perpendicolare alla presunta rotta dei convogli diretti da Tripoli e provenienti da est; e l'Ursula, 30 miglia ad est di Tripoli, all'imbocco della rotta di sicurezza.
17 settembre 1941
In mattinata il convoglio viene localizzato da un ricognitore britannico, avvistato a sua volta dall'Usodimare, che alle otto del mattino informa il Da Recco di aver avvistato un aereo sospetto su rilevamento 150°. Alle 16.52 l'Usodimare comunica al Da Recco di aver avvistato un sommergibile su rilevamento 140°, a 7000 metri di distanza; mentre il convoglio accosta a dritta, Pessagno ed Usodimare, che sono in posizione di scorta laterale a sinistra, escono dalla formazione e danno la caccia al sommergibile, mentre il comandante Esposito ordina a Da Noli e Gioberti di lanciare bombe di profondità a scopo intimidatorio, per il caso che vi fosse in zona un secondo sommergibile. Dopo pochi minuti Esposito fa riprendere al convoglio la rotta della direttrice di marcia, per poi ordinare rotta 180° in modo da eludere eventuali agguati tesi da altri sommergibili sulla rotta seguita. Alle 17.20 Pessagno e Usodimare rientrano in formazione dopo aver dato la caccia al sommergibile; probabilmente si è trattato di un falso allarme, non risultando che vi fossero sommergibili britannici nella zona attraversata in quel momento.
Alle 19.15 il comandante Esposito ordina di assumere rotta 255° per giungere al punto di atterraggio "B" delle rotte di sicurezza, tra Homs e Tripoli; la serata è molto scura, e quando le navi accostano è già buio. Alle 21.05 il Pessagno segnala al Da Recco che una delle sue vedette ritiene di aver avvistato un bengala del tipo utilizzato dai britannici, spentosi immediatamente.
Il convoglio procede con le motonavi disposte in formazione a triangolo (Oceania a dritta, Vulcania a sinistra, Neptunia in coda tra le due), con i cacciatorpediniere tutt'intorno; il Da Recco, in qualità di caposcorta, procede in testa alla formazione.
In previsione dell'arrivo del convoglio, Marilibia ha ordinato una ricerca idrofonica da parte di una sezione di MAS nei pressi del punto "B" nella notte tra il 17 ed il 18 settembre, l'invio della torpediniera Perseo incontro al convoglio per rinforzo alla scorta e pilotaggio, l'approntamento delle torpediniere Circe e Centauro (che dovranno essere pronte a muovere dalle quattro del 18), un'accurata perlustrazione nel pomeriggio del 17 della zona che il convoglio dovrà percorrere durante la notte e la mattina del 18 da parte di un idrovolante CANT Z. 501, e la scorta aerea del convoglio a partire dall'alba del 18, con l'impiego di due CANT Z. 501, due caccia FIAT CR. 42 e due bombardieri tedeschi Junkers Ju 87.
Il Da Recco pitturato in grigio scuro nella tarda estate del 1941 (Coll. A. Molinari, via Bollettino d’Archivio dell’USMM, anno VII, dicembre 1993). Altra fonte data l’immagine al 1936 (Coll. Luigi Accorsi, via www.associazione-venus.it)
18 settembre 1941
Alle 3.30 sorge la luna all'ultimo quarto, a poppavia sinistra del convoglio. Alcuni minuti prima, alle 3.07, l'Unbeaten (il più a sud dei tre sommergibili dislocati a cavallo della rotta) ha avvistato al limite della visibilità le navi italiane dirette verso Tripoli; essendo troppo lontano per lanciare i siluri con concrete possibilità di successo, il battello britannico comunica l'avvistamento per radio ai tre “colleghi” in agguato nelle vicinanze, che ricevono tutti il messaggio. Anche Supermarina intercetta e decifra il messaggio dell'Unbeaten, che ritrasmette il più rapidamente possibile al Da Recco, per avvisarlo: ma è già troppo tardi, il comandante Esposito riceverà il messaggio alle 4.15, contemporaneamente all'esplosione dei siluri.
L'Upholder, infatti, non appena ricevuto il messaggio si è mosso verso il convoglio, l'ha avvistato alle 3.50 a 6 miglia per 045° (la visibilità del convoglio è aumentata da un problema della Vulcania, dal cui fumaiolo esce un vistoso pennacchio di scintille) ed ha lanciato una salva di siluri, alle 4.06 (orario britannico), da 4570 metri di distanza.
Alle 4.15 (orario italiano), due delle armi vanno a segno: in posizione 33°02' N e 14°42' E (fonti italiane; 33°01' N e 14°49' E per l'Upholder), la Neptunia e l'Oceania vengono colpite, una dopo l'altra. Il disastro coglie il convoglio del tutto di sorpresa: nessuno, né sulle motonavi né sui cacciatorpediniere, ha avvistato il sommergibile o le scie dei siluri, neanche all'ultimo momento.
Subito dopo il siluramento, il comandante Esposito del Da Recco ordina alla Vulcania, unica rimasta indenne, di proseguire per Tripoli con la scorta dell'Usodimare (capitano di fregata Alfonso Galleani) (le due navi giungeranno indenni a destinazione, dopo aver eluso un attacco da parte dell'Ursula); a Da Noli e Gioberti di prestare assistenza alla Neptunia e di recuperare gli uomini che da essa si stanno gettando in mare; al Pessagno di prestare assistenza all'Oceania. Inoltre informa Marina Tripoli di quanto accaduto e chiede l'invio di rimorchiatori e copertura aerea dall'alba, dopo di che, assicuratosi che la Vulcania stia effettivamente proseguendo verso Tripoli, compie con il Da Recco una perlustrazione delle acque in cui ritiene si trovi il sommergibile attaccante.
La Neptunia è, delle due motonavi colpite, quella in condizioni più critiche: il siluro è esploso a poppavia del traverso, probabilmente sotto la chiglia, provocando immediatamente l'immobilizzazione della nave e la cessazione dell'erogazione dell'energia elettrica. La motonave inizia subito ad appopparsi ed a sbandare sulla sinistra (inizialmente 9°-10°); come ordinato dal caposcorta, Da Noli e Gioberti si portano sulla sua dritta (cioè sopravento), fermandosi a 50-100 metri dalla motonave, mentre questa cala tutte le scialuppe, cariche di soldati. Molti altri soldati si sono gettati direttamente in acqua; quelli rimasti a bordo dopo la partenza delle scialuppe ricevono istruzione di calarsi in mare lungo corde e biscagline, mentre vengono gettati in mare tutti gli zatterini e centinaia di galleggianti di fortuna, quali tavole e pannelli da boccaporto. Da Noli e Gioberti recuperano incessantemente i naufraghi dalle imbarcazioni e dal mare; tutti indossano i giubbotti salvagente e sono privi delle scarpe. L'appoppamento e lo sbandamento della Neptunia si aggravano sempre più; alle 6.20, fallito ogni tentativo di contenere gli allagamenti, viene dato l'ordine di abbandono generale della nave (a bordo sono rimasti pochi soldati e parte dell'equipaggio). Alle 6.50 la Neptunia s'inabissa con la poppa in verticale. Da Noli e Gioberti continuano a recuperare i naufraghi; successivamente si unisce a loro anche il Da Recco.
Maggiori speranze si nutrono per l'Oceania, che – colpita più a poppa della Neptunia – non ha subito danni tali da comprometterne la galleggiabilità: le paratie reggono, gli allagamenti vengono contenuti, e la maggior parte dell'apparato propulsivo (eccetto la motrice interna di sinistra, che dev'essere fermata per probabile perdita dell'elica) rimane in funzione; l'iniziale lieve appoppamento assunto dalla nave non sembra aumentare. Prima di tentare un rimorchio, comunque, il suo comandante decide di trasferire le truppe sul Pessagno, temendo che un tentativo di rimorchio potrebbe causare il cedimento delle paratie (una volta sbarcate le truppe, tenterebbe di raggiungere la costa con le due eliche esterne, ricorrendo al rimorchio solo se necessario); quest'ultimo riferisce al Da Recco che l'Oceania appare in assetto normale, solo lievemente appoppata, che sta mettendo a mare le imbarcazioni e che il suo comandante gli ha detto di essere stato colpito ad un'elica e chiesto assistenza per il recupero delle truppe imbarcate, rinunciando per il momento alla sua proposta di prenderlo a rimorchio. Il Pessagno chiede assistenza al Da Recco perché teme che con l'arrivare della luce del giorno il sommergibile attaccante potrebbe tentare un nuovo attacco in immersione, chiedendo dunque l'invio di un'altra silurante e di un rimorchiatore.
Alle 7.30 il Pessagno comunica al Da Recco di non avere più spazio dove mettere i naufraghi: ha a bordo oltre 2000 superstiti dell'Oceania; chiede al Da Recco di effettuare lancio preventivo di bombe di profondità attorno alla motonave danneggiata, ma il comandante Esposito decide di sostituire con la sua nave il sovraccarico Pessagno nell'opera di soccorso ed assistenza all'Oceania. Poco dopo, pertanto, il Da Recco raggiunge il Pessagno e gli comunica che sarà lui a continuare il recupero dei naufraghi, ordinandogli di raggiungere Tripoli (distante una novantina di miglia), sbarcare i naufraghi e tornare sul posto il prima possibile.
Nel mentre, i britannici sono ancora all'opera: alle cinque del mattino l'Upright, avvistate le due motonavi immobilizzate, ha dato inizio ad una manovra d'attacco per dare loro il colpo di grazia, salvo rinunciare alle 5.25 per la presenza dei cacciatorpediniere.
Per giunta l'Upholder, sceso in profondità dopo l'attacco (alle 4.08) per ripiegare verso sud, alle 4.45 è riemerso ed ha osservato la scena delle due motonavi colpite con i cacciatorpediniere impegnati nei soccorsi, e Wanklyn ha deciso di spostarsi verso est per ricaricare i siluri ed attaccare nuovamente all'alba: alle 5.30 l'Upholder torna ad immergersi e si avvicina alle navi italiane, ricaricando i tubi di lancio, ed alle 6.30 avvista l'Oceania ed il Pessagno, decidendo di attaccare la prima.
Alle 6.52 anche l'Unbeaten (capitano di corvetta Edward Arthur Woodward) avvista l'Oceania danneggiata e si avvicina per attaccare, ma viene dissuaso dalla presenza dei cacciatorpediniere.
Alle 7.56 l'Upholder sta per lanciare i siluri, quando un cacciatorpediniere classe Navigatori (probabilmente il Da Recco o il Pessagno) viene avvistato a poca distanza, inducendo Wanklyn a scendere in profondità (il cacciatorpediniere passa sulla verticale del sommergibile quando questo si trova a 13 metri di profondità, ma non lancia nessuna bomba); alle 7.59 l'Upholder scende a 21 metri e manovra per portarsi di nuovo in posizione di attacco, passando sotto l'Oceania.
Alle 8.51, in posizione 32°58' N e 14°50' E, l'Upholder lancia un'altra salva di siluri contro l'Oceania, da 1830 metri di distanza: due delle armi vanno a segno colpendo la motonave al centro e facendo esplodere anche le bombole di aria compressa per l'avviamento dei motori, il che determina il rapido affondamento di poppa del transatlantico. Per fortuna, le truppe sono già state tutte sbarcate ed a bordo della motonave rimanevano soltanto la parte di equipaggio civile necessaria alle manovre ed il personale militare addetto all'armamento contraereo, che dopo il secondo siluramento butta in acqua tutti gli zatterini rimasti a bordo e poi si getta in mare per ordine del comandante. Alle 8.57 l'Oceania affonda con la prua rivolta verso il cielo, una settantina di miglia ad est/nordest di Tripoli.
Al Da Recco – giunto sottobordo all'Oceania per rilevare il Pessagno nei soccorsi soltanto pochi minuti prima del siluramento – non resta che recuperare i naufraghi, partendo da quelli imbarcati sulle zattere più grandi (messe in mare prima del secondo siluramento) e poi passando agli zatterini. Marina Libia, intanto, ha disposto l'invio sul posto di numerose unità per partecipare alle operazioni di salvataggio: le torpediniere Circe, Perseo, Centauro e Clio (sopraggiunte verso le otto), la nave soccorso Laurana, i rimorchiatori Pronta e Salvatore Primo (questi ultimi fatti partire prima del secondo siluramento dell'Oceania, per prenderla a rimorchio) e due gruppi di dragamine. All'alba viene anche inviato un idrovolante di soccorso della Croce Rossa, che tuttavia perde un'ala ed affonda nel tentativo di ammarare nel mare agitato; il Da Noli ne recupera l'equipaggio. Sempre all'alba giungono alcuni aerei da caccia e da ricognizione marittima, per proteggere le navi impegnate nei soccorsi.
La perdita dei due transatlantici è un duro colpo, ma grazie all'alacre opera di soccorso delle siluranti risulta possibile salvare la larghissima maggioranza del personale imbarcato: 5434 uomini su 5818, cioè il 93 %. Il Da Recco ha salvato ben 1302 uomini; il Pessagno ha tratto in salvo 2083 naufraghi, il Da Noli 682, il Gioberti 582, l'Usodimare (tornato sul posto dopo aver accompagnato a Tripoli la Vulcania) 485, la Clio 163, la Perseo 131, la Circe 3 ed altri tre gli idrovolanti di soccorso.
Molti gli episodi di altruismo e di vero e proprio eroismo: diversi marinai dei cacciatorpediniere si sono tuffati in acqua per sostenere e soccorrere i soldati che versavano in condizioni peggiori; una volta a bordo, i naufraghi sono stati rifocillati e rivestiti con indumenti offerti spontaneamente da ufficiali e marinai delle unità soccorritrici. I cacciatorpediniere più carichi di naufraghi, quali Da Recco e Pessagno, hanno messo a repentaglio la loro stessa stabilità per salvare quante più vite possibile: commenta in merito la storia ufficiale dell'USMM: “sembra realmente impossibile che cacciatorpediniere tipo “Navigatori” abbiano potuto prendere a bordo oltre 2.000 naufraghi come fece il Pessagno, o anche solo 1300 come il Da Recco. Questi caccia avevano in guerra un dislocamento sulle 3.000 tonnellate ed un equipaggio di 250 uomini circa, e l'averli sovraccaricati in tal modo deve aver destato serie preoccupazioni nei comandi e negli ufficiali del genio navale (…) ma il desiderio di salvare il maggior numero possibile di naufraghi fece passare in seconda linea anche le preoccupazioni”. Il capitano di vascello Aldo Cocchia, che avrebbe assunto il comando del Da Recco nel 1942, avrebbe così descritto la situazione a bordo per come gli era stata raccontata da chi c'era: “…sul Da Recco non c'era più posto neppure per uno spillo. Soldati erano in tutti i locali, comprese le caldaie, ammassati come sardelle; ve n'erano sul ponte di comando, sugli alberi, perfino aggrappati ai fumaioli (…) Inutile dire che i naufraghi furono tutti rivestiti di indumenti asciutti forniti da stato maggiore ed equipaggio che diedero fondo a tutte le loro risorse pur di poter dare qualcosa di caldo ad ognuno degli oltre 2.000 [sic] uomini recuperati a bordo. Da tenere presente che l'equipaggio del Da Recco era composto di circa 230 persone in tutto!”. Il comandante Esposito del Da Recco sarà decorato, per la sua opera di soccorso, con la Medaglia di Bronzo al Valor Militare ("Comandante di cacciatorpediniere di scorta a convoglio, silurati due piroscafi da sommergibile nemico, permaneva lungamente con la sua unità nelle acque insidiate per portare tempestivo ed efficace soccorso ai naufraghi. Dall'alba al tramonto manovrava continuamente con arditezza e perizia marinaresca e, prodigandosi instancabilmente, con elevato senso di abnegazione nell'opera di salvataggio, contribuiva a recuperare gran parte dei naufraghi").
Da Recco, Da Noli, Gioberti, Circe, Centauro e Perseo entrano a Tripoli con i naufraghi alle 21.
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L’Oceania appena colpita dai siluri, fotografata dal Da Recco (da www.meludo.it) |
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L’abbandono dell’Oceania (da www.meludo.it) |
L’affondamento (da www.meludo.it)
Recupero di naufraghi dell’Oceania (nell’ultima foto in basso, soldati tedeschi) da parte del Da Recco (da www.meludo.it)
19 settembre 1941
Da Recco, Pessagno, Da Noli ed Usodimare lasciano Tripoli alle 19.30 per scortare a Napoli la Vulcania, che rientra per la rotta di ponente.
20 settembre 1941
Vulcania e scorta vengono avvistate alle 10.15, in posizione 37°08' N e 11°02' E, dal sommergibile italiano Alagi (tenente di vascello Giulio Contreas), che essendo stato preavvisato del loro passaggio, rimane immerso a 20 metri di profondità. Uno dei cacciatorpediniere passa sulla sua verticale alle 10.22.
21 settembre 1941
Le navi arrivano a Napoli alle 2.45 dopo un viaggio di ritorno tranquillo.
26-29 settembre 1941
Il Da Recco, insieme al Pessagno ed al Folgore (aggregato alla XVI Squadriglia Cacciatorpediniere), salpa da Napoli unitamente alle navi da battaglia Littorio e Vittorio Veneto (IX Divisione) ed alla XIII Squadriglia Cacciatorpediniere (Granatiere, Bersagliere, Fuciliere, Vincenzo Gioberti) per raggiungere ed attaccare un convoglio britannico in navigazione da Gibilterra a Malta e scortato dalla Forza H nell'ambito dell'operazione "Halberd".
Il convoglio, denominato WS. 11X, è formato dalla cisterna militare Breconshire e dalle navi da carico Ajax, City of Lincoln, City of Calcutta, Clan MacDonald, Clan Ferguson, Rowallan Castle, Imperial Star e Dunedin Star, aventi a bordo un carico complessivo di 81.000 tonnellate di rifornimenti; la scorta diretta è costituita dagli incrociatori leggeri Edinburgh, Sheffield, Euryalus, Kenya ed Hermione (quest'ultimo distaccato per eseguire un brevissimo bombardamento di Pantelleria – della durata di cinque minuti – nella notte tra il 27 ed il 28 settembre) e dai cacciatorpediniere Cossack, Farndale, Foresight, Forester, Heythrop, Laforey, Lightning ed Oribi della Forza X, in aggiunta ai quali è uscita in mare da Gibilterra per proteggere la navigazione del convoglio la Forza H, con le corazzate Prince of Wales, Rodney e Nelson, la portaerei Ark Royal ed i cacciatorpediniere Duncan, Fury, Lance, Legion, Lively, Gurkha, Zulu, Isaac Sweers (olandese), Garland (polacco) e Piorun (polacco). La formazione è stata suddivisa dai britannici in vari sottogruppi, partiti in momenti diversi tra il 24 ed il 25 settembre: Nelson con Garland, Piorun ed Isaac Sweers alle 18.15 del 24; Rodney, Ark Royal ed Hermione con Duncan, Forester, Foresight, Gurkha, Zulu, Lance, Lively e Legion alle 23.30 del 24; la cisterna militare Brown Ranger (incaricata del rifornimento in mare dei cacciatorpediniere impegnati nell'operazione) scortata dalla corvetta Fleur de Lys all 20 del 24; altre unità entrano dall'Atlantico insieme al convoglio, che supera Punta Europa all'1.30 del 25. La navigazione del convoglio WS. 11X si svolgerà in contemporanea con quella di un altro convoglio (i mercantili scarichi Port Chalmers, City of Pretoria e Melbourne Star, scortati da una corvetta) da Malta a Gibilterra e con un'azione diversiva della Mediterranean Fleet nel Mediterraneo orientale.
Ben
sette sommergibili britannici (Upholder,
Upright,
Unbeaten,
Utmost,
Urge,
Ursula,
Trusty),
uno olandese (O
21) ed
uno polacco
(Sokol)
vengono schierati attorno alla rotta del convoglio, pronti ad
attaccare le navi italiane che dovessero tentarne
l'intercettazione.
Da parte italiana si ignora il vero obiettivo
dei britannici: la partenza della Forza H in più gruppi (solo alcuni
dei quali vengono avvistati dalla ricognizione aerea) e le rotte
seguite da questi fino alla riunione (che avviene il mattino del 27
settembre, cento miglia a sud di Cagliari) traggono in inganno i
comandi italiani, che ritengono erroneamente che lo scopo
dell'operazione sia un bombardamento navale contro obiettivi sulle
coste italiane (come attestato dal "Notiziario 73" di
Maristat Informazioni, del mattino del 25 settembre, secondo cui
“Scopo missione sarebbe
rappresaglia contro coste italiane”)
insieme al lancio di aerei per rimpinguare le squadriglie di Malta.
L'ordine per le forze italiane è quindi di riunirsi a nord della Sardegna in una posizione difensiva, e di non ingaggiare il nemico a meno di non essere in condizioni di netta superiorità (precisamente: radunarsi alle 12 del 27 50 miglia a sud di Capo Carbonara per intercettare il convoglio intorno alle 15, ad est di La Galite, e di attaccare solo se l'Aeronautica riuscirà a danneggiare almeno una delle corazzate che saranno presumibilmente presenti).
Oltre alla IX Divisione con la XIII e la XVI Squadriglia, escono in mare a contrasto di «Halberd» anche la III (Trento, Trieste, Gorizia) e l'VIII Divisione (Duca degli Abruzzi, Attendolo) rispettivamente da Messina e La Maddalena (dove l'VIII Divisione si è trasferita da Palermo il 24-25 settembre), accompagnate rispettivamente dalla XII (Lanciere, Carabiniere, Corazziere, Ascari) e dalla X Squadriglia Cacciatorpediniere (Maestrale, Grecale, Scirocco): gli incrociatori con le relative squadriglie di cacciatorpediniere dovranno formare un gruppo unico, mentre le corazzate con le loro squadriglie costituiranno l'altro gruppo. Il tutto sotto il comando dell'ammiraglio Angelo Iachino. (Secondo www.naval-history.net, il gruppo che comprende il Da Recco sarebbe uscito in mare già la tarda serata del 24 settembre, assumendo rotta verso sudovest per intercettare il gruppo della Rodney. Sembra probabile un errore).
Sempre per contrastare l'operazione britannica, Supermarina invia quattro sommergibili ad est delle Baleari, altri tre a sudovest della Sardegna, tre a sud/sudovest di Ibiza e cinque in Mar Ligure.
A mezzogiorno del 27 la III, la VIII e la IX Divisione, con le rispettive squadriglie di cacciatorpediniere, si riuniscono una cinquantina di miglia ad est di Capo Carbonara, per intercettare il convoglio, poi dirigono verso sud (o sudest) a 24 nodi per l'intercettazione, con gli incrociatori che precedono di 10 km le corazzate. Alla stessa ora, dato che la ricognizione ha avvistato una sola corazzata britannica ed una portaerei, e che la Regia Aeronautica sta per attaccare in massa (gli aerosiluranti italiani, al prezzo di sette velivoli abbattuti, riusciranno a silurare e danneggiare la Nelson, costringendola a ridurre la velocità a 18 nodi), la flotta italiana viene autorizzata ad ingaggiare battaglia (Iachino riceve libertà d'azione); alle 14 viene ordinato il posto di combattimento, e le corazzate sono schierate nella direzione di probabile avvicinamento del nemico.
Quando però il contatto appare imminente, in seguito a nuove segnalazioni dei ricognitori viene appreso che le forze britanniche ammontano in realtà a due corazzate (in realtà tre: Prince of Wales, Nelson e Rodney sono state distaccate insieme a sei cacciatorpediniere per attaccare la squadra italiana, anche se la Nelson deve successivamente essere sostituita dagli incrociatori Sheffield ed Edinburgh perché i danni causati dal siluramento le impediscono di tenere il passo delle altre navi), una portaerei e sei incrociatori, il che pone la squadra italiana in condizioni di inferiorità rispetto alla forza britannica, e per giunta la prima è sprovvista di copertura aerea (soltanto sei caccia, con autonomia dalle basi non superiore a 100 km), mentre le navi italiane sono tallonate da ricognitori maltesi fin dalle 13.07 (e più tardi, dalle 15.15 alle 17.50, da aerei dell'Ark Royal) ed esposte ad attacchi di aerosiluranti lanciati dalla portaerei. Alle 14.30, considerata la propria inferiorità numerica, la scarsa visibilità e la mancanza di copertura, la squadra italiana inverte la rotta per portarsi fuori dal raggio degli aerosiluranti nemici.
Alle 15.30 sopraggiungono tre caccia italiani FIAT CR. 42 assegnati alla scorta aerea, ma, per via della loro somiglianza agli aerosiluranti britannici (sono anch'essi biplani), vengono inizialmente scambiati per aerei inglesi ed il Fuciliere ne abbatte il capo pattuglia, mentre gli altri due si allontanano. Il pilota dell'aereo, fortunatamente, rimane illeso e riesce a paracadutarsi, venendo poi recuperato dal Granatiere.
Alle 17.18, avendo ricevuto comunicazioni secondo cui la squadra britannica avrebbe subito pesanti danni a causa degli attacchi aerei, la formazione italiana dirige nuovamente verso sud (prima stava procedendo verso nord), salvo invertire nuovamente la rotta alle 18.14, portandosi al centro del Mar Tirreno, come ordinato da Supermarina perché ormai non è più possibile intercettare il convoglio prima del tramonto.
Alle otto del mattino del 28 le navi italiane attraversano il canale di Sardegna e, come ordinato, raggiungono un punto 80 miglia ad est di Capo Carbonara, poi fanno rotta per ovest-sud-ovest ma infine, alle 14.00, dato che i ricognitori non trovano più alcuna nave nemica a sud e ad ovest della Sardegna (il convoglio è infatti passato) viene ordinato il rientro alle basi. La XVI Squadriglia (meno il Folgore, dirottato su Messina causa avaria) e la IX Divisione raggiungono Napoli.
Parimenti infruttuosi risulteranno gli agguati di sommergibili (uno dei quali, l'Adua, viene affondato con tutto l'equipaggio dai cacciatorpediniere Gurkha e Legion che aveva infruttuosamente attaccato) e MAS; unici risultati contro "Halberd" sono colti dalla Regia Aeronautica, che silura la corazzata Nelson ed affonda il piroscafo Imperial Star, oltre a danneggiare lievemente il cacciatorpediniere Zulu (che subisce danni causati da bombe cadute in mare a poca distanza).
Paradossalmente i britannici subiranno diversi danni e perdite a causa di incidenti ed episodi di “fuoco amico”: ben tre aerei dell'Ark Royal (tutti caccia Fairey Fulmar, due dell'807th Squadron ed uno dell'808th Squadron) vengono accidentalmente abbattuti dalle artiglierie antiaeree della Rodney e della Prince of Wales, mentre i mercantili City of Calcutta e Rowallan Castle rimangono danneggiati in una collisione.
Arrivato il convoglio a Malta, la Forza H rientra a Gibilterra tra il 30 settembre ed il 1° ottobre.
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(da www.meludo.it) |
12 ottobre 1941
Il Da Recco (caposcorta, capitano di vascello Stanislao Esposito) ed il cacciatorpediniere Sebenico salpano da Trapani per Tripoli alle 17, scortando i piroscafi Nirvo e Bainsizza ed il rimorchiatore d'altura tedesco Max Berendt. Il convoglio dovrà seguire la rotta che passa ad ovest di Malta.
13 ottobre 1941
Alle
2.50 il convoglio subisce un attacco aereo al largo di Pantelleria,
ma nessuna nave è colpita.
Dall'alba al tramonto il convoglio
gode di numerosa ed efficiente scorta aerea, con l'impiego di dieci
caccia FIAT CR. 42, quattro FIAT CR. 25, sei aerosiluranti Savoia
Marchetti S.M. 79 “Sparviero” e due C.A. 42 (?). In navigazione
nel Canale di Sicilia, poco lontano dal convoglio, si trova anche il
piroscafo Achille
Lauro,
in navigazione da Trapani a Tripoli con la scorta della torpediniera
Generale
Marcello Prestinari;
le scorte aeree dei due convogli finiscono col formare un tutt'uno,
che tiene lontani gli aerei britannici. Calato il buio, però, come
sempre la scorta aerea se ne va; non passa molto prima che velivoli
di Malta avvistino il convoglio e diano inizio ad una serie di
accaniti attacchi aerei.
Prima di sera il convoglio, per ordine di Supermarina, effettua un ampio dirottamento per evitare una zona in cui è stato avvistato un sommergibile; le accostate ordinate non sono eseguite da tutte le navi con sufficiente tempestività, e ciò, insieme alle difficoltà nelle comunicazioni notturne, fa sì che le due colonne in cui il convoglio si è disposto per la navigazione notturna si perdano di vista e diventino due gruppi separati, distanziati di 4-5 km: il primo formato da Da Recco e Nirvo (in posizione più avanzata), il secondo da Bainsizza, Berendt e Sebenico. La distanza tra i due gruppi impedisce alle unità che li compongono di supportarsi reciprocamente in caso di attacco, ed al caposcorta Esposito di seguire personalmente la navigazione delle unità dipendenti.
14 ottobre 1941
Non appena si accorge del frazionamento del convoglio, il comandante Esposito ordina al Sebenico di riavvicinarsi a lui insieme a Bainsizza e Berendt, comunicandogli anche la rotta da seguire, ma prima che la manovra abbia inizio, all'1.20 (o 1.45), si verifica un nuovo attacco aereo da parte sei aerosiluranti britannici Fairey Swordfish dell'830th Squadron della Fleet Air Arm, decollati da Malta.
Stavolta il Bainsizza viene colpito a prua da un aerosilurante, rimanendo immobilizzato con gravi danni nel punto 34°18' N e 12°16' E, ad una novantina di miglia da Tripoli e 65 miglia a nord di Zuara.
Il Da Recco, che trovandosi a diversi km di distanza non si è accorto dell'accaduto, ne viene informato soltanto dopo due ore; non potendo lasciare solo il Nirvo per tornare indietro a fornire assistenza, il comandante Esposito dà col radiosegnalatore al Sebenico gli ordini del caso e comunica a Roma e Tripoli la notizia del siluramento del Bainsizza.
Il Sebenico, il cui comandante è alla prima missione di scorta sulle rotte nordafricane, interviene tardivamente nel salvataggio del piroscafo danneggiato, mentre il Max Berendt prima di prenderlo a rimorchio si dedica al recupero dei molti soldati tedeschi gettatisi in mare; questo ritardo risulterà fatale, perché prima dell'arrivo dei mezzi di soccorso prontamente inviati da Tripoli (rimorchiatore Ciclope e torpediniera Polluce) il Bainsizza verrà colpito da un nuovo attacco aereo ed affonderà all'alba del 15 in posizione 34°15' N e 12°12' E, un centinaio di miglia a nord di Tripoli.
Il gruppo Da Recco-Nirvo viene successivamente raggiunto dalla torpediniera Generale Antonino Cascino, inviata da Tripoli in rinforzo alla scorta; le tre navi raggiungono Tripoli alle 12.30.
18 ottobre 1941
Da Recco e Sebenico, al pari del rimorchiatore Ciclope, vengono fatti uscire da Tripoli per andare in soccorso del piroscafo Beppe, silurato dal sommergibile britannico Ursula alle 9.10 in posizione 35°25' N e 11°39' E, a sud di Lampedusa e 140 miglia a nord di Tripoli (per altra fonte, 85 miglia ad ovest-nord-ovest di tale città), durante la navigazione in convoglio da Napoli a Tripoli. In attesa dell'arrivo delle unità inviate da Tripoli, il Beppe è assistito dal cacciatorpediniere Vincenzo Gioberti (capitano di fregata Vittorio Amedeo Prato) appositamente distaccato dal caposcorta.
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(da www.meludo.it) |
19 ottobre 1941
Alle quattro del mattino il Da Recco si congiunge con il Gioberti, che ha ordinato al Beppe di dare fondo presso la boa numero 3 delle Kerkennah per la notte ed ha poi passato a sua volta la notte incrociando a sud della boa numero 4. I due cacciatorpediniere dirigono in modo da trovarsi presso il Beppe poco dopo l'alba; avendo il Gioberti comunicato che la sua scorta d'acqua è appena sufficiente per raggiungere Tripoli, il Da Recco gli ordina di andare a Tripoli e rimane da solo con il Beppe fino all'arrivo del Ciclope e delle torpediniere Calliope e Cascino, anch'esse inviate da Tripoli.
Avvicinatosi al Beppe, il Da Recco gli ordina di salpare le ancore, annunciando che a breve arriverà un rimorchiatore; il piroscafo esegue, mantenendo le macchine indietro a tutta forza per evitare di essere spinto in secco dalla bassa marea.
Il Ciclope arriva sul posto alle dieci del mattino e prende il Beppe a rimorchio di poppa (onde evitare eccessiva pressione sulle paratie dei compartimenti danneggiati, che si trovano a prua); alle undici ha così inizio la difficile navigazione verso Tripoli, alla velocità di otto nodi, con la scorta del Da Recco. Alle 20 il Beppe rimette in moto, ma alle 21.30 si spezza un filo del cavo di rimorchio; informato il Ciclope, le due navi si fermano per far rientrare il cavo di alcuni metri ed escludere la parte interessata, per impedire che si rompa. Nel corso di questa manovra, tuttavia, il Ciclope va ad urtare la poppa del Beppe, mettendone fuori uso il timone; nondimeno, alle 22.30 è possibile riprendere la navigazione.
Alle 23.30 si verifica un nuovo intoppo: il cavo di rimorchio si strappa e si attorciglia attorno all'asse dell'elica del Beppe; si tenta allora il rimorchio di prua.
20 ottobre 1941
All'1.30 il nuovo cavo di rimorchio si strappa, pertanto si ritorna al rimorchio di poppa con due cavi, uno a dritta e l'altro a sinistra, in modo da poter correggere le accostate del Beppe. Alle tre di notte la navigazione riprende, adesso con il Beppe che ha le macchine ferme; alle sette, constatato che il cavo di rimorchio attorcigliato attorno all'asse non dà problemi, il piroscafo rimette in moto.
Alle 14.50 arriva il Max Berendt, che prende a sua volta a rimorchio il Beppe; allestito questo secondo rimorchio in aggiunta a quello del Ciclope, la navigazione riprende alle 16.
Scortato da Da Recco e Calliope, il Beppe raggiungerà infine Tripoli alle otto del 21.
20 (23?) ottobre 1941
Il Da Recco (caposcorta) riparte da Tripoli alle 17.30 insieme all'Usodimare ed al Sebenico, di scorta alla motonave Giulia ed alla nave cisterna Proserpina, dirette a Napoli. Successivamente l'Usodimare viene sostituito dal Folgore.
24 (?) ottobre 1941
Dato che il 21 ottobre la ricognizione aerea ha avvistato la neocostituita Forza K britannica – incrociatori leggeri Aurora e Penelope e cacciatorpediniere Lance e Lively – in arrivo a Malta (da dove questa formazione leggera opererà contro i convogli dell'Asse, come i comandi italiani hanno subito intuito), viene diramato un allarme navale e Supermarina dispone a scopo precauzionale la temporanea sospensione del traffico da e per la Libia, fermando o dirottando tutti i convogli in partenza per il Mediterraneo centrale o che già vi si trovano; il convoglio di cui fa parte il Da Recco riceve pertanto ordine di rientrare urgentemente, arrivando a Tripoli alle 13.
A causa dei successivi eventi (distruzione del convoglio «Duisburg» da parte della Forza K, il 9 novembre), che renderanno estremamente pericoloso percorrere la rotta per Tripoli, il convoglio finirà col trattenervisi per un mese: ne ripartirà soltanto il 24 novembre, giungendo a Napoli il 27.
9 novembre 1941
Il Da Recco, l'Usodimare ed il cacciatorpediniere Vincenzo Gioberti vengono fatti uscire da Trapani per partecipare alle operazioni di soccorso in seguito alla distruzione, la notte precedente, del convoglio «Duisburg» diretto in Libia ad opera della Forza K britannica, 135 miglia ad est di Siracusa. Sono state affondate ben nove navi: i mercantili italiani Maria, Rina Corrado, Conte di Misurata, Sagitta e Minatitlan, i tedeschi Duisburg e San Marco ed i cacciatorpediniere Fulmine e Libeccio, quest'ultimo silurato dal sommergibile britannico Upholder mentre era intento al recupero di naufraghi delle altre unità.
Oltre a Da Recco, Gioberti ed Usodimare, partecipano ai soccorsi anche le navi ospedale Arno (dirottata sul posto durante la navigazione da Bengasi all'Italia) e Virgilio (fatta appositamente uscire da Augusta) e le unità superstiti della scorta del convoglio: i cacciatorpediniere Maestrale, Euro, Oriani, Alpino, Bersagliere e Fuciliere. In tutto vengono tratti in salvo 764 naufraghi (401 dal Maestrale, 189 dall'Euro, 48 dall'Oriani, 35 dall'Alpino, 34 dalla Virgilio, 21 dall'Arno, 20 dal Fuciliere, undici dal Bersagliere); il Da Recco, come pure Gioberti ed Usodimare, non riesce però a trovarne neanche uno.
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(foto Massimo Messina, via www.meludo.it) |
21 novembre 1941
Il Da Recco (caposcorta, capitano di vascello Stanislao Esposito) e la torpediniera Enrico Cosenz (tenente di vascello Lelio Campanella) salpano da Napoli alle 5.30, scortando la motonave Monginevro e la motonave cisterna Iridio Mantovani (che formano il secondo scaglione del convoglio «C») dirette a Tripoli. Il convoglio fa parte di un'operazione di traffico volta ad inviare urgenti rifornimenti in Libia, dov'è iniziata da pochi giorni un'offensiva britannica (operazione «Crusader») e dopo che la distruzione del convoglio «Duisburg», avvenuta il 9 novembre ad opera della Forza K britannica, ha provocato la perdita di un ingente quantitativo di rifornimenti diretti in Africa Settentrionale.
Dopo qualche giorno di parziale stasi dovuto al disastro del 9 novembre, infatti, il capo di Stato Maggiore generale, maresciallo Ugo Cavallero, ha dato ordine il 13 novembre di far partire immediatamente per la Libia le motonavi già cariche e pronte alla partenza, con poderosa scorta di almeno due divisioni di incrociatori, con operazione da svolgersi al più presto, al fine di “sfruttare il vantaggio della sorpresa”.
Supermarina, d'accordo con Superareo, ha quindi subito provveduto a dare le disposizioni per l'invio a Tripoli delle sei motonavi già pronte a Napoli (Monginevro, Ankara, Sebastiano Venier, Vettor Pisani, Napoli ed Iridio Mantovani), lungo la rotta di levante, passando per lo Stretto di Messina e tenendosi poi al di fuori del raggio d'azione degli aerosiluranti di Malta (190 miglia).
L'operazione vede in mare altri due gruppi di due moderne motonavi ciascuno: il primo scaglione del convoglio «C», partito da Napoli alle 20 del 20 (motonavi Napoli e Vettor Pisani, cacciatorpediniere Turbine, torpediniera Perseo) ed il convoglio «Alfa», salpato da Napoli alle 19 del 20 (motonavi Ankara e Sebastiano Venier e cacciatorpediniere Maestrale, Alfredo Oriani e Vincenzo Gioberti). La III e VIII Divisione Navale dovranno dare loro protezione; dallo stretto di Messina in poi, dovranno navigare ad immediato contatto col convoglio «C», quasi incorporate in esso.
Al contempo, una motonave veloce (la Fabio Filzi) sarà inviata sempre a Tripoli ma sulla rotta di ponente (per il Canale di Sicilia), con la scorta di un paio di cacciatorpediniere (oltre che di aerei: sia sui due convogli che sulla Filzi la scorta aerea dovrà essere continua, nelle ore diurne, dal 20 al 23 novembre), per non dare nell'occhio. Contestualmente saranno inviati a Bengasi l'incrociatore leggero Luigi Cadorna in missione di trasporto di carburante (da Brindisi) e le motonavi Città di Palermo e Città di Tunisi cariche di truppe (da Taranto), e verranno fatte rientrare in Italia le navi rimaste bloccate a Tripoli dall'inizio di novembre. L'idea è che un tale numero di navi in movimento contemporaneamente, divise in più convogli sparsi su una vasta area, confonda e disorienti la ricognizione maltese; che i convogli finiscano col coprirsi a vicenda; che la presenza in mare della III e VIII Divisione scoraggi interventi da parte della Forza K britannica (autrice della distruzione del convoglio «Duisburg»), notevolmente inferiore per numero e potenza (incrociatori leggeri Aurora e Penelope e cacciatorpediniere Lance e Lively). L'Aeronautica, oltre alla scorta antiaerea ed antisommergibile dei convogli, effettuerà anche azioni di ricognizione e di bombardamento degli aeroporti di Malta. Alcuni sommergibili vengono disposti in agguato nelle acque circostanti l'isola.
Dopo vari rinvii dovuti al maltempo (che impedisce l'utilizzo degli aeroporti della Sicilia), l'operazione prende il via, ma fin da subito molte cose non vanno per il verso giusto. Il convoglio «Alfa» viene avvistato da un ricognitore britannico poco dopo la partenza; quando viene intercettato un messaggio radio britannico dal quale risulta che una forza navale britannica non è molto lontana, il convoglio viene dirottato ad Argostoli, ponendo così fine alla sua partecipazione nell'operazione.
I due scaglioni del convoglio «C», invece, si uniscono invece poco prima di imboccare lo stretto di Messina (poco dopo le 16 del 21), costituendo una formazione unica, sotto la direzione del Da Recco, procedendo a 14 nodi.
A protezione dell'operazione esce in mare da Napoli, alle 8.10 del 21, la VIII Divisione (incrociatori leggeri Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi, nave di bandiera del comandante superiore in mare, ammiraglio di divisione Giuseppe Lombardi, e Giuseppe Garibaldi; cacciatorpediniere Aviere, Geniere, Corazziere, Carabiniere e Camicia Nera) quale scorta indiretta, seguita alle 19.30 dello stesso giorno dalla III Divisione (incrociatori pesanti Trento, Trieste e Gorizia, quest'ultimo nave ammiraglia) per scorta strategica.
Poco dopo le 16, la VIII Divisione raggiunge il convoglio «C» e ne assume la scorta diretta; quasi contemporaneamente, però (mentre ancora la formazione è a nord della Sicilia), convoglio e scorta vengono avvistati da un ricognitore e da un sommergibile avversari, che segnalano a Malta la presenza di navi mercantili e navi da guerra italiane dirette verso lo stretto di Messina. Supermarina intercetta e decifra entrambi i segnali di scoperta; stante però la potente scorta di cui il convoglio gode, sia Supermarina che l'ammiraglio Lombardi decidono di proseguire, senza neanche modificare la rotta.
Alle 18 Da Recco e Cosenz lasciano la scorta, venendo sostituiti dai cacciatorpediniere Ugolino Vivaldi, Emanuele Pessagno ed Antonio Da Noli.
Attacchi aerei e subacquei britannici, tra la sera e la notte successiva, determineranno il fallimento dell'operazione, col grave danneggiamento degli incrociatori Trieste e Duca degli Abruzzi ed il rientro in porto dei mercantili.
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Una mitragliera contraerea del Da Recco (foto Massimo Messina, via www.meludo.it) |
12 dicembre 1941
Da Recco (caposcorta, capitano di vascello Stanislao Esposito) ed Usodimare lasciano Messina alle 10.20 (o 10.30) per scortare a Taranto le motonavi Fabio Filzi e Carlo Del Greco, cariche di carri armati (52 carri medi M13/40 per la 133a Divisione Corazzata "Littorio" del Regio Esercito e 43 tra Panzer II e Panzer III per il 5. Panzerregiment dell'Afrika Korps) e dirette in Libia nell'ambito dell'operazione di traffico «M. 41».
Dopo le gravi perdite subite dai convogli diretti in Libia nelle settimane precedenti, le forze italo-tedesche in Nordafrica si trovano in situazione di grave carenza di rifornimenti proprio mentre è in corso l'operazione «Crusader», ed urge rifornirle (particolarmente importanti per contrastare l'offensiva sono proprio i carri armati trasportati da Filzi e Del Greco); con la «M. 41», Supermarina intende inviare a Tripoli e Bengasi tutti i mercantili già carichi presenti nei porti dell'Italia meridionale, mobilitando per la loro protezione, diretta e indiretta, pressoché tutta la flotta in condizioni di efficienza (una parte delle navi maggiori navigherà insieme al convoglio, “incorporate” in esso, per difenderlo da attacchi notturni da parte di unità di superficie, mentre un'altra parte costituità un gruppo d'appoggio a distanza che interverrà in caso di attacco diurno). A inizio dicembre il Da Recco, insieme alla torpediniera Generale Achille Papa, ha scortato la Fabio Filzi da Napoli, dove la nave ha imbarcato il suo carico, a Messina.
In origine erano previsti tre convogli: l'«A», da Messina a Tripoli, formato da Filzi e Del Greco scortate da Da Recco ed Usodimare; l'«L», da Taranto per Tripoli, formato dalle motonavi Monginevro, Napoli e Vettor Pisani scortate dai cacciatorpediniere Freccia e Pessagno (avente a bordo l'ammiraglio Amedeo Nomis di Pollone) e dalla torpediniera Pegaso; e l'«N», da Navarino ed Argostoli per Bengasi, costituito dai piroscafi Iseo e Capo Orso scortati dai cacciatorpediniere Turbine e Strale, cui si devono aggiungere la motonave tedesca Ankara, il cacciatorpediniere Saetta e la torpediniera Procione provenienti da Argostoli.
Ogni convoglio deve fruire della protezione di una forza navale di sostegno, che di giorno si terrà in vista dei trasporti e di notte a in formazione con essi, incorporato. Ciascun convoglio avrebbe fruito della protezione di una forza navale di sostegno, che di giorno si sarebbe tenuta in vista dei trasporti e di notte a stretto contatto con essi. Il gruppo assegnato al convoglio «A» è costituito dalla corazzata Andrea Doria e dalla VII Divisione (ammiraglio di divisione Raffaele De Courten) con gli incrociatori leggeri Muzio Attendolo ed Emanuele Filiberto Duca d'Aosta (nave ammiraglia di De Courten). Quello assegnato al convoglio «L» è al comando dell'ammiraglio di squadra Carlo Bergamini e consiste nella corazzata Duilio (nave ammiraglia di Bergamini) e da un'eterogenea VIII Divisione, formata per l'occasione dagli incrociatori leggeri Giuseppe Garibaldi (con a bordo l'ammiraglio Giuseppe Lombardi, comandante dell'VIII Divisione) e Raimondo Montecuccoli e dall'incrociatore pesante Gorizia (avente a bordo l'ammiraglio di divisione Angelo Parona) più i cacciatorpediniere Maestrale e Gioberti della X Squadriglia, Oriani e Corazziere della XII e Carabiniere e Zeno della XV.
Infine, a tutela dell'intera operazione contro un'eventuale uscita in mare delle corazzate della Mediterranean Fleet, prende il mare la IX Divisione Navale (ammiraglio di squadra Angelo Iachino, comandante superiore in mare) con le moderne corazzate Littorio e Vittorio Veneto, scortate dalla XIII Squadriglia Cacciatorpediniere (Granatiere, Bersagliere, Fuciliere, Alpino). Queste navi si dovranno posizionare nel Mediterraneo centrale.
A completamento dello schieramento, un gruppo di sommergibili viene dislocato nel Mediterraneo centro-orientale con compiti esplorativi ed offensivi; è inoltre previsto un imponente intervento della Regia Aeronautica (comprensivo, tra l'altro, di ricognizioni su Alessandria e nel Mediterraneo orientale e centro-orientale).
L'ammiraglio Iachino ha emanato un ordine d'operazione che stabilisce che "a) Il gruppo Littorio ha funzioni di sostegno per il caso d'intervento di forze nemiche provenienti da levante. Se il gruppo nemico, dislocato ad Alessandria, sarà in porto sino al tramonto del giorno 13, non avrà possibilità di agire contro il convoglio estremo di levante [convoglio «N»] prima del tramonto del giorno 14, anche se prenderà il mare nelle prime ore della notte sul 14. Esso potrà però, continuando la marcia verso ponente, trovarsi, all'alba del giorno 15, in posizione favorevole per agire contro i nostri gruppi di scorta ed eventualmente anche contro il convoglio di ponente in caso di ritardi nell'itinerario. Pertanto, nel caso di avvistamenti di forze nemiche provenienti da levante nella giornata del 14, il convoglio di levante (n. 2) potrà ricevere ordini da Supermarina di rientrare a Navarino, scortato da AOSTA e Attendolo. Il Doria invece si riunirà al gruppo Littorio la stessa sera del 14, o, se ciò non è possibile, all'alba del giorno 15, in un punto a levante dei convogli 1 e 3, presumibilmente all'incirca nella zona compresa tra i paralleli 32°30'N e 32°50'N e i meridiani 16°06'E e 16°26'E. In questo modo le corazzate si verranno a trovare, la mattina del 15, circa 25 miglia a levante del convoglio diretto a Tripoli, e in posizione tale da proteggerlo sicuramente da attacchi del grosso nemico. Anche il Duilio riceverà ordine di riunirsi all'alba del 15 al gruppo Littorio il nostro gruppo corazzato dirigerà quindi verso il nemico per attaccarlo. La III e VIII Divisione resteranno con il convoglio di ponente. b) Nel caso d'intervento di forze leggere provenienti da Alessandria o da Malta, ciascuno dei tre gruppi di scorta può sostenere o respingere l'attacco nemico. La limitata distanza tra i gruppi ne consente l'azione coordinata in caso di necessità. Qualora il mattino del 15, fossero avvistate in mare le forze di Malta dirette verso sud, la III e VIII Divisione Dirigeranno per intercettarle, manovrando in modo da impedire a queste forze l'attacco al convoglio. In tal caso, il Duilio rimarrà fuori dal cerchio pericoloso di 190 miglia da Malta, in posizione di eventuale appoggio; il Doria si riunirà al più presto al Duilio".
Il primo problema consiste nel reperire tutte le navi da guerra necessarie per un'operazione tanto vasta: non è sufficiente concentrare a Taranto, Argostoli e Messina tutte le unità sottili presenti nei porti dell'Italia meridionale, e non basta neanche accelerare il completamento dei lavori in corso su alcuni cacciatorpediniere, per renderli pronti il prima possibile. La data prevista per l'inizio della «M. 41» è il 12 dicembre, ma quel giorno il numero di navi scorta disponibili è tanto ridotto, rispetto al necessario (anche per via del maltempo, che ha ritardato il trasferimento di varie siluranti nei porti di partenza dei convogli), che Supermarina decide di rimandare l'operazione di ventiquattr'ore. Anche così, le scorte risultano essere numericamente ridotte, eterogenee e poco affiatate, dato che è stato necessario accontentarsi di quello che c'era a disposizione.
Le decrittazioni di “ULTRA” sono stavolta tardive ed erronee: riportano la partenza del convoglio come prevista per il 14 dicembre, anziché il 13.
Secondo i piani originari, da Messina Filzi e Del Greco si sarebbero dovute dapprima trasferire ad Argostoli, per poi partire per Tripoli nella notte tra il 12 ed il 13 dicembre (per altra fonte, alle quattro del mattino del 14 dicembre), scortate da Da Recco ed Usodimare, andando ad aggregarsi durante la navigazione al convoglio «L» e raggiungendo Tripoli alle 16 del 15 dicembre. (Per altra fonte, dopo la partenza da Messina si sarebbero dovute trasferire ad Argostoli, da dove sarebbero poi proseguite per Bengasi, ma Supermarina variò il piano ed ordinò invece che andassero a Taranto, ritenuto il miglior porto in cui accentrare mercantili e navi scorta).
Prima che l'operazione prendesse avvio, tuttavia, i piani sono stati modificati, e si è deciso di sopprimere il convoglio «A» e trasferire le sue navi a Taranto per farle partire insieme al convoglio «L», del quale faranno parte fin da subito.
In seguito a questa decisione, Da Recco, Usodimare, Filzi e Del Greco sono stati fatti partire da Messina per trasferirsi a Taranto.
Durante l'attraversamento della zona di maggior pericolo di attacchi subacquei, a sud dello stretto di Messina, la scorta viene temporaneamente rinforzata (per alcune ore) dalla vecchia torpediniera Giuseppe Dezza, uscita da Messina. Superata la zona pericolosa, Del Greco e Filzi imboccano le abituali rotte del Mar Ionio, navigando a 16 nodi.
Intercettazioni radio rivelano che nel primo pomeriggio del 12 dicembre il convoglio è stato localizzato da velivoli nemici, ma gli ordini non vengono cambiati; d'altro canto, nel Golfo di Taranto è già in funzione un considerevole dispositivo antisommergibili (anche e soprattutto in vista della prevista partenza del convoglio «L» il giorno seguente): due MAS e due motopescherecci requisiti effettuano vigilanza antisommergibili ed ascolto idrofonico a sud di Messina, fino al meridiano di Spartivento, dalle 7 alle 16 del 12 dicembre, mentre idrovolanti CANT Z. 501 svolgono esplorazione aerea pendolare nella fascia a sud di Taranto, i MAS 440 e 438 e la motovedetta Marongiu svolgono rastrello antisom al largo di Punta Alice e Punta Stallitti ed il MAS 439 e la motovedetta Saba fanno lo stesso tra Gallipoli e Santa Maria di Leuca. Infine, quattro unità della vigilanza antiaerea formano una catena di vigilanza sulla congiungente Gallipoli-Crotone. Il convoglio di cui è caposcorta il Da Recco gode anche di scorta e vigilanza antisommergibili da parte di aerei dalla partenza fino al tramonto.
Per tutta la giornata del 12, il convoglio naviga senza inconvenienti. Le due motonavi procedono a 16 nodi in linea di fronte (Filzi a sinistra, Del Greco a dritta), con i due cacciatorpediniere che zigzagano in posizione di scorta laterale (Usodimare a dritta, Da Recco a sinistra).
Quando il convoglio raggiunge il punto di atterraggio su Taranto, il mare ed il vento sono quasi calmi, la luna è all'ultimo quarto.
Ma alcuni sommergibili britannici attendono in agguato nel Golfo di Taranto: in tre, Unbeaten, Utmost ed Upright, hanno formato uno sbarramento nel Golfo, anche se l'Unbeaten (che si trova all'estremità orientale dello sbarramento) ha dovuto lasciare la posizione assegnata a causa della caccia antisommergibili cui è stato sottoposto nella giornata del 13 dicembre.
Questi tre battelli hanno ricevuto il 9 dicembre l'ordine di formare uno sbarramento nel Golfo di Taranto a partire dal 12; altri due sommergibili della flottiglia di Malta, Unique ed Urge, sono stati invece inviati in agguato a sud dello stretto di Messina, per attaccare le corazzate della IX Divisione di cui i britannici si aspettano il trasferimento da Napoli a Taranto. Successivamente, avuta notizia della grande operazione di traffico italiana, il 12 dicembre i britannici hanno fatto partire per il Mar Ionio tutti gli altri sommergibili disponibili a Malta, ossia il P 31, il P 34, l'Upholder ed il polacco Sokol.
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Il complesso binato prodiero da 120 mm del Da Recco (foto del secondo capo radiotelegrafista Massimo Messina, via il figlio Giuseppe e it.wikipedia.org) |
13 dicembre 1941
Alle 00.50 il sommergibile britannico Utmost (capitano di corvetta Richard Douglas Cayley), il sommergibile più occidentale dello sbarramento, capta rumore di motori su rilevamento 135°, ed all'1.10 avvista il convoglio italiano in posizione 39°47' N e 17°22' E, a sei miglia di distanza su rilevamento 130°, con rotta 330° e velocità 15 nodi. Cayley valuta la stazza dei mercantili in 5000 tsl.
All'1.32 l'Utmost lancia quattro siluri, due contro ciascuna motonave (la più vicina dista 4570 metri), poi s'immerge e ripiega verso sud all'1.33. Nonostante Cayley ritenga di aver sentito un siluro andare a segno all'1.39, seguito a partire dall'1.50 da caccia con il lancio di una quarantina di bombe di profondità nel corso della notte, nessuna nave viene colpita.
Proprio all'1.50, intanto, un secondo sommergibile britannico, l'Upright (tenente di vascello John Somerton Wraith), che si trova fermo in ascolto ASDIC in posizione 40°08' N e 17°00' E (o 40°10' N e 17°60' E; è il sommergibile centrale dello sbarramento) e cioè proprio sulla rotta del convoglio, rileva all'ASDIC il rumore di navi in avvicinamento da sud con rotta stimata 000°. Il sommergibile vira pertanto in quella direzione, assumendo rotta 80°; poco dopo, la luna sorge su rilevamento 100° rispetto all'Upright. All'1.55, sentendo il rumore di motori diventare più forte e spostarsi verso sinistra, Wraith ordina di virare nuovamente per portarsi in una posizione d'attacco favorevole; alle 2.03 avvista le navi italiane (una grossa nave seguita da una più piccola, e poco dopo un'altra grossa nave che segue le prime due) ed accosta ancora una volta, assumendo rotta 110°, così che la luna si trovi a 10° a dritta del mercantile di testa al momento del lancio. Alle 2.04 l'operatore dell'ASDIC, rilevando 130 rivoluzioni, stima che i bersagli abbiano una velocità di 14 nodi, ed alle 2.07 uno dei cacciatorpediniere, dopo aver superato il mercantile di testa, passa “davanti” alla luna, permettendo a Wraith, che col suo battello si trova su rotta 70° e pronto al lancio, di stimare la distanza come compresa tra i 3660 e 4570 metri.
Intanto, il convoglio italiano è giunto 15 miglia a sud del faro di Capo San Vito (in posizione 47°10' N e 17°06' E per le fonti italiane, 40°09' N e 17°04' E per l'Upright): a questo punto, poco prima che cominci la rotta di sicurezza per Taranto (che dista solo una decina di miglia), i cacciatorpediniere cessano lo zigzagamento; alle 2.10 del 13 dicembre il comandante Esposito del Da Recco ordina di disporsi in linea di fila. Filzi e Del Greco danno inizio alla manovra per passare dalla linea di fronte alla linea di fila, ma l'hanno appena cominciata – in questo modo, ad un attaccante posizionato sulla sinistra la Filzi, in posizione leggermente più avanzata, si “sovrappone” parzialmente alla Del Greco, facilitando un lancio che colpisca entrambe – quando l'Upright, che si trova in affioramento, lancia contro di esse una salva di quattro siluri, da 4115 metri di distanza, cogliendo proprio il momento in cui si “sovrappongono” ed al contempo si stagliano contro la luna. Come punto di mira, Wraith ha scelto la prua della nave di testa, la Filzi. Particolarità di questo attacco è che pur essendo in contatto visivo con i bersagli, il sommergibile abbia effettuato i calcoli e condotto l'attacco interamente sulla base dei dati forniti dall'ASDIC.
Sono le 2.12; nessuno vede l'Upright, né le scie dei siluri, provenienti da sinistra.
Tutte le armi fanno centro: due raggiungono la Filzi, e subito dopo le altre due colpiscono la Del Greco.
Mentre la Filzi si capovolge ed affonda in soli sette minuti, portando con sé 208 uomini, la Del Greco – colpita alle 2.15 – regge inizialmente al danno, e rimane a galla.
Mentre l'Usodimare passa subito al contrattacco, con un sistematico ma infruttuoso lancio di bombe di profondità (l'Upright, che si è immerso subito dopo il lancio, conta 48 esplosioni tra le 2.12 e le 7.37), il Da Recco tenta di prendere la Del Greco a rimorchio, nel tentativo di salvarla; ma dopo poco più di un'ora, anche questa motonave cola a picco, quindici miglia a sud di Capo San Vito. (Per altra fonte, prima di tentare il rimorchio anche il Da Recco avrebbe virato verso la direzione di provenienza dell'attacco, scaricando in mare bombe di profondità anche a scopo precauzionale).
Al Da Recco non rimane allora che provvedere al recupero dei naufraghi, opera nella quale viene assistito da una torpediniera, due dragamine, tre rimorchiatori e quattro unità d'uso locale, tutte inviate da Taranto. In tutto vengono recuperati dal mare 331 superstiti italiani e 101 tedeschi, e le salme di 133 uomini (99 italiani e 34 tedeschi). Il personale imbarcato sulla Del Greco viene salvato quasi per intero (289 uomini su 298, compresi i comandanti civile e militare), mentre della Filzi i sopravvissuti sono solo 143 su 351.
L'Upright, che ha rilevato i rumori prodotti da Filzi e Del Greco in affondamento alle 2.28 ed alle 3.41, riesce a sottrarsi alla morsa dei cacciatorpediniere dopo sette ore di attacchi con bombe di profondità, pur dovendo rimanere immerso tutto il giorno seguente, fino alle 19.
Raggiunta Taranto e sbarcati i naufraghi, il Da Recco ne riparte alle 15 insieme ai gemelli Vivaldi (nave ammiraglia del gruppo di scorta diretta), Da Noli, Malocello e Zeno facendo parte del gruppo di scorta diretta per i convogli della «M. 41». (Per altra fonte il Da Recco, insieme a Vivaldi e Da Noli della XIV Squadriglia Cacciatorpediniere ed Aviere, Geniere e Camicia Nera della XI Squadriglia, avrebbe fatto parte del gruppo dell'ammiraglio De Courten, incaricato della protezione del convoglio «N»; per un'altra ancora si sarebbero uniti al gruppo «Littorio»).
Nel tardo pomeriggio, quando i convogli sono già in mare (l'«L» con relativo gruppo di scorta è partito da Taranto alle 17, l'«N» da Argostoli alle 18), la ricognizione aerea comunica a Supermarina che una consistente forza britannica, comprensiva di corazzate ed incrociatori (in realtà sono solo quattro incrociatori leggeri: i ricognitori hanno grossolanamente sovrastimato la composizione e potenza della forza avvistata), si trova tra Tobruk e Marsa Matruh, diretta verso ovest. Questa erronea impressione è rafforzata dalle intercettazioni del Servizio Intercettazioni Estere dello Stato Maggiore della Marina, che ha intercettato e radiogoniometrato dei messaggi da cui sembra che oltre alla Forza K di Malta siano uscite in mare da Alessandria anche le corazzate della Mediterranean Fleet: si tratta in realtà di uno stratagemma di Cunningham, che ha fatto uscire da Haifa il posamine veloce Abdiel e gli ha fatto effettuare delle trasmissioni radio fasulle volte proprio a trarre in inganno i comandi italiani che le intercettassero sull'uscita in mare della Mediterranean Fleet.
Anche così, la somma delle forze italiane in mare è complessivamente superiore rispetto alle presunte forze britanniche, ma si trova divisa in gruppi tra loro distanziati e vincolati a convogli lenti e poco manovrieri; per questo, alle ore 20 Supermarina decide di sospendere l'operazione, ed i convogli ricevono ordine di rientrare nei porti di partenza.
Ciò non basterà ad evitare danni: durante la notte, il sommergibile britannico Urge silurerà la Vittorio Veneto, danneggiandola gravemente. I piroscafi Iseo e Capo Orso entrano in collisione in fase di rientro, danneggiandosi gravemente. Parte dei cacciatorpediniere vengono inviati a rafforzare la scorta della corazzata danneggiata.
14 dicembre 1941
Il Da Recco e le altre navi raggiungono Taranto tra pomeriggio e sera.
16 dicembre 1941
Dopo
il fallimento della «M. 41», viene rapidamente organizzata al suo
posto l'operazione «M. 42», che prevede l'invio di quattro
mercantili (Monginevro, Napoli, Vettor
Pisani, Ankara:
le motonavi uscite indenni dalla «M. 41», non essendovene altre
pronte) riunite in un unico convoglio per gran parte della
navigazione, ed inoltre l'impiego delle Divisioni di incrociatori
adibite alla scorta secondo la loro struttura organica, a differenza
che nella «M. 41». In tutto le quattro motonavi trasportano 14.770
tonnellate di rifornimenti (103 tonnellate di olio in fusti, 859
tonnellate di nafta in taniche, 2738 tonnellate di munizioni e 6869
tonnellate di materiali vari per le forze italiane; 761 tonnellate di
carburante e 3540 tonnellate di materiali vari per le forze
tedesche), 312 automezzi e 212 uomini.
La scorta diretta è
costituita dal Da Recco
(capitano di vascello Stanislao Esposito, caposquadriglia della XIV
Squadriglia Cacciatorpediniere), dai gemelli Pessagno, Da
Noli, Vivaldi (caposcorta,
contrammiraglio Amedeo Nomis di Pollone), Malocello
e Zeno,
dal più piccolo cacciatorpediniere Saetta e
dalla torpediniera Pegaso.
L'ordine
d'operazione prevede che le navi procedano in formazione unica, a 13
nodi di velocità, sino al largo di Misurata, per poi scindersi in
due convogli: «L», formato da Monginevro, Napoli, Vettor
Pisani ed i cinque
“Navigatori” tra cui il Da
Recco, per Bengasi; «N»,
composto da Ankara, Pegaso e Saetta (caposcorta),
per Tripoli.
I due convogli e la scorta diretta partono da
Taranto il 16 dicembre, ad un'ora di distanza l'uno dall'altro: alle
15 l'«N», alle 16 l'«L». (Per altra fonte, Ankara,
Pegaso
e Saetta
sarebbero partite da Napoli, unendosi all'altro convoglio in mare
aperto).
Da Taranto esce inoltre la sera del 16 un gruppo di
sostegno composto dalla corazzata Duilio (nave
di bandiera dell'ammiraglio Carlo Bergamini, comandante del gruppo),
dalla VII Divisione (incrociatori leggeri Emanuele
Filiberto Duca d'Aosta –
nave di bandiera dell'ammiraglio Raffaele De Courten –, Raimondo
Montecuccoli e Muzio
Attendolo) e dai
cacciatorpediniere Ascari, Aviere e Camicia
Nera della XI
Squadriglia; i suoi ordini sono di tenersi ad immediato contatto del
convoglio fino alle 8 del 18, per poi spostarsi verso est così da
poter intervenire in caso di invio contro il convoglio di forza di
superficie da Malta.
Vi è anche un gruppo di appoggio composto
dalle corazzate Giulio
Cesare, Andrea
Doria e Littorio (nave
di bandiera dell'ammiraglio Angelo Iachino, comandante superiore in
mare), dagli incrociatori pesanti Trento e Gorizia (nave
di bandiera dell'ammiraglio di divisione Angelo Parona, comandante
della III Divisione) e dai
cacciatorpediniere Granatiere, Bersagliere, Corazziere, Fuciliere, Carabiniere, Alpino, Oriani, Gioberti ed Usodimare delle
Squadriglie X, XII e XIII, anch'essi salpati da Taranto il 16 sera,
nonché ricognizione e scorta aerea assicurata dalla Regia
Aeronautica e dalla Luftwaffe (che in totale mettono a disposizione
ben 552 aerei italiani – 82 bombardieri, 30 aerosiluranti, 6
ricognitori strategici e 434 caccia – e 200 tedeschi), l'invio dei
sommergibili Topazio, Santarosa, Squalo, Ascianghi, Dagabur e Galatea in
agguato nel Mediterraneo centro-orientale, e la posa di ulteriori
campi minati al largo della Tripolitania.
Già prima della
partenza, i comandi italiani e l'ammiraglio Iachino sono stati
informati dell'avvistamento alle 14.50, da parte di un ricognitore
tedesco, di una formazione britannica che comprende una corazzata. In
realtà, di corazzate britanniche in mare non ce ne sono: il
ricognitore ha scambiato per corazzata la nave cisterna
militare Breconshire,
partita da Alessandria per Malta con 5000 tonnellate di carburante
destinato all'isola, con la scorta degli incrociatori
leggeri Naiad, Euryalus e Carlisle e
dei
cacciatorpediniere Jervis, Havock, Hasty, Nizam, Kimberley, Kingston, Kipling e Decoy,
il tutto sotto il comando dell'ammiraglio Philip Louis Vian.
Comunque, Supermarina decide di procedere egualmente con
l'operazione, sia per via della disperata necessità di far arrivare
rifornimenti in Libia al più presto, sia perché la formazione
italiana è comunque molto più potente di quella avversaria.
Convoglio e gruppo di sostegno procedono dunque lungo la rotta
prestabilita.
Poco prima di mezzanotte il sommergibile
britannico Unbeaten
(tenente di vascello Edward Arthur Woodward) avvista parte delle
unità italiane e ne informa il comando britannico (messaggio che
viene peraltro intercettato e decrittato dalla Littorio);
quest'ultimo ne è in realtà già al corrente grazie alle
decrittazioni di “ULTRA”, che tra il 16 ed il 17 dicembre
forniscono a più riprese molte informazioni su mercantili, scorte
dirette ed indirette, porti ed orari di partenza e di arrivo. Il 16
dicembre “ULTRA” informa che è probabile un nuovo tentativo di
rifornimento della Libia con inizio proprio quel giorno, dopo quello
fallito di tre giorni prima. Il 17 dicembre “ULTRA” aggiunge
informazioni più precise: Monginevro, Pisani e Napoli,
scortate dal Vivaldi e
da altri cinque cacciatorpediniere, dovevano lasciare Taranto a
mezzogiorno del 16 insieme all'Ankara,
scortata invece da due siluranti tra cui il
cacciatorpediniere Saetta;
arrivo previsto a Bengasi alle 8 del 18 per l'Ankara,
a Tripoli alle 17 dello stesso giorno per le altre motonavi; presenza
in mare a scopo di protezione della Duilio,
della VII Divisione e forse anche di altre forze
navali, Littorio compresa
("Ankara (4770),
escorted by destroyer Saetta and one other. Pisani
(6400), Monginevro (5500) and NAPOLI (5450) escorted by destroyer
Vivaldi and five others were to leave Taranto about noon/16. The
first named is due Benghazi 0800/18 and the rest Tripoli at 1700/18.
The convoy will be supported by the battleship Duilio and the 7th
cruiser division (probably 6” cruisers AOSTA and Attendolo). It is
possible other forces including the battleship Littorio may be at
sea").
Il 18 aggiungerà che le
motonavi sono partite da Taranto alle 13 del 16 e che sono scortate
da 2 corazzate, 2 incrociatori e 12 cacciatorpediniere, più una
forza di supporto di 3 corazzate, 2 incrociatori e 10
cacciatorpediniere a nordest.
Alle
23.20 anche l'Utmost
(capitano di corvetta Richard Douglas Cayley) ha avvistato le navi
italiane (la III Divisione) nel Golfo di Taranto, e dopo averle
infruttuosamente attaccate ha lanciato il segnale di scoperta.
I
comandi britannici, tuttavia, non si trovano in condizione di poter
organizzare un attacco contro il convoglio italiano.
17
dicembre 1941
Alle
16.25 il convoglio viene avvistato da un ricognitore britannico; in
quel momento la Breconshire e
la sua scorta si trovano a sole 60 miglia di distanza (per altra
fonte, il convoglio sarebbe già stato avvistato una prima volta da
ricognitori nemici alle 9.25, ma i britannici non avrebbero tentato
di “pedinarlo” per via della scarsità di aerei da ricognizione
disponibili).
Nel tardo pomeriggio del 17 dicembre il gruppo
«Littorio»
si scontra con la scorta della Breconshire,
in un breve ed inconclusivo scambio di colpi passato alla storia come
prima battaglia della Sirte. Iniziato alle 17.23, lo scontro si
conclude già alle 18.10, senza danni da ambo le parti; Iachino,
ancora all'oscuro dell'invio a Malta della Breconshire e
convinto che navi da battaglia britanniche siano in mare, attacca gli
incrociatori di Vian per tenerli lontani dal suo convoglio (ritiene
infatti che gli incrociatori britannici siano lì per attaccare i
mercantili italiani, mentre in realtà non vi è alcun tentativo del
genere da parte britannica) e rompe il contatto al crepuscolo, per
evitare un combattimento notturno, per il quale la flotta italiana
non è preparata.
Alle 17.56, per evitare un pericoloso incontro
del convoglio con unità di superficie britanniche (si crede ancora
che in mare ci siano una o più corazzate britanniche), il convoglio
ed il gruppo di sostegno accostano ad un tempo ed assumono rotta nord
(in modo da allontanarsi dalla zona dove si trova la formazione
britannica), sulla quale rimangono fino alle 20 circa; poi, in base a
nuovi ordini impartiti da Iachino (e per non allontanarsi troppo
dalla zona di destinazione), manovrano per conversione di 20° per
volta (in modo da mantenere per quanto possibile la formazione, in
una zona ad elevato rischio di attacchi aerei) ed effettuano un'ampia
accostata sino a rimettere la prua su Misurata. Convoglio e gruppo di
sostegno sono “incorporate” in un'unica complessa formazione (i
mercantili su due colonne, con Monginevro in
posizione avanzata a dritta, Pisani in
posizione avanzata a sinistra, seguite rispettivamente
da Napoli ed Ankara;
il Vivaldi procede
in testa all'intera formazione, mentre Da
Noli e Malocello sono
posizionati rispettivamente 30° di prora a dritta e sinistra
di Pisani e Monginevro, Zeno e Da
Recco 70° di prora a
dritta e sinistra rispettivamente di Pisani e Monginevro, Saetta a
sinistra della Pisani e Pessagno a
dritta della Napoli;
il convoglio è seguito dal gruppo di sostegno su due colonne,
con Duca
d'Aosta seguito
da Attendolo e Camicia
Nera a
sinistra, Duilio seguita
da Montecuccoli ed Aviere a
dritta, più Pigafetta a
sinistra di Duca
d'Aosta ed Attendolo e Carabiniere a
dritta di Duilio e Montecuccoli),
il che fa sì che occorra più del previsto perché la formazione
venga riordinata sulla rotta 210°: ciò accade alle 22.
Durante
la notte il convoglio, che avanza a 13 nodi, viene avvistato da
ricognitori nemici, ma non subisce attacchi. Le forze di Vian
(incrociatori leggeri Naiad,
Euryalus
e Carlisle,
cacciatorpediniere Jervis,
Nizam,
Kingston,
Kimberley,
Kipling,
Havock,
Hasty
e Decoy),
affidata la scorta della Breconshire
alla Forza K uscita da Malta, si dirigono a nord di Bengasi per
tentare d'intercettare il convoglio italiano, ma essendo questo
diretto a Tripoli non riesce a trovarlo e rientra allora ad
Alessandria.
18
dicembre 1941
Poco
prima dell'alba del 18, i
cacciatorpediniere Granatiere e Corazziere entrano
in collisione, distruggendosi a vicenda la prua; gli incrociatori
della VII Divisione prestano loro soccorso. Alle 13 la Duilio si
riunisce al gruppo «Littorio»,
lasciando la VII Divisione a protezione immediata dei
mercantili.
Poco prima di mezzogiorno il convoglio avvista la
costa della Libia, ed alle 12.30 (in posizione 33°18' N e 15°33' E)
le navi mercantili si separano come previsto: il convoglio «N»
dirige per Bengasi, mentre il convoglio «L» prosegue per Tripoli
con la scorta diretta al comando dell'ammiraglio Nomis di Pollone e,
fino al tramonto, anche quella della VII Divisione. Calato il buio,
anche la VII Divisione lascia il convoglio per rientrare a Taranto; a
questo punto il contrammiraglio Nomis di Pollone ordina al convoglio
«L» di dividersi in tre gruppi, ognuno formato da una
motonave e due cacciatorpediniere (Monginevro con Da
Recco e Malocello; Pisani con Vivaldi e Pessagno; Napoli con Da
Noli e Zeno),
in modo da rendere la formazione più maneggevole; i gruppi devono
distanziarsi di 4 miglia l'uno dall'altro.
Nel
rapporto Nomis di Pollone motiverà così la sua decisione: "Poco
prima di ricevere dal Duilio l'ordine di separazione per il convoglio
"N", ho proposto al Comando 5a Divisione che il convoglio
principale "L" eseguisse nelle ore notturne una inversione
di rotta temporanea per i seguenti motivi: 1°) Arrivare a Tripoli in
ore diurne per evitare il bombardamento aereo notturno che certamente
sarebbe stato seguito sul porto in previsione dell'arrivo del
convoglio. 2°) Tentare di eludere gli attacchi notturni al convoglio
che erano molto probabili e che avrebbero trovato la formazione sulle
rotte di sicurezza ossia in acque ristrette. La proposta comportava
che la 7a Divisione rimanesse nelle ore notturne presso il convoglio
per proteggerlo contro attacchi di navi di superficie; non essendo
stata approvata da Supermarina, ho disposto che, a notte fatta, il
convoglio si suddividesse in tre gruppi ognuno composto di un
piroscafo e due cacciatorpediniere, che tra le 1900 e le 2330 del 18,
ora prevista di arrivo a Tagiura, avrebbero dovuto distanziarsi fra
di loro di circa 4 miglia. La suddivisione aveva i seguenti scopi:
1°) Rendere i vari gruppi più maneggevoli in caso di attacco ad uno
dei due gruppi, gli altri potessero sfuggire all'avvistamento del
nemico. 2°) Aumentare le probabilità che, in caso di attacco ad uno
dei due gruppi, gli altri potessero sfuggire all'avvistamento del
nemico. 3°) Facilitare la manovra di entrata e di ormeggio a
Tripoli. Secondo l'ordine impartito da Supermarina alle 15.10 del 18
le siluranti del Gruppo "Vivaldi" dovevano rientrare in
Italia, se possibile, per la rotta passante a levante di Malta;
oppure per quella più breve di ponente se vi fosse stata deficienza
di autonomia. I cacciatorpediniere dovevano anche evitare di entrare
nel porto di Tripoli, se le condizioni tecniche potevano
permetterlo".
L'ordine
di frammentazione del convoglio è in corso d'esecuzione, ed i gruppi
si sono già distanziati di 2-3 miglia, quando alle 20.40 si
accendono a distanza (a poppavia sinistra; in quel momento il
convoglio è al largo di Ras Hallab) i bengala che preannunciano un
attacco aereo. Nomis di Pollone ordina di emettere cortine fumogene e
di seguire all'ecometro, nel proseguire la navigazione, la
batometrica di 30 metri, cui corrisponde grosso modo la rotta di
sicurezza.
L'attacco è condotto da quattro aerosiluranti Fairey
Albacore dell'828th
Squadron della Fleet Air Arm, di base a Malta: il loro avvicinamento
al convoglio, così come la ricognizione svolta in precedenza da
bimotori Vickers Wellington del 69th
Squadron della Royal Air Force (uno dei quali nel pomeriggio ha
avvistato e segnalato le navi italiane che procedono frazionate in
un'ampia area ad est di Tripoli), è stato reso difficoltoso dal
tempo burrascoso.
In seguito all'avvistamento del convoglio i comandi britannici hanno deciso di inviare contro di esso tutti gli aerei efficienti della Fleet Air Arm presenti a Malta, ossia gli aerosiluranti Fairey Albacore dell'828th Squadron e Fairey Swordfish dell'830th Squadron (tutti aventi base ad Hal Far), e di mandare sette bombardieri Vickers Wellington del 104th Squadron della Royal Air Force (tenente colonnello Philip Robert Beare) a posare mine magnetiche all'imboccatura del porto di Tripoli e sganciare bombe a scopo diversivo.
Le forti piogge su Malta e le nuvole basse, che si aggiungono ai danni causati alle piste degli aeroporti dai bombardamenti italo-tedeschi, rendono difficile anche il decollo per gli aerei britannici; il maltempo e la limitata visibilità impediscono agli Swordfish dell'830th Squadron (capitano di corvetta Frank Henry Edward Hopkins) di avvistare il convoglio, ma gli Albacore – che in origine erano cinque, uno dei quali è dovuto rientrare alla base di Hal Far per problemi ai motori – riescono invece a trovarlo, attaccando alle 21.
Il gruppo Monginevro-Da Recco-Malocello viene attaccato da un singolo velivolo, un Albacore (identificato correttamente come un aerosilurante dalle navi italiane) pilotato personalmente dal comandante dell'828th Squadron, capitano di corvetta David Erskine Langmore: il Da Recco (che occupa la posizione a proravia della Monginevro) lo colpisce con il tiro delle mitragliere di dritta e l'aereo s'infila in mare, provocando la morte di entrambi gli uomini dell'equipaggio.
Il gruppo della Pisani non subisce alcun attacco, mentre ha meno fortuna quello della Napoli: alle 21.40 la motonave viene colpita all'estrema poppa, subendo pochi danni che comprendono tuttavia la messa fuori uso del timone (un altro Albacore viene danneggiato in questo attacco e si sfascerà in fase di atterraggio ad Hal Far). Nella confusione, lo Zeno entra in collisione con la Napoli stessa e riporta una falla, anche se raggiungerà ugualmente Tripoli con i propri mezzi.
Nella notte tra il 18 ed il 19 dicembre la Forza K britannica (incrociatori leggeri Aurora, Penelope e Neptune e cacciatorpediniere Lance, Lively, Havock e Kandahar), uscita da Malta alle 18 del 18 per cercare il convoglio, finisce sui campi minati posati al largo di Tripoli: affondano l'incrociatore leggero Neptune ed il cacciatorpediniere Kandahar, viene gravemente danneggiato l'incrociatore leggero Aurora e meno gravemente anche il gemello Penelope. La temuta Forza K ha così cessato di esistere.
19 dicembre 1941
Dato che intanto è iniziato un bombardamento aereo di Tripoli (che si svolgerà in più ondate e si protrarrà fino alle tre di notte: a condurlo sono sette bombardieri Vickers Wellington del 104th Squadron della RAF, che attaccano scaglionati nel tempo mentre lanciano le mine all'imboccatura del porto), Nomis di Pollone ordina a Pisani e Monginevro, con i rispettivi cacciatorpediniere, di mettersi alla fonda presso Tagiura (che è già entro il sistema protettivo degli sbarramenti di Tripoli), a dieci miglia dal porto, per attendere che terminino il bombardamento e poi il dragaggio magnetico dell'avamporto di Tripoli (si teme, a ragione, che gli aerei britannici vi abbiano lanciato delle mine), conclusi i quali dovranno entrare in porto. Intanto, Pessagno e Malocello vengono inviati a dare assistenza alla Napoli, difendendola dai sommergibili che frequentano, notoriamente, la zona in cui è stata colpita; sopraggiungono in rinforzo anche le torpediniere Perseo e Prestinari.
Le
navi indenni riescono possono finalmente entrare a Tripoli alle 10.30
(per altra fonte, le dieci); la danneggiata Napoli (il
cui carico è però intatto), rimorchiata dal Ciclope
(in precedenza l'aveva presa a rimorchio il Da
Noli), giungerà in porto
alle 16, preceduta di due ore da Zeno, Da
Noli, Pessagno e Malocello.
L'operazione
«M. 42» si conclude così in un successo, con l'arrivo a
destinazione di tutti i rifornimenti inviati.
Il Da Recco riparte da Tripoli la sera stessa per tornare a Taranto insieme agli altri cacciatorpediniere del gruppo di Nomis di Pollone, ma manovrando per uscire dal porto, alle 19.45, sperona accidentalmente il dragamine ausiliario G 32 Ferruccio, un rimorchiatore requisito, provocandone l'affondamento presso l'imboccatura del porto. Il Da Recco riporta soltanto un'ammaccatura sul lato di dritta della prua, che non gli impedisce di proseguire normalmente la navigazione.
20 dicembre 1941
Il Da Recco e gli altri cacciatorpediniere arrivano a Taranto alle 2.50.
22 dicembre 1941
Dopo aver effettuato degli esercizi di punteria in mattinata, alle 20.45 Da Recco, Vivaldi ed Usodimare lasciano Taranto per trasferirsi ad Augusta, da dove dovranno effettuare una missione di trasporto truppe verso la Libia. Superate le ostruzioni foranee, i tre cacciatorpediniere procedono a 22 nodi in linea di fila.
23 dicembre 1941
Verso le nove del mattino i tre cacciatorpediniere, giunti in vista della rada di Augusta, riducono la velocità; alle 9.15 superano le ostruzioni foranee e vanno poi ad ormeggiarsi alla banchina di Punta Cugno, dove inizia l'imbarco delle truppe e dei materiali da portare in Libia.
Alle 18.30 Da Recco, Vivaldi (caposquadriglia, capitano di vascello Giovanni Galati) ed Usodimare lasciano Augusta diretti a Tripoli, navigando a 22 nodi in linea di fila. A bordo hanno un reparto anticarro di 600 uomini con le relative armi, nonché 150 tonnellate di gasolio.
Alle 19.10 le tre unità passano in formazione a linea di fronte, e mezz'ora dopo avvistano dei razzi bianchi verso dritta: temendo che si prepari un attacco aereo nemico, viene ordinato il posto di combattimento, ma quando uno degli aerei passa a poca distanza viene riconosciuto come italiano dal rumore dei motori. Alle 21.30 la velocità viene portata a 25 nodi.
24 dicembre 1941
Verso le otto del mattino, in vista della costa africana, viene avvistato un aereo italiano che alle 9.15 lancia due fumogeni – uno bianco ed uno rosso – a proravia del Vivaldi; le tre navi seguono poi lungo la costa fino a Tripoli.
Alle 11.45 (o 11.22) i cacciatorpediniere arrivano a Tripoli, dove si ormeggiano al Molo Sottoflutto; appena finito il posto di manovra, iniziano a sbarcare rapidamente truppe e materiali, completando l'operazione alle tre del pomeriggio. Verso le 18 iniziano quindi ad imbarcare profughi civili e militari rimpatrianti (sul Vivaldi) nonché prigionieri di guerra da trasportare in Italia (su Da Recco ed Usodimare), per poi ripartire alle 18.30 (o 19).
La partenza avviene appena in tempo per evitare un'incursione aerea britannica su Tripoli: l'allarme viene suonato mentre i cacciatorpediniere si apprestano a superare le ostruzioni, e le difese contraeree del porto aprono il fuoco subito dopo che Da Recco, Vivaldi ed Usodimare ne sono usciti. Qualche aereo attacca anche i cacciatorpediniere, ma viene respinto dal loro tiro contraereo.
Una volta lasciate le rotte di sicurezza, Da Recco, Vivaldi ed Usodimare si dispongono in linea di fila facendo rotta verso l'Italia; alle 21.05 vengono avvistati anche i cacciatorpediniere Bersagliere e Fuciliere (arrivati in porto quasi contemporaneamente alla Squadriglia Vivaldi, provenendo da Taranto con un carico di lattine di benzina), che si accodano alla squadriglia. In tutto i cinque cacciatorpediniere hanno a bordo 870 prigionieri Alleati (460 anglosassoni e 410 coloniali) scortati da 3 ufficiali e 45 militari italiani, nonché degli operai di passaggio, diretti in Italia.
Le cinque unità, costituendo un'unica formazione su due colonne (il cui comando va al capitano di vascello Galati del Vivaldi), seguono a 27 nodi una rotta che passa ad est di Malta anziché, come prescritto dagli ordini ricevuti in precedenza, ad ovest dell'isola: tale variazione è stata decisa dal capitano di vascello Galati di propria iniziativa, alle ore 21 del 24, sulla base del fatto che i suoi cacciatorpediniere sono stati attaccati da bombardieri britannici dopo aver assunto la rotta definitiva per Lampione, il che dà motivo di credere che ormai i britannici conoscano con certezza gli elementi della navigazione delle navi italiane, cosa che renderebbe estremamente facile, per il nemico, organizzare la loro intercettazione nelle acque di Lampedusa. Considerato anche che le sue navi, avendo a bordo ciascuna circa 300 tra prigionieri, operai e militari di scorta e di passaggio, sono in condizioni tutt'altro che ottimali per un combattimento notturno, Galati decide di cambiare radicalmente il percorso da seguire, e pertanto cambia rotta in modo da passare 100 miglia ad est di Malta, invece di percorrere il Canale di Sicilia come previsto. La velocità viene portata a 25 nodi, in modo da essere al traverso di Malta non più tardi delle prime luci dell'alba.
25 dicembre 1941
Alle 7.30, trovandosi al traverso di Malta, Galati riferisce l'avvenuta modifica della rotta e la sua attuale posizione a Supermarina, Marina Napoli e Marina Messina.
Verso le nove vengono avvistati in lontananza degli aerei di nazionalità sconosciuta, che volano bassi sull'orizzonte, e viene ordinato il posto di combattimento, ma successivamente viene dato il cessato allarme in quanto gli aerei vengono identificati come velivoli da trasporto tedeschi.
Alle 11.25 viene avvistata la vetta dell'Etna, ed alle 12.30 i cacciatorpediniere sono al traverso di Capo dell'Armi; sempre in formazione su due colonne, imboccano lo stretto di Messina. Superato lo stretto, seguono le rotte di sicurezza fino al largo di Stromboli, poi assumono rotta verso Napoli. Alle 21.30 viene avvistato il faro di Punta Campanella.
Alle 24 Da Recco, Vivaldi (caposquadriglia), Usodimare, Bersagliere (capo sezione classe Soldati) e Fuciliere arrivano indenni a Napoli.
3 gennaio 1942
Il Da Recco lascia Messina per Tripoli alle 10.15, insieme ai cacciatorpediniere Ugolino Vivaldi (nave ammiraglia del contrammiraglio Amedeo Nomis di Pollone, comandante dei cacciatorpediniere della scorta diretta), Fuciliere, Antoniotto Usodimare e Bersagliere, scortando le motonavi Nino Bixio, Lerici e Monginevro, nell'ambito dell'operazione di rifornimento «M. 43». Il Da Recco e gli altri cacciatorpediniere del suo gruppo si sono trasferiti da Napoli a Messina il giorno precedente, rifornendosi nel porto siciliano prima di prendere il mare per la missione.
Le tre motonavi formano il convoglio n. 1 di tale operazione; la «M. 43» prevede in tutto l'invio in Libia di cinque grandi motonavi da carico ed una petroliera, tutte veloci (almeno 14 nodi) e di recente costruzione, con una scorta poderosa: oltre alle siluranti di scorta di ciascun convoglio, vi sono una forza di «scorta diretta incorporata nel convoglio» (gruppo «Duilio», al comando dell'ammiraglio di squadra Carlo Bergamini, con il compito di respingere eventuali attacchi di formazioni leggere di superficie come la Forza K) composta dalla corazzata Duilio (nave ammiraglia di Bergamini) con gli incrociatori leggeri Emanuele Filiberto Duca d'Aosta (nave di bandiera dell'ammiraglio di divisione Raffaele De Courten), Raimondo Montecuccoli, Muzio Attendolo e Giuseppe Garibaldi ed i cacciatorpediniere Maestrale, Scirocco, Alfredo Oriani e Vincenzo Gioberti, ed un gruppo d'appoggio a distanza (gruppo «Littorio», al comando dell'ammiraglio di squadra Angelo Iachino, con l'incarico di proteggere il convoglio da un eventuale attacco in forze della Mediterranean Fleet) formato dalle corazzate Littorio (nave di ammiraglia di Iachino), Giulio Cesare ed Andrea Doria (nave ammiraglia dell'ammiraglio di divisione Guido Porzio Giovanola), dagli incrociatori pesanti Trento e Gorizia (nave ammiraglia dell'ammiraglio di divisione Angelo Parona) e dai cacciatorpediniere Aviere, Geniere, Carabiniere, Alpino, Camicia Nera, Ascari, Antonio Pigafetta ed Antonio Da Noli. Alla scorta aerea concorrono la Regia Aeronautica (Armata Aerea e Ricognizione Marittima) e la Luftwaffe (II Corpo Aereo Tedesco e X Corpo Aereo Tedesco, di base l'uno in Sicilia e l'altro in Grecia) per effettuare ricognizione sul porto della Valletta (Malta) e nelle acque di Alessandria, bombardamenti preventivi sugli aeroporti maltesi e scorta di caccia, antiaerosilurante ed antisommergibile sui cieli del convoglio nonché a protezione delle navi impegnate nello scarico una volta giunte a Tripoli. Completa il dispositivo di difesa la dislocazione di undici sommergibili sulle probabili rotte che una ipotetica forza navale nemica dovrebbe percorrere per attaccare il convoglio.
4 gennaio 1942
Tra le 7 e le 11, come previsto, il convoglio n. 1 si unisce ai convogli 2 (motonave Monviso, motocisterna Giulio Giordani, torpediniere Orsa, Aretusa, Castore ed Antares) e 3 (motonave Gino Allegri, cacciatorpediniere Freccia, torpediniera Procione), partiti rispettivamente da Taranto e Brindisi; si forma così un unico grande convoglio, il cui caposcorta è il contrammiraglio Nomis di Pollone. Mentre il convoglio «Allegri» si unisce al Gruppo «Duilio», la III Divisione Navale (Trento e Gorizia) del gruppo d'appoggio viene avvistata da un ricognitore britannico; da Malta decolla una formazione aerea per attaccare, ma deve rientrare senza essere riuscita a trovare il convoglio. Al tramonto il gruppo «Duilio» s'incorpora nella formazione del convoglio, che durante la notte mette la prua su Tripoli.
5 gennaio 1942
Poco dopo le tre di notte il gruppo «Duilio» lascia il convoglio, che giunge indenne a Tripoli alle 12.30 senza aver subito alcun attacco. Complessivamente, con questo convoglio giungono in Libia oltre 15.000 tonnellate di carburante, 12.500 di munizioni, 650 veicoli e 900 soldati.
Gennaio 1942
Il Da Recco ed il resto della XVI Squadriglia Cacciatorpediniere (Pessagno ed Usodimare) passano al Gruppo Cacciatorpediniere di Squadra.
12 gennaio 1942
Il Da Recco (caposcorta), l'Usodimare e l'anziana torpediniera Generale Antonio Cantore salpano da Messina alle 20.40 alla volta di Tripoli, scortando il piroscafo Bosforo.
13-14 gennaio 1942
Il convoglio sosta a Palermo per due giorni, poi riparte e fa scalo a Trapani.
16 gennaio 1942
Bosforo e scorta giungono a Tripoli alle 13.15.
17 gennaio 1942
Da Recco (caposcorta) e Usodimare lasciano Tripoli alle 17 per scortare in Italia la grande motonave cisterna Giulio Giordani.
18 gennaio 1942
Durante la notte tra il 17 ed il 18, a sud della Sicilia, il convoglietto viene soggetto a ripetuti attacchi aerei, compreso uno da parte di cinque aerosiluranti britannici Fairey Swordfish dell'830th Squadron della Fleet Air Arm, decollati da Hal Far (Malta), che ritengono di aver colpito la Giordani con un siluro, e probabilmente anche uno dei cacciatorpediniere. In realtà, nessuna delle navi italiane subisce alcun danno; anche gli Swordfish rientrano alla base senza perdite.
Giordani e scorta arrivano a Palermo alle 13.
Il Da Recco in uscita da La Spezia nella primavera 1942, con la sua prima colorazione mimetica (g.c. Giorgio Parodi via www.naviearmatori.net)
20 marzo 1942
Assume il comando del Da Recco, e della XVI Squadriglia Cacciatorpediniere, il capitano di vascello Aldo Cocchia, avvicendando il parigrado Esposito. Così Cocchia, che nei due anni precedenti era stato in successione comandante del sommergibile Torelli nella sua prima missione atlantica, capo di Stato Maggiore della base atlantica di Betasom e comandante militare dell'isola di Lero, partecipando anche alla spedizione italiana a Creta nel maggio 1941, avrebbe rievocato l'emozione del suo nuovo comando nel suo libro di memorie "Convogli": “…soltanto ora sentivo soddisfatte le mie aspirazioni. Il comando di squadriglia di cacciatorpediniere era stato il mio desiderio più vivo sin dal principio della guerra e, a tale scopo, avevo tempestato di domande il ministero della Marina…”. Tuttavia, “la sua fama [del Da Recco] (…) non era buona. Non perché fosse stato mal comandato (…) La fama del Da Recco era di essere disgraziato e, peggio, di portar disgrazia agli altri. (…) La cattiva nomea del Da Recco derivava dal gran numero di piroscafi che erano andati perduti nei convogli che lo avevano avuto fino ad allora quale capo scorta. Sappiamo che una triste fatalità accompagnava i nostri convogli in genere senza che coraggio, abnegazione, abilità di comandanti ed equipaggi potessero far nulla per mutarla, ma pareva che tale triste fatalità si addensasse particolarmente sulle navi che avevano il Da Recco quale comandante superiore, e da ciò era venuto al caccia il brutto nome di iettatore. Non potevo certo rinunciare al comando o rifiutarlo sol perché la silurante che mi veniva affidata aveva reputazione poco simpatica. Formulai a me stesso l'augurio di riuscire a capovolgere tale reputazione e affrontai serenamente il mare. D'altra parte il Da Recco era sì malfamato, ma aveva una tradizione di lavoro e di valore altamente significativa”.
Cocchia tratteggia la seguente descrizione del suo stato maggiore: “Sul Da Recco ebbi la ventura di avere uno stato maggiore formato di ufficiali veramente di prim'ordine. Assistente di squadriglia e mio diretto collaboratore il capitano di corvetta Gian Luigi Sironi, milanese, intelligentissimo, che sapeva il fatto suo in ogni circostanza. Era stato comandante del Pegaso (…) ed aveva molta pratica di convogli e della tattica nemica, sperimentata a più riprese durante il periodo del suo comando di torpediniera; per l'insieme di queste sue qualità mi fu aiuto validissimo. Il capitano di corvetta Pietro Riva era il secondo di bordo. Era stato fino ad allora osservatore su aerosiluranti ed era decorato di due medaglie di argento. Bravissimo, si mise rapidamente all'altezza del suo compito e dimostrò poi ottime doti quando, in un momento difficilissimo, io, ferito gravemente, fui costretto a cedergli il comando del Da Recco. Una delle colonne di bordo era indubbiamente il capitano Cesare Petroncelli, capo servizio genio navale, che non si sapeva quando dormisse e che seppe fronteggiare con magiStrale abilità le situazioni più difficili e le avarie più impensate che il nostro Da Recco si divertiva talora ad imbastire. Pieno di sorprendente vitalità e di esuberante attività, non poteva stare fermo un momento, tanto che al ritorno da missioni di guerra, dopo aver messo in ordine l'apparato motore, se gli avanzava tempo, anziché andarsene a dormire come faceva la generalità dello stato maggiore e dell'equipaggio, racimolava 4 o 5 suoi fidi e se li portava a fare delle lunghe passeggiate in campagna. All'inizio della missione era poi fresco come una rosa, e al suo posto pronto a qualsiasi eventualità. La schiera dei giovani di bordo era capeggiata dal tenente di vascello Alfredo Zambrini, ufficiale intelligente, sveltissimo, che ricoprì lodevolmente prima la carica di segretario di squadriglia, poi quella di ufficiale alle comunicazioni e ai servizi elettrici. Valoroso ed entusiasta, non c'era niente che potesse metterlo in agitazione, ed aveva un tal controllo di sé stesso che quando fu ferito a morte nel combattimento del 2 dicembre seppe eroicamente assolvere il suo dovere fino all'estremo limite delle sue forze. Direttore del tiro era il sottotenente di vascello Sciangula, famoso abbattitore di velivoli nemici; ufficiale di rotta e mio segretario il sottotenente di vascello Giorgio Ascheri che, modesto quanto capace, sapeva tirar fuori il «punto» anche nelle condizioni atmosferiche più impossibili, anche dopo una notte di combattimenti, anche quando la stanchezza annebbiava gli occhi e faceva piegare le gambe. Sempre calmo, sempre imperturbabile, Ascheri aveva il mio affetto e la mia stima. (…) Non voglio tralasciare di nominare tre bravi compagni, caduti in combattimento: il tenente di vascello Tivegna, immolatosi al suo posto di dovere appena imbarcato; Federigi, tenente commissario e instancabile ufficiale alla cifra in navigazione, uomo di mare oltre che di tavolino, e Giusfredi, guardiamarina che faceva il suo tirocinio a bordo per diventare ufficiale di rotta, caro ragazzo che possedeva tutte le doti e i pregi della sua età, ma che in servizio sapeva essere serio e ponderato come i più vecchi del mestiere. Provai un vero dolore quando questa giovane e promettente vita fu falciata dal fato inesorabile”.
Al momento dell'assunzione del comando da parte di Cocchia, il Da Recco si trova a La Spezia per grandi lavori, che avranno termine solo a inizio maggio; i lavori comprendono la revisione completa dell'apparato propulsivo, la sostituzione (nei limiti del possibile) di tutti i materiali infiammabili con altri ignifughi, eliminando anche vernici infiammabili e tutto il materiale superfluo che potrebbe alimentare le fiamme in caso d'incendio a bordo, e l'installazione di un ecogoniometro. Viene inoltre applicata una colorazione mimetica tipo standard, con un disegno diverso su ciascun lato.
8 maggio 1942
Il Da Recco scorta il sommergibile H 4 (tenente di vascello Gaetano Iaccarino) durante un'uscita per esercitazione da La Spezia.
9 maggio 1942
Ultimati i lavori e compiuto un breve ciclo di collaudi ed esercitazioni diurne e notturne, il Da Recco lascia La Spezia per tornare a scortare convogli tra l'Italia e la Libia.
10 maggio 1942
Il Da Recco arriva a Napoli in mattinata. Recatosi a presentarsi alla sede del Comando in capo del locale Dipartimento Militare Marittimo, il comandante Cocchia vi trova riuniti ad attenderlo i comandanti civili e militari del cacciatorpediniere Premuda, delle torpediniere Pallade e Polluce e delle motonavi Agostino Bertani, Gino Allegri, Reginaldo Giuliani e Reichenfels (quest'ultima tedesca): insieme al Da Recco, queste navi dovranno formare il convoglio «G», destinato a partire quel giorno stesso nell'ambito dell'operazione di traffico «Mira», consistente nell'invio a Tripoli di sei grandi e moderne motonavi cariche di rifornimenti, suddivise in tre convogli. Proprio a Cocchia ed al suo Da Recco spetterà il ruolo di caposcorta; nel corso della breve riunion tenuta presso il Comando, Cocchia impartisce alcune istruzioni sulla condotta della navigazione e sulle formazioni da tenere.
Per la prima volta, per maggior protezione dell'importante carico ed a titolo sperimentale, la scorta sarà interamente costituita da siluranti dotate di ecogoniometro; alla riunione (ed alla missione) partecipano allo scopo alcuni specialisti ecogoniometristi tedeschi (gran parte degli ecogoniometri in dotazione alle navi italiane sono di fabbricazione tedesca).
Il convoglio parte da Napoli per Tripoli alle 17.15.
11 maggio 1942
Alle 3.30 la Giuliani è colta da un'avaria al timone (secondo le memorie di Cocchia, alle pompe di circolazione), non riparabile con i mezzi di bordo; il comandante Cocchia la manda allora a Palermo, con la scorta del Premuda (capitano di fregata Mario Bartalesi).
All'alba il convoglio «G» si congiunge con gli altri due convogli di «Mira», l'«X» (motonave Unione e torpediniera Climene, partite da Messina) e l'«H» (motonave Ravello e torpediniera Castore, partite da Napoli: anche i loro comandanti hanno partecipato alla riunione tenuta il giorno precedente), costituendo un unico convoglio sotto il comando del comandante Cocchia del Da Recco. Il convoglio imbocca la rotta di ponente per giungere a Tripoli, passando per il Canale di Sicilia; transita a poca distanza da Pantelleria e Lampedusa e ad una settantina di miglia da Malta.
12 maggio 1942
Alle 00.05 il convoglio viene raggiunto dalla torpediniera Generale Marcello Prestinari, inviata da Tripoli per pilotarlo sulle rotte di sicurezza, che il convoglio imbocca all'alba.
Tutte le navi arrivano a Tripoli in mattinata (tra le 6.40 e le 9.45) con uno dei più grandi carichi mai portati in Libia da un singolo convoglio: 58 carri armati, 713 automezzi, 3086 tonnellate di carburanti e lubrificanti, 17.505 tonnellate di munizioni ed altri materiali e 513 uomini. Ricorda Aldo Cocchia: “Quella volta sapevano tutti magnificamente il loro mestiere, il mio assistente fu un vero asso, le navi mercantili, bellissime, stracariche principalmente di carri armati, automezzi e poi di benzina, munizioni, viveri, erano chiuse in un vero cerchio di ferro e la navigazione andò come meglio non si sarebbe potuto desiderare. Perfino il tempo fu magnifico, sereno, idilliaco. Navigavamo in formazione perfetta, come per una parata e sembrava che nemmeno fossimo in guerra contro la più potente nazione marittima del mondo, tanto il nemico fu assente. Neanche un ricognitore, neanche un fumo all'orizzonte. Ogni tanto una delle unità di scorta credeva di sentire qualcosa all'ecogoniometro (…) ma poi tornava nei ranghi trattandosi sempre di un falso allarme (…) Ricorderò sempre questa mia prima navigazione quale capo scorta perché mai più ho avuto una navigazione così tranquilla e serena”. (Curiosamente, la storia ufficiale dell'USMM parla invece, alternativamente, di “attiva sorveglianza aerea” senza però azioni offensive, oppure di attacchi aerei e subacquei nel Canale di Sicilia, che tuttavia non causarono danni).
A Cocchia Tripoli, che vede per la prima volta dall'inizio della guerra, appare relativamente poco toccata dal conflitto: “Nel centro qualche casa sventrata, qualche buca nei giardini, ma niente di troppo grave; nel complesso era intatta. Sul lungomare nemmeno una casa colpita…”. L'agitazione che regna in città, il continuo afflusso di rifornimenti e l'intenso traffico stradale preannunciano l'offensiva italo tedesca che di lì a poco porterà le truppe di Rommel a cento chilometri da Alessandria. La Reichenfels è ormeggiata accanto al Da Recco e “mi sembrava quasi inverosimile che avesse potuto portare tanto materiale. Era una vera miniera. Ed era anche il piroscafo più disciplinato e più militarmente organizzato fra quanti ne ho visti. Armato di alcune mitragliere contraeree, tutte le mattine allenava il proprio personale con uno zelo, una meticolosità e una serietà tutte germaniche”.
Il Da Recco al largo di La Spezia ad inizio maggio 1942 (per altra fonte, nell’estate di quell’anno) (g.c. STORIA militare)
17 maggio 1942
Il Da Recco lascia Tripoli alle 6.30 per scortare a Brindisi la motonave Gino Allegri.
19 maggio 1942
Da Recco e Allegri arrivano a Brindisi all'una di notte.
23 maggio 1942
Il Da Recco (caposcorta) ed il cacciatorpediniere Saetta partono da Brindisi alle 10.30, per scortare a Bengasi le motonavi Monviso ed Ankara. Il convoglio procede a buona velocità, essendo composto da motonavi moderne e veloci.
24 maggio 1942
Avvistato da ricognitori, il convoglio subisce pesanti attacchi aerei dalle 00.30 alle due di notte, ma non subisce danni. Da Recco e Saetta avvolgono le due motonavi nelle cortine fumogene ed abbattono un aerosilurante, colpito e danneggiato dal Da Recco e poi incendiato e distrutto dal Saetta.
Alle 18 un sommergibile lancia due siluri (tre secondo le memorie di Aldo Cocchia), che il convoglio evita con pronta manovra, tempestivamente ordinata da Cocchia e perfettamente eseguita dalle due motonavi (che “manovrarono come per una parata”); il caposcorta ordina poi al Saetta di eseguire caccia antisommergibili per mezz'ora e poi riunirsi al convoglio. Così il Saetta fa, senza successo, essendo sprovvisto di ecogoniometro (come Cocchia sa: lo scopo del contrattacco da lui ordinato, infatti, è più che altro di indurre il sommergibile a rimanere immerso in profondità per un po', in modo da impedirgli di tornare all'attacco; potendo la cosa migliore sarebbe di protrarre la caccia fino al tramonto, ma Cocchia non vuole privarsi del Saetta, unica altra unità di scorta oltre al Da Recco, per troppo tempo).
Calato il buio, Supermarina informa il Da Recco di aver intercettato e decifrato un messaggio trasmesso da parte di un'unità britannica – con ogni probabilità, proprio il sommergibile che li ha attaccati qualche ora prima – che comunicava a Malta la posizione che il convoglio aveva alcune ore prima. In quel momento il convoglio si trova a circa 200 miglia da Malta.
Verso mezzanotte si accendono nel cielo alcuni bengala, e quasi contemporaneamente iniziano a cadere anche le bombe. Per il comandante Cocchia si tratta del primo attacco aereo notturno dall'assunzione del comando del Da Recco; reagisce nel modo consueto per questi casi, accostando con tutte le navi per mettere i bengala di prua o di poppa, in modo da offrire agli aerei (che attaccano le sagome delle navi che si stagliano contro le luci dei bengala) il minimo bersaglio possibile, ed occultando i mercantili con cortine fumogene.
25 maggio 1942
Dopo il lancio dei primi bengala, un bengaliere lancia tuttavia degli altri bengala tutt'attorno al convoglio, in modo che non sia possibile lasciarseli alle spalle con la manovra: non rimangono quindi che le cortine di nebbia. Il convoglio si divide in due colonne formate ciascuna da un mercantile ed un cacciatorpediniere, distanziate tra loro di circa 1500 metri; Da Recco e Saetta coprono completamente le due motonavi con le loro cortine, e benché numerose bombe cadano tra le navi, anche piuttosto vicine, nessuna va a segno.
Dopo un paio d'ore dall'inizio degli attacchi, Supermarina comunica al Da Recco "Prevedo prossimo attacco di aerosiluranti"; non passa molto, infatti, prima che i bengalieri stendano una cortina di bengala sul lato destro del convoglio, il che preannuncia un attacco di aerosiluranti dal lato opposto. Scrive Aldo Cocchia: “…poi finalmente avemmo il piacere di vedere uno degli aerei nemici. Vederlo proprio con i nostri occhi. Fino ad allora avevamo visto bengala e colonn di acqua (…) ma aerei niente; ora finalmente eccone uno che, proveniente da poppa, dirige su di noi, basso, cattivo. Apriamo subito il fuoco con tutte le mitragliere da 20, e al nostro fuoco lui risponde con le armi di bordo. Il combattimento è a distanza serrata e, per qualche secondo, le scie luminose delle nostre traccianti intersecano quelle che partono dall'aereo. Sembra un fuoco di artificio in onore di una qualche mostruosa divinità del male; l'aereo è colpito più volte, sbanda, mi passa di prora, sgancia erroneamente il suo siluro che si perde fra le due colonne di navi, va a finire sotto il fuoco del Saetta, si incendia, precipita in mare. 50-60 secondi ed è consumato l'ultimo atto di questo dramma che è durato due ore e mezzo”.
Il convoglio arriva a Bengasi alle 14, ed il comandante Cocchia riceve da Supermarina un telegramma di elogio per aver brillantemente superato l'attacco aereo notturno. Da Recco (caposcorta) e Saetta ripartono alle 19.30, di scorta alle motonavi Nino Bixio e Mario Roselli, dirette a Brindisi.
26 maggio 1942
All'1.30 il convoglio viene avvistato da ricognitori ed inizia a subire attacchi aerei; i due cacciatorpediniere occultano i mercantili con cortine nebbiogene, vanificando l'attacco nemico.
Alle 7.30 un attacco da parte di un sommergibile viene sventato dalla reazione della scorta.
27 maggio 1942
Il convoglio giunge a Brindisi alle 10.30.
29 maggio 1942
Alle 13.45 il Da Recco (capitano di vascello Aldo Cocchia, caposcorta) salpa da Brindisi per scortare a Bengasi la motonave Gino Allegri, con cui forma il convoglio «L». Una volta in mare aperto, le due navi assumono una velocità di 15,5 nodi. Marina Taranto ha predisposto una scorta aerea in funzione antisommergibili, che accompagna Allegri e Da Recco fino al tramonto.
Nelle stive dell'Allegri si trovavano 4000 tonnellate di rifornimenti per le truppe italo-tedesche operanti in Africa Settentrionale, compresi 160 autoveicoli, 400 tonnellate di nafta per la Regia Marina e ben 1800 tonnellate di munizioni, oltre a 148 militari di passaggio diretti in Africa Settentrionale.
Il comandante Cocchia del Da Recco ricorderà nelle sue memorie che sia il comandante civile che quello militare dell'Allegri “non avevano grande pratica della navigazione in convoglio, stavano male in formazione ed erano piuttosto riluttanti a obbedire agli ordini del capo scorta. Durante la navigazione da Tripoli a Brindisi [viaggio del 17-19 maggio] per non eseguire i miei ordini poco era mancato che andasse a finire su un banco di nostre mine, tanto che, per evitare la sicura perdita della motonave, fui costretto a fare dei segnali in chiaro a mezzo radio, dicendo apertamente quel che stava per capitare. Commisi così infrazione gravissima alle disposizioni vigenti e corsi il rischio di giusta severa punizione…”. Inoltre l'Allegri era provvista di radiosegnalatori per comunicare con la propria scorta, ma a detta di Cocchia apparteneva a quella categoria di navi con cui “le comunicazioni a volte andavano piuttosto male, o perché non capivano, o perché facevano finta di non sentire o perché gli apparati, sempre delicati, non erano in ordine”.
Fuori Otranto, durante la notte, il Da Recco avvista un sommergibile emerso che si staglia vistosamente contro la luna; il convoglio è stato avvisato che incontrerà un U-Boot tedesco, ma la posizione e l'ora del previsto incontro sono differenti, e non vi è quindi certezza sulla nazionalità del battello avvistato. Cocchia ritiene necessario, prima di chiarire tale dubbio, mettere al sicuro l'Allegri da ogni possibile attacco da parte del sommergibile, ed a questo scopo impartisce alla motonave, con tutti i mezzi disponibili, una serie di ordini di cambiare rotta, ma il mercantile non dà segno di aver inteso, anzi, secondo Cocchia, “sembrava che la «L» [così Cocchia chiama l'Allegri, senza mai farne esplicitamente il nome] facesse apposta per mettersi nelle condizioni migliori per essere attaccata”. Alla fine è il sommergibile, accortosi a sua volta della presenza delle due navi, a risolvere la questione immergendosi; il Da Recco lancia solo alcune bombe di profondità a scopo intimidatorio regolate per scoppiare a bassa profondità, così che un sommergibile amico, immersosi in profondità per evitare incidenti, non ne sarebbe danneggiato, mentre un battello nemico, rimasto poco sotto la superficie per attaccare, non potrebbe passare all'attacco.
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Il Da Recco, a destra, e la Gino Allegri fotografati dall’Euro, il 30 maggio 1942 (da “Convogli” di Aldo Cocchia) |
30 maggio 1942
Alle 6.30, nel punto 37°26' N e 18°31' E (in Mar Ionio, un centinaio di miglia a sudest di Punta Stilo), il gruppo Da Recco-Allegri si unisce come previsto al convoglio «P», formato da un'altra moderna motonave, la Rosolino Pilo, partita da Taranto per Tripoli con la scorta del cacciatorpediniere Euro (capitano di fregata Giuseppe Cigala Fulgosi): si formò così un unico convoglio, il cui caposcorta è il Da Recco. (Per altra fonte la riunione sarebbe avvenuta il 29, poco dopo la partenza da Brindisi).
Di nuovo l'Allegri non obbedisce agli ordini trasmessi dal Da Recco, tanto che il cacciatorpediniere deve lasciare la propria posizione nella formazione per avvicinarsi sino a portata di voce e ribadire gli ordini al megafono, cui Cocchia aggiunge pesanti rimproveri. Non c'era altro verso di farsi ascoltare, ma Cocchia si sarebbe più tardi rammaricato della severità del suo rimprovero, vista la sorte poi toccata alla nave ed al suo equipaggio.
Le due motonavi e la relativa scorta viaggiano insieme fino alla sera del 30 maggio, seguendo la rotta orientale per la Libia e passando 200 miglia ad est di Malta ad una velocità di 15,5 nodi. Le rotte scelte per questa traversata sono alquanto differenti da quelle seguite di solito, al fine di rendere più difficile ai britannici – che in quel periodo hanno intensificato gli attacchi a mezzo di aerei e sommergibili nel Mediterraneo centrale – l'individuazione del convoglio.
Alle sei del mattino del 30 (per altra fonte, durante la notte) il convoglio, avendo ricevuto segnalazione della presenza di sommergibili nemici sulla propria rotta (direttrice Taranto-Bengasi) ed essendo cercato dalla ricognizione aerea, devia dalla rotta prestabilita – per ordine di Supermarina – al fine di eludere tali minacce.
Stavolta, però, «ULTRA» ha fatto cilecca: già dal 27 maggio, infatti, il servizio di decrittazione britannico ha segnalato che dal 25 l'Allegri stava caricando munizioni a Brindisi, ma in seguito non è riuscito a decifrare alcun altro messaggio utile su questo convoglio, e quando vi riuscirà, il 31, sarà troppo tardi per influire sugli eventi, ormai già giunti al termine. A scatenare gli attacchi sul convoglio è invece il suo casuale avvistamento da parte di un aereo britannico, alle 11.03 del 30 maggio.
Intanto, anche per la giornata del 30 maggio il convoglio ha sul proprio cielo alcuni aerei della Regia Aeronautica e del Corpo Aereo Tedesco (in numero in verità piuttosto esiguo) con compiti di scorta antisommergibili, come predisposto da Marina Messina. Comunque, durante la giornata non si verifica alcun evento degno di nota.
Alle 22.30 (per altra versione, alle 2.30 del 31) le motonavi, raggiunto un punto prestabilito a nord del Golfo della Sirte, si dividono nuovamente per raggiungere le rispettive destinazioni, ciascuna con un cacciatorpediniere, che sono però scambiati rispetto a prima della riunione: il Da Recco fa rotta per Tripoli con la Pilo, l'Euro per Bengasi con l'Allegri.
Durante la notte, il gruppo Euro-Allegri viene attaccato da aerei britannici e poi anche dal sommergibile Proteus: colpita da un siluro, la Gino Allegri salta in aria, lasciando soltanto una ventina di superstiti su circa trecento uomini a bordo. Così Cocchia descrive la sua fine in "Convogli": “Nella notte, poco prima dell'alba, ci separammo e, mentre il Da Recco proseguiva col Pilo per Tripoli, la «L», scortata dall'Euro, diresse per Bengasi. Non erano passati forse 20 minuti dalla separazione che, in direzione dell'Euro-«L», vedemmo chiari i segni di un attacco aereo. Lancio di bengala, rabbioso fuoco antiaereo e intorno una forte vampata della quale capimmo anche troppo bene il significato. Intercettammo subito dopo le comunicazioni radio con le quali Cigala informava Supermarina di essere stato attaccato da velivoli e che la «L» era saltata in aria. Aveva a bordo diverse migliaia di tonnellate di munizioni e, una volta colpita da una bomba, non potevano esserci dubbi sulla sua sorte”.
31 maggio 1942
Alle 4.25 Pilo e Da Recco (che la precede a 1-2 miglia compiendo ampi zig zag) vengono avvistate, in posizione 33°34' N e 18°30' E, dal sommergibile britannico Taku (capitano di corvetta Jack Gethin Hopkins), rispetto al quale si trovano a cinque miglia di distanza su rilevamento 230°. Il sommergibile si avvicina a tutta forza in superficie, poi alle 4.40 s'immerge e prosegue nell'avvicinamento, sempre alla massima velocità.
Alle 4.43 il Taku lancia tre siluri (un quarto non parte per un problema ad una valvola del tubo numero 6) contro la Pilo, la cui stazza è stimata da Hopkins in 7000 tsl, dall'eccessiva distanza di 5500 metri: la presenza del Da Recco gli impedisce di avvicinarsi di più.
Hopkins affermerà nel rapporto di aver avvertito una forte esplosione alle 4.51 e successivamente – dopo essere sceso in profondità subito dopo il lancio perché il cacciatorpediniere stava tornando indietro ed essere poi tornato a quota periscopica – di aver visto al periscopio bagliori e un po' di fumo su rilevamento 130° (nella direzione in cui si trova la Pilo), seguiti da una nuova, violenta e vicina esplosione da egli attribuita ad una bomba di profondità; in realtà nessuna nave è stata colpita, e l'attacco non è anzi nemmeno notato.
Da Recco e Pilo raggiungono indenni Tripoli alle 12.45.
4
giugno 1942
Da
Recco (caposcorta) e
Zeno partono
da Tripoli per Napoli alle 00.10, scortando le
motonavi Unione e Ravello.
5
giugno 1942
Il
convoglio giunge a Napoli alle 15.
Giugno 1942
Nella seconda settimana del mese il Da Recco passa cinque giorni fermo per alcuni lavori all'apparato motore. Questi sono già conclusi, e la nave è rifornita e operativa, quando giunge la notizia che un grosso convoglio britannico è in navigazione verso Malta: una forza navale italiana, unitamente ad aerei e sommergibili italiani e tedeschi, sarà inviata ad intercettarlo, dando inizio alla grande battaglia aeronavale di Mezzo Giugno. Secondo Aldo Cocchia, “sul Da Recco il desiderio di parteciparvi era vivissimo in tutti. Il nostro cacciatorpediniere, rimesso a nuovo, vibrava di uno spirito entusiastico che ci rendeva anelanti di misurarci col nemico (…) eravamo tutti convinti di aver fatto del Da Recco un buon strumento di guerra; ora volevamo paragonarlo nel confronto col nemico…”. Tuttavia, il Da Recco non è tra le navi scelte per far parte della forza navale inviata ad attaccare il convoglio britannico, e riceve invece ordine di cedere la sua nafta al gemello Ugolino Vivaldi, caposquadriglia della XV Squadriglia Cacciatorpediniere, che invece è tra esse. “Vedemmo uscire in mare per la battaglia tutti i cacciatorpediniere che erano a Napoli, noi soli restammo in porto, non ho mai capito il perché”.
14 giugno 1942
Il giorno successivo alla partenza da Napoli delle navi destinate a partecipare alla battaglia di Mezzo Giugno, anche il Da Recco viene fatto partire, ma diretto a Messina, con il compito di tenersi pronto ad uscire in soccorso ad eventuali navi danneggiate nel combattimento. Il suo intervento non sarà richiesto; mentre è all'ormeggio a Messina, il Da Recco ha la ventura di intercettare una colorita conversazione radio tra piloti britannici, che si accusano a vicenda per il fallimento di un attacco aerosilurante contro le navi italiane, così riassunta da Aldo Cocchia: “I siluranti accusavano i bengalieri di non saper fare il loro mestiere e questi, di rimando, imputavano a quelli di arrivare sempre troppo tardi”.
20 giugno 1942
Il Da Recco (caposcorta, capitano di vascello Aldo Cocchia) parte da Napoli per Tripoli alle 2.30 (per altra fonte alle 2 od alle 2.45) insieme al cacciatorpediniere Strale (capitano di corvetta Oderisio Maresca) ed alla torpediniera Centauro, scortando la motonave italiana Rosolino Pilo (che ha a bordo 2892 tonnellate di materiali vari, munizioni e materiali d'artiglieria, 25 tonnellate di carburante e lubrificante, un pontone da 554 tonnellate, 135 tra veicoli e rimorchi, quattro carri armati e 153 militari) e la tedesca Reichenfels (con a bordo 3671 tonnellate di munizioni, materiale d'artiglieria e materiali vari, 613 tonnellate di carburante e lubrificante, 241 tra automezzi e rimorchi e 137 uomini). Il convoglio segue una rotta, stabilita da Supermarina, che passa tra la Tunisia e l'isola di Zembra, passa a circa un miglio da Capo Bon e percorre il Canale di Sicilia, ad una velocità di 15 nodi; l'arrivo a Tripoli è previsto per le 21.30 del 21.
In questo caso “ULTRA” si attiverà in ritardo, riuscendo solo il giorno seguente ad intercettare e decifrare una comunicazione riguardo al convoglio, troppo tardi per influire sul corso degli eventi che comunque arrideranno egualmente ai britannici.
Dalle memorie di Aldo Cocchia: “…avevo un preciso presentimento che questa volta le cose non sarebbero andate bene. Presentimento (…) motivato (…) da un elemento positivo e tangibile: la composizione della scorta. Mi avevano assegnato il Centauro, buona torpediniera, e lo Strale, brutto cacciatorpediniere. Il comandante dello Strale, capitano di corvetta M[aresca], era stato per lungo tempo destinato a terra e pare che dovesse essere definitivamente escluso dal comando navale quando dal ministero, cedendo alle domande che egli, mosso da nobile impulso, aveva reiteratamente avanzate, finì col nominarlo comandante dello Strale. Era questa la prima missione che M. faceva con la sua unità e mi parve molto perplesso sin da quando lo convocai per la consueta riunione dei comandanti. A bordo aveva tutti ufficiali di complemento poco pratici e anche, a quanto potei capire, scarsamente affiatati fra di loro e con il comandante. (…) [Alla partenza da Napoli] lo Strale mi diede subito la misura delle sue scarse possibilità stentando ad uscire, accendendo il proiettore quasi per aprirsi una via, chiedendo infine più volte l'accensione dei fanali di via mentre, come è ovvio, dovevamo navigare a fanali spenti. La sua posizione era su uno dei fianchi del convoglio, ma ve lo vidi così incerto che lo mandai di poppa e ve lo tenni fino all'alba. In quella posizione non serviva a niente, ma almeno non poteva causare danni”.
21 giugno 1942
Fino alle 00.47 il convoglio mantiene la prua sul faro di Capo Bon (rotta vera 88°) con Da Recco in testa, seguito da Reichenfels al centro e Pilo in coda in linea di fila (la distanza tra Da Recco e Reichenfels è di mille metri, quella tra Reichenfels e Pilo di settecento), con lo Strale in scorta laterale sulla dritta e Centauro in scorta laterale sulla sinistra, a circa 700 metri dalle due motonavi. A quell'ora, come prestabilito, il comandante Cocchia ordina di passare a rotta vera 68° ed ordina allo Strale di accostare a sinistra ed accodarsi alla Pilo per non passare troppo vicino alla costa (anche sulla scorta della cattiva esperienza con questa nave la notte precedente); il cacciatorpediniere, tuttavia, accosta invece a dritta e, all'una di notte, s'incaglia sulle secche presso Ras el Ahmar, a 3 km dalla rotta che avrebbe dovuto seguire.
Saputo dell'accaduto (“[lo Strale] mi segnalò con la radio che era incagliato a Ras el Amar. Lì per lì non seppi assolutamente capire come fosse andato a finire su quella punta da cui il convoglio era distante almeno due miglia…”), Cocchia distacca la Centauro per assistere lo Strale (che non potrà essere disincagliato, ed andrà così perduto), informa Supermarina del tutto e poi prosegue con il solo Da Recco scortando Pilo e Reichenfels. Supermarina risponde ordinando a Marina Tripoli di inviare incontro al convoglio le torpediniere Circe e Generale Antonio Cantore in rinforzo alla scorta; Cocchia riterrà in seguito che il traffico radio intercorso tra Da Recco, Supermarina e Tripoli abbia permesso ai britannici di radiogoniometrare la sua posizione.
Sorto il sole, il tempo è bello, con ottima visibilità; in tarda mattinata vengono avvistati bassi sull'orizzonte alcuni aerei in volo verso il convoglio a bassa quota, e nel dubbio sulla loro nazionalità, Cocchia fa sparare alcuni colpi di cannone nella loro direzione, pur essendo essi fuori tiro. Subito gli aerei si sbandano e si allontanano; Cocchia concluderà che fossero probabilmente aerei da trasporto tedeschi.
Sempre in mattinata le tre navi, in navigazione nel Canale di Sicilia con una scorta aerea di tre velivoli (un bombardiere tedesco Junkers Ju 88, un aerosilurante italiano Savoia Marchetti S. 79 “Sparviero” ed un idrovolante italiano CANT Z. 501, quest'ultimo in funzione antisommergibili), vengono avvistate da ricognitori Martin Maryland del 69th Squadron, e ripetutamente attaccate dagli aerei britannici di base a Malta.
A mezzogiorno (le 12.55 per l'orario britannico, probabilmente avanti di un'ora causa il fuso orario) si verifica l'attacco più intenso, con ben nove aerosiluranti Bristol Beaufort del 217th Squadron della Royal Air Force, guidati dal maggiore scozzese Robert Gran Lynn (caposquadriglia); gli altri otto sono pilotati dai tenenti Arthur Harold Aldridge (inglese) e William Joseph Stevens (canadese), sottordini di Lynn, dal tenente R. B. E. Phillips, dal sottotentente Jim McSharry e dai sergenti William Dennis Smyth, Desmond William Fenton e Downe, ma uno di essi è dovuto tornare indietro prima di raggiungere il convoglio. Gli aerosiluranti sono scortati, per la prima volta, da sei caccia Bristol Beaufighter del 235th Squadron: tre, guidati dal maggiore Alec Ernest Cook, in scorta ravvicinata, e tre, al comando del maggiore William Charles Wigmore, per protezione ad alta quota. Non è stato però concordato un piano d'azione comune tra i Beaufort ed i Beaufighter, e tra gli equipaggi degli aerosiluranti c'è chi teme che la presenza dei caccia sulla loro verticale, più che essere d'aiuto, aumenti il rischio di essere localizzati dai radar (non possono sapere, ovviamente, che il Da Recco ne è sprovvisto) od essere avvistati da grande distanza, complice il cielo sereno e l'ottima visibilità.
Decollati dalla base maltese di Luqa alle 11.15, gli aerei britannici attaccano il convoglio – le cui navi sono disposte in linea di fila – dal lato sinistro, da una posizione leggermente a poppavia del traverso, con l'intenzione di lanciare contro entrambe le motonavi; volano a soli 10-15 metri di quota e sono divisi in tre sottogruppi di tre aerei ciascuno che procedono affiancati, con gli aerei di ogni sottogruppo in linea di fila. Il primo dei tre sottogruppi è guidato personalmente dal maggiore Lynn, il secondo dal tenente Aldridge (protagonista, appena sei giorni prima, del siluramento dell'incrociatore Trento durante la battaglia di Mezzo Giugno) ed il terzo dal tenente Stevens.
Quando gli attaccanti giungono ad un miglio di distanza, il Da Recco apre un violento e preciso tiro contraereo (lo stesso fanno anche Pilo e Reichenfels) ed abbatte dapprima il caposquadriglia degli aerosiluranti, che precipita in fiamme, e subito dopo altri due Beaufort: tutto il primo gruppo, quello del maggiore Lynn, viene spazzato via nel volgere di pochi attimi. I Beaufort abbattuti sono il W6052 del maggiore Lynn, l'AW342 del sergente australiano William Dennis Smyth (che rimane ucciso insieme ad altri tre dei cinque membri dell'equipaggio), ed il DD996 del tenente Phillips, che riesce invece ad ammarare e salvare così la vita dei suoi uomini, che verranno poi recuperati da unità italiane.
Da parte britannica si afferma che solo Lynn e Phillips furono direttamente abbattuti dal tiro del Da Recco, a circa un minuto di distanza l'uno dall'altro, mentre l'aereo di Smyth, che seguiva in formazione quello di Lynn, sarebbe stato accidentalmente colpito dal siluro staccatosi da quest'ultimo, oppure da quello sganciato dall'aereo del sergente Downs. Secondo Alfred Aldridge, Lynn fu colpito in pieno da un proiettile che lo uccise sul colpo, ed il suo navigatore, il sottotenente Reginald Dickinson, tentò inutilmente di prendere i comandi; l'aereo del caposquadriglia sbandò violentemente, costringendo il sergente Smyth a compiere una brusca virata per evitare una collisione (finendo così direttamente sotto l'aereo di Aldridge, contro il quale andò quasi a sbattere: avvertito dal suo mitragliere, questi prese precipitosamente quota per evitare a sua volta di entrare in collisione con il Beaufort di Smyth), perse il siluro e cadde in mare. Smyth, dopo aver evitato di stretta misura una collisione prima con Lynn e poi con Aldridge, andò addosso al siluro caduto dall'aereo del maggiore e “rimbalzato” sulla superficie del mare, riportando danni tali da precipitare in mare a sua volta. Più o meno nello stesso momento, Phillips venne abbattuto dal Da Recco.
Reginald Dickinson sopravvisse all'abbattimento dell'aereo di Lynn, insieme ai sergenti Tom Frith, il mitragliere, e George Horn, l'operatore radio. Così avrebbe ricordato, anni dopo, l'attacco e lo schianto: “Volavamo; il mare sembrava vuoto, l'acqua rifletteva l'immagine come un grande specchio dorato, ma all'improvviso vedemmo i mercantili... e anche i caccia. Scendemmo a 100 piedi [30 metri] per iniziare la cOrsa d'attacco. L'acqua e il cielo iniziarono a eruttare mentre navi e caccia cercavano di abbatterci mentre ci avvicinavamo al bersaglio, in stile classico, dritti ed allineati a 100 piedi, pronti a lanciare il nostro siluro. Spararono e per allontanarci dalla nave attraversammo gli aerei della radio. Ci fu uno schianto. L'aereo si riempì di fumo e Robert Lynn era morto ai comandi. Con le sue mani che ancora tenevano la barra di comando tirandola indietro, l'aereo prese quota mentre con l'equipaggio cercavo di staccarlo dai comandi e prendere il controllo. Per un momento sembrò esserci una quiete da cattedrale. Le navi erano a poppa, i caccia se n'erano andati e con loro il resto della nostra squadriglia. In qualche modo, riuscii ad afferrare i controlli. C'era qualcosa per cui essere grati. Stavamo ancora volando a circa 1000 piedi [300 metri]. Delicatamente girai l'aereo verso Malta, chiedendomi se ci fossimo mai arrivati, come sarei atterrato. Dopo cinque minuti di volo sapemmo che il ritorno a Malta era improbabile. Il nostro motore era in fiamme, le ali erano a pezzi, eravamo tutti feriti e l'aereo stava lentamente perdendo quota, ma continuava a volare. Come noi, sembrava aggrapparsi alla vita. Iniziammo ad andare in stallo. Abbassai il muso del Beaufort ed a 240 nodi abbiamo toccammo la superficie del mare. I controlli erano pesanti come il piombo. Il muso di perspex si ruppe, un grande muro di acqua di mare ci inghiottì e sembrò attutire l'impatto mentre venivo proiettato in avanti. Eravamo sotto dell'acqua verde e poi improvvisamente tornò la luce del sole. Dai loro posti, Tom il mitragliere e George l'operatore radio si spostarono verso la coda per uscire e rilasciare il canotto. La mia imbragatura era incastrata nel meccanismo dell'acceleratore, ma una memoria d'infanzia mi ricordò di non dimenarmi, e via via che l'acqua saliva all'altezza del petto, l'imbragatura galleggiò libera e strisciai fuori dall'abitacolo. Tom si era mosso velocemente. Fuori dall'ala aveva la mano sul rilascio contrassegnato con "Tirare per rilasciare il canotto". Tirò e la maniglia gli rimase in mano. Non ci sarebbe stato nessun canotto. Maledicemmo l'uomo che aveva fatto la giunzione difettosa. L'aereo si era stabilizzato e sapevamo che mancavano solo pochi secondi. Rapidamente noi tre sopravvissuti ci lanciammo lontani mentre affondava silenziosamente alla vista con Robert Lynn a bordo. Erano esattamente le 13:22, nel mezzo del Mar Mediterraneo ed a 90 miglia dalla terraferma più vicina. Ci raggruppammo insieme, gonfiammo i nostri Mae West [nomignolo dei giubbotti gonfiabili utilizzati dagli avieri della RAF, dal nome di una celebre attrice dell'epoca] e cercammo di esaminare le nostre ferite, e traemmo conforto dall'annuncio di Tom che poco prima che ci schiantassimo, aveva emesso un SOS”.
La furibonda reazione del Da Recco ha così scompaginato la formazione attaccante; oltre ai tre aerosiluranti abbattuti, altri due vengono danneggiati gravemente (per altra fonte sono tre i Beaufort danneggiati, ma dagli aerei tedeschi della scorta aerea, mentre altra versione accredita al Da Recco l'abbattimento di quattro aerei anziché tre), ma nonostante il violento fuoco contraereo gli aerei superstiti riescono egualmente a lanciare i loro siluri contro entrambe le motonavi.
Il tenente Aldridge avrebbe così ricordato quei momenti nelle sue memorie (“The Last Torpedo Flyers”): “…e potevo vedere quei proiettili che arrivavano dalle navi nemiche – non erano molto amichevoli, quei tedeschi [sic]. (…) Quando vidi il benvenuto che avevano preparato per noi sottoforma di quella terribile, apparentemente impenetrabile barriera di fuoco contraereo, fu il momento in cui la sentii. Quella sensazione di nausea, di vuoto nello stomaco, l'estraneo non desiderato – la paura. Tutto quel che potevo fare era continuare a volare, sapendo che i secondi a venire sarebbero stati profondamente spiacevoli. Mi infilai nel fuoco contraereo ad una velocità di 140 nodi. C'erano sbuffi di fumo dappertutto e compresi di essere adesso al suo interno. Chiuso dentro un muro di contraerea, che ci circondava, oscurando tutto. Sapevo che un oblio più definitivo poteva arrivare in qualsiasi momento. Non sentivo niente, neanche gli scoppi dei proiettili, perché avevo indosso le mie cuffie. Le esplosioni non scuotevano l'aereo, né lo invadevano con l'odore della cordite. Gli sbuffi di fumo, neri e grigi e tutt'intorno a noi, ci privavano quasi dei sensi. Eppure potevo vedere abbastanza da sapere perché avevo paura. Non potevano avvicinarsi di più, quegli scoppi, o saremmo morti”. Non aveva mai incontrato un tiro contraereo così intenso in vita sua.
Secondo Bill Carroll, mitragliere di Aldridge, “il tiro contraereo era grigio, scoppiava qui, là, tutt'intorno, ma almeno potevamo vederlo. I colpi che non vedi sono quelli che ti colpiscono. Questi tedeschi erano molto bravi. C'era una differenza enorme tra un mitragliere tedesco ed uno italiano. Questi erano mitraglieri tedeschi e sapevano cosa stavano facendo. Un crucco stava persino sparando colpi che rimbalzavano sulla superficie del mare, una cosa che non avevo mai visto nessuno fare prima. Dico, stavano sparando colpi deliberatamente in modo da farli rimbalzare contro la superficie del mare. Ero nella mia torretta e quando guardai avanti vidi che c'era contraerea dappertutto”. Il commento di Carroll sulla maggiore abilità dei mitraglieri tedeschi rispetto a quelli italiani risulta piuttosto ironico quando si considera che i “tedeschi” che gli stavano sparando addosso così bene erano in realtà gli italianissimi mitraglieri del Da Recco.
Uno degli ultimi siluri sganciati colpisce a prua (nella stiva numero 1) il Reichenfels, dopo aver corso con rotta quasi parallela a quella del mercantile tedesco, da poppa verso prua. Forse l'aereo siluratore è quello del tenente Aldridge, che ha sganciato la sua arma da 685 metri di distanza e 24 metri di quota; egli scriverà nelle sue memorie: “Superammo la barriera di tiro contraereo (…) Non so come ci ritrovammo ‘liberi', momentaneamente, ed a distanza quasi perfetta per il lancio del siluro. La nave mercantile stava compiendo manovre evasive, accostando in fuori verso dritta (…) ciò significava che non avrei dovuto mirare a proravia della nave per anticiparne il percorso, neanche leggermente. Mira alla nave e normalmente la mancherai perché non hai tenuto conto del suo movimento. Ma non questa volta. Questa era lenta, e dopo quel che avevamo passato, ero determinato a colpirla. Salii a quota compresa tra 60 e 80 piedi [tra 18 e 24 metri] e mirai alla prua (…) potevo puntare alla giugulare, al punto di massimo danno. Sarebbe stato perfetto. “È il momento giusto, Arthur. Qual è la tua distanza? Ottocento iarde [730 metri]… andato! Avevo premuto il pulsante (…) e sganciato il siluro da una distanza di circa 750 iarde [685 metri] dalla nave. (…) non c'era tempo per rimanere e vedere cosa sarebbe successo. La contraerea era ancora orrenda. Si trattava di rimanere vivi adesso. Ma ero scosso, e non stavo pensando lucidamente. Volevo soltanto andarmene. Volevo andarmene il più rapidamente possibile. Ero così scosso che feci una cosa stupida. Nelle manovre evasive, normalmente si serpeggia da un fianco all'altro. Questo è quel che avrei dovuto fare; intraprendere le solite manovre evasive, scendere a pelo d'acqua serpeggiando mentre mi allontanavo. Invece, come un idiota, mi feci prendere dal panico e mi inclinai a dritta; mi inclinai tanto che offrii un bersaglio migliore ad alcuni tedeschi [sic] molto arrabbiati. Non potevano mancarmi adesso… e non lo fecero. (…) Un'esplosione! Un'altra, una terza, ed una quarta! Eravamo stati colpiti da quattro proiettili di cannoncino; vidi delle scintille volare e sentii il mio aereo che andava fuori controllo. Un proiettile aveva colpito il timone verticale di dritta della coda, un altro l'estremità dell'ala di sinistra; ed un terzo aveva colpito il bordo anteriore dell'ala di dritta, mettendo fuori uso uno degli alettoni. I cavi di controllo degli alettoni di dritta erano stati tranciati, era probabilmente questa la causa della mia perdita di controllo. Il proiettile che aveva fatto più danni all'equipaggio aveva colpito uno dei contenitori delle munizioni che Aspinall aveva tolto dal suo gancio e messo sul pavimento. L'impatto del proiettile contro il contenitore aveva creato schegge dall'esplosione del bossolo, ed un pezzo mi aveva colpito. (…) Una scheggia era entrata nel mio avambraccio destro. Non era molto doloroso ma il sangue mi preoccupò per una frazione di secondo, finché non mi resi conto che non c'era tempo di preoccuparsi, perché sembrava che stessimo per cadere in mare. Eravamo a meno di 80 piedi [24 metri] dalle onde adesso. Ci saremmo finiti dentro. (…) Quando riuscii a tornare in rotta, volli verificare cos'era successo. “Asp, abbiamo messo a segno un colpo? Ero un po' troppo occupato a lottare con i comandi per sincerarmene”. “Sì! Ho visto il siluro esplodere sul lato sinistro della nave; ma la cosa divertente è che ci sono state due esplosioni” insisté Aspinall”.
Concluso l'attacco, gli aerei britannici invertono poi la rotta per andarsene; i tre aerei della scorta aerea del convoglio li attaccano (l'aereo del tenente Stevens viene attaccato da degli Ju 88), ma vengono tutti abbattuti dai Beaufighter (che rivendicano l'abbattimento di due Ju 88; per altra fonte avrebbero fatto parte della scorta aerea del convoglio anche due bimotori FIAT CR. 25, pilotati dal tenente pilota Pietro Rindone e dal maresciallo pilota Fabrizio Dori, che avrebbero rivendicato l'abbattimento di due Beaufort). Il tenente Aldridge, mentre il suo mitragliere gli sta medicando la ferita, vede un caccia tedesco attaccare un altro Beaufort e si avventa su di esso, costringendolo a rinunciare all'attacco.
Il pilota di uno dei Beaufort danneggiati, il sottotenente australiano Jim McSharry (aereo L9799), viene gravemente ferito alla giugulare da una scheggia (secondo fonti britanniche, durante lo scontro con i caccia della scorta aerea) e cede i comandi al suo navigatore, il connazionale sergente Alfred Leslie Augustinus; all'arrivo a Malta McSharry, indebolito dalla perdita di sangue e tenendo chiusa la ferita con una mano, riprenderà i comandi ed atterrerà con l'aiuto di Augustinus. Nonostante la gravità della ferita e della perdita di sangue, riuscirà a rimettersi completamente.
Anche l'aereo del tenente Aldridge riesce ad atterrare a Luqa nonostante i gravi danni subiti; Aldridge ricorderà nelle sue memorie l'estremo pallore dei volti dei suoi uomini quando scesero dall'aereo, dopo che avevano visto la morte in faccia nell'attacco al convoglio. Oltre a lui, un altro membro dell'equipaggio del suo Beaufort era rimasto ferito, anche se nessuno dei due in modo grave. Aldridge, che per ironia della sorte è di parziali origini italiane ed ha passato la sua infanzia in Italia (è nato vicino a Firenze, dove ha passato i primi nove anni della sua vita), riceverà per quest'azione la sua seconda Distinguished Flying Cross (“Il tenente Aldridge ha attaccato del naviglio in diverse occasioni e nonostante l'intenso tiro contraereo, ha ottenuto grandi successi. Durante tre attacchi in giugno, nel Mediterraneo, ha colpito una nave da guerra italiana, che è successivamente affondata, e ne ha messa un'altra fuori uso. Nell'ultima occasione il tenente Aldrige ha sfidato uno sbarramento di colpi estremamente violento”).
Con notevole ottimismo, i piloti britannici si attribuiscono ben cinque siluri a segno, due su ciascuna motonave ed uno sul Da Recco ad opera di uno degli aerei abbattuti. Similmente ottimista sarà la stima da parte italiana sul numero degli aerei nemici abbattuti, ritenuti essere ben sei.
Abbandonato ordinatamente dall'equipaggio e dalle truppe tedesche imbarcate, il Reichenfels affonda in un quarto d'ora, senza perdite umane. Si tratta della prima nave affondata dai Beaufort di Malta; sarà inoltre l'unico mercantile perso da Cocchia per attacco aereo durante il suo periodo di comando del Da Recco.
Aldo Cocchia descrive vividamente l'attacco aereo e l'affondamento del Reichenfels nelle sue memorie: “Alle 12 precise, dalla stessa direzione di prima, apparve un altro gruppo di aerei, anch'essi bassi sul mare, anch'essi puntati dritti su di noi. Pensai subito trattarsi di un nuovo gruppo di velivoli da trasporto ed esitai un istante a sparare, ma, quando li vidi persistere veloci nella rotta di avvicinamento, aprii contro di essi un intenso fuoco con tutti i sei cannoni da 120 dei quali il Da Recco era dotato. Fu un tiro magiStrale. Alla prima salva tre degli apparecchi precipitarono in mare, in fiamme; gli altri si aprirono un po', ma continuarono nella rotta di avvicinamento. (…) Continuai il rapido violento fuoco delle artiglierie da 20, mie e dei mercantili. Il fortunato tiro del Da Recco doveva però aver disorientato alquanto gli aerei attaccanti che non fecero la classica manovra sui due fianchi del convoglio, ma rimasero ammucchiati rendendo così il nostro fuoco ancora più efficace. Intanto avevo fatto accostare in fuori i mercantili e, col Da Recco, mi ero posto fra essi e gli aerei assalitori. In breve il mare non fu che una ragnatela di scie di siluri, mentre si facevano sempre più intensi la voce dei cannoni e il coro delle mitragliere contraeree del Da Recco, del Pilo, del Reichenfels. I due velivoli di scorta si gettarono brillantemente nella mischia, ma furono in pochi secondi abbattuti entrambi dagli apparecchi inglesi che ora, dopo aver lanciati i siluri, sorvolavano le unità navali per spezzonarle. Sotto il tiro delle nostre artiglierie però altri aerosiluranti si incendiavano l'uno dopo l'altro e precipitavano in mare rigando di rosso il cielo tutt'intorno a noi. I due piroscafi navigavano accoppiati volgendo la poppa al teatro dell'azione, il Da Recco aveva evitato qualche siluro e tutto sembrava terminato felicemente quando un siluro, proveniente da poppa con rotta quasi parallela a quella dei piroscafi, colpì il Reichenfels nella stiva di prora. Ebbi l'impressione che una maggior prontezza di manovra da parte del comandante germanico avrebbe permesso di evitare il siluro, magari a rischio di una collisione col Pilo, ma in questi casi è molto difficile, per chi sta al di fuori, giudicare esattamente. Dei 14 aerei attaccanti ben 6 [sic] erano stati abbattuti (…) Tutta l'azione era durata esattamente due minuti (…) Il Reichenfels prese di colpo un certo appruamento per l'acqua che aveva fatto irruzione nell'interno attraverso lo squarcio del siluro, ma poco, solo qualche grado, poi il movimento si arrestò e il piroscafo rimase fermo, immobile sul mare, lievemente sbandato. Sembrava dovesse sopravvivere: si ebbe la sensazione che le paratie reggessero la pressione che esercitava il mare (…), pareva che fosse possibile salvarlo. Chiamai più volte col radiotelefono in ultracorte, sia perché volevo conoscere l'esatta situazione del piroscafo, sia per dare ordine che fosse tentata qualche manovra intesa a tamponare la falla e a puntellare, dalle stive adiacenti, le paratie del locale allagato, ma nessuno rispose. I radiotelegrafisti avevano abbandonato il posto e, del resto, l'intero equipaggio cominciava già ad abbandonare la nave. Si vedeva che il comandante considerava il piroscafo ormai perduto. Il tempo era il migliore che si potesse desiderare, cosicché il personale del piroscafo non ebbe nessuna difficoltà a mettere in mare tutte le imbarcazioni e a scendervi piuttosto rapidamente, per quanto senza disordine. Alcuni si gettarono direttamente in acqua facendo affidamento sulle cinture di salvataggio. Mi avvicinai col Da Recco al Reichenfels per tentare un rimorchio e perché volevo trasbordarvi mio personale che cercasse di fare quant'era possibile per salvarlo, ma, proprio quand'ero giunto a pochi metri dalla nave ferita, l'appruamento del piroscafo prese ad accentuarsi, dapprima lentamente, poi con rapidità sempre maggiore. Le paratie si erano evidentemente sfondate ed ora si andava allagando la stiva numero due. Non c'era più niente da fare se non allontanarsi un po' col Da Recco per evitare che il piroscafo nell'affondare, il che ormai appariva inevitabile, avesse a causarmi qualche grosso guaio, e disposi a salvare la gente che era in mare impiegando allo scopo anche la motobarca del Da Recco (…) nel frattempo vari natanti del Reichenfels, Lance, zattere, zatterini, battellini, si avvicinavano per conto loro al mio cacciatorpediniere, lo circondavano da ogni parte, l'abbordavano mentre coloro che erano in acqua nuotavano verso di noi o verso la motobarca. La temperatura era mite, il mare perfettamente calmo, tutto procedeva molto disciplinatamente senza che nessuno si agitasse o desse segni d'impazienza; senza grida, senza invocazioni di aiuto. La mia motobarca faceva la sPola fra i vari gruppetti di naufraghi e da tale imbarcazione e da quelle del piroscafo i germanici montavano a bordo del Da Recco, si distendevano in coperta, si sistemavano come potevano. La prua del Reichenfels era ormai ricoperta dal mare; l'irruzione dell'acqua si faceva sempre più violenta nei vari locali interni dai quali scacciava con forza l'aria che sfuggiva, attraverso le connessure dei boccaporti, con un acuto sibilo quasi la nave ansimasse nelle strette dell'agonia. Dal di fuori seguivamo le fasi dell'affondamento minuto per minuto, con la gola chiusa, i lineamenti tirati, la bocca arida, come si assiste agli ultimi istanti di una persona cara. Vedemmo l'acqua giungere al ponte di comando mentre la poppa si sollevava lentamente e la prua s'immergeva sempre più fino a toccare il fondo del mare che, in quel punto, era di circa 40 metri. Lo scafo rimase allora un istante come in bilico, poi, facendo perno dove aveva toccato, si abbatté adagio su un fianco. Dalla coperta, portati dalla spinta di galleggiamento, si staccarono alcuni grossi carri cisterna che poi rimasero abbandonati sul mare. D'un tratto un urlo gutturale, aspro, prima sommesso, poi sempre più possente – dominante su tutti i rumori che ci circondavano – alla fine rauco, strozzato. La massa di aria, racchiusa nello scafo, sfogava attraverso il fumaiolo e le tubolature della sirena: il grosso piroscafo ci diceva il suo addio con voce che sembrò non di cosa, ma ruggito di belva uccisa che, prima di spirare, si ribelli alla sua sorte. Scomparve il fumaiolo, la superficie del fianco emerse pian piano, poi la linea del mare fu rotta soltanto da un rapido affiorare di bolle di aria. Più nulla”.
Da notare che le fonti britanniche affermano che la Reichenfels, carica di munizioni, sarebbe affondata con una “spettacolare esplosione”, affermazione in realtà priva di fondamento.
La Pilo prosegue da sola verso Tripoli, mentre il Da Recco recupera tutti gli uomini imbarcati sulla nave tedesca, 246 (nel ricordo di Cocchia, circa trecento, sistemati in “ogni spazio disponibile, dal ponte di coperta alla plancia, dagli alloggi alla stazione direzione del tiro, ovunque fosse un buco disponibile, tanto da darmi l'impressione che a bordo non ci sarebbe entrato neppure un uomo in più”), ed alcuni superstiti degli aerei abbattuti: i quattro uomini dell'equipaggio dello Ju 88 abbattuto dai Beaufighter, l'unico sopravvissuto del Beaufort di Smyth (il sergente australiano Keith Howard Lugano Dodd, navigatore dell'aereo abbattuto; secondo Dodd anche un altro membro dell'equipaggio di questo velivolo, il sergente Fred Heaton Walls, sarebbe inizialmente sopravvissuto, per poi morire in ospedale a Tripoli il 26 giugno per le ustioni riportate) e tutto l'equipaggio di quello di Phillips, che è riuscito ad ammarare (secondo le memorie di Cocchia, gli avieri nemici recuperati dal Da Recco furono soltanto due, un canadese ed un neozelandese, mentre altri furono recuperati dalla nave soccorso Laurana inviata da Tripoli, ed un idrovolante italiano salvò i superstiti dell'S.M. 79 abbattuto). Il pilota dello Ju 88 regala a Cocchia il suo salvagente (“…che però, grazie a Dio, non ho poi mai avuto occasione di adoperare”) in segno di gratitudine.
Ultimati i soccorsi, il Da Recco lascia la zona (“sul mare galleggiavano numerosi rottami di aerei e molti materiali che emergevano a poco a poco dal Reichenfels. Fra gli altri, i magnifici carri cisterna che piangeva il cuore dover lasciare così (…) anche le Lance e le zattere di salvataggio che non potei mettere sul Da Recco per ragioni di tempo e di spazio (…) ma c'era già chi pensava a trarne profitto. Non eravamo infatti ancora andati via che numerose imbarcazioni tunisine venivano dalla vicina costa verso i relitti per far bottino. Per le popolazioni rivierasche i tragici avvenimenti ripetutamente svoltisi in quello specchio di acqua devono aver costituito una specie di inesauribile miniera”) e raggiunge la Pilo, con la quale arriva a Tripoli alle 20.40 dopo che le due navi sono state raggiunte, nell'ultimo tratto, da Circe e Cantore, salpate da Tripoli alle sei del mattino.
Il comandante Cocchia verrà decorato con la Medaglia di Bronzo al Valor Militare, con motivazione: "Comandante di silurante, di scorta a convoglio, durante violento e prolungato attacco di numerosi aerosiluranti e bombardieri nemici, manovrava con sereno ardimento e perizia per meglio intervenire con le armi di bordo nella reazione contraerea, contribuendo all'abbattimento di sei velivoli. Si prodigava poi nell'opera di soccorso ai naufraghi di un piroscafo colpito da siluro, traendo in salvo numerose vite umane".
I tre superstiti dell'aereo di Lynn, il sottotenente Dickinson ed i sergenti Frith ed Horn, vanno alla deriva per tutta la notte: Frith, che è ferito, muore prima dell'alba. Horn e Dickinson vengono salvati dopo ventiquattr'ore in acqua dal fischietto da arbitro di Horn, che il giorno prima della missione ha fatto da arbitro in una partita a calcio tra avieri: il giorno seguente, quando avvistano una piccola imbarcazione italiana inviata a cercare i superstiti di un aereo italiano abbattuto, Horn riesce ad attirarne l'attenzione grazie al fischietto, che aveva ancora in tasca. I due passeranno il resto della guerra in un campo di prigionia; il corpo di Frith, portato a riva dalle onde quasi 40 giorni dopo ed identificato grazie alla piastrina, sarà sepolto dalle autorità italiane a Tripoli. Reginald Dickinson racconta così le ventiquattr'ore passate in acqua dopo l'abbattimento dell'aereo: “Il pomeriggio si trasformò in sera, il vento aumentò, le onde diventarono più alte e poi un idrovolante della Croce Rossa volò subito sopra di noi. Sembrava così vicino. Lo salutammo con le mani. Gridammo, ma proseguì per la sua strada. Poi venne la notte. Era freddo e buio. Forse non eravamo così lontani dalla terraferma come pensavamo. Riuscivamo a vedere le luci, ma era difficile vederci, quindi con le corde dei nostri Mae West ci legammo insieme. Nessuno si sarebbe perso durante la notte. Non ci fu conversazione. Sembrava inutile parlare e la piccola ruota di corpi si spingeva lentamente verso il miraggio della luce che tremolava all'orizzonte. Faceva più freddo, ma l'acqua salata era un balsamo per le ferite. Poi sorse la luna e tutto divenne argentato. Per la prima volta da molte ore potevamo rivederci, ma Tom era sdraiato. Era morto silenziosamente durante la notte. Senza una parola lo slegammo e guardammo il suo corpo fluttuare lentamente via mentre sguazzavamo verso... il nulla. Quando venne il mattino, avevamo compagnia. Un fumogeno galleggiante giallo e verde proveniente dall'aereo. Tutto il nostro nuoto era stato inutile, eravamo trasportati dalla corrente e come noi anche il fumogeno galleggiante. Il mare avrebbe deciso la nostra destinazione. Il sole sorse e il nostro morale andò migliorando. Forse l'SOS era arrivato, forse qualcuno ci avrebbe visto. Ma si poteva davvero crederci quando a perdita d'occhio non c'era altro che mare? Mi ricordai di una battuta della Ballata del Vecchio Marinaio. Il sole sorgeva, faceva più caldo, il cielo era azzurro e noi aspettavamo, tenuti a galla dalle nostre Mae West, come se fossimo sedute su due poltrone. Non aveva senso cercare di nuotare da nessuna parte, la corrente era al comando. Il giorno passava e il sole diventava più caldo e la mente cominciava a vagare. “Qualcuno potrà immaginare dove sono ora? La squadriglia ci ha dati per morti?” Sembrava inutile essere ottimisti, ma poi pensai “Se devo morire, perché aspettare? Cosa c'è di peggio di un'esperienza lunga e protratta che deve inevitabilmente finire con la morte?” L'unica cosa che mi teneva in vita era il Mae West. Se l'avessi sgonfiato, avrei continuato a nuotare finché le forze non fossero venute meno. Perché non bere acqua di mare, poi sgonfiarlo e affondare? Provai a bere acqua di mare. Sembrava placare la mia sete, e all'improvviso l'idea di bere sempre di più sembrò una buona idea. George, a pochi metri da me, nel bel mezzo di questo enorme palcoscenico di mare aperto, fu improvvisamente preso dai suoi pensieri. Dalla tasca della tunica estrasse delicatamente una foto della sua fidanzata, Alice. Un litigioso corteggiamento aveva quasi messo fine alla loro storia d'amore prima che lui lasciasse l'Inghilterra. George solennemente ed a 90 miglia dalla terraferma iniziò a parlare con Alice. "Tornerò", disse e la conversazione andò avanti. Era con Alice e all'improvviso bere acqua di mare non sembrò una buona idea e ricominciammo a parlare. George mi disse dei suoi progetti di sposarsi, se mai avesse superato la guerra. Stavamo ancora parlando di Alice quando, in lontananza, vedemmo un movimento. Poteva essere una nave? Lo era. Di che tipo, non riuscimmo a capirlo. Ci avrebbe visti? Sembrava allontanarsi, poi tornò verso di noi. Si avvicinò un po' ma sembrava ancora una barca giocattolo. Con le poche forze che ci erano rimaste salutammo e gridammo ma di nuovo cambiò rotta, allontanandosi da noi, e poi George si ricordò. Tirò fuori un fischietto dalla tasca e soffiò. Era stato solo il giorno prima, dopo la sua inevitabile partita di calcio, che qualcuno gli aveva detto di tenersi il fischietto: "Era stato l'arbitro più schifoso che avesse mai visto!" George soffiò e soffiò e soffiò e all'improvviso la nave si stava dirigendo verso di noi. C'erano voci, voci italiane. Erano passate solo 24 ore da quando ci eravamo schiantati”.
Sopra, recupero del pilota dell’aerosilurante abbattuto da parte del Da Recco (da “Convogli” di Aldo Cocchia); sotto, salvataggio dei naufraghi del Reichenfels (da “Focus”, via www.pietrocristini.it)
3 luglio 1942
Il Da Recco (caposcorta) e la torpediniera Lince partono da Tripoli a mezzogiorno per scortare a Brindisi le motonavi Sestriere e Vettor Pisani.
4 luglio 1942
Alle 14 la scorta viene rinforzata dalla torpediniera Calatafimi. Verso le 19 le navi si uniscono al convoglio «M» (motonave Rosolino Pilo, torpediniere Castore, Polluce, Pegaso ed Antares) partito da Bengasi, del quale entrano a far parte; il Da Recco assume il ruolo di caposcorta del convoglio unico così formato.
5 luglio 1942
Alle 7 si unisce alla scorta la torpediniera Sagittario; alle 8.30 si aggrega al convoglio anche il cacciatorpediniere Giovanni Da Verrazzano, che lo lascia però dopo tre ore. In base a disposizioni prestabilite, Polluce e Sagittario lasciano la scorta rispettivamente alle 24 del 5 ed alle 5.30 del 6, per andare l'una a Patrasso e l'altra a Taranto.
6 luglio 1942
Il convoglio giunge a Brindisi alle 14.
È con ogni probabilità riferito a questo viaggio il seguente passaggio delle memorie di Aldo Cocchia: “Una volta (…) alla scorta ai miei ordini furono aggiunte in mare ben cinque siluranti che non sapevo nemmeno da chi fossero comandate e, poiché alcune di esse avevano gravi deficienze nei mezzi di comunicazione, ci volle del bello e del buono prima di riuscire a metterle a posto e prima di far loro intendere quello che volevo che facessero. In genere i comandanti di siluranti erano buoni e sapevano da loro quel che dovevano fare e capivano al volo gli ordini e i segnali e le situazioni (…) Tutto dipendeva dalla fortuna del capo scorta: se si era fortunati si avevano alle dipendenze tutti ottimi o buoni comandanti, in caso contrario piovevano tra capo e collo topi d'ufficio, individui che soffrivano il mal di mare soltanto a vedere una cartolina illustrata del Golfo di Napoli e peggio. (…) Dei cinque comandanti che mi raggiunsero in mare, tre erano ottimi, uno buono, ma uno ce n'era che sarebbe stato benissimo in un archivio o sulla burocratica poltrona di un ufficio o in qualunque posto che non fosse il ponte di comando di una torpediniera. Appena giunto a portata di segnale iniziò una segnalazione fitta fitta per chiedere delucidazioni e per dare pareri non richiesti e per dirmi quale era la sua autonomia e via di seguito il tutto con segnali così prolissi come non li avrebbe fatti nemmeno un usciere del Ministero della Marina, senza mai dimenticare né il numero di protocollo, né il «con riferimento a…». Avevo 10 unità in mare e se tutti avessero fatto come lui l'intero stato maggiore del Da Recco non avrebbe potuto occuparsi di altro che dei segnali delle unità dipendenti e forse non sarebbe stato neanche sufficiente. Dovetti metterlo a tacere con un secco: «Non fate segnali inutili», e allora si vendicò non tenendo più il suo posto in formazione nonostante i continui richiami e alla fine, giunto in porto, andò pure a protestare. Alla larga da simili individui!”.
12 luglio 1942
Il Da Recco (caposquadriglia, capitano di vascello Aldo Cocchia) ed il Da Verrazzano (capitano di fregata Carlo Rossi) partono da Brindisi alle 14.30 (14 per altra fonte), in missione di trasporto di 468 militari della Regia Marina e della Milizia di Artiglieria Marittima diretti in Libia: il Da Recco, in particolare, ha a bordo 250 uomini della Marina che deve portare a Tobruk, da poco riconquistata, mentre il Da Verrazzano ha a bordo 218 tra uomini della Marina e della Milmart diretti a Bengasi. Le due navi hanno inoltre a bordo oltre a 50.000 razioni di provviste (equamente distribuite in egual numero tra le due unità) destinate alla VIII Divisione Navale, stanziata a Navarino, dove faranno scalo intermedio per consegnarle.
Dalle memorie di Aldo Cocchia: “Navigare senza il peso di un convoglio rappresentava per noi un simpatico diversivo da tutti salutato con gioia, anche se il caccia era pieno fino all'inverosimile di uomini, di sacchi e di cassette di viveri. Si navigava ad alta velocità, si facevano esercitazioni, ci prendevamo dei lussi che, quando c'erano i piroscafi, non potevamo assolutamente permetterci”.
13 luglio 1942
Da Recco e Da Verrazzano giungono a Navarino alle 7.30 (7.25 per altra fonte), consegnando le 50.000 razioni alla VIII Divisione. Alle 15 i due cacciatorpediniere ripartono per la Libia, procedendo a 21 nodi e zigzagando fino al tramonto. A mezzanotte si dividono, dirigendo l'uno (Da Recco) per Tobruk e l'altro (Da Verrazzano) per Bengasi.
14 luglio 1942
In navigazione ad alta velocità sulla rotta di sicurezza che porta a Tobruk, il Da Recco urta qualcosa con un'elica; l'urto (“più che di un urto si era trattato di un leggero sfregamento”) appare però di entità trascurabile, e le macchine continuano a funzionare regolarmente. La nave prosegue quindi normalmente e giunge a Tobruk alle 10.
Così Aldo Cocchia descrive la devastazione di Tobruk, martoriata dai bombardamenti e da due battaglie con annesse distruzioni operate dai difensori prima di capitolare: “La città e il porto erano sconvolti, rovinati, semidistrutti (…) Non un edificio che non fosse in pezzi. Dappertutto ammassi di macerie al punto che non si capiva come uomini potessero viverci e operare. Nel porto relitti di ogni genere semiaffondati dalle acque e qua e là grovigli di reti, di boe, di gavitelli. Nell'angolo nordoccidentale della rada l'enorme ammasso rugginoso dei resti del San Giorgio sul quale ancora si ergevano i cannoni antiaerei da 100. Lungo le pendici della costiera centinaia, forse migliaia di automezzi semidistrutti alcuni, altri ancora in buono stato, abbandonati tutti. Spettacolo orrendo di rovina e di distruzione”.
Sbarcati i marinai, il Da Recco riparte a mezzogiorno, ricongiungendosi col Da Verrazzano (a sua volta ripartito da Bengasi) alle 19.30 (19 per altra versione) dopo di che entrambi proseguono in sezione a 20 nodi, zigzagando di giorno. Il Da Recco viene tuttavia colto da una grave avaria all'evaporatore della macchina di prua: a causa del malfunzionamento di una valvola di sicurezza, all'interno dell'evaporatore si forma una sovrapressione che aumenta fino a provocarne lo scoppio. Con una motrice fuori uso, il Da Recco prosegue alla volta di Taranto assistito dal Da Verrazzano.
16 luglio 1942
I due cacciatorpediniere arrivano a Taranto all'una di notte. Qui il Da Recco entra in Arsenale per esaminare i danni all'evaporatore ed anche quelli causati dall'urto con l'elica al largo di Tobruk: i tecnici dell'Arsenale concludono che sia necessario sostituire sia l'evaporatore che l'elica. Mentre per quest'ultima operazione basteranno tre giorni in bacino di carenaggio, per rimpiazzare l'evaporatore e riparare i danni alla macchina di prua occorrerà circa un mese.
Mentre il Da Recco è fermo per questi lavori, viene condotta un'inchiesta sia sull'avaria alla macchina che sull'urto con l'elica; a condurla è, nelle parole di Cocchia, “un saccente ammiraglio, autore di soporiferi libri di etica navale”. Il comandante del Da Recco, pur sottolineando la naturalezza dell'inchiesta in sé, lamenta nelle sue memorie l'insistenza e la pignoleria dell'innominato alto ufficiale, che per un episodio minore come l'urto all'elica interrogherà a più riprese pressoché tutto l'equipaggio, presenterà questionari, chiederà promemoria e trascinerà le indagini per oltre un mese, oltre la fine dei lavori, tanto che al rientro a Taranto nelle successive missioni “ogni volta che rientravamo in quel porto vedevamo agitarsi innanzi a noi lo spettro dell'inchiesta impersonata in quel tale ammiraglio”.
14 agosto 1942
Il Da Recco (capitano di vascello Aldo Cocchia) e la torpediniera Polluce (tenente di vascello Tito Livio Burattini) partono da Taranto alle 3.30 scortando la motonave Ravello, diretta a Bengasi. Alle 10.30, al largo di Leuca, le navi si congiungono con un secondo convoglio, proveniente da Brindisi e diretto anch'esso a Bengasi, composto dalla motonave Lerici scortata dalle torpediniere Castore (tenente di vascello Gaspare Tezel) e Calliope (capitano di corvetta Paolo Cocchi). L'unico convoglio così formato, sotto il comando del capitano di vascello Cocchia, segue le coste della Grecia occidentale, tenendosi molto ad est di Malta. Tutte le navi della scorta sono munite di ecogoniometro.
Lerici e Ravello hanno complessivamente a bordo 3184 tonnellate di munizioni, materiale d'artiglieria e materiali vari, 3602 tonnellate di carburanti e lubrificanti, 216 tra automezzi e rimorchi, un carro armato, quattro motolance e 197 militari del Regio Esercito.
Già da qualche giorno, ben prima della sua effettiva partenza, il convoglio è però oggetto delle attenzioni di “ULTRA”: il 10 agosto i decrittatori britannici hanno informato i loro comandi al Cairo che Lerici e Ravello sarebbero dovute partire rispettivamente da Brindisi e Taranto per riunirsi in mare alle 10.30 del 12, e che ad esse si sarebbe poi unita anche la motonave Foscolo (che si trovava al Pireo) per raggiungere Bengasi alle 8 del 14; dopo che la partenza del convoglio è stata posticipata di ventiquattr'ore, il 12 agosto “ULTRA” ha comunicato che la partenza di Lerici, Foscolo e Ravello è stata ritardata fino a nuovo ordine, ed il 14 ha precisato che Lerici e Ravello sarebbero partite quel giorno, con arrivo previsto a Bengasi alle 8 del 16 agosto, indicando anche i dettagli della rotta che devono seguire.
15 agosto 1942
Verso le 16 il convoglio viene avvistato da ricognitori britannici, inviati sia per “coprire” l'operato di “ULTRA” che per ottenere un ultimo aggiornamento sulla posizione del convoglio; gli aerei ne segnalano la posizione al comandante della 10th Submarine Flotilla di Malta (capitano di vascello George Walter Willow Simpson, detto “Shrimp”), che a sua volta invia ad incontrarlo il sommergibile Porpoise (tenente di vascello Leslie William Abel Bennington), in agguato poco lontano. Supermarina intercetta e decifra a sua volta i messaggi dei ricognitori britannici ed invia al caposcorta due messaggi urgenti PAPA (Precedenza Assoluta sulle Precedenze Assolute) per avvisarlo di essere stato scoperto da ricognitori, ma ciò non basterà ad impedire l'attacco.
Il Porpoise avvista un oggetto dritto di prora alle 17.54, e s'immerge per poi iniziare ad avvicinarsi: alle 18.08 avvista le navi del convoglio, dapprima le due motonavi e dopo qualche minuto la scorta navale (che identifica, erroneamente, come quattro cacciatorpediniere classe Navigatori) e due velivoli della scorta aerea. Lerici e Ravello procedono in linea di fronte ad una distanza di circa 900 metri tra di loro, mentre le unità della scorta sono disposte intorno ad esse a mezzaluna (le siluranti “esterne” sono a circa 1350 metri di distanza al traverso dei mercantili, quelle “interne” circa 900 metri a proravia del convoglio ed a 1800 metri di distanza); Bennington stima la rotta del convoglio come 210°, e la velocità in 11 nodi. Alle 18.12, calata la distanza a circa 4600 metri, Bennington decide di portarsi in una posizione tra i due mercantili e di attaccare la motonave di sinistra (la Lerici, di cui ha stimato la stazza in 7000 tsl); alle 18.18 il Porpoise accosta per 120° e si avvicina alla Lerici con rotta perpendicolare, ed alle 18.24 accosta per 100°, mentre una nave della scorta (la silurante interna di dritta) gli passa di poppa a soli 365 metri di distanza.
Bennington decide di attaccare con un angolo di 70°, per evitare di essere speronato dalla motonave di dritta. Alle 18.28, all'imbrunire, il Porpoise lancia due siluri contro la Lerici, in posizione 34°45' N e 21°32' E (fonti italiane riportano invece la posizione come 34°50' N e 21°30' E, circa 120 miglia a nord di Ras Aamer, o 34°42' N e 21°35' E, cento miglia ad ovest/sudovest di Creta; per fonte ancora differente, 140 miglia ad ovest di Creta) per poi scendere a 24 metri e ritirarsi su rotta 230° alla massima velocità.
Tutte le unità della scorta sono munite di ecogoniometro, ma nessuna di essa rileva la presenza del Porpoise: a lanciare l'allarme antisommergibili è la Ravello, che ha avvistato una scia di siluro. Questa motonave riesce ad evitarlo con pronta manovra, ma la Lerici non è altrettanto svelta ed alle 18.30 viene colpita da un siluro (o forse anche due) a poppa, e rimane immobilizzata pur mantenendo una buona galleggiabilità. Sperando di poterla salvare, dopo aver comunicato l'accaduto a Supermarina ed al Comando della VIII Divisione Navale a Navarino il comandante Cocchia ordina alla Calliope di prenderla a rimorchio ed alla Polluce di dare la caccia al sommergibile (getterà in tutto una sessantina di bombe di profondità, ma senza risultato, sebbene abbia l'impressione di averlo danneggiato) e poi di assumere la scorta di Lerici e Calliope, dopo di che Da Recco e Castore proseguono per Bengasi scortando l'illesa Ravello.
La Lerici, le cui condizioni peggiorano durante la notte a causa di un violento incendio divampato a prua e rapidamente estesosi al resto della nave, dovrà infine essere finita l'indomani da una delle unità inviate in aiuto da Navarino (il cacciatorpediniere Mitragliere, arrivato con il gemello Bersagliere), non essendo più possibile salvarla.
16 agosto 1942
Da Recco, Castore e Ravello arrivano a Bengasi alle 8.30; alle 15 Da Recco (caposcorta, capitano di vascello Aldo Cocchia) e Castore ne ripartono per scortare, insieme al cacciatorpediniere Saetta ed alla torpediniera Orione, le motonavi Nino Bixio e Sestriere che rientrano in Italia con 2800 prigionieri di guerra ciascuna.
17 agosto 1942
Alle 15 il sommergibile britannico Turbulent (capitano di fregata John Wallace Linton) avvista a 12.800 metri su rilevamento 160° il convoglio, scortato anche da diversi aerei.
Il battello britannico è incappato nel convoglio mentre cercava la Lerici, che un messaggio trasmesso da Alessandria d'Egitto la sera precedente dava come danneggiata in posizione 35°07' N e 21°005' E ed in corso di rimorchio verso Navarino (i britannici non sapevano ancora che era affondata); inoltre è stato informato anche dell'arrivo da sud del convoglio Bixio-Sestriere, del quale i comandi britannici hanno appreso tramite le decrittazioni di “ULTRA” (pur sapendo che le due motonavi sono cariche di prigionieri, hanno inviato il Turbulent ad attaccarle).
Diversi messaggi relativi al convoglio sono stati intercettati e decifrati dai decrittatori britannici nei giorni precedenti (fin dal 7 agosto, ben prima della sua effettiva partenza), in particolare quello delle 21.04 del 16 agosto e quello dell'1.17 del 17 agosto, che riferivano che il convoglio riceverà una scorta aerea, e che fornivano dettagli sulla rotta da seguire (partenza da Bengasi alle sette del 16 agosto, velocità 17 nodi; il convoglio deve passare nei punti "Imeriza" alle 20 del 16, "Gomma" all'una del 17, "Distanza" alle 13.30 del 17 e "Niente" alle 22.45 del 17, per poi seguire rotte costiere, con arrivo previsto per le tre del 18 agosto).
Da queste decrittazioni i comandi britannici hanno appreso anche della presenza, su Bixio e Sestriere, di prigionieri Alleati; il messaggio dell'1.01 del 17 agosto, in particolare, riferiva tra l'altro che "Bixio and Sestriere are carrying prisoners".
Il Turbulent ha ricevuto ordine di pattugliare le acque al largo di Navarino per intercettare due convogli segnalati da “ULTRA”, che devono passare in quella zona; il primo messaggio inviato da Alessandria (dal Senior Submarine Officer Alexandria), trasmesso alle 9.20 e ricevuto sul Turbulent alle 12.05 del 16 agosto, lo ha avvisato di «due grosse navi in partenza da Bengasi», cioè Bixio e Sestriere, e Linton ha stimato che se poco dopo il tramonto le due navi avessero cambiato rotta per risalire il Mar Ionio, il suo sommergibile le avrebbe potute agevolmente intercettare a sud di Navarino. Ha quindi ordinato di cambiare rotta per andare ad intercettare il convoglio segnalato, ritenendo che le sue probabilità di successo in questo tentativo sarebbero state superiori a quelle di incontrare naviglio nemico imboccando il canale di Cerigotto. Poco più di un'ora dopo, alle 13.13, il Turbulent ha ricevuto un messaggio delle 11.46 che gli ordinava di pattugliare le acque al largo di Navarino senza fornire spiegazioni sul perché. Alle 20.30 il Turbulent è emerso ed ha fatto rotta per Navarino.
All'1.15 del 17 agosto il Turbulent ha ricevuto un nuovo messaggio, trasmesso da Alessandria alle 19.25 della sera precedente, relativo ad una «nave danneggiata rimorchiata da due cacciatorpediniere, alle 16.30 [15.30 ora italiana] del 16 in [posizione] 035°07' [N] 021°005' [E] [velocità] 4-6 nodi, probabilmente diretta a Navarino. Procedete per intercettarla a vostra discrezione»: la Lerici. Intuendo correttamente che la nave stesse venendo rimorchiata verso Navarino e non sapendo che è già affondata, i comandi britannici l'hanno segnalata al Turbulent affinché la attacchi.
Considerato che la nave segnalata non sarebbe certamente potuta arrivare a Navarino prima delle otto, e che non vi sarebbe arrivata più tardi delle 18, Linton ha deciso di proseguire fino a Navarino per poi risalire la probabile rotta di arrivo di questa nave, in modo da avere anche una possibilità di intercettare il convoglio segnalato dall'altro messaggio (cioè quello composto da Bixio e Sestriere). Alle 5.10 il Turbulent si è immerso, e più tardi in mattinata ha ricevuto un messaggio che spiegava che non c'era traccia della nave danneggiata. Poi, alle tre del pomeriggio, ha avvistato il convoglio del Da Recco.
Alle 15.33 il Turbulent lancia quattro siluri da 3300 metri, per poi scendere subito in profondità. Linton regola i siluri della salva in modo da “coprire” entrambi i mercantili, che per la loro posizione rispetto al Turbulent formano una linea quasi continua nel periscopio; stima che si tratti di due moderne motonavi di 7000-8000 tsl (ed ha ragione) e che siano in zavorra (ed ha drammaticamente torto).
Una delle armi, con giroscopio difettoso, torna indietro e compie tre giri passando sopra il Turbulent, ma alle 15.35 (o 15.30) altre due centrano la Nino Bixio nel punto 36°36' N e 21°30' E o 36°35' N e 21°34' E (a 19 miglia dal faro di Sapienza e dodici miglia a sudovest di Navarino).
Al momento del siluramento, il Da Recco si è appena allontanato dal convoglio per attaccare un contatto ottenuto all'ecogoniometro: scrive Aldo Cocchia che “ho appena cominciato le battute che vedo levarsi due enormi colonne d'acqua sul fianco del Bixio”. Abbandonata la caccia, il Da Recco torna precipitosamente verso il convoglio, evitando quella che a bordo viene ritenuta essere la scia di un altro siluro, lanciato contro di esso. Il Saetta (capitano di corvetta Enea Picchio), per iniziativa del suo comandante, sta già preparandosi a prendere a rimorchio la Bixio per portarla verso Navarino, e Cocchia ordina anche all'Orione di rimanere a dare assistenza alla motonave danneggiata (che riuscirà faticosamente a raggiungere il porto greco, lamentando però ben 434 vittime tra il personale imbarcato, compresi 336 prigionieri). Da Recco e Castore proseguono invece con l'indenne Sestriere, mancata dai siluri.
18 agosto 1942
Da Recco, Castore e Sestriere giungono a Brindisi alle 17.
24 agosto 1942
Il Da Recco (capitano di vascello Aldo Cocchia) salpa da Brindisi scortando la motonave Manfredo Camperio, diretta al Pireo con a bordo 260 uomini (truppe ed equipaggio) oltre ad un carico di rifornimenti per le truppe operanti in Nordafrica.
Nella notte le due navi attraversano il Golfo di Patrasso, mentre aerei britannici attaccano il Canale di Corinto, poco lontano; il mattino successivo, una bomba a scoppio ritardato lanciata durante quell'incursione esplode sul ciglio del canale proprio mentre la Manfredo Camperio vi sta transitando, ma fa solo molto rumore e nessun danno.
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Il Da Recco nel 1942 (da www.war-book.ru) |
26 agosto 1942
Una volta al Pireo, Da Recco e Camperio formano un unico convoglio insieme ad un'altra motonave, la Tergestea, ed alle torpediniere Climene (capitano di corvetta Raffaele Cerqueti) e Polluce (tenente di vascello Tito Livio Burattini), provviste di ecogoniometro come del resto il Da Recco, che ricopre il ruolo di caposcorta. In tutto le due motonavi hanno a bordo 816 tonnellate di munizioni, materiale d'artiglieria e materiali vari, 221 tonnellate di carburanti e lubrificanti, 503 tra automezzi e rimorchi e 401 tra ufficiali e soldati del Regio Esercito.
Il convoglio lascia il Pireo alle 17, diretto a Bengasi con rotta che passa tra Cerigotto e Creta e velocità 10,5 nodi. Il comandante Cocchia considera che, essendo le due motonavi piuttosto lente, una volta superata Creta il convoglio sarà in mare aperto per circa ventiquattr'ore, trovandosi a dover percorrere il tratto al largo della costa libica, quello più pericoloso, di notte invece che di giorno, come lui avrebbe preferito. Se non altro, dato che recentemente i sommergibili nemici hanno incrementato la propria attività, Marisudest ha disposto un rastrello antisommergibili con unità sottili nelle acque a sud di Creta (dove i sommergibili britannici sono particolarmente attivi), con alcune unità munite di ecogoniometro che pattugliano la rotta del convoglio per scongiurare il rischio di attacchi.
In tutto, ben sette mercantili sono partiti da Suda per il Nordafrica, più o meno contemporaneamente, suddivisi in cinque convogli, con la scorta complessiva di due cacciatorpediniere (più altri due assegnati a scorta temporanea) e sette torpediniere (più altre due assegnate a scorta temporanea).
All'insaputa di tutti, però, il servizio di decrittazione britannico “ULTRA” ha intercettato un messaggio della Luftwaffe riguardante le scorte aeree da assegnare a questo ed ad altri convogli in mare contemporaneamente: i comandi britannici sono così venuti a conoscenza dei particolari su rotte ed orari dei convogli. In particolare, già il 25 agosto “ULTRA” ha potuto segnalare che la Camperio ha lasciato Brindisi alle 20 del 24 e si doveva unire alla Tergestea, per attraversare il Canale di Corinto il 26 mattina, imboccandolo all'alba ed uscendone alle 9, per poi proseguire a 10 nodi verso Bengasi con arrivo previsto per le 12 del 28 agosto. “ULTRA” conferma il tutto con nuove intercettazioni anche il 26 agosto.
In base a queste informazioni il sommergibile britannico P 35 (poi ribattezzato Umbra), al comando del tenente di vascello Stephen Lynch Conway Maydon, viene inviato in agguato vicino all'imbocco del Canale di Cerigotto con l'ordine di intercettare il convoglio.
27 agosto 1942
Alle 5.30 il convoglio viene raggiunto dalla scorta aerea della Luftwaffe, e poco dopo avvista due cacciasommergibili tedeschi e la torpediniera Orione (dotata di ecogoniometro) facenti parte del rastrello antisommergibili ordinato da Marisudest. Alle 6.20, poco dopo l'alba, le due motonavi ricevono ordine di disporsi in linea di fronte (Tergestea a dritta, Camperio a sinistra), il Da Recco si porta in posizione di scorta laterale sinistra, la Climene in posizione di scorta laterale dritta e la Polluce di poppa; anche gli aerei di scorta eseguono rastrello antisommergibili preventivo.
Alle 7.20 il P 35 avvista le navi italiane (sorvolate da due aerei) su rilevamento 025°, mentre queste procedono a 10 nodi su rotta 245°, ed inizia subito l'attacco; inizialmente ha avvistato solo i mercantili e due delle navi scorta, identificandole correttamente come appartenenti alle classi Spica e Navigatori, per poi avvistare altre due siluranti verso nordest alle 7.37, ed anche, alle 7.42, due aerei in volo sul cielo del convoglio. Alle 7.48, nel punto 35°39' N e 23°05' E, il sommergibile lancia quattro siluri contro la Camperio, il mercantile più vicino (di cui stima la stazza in 5000 tsl), da 2740 metri di distanza. Il secondo siluro (tubo numero 2), difettoso, non parte.
Alle 7.49 (o 7.51), poco dopo che l'Orione è svanita all'orizzonte e senza che gli ecogoniometri delle navi della scorta abbiano segnalato alcunché, la Camperio viene colpita a poppa da uno o due siluri (secondo la storia ufficiale dell'USMM uno, mentre il secondo viene visto passare ad una decina di metri dalla poppa): per alcuni attimi si riesce a distinguere la scia dell'arma sulla superficie del mare, mentre un'alta colonna d'acqua si alza sul fianco della motonave, poi quest'ultima s'incendia.
Aldo Cocchia avrebbe così descritto l'accaduto nelle sue memorie: “…io mi sentivo piuttosto tranquillo la mattina del 27 quando, col mio convoglio, uscii dal Canale di Cerigo. Erano le 8, l'Orione era da poco scomparso all'orizzonte, il mio ecogoniometro non dava alcun allarme, tutto sembrava tranquillo… D'un tratto sul fianco del Camperio, proprio dalla mia parte, si levò un'alta colonna di acqua, poi il piroscafo prese fuoco. Sulla superficie liscia del mare apparve, per qualche istante, visibilissima, la scia del siluro lanciato dal sommergibile”.
Subito dopo il siluramento, Cocchia dirama gli ordini usuali per queste circostanze: la Tergestea deve proseguire ed allontanarsi scortata dalla Climene, la Polluce deve dare assistenza alla danneggiata Camperio e recuperarne i naufraghi, mentre il Da Recco darà la caccia al sommergibile. Cocchia, per la quale la Camperio è il terzo mercantile silurato in tre missioni di scorta consecutive, è particolarmente determinato a non lasciarselo sfuggire: ben presto ottiene un buon contatto all'ecogoniometro, ed anche i velivoli della scorta aerea segnalano la presenza del sommergibile a poca distanza.
La Polluce fa tutto quanto è in suo potere per salvare la motonave colpita, mandando anche a bordo un gruppo di membri del proprio equipaggio per collaborare allo spegnimento dell'incendio, ma invano: la benzina contenuta nei serbatoi degli automezzi sistemati in coperta a poppa alimenta le fiamme, che divampano con estrema violenza, ben visibili anche dal Da Recco. La Polluce comunica via radio "Incendio appare indomabile".
Il comandante Cocchia, che dal Da Recco osserva i tentativi di salvare la motonave, deve concludere che ormai non c'è più nulla di recuperabile, e che anzi la Polluce, perseverando nei suoi sforzi, rischierebbe di essere travolta da un'eventuale esplosione del carico (che comprende un considerevole quantitativo di munizioni): pertanto ordina a Burattini di lasciar perdere la Camperio, allontanarsi dalla pericolosa motonave in fiamme e limitarsi a recuperarne l'equipaggio; indi lo libera dalle proprie dipendenze autorizzandolo a comunicare direttamente con Supermarina per avere ulteriori istruzioni.
Nel mentre il Da Recco risale la scia del siluro, localizza il sommergibile con l'ecogoniometro, ed inizia a lanciare le bombe di profondità. Le prime due scariche sono senza risultato; nel frattempo, la Climene segnala di aver localizzato all'ecogoniometro un secondo sommergibile (contro il quale verrà poi inviata dal Pireo la torpediniera Orsa) e di aver avvistato la scia di un siluro diretta verso il Da Recco. Cocchia ordina alla Climene di cambiare rotta, in modo da uscire dalla zona pericolosa il prima possibile, poi lancia una terza salva di cariche di profondità e vede apparire in superficie delle tracce di nafta; tornato sulla loro verticale, il Da Recco lancia un'altra salva di bombe di profondità e vede emergere una grossa colonna d'aria accompagnata da nafta e rottami. Mentre il cacciatorpediniere inverte la rotta per un ultimo attacco, l'equipaggio vede affiorare quello che sembra essere il sommergibile capovolto, che scompare di nuovo dopo pochi secondi. Ritenendo di aver affondato l'unità nemica, il Da Recco accelera al massimo per ricongiungersi a Climene e Tergestea, che raggiunge poco dopo le nove del mattino e con le quali prosegue alla volta di Bengasi.
La caccia è così rievocata nelle memorie di Cocchia: “Col Da Recco intanto ero deciso a vendicarmi in qualche modo dei sommergibili. Era il terzo piroscafo che, in tre successive missioni, mi siluravano e volevo prendermi una rivincita. Risalii la scia del siluro, iniziai le battute. L'ecogoniometro, che poco fa era stato sordo, individuò ora ben presto l'unità nemica; mi permise di localizzarla, di effettuare le prime salve di bombe (…) la prima e la seconda salva furono infruttuose, ma il sommergibile rimase sotto il nostro controllo. (…) La terza salva di bombe portò alla superficie del mare tracce di nafta. Ci tornai sopra e alla quarta salva venne fuori acqua una gran colonna di aria mista a rottami e nafta. Non c'era più dubbio: il sommergibile era stato colpito. Mentre invertivo la rotta per dare il colpo di grazia un grande urlo gioioso dell'equipaggio mi chiamò fuori del ponte di comando. L'unità subacquea nemica era affiorata per qualche istante capovolta, poi si era inabissata”.
In realtà, la caccia del Da Recco non ha arrecato alcun danno al P 35, che è rimasto immerso a 55 metri ed ha contato 29 esplosioni di bombe di profondità dalle 7.57 alle 8.21: alle 8.50, anzi, il sommergibile torna a quota periscopica, ed avvista la Camperio appoppata, che brucia furiosamente, e la Polluce che le gira intorno.
Dieci minuti dopo, anzi, Maydon dà ordine di iniziare a ricaricare i tubi lanciasiluri, ma non ha il tempo di intervenire per finire la sua vittima.
Dopo aver completato il salvataggio dei naufraghi della Camperio (255 uomini su 259 imbarcati, 37 dei quali feriti), la Polluce non potrà far altro che accelerare, a cannonate, l'affondamento della motonave in fiamme, che esploderà ed affonderà alle 12.28 nel punto 35°39' N e 23°07' E (o 35°41' N e 23°01' E, a ponente di Cerigotto e trenta miglia ad ovest di Creta), a ponente del Canale di Cerigotto e circa 35 miglia ad ovest di Capo Spada (Creta).
Alle 10.15, intanto, si aggrega al gruppo Da Recco-Climene-Tergestea il cacciatorpediniere Giovanni Da Verrazzano, che dopo aver compiuto ricerca antisommergibili è stato mandato a rinforzare la scorta del convoglio perché sono stati segnalati dei bombardieri diretti verso di esso. In realtà non si verifica alcun attacco aereo, ed al tramonto il Da Verrazzano viene lasciato libero di tornare al Pireo.
Poco prima del crepuscolo, mentre il convoglio procede verso Bengasi, alcuni dei velivoli della scorta aerea segnalano qualcosa di anomalo circa 7-8 miglia a proravia del convoglio: scendono in picchiata sul mare, lanciano razzi e girano in tondo attorno ad un punto, evidentemente cercando di segnalare qualcosa alle navi. Il seguito è così descritto da Cocchia: “Mandai il Climene verso il punto segnalato dai velivoli e, dopo un poco, ne ebbi comunicazione che erano in vista zattere con naufraghi. Accelerai l'andatura, scoprii anch'io le zattere e, mentre il Climene si portava su una, io ne attraccavo un'altra. Sia su quella che avevo presa io sia su quella della Climene c'erano due naufraghi ancora vivi. Sparuti, bruciati dal sole di agosto, sfiniti da non reggersi in piedi, ma vivi. Li tirammo a bordo. Altre due zattere che facevano parte dello stesso gruppo erano vuote. I miei due naufraghi erano un neozelandese ed un sudafricano; i due del Climene entrambi indiani, tutti prigionieri britannici caduti o gettatisi in mare dal Bixio ben 15 giorni prima, quando la nostra motonave fu silurata fuori Navarino. Erano 15 giorni che si trovavano in mare senza mangiare e, quel che è peggio, senza bere. Non chiedevano che acqua. La somministrammo a loro a goccia a goccia con un po' di zucchero e cercammo per tutta la notte di far tornare un po' di vita in questi esseri ridotti agli estremi. L'indomani mattina mi fu possibile scambiare qualche parola con uno di loro. Originariamente su ciascuna delle 4 zattere c'erano circa 25 uomini, forse 100 in tutto; non erano riusciti a farsi scorgere dalle siluranti che, dopo l'affondamento del Bixio, avevano perlustrato la zona e, piano piano, le correnti li avevano spinti sempre più al largo allontanandoli dalla costa dalla quale originariamente distavano una ventina di miglia. Ad ogni giorno che passava il numero dei naufraghi si assottigliava, ogni giorno qualcuno moriva di inedia, qualche altro impazziva e si gettava in mare; tutt'intorno pullulavano i pescicani… Un giorno l'uomo col quale parlavo aveva saputo ammazzare un pesce con un colpo di remo, ne aveva bevuto il sangue, l'aveva mangiato così come l'aveva preso e questo gli aveva ridato una certa forza. (…) A Bengasi ebbi il rapporto del Climene. Il racconto dei due indiani presi a bordo coincideva con quello di coloro che avevo raccolto io. Uno dei due indiani non aveva potuto però ingerire assolutamente niente perché sulla zattera, preso dalla disperazione, aveva mangiato il kapok del suo salvagente. Morì qualche ora dopo il nostro arrivo in porto. Gli altri furono ricoverati all'ospedale di Bengasi”.
Il punto in cui i naufraghi sono stati trovati dista 150 miglia dal punto in cui la Bixio era stata silurata.
28 agosto 1942
Da Recco, Climene e Tergestea arrivano a Bengasi alle 11.45 (o 11.30). I naufraghi della Bixio vengono sbarcati e ricoverati nell'ospedale della città.
Alle 19 Da Recco (caposcorta) e Climene ripartono insieme ai cacciatorpediniere Folgore e Saetta, scortando le motonavi Foscolo e Ravello.
30 agosto 1942
Alle 6.30 il convoglio giunge al Pireo.
Al termine di questa missione, il Da Recco passa per qualche tempo alle dipendenze di Marisudest, il Comando Gruppo Navale dell'Egeo Settentrionale, con giurisdizione sull'Egeo. Questo teatro è, rispetto alle contese rotte africane, relativamente tranquillo; gli attacchi aerei sono rari ed inefficaci, quelli subacquei più frequenti ma comunque molto meno rispetto al Mediterraneo centrale. “La destinazione del Da Recco al Pireo alle dipendenze di Marisudest” scrive Aldo Cocchia “era perciò comunemente considerata come una destinazione di riposo (…) In effetti quel mese di settembre che restammo in Egeo fu tutt'altro che di ozio: navigammo molto e se, su trenta giorni, ne passammo otto in porto è molto. Però è innegabile che in quel mare la tensione era minore che altrove. In compenso le navigazioni erano estenuanti di noia per le velocità ridicolmente basse che si era obbligati a tenere, dato il tipo dei mercantili che ci davano da scortare. Più in giù di così non si poteva andare nella graduatoria del naviglio. Bastimentini lunghi un palmo che arrancavano faticosamente per riuscire a tenere le folli velocità di 5 o 6 nodi; avarie a getto continuo, forme strane come quell della cisterna germanica Ossag che porta sì e no 800 tonnellate di nafta e che aveva un fumaiolo così a poppa, ma così a poppa che pareva dovesse cadere da un momento all'altro fuori bordo. La scortai dal Pireo a Salonicco (…) navigando a non più di sei nodi. A Salonicco ci si andava volentieri per la faccenda del prelevamento viveri. La sussistenza germanica di Salonicco era particolarmente ben fornita e distribuiva i suoi viveri anche alle navi italiane che ne facevano richiesta. Bastava un buono di prelevamento (…) per ritirare viveri nella stessa abbondante misura della razione dei marinai tedeschi. (…) Ci diedero oltre ai soliti generi (pasta, carne congelata e in scatola, pane, ecc.) anche salumi in gran copia, uova, verdure, patate, e poi sigari e sigarette e birra e perfino acqua minerale in bottiglie. Con i generi prelevati a Salonicco ci facemmo un famoso miglioramento rancio per un mese intero. (…) la razione tedesca era molto superiore alla nostra per qualità e quantità, ma non a tutti è noto che la differenza era tale che quando marinai tedeschi venivano sulle nostre navi per qualche missione, piuttosto che aggregarsi al rancio dei nostri uomini, preferivano portarsi le loro cibarie e mangiarsele a parte”.
Quanto al Pireo, quel porto era “il vero paradiso dei marinai. Gli ufficiali facevano (…) le loro scappate ad Atene dove trovavano tutto quel che cercavano, ma i marinai non avevano bisogno di andare tanto distante. Il Pireo bastava e ce n'era d'avanzo. Eravamo ben lontani dall'austerità e dalla disciplina dei porti militari italiani. Dietro la cancellata che chiudeva la banchina delle siluranti pullulavano i più strani individui di ambo i sessi e quelli che ogni comandante avrebbe voluto meno vicini al proprio equipaggio. Trafficanti, commercianti, cambiavalute e uno stuolo di donne e donnette, ragazze e ragazzone impregnate dei germi più vari adescavano in mille modi i nostri marinai i quali, dopo giorni e giorni di dura navigazione, non desideravano di meglio che lasciarsi adescare. Il servizio di polizia a terra era affidato ai tedeschi, ma era stranamente rilassato e tutte le rimostranze che facevamo noi comandanti risultavano lettera morta”.
1° settembre 1942
Il Da Recco ed un cacciasommergibili tedesco (Aldo Cocchia, nelle sue memorie, parla invece del posamine ausiliario tedesco Bulgaria, che pur essendo lento e poco armato era utile perché munito di ecogoniometro) scortano dal Pireo ai Dardanelli (fino al limite delle acque territoriali turche), via Salonicco, le navi cisterna italiane Albaro (“piccolo scarabocchio marino che pareva facesse un passo avanti e due indietro tanto andava adagio”) e Cerere e la tedesca Ossag, dirette in Mar Nero per caricare nafta romena a Costanza.
In una successiva missione, il Da Recco scorta da Iraklion al Pireo, insieme a due motozattere tedesche, i piroscafi Minerva e Ginetto. “Quando giunsi ad Iraklion per prendermi e portarmi dietro il convoglietto” scrive Cocchia “riunii sul Da Recco i comandanti italiani e germanici (…) Coi due tedeschi me la sbrigai subito dando loro ordine di stare sempre sui fianchi del convoglio e di attaccare senza esitazione qualsiasi natante apparisse sul loro orizzonte. Erano due svegli sottufficiali ed eseguirono appuntino [sic] gli ordini. (…) Un po' diversamente andarono le cose con i due italiani. Di comandante militare sui due trabiccoletti non c'era nemmeno l'ombra; apparati radio per segnalazioni niente, ed anche per le segnalazioni a bandiere era una vera tragedia perché a bordo c'era un solo segnalatore che evidentemente non poteva stare sul chi vive per trentasei ore di seguito in attesa dei miei segnali. Spiegai come meglio potei quel che i due piroscafi avrebbero dovuto fare, limitandomi a fissare due o tre segnali semplici (…) Averei voluto che tenessero la linea di fronte (…), che più garantisce le navi dagli attacchi dei sommergibili, ma Minerva e Ginetto di linea di fronte non ne vollero sapere e dovetti stimarmi fortunato se riuscii, mettendoli uno dietro l'altro, a trascinarmeli appresso entrambi e a non perderne nessuno per la strada. La loro velocità si aggirava sui 5 nodi e non si può descrivere la gioia del Da Recco a navigare ad andatura così elevata! (…) Naturalmente per qualche malintenzionato sommergibile nemico il miglior boccone di tutto il convoglio era proprio il Da Recco, e non so se fosse conveniente rischiare un grosso cacciatorpediniere per proteggere due piroscafetti che valevano tutt'e due assieme, sì e no un quarto del Da Recco… Ma noi di sommergibili non ne sentimmo neanche l'odore e raggiungemmo felicemente il Pireo…”.
16 settembre 1942
Alle 13 il Da Recco salpa da Suda per scortare a Tobruk l'incrociatore ausiliario Barletta, in missione di trasporto (ha a bordo 273 tonnellate di benzina in fusti e latte).
Durante la tarda serata e tutta la notte le due navi sono continuamente attaccate da bombardieri ed aerosiluranti, ma non subiscono danni. Per la prima volta, rileverà il comandante Cocchia, gli aerei britannici attaccano di notte senza l'ausilio dei bengala, privando così gli equipaggi delle navi italiane del prezioso preavviso da essi costituito.
Successivamente, sempre nel corso della notte, il piccolo convoglio viene seguito da aerei che per ore non fanno altro che lanciare a intervalli di tempo regolari dei bengala ad una certa distanza dalle navi, di poppa o sui lati, oltre a fuochi al cloruro di calcio che si accendono toccando l'acqua e rimangono accesi per una ventina di minuti. Cocchia, che presume che questi segnali servano a guidare sul posto sommergibili od unità di superficie nemiche, reagisce con continue accostate ed abbondante emissione di cortine nebbiogene.
17 settembre 1942
Da Recco e Barletta arrivano a Tobruk alle 11 e ne ripartono sette ore più tardi, per fare ritorno al Pireo.
Alcuni siti Internet affermano che in questa data Da Recco e Barletta sarebbero stati infruttuosamente attaccati dal sommergibile britannico Taku, ma in realtà non risultano attacchi in questa data da parte di questo sommergibile.
18 settembre 1942
Dopo aver superato indenni alcuni attacchi aerei notturni, le due navi arrivano al Pireo alle 23.
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Il Da Recco al Pireo nel settembre 1942 (da www.forums.airbase.ru) |
24 settembre 1942
Il Da Recco (caposcorta, capitano di vascello Aldo Cocchia) e le torpediniere Lupo (capitano di corvetta Carlo Zanchi), Castore (tenente di vascello Gaspare Tezel) e Sirio (capitano di corvetta Romualdo Bertone) partono dal Pireo alle 22.30 per scortare a Tobruk il piroscafo italiano Anna Maria Gualdi (con a bordo 1168 tonnellate di benzina, 161 tonnellate di materiali vari, undici automezzi e 14 soldati) ed il tedesco Menes (carico di 2000 tonnellate di munizioni e 140 tra automezzi e rimorchi). Cocchia descrive così la composizione del convoglio: “Il Menes, disciplinato e pronto nonostante le deficienze dei mezzi di comunicazione, il Gualdi irrequieto e capriccioso. Lupo e Sirio avevano per comandanti due capitani di corvetta, rispettivamente Zanchi e Bortone, svelti e intelligenti, entrambi vecchi di convogli, più volte capi scorta essi stessi, uomini dei quali si poteva fidarsi a occhi chiusi; il Castore era comandato dal tenente di vascello Tezel, che posso definire il più completo dei comandanti di torpediniera che hanno navigato con me. Dotato di sana iniziativa e di eccellenti qualità marinaresche, era sempre nel posto nel quale la sua presenza era più opportuna, non c'era bisogno di dirgli mai niente (…) ci intendevamo alla perfezione. Sapevo che su di lui potevo fare completo affidamento”.
25 settembre 1942
Alle 14.30, nel canale di Cerigotto, si uniscono al convoglio la nave cisterna Proserpina (avente a bordo 5316 tonnellate di benzina) e le torpediniere Libra e Lira, provenienti da Suda, mentre la Sirio deve rientrare in porto per avaria di macchina.
Qualche
problema si verifica nella fase di riunione, quando una delle
torpediniere provenienti da Suda non riesce ad assumere, per un po'
di tempo, la posizione assegnata, girando lungamente attorno al
convoglio senza comprendere dove posizionarsi (la storia ufficiale
dell'USMM commenta in proposito che “la
Proserpina e le due torpediniere che l'accompagnavano si aggregarono
alla formazione quando questa era già in mare e ciò non permise un
contatto preliminare diretto tra caposcorta ed unità dipendenti; le
navi mercantili inoltre non erano fornite né di apparecchi
radiotelegrafici ad onde ultracorte né di radiosegnalatori a portata
ridotta e pertanto le comunicazioni nell'interno del convoglio erano
oltremodo difficili e difficilissime, di conseguenza, le manovre
d'urgenza da effettuarsi, specie di notte, per evitare l'offesa aerea
avversaria”). Alla fine,
la formazione viene assunta e nel tardo pomeriggio si fa rotta per
Tobruk.
Il convoglio, che procede a circa 10 nodi con i tre
mercantili in linea di fronte (Proserpina al
centro) e la scorta tutt'intorno, gode anche, nelle ore diurne, di
notevole scorta aerea.
Quale ulteriore protezione contro gli
aerei nemici, la Proserpina è
munita anche di un pallone frenato – uno dei primi impieghi di tale
strumento per la difesa antiaerea di una nave in convoglio –, che
si alza nel cielo sopra la nave ad una quota di circa 200 metri.
Nella notte, però, il cavo che lo tiene legato alla nave si spezza,
ed il pallone va così perduto.
In
serata Supermarina comunica al Da
Recco "Siete stati
scoperti" e "Bombardieri nemici dirigono verso di voi",
e più tardi viene anche intercettato un messaggio di una
torpediniera che riferisce
di essere sorvolata da una grossa formazione di aerei statunitensi,
la cui posizione e rotta fa presumere che raggiungeranno il convoglio
del Da Recco
al tramonto. Cocchia decide di variare la rotta, pur consapevole che
la scarsa velocità dei mercantili rende tale provvedimento pressoché
inutile; in quel momento la scorta aerea è costituita da quattro
Junkers Ju 88. Nonostante tutto, gli aerei statunitensi non si fanno
vedere né al tramonto né dopo.
26
settembre 1942
Alle
00.00 la Lira apre
il fuoco con le mitragliere e con i cannoni da 100 mm, fortunatamente
senza esito, contro un aereo che lancia poi il segnale di
riconoscimento tedesco: è stato inviato per la scorta notturna, ma
le navi non sono state informate del suo arrivo (Cocchia aveva in
precedenza dato ordine alle torpediniere di aprire il fuoco contro
qualsiasi aereo avvistato). Dopo il suo riconoscimento, il Da
Recco segnala a tutte le
unità la presenza di aerei amici sul loro cielo. Menes e Gualdi,
però, scambiano i colpi di cannone della Lira per
il segnale di allarme per sommergibile (questo sarebbe infatti il
loro significato, ma di giorno, non di notte) ed accostano in fuori,
mentre la Proserpina
rimane in rotta, così sparpagliando il convoglio (ciò secondo la
storia ufficiale dell'USMM; in "Convogli" Cocchia scrive
invece che tutti i mercantili accostarono, Proserpina
e Gualdi
da una parte e Menes
dall'altra); dato che i mercantili non hanno né radio ad onde
ultracorte né radiosegnalatori a bassa portata, e dunque non è
possibile comunicare con essi se non con segnale luminosi (che data
la distanza, dovrebbero essere a luce bianca, che sarebbe meglio
evitare), il comandante Cocchia ordina alla Castore di
portarsi sottobordo a Menes e Gualdi e
farli tornare in rotta, mentre lo stesso Da
Recco si porta
sottobordo alla Proserpina
e le ordina col megafono di seguirlo, per riavvicinarla alla zona
dove ora i due piroscafi si sono spostati. Alle 00.50 il convoglio
può dirsi ricostituito.
All'1.06 si accende un bengala di prua, sulla dritta, ed il Da Recco dà il segnale di scoperta ed inizia ad emettere cortine nebbiogene; l'emissione della nebbia artificiale viene interrotta all'1.09, non appena il bengala si è spento, per evitare che le stesse cortine di nebbia (di colore biancastro), messe in risalto dalla luce lunare, agevolino l'individuazione del convoglio da parte di unità nemiche. Anche nel corso dei successivi attacchi aerei, protrattisi fino alle 3.30, Cocchia farà emettere cortine nebbiogene dal Da Recco e dalle altre navi della scorta soltanto nei momenti in cui bengala sono accesi sul cielo del convoglio. (Nelle sue memorie, invece, Cocchia afferma di aver fatto emettere cortine nebbiogene ad intermittenza, in modo da creare più zone di foschia che il vento sposta in giro e che possono trarre in inganno gli aerei: talvolta questi bombardano dei banchi di nebbia artificiale nei quali presumono si nascondano delle navi, mentre in realtà sono completamente vuoti. Aggiunge inoltre di non aver ordinato manovre evasive perché data la difficoltà di trasmettere i segnali alle navi mercantili del convoglio, ciò risulterebbe certamente nello scompaginamento della formazione; invece, fin da prima della partenza aveva disposto che ogni nave serpeggiasse un poco senza lasciare il suo posto in formazione, riprendendo poi la rotta originaria).
All'1.30 il Da Recco avvista un bengala a sinistra, ed un aereo lo sorvola a bassa quota, venendo bersagliato dal tiro delle sue mitragliere.
All'1.38
delle bombe cadono in mare a proravia del Da
Recco, piuttosto lontane;
ad intervalli tutte le navi della scorta sparano colpi di mitragliera
e cannone contro gli aerei che riescono ad avvistare anche a notevole
distanza, grazie all'eccezionale chiarezza della notte di luna piena.
All'1.50 delle bombe esplodono a poppavia del Da
Recco, all'1.54 tra le
unità prodiere della scorta ed i mercantili, mentre le unità
poppiere aprono il fuoco. Sempre all'1.54, un aereo che vola a bassa
quota passa tra Da
Recco e Libra
con rotta parallela a quella del convoglio; entrambe le unità aprono
il fuoco contro di esso ed il velivolo, rapidamente inquadrato,
lancia il segnale di riconoscimento identificandosi come tedesco.
Viene allora cessato il fuoco, e l'aereo si allontana verso sinistra,
mentre una bomba cade in mare tra la il Da
Recco e la Libra.
Cocchia concluderà poi nel suo rapporto che «molto
probabilmente il continuo lancio di bengala nella notte di luna
piena, chiarissima, aveva lo scopo, non tanto di illuminare i
piroscafi quanto di richiamare l'attenzione dei sommergibili in
agguato nelle acque attraversate dal convoglio».
Alle
14.30 il convoglio arriva senza danni a Tobruk: la Proserpina sarà
l'ultima petroliera dell'Asse a raggiungere Tobruk. Con le tre
navi arrivano a Tobruk 6484 tonnellate di benzina, 2000 di munizioni,
161 di materiali vari e 151 tra automezzi e rimorchi, oltre a
quattordici militari di passaggio.
12 ottobre 1942
Il Da Recco (caposcorta, capitano di vascello Aldo Cocchia), il cacciatorpediniere Folgore (capitano di corvetta Renato D'Elia) e le torpediniere Ardito (tenente di vascello Emanuele Corsanego) e Clio (tenente di vascello Ugo Tonani) salpano da Brindisi alle 20 diretti a Bengasi, scortando la motonave D'Annunzio.
13 ottobre 1942
Alle sette del mattino, al largo di Corfù, si uniscono al convoglio la motonave Foscolo, il cacciatorpediniere Lampo (capitano di corvetta Antonio Cuzzaniti) e la torpediniera Partenope (capitano di corvetta Pasquale Senese); caposcorta è sempre il Da Recco. Nonostante un temporale in corso, i velivoli della scorta aerea raggiungono il convoglio, che procede a 14 nodi (per altra fonte, a 15: Foscolo e D'Annunzio, moderne unità della nuova classe "Poeti", sono infatti tra le più veloci navi da carico della Marina Mercantile italiana), sin dalle prime luci dell'alba, rimanendo poi sul suo cielo per tutto il giorno.
Durante il pomeriggio il sommergibile britannico Porpoise (tenente di vascello Leslie William Abel Bennington) viene informato della presenza di un convoglio di due navi mercantili, scortate da sei cacciatorpediniere, in posizione 38°14' N e 19°35' E, con rotta 180° e velocità 15 nodi: si tratta del convoglio di cui fa parte il Da Recco. Il Porpoise sembra trovarsi in posizione perfetta per intercettare il convoglio, ma non avvista niente all'infuori di alcuni aerei: le navi italiane, infatti, passano un po' più ad est di quanto previsto dai britannici.
Alle 21.58 si accende un bengala sulla dritta del convoglio, piuttosto lontano, e si sente rumore di aerei; Cocchia dà l'allarme ed ordina a tutte le navi di iniziare ad emettere cortine nebbiogene. Alle 22, in un momento in cui non è acceso nessun bengala, un aereo sgancia due bombe che cadono tra il Folgore (che si trova in coda al convoglio) e le motonavi (che sono disposte in linea di fronte); alle 23.07 si sente ancora rumore di aerei ad intervalli ed alle 23.30 si accendono tre nuovi bengala, sempre molto lontani e sulla dritta.
Alle 23.56 un aereo sgancia due bombe di piccolo calibro, che cadono cinque metri al traverso a sinistra del Folgore; le schegge delle bombe investono la nave, arrecandole modesti danni e ferendo non gravemente cinque serventi del complesso poppiero da 120 mm. Al tempo stesso, il Folgore avvista due aerei a circa 200 metri di quota ed apre il fuoco contro di essi, imitato dalle altre navi che procedono a poppa del convoglio.
14 ottobre 1942
Alle 00.30, quando il convoglio si trova a cento miglia da Bengasi, cessa l'allarme e si smette di emettere nebbia, dato che non si sentono più rumori di aerei da mezz'ora. Nessuna nave è stata colpita e nessuna, a parte il Folgore, ha subito alcun danno, grazie alla violenta reazione contraerea delle navi di scorta, che ha disorientato i piloti nemici. Il comandante Cocchia scriverà nel suo rapporto che «più che un vero e proprio attacco aereo si è trattato di qualche aereo di passaggio che, scoperto il convoglio, ha sganciato le bombe che aveva a bordo (…) Probabilmente la presenza delle navi è stata rivelata dalla fosforescenza, per quanto non eccessiva, delle scie e delle scintille, copiose, sprigionate dai fumaioli delle motonavi e anche da qualche silurante. I residui carboniosi della nafta tedesca hanno rapidamente ostruito i polverizzatori dei nebbiogeni (…) veramente encomiabile la scorta [aerea] del giorno 13, che ha puntualmente raggiunto alle prime luci dell'alba il convoglio, nonostante le condizioni meteorologiche molto avverse a carattere temporalesco». Il convoglio giunge a Bengasi alle 13.30.
Dopo appena mezz'ora, non appena le motonavi sono entrate in porto, Da Recco (caposcorta), Folgore, Lampo, Ardito, Partenope e Clio ne ripartono scortando la motonave italiana Sestriere e la tedesca Ruhr, scariche, uscite da Bengasi incrociandosi con Foscolo e D'Annunzio in arrivo.
16 ottobre 1942
Nel pomeriggio l'Ardito subisce un'avaria e deve lasciare il convoglio, dirigendo per Argostoli; la Clio viene distaccata per scortarla.
Alle 18 il convoglio si scinde in due gruppi: Da Recco, Lampo e Sestriere dirigono verso Taranto, Folgore, Partenope e Ruhr verso Brindisi.
17 ottobre 1942
Da Recco, Lampo e Sestriere arrivano a Taranto alle 13.50, senza aver subito attacchi.
31 ottobre 1942
Da Recco (caposquadriglia, capitano di vascello Aldo Cocchia), Bersagliere (capitano di fregata Anselmo Lazzarini) e Corazziere (capitano di fregata Antonio Monaco di Longano) salpano da Taranto per Tobruk alle 17.45, in missione di trasporto di 196 tonnellate di munizioni (parte sfuse, parte in cassette, equamente ripartite tra le tre navi) e tre tonnellate di materiale d'artiglieria.
Poco dopo la partenza, i tre cacciatorpediniere superano due convogli, l'uno formato dagli incrociatori ausiliari Zara e Brioni (in missione di trasporto di carburante e munizioni) scortati dalla torpediniera San Martino e l'altro da un gruppo di motozattere cariche di materiali ed accompagnate da un'altra torpediniera, anch'essi diretti a Tobruk. Assumono la velocità di 25 nodi e si dispongono in formazione a triangolo, che Cocchia ritiene più adatta a difendersi da aerei e sommergibili; le tre navi seguono la rotta del Mediterraneo orientale, transitando per il Canale di Corinto, passando al largo di Atene e poi dirigendo verso sud, passando al largo delle isole di Poros, Idra e Cerigo e tra Cerigotto e Creta.
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Il Da Recco nel Canale di Corinto (foto Massimo Messina, via www.meludo.it) |
1° novembre 1942
Il mare è appena mosso, con poche nuvole; la luna è appena sorta non c'è vento.
A partire dalle due di notte i tre cacciatorpediniere iniziano ad essere fatti oggetto di una serie ininterrotta di attacchi aerei, sette in tutto (cinque di bombardieri e due di aerosiluranti), che vengono tutti elusi con abili e rapide contromanovre.
Già nel primo attacco aereo, le bombe cadono tra le navi italiane, a poca distanza; Cocchia ordina manovre elusive e l'emissione di cortine nebbiogene, mentre nel cielo si accendono bengala e continuano a cadere bombe (che Cocchia ritiene essere di grosso calibro, sulla base delle dimensioni delle colonne d'acqua che generano) tutt'intorno.
Per due ore e mezzo le navi reagiscono col tiro delle mitragliere, zigzagano ed evoluiscono con continue accostate per evitare bombe e siluri, stendono cortine fumogene per cercare di occultarsi alla vista degli attaccanti. Nel cielo si accendono bengala, bombe cadono tutt'intorno, ed un siluro passa proprio sotto lo scafo del Corazziere, senza esplodere; da bordo si ritiene di aver colpito un aereo, che sembra allontanarsi in fiamme per poi forse esplodere (si vede una vampata nella direzione nella quale l'aereo danneggiato è scomparso all'orizzonte). Il Corazziere non subisce danni di rilievo, ma le schegge di una o più bombe esplose in mare molto vicine investono il complesso poppiero da 120 mm, provocando sei feriti tra il personale addetto a tale complesso, due dei quali in modo grave. All'1.40 il Da Recco viene “colpito” da un siluro che, sganciato troppo tardi dall'aereo che lo portava, anziché entrare in acqua e colpirne lo scafo cade direttamente in coperta e scivola in mare senza esplodere, e senza causare danni di rilievo.
Dalle memorie di Aldo Cocchia: “Manovro ininterrottamente, accanitamente e i caccia dipendenti mi assecondano con grande prontezza (…) L'attacco imperversa già da un'ora quando alle bombe isolate vedo succedere salve di 5-6 bombe di piccolo calibro, forse da 100 chili. Il Corazziere segnala che una bomba caduta molto vicina ha ferito con le sue schegge alcuni uomini dell'equipaggio. (…) Sulla dritta, poco alto, un aereo punta dritto sul Da Recco. Apro il fuoco con le mitragliere da 20, accosto con tutta la barra verso di lui che scompare rapidamente, forse colpito, nella nebbia a me emessa. Pochi decimi di secondo e 5 bombe esplodono lungo il mio fianco sinistro senza causarmi alcun danno. Provvidenziale accostata! (…) La radio intercetta i messaggi delle torpediniere che sono ormai molto indietro rispetto a noi. Sono ancora attaccate anch'esse (…) Bombe, bengala, nebbia, manovre, una raffica di mitraglia di tanto in tanto contro qualche aereo raramente visibile per pochi secondi: sono trascorse due ore e mezzo e la violenza dell'attacco non accenna a diminuire. (…) È circa l'1.40 quando vedo di prora a dritta un aereo dirigere veloce su di noi a pelo d'acqua. È forse a 200 metri di distanza. Sulla sinistra è acceso qualche bengala (…) Accosto Fulmineamente verso l'apparecchio che quasi sfiora la coperta a prora tanto è basso; tutte le mitragliere sparano rabbiosamente e colpiscono il velivolo che, sbandato, si immerge nella mia nebbia. Da poppa dicono di aver sentito un tonfo in acqua, è forse l'aereo che si è inabissato, ma la nebbia non permette di vedere. Contemporaneamente il personale che è a prora informa che un grosso corpo è caduto sul ponte ed è poi scivolato in mare. Non sanno precisare, credono si tratti di una bomba non esplosa. “Nessun ferito?” “No!” “Il complesso di prora ha avuto danni?” “No. Tutto in ordine”. L'attacco è finito ed è stato certo il più violento che io abbia mai subito (…) L'indomani mattina, prima di arrivare, rapido sopralluogo. Troviamo dei tirantini d'acciaio, dei pezzi di legno compensato, qualche piccolo spezzone di cavetto metallico e una misteriosa boccola di bronzo sulla quale è inciso: “Fiume”. Sulla coperta come un gran solco: un qualche cosa ha squarciato il ponte e lesionato le ordinate sottostanti, il paraonde è stato asportato. Per un po' non riesco a capire, poi finalmente arrivo alla verità. Un siluro, uno di quelli acquistati dall'Inghilterra a Fiume prima della guerra… L'aereo attaccante era un silurante e, per errore o perché sorpreso dalla nostra manovra, ha sganciato il suo siluro sulla prora anziché contro il fianco del Da Recco. L'arma non ha avuto modo e tempo di attivarsi ed è scivolata in mare producendo soltanto un po' di innocuo sconquasso sul ponte. L'efficienza del mio cacciatorpediniere non è certo menomata per così poco”.
2 novembre 1942
Sulla rotta di sicurezza per Tobruk, il Da Recco passa vicino ai relitti di navi affondate pochi giorni prima, visibili da bordo grazie all'acqua chiara ed alla scarsa profondità: la petroliera Proserpina, la motonave Tergestea, entrambe scortate dal Da Recco in precedenti missioni; scrive Cocchia: “Mi si stringe il cuore”.
Alle 9.22 (altra versione, probabilmente erronea, riporta le 18.45) Da Recco, Bersagliere e Corazziere arrivano a Tobruk, sbarcano rapidamente il carico e poi ripartono alle 14. Lo sbarco delle casse di munizioni sulle chiatte e bettoline, preparate da Marina Tobruk e dal Genio dell'Esercito e portate sottobordo ai cacciatorpediniere, avviene a mano; tutto l'equipaggio, ufficiali compresi, passa le casse a mano agli uomini di Marina Tobruk ed ai soldati dell'Esercito, permettendo di completare l'operazione in tempi rapidi.
Così Cocchia descrive la situazione a Tobruk, che cadrà in mano britannica tredici giorni dopo in seguito alla sconfitta ad El Alamein: “Nella rada di Tobruk il numero dei relitti è ancora aumentato, ora è tale che ci vuole molta abilità a schivarli. Rimorchiatori, natanti vari, velieri, motozattere… è un'ecatombe. A terra il comando marina funziona fra mura sconquassate e pavimenti che minacciano di crollare da un momento all'altro”.
In uscita da Tobruk, i cacciatorpediniere incrociano il Brioni, in arrivo dopo essere scampato ad un attacco di aerosiluranti che ha affondato lo Zara. Da bordo del Da Recco viene poi avvistata una grossa formazione di aerei statunitensi diretti verso Tobruk: in lontananza si vedono le esplosioni dei proiettili contraerei in cielo e bagliori rossastri levarsi da terra e dal mare, e poi una grande esplosione a terra ed altre nel porto. Il Brioni è stato colpito ed è esploso.
3 novembre 1942
Durante la navigazione di rientro da Tobruk a Taranto i tre cacciatorpediniere vengono dirottati a Navarino, dove giungono alle 9.15. Qui il Bersagliere rimane, mentre Da Recco e Corazziere ripartono diretti l'uno a Taranto e l'altro a Messina.
4 novembre 1942
Il Da Recco arriva a Taranto all'1.40. Qui entra in Arsenale per riparare i modesti danni causati dal siluro caduto in coperta nella notte del 2 novembre; i lavori vengono portati a termine nel giro di pochi giorni.
19 novembre 1942
Il Da Recco scorta il piroscafo Fanny Brunner da Brindisi a Patrasso.
21 novembre 1942
In mattinata il Da Recco salpa da Patrasso di scorta ai piroscafi italiani Capo Orso e Galiola ed al tedesco Rhea, diretti i primi due a Taranto ed il terzo a Brindisi. (Per altra fonte avrebbe scortato il Rhea da Taranto a Patrasso, ma sembra probabile un errore).
22 novembre 1942
Il convoglio giunge a Taranto alle 16.30.
28 novembre 1942
Il Da Recco (capitano di vascello Aldo Cocchia) ed il cacciatorpediniere Lampo (capitano di corvetta Antonio Cuzzaniti) salpano da Taranto diretti a Palermo, scortando il piroscafo Anna Maria Gualdi e la nave cisterna Giorgio (il primo quasi scarico, la seconda con duemila tonnellate di benzina).
Il Gualdi inizia a dare problemi fin da subito: secondo Aldo Cocchia, “si mostrò (…) tanto piccolo quanto indisciplinato. Non c'era verso di farsi ubbidire da questa riottosa carretta e ci volevano gli argani per ottenere che non uscisse di formazione”. Appena lasciata Taranto il piroscafo viene colto da un'avaria, ma è in grado di proseguire; poi rischia di finire su un campo minato italiano; infine, dopo altre peripezie, viene colto da un'altra grave avaria di macchina nello stretto di Messina e Cocchia gli ordina di entrare in quel porto (“Non mi parve vero mandarlo in porto solo soletto, sicuro che il comandante della marina in Sicilia, l'ammiraglio Barone, gli avrebbe ben bene riviste le bucce”), proseguendo con la Giorgio ed i due cacciatorpediniere.
Verso mezzanotte le tre navi incrociano a nord della Sicilia un altro convoglio, avente come capo scorta la torpediniera Orsa; più o meno contemporaneamente uno o due aerosiluranti britannici lanciano alcuni bengala ed anche qualche siluro contro il convoglio, ma nessuna nave viene colpita.
29 novembre 1942
Da Recco, Lampo e Giorgio arrivano a Palermo in mattinata. Così Cocchia descrive le condizioni del capoluogo siciliano: “A Palermo ero stato l'ultima volta nel 1936 all'epoca della guerra etiopica (…) Allora il porto era magnifico di attività; le banchine, forse non sempre del tutto pulite, erano efficienti e ordinate; le attrezzature in perfetto stato; ora tutto era sottosopra: non certo come Tobruk o come la stessa Palermo doveva diventare alcuni mesi dopo, ma pur sempre in condizioni tutt'altro che buone. Nel bel mezzo del porto affiorava un relitto di grosse dimensioni, altri minori emergevano qua e là e su tutto la guerra aveva impresso la sua impronta di ferocia e di distruzione. (…) la città stessa aveva un volto che non saprei definire altrimenti che grigio, nonostante lo smagliante sole di quelle magnifiche giornate autunnali. La guerra pesava su tutti: sulle poPolazioni martoriate dall'offesa aerea, contro la quale non erano sufficientemente premunite, sui combattenti che sentivano gravare su di loro la spaventosa inferiorità nella quale si trovavano rispetto al nemico, sui comandi estenuati da una lotta che sapevano impari per la deficienza dei mezzi e perché alla loro azione di comando si sovrapponeva di continuo quella dell'alleato germanico; la guerra pesava infine su di noi, marinai delle flotte da guerra e mercantile, che da tre anni facevamo ogni sacrificio perché il mare non ci fosse del tutto precluso. Palermo mi diede in pieno la nozione di questa stanchezza che travagliava ciascuno di noi forse perché inconsciamente la raffrontavo con la Palermo vista in altri giorni sfolgorante di entusiasmo e di orgoglio, forse perché io stesso cominciavo a sentire la fatica dei lunghi mesi di incessante lavoro sul mare”.
La battaglia del banco di Skerki
Alle dieci del mattino del 1° dicembre 1942 (le 10.15 per altra fonte) il Da Recco, al comando del capitano di vascello Aldo Cocchia, partì da Palermo scortare a Biserta il convoglio «H», composto dai trasporti truppe Aventino e Puccini, dal traghetto requisito Aspromonte e dal piccolo trasporto militare tedesco KT 1. In tutto, le quattro navi avevano a bordo 1766 tra ufficiali e soldati in prevalenza della 1a Divisione Fanteria "Superga" (equamente distribuiti tra Aventino e Puccini), 698 tonnellate di rifornimenti (di cui 120 di munizioni, il tutto sul KT 1), dodici cannoni da 88 mm con le relative dotazioni, 32 veicoli e quattro carri armati.
Il comandante Cocchia del Da Recco era investito del ruolo di caposcorta; oltre al Da Recco, la scorta era formata dai cacciatorpediniere Folgore (capitano di corvetta Ener Bettica) e Camicia Nera (capitano di fregata Adriano Foscari) e dalle torpediniere Procione (capitano di corvetta Renato Torchiana) e Clio (tenente di vascello Vito Asaro).
Alla partenza da Palermo il convoglio era composto da Aventino, Puccini e KT 1, mentre l'Aspromonte si sarebbe unito ad esso al largo di Trapani. Ciò avvenne puntualmente nel pomeriggio dello stesso 1° dicembre: prima di imboccare la rotta del Canale di Sicilia il convoglio passò davanti a Trapani, e l'Aspromonte uscì da quel porto alle 15.30, aggregandosi due ore più tardi (per altra fonte, alle 20) al convoglio come previsto. Poi, tutte le navi misero la prua verso la Tunisia. La campagna di Tunisia era appena iniziata, e la rotta per Tunisi e Biserta non era ancora diventata famosa tra gli equipaggi italiani come la “rotta della morte”: fino a quel momento, gli attacchi angloamericani erano stati relativamente sporadici e inefficaci. Ma quella notte, tutto sarebbe cambiato.
Il convoglio «H» non era l'unico in mare nella notte tra l'1 e il 2 dicembre 1942: altri tre convogli si trovavano in navigazione nel Canale di Sicilia. Il «B», con cinque mercantili (piroscafi Arlesiana, Achille Lauro, Campania, Menes e Lisboa) e cinque navi scorta (le torpediniere Sirio, Groppo, Orione, Pallade ed Uragano), era diretto da Napoli verso la Tunisia; il «C», con tre trasporti (piroscafi Chisone e Veloce e cisterna militare Devoli) e quattro torpediniere per la scorta (Lupo, Ardente, Aretusa e Sagittario), procedeva da Napoli verso Tripoli; ed il «G» (nave cisterna Giorgio scortata dal cacciatorpediniere Lampo e dalla torpediniera Climene) era in rotta da Palermo a Tunisi. I convogli «G» e «H», partiti a poca distanza temporale l'uno dall'altro, sarebbero rimasti in contatto per buona parte della traversata del Canale di Sicilia.
Secondo le memorie di Aldo Cocchia, in origine era stato previsto che le navi dei convogli «H», «G» e «B» avrebbero dovuto riunirsi e formare un unico grande convoglio, ma l'idea era stata accantonata e si era invece preferito farli navigare separatamente. Un primo problema che si presentò era costituito dal fatto che nessuna delle quattro navi scorta poste alle sue dipendenze per questa traversata aveva mai navigato prima ai suoi ordini, dunque non esisteva alcun affiatamento; come se non bastasse il comandante del Folgore Ener Bettica, che pure Cocchia stimava come ottimo ufficiale, era alla sua prima missione di guerra come comandante di cacciatorpediniere (fino a poche settimane prima era stato destinato ad incarichi a terra), e la Clio era sprovvista del suo comandante titolare, ammalato, e comandata temporaneamente dal comandante in seconda.
Un altro neo era costituito dalla difforme velocità delle navi del convoglio: Aventino, Puccini e KT 1 (quest'ultimo “poco più di una motozattera”, con a bordo “un grosso carro armato germanico e munizioni”) avevano una velocità massima di circa dieci nodi, mentre l'Aspromonte (“bella e grossa nave traghetto, carica di carri armati e munizioni”) poteva fare i 16 nodi: la decisione di aggregarlo ad un convoglio di 10 nodi era pertanto discutibile, ma si era preferito non farlo navigare da solo “e convogli veloci in quel momento non ce n'erano”.
Il convoglio «G», leggermente più lento dell'«H» (9 nodi), era stato fatto partire prima in modo che quest'ultimo, dopo averlo superato al largo di Trapani, sarebbe rimasto comunque in contatto con esso per tutta la navigazione, data la poca differenza di velocità. (In origine era stato previsto che questi due convogli sarebbero dovuti partire da Palermo insieme, alle dieci del 30 novembre, navigando a 10 nodi e procedendo in un unico gruppo fino a mezzanotte, per poi dividersi e proseguire su rotte parallele verso Tunisi e Biserta, con il «G» più a nord e l'«H» più a sud).
Per agevolare le comunicazioni tra le navi del convoglio «H», tutti i mercantili che lo componevano, tranne il KT 1, erano stati muniti di radio ad ultracorte ed avevano imbarcato alcuni guardiamarina prelevati da incrociatori sui quali erano assegnati al servizio comunicazioni. Tuttavia, “gli apparati ultracorte delle navi mercantili erano stati appena installati e non erano ancora a punto, i guardiamarina provenienti dagli incrociatori mancavano della necessaria esperienza e perciò il loro aiuto finiva con l'essere molto modesto, gli operatori radiotelegrafisti non erano tutti all'altezza della situazione”. Punto debole era appunto il KT 1, che non aveva radio di nessun tipo (cosa abbastanza incredibile nel 1942) e nemmeno un ufficiale italiano di collegamento; ma questo non dava molto pensiero a Cocchia, che pensava che le sue modeste dimensioni – che invero avrebbero reso forse meglio per esso tentare la traversata in navigazione isolata – e la sua velocità leggermente superiore rispetto ad Aventino e Puccini gli avrebbe permesso bene o male di cavarsela comunque.
In origine la partenza da Palermo del convoglio «H» era stata prevista per il mattino del 30 novembre, in modo da arrivare a Biserta all'alba del 1° dicembre, ma all'ultimo momento era stata rimandata di ventiquattr'ore. Secondo le memorie di Aldo Cocchia, che però lo venne a sapere soltanto in seguito e probabilmente con qualche inesattezza, questo rinvio sarebbe stato determinato dall'avvistamento di navi da guerra britanniche – incrociatori leggeri e cacciatorpediniere – nel porto algerino di Bona, non lontano dal confine con la Tunisia; tuttavia, la storia ufficiale dell'USMM non stabilisce alcun collegamento tra l'avvistamento delle navi britanniche (di cui si parlerà poco oltre) a Bona, che sarebbe avvenuto la sera del 30 novembre – e dunque non avrebbe potuto influire sulla decisione di rimandare la partenza del convoglio «H», presa il mattino dello stesso giorno – ed il posticipo della partenza del convoglio.
Il 30 novembre Cocchia convocò i comandanti delle navi militari e mercantili che componevano il convoglio, per l'abituale riunione tenuta prima della partenza. Per suo volere, oltre ai comandanti parteciparono alla riunione anche gli ufficiali alle comunicazioni di ciascuna nave; attribuendo importanza cruciale al buon funzionamento delle comunicazioni, era sua intenzione dar loro istruzioni personalmente.
Nel corso della riunione Cocchia diede le direttive su come comportarsi in caso di incontro con aerei o sommergibili, illustrò le formazioni da assumere ed i segnali da usare, e stabilì che in caso di avvistamento di navi da guerra nemiche Da Recco, Procione e Camicia Nera sarebbero dovuti andare immediatamente all'attacco, senza attendere ordini, combattendo ad oltranza, mentre i mercantili, sempre senza aspettare ordini (Cocchia lo sottolineò perché non si poteva escludere che in caso di attacco navale proprio il Da Recco fosse la prima nave ad essere affondata o comunque messa fuori uso), avrebbero dovuto allontanarsi il più rapidamente possibile scortati da Folgore e Clio. Infine, dispose che tutte le navi della scorta dalla mezzanotte in poi si sarebbero dovute tener pronte a sviluppare la massima velocità, a scopo precauzionale (di solito, per economizzare il carburante, si teneva accesa solo metà delle caldaie in navigazione, a meno di non essere in prossimità di basi nemiche).
In aggiunta alle istruzioni impartite a voce, ai comandanti di ogni nave venne consegnato un ordine d'operazione cartaceo (n. 17 del 30 novembre), elaborato da Cocchia sulla scorta delle passate esperienze, nel quale si illustrava cosa fare nelle diverse eventualità che potevano verificarsi (tale ordine d'operazione prescriveva, in caso di attacco di navi di superficie, che «Le siluranti di scorta attaccheranno il nemico impegnandolo a fondo e coprendo il convoglio con nebbia. Le unità mercantili assumeranno, anche senza ordini, la rotta di più rapido allontanamento cercando di coprirsi con nebbia. Folgore e Clio resteranno col convoglio»). Il criterio era sempre quello di far sì che i comandanti dipendenti sapessero già cosa fare senza attendere da Cocchia ordini che avrebbero potuto non arrivare se il Da Recco fosse stato colpito per primo; sia per evitare momenti d'incertezza potenzialmente fatali in tale eventualità, sia per ridurre al minimo la necessità di trasmettere ordini e segnali, cosa non sempre agevole specie di notte o sotto attacco. Certo, per avere realmente una reazione fulminea e ben coordinata sarebbe stato necessario un buona affiatamento tra il caposcorta ed i comandanti subordinati, ma questo era spesso impossibile con i convogli, formati con le unità che erano disponibili al momento. Così era stato per l'«H».
Sul Da Recco, al fine di mantenere i contatti con gli aerei tedeschi di scorta e con le relative basi aeree, erano stati imbarcati per l'occasione alcuni radiotelegrafisti della Luftwaffe, insieme alla loro radio. Oltre ad essi si era imbarcato sul cacciatorpediniere caposcorta un altro membro della Luftwaffe, un giovane ufficiale incaricato di studiare i metodi di attacco degli aerei britannici, dai quali – si pensava – il convoglio sarebbe stato sicuramente attaccato durante la navigazione.
Le navi del convoglio «G» lasciarono Palermo alle nove del mattino del 1° dicembre, e quelle dell'«H» iniziarono ad uscire un'ora dopo; secondo il ricordo di Aldo Cocchia, la partenza avvenne mentre suonavano le sirene d'allarme e la contraerea sparava contro dei ricognitori, che però non furono abbattuti, così che “diedero al comando britannico la notizia che tale comando attendeva, e cioè che un convoglio italiano stava prendendo il mare da Palermo”.
Ricognitori o meno, i britannici disponevano di mezzi anche migliori per sapere se e quali convogli italiani fossero in mare: già il 29 novembre “ULTRA” aveva decrittato messaggi italiani che rivelavano che Aventino, Puccini, KT 1, Giorgio ed Anna Maria Gualdi (quest'ultimo rimasto poi in porto per avaria) dovevano partire da Palermo alle 6.30 del 1° dicembre, i primi tre diretti a Biserta e gli ultimi due a Tunisi, dopo che la loro partenza era stata ritardata di 24 ore; e che al largo di Trapani si sarebbe unito a loro l'Aspromonte, dopo di che avrebbero imboccato il canale di Sicilia alla velocità di 9 nodi, con arrivo previsto alle sei del 2 dicembre ("Piroscafi Puccini, Aventino, Gualdi, petroliera GIORGIO e K.T.1 salperanno da Palermo alle 06.30 del giorno 1, essendo stata ritardata di 24 ore la loro partenza, unendosi con l'Aspromonte al largo di Trapani e quindi dirigendo per i porti tunisini alla velocità di 9 nodi. Il Gualdi e il GIORGIO per Tunisi e gli altri per Biserta. Ambedue i convogli giungeranno probabilmente alle 06.00 del giorno 2"). Nel riferire tali informazioni ai comandi delle forze britanniche nel Mediterraneo, l'Operational Intelligence Centre dell'Ammiragliato britannico aveva anche suggerito quale strumento sarebbe più idoneo per l'intercettazione del convoglio: la Forza Q.
Tale formazione, appena creata ed avente base a Bona in Algeria (dov'era stata dislocata il 30 novembre, non appena gli Alleati avevano raggiunto nella zona una superiorità aerea sufficiente a proteggere le navi di base in quel porto dagli intensi attacchi aerei dell'Asse che l'avevano bersagliato nelle settimane immediatamente successive alla sua occupazione), era una forza navale leggera incaricata, come la Forza K aveva fatto un anno prima, di compiere scorrerie ai danni dei convogli italiani: la componevano tre incrociatori leggeri del 12th Cruiser Squadron, l'Aurora (nave di bandiera del viceammiraglio Cecil Halliday Jepson Harcourt, comandante sia del 12th Cruiser Squadron che della Forza Q) che proprio della Forza K era un reduce (il suo comandante, capitano di vascello William Gladstone Agnew, era stato il comandante della Forza K nel 1941) ed i nuovissimi Sirius (capitano di vascello Patrick William Beresford Brooking) ed Argonaut (capitano di vascello Eric William Longley Longley-Cook), e da due cacciatorpediniere, il Quiberon (della Marina australiana, al comando del capitano di fregata Hugh Walters Shelley Browning) ed il Quentin (capitano di corvetta Allan Herbert Percy Noble). Se fino a quel momento il traffico con la Tunisia non era stato granché disturbato perché gli Alleati avevano preferito concentrarsi sulla distruzione degli ultimi convogli diretti in Libia e necessitavano di tempo per riorganizzare le loro forze nel Nordafrica francese appena occupato, la situazione era ora giunta ad una svolta.
Il 1° dicembre “ULTRA” aveva fatto avere ai comandi britannici maggiori particolari sui convogli «G» e «H» (per quest'ultimo, aveva aggiunto che il KT 1 aveva lasciato Napoli alle 20 del 28 novembre per unirsi al convoglio “Puccini” e partire con esso da Palermo per Biserta alle 6.30 dell'1 dicembre). (Secondo Francesco Mattesini, il trasferimento stesso della Forza Q da Algeri a Bona sarebbe stato determinato anche dalle intercettazioni di “ULTRA”, che fin dal 22 novembre avevano permesso ai comandi britannici di sapere che a breve alcuni convogli dell'Asse sarebbero partiti per Tripoli, Tunisi e Biserta).
Nel pomeriggio del 1° dicembre si susseguirono gli avvistamenti dei convogli italiani da parte dei ricognitori britannici: dapprima il «B», alle 14.40, indi il «C», alle 15, poi il «G» un quarto d'ora dopo. L'unico convoglio a non essere ancora stato avvistato al momento della partenza della Forza Q era proprio quello che ne sarebbe caduto vittima, l'«H»: esso venne difatti avvistato soltanto alle 20.15.
Alle 17.30 del 1° dicembre (per altra fonte, alle 17.05 od alle 19) le navi della Forza Q salparono da Bona ed assunsero la velocità di 27 nodi, dirigendo verso il banco di Skerki, una secca lunga 16 miglia e larga otto, situata presso la costa tunisina (a nord di Capo Bon e 60-80 miglia a nord di Biserta) e 60 miglia ad ovest di Marettimo: lì dovevano passare i convogli diretti in Tunisia. Per la Forza Q questa era in assoluto la prima uscita in mare a caccia di naviglio dell'Asse.
Basandosi sui segnali di scoperta trasmessi dai ricognitori, Harcourt pensava di poter intercettare ad ovest del Canale di Sicilia i convogli «G» e «H», che dovevano navigare piuttosto vicini l'uno all'altro; quindi predispose la navigazione in modo da raggiungerli ed attaccarli di sorpresa verso mezzanotte, con l'ausilio del radar. Ai comandanti delle sue navi l'ammiraglio britannico aveva impartito queste istruzioni: «a) Tenersi in linea di fila in modo che ogni nave fuori della linea [possa essere] chiaramente [identificata come] nemica. b) Portare l'azione a fondo, attaccare prima la scorta e poi il convoglio, l'ammiraglia segnalerà l'unità di scorta da attaccare puntando la prora nella sua direzione. c) Usare illuminanti solo se la visibilità non consente di scorgere i punti di caduta dei colpi. d) In caso di forte separazione dalla linea segnalare coi fanali di mischia la propria posizione. e) Fino all'inizio dell'azione, fare le segnalazioni esclusivamente a luce oscurata in linea di fila col metodo F. f) Mantenere l'assoluto silenzio radio durante l'avvicinamento. g) In caso di assoluta necessità, consentite esclusivamente segnalazioni radiofoniche limitate all'orizzonte, per non consentire l'intercettazione radiogoniometrica da parte del nemico».
Per ingannare eventuali ricognitori avversari, la Forza Q seguì rotta verso ovest fino al tramonto, per poi invertire la rotta per 052° alle 18, alla velocità di 27 nodi.
Anche Supermarina aveva contezza, almeno in parte, degli avvenimenti in corso: sin dal 30 novembre (quando i convogli «B» e «C» erano stati avvistati da un ricognitore britannico a sudovest di Napoli, verso le 23), tutti i segnali di scoperta dei ricognitori britannici erano stati intercettati dalle stazioni radio della Marina e dalle stazioni d'ascolto dell'Aeronautica e del Comando tedesco dello scacchiere Sud; e com'era pratica comune, una volta decifrati Supermarina li aveva ritrasmessi all'aria, così che i convogli in mare sapessero di essere stati avvistati, e dunque potessero prendere i provvedimenti del caso.
La sera del 30 novembre (per altra fonte nel primo pomeriggio, alle 13.30), inoltre, ricognitori dell'Asse avevano avvistato forze leggere nemiche nel porto di Bona: sei navi da guerra di tipo imprecisato, ma ritenute essere un incrociatore e cinque cacciatorpediniere (era appunto la Forza Q). Supermarina, intuendo correttamente che tali forze fossero destinate all'impiego contro i convogli (si valutava che la distanza tra Bona e l'area di passaggio dei convogli «B» e «H» nella notte tra l'1 ed il 2 dicembre sarebbe stata percorribile in sei ore, se le navi britanniche avessero mantenuto una velocità attorno ai 30 nodi), chiese tramite l'ufficio di collegamento della Marina presso il Comando tedesco del fronte Sud (Oberbefehlshaber Süd, al comando del feldmaresciallo Albert Kesselring e con sede a Frascati), retto dal capitano di fregata Virginio Rusca, che al tramonto del 1° dicembre venisse effettuata una nuova ricognizione sul porto di Bona, per meglio stabilire che tipo di navi da guerra vi si trovassero.
Un aereo Junkers Ju 88 del 122° Gruppo Ricognizione Strategica della Luftwaffe, accompagnato da un idrovolante CANT Z. 1007 bis del 51° Gruppo Ricognizione Strategica della Regia Aeronautica, venne infatti inviato su Bona, ma nessuno dei due fece ritorno. Dopo insistenti richieste di Supermarina, alle 23.05 l'Ufficio di collegamento con il Comando in Capo delle forze tedesche in Italia, Maricolleg Frascati, riferì telefonicamente del mancato rientro dei due aerei, spiegando che probabilmente erano stati entrambi abbattuti (ed infatti era andata proprio così: due caccia Spitfire del 242nd Squadron della RAF, pilotati dal tenente Claude Gordon Hodson e dal sergente Like Mallison, avevano abbattuto il CANT Z. 1007, e Mallison aveva abbattuto anche lo Ju 88). Venne inoltre aggiunto che le ricognizioni compiute fino alle 18 dal 122° Gruppo Ricognizione Strategica non avevano avvistato navi nemiche in mare aperto (e infatti la Forza Q era partita alle 17.30).
L'arrivo dei rifornimenti trasportati dai quattro convogli era atteso con grande urgenza, e non era pensabile di rimandare l'operazione soltanto perché erano state avvistate in porto forze navali nemiche (come fu scritto nel promemoria n. 125 inviato il 3 dicembre da Supermarina al Comando Supremo ed a Mussolini: "Se si dovessero contro mandare le operazioni di trasporto e dirottare i convogli tutte le volte che si riceve la prima notizia di un avvistamento, che spesso non è confermata o quando per la presunta presenza del nemico in una zona risulta possibile un suo intervento, il traffico sarebbe certo più sicuro, ma di gran lunga meno intenso. E i consumi di nafta diventerebbero proibitivi"). Nel Canale di Sicilia, in quel momento, si trovava in navigazione la X Squadriglia Cacciatorpediniere (Maestrale, Grecale, Ascari) che aveva appena ultimato una missione di posa di mine; essendo il convoglio «H» più veloce e dotato di scorta più potente del convoglio «B», ed in considerazione del fatto che alla mezzanotte del 1° dicembre il convoglio «H» avrebbe dovuto già godere della “protezione” dei bassi fondali del banco Keith (situato sei miglia a nord del banco Skerki e lungo una trentina con orientamento nordest-sudovest, presentava scogli affioranti e fondali che in alcuni punti non superavano i 7-8 metri) e dei tratti già posati dello sbarramento di mine in corso di realizzazione, Supermarina decise alle 19.35 di inviare i tre cacciatorpediniere a rinforzare la scorta del convoglio «B» e non quella del convoglio «H».
Aldo Cocchia osserva nelle sue memorie che a Messina si trovava in quel momento (e vi aveva base fin dall'inizio della guerra) la III Divisione Navale, con gli incrociatori pesanti Trieste e Gorizia, che avrebbe potuto essere fatta uscire in mare per fornire appoggio indiretto ai convogli in caso di attacco navale: i pezzi da 203 mm di questo incrociatori pesanti avrebbero avuto facilmente ragione, almeno sulla carta, dei 152 di cui disponevano gli incrociatori leggeri della Forza Q. Va però notato che in realtà le navi maggiori italiane, per scarsità numerica e qualitativa dei radar (né il Trieste né il Gorizia ne erano dotati) e carenza di addestramento nel combattimento notturno, erano fortemente svantaggiate negli scontri notturni contro quelle britanniche, che di notte erano invece nel loro elemento; e che nell'unico caso in cui un convoglio italiano protetto da incrociatori pesanti era stato attaccato nottetempo da una formazione leggera britannica, l'amaro scontro del convoglio «Duisburg» del 9 novembre 1941, gli incrociatori pesanti assegnati alla scorta indiretta del convoglio – proprio la III Divisione – si erano mostrati completamente incapaci di salvarlo dalla distruzione, o di infliggere il minimo danno agli incrociatori leggeri attaccanti. Forse furono queste considerazioni a decidere di non far uscire in mare la III Divisione, forse la sempre più preoccupante situazione delle riserve di nafta (lo storico James Sadkovich afferma che la ragione per cui gli incrociatori rimasero in porto fu questa); fatto sta che la III Divisione rimase a Messina e nemmeno ebbe ordine di tenersi pronta ad uscire in mare. In effetti alla questione, sollevata da Cocchia, non si fa alcun accenno nella storia ufficiale dell'USMM, così che non è neanche dato sapere se l'impiego della III Divisione venne almeno considerato da Supermarina.
Altra e forse più fondata critica che Cocchia rivolge nel suo libro è che Supermarina, pur sapendo fin dal 30 novembre che navi da guerra britanniche si trovavano a Bona, non ritenne di dovergliene dare informazione.
Anche da parte tedesca, a posteriori, vennero indirizzate a Supermarina critiche per non aver impiegato navi maggiori a protezione del convoglio; nel già citato promemoria n. 125 fu risposto in proposito che "Una Divisione Navale dislocata a Cagliari avrebbe permesso non di impedire l'azione navale, ma di vincolarla con la possibilità di un incontro all'alba" dal momento che le navi maggiori italiane difettavano ancora sia nelle strumentazioni (radar, apparati di avvistamento ottico a grande luce notturna) che nell'addestramento per il combattimento notturno.
Verso le tre del pomeriggio del 1° dicembre l'Aeronautica della Sardegna inviò a bombardare Bona, nel tentativo di neutralizzare le forze navali ivi avvistate, cinque caccia Reggiane Re 2001 del 22° Gruppo armati con bombe da 250 kg, al comando del capitano Germano La Ferla, e dieci bombardieri Savoia Marchetti S.M. 84 dell'89° Gruppo del 32° Stormo Aerosiluranti, anch'essi armati con bombe. Questi attacchi risultarono del tutto inefficaci; i Re 2001 effettuarono bombardamento in picchiata ma non poterono osservarne l'esito perché gli obiettivi erano completamente coperti da banchi di nubi (nessuna nave fu colpita), ed altrettanto infruttuoso fu l'attacco degli S.M. 84, tre dei quali (quelli dei capitani Enzo Stefani ed Umberto Camera, comandanti rispettivamente della 228a e 229a Squadriglia, e quello del sottotenente Paolo Cojana) furono abbattuti dagli Spitfire dell'81st e 242nd Squadron della RAF (in particolare dagli aerei del sergente James Robin Mallinson e del segente maggiore George Alec Coutts; parteciparono all'azione anche dieci Spitfire statunitensi del 52nd Fighter Group dell'USAAF, comandati dal colonnello Graham W. West, che fu però il solo a rivendicare un danneggiamento), mentre altri tre vennero seriamente danneggiati e dovettero compiere degli atterraggi di fortuna. I mitraglieri degli S.M. 84 rivendicarono l'abbattimento di sei caccia nemici, ma in realtà nessuno Spitfire era andato perduto. La Forza Q non subì alcun danno.
Alle 16.30 Supermarina chiese a Superaereo di sollecitare il comando del II. Fliegerkorps tedesco ad attaccare durante la notte gli aeroporti tra Bona e Bougie, per impedire che gli aerei ivi stanziati potessero attaccare i convogli in mare; i tedeschi risposero che 18 bombardieri (dieci Heinkel He 111, sei Ju 88 e due Dornier Do 217) avrebbero compiuto tali attacchi.
Alle 22.40 del 1° dicembre un altro Ju 88 del 122° Gruppo Ricognizione Strategica della Luftwaffe avvistò per caso una ventina di miglia a nord di Biserta (in posizione 37°42' N e 09°45' E, a 60 miglia per 290° da Capo Bon, nel quadratino 9843/03 Est: ossia a circa 75 miglia dalla posizione del convoglio «H») un gruppo di cinque navi da guerra di medio tonnellaggio e tipologia imprecisata, aventi rotta stimata 90° (sbagliava di poco: quella reale era 104°) ed alta velocità, in posizione poi rivelatasi quasi esatta: si trattava della Forza Q. La radio dell'aereo era però in avaria, così che l'avvistamento poté essere riferito a Supermarina (mediante comunicazione telefonica di Superareo, lo Stato Maggiore dell'Aeronautica) soltanto dopo l'atterraggio, alle 23.30. Poco dopo, Supermarina venne informata anche dell'intercettazione di un messaggio diretto ai bengalieri britannici con la richiesta di smettere di illuminare il convoglio: altro segno che il nemico era vicino, volendo evitare che le navi italiane potessero avvistare le sue alla luce dei bengala. Alle 23.40 venne lanciato ai convogli il segnale di scoperta relativo a questa forza navale.
L'Oberbefehlshaber Süd chiese persino a Supermarina se le navi avvistate alle 22.40 potessero essere italiane, ma ricevette risposta negativa, dal momento che le uniche unità italiane in navigazione nelle acque in cui era avvenuto l'avvistamento erano tre motosiluranti, tra Biserta e la Galite. Da parte italiana vennero sollecitate informazioni più precise sulla tipologia delle navi avvistate, chiedendo di comunicare se si fosse trattato di motosiluranti; l'O.B.S. replicò che l'ora a cui era avvenuto l'avvistamento rendeva impossibile un'identificazione più chiara, ma che non si poteva del tutto escludere che si potesse trattare anche di motosiluranti. Considerate la rotta e posizione delle unità avvistate, comunque, Supermarina concluse che dovevano essere nemiche, e quando l'O.B.S. chiese se poteva attaccarle venne data risposta affermativa, non mancando di comunicare la rotta e posizione dei convogli «B» e «H» e di sottolineare la necessità di non attaccarli per errore.
(Diverse ore dopo più tardi, quando ormai la sorte del convoglio «H» si era compiuta, il Comando della Kriegsmarine in Italia avrebbe comunicato a Supermarina che il Comando della Marina tedesca in Tunisia aveva riferito che "Aereo comunica: Formazione nemica sarebbe composta, alle ore 01.40, in 37°37'N, 11°15'E, di un incrociatore e cinque cc.tt.").
Alle 23.40 un altro ricognitore tedesco segnalò, senza indicare l'ora dell'avvistamento, "6 unità leggere Rv. 90° 20 mgl. a Nord di Biserta". Alle 00.25 l'O.B.S. informò Superaereo che avrebbe attaccato le navi avvistate a nord di Biserta con con bombardieri durante la notte e con aerosiluranti all'alba.
Supermarina, intanto, valutò l'evolversi della situazione: il convoglio «C», unico diretto a Tripoli anziché in Tunisia, era troppo lontano dalla posizione della forza avvistata perché questa costituisse un pericolo (infatti ad attaccarlo furono inviati aerei e la ricostituita Forza K da Malta); quanto al convoglio «G», esso non poté più essere minacciato, perché la minaccia nei suoi confronti si era già manifestata con successo: alle 21.56, la Giorgio era stata colpita ed incendiata da un aerosilurante. In quel momento la Climene la stava rimorchiando verso Trapani.
I convogli a rischio erano quindi il «B» e l'«H», e specialmente quest'ultimo, dato che si trovava in posizione più avanzata, e la sua rotta lo avrebbe portato con maggior probabilità ad incontrare le navi britanniche. Nell'ipotesi che queste ultime procedessero a trenta nodi, l'ora a cui questo sarebbe avvenuto venne stimata, con notevole precisione, tra le 00.10 e le 00.30 del 2 dicembre. Si ponderò la possibilità di far tornare indietro i due convogli: per il «B», che era arretrato di una sessantina di miglia rispetto all'«H», questo era possibile, anche se non venne ordinato, preferendo lasciare che fosse il caposcorta a decidere (avendo ricevuto il segnale di scoperta delle 23.40 ed il messaggio inviato dal Da Recco a Supermarina alle 00.30, aveva abbastanza elementi per poter decidere: e infatti decise a mezzanotte di tornare indietro, dirigendo prima per Palermo e poi per Trapani); per l'«H», invece, sembrava già troppo tardi. Gli ordini di dirottamento dei convogli venivano di solito eseguiti solo 30-45 minuti dopo essere stati impartiti, a causa dei tempi necessari alla trasmissione e ricezione degli ordini, ed all'esecuzione delle manovre; di conseguenza, tenuto conto anche dell'elevata velocità delle navi britanniche (sempre stimata in 30 nodi), un ordine che il convoglio «H» invertisse la rotta avrebbe fatto sì che la Forza Q lo raggiungesse proprio mentre era in corso la manovra di inversione della rotta, quindi in un momento di massimo disordine, in cui il convoglio sarebbe stato preda più facile. In ogni caso il contatto tra il convoglio e la forza nemica sarebbe stato soltanto rimandato di poco, date le posizioni relative dei due gruppi; dovendo quindi rischiare in ogni caso, si preferì che il convoglio proseguisse almeno in formazione ordinata e non vennero dunque ordinati cambiamenti di rotta.
Intanto, il convoglio «H» navigava incontro al suo destino. Dopo la partenza da Palermo le navi mercantili si erano disposte in linea di fronte, tranne il KT 1 che seguiva la Puccini nella scia: Cocchia gli aveva ordinato di seguire la motonave ed imitarne ogni manovra, disposizione cui la piccola nave tedesca si attenne scrupolosamente.
Alcuni MAS precedevano il convoglio a distanza, pattugliando la sua rotta ed effettuando ascolto idrofonico per rilevare eventuali sommergibili nemici; calato il tramonto, tuttavia (al largo di Favignana), rientrarono alla base. Sempre al tramonto, come sempre, se ne andò anche la scorta aerea (ultimi apparvero, poco prima del crepuscolo, alcuni caccia Macchi Mc 202, che rimasero sul cielo del convoglio una ventina di minuti prima di andarsene).
Nel tardo pomeriggio (verso le 17 secondo le memorie di Cocchia, ma più probabilmente dovevano essere le 19/19.30) il Da Recco intercettò un messaggio radio con cui Supermarina informava la X Squadriglia Cacciatorpediniere ed il convoglio «B» dell'avvistamento a Bona di navi nemiche il 30 novembre, ed ordinava alla X Squadriglia di andare a rinforzare la scorta del convoglio «B». Non avendo ricevuto alcun messaggio indirizzato a lui, Cocchia ne trasse l'impressione che Supermarina, sulla base degli elementi a disposizione, non ritenesse che il suo convoglio fosse a rischio.
Alle 17.30 il convoglio fu all'altezza di Trapani e da quel porto uscì l'Aspromonte, cui Cocchia ordinò di accodarsi all'Aventino, in modo da assumere una formazione su doppia colonna; al termine di questa manovra il convoglio era così disposto: i mercantili procedevano su due colonne parallele, formando i quattro vertici di un quadrato di lato 800 metri; la colonna di dritta era costituita da Puccini (in testa) e KT 1 (in coda), quella di sinistra da Aventino (in testa) ed Aspromonte (in coda). Sui lati, alla stessa altezza dei mercantili di coda ed a 1500 metri di distanza da essi, si trovavano sulla dritta il Camicia Nera e sulla sinistra la Clio; a proravia dritta della Puccini, a 1700 metri di distanza ed in posizione più avanzata di circa 800 metri, si trovava la Procione, ed a proravia sinistra dell'Aventino, ad eguale distanza, il Da Recco (Procione e Da Recco procedevano in testa al convoglio per difesa antisommergibili, essendo dotati di ecogoniometro; erano seguiti in colonna rispettivamente da Camicia Nera e Clio, a 1600 metri di distanza). Il Folgore procedeva in coda al convoglio, a mille metri a poppavia di Aspromonte e KT 1, equidistante dalle due navi (in posizione idonea per coprire i mercantili con cortine nebbiogene in caso di inversione di rotta, oltre che per contrattaccare); questo cacciatorpediniere era munito di uno degli ultimi ritrovati della tecnologia bellica tedesca, un apparato «Metox», in grado di rilevare le emissioni dei radar ed allertare così le navi del convoglio della presenza nelle vicinanze di navi o aerei muniti di radar. La velocità del convoglio era di dieci nodi, la rotta di 245° (est/sudest); la navigazione si sarebbe svolta, sia di giorno che di notte, in base al grafico di marcia previsto dagli articoli 18 e 19 della D.T. 1S del luglio 1942.
Come previsto, il convoglio «H» superò il convoglio «G» alle 16.30, dopo di che quest'ultimo gli si accodò a qualche miglio di distanza; calato il sole, passarono un paio d'ore piuttosto tranquille. Quando scese il buio della sera l'orizzonte era coperto da un po' di foschia, e la luna era nascosta da fitti banchi di nuvole, il che limitava fortemente la visibilità. Il mare era calmo, la notte buia.
Poco dopo le otto di sera del 1° dicembre comparvero i primi aerei avversari, che per le quattro ore successive continuarono a sorvolare il convoglio illuminandolo, ma senza portare a fondo i loro attacchi. Nel frattempo, a scopo difensivo, la distanza tra le colonne dei mercantili era stata raddoppiata, mentre quella tra i mercantili e le navi scorta era stata ridotta, così che queste ultime potessero più agevolmente coprire i trasporti con cortine di nebbia. Cocchia informò Supermarina che il convoglio era stato avvistato da aerei poco dopo le 20 e che continuava ad essere seguito da ricognitori.
Già alle 19.56 il Folgore informò il caposcorta della presenza in zona di alcuni radar, rilevati dal suo apparato «Metox», comunicando "Siamo stati localizzati da aereo"; quando Cocchia chiese quale fosse la distanza, la risposta fu che al momento non era possibile precisarla, ma che l'aereo era in avvicinamento. Cocchia ordinò a tutte le unità del convoglio "Tenetevi pronti a far nebbia", e poi continuò a chiedere aggiornamenti al Folgore, che precisò che le emissioni radar provenivano da aerei distanti circa 50 km, i quali avevano localizzato il convoglio e lo avrebbero raggiunto di lì a otto o dieci minuti, e successivamente che l'aereo era "sempre sopra di noi". Cocchia diede ordine di iniziare ad emettere cortine fumogene, mandò tutto il personale al posto di combattimento ed ordinò alle navi dipendenti di tenersi pronte a manovrare al suo segnale.
Dalle 20.30 iniziarono a piovere i primi bengala: a lanciarli erano ricognitori muniti di radar di scoperta navale ASV. Da lì in poi la luminaria non si spense più, fin quasi a mezzanotte; bengala continuarono ad accendersi anche a gruppi di 4-5-6 ai lati del convoglio, mentre il Folgore continuava a rilevare le emissioni di numerosi radar attorno ad esso. Tuttavia a questi lanci di bengala non seguì nessun attacco: Cocchia non poteva saperlo, ma il compito di quegli aerei era semplicemente di rilevare formazione, rotta e velocità del convoglio per comunicarle alla Forza Q. Il caposcorta avrebbe poi ricordato che in questo frangente “Io manovravo di continuo emettendo cortine di nebbia. Mi aspettavo il lancio di bombe o di siluri da un momento all'altro (…) Le siluranti e le navi mercantili mi assecondavano abbastanza, ma eravamo ben lontani dalle manovre perfette che avevo realizzato altre volte quando (…) ero (…) riuscito ad occultare completamente i piroscafi che scortavo e a disorientare i velivoli attaccanti. Ora i nostri movimenti erano slegati, e anche il servizio delle comunicazioni non funzionava come avrebbe dovuto e come avrei voluto. L'apparato ultracorte del Puccini aveva funzionamento irregolare, il piroscafo mi sentiva ad intervalli, ubbidiva agli ordini male e con ritardo e ciò significava limitare molto la mia libertà di movimenti”.
C'era chi se la passava peggio: verso poppa, Cocchia vide altri bengala accendersi là dove sapeva essere il convoglio «G». Ai bengala seguirono scie luminose di mitragliere che dalle navi sparavano contro gli aerei, ed altre che dagli aerei sparavano sulle navi; e poi una grande fiammata. La Giorgio era stata colpita, come confermò poco dopo un messaggio del Lampo intercettato sul Da Recco. Per lungo tempo le fiamme che si levavano dalla petroliera incendiata rimasero ben visibili dalle navi del convoglio «H», verso poppa, sempre più lontane.
Alle 20.45 e poi alle 21.10 la Forza Q venne informata da ricognitori notturni dell'avvistamento del convoglio «H»; sulla base della prima segnalazione, alle 21 le navi britanniche, che in quel momento si trovavano in posizione 37°50' N e 09°00' E (a 22 miglia per 360° da La Galite), accostarono per 104°, sempre a 27 nodi. Harcourt stimò che uno dei convogli dell'Asse, e forse anche due, avrebbero raggiunto a mezzanotte un punto situato a due miglia per 053° da quello in cui si sarebbe venuta a trovare nello stesso momento la Forza Q.
Alle 23.03 i bengalieri che fino a quel momento avevano illuminato ad intermittenza il convoglio ricevettero l'ordine "non illuminate il nemico".
Alle 23.30 il radar tipo 271 dell'Aurora rilevò due oggetti circa quattro miglia verso sud; Harcourt ritenne che si trattasse di due motosiluranti, mentre più probabilmente erano le torpediniere Partenope e Perseo, inviate ad effettuare dragaggio ed ascolto ecogoniometrico lungo la rotta che avrebbe dovuto essere seguita dai convogli «B» e «H». Ritenendo che le condizioni fossero tali da impedire un attacco di MAS, la Forza Q mantenne rotta invariata (104°). Alle 23.37 vennero avvistati bagliori ad una ventina di miglia di distanza su rilevamento 078°; al contempo il cielo iniziò ad annuvolarsi, ando luogo a violenti acquazzoni ad intermittenza. Alle 00.01 del 2 dicembre, in posizione 37°32' N e 10°35' E, la Forza Q assunse rotta 050° e ridusse la velocità a 25 nodi; un minuto più tardi avvistò sette bagliori su rilevamento 050°, a quindici miglia di distanza.
Siccome i bengala continuavano ad accendersi tutt'intorno in numero mai visto prima (qualche mese dopo il comandante di uno dei cacciatorpediniere di scorta al convoglio «B», distante una trentina di miglia, avrebbe detto a Cocchia di aver contato 248 bengala, mentre di solito non ne veniva lanciata neanche una cinquantina), tale da far pensare che si stesse preparando un attacco aereo di intensità inaudita, ed ormai il convoglio era evidentemente stato scoperto, il comandante Cocchia decise di rompere il silenzio radio per informare Supermarina di essere sotto attacco aereo, chiedendo l'intervento della caccia notturna. Ordinò agli operatori radio della Luftwaffe di rivolgere analoga richiesta al comando dell'aviazione tedesca della Sicilia.
Anche un sommergibile, nel frattempo, stava tentando di attaccare il convoglio «H», della cui presenza era stato informato: il Seraph (tenente di vascello Norman Limbury Auchinleck Jewell), inviato insieme al gemello Sibyl nella zona che i convogli dell'Asse diretti in Tunisia avrebbero dovuto probabilmente attraversare, avvistò le navi italiane alle 21.55 e si avvicinò per attaccare, dando inizio ad un inseguimento nel quale fu notevolmente agevolato dai bengala continuamente lanciati dagli aerei. Alle 23.39, tuttavia, uno dei bengala cadde proprio dietro il sommergibile; vedendo una nave della scorta avvicinarsi ad alta velocità, Jewell credette d'essere stato avvistato e s'immerse alle 23.43. Due cacciatorpediniere passarono sui suoi lati, poi si riunirono al convoglio.
Alle 23.01, mentre il convoglio imboccava un canale piuttosto ristretto tra due vaste zone minate, il Da Recco ricevette un messaggio di Supermarina con le disposizioni per il pilotaggio che le torpediniere della scorta avrebbero dovuto effettuare nelle vicinanze del porto di destinazione. Alle 23.30, sulla base di un messaggio di Supermarina che ordinava di mandare una torpediniera ad effettuare dragaggio a proravia del convoglio (questo si stava infatti avvicinando ad una zona disseminata di campi minati, la cui esatta posizione non era del tutto certa), il caposcorta Cocchia destinò la Procione a questo compito, ordinandole di portarsi "bene di prora" e di mettere i paramine in mare a mezzanotte.
Pochi minuti prima di mezzanotte si accese al traverso a dritta del convoglio una cortina di ben quindici bengala: Cocchia li avrebbe ricordati come “una barriera luminosa dalla quale si staccavano grosse gocce di fuoco che rigavano lentamente l'atmosfera di un giallo rossastro di malaugurio… formavano uno strano arabesco che gettava tutt'intorno una bieca illuminazione. Finora non mi era mai capitato i vedere accendere nel mio cielo contemporaneamente tanti illuminanti, ma posso assicurare che non indugiai molto nella contemplazione dello spettacolo”. Presagendo che fossero stati lanciati in preparazione di un pesante attacco di aerosiluranti, ordinò di manovrare e di emettere nebbia artificiale, accostando di 90° a sinistra con tutte le navi del convoglio (manovra che riuscì fino a un certo punto, data la mancanza di affiatamento e le comunicazioni tutt'altro che ottimali; nel mentre i mercantili furono occultati abbastanza bene dalle cortine nebbiogene emesse dalle unità della scorta) e dirigendo così proprio verso un campo minato italiano; Cocchia contava di tornare sulla rotta originaria dopo qualche minuto, non appena spentisi i bengala, ma proprio quando questo era ormai avvenuto e stava per dare l'ordine di tornare sulla vecchia rotta, a mezzanotte, venne decifrato il segnale di scoperta della Forza Q trasmesso da Supermarina alle 23.40, in cui si dava notizia dell'avvistamento di navi britanniche a nord di Bona, in navigazione verso est ad alta velocità, da parte dell'aereo tedesco.
Supermarina aveva ritrasmesso il segnale di scoperta all'aria chiedendo al Maestrale, la cui squadriglia si trovava insieme al convoglio «B», di accusare ricevuta (cosa insolita, in quanto solitamente ai segnali di scoperta lanciati all'aria non si dava il ricevuto); non vi era analoga richiesta per il Da Recco, il che una volta di più indusse Cocchia – perplesso anche per il ritardo con cui il segnale era stato ritrasmesso rispetto all'orario dell'avvistamento da parte dell'aereo, non potendo ovviamente sapere dell'avaria alla radio che aveva impedito ad esso di comunicare l'avvistamento fino all'atterraggio – a ritenere che l'alto comando ritenesse che il suo convoglio non fosse in posizione tale da essere minacciato dalla forza navale avvistata. A maggior ragione il segnale di scoperta ritrasmesso alle 23.40 suonava strano dopo i messaggi delle 23.01 e delle 23.30, che gli avevano fatto presumere che Supermarina ritenesse il convoglio al sicuro da ogni pericolo, giacché in caso contrario “non avrebbe perduto del tempo per dirmi cose di secondaria importanza e (…) non avrebbe impicciato i movimenti del convoglio (…) mettendoci fra i piedi una silurante che, per avere in mare l'apparecchio di dragaggio, non aveva più tutta la sua libertà di azione”.
Per chiarire i suoi dubbi, alle 00.01 del 2 dicembre Cocchia chiese ordini a Supermarina, ma subito dopo decise autonomamente di far spostare il convoglio di tre miglia verso sud; non di più, perché sapeva che in zona c'erano vasti campi minati, ma non ne conosceva la precisa ubicazione (secondo Giorgio Giorgerini, intenzione di Cocchia era invece di spostare la rotta del convoglio verso est). A tale scopo, alle 00.05 ordinò a tutte le navi di accostare di 90° a un tempo sulla sinistra (così assumendo rotta 150°, verso sud-sud-est); poi, alle 00.17, diede ordine di accostare a un tempo sulla dritta per riassumere la rotta 245° (ovest-sud-ovest). (Per altra fonte questa duplice accostata sarebbe stata ordinata per consentire alle torpediniere della scorta di assumere il pilotaggio del convoglio in prossimità del porto di arrivo, ma sembra probabile un errore).
Così riporta la storia ufficiale dell'USMM, mentre nelle sue memorie Cocchia afferma di aver ordinato la prima accostata, come detto più sopra, dopo l'accensione dei bengala e prima di ricevere il segnale di scoperta della Forza Q, in reazione ad un previsto, ma mai verificatosi, attacco aereo (per versione ancora differente, avrebbe chiesto a Supermarina l'autorizzazione a spostare il convoglio di tre miglia verso sud dopo aver ricevuto il segnale di scoperta, ma poco dopo avrebbe deciso di farlo senza aspettare la risposta di Supermarina, essendosi intanto accesi dei bengala verso prua, in modo da rivolgere la poppa a questa nuova cortina luminosa). Dopo aver ricevuto il segnale di scoperta, dal momento che la rotta assunta con l'accostata di 90° a sinistra lo allontanava anche dalla probabile rotta delle navi nemiche, Cocchia decise di proseguire per un altro po' in quella direzione, invece di tornare sulla rotta precedente come aveva pensato di fare poco prima di ricevere il segnale; alle 00.15, ritenendo di non poter proseguire oltre per il rischio di finire sulle mine, diede ordine di tornare sulla rotta di prima.
Le due accostate, tuttavia (insieme a quello alla Procione di portarsi a proravia del convoglio), ebbero l'involontario effetto di scompaginare la formazione del convoglio: la Puccini non ricevette il secondo ordine (delle 00.17, l'accostata per tornare sulla rotta originaria) a causa della sua radio malfunzionante, e proseguì sulla sua rotta, speronando l'Aspromonte; nessuna delle due navi riportò danni gravi, ma entrambe si fermarono e rimasero indietro, la Puccini traversata rispetto alla rotta 245°, l'Aspromonte scaduto a sudest del convoglio. Per giunta il KT 1, che era sprovvisto di radio ed aveva l'ordine di seguire la Puccini ed imitarla nelle manovre, venne perso di vista dopo le 00.05: perse il contatto col convoglio e, non sapendo cosa fare, proseguì da solo nella notte.
Nel frattempo, a mezzanotte, il Seraph era riemerso. Alle 00.07, in posizione 37°42' N e 11°03' E, il sommergibile lanciò tre siluri da 4570 metri, dai tubi prodieri, contro il mercantile di testa del convoglio, la cui stazza venne valutata in 5000 tsl; Jewell avrebbe voluto lanciarne sei, ma vide che i primi due avevano corsa irregolare e decise quindi di interrompere la salva.
I siluri non andarono a segno, anche se le navi del convoglio avvertirono due esplosioni subacquee poco prima della collisione tra Aspromonte e Puccini: a bordo si credette si trattasse di bombe. Anche sul Seraph venne avvertita un'esplosione dopo un minuto e 35 secondi dai lanci, dopo la quale una delle unità di scorta venne vista accostare verso il sommergibile; Limbury s'immerse per sfuggire alla reazione della scorta, e scrisse poi nel giornale di bordo di essere stato sottoposto a caccia da parte di due cacciatorpediniere, rilevati poco dopo da due unità minori, una delle quali rimase stazionaria mentre l'altra attaccò con il lancio di sei bombe di profondità, esplose vicine ma non abbastanza da causare danni. Il comandante britannico doveva aver avuto le traveggole, dal momento che non vi fu nessuna azione antisommergibili da parte della scorta del convoglio «H». Quando più tardi sarebbe riemerso, avrebbe visto una nave in fiamme in posizione 37°42' N e 11°03' E ed avrebbe creduto di aver colpito, senza sapere che in realtà la Forza Q era già passata all'attacco.
Aldo Cocchia avrebbe poi ricordato che pur essendo dicembre, non faceva freddo. Era una notte umida senza luna, con nubi scure sparse (alcune ore dopo, a cose fatte, avrebbe piovigginato), calma di vento e mare leggermente increspato.
Dopo la collisione, il Folgore si avvicinò alla Puccini per segnalarle la rotta da assumere, mentre la Clio veniva inviata ad assistere l'Aspromonte, il cui comandante aveva comunicato di poter proseguire la navigazione (Cocchia, nelle sue memorie, afferma invece di aver ordinato alla Clio di assistere in particolare la Puccini, essendo questa rimasta danneggiata nella collisione, ma sembra probabile un errore); le quattro navi formavano un unico gruppetto piuttosto compatto, circa 6 km di poppa al Da Recco, che dopo la collisione aveva cercato di tenersi in posizione prodiera tra Aventino e Puccini per proteggere con l'ecogoniometro i due trasporti carichi di truppe da attacchi di sommergibili. Alle 00.34 l'Aspromonte comunicò alla Clio di poter proseguire, ed un minuto dopo la torpediniera si venne a trovare sulla sinistra ed a poppavia dell'Aventino, che formava la colonna sinistra del convoglio, con rotta 245°. L'Aventino – unico mercantile ad aver eseguito correttamente e senza incidenti le due accostate ordinate –, per l'appunto, seguiva il Da Recco a meno di un chilometro di distanza, ed era da esso visibile; la Procione, che stava per mettere a mare i paramine (divergenti), si trovava in quel momento circa 2000-3000 metri a proravia del Da Recco, verso nordovest (per altra fonte era invece 5500 metri a sud del Da Recco). Il Camicia Nera era a metà strada tra l'Aventino ed il grosso del convoglio, circa 3 km a nord della Puccini, mentre il KT 1 si trovava circa 3,5 miglia a nordovest del Da Recco. (Secondo fonti britanniche, il Da Recco, che procedeva su rotta ovest-sud-ovest, si trovava alla testa di una sorta di malridotta “colonna” composta da Aventino, Aspromonte e Clio, mentre Puccini e Folgore lo seguivano in linea di fronte a circa 6 km di distanza, in linea di fronte, con rotta sud-sud-ovest. Quando la Forza Q attaccò, con rotta 45°, il Da Recco si trovava al suo traverso ma in posizione più arretrata rispetto alla Procione, seguito a breve distanza da Aventino, Clio ed Aspromonte, tutti con rotta 45°, mentre Folgore e Puccini erano un po' più indietro, con rotta 190° circa).
E proprio in quel momento di confusione, confermando le peggiori previsioni di Supermarina, arrivò la Forza Q.
Le navi britanniche procedevano in linea di fila a 20 nodi: nell'ordine l'Aurora, il Sirius, l'Argonaut, il Quiberon e per ultimo il Quentin.
Alle 00.21 il radar dell'Aurora rilevò degli echi tra 040° e 080°, a distanze comprese tra le tre e le sei miglia: erano le navi del convoglio «H»; col favore del buio, la Forza Q continuò l'avvicinamento, serrando le distanze con le sue vittime e preparandosi ad aprire il fuoco. Harcourt diede ordine di accostare per 040° e ridurre la velocità a 20 nodi.
Sul Da Recco sembrava di essere entrati in una fase di illusoria calma: non giungevano più messaggi né da Roma né da Biserta, né dagli altri convogli in mare; non si vedevano più bengala e non c'era più traccia di aerei. Tutt'intorno il silenzio della notte. Ma l'equipaggio rimaneva al posto di combattimento generale, con i cannoni carichi e le caldaie accese e pronte a sviluppare la massima velocità. Il comandante in seconda, capitano di corvetta Pietro Riva, aveva preso posto sulla plancia poppiera, tenendosi pronto a governare da lì se ve ne fosse stato bisogno; sul ponte di comando o nelle immediate vicinanze si trovavano il comandante Cocchia, l'ufficiale di rotta Giorgio Ascheri con il suo sottordine Goffredo Giusfredi, l'ufficiale alle comunicazioni Alfredo Zambrini, l'ufficiale alle armi subacquee Salvatore Tivegna, il direttore di tiro Giuseppe Sciangula e l'ufficiale alla cifra Renato Federigi.
Alle 00.30 l'ignaro Cocchia chiese ordini a Supermarina in relazione all'avvistamento delle 22.40: solo a questo punto Supermarina si rese conto che il convoglio era in ritardo rispetto alle sue stime, ma ormai era tardi per fare qualcosa. Il Folgore rilevò col suo «Metox» le emissioni del radar dell'Aurora; in quel momento il convoglio si trovava una sessantina di miglia a nordest di Biserta e 40 miglia a nord di Capo Bon, in posizione 37°40' N e 10°58' E secondo le fonti italiane, 37°39° N e 10°50' E secondo quelle britanniche. Poco dopo la radio del Da Recco intercettò e decifrò un segnale di scoperta lanciato all'aria da un'unità britannica con gruppo orario 003202; il messaggio, intercettato anche da Supermarina alle 00.33, annunciava "Avvistato convoglio 3 miglia per 70° mia posizione lat. 37°41'N, long. 10°51'". Alle 00.36 l'Aurora avvistò otticamente due navi e manovrò per attaccarle: prima ad essere avvistata, di prua a sinistra, fu una nave di piccolo tonnellaggio contro la quale furono puntati i pezzi da 152 mm; subito dopo venne avvistata un'altra piccola nave a distanza leggermente maggiore. Alle 00.37 la Forza Q variò la rotta per attaccare questa seconda nave.
Questa non era altri che il KT 1, il quale procedendo da solo nell'oscurità, aveva finito con l'imbattersi per primo proprio nella Forza Q: alle 00.37 l'Aurora ed il Sirius aprirono il fuoco da soli 1700 metri contro la piccola nave tedesca, che venne subito colpita, ed alle 00.39 si unì al tiro anche l'Argonaut, che sparò una bordata e lanciò anche un siluro. Nel giro di tre minuti tutto era finito: del KT 1 non rimanevano che rottami, cadaveri, forse qualche naufrago. Non vi sarebbero stati sopravvissuti.
Alle 00.38 la Forza Q diede inizio ad una lenta accostata sulla dritta, passando di poppa al KT 1 in affondamento, dopo di che (dopo aver diretto verso sud tra le 00.45 e le 00.50) intraprese un'ancor più lenta accostata sulla sinistra ed all'1.04 assunse rotta per nordest (tornando su rotta simile a quella iniziale), avvolgendo l'intero convoglio da sud. Prima ancora che il KT 1 affondasse, l'Argonaut ed il Quiberon avevano già rivolto la loro attenzione ad altri bersagli, sparando contro un'unità leggera avvistata al traverso a dritta, verso sudest: probabilmente il Da Recco o la Procione.
Da bordo del Da Recco vennero viste accendersi improvvisamente ad una distanza che Cocchia stimò di 10 km le vampe delle artiglierie delle navi britanniche che aprivano il fuoco sul KT 1. Alle 00.38, subito dopo che la Forza Q aveva iniziato il tiro contro la piccola nave tedesca, il comandante Cocchia trasmise via radio ad onde ultracorte a tutte le sue unità l'ordine: «Andate all'attacco»; l'ordine non era più rivolto solo a Procione e Camicia Nera (oltre che al Da Recco stesso), come originariamente previsto nell'ordine d'operazione, ma anche a Folgore e Clio: vista l'intensità ed il volume del fuoco nemico, Cocchia aveva compreso infatti che la forza attaccante era composta da numerose navi, e che pertanto sarebbe stato meglio contrattaccare con la maggior massa possibile di siluranti per massimizzare le probabilità di successo. Il Folgore, inoltre, gli appariva insieme al Camicia Nera essere l'unità della scorta in posizione tattica più favorevole per un attacco silurante contro l'avversario, che si trovava a nord del gruppo principale del convoglio, dunque non avrebbe avuto senso lasciarlo fuori dal contrattacco. Ai mercantili, contestualmente, Cocchia ordinò di invertire la rotta verso nord e di accelerare al massimo, dopo di che con il Da Recco accostò per rotta vera 290° (nordovest), verso la posizione in cui si trovava il Camicia Nera, aumentando gradualmente la velocità. (Anche qui c'è un'incongruenza tra i testi dell'USMM e le memorie di Cocchia: in queste ultime, egli afferma di aver ordinato anche al Folgore di contrattaccare e di aver lasciato la Clio a proteggere i mercantili, mentre nei primi si afferma che l'ordine di contrattaccare fu diretto ad entrambe le unità, ma la Clio si attenne invece alle disposizioni precedenti – restare con i mercantili – per iniziativa del suo comandante. Dalla successiva relazione dell'ammiraglio Gasparri risulta che alle 00.38 il Da Recco ordinò alla Clio "Invertite immediatamente la rotta. Fate nebbia").
La Forza Q, con percorso curvilineo con cui passò da una rotta verso sud ad una verso nordest, “avvolse” progressivamente tutto il convoglio (uniche navi che rimasero fuori dall'area “avvolta” furono Da Recco e Procione), compiendo intorno ad esso un giro completo da destra a sinistra e vomitando ferro e fuoco contro ogni nave che incontrava.
Dopo il KT 1, primo ad essere affondato fu l'Aventino: cannoneggiato dall'Aurora e dall'Argonaut e silurato da quest'ultimo o dal Sirius, affondò alle 00.55, trascinando con sé quasi un migliaio di uomini.
La Procione, che aveva ricevuto l'ordine di contrattacco alle 00.40, perse parecchio tempo per tagliare i cavi dei paramine, e quando alle 00.53 manovrò per andare all'attacco silurante venne ripetutamente colpita, subendo seri danni che la costrinsero a ritirarsi (arrancò poi faticosamente fino a La Goletta).
Il Camicia Nera compì due attacchi siluranti alle 00.43 ed alle 00.45, senza successo, venendo infruttuosamente cannoneggiato all'1.07 per poi ripiegare all'1.14.
La Puccini, cannoneggiata da tutte e cinque le navi della Forza Q, venne immobilizzata all'1.08 ed abbandonata dall'equipaggio e dalle truppe imbarcate, che perirono in mare a centinaia. Rimasta a galla benché divorata dagli incendi, sarebbe stata finita il giorno seguente dal Camicia Nera, nell'impossibilità di rimorchiarla.
Il Folgore, andato al contrattacco col cannone e col siluro, venne centrato ripetutamente dal tiro britannico; mortalmente colpito, si capovolse ed affondò all'1.16, portando con sé il suo comandante ed oltre metà dell'equipaggio.
L'Aspromonte, che in un primo momento sembrava essere riuscito a sottrarsi al massacro, venne poi raggiunto, cannoneggiato dall'Aurora ed affondato all'1.29.
Quanto alla Clio, alle 00.40 accostò sulla sinistra ed iniziò ad emettere una cortina fumogena per coprire Aventino e Puccini, invano; scambiò a più riprese colpi con le navi britanniche, senza subire danni e senza infliggerne.
Terminata la mattanza, la Forza Q accostò a sinistra per rientrare a Bona, passando a nord di quel che restava del convoglio; il Sirius sparò alcuni colpi contro un cacciatorpediniere apparso di prua a sinistra all'1.26.
L'insieme della battaglia è efficacemente tratteggiato dal comandante della Mediterranean Fleet, ammiraglio Andrew Browne Cunningham, nelle sue memorie, “A Sailor's Odyssey”: “…per il nemico fu un olocausto. Ingaggiati a ridotta distanza, quattro trasporti e tre cacciatorpediniere vennero affondati od incendiati. Era una scena agghiacciante di navi che esplodevano e s'incendiavano tra nubi di fumo e vapore; di uomini che si gettavano in mare mentre le loro navi affondavano; e di automezzi trasportati sul ponte che scivolavano e cadevano in mare quando le navi si capovolgevano (…) I nostri sommergibili l'indomani mattina riferirono di vaste zone coperte da rottami e un denso strato di olio con numerosi cadaveri indossanti giubbotti salvagente”.
Quanto al Da Recco, aveva messo subito la prua verso le vampe avvistate al momento dell'apertura del fuoco da parte della Forza Q (distante in quel momento circa 7 km dal cacciatorpediniere) ed aumentato la velocità al massimo, trasmettendo intanto a Supermarina, alle 00.40, il segnale di scoperta della formazione nemica, lanciato sia su onde ultracorte che con la radio principale; alle 00.42 Cocchia fece aprire il fuoco verso dritta, contemporaneamente con tiro battente (i complessi 1 e 3 da 120 mm) e illuminante (il complesso 2), per «rendere visibile il bersaglio non solo al Da Recco, ma anche a tutte le siluranti alle quali avevo dato l'ordine di andare all'attacco». Non passò molto prima che salve britanniche iniziassero a cadere in mare su entrambi i lati del cacciatorpediniere, molto vicine: probabilmente provenivano dall'Argonaut e dal Quiberon, che più o meno a quell'ora (00.37-00.38 secondo i rapporti britannici) spararono contro un'unità avvistata verso sudest; alle 00.43 anche l'Aurora tirò brevemente con i pezzi secondari da 102 mm contro una nave non identificata sulla sua dritta, distante circa 5500 metri, che poteva essere il Da Recco oppure la Procione. Alle 00.48 la Clio, avendo visto una nave accendere i proiettori, chiese al Da Recco se fosse nemica, ma questi fu preceduto nella risposta, affermativa, dal Camicia Nera.
Cocchia avrebbe poi ricordato: “Il nemico sparava presto e bene. Tra di noi le sue salve piovevano fitte, raccolte e ben centrate, meglio che in un tiro diurno. Di tanto in tanto, ma piuttosto raramente, una serie di illuminanti sparati dalle navi ci rischiarava a giorno, allora il tiro battente si infittiva. Non era passato che qualche minuto dall'inizio dell'azione, nessuno di noi era ancora riuscito ad arrivare al lancio dei siluri e già, sinistre, alte, si levavano sul mare le fiamme del primo piroscafo incendiato. Col Da Recco, mentre correvo sulle navi inglesi, sparai qualche salva facendo punteria sulle vampate che si accendevano all'orizzonte”.
Il Da Recco continuò a sparare per parecchi minuti, poi cessò il fuoco (“perché, a sparare così, non avevo nessuna probabilità di colpire il beraglio, mentre ad ogni colpo, non solo richiamavamo l'attenzione dei britannici su di noi, ma restavamo tutti abbagliati per un bel pezzo perché purtroppo le nostre cariche per il tiro notturno avevano una vampa molto più forte di qulla che avremmo voluto e di quella che avevano (…) le navi inglesi”) ed accostò un poco in fuori, salvo riprendere per qualche minuto il tiro alle 00.55. Alle 00.57 ebbe inizio un'accostata per dirigere verso est con il proposito di rimettere la prua sulla Forza Q, che Cocchia intuiva essergli intanto passata di poppa (“originariamente il convoglio camminava con rotta ponente, la corsa sul nemico era stata fatta con rotta all'incirca nord, e presi ora ad accostare per levante per stabilire ad ogni costo il contatto”). I colpi britannici cadevano spesso molto vicini al Da Recco, tanto che ad un certo punto il direttore di tiro Sciangula si rivolse a Cocchia e gli disse, “con l'aria di considerare la cosa come liquidata”, "Ormai ci hanno inquadrati!". Tuttavia, poco dopo le salve attorno al Da Recco iniziarono a diventare meno frequenti, per poi cessare del tutto. Ma nel frattempo un'altra nave aveva preso a bruciare: “Per un attimo sperammo trattarsi di una delle navi avversarie, ma capimmo presto che per un altro dei nostri piroscafi la sorte era omai segnata fatalmente”. Ogni tanto un aereo sorvolava il Da Recco a bassa quota, ma le navi britanniche sembravano invisibili: dapprima erano state visibili solo le vampe delle loro artiglierie, adesso nemmeno quelle.
Durante tutta l'azione il Da Recco si mantenne in contatto con le unità dipendenti, dando e ricevendo informazioni; tra le 00.46 e le 00.54 ricevette da Camicia Nera e Folgore notizia dei loro lanci di siluri, e si diresse allora verso est per aggirare la Forza Q, intenta a sparare sui mercantili (stava in quella fase manovrando sulla sinistra del convoglio, con rotta sud), prendendola alle spalle ed attaccandone l'unità di coda. Alle 00.55, per evitare di essere bersaglio di fuoco amico (dato che con questa manovra sarebbe finito approssimativamente sulla rotta che la Forza Q aveva seguito nella fase iniziale del combattimento), il Da Recco informò tutte le unità dipendenti di tale proposito, comunicando al radiotelefono "Sto aggirando il nemico da ponente; ho aperto il fuoco". La risposta del Camicia Nera, che riferì di aver lanciato tutti i siluri (un minuto prima aveva comunicato di aver colpito un incrociatore nemico con un siluro), sollevò inizialmente la speranza che una nave britannica fosse stata affondata, ma sul Da Recco ci si dovette presto ricredere dal momento che pur seguendo adesso la rotta seguita dal nemico fino a poco prima, non era visibile alcun relitto lasciato da una nave colpita dai siluri del Camicia Nera, né incendi di navi britanniche. A bruciare, invece, era il terzo mercantile del convoglio. La frustrazione di Cocchia è ben espressa da queste parole: “Non erano passati che 15 o 20 minuti dall'inizio del combattimento e il nostro convoglio era già praticamente distrutto senza che noi fossimo riusciti a riportare alcun successo, eppure ci eravamo gettati addosso agli inglesi senza un attimo di esitazione o di incertezza. Il nemico regolava la sua distanza da noi come voleva, e per mezzo dei suoi perfezionati strumenti, sparava sui piroscafi come in un'esercitazione!”.
All'una di notte venne avvistato di prora un cacciatorpediniere non identificato: sul Da Recco ci si preparò inizialmente a lanciare i siluri ma subito dopo, nel dubbio che si trattasse di un'unità italiana (come probabilmente era, forse la Procione od il Camicia Nera), venne dato ai tubi di lancio l'ordine di “fare attenzione”; all'1.02 venne chiesto al Camicia Nera dove fosse il nemico, e questi rispose che si trovava sulla sua dritta, per poi aggiungere all'1.06 che si trovava a sud della sua posizione e, poco dopo, di aver perso il contatto.
All'1.05 il Da Recco informò Supermarina di quanto stava accadendo con un messaggio di una sola parola ("Combattimento"), e dieci minuti dopo trasmise sempre a Supermarina un altro brevissimo messaggio, essenziale ma eloquente: "Piroscafi in fiamme".
All'1.10 il Da Recco passò nei pressi del punto in cui quindici minuti prima era affondato l'Aventino, ed all'1.25 passò vicino alla Puccini in fiamme con naufraghi in mare, ma non poté fermarsi. All'1.14 il Camicia Nera informò il Da Recco di aver assunto rotta 50°; all'1.21, quando la Clio aprì il fuoco contro delle navi britanniche che l'avevano presa di mira da 4500 metri di distanza, Cocchia le chiese dapprima se stesse sparando e poi, avendo ricevuto risposta affermativa, su quale rilevamento; la risposta fu 280°.
Dalla plancia del Da Recco Cocchia assisté alla fine del Folgore e tentò vanamente di andare in suo soccorso: fu anzi proprio lo scambio di colpi tra il cacciatorpediniere di Bettica e la Forza Q a permettergli di ritrovare le navi britanniche. “Vidi d'un tratto accendersi proiettili illuminanti in vari punti dell'orizzonte ed un rapido vivace scambio di codette luminose. (…) Il Folgore, piccolo, vecchio cacciatorpediniere, veterano di tante scorte, provato in mille contingenze, reggeva da solo, con eroismo, che un giorno apparirà leggendario, tutto il peso del combattimento. (…) Col Da Recco mi trovavo piuttosto distante dal luogo dell'azione, ma potei rendermi conto dell'ultima fase del combattimento attraverso il gioco degli artifici luminosi largamente impiegati dalle due parti. Non sapevo quale delle unità italiane fosse impegnata, ma non c'era dubbio che il combattimento si stava volgendo fra uno dei nostri e tutta la formazione avversaria. Ero già alla massima forza, puntai dritto sul centro del combattimento. Mi ci volle un po' di tempo per serrare le distanze, ma arrivai abbastanza vicino mentre l'azione durava ancora e forse proprio mentre raggiungeva la sua massima intensità. Individuai le navi nemiche, mi portai verso la testa della loro formazione. Volevo stringere la distanza per essere sicuro che i miei siluri non fallissero il segno, volevo che il peso delle mie armi non solo valesse ad alleggerire il mio ignoto compagno che combatteva con tanto impegno, ma che fosse anche decisivo (…) speravo di riuscire a colpire una o due navi inglesi e far così pagare caro al nemico lo scempio che aveva fatto del mio convoglio (…) bisognava lanciare soltanto quando la distanza si fosse ridotta al minimo. A quel che sarebbe potuto succedere dopo il lancio non pensavo affatto”.
Guidato dai bagliori delle vampate e dagli incendi delle navi, il Da Recco ritrovò le navi britanniche all'1.30, quando già la Forza Q si trovava sulla rotta di rientro: la distanza era adesso di circa 4000 metri; il cacciatorpediniere stava dirigendo verso nord (o nordest, rotta 60°) per riagganciare l'avversario, quando avvistò tre sagome oscurate che ritenne essere incrociatori, intente a sparare intensamente contro un'altra nave che rispondeva piuttosto vivacemente al fuoco.
Tutte e quattro le navi avvistate erano vicine tra di loro, e le codette luminose dei proiettili che piastrellavano sul mare da entrambe le parti erano chiaramente visibili dal Da Recco. Questo scontro era osservato anche dal Camicia Nera, che si trovava molto più ad est e che comunicò di seguire la medesima rotta. Cocchia ritenne che la nave sotto attacco fosse il Folgore, ma questi a quell'ora era già affondato; più probabilmente si trattava della Clio. Ad ogni modo, ordinò di mettere la prua sulle sagome degli incrociatori, chiaramente visibili, e di tenersi pronti al lancio dei siluri, segnando sul Panerai l'angolo di mira; il tenente di vascello Zambrini, che coadiuvava la preparazione al lancio, era accanto a lui, davanti al portello centrale aperto della plancia. Intenzionato a massimizzare le probabilità di colpire, Cocchia tentò di serrare le distanze il più possibile prima di lanciare; secondo il volume USMM "La difesa del traffico con l'Africa Settentrionale dal 1° ottobre 1942 alla caduta della Tunisia", mentre serrava le distanze preparandosi a lanciare i siluri il Da Recco aprì nuovamente il fuoco anche con i cannoni, ma nelle sue memorie Cocchia afferma di non aver aperto il fuoco proprio per non farsi scoprire ed avvicinarsi indisturbato il più possibile prima di lanciare i siluri, versione riportata anche dallo storico Giorgio Giorgerini nel suo "La guerra italiana sul mare". In effetti questo sembrerebbe più logico.
I tubi lanciasiluri erano brandeggiati verso il nemico, la distanza era calata sotto i tremila metri (secondo Giorgio Giorgerini, sotto i duemila); proprio quando Cocchia stava per dare l'ordine di lancio, disgrazia volle che il fumaiolo prodiero del Da Recco iniziasse ad eruttare fiamme a causa della combustione di residui di nafta rimasti nel nebbiogeno per l'imperfetta tenuta di una valvola d'intercettazione, il che lo rese visibilissimo nel buio della notte: subito Sirius, Quiberon e Quentin, da una distanza di circa tremila metri, rivolsero un vero torrente di fuoco concentrato sulla nave del comandante Cocchia, con conseguenze catastrofiche. Era l'1.35 del 2 dicembre.
La parola ad Aldo Cocchia: “Stimai di essere a 4.000, poi a 3.000, a 2.000 metri. Volli avvicinarmi ancora di più (…) ed ancora una volta la fatalità (…) si accanì contro il Da Recco. Da un pezzo avevamo smesso l'emissione di cortina di nebbia e nel nebbiogeno del fumaiolo di prora si era andata accumulando una certa quantità di nafta. Di colpo il combustibile accumulato prese fuoco accidentalmente, ed eruppe dal fumaiolo con un'alta colonna di fiamme che svelò la nostra presenza. Immediatamente una salva di quattro colpi cadde poco di prora. Accostai per disorientare il tiro nemico e nello stesso tempo mettermi all'angolo di mira [per lanciare i siluri], ma la colonna incandescente che continuava ad uscire dal fumaiolo del Da Recco era bersaglio fin troppo facile per gli artiglieri britannici. Dopo pochi secondi dalla prima salva caduta in mare, un'enorme lingua di fuoco si levò dal castello di prora e si avventò violenta sulla plancia. Investì, ustionò tutti coloro che si trovavano sul ponte di comando, i più ne uccise (…) Dei proiettili arrivati noi non sentimmo l'urto né il fragore delle esplosioni: vedemmo soltanto, per un istante, la gigantesca lingua rossa che si levava dal castello di prora e ci veniva addosso. Nient'altro”.
Investito dal fuoco concentrato di tre navi (secondo Francesco Mattesini, queste spararono prima alcuni colpi illuminanti che rischiararono a dovere il bersaglio e poi passarono al tiro battente), il Da Recco venne centrato contemporaneamente da tre proiettili: due di essi penetrarono nel castello di prua, aprendo grossi squarci nello scafo in prossimità del complesso prodiero da 120 mm, ma fu il terzo a scatenare l'inferno. Penetrato dal lato sinistro, circa un metro sopra la linea di galleggiamento, il colpo scoppiò nel deposito munizioni del complesso prodiero da 120 mm, facendolo deflagrare. (Giorgio Giorgerini afferma invece che il Da Recco fu raggiunto da quattro colpi, di cui due centrarono il complesso prodiero da 120 e gli altri due il deposito munizioni prodiero).
Per quanto il termine “deflagrazione” sia spesso utilizzato, impropriamente, come se fosse intercambiabile con “esplosione”, in realtà i due fenomeni sono alquanto diversi. La deflagrazione non è una detonazione, ma piuttosto una combustione estremamente rapida e violenta; ha di conseguenza un potere relativamente meno distruttivo sulle strutture di una nave. Una nave che subisce un'esplosione nei propri depositi di munzioni spesso affonda in pochi attimi (questa sarebbe stata la sorte del Da Recco se le munizioni fossero esplose), mentre una nave in cui le munizioni dei depositi deflagrino ha maggiori probabilità di sopravvivere o, quanto meno, di affondare meno rapidamente. In generale si è notato che il munizionamento italiano in uso all'epoca aveva la tendenza, se colpito, a deflagrare, invece che esplodere; quello britannico, viceversa, più spesso esplodeva.
Non che queste sottigliezze potessero costituire grande conforto per l'equipaggio del Da Recco. Una fiammata di dimensioni terrificanti si levò dal deposito colpito, uccidendo tutti i serventi del complesso prodiero da 120 mm ed investendo la sovrastruttura prodiera del Da Recco: tutti coloro che si trovavano in plancia rimasero uccisi o gravemente ustionati; tra di essi anche il comandante Cocchia, che fu anzi tra gli ustionati più gravi, al viso ed alle mani. Nel volgere di pochi attimi, metà dell'equipaggio del Da Recco rimase ucciso o ustionato; ben presto tutta la parte prodiera del cacciatorpediniere fu in fiamme, anzi arroventata.
Cocchia spiega quanto avvenne nelle sue memorie: “I tre ponti che dividevano il deposito munizioni dalla coperta furono deformati e sfondati dalla violenta deflagrazione delle nostre cariche, il fuoco invase tutti i locali del sottocastello e finalmente sbucò all'aria aperta attraverso una specie di colossale manica a vento creatasi proprio sotto la plancia dove un paio di lamiere furono divelte dall'istantaneo fortissimo aumento della pressione interna. Fu poi la nostra stessa velocità a far sì che la fiamma uscente da tale manica a vento si riversasse intera sulla plancia. Fra l'accensione della malaugurata nafta nel fumaiolo ed il momento nel quale fummo investiti dalla lingua di fuoco (…) passò non più di un minuto, forse molto meno. Erano le 1.40 del 2 dicembre. Giusto un mese prima alla stessa ora eravamo stati colpiti da un siluro nella stessa zona che adesso le fiamme devastavano. Allora, pur nella violenza dell'attacco, il destino ci era stato amico, ora…”
Con gli organi di comando e comunicazione fuori uso e la plancia rovente e circondata dalle fiamme, morti o feriti tutti i suoi ufficiali e lui stesso gravemente ustionato, Cocchia non ebbe modo sulle prime di dare nessun ordine, ma il direttore di macchina Petroncelli, rimasto indenne giù nella sala macchine, capì la situazione e fermò immediatamente le macchine (era ancora l'1.35), onde evitare che la corrente d'aria provocata dal moto della nave spingesse le fiamme verso poppa.
I lavori svolti a La Spezia sette mesi prima per rimuovere da bordo il materiale infiammabile risultarono in questo frangente provvidenziali, ma non era stato possibile eliminare tutto quello che poteva bruciare: rimanevano in particolare le brande dei marinai ed il vestiario dell'equipaggio, nonché i documenti delle segreterie di bordo; gli alloggi dell'equipaggio e dei sottufficiali (con relativi corredi) ed alcune segreterie si trovavano proprio sottocastello, nella zona investita in pieno dalla deflagrazione e dal conseguente incendio, ed inevitabilmente alimentarono le fiamme, come anche i salvagente, le zattere, i cordami ed altro materiale che si trovava in coperta. In breve l'incendio raggiunse le casse di nafta e le riservette munizioni di prua: le prime resistettero alle fiamme, le seconde iniziarono ad esplodere, ma i loro scoppi non aggravarono più di tanto una situazione già disperata.
Approfittando di un momento in cui le fiamme divampavano con minor violenza, Cocchia scese dalla plancia insieme all'ufficiale alle comunicazioni Zambrini, ustionato ancor più gravemente di lui (al viso, ad un piede e soprattutto alle mani, completamente inutilizzabili), ed al direttore del tiro Sciangula, anch'egli ustionato: dopo la deflagrazione si era ritrovato sotto i cadaveri di due marinai. L'ufficiale di rotta Ascheri invece di scendere dalla scaletta saltò dalla plancia direttamente sul ponte sottostante, ma cadde sulla schiena ed appoggiò il dorso di entrambe le mani sulla lamiera arroventata, riportando gravissime ustioni. L'ufficiale alle armi subacquee Tivegna era morto, “e come lui la quasi totalità di coloro che si trovavano in plancia, fedeli compagni di tante navigazioni, di tanti combattimenti”.
Cocchia e Zambrini si diressero verso la stazione di governo di riserva, ubicata sulla tuga poppiera, presso il complesso numero 3 da 120 mm. A centro nave Cocchia incontrò il comandante in seconda Riva, che avendo il suo posto di combattimento proprio nella tuga poppiera (precisamente per essere in condizione di assumere il comando se la plancia fosse stata distrutta) era rimasto illeso: ne era appena sceso per andare verso prua a verificare cosa fosse successo.
Salito faticosamente sulla tuga poppiera con l'aiuto di Riva, Cocchia venne fatto sdraiare su una coperta accanto al complesso numero 3 e continuò ad impartire gli ordini necessari a salvare la nave finché fu in grado di farlo.
All'1.26, intanto, le navi britanniche avevano accostato per ovest-sud-ovest (a sinistra) per rientrare alla base, passando a nord della zona del combattimento. Completata la propria opera di distruzione, la Forza Q si allontanò dal luogo dello scontro, assumendo rotta per Bona. Proseguì per la sua rotta e si allontanò senza dare il colpo di grazia all'ormai inerme Da Recco: “ci lasciò bruciare, convinto forse che a finirci sarebbe bastato l'incendio”. Ma il cacciatorpediniere del comandante Cocchia aveva la pelle dura.
Le navi di Harcourt non avevano subito alcun danno nel combattimento, all'infuori di qualche scheggia caduta a bordo (specie sull'Argonaut, che era stato inquadrato da alcune salve italiane); durante la navigazione di rientro, invece, avrebbero subito la perdita del Quentin, affondato da bombardieri tedeschi Junkers Ju 88 a 50 miglia per 048° da Cap de Guarde (Algeria) il mattino successivo. Con comprensibile soddisfazione Harcourt aveva segnalato alla base: "Credo che abbiamo dato un buon aiuto alla Prima Armata".
La battaglia del banco di Skerki era finita, ma sul Da Recco ne infuriava un'altra, quella contro le fiamme ed il mare.
Il castello di prua era in preda ad un furioso incendio, che oltre al deposito munizioni interessava i locali equipaggio e sottufficiali, i locali diesel, dinamo e turbodinamo e la caldaia 1; la nave imbarcava parecchia acqua dalle falle aperte dai colpi incassati, mancava la corrente e la radio era fuori uso. Quasi metà dell'equipaggio era morto, molti altri erano feriti o ustionati, alcuni uomini erano caduti in mare ed altri vi si erano tuffati dopo che i loro indumenti avevano preso fuoco: a bordo rimaneva illeso forse un quinto dell'equipaggio. Il comandante Cocchia, pur nelle sue gravi condizioni, cercò di infondere nei sottoposti la sua “volontà di impedire ad ogni costo la perdita del caccia… e trovai terreno fertile nell'animo e nelle capacità professionali di tutti i superstiti e specie di Riva e del capitano Petroncelli”. Prima che l'aggravarsi del suo stato gli impedisse di esercitare il comando, ordinò di tentare di spegnere l'incendio utilizzando le pompe a vapore ancora funzionanti; di allagare il deposito munizioni centrale, minacciato dall'incendio; di lanciare i siluri di prua, i cui serbatoi di aria compressa avrebbero potuto scoppiare per effetto del surriscaldamento provocato dalle fiamme; di mantenere una parte dell'equipaggio ai posti di combattimento, per essere pronti a reagire ad un eventuale ritorno offensivo del nemico, e di impiegare il rimanente personale rimasto indenne e non impegnato nei tentativi di salvare la nave per mettere in mare la motobarca e recuperare con essa il maggior numero possibile di naufraghi.
Per prima cosa si provvide ad estinguere le fiamme che divampavano in coperta a prua: una volta che fu possibile accedere al ponte di prua, il direttore di macchina Petroncelli fece infilare le manichette antincendio nel passaggio delle munizioni del deposito del complesso numero 1 e riuscì così ad allagare il deposito, il che costituiva la priorità. Poi, “strappando palmo a palmo la nave al fuoco”, un gruppo di marinai sempre guidati da Petroncelli riuscì a portare le manichette sottocastello e ad estinguere le fiamme là sotto. L'acqua che defluiva dalla zona incendiata era tanto bollente da scottare chi raggiungeva.
Intanto il tenente di vascello Zambrini, assistito dal sergente radiotelegrafista Mario Sforzi (anch'egli ustionato, anche se non in modo grave), riuscì a mettere in funzione il radiosegnalatore di riserva situato a poppa, comunicando a Trapani la situazione e la posizione approssimativa in cui il Da Recco era fermo (a 60 miglia per 249°, cioè ad ovest/sudovest, di Marettimo) ed agevolando così le ricerche da parte dei cacciatorpediniere Lampo, Pigafetta e Da Noli e della torpediniera Partenope, inviate in soccorso del Da Recco. Cocchia scrisse poi che “Il comportamento di Zambrini… fu luminosamente eroico, tutto improntato ad un sentimento del dovere e ad una dedizione alla propria nave, tali da suscitare la più viva ammirazione in chiunque. Ferito di quelle ustioni che dovevano trarlo a morte, soffrendo in modo indicibile, non dimenticò di essere ufficiale alle comunicazioni e non si concesse tregua finché non poté assicurarmi che eravamo in contatto con Trapani e che i nostri messaggi erano stati ricevuti. Mi rimase poi sempre accanto, come faceva sul ponte di comando, pronto ad eseguire i miei ordini se io avessi voluto e potuto dargliene”.
Molti furono gli episodi di eroismo: uno su tutti quello del cuoco ufficiali, il brindisino Domenico Lacitignola, un civile militarizzato con il grado di secondo capo furiere. Durante il combattimento era rimasto al suo posto vicino alla cucina ufficiali; dopo la deflagrazione del deposito munizioni si accorse che parecchi uomini erano rimasti intrapPolati nella centrale di tiro, completamente circondata dalle fiamme, e vi entrò, caricandosi un marinaio privo di sensi sulle spalle e portandolo in salvo. Ripeté il gesto altre quattro volte, ogni volta portando in salvo un compagno ferito o svenuto, dopo di che si gettò in mare e trasse in salvo due naufraghi prima di esaurire le forze. Fu decorato con la Medaglia d'Argento al Valor Militare.
Grave era la situazione per i molti feriti ed ustionati: il Da Recco non aveva un medico di bordo, ed i due infermieri che facevano parte dell'equipaggio erano entrambi rimasti uccisi. L'armadio principale con il materiale medico si trovava a prua, nei locali devastati dall'incendio; a poppa c'era una cassetta sussidiaria con materiale di primo soccorso, ma serviva a ben poco per le decine di ustionati gravi che c'erano sul cacciatorpediniere devastato. “I feriti erano così lasciati a loro stessi senz'altro lenimento o soccorso che qualche parola di conforto di tanto in tanto portata loro dai pochi uomini incolumi i quali, peraltro, affaccendati com'erano con l'incendio e per rimettere in funzione l'apparato motore, non avevano molto tempo da dedicare ai feriti”.
Le condizioni del comandante Cocchia erano andate aggravandosi: aveva il viso gonfio e tumefatto, a tal punto da non riuscire neanche più ad aprire gli occhi e quasi nemmeno a parlare per le labbra anch'esse gonfiatesi e paralizzatesi, era preda di dolori atroci ed anche le sue mani erano ormai gonfie, inerti ed inutilizzabili; era convinto di essere ormai prossimo alla morte. Alla fine, scrisse poi, “all'ambiguità di un comandante nominale preferii una situazione chiara”; fece chiamare il capitano di corvetta Riva, indaffarato a domare l'incendio a prua, gli fece riassumere la situazione generale e gli ordinò di assumere il comando, non prima di avergli comunicato la posizione che la nave aveva quando era stata colpita. Una volta domato l'incendio, aggiunse, avrebbe dovuto cercare di rimettere in moto e dirigere verso Trapani, ma non prima di essersi assicurato di aver recuperato tutti coloro che erano in mare. Lo informò anche che Zambrini era riuscito a mettersi in contatto radio con Trapani.
Il comandante in seconda Riva ed il direttore di macchina Petroncelli, si fecero in quattro per arginare gli incendi, contenere gli allagamenti, in una parola salvare la nave: e ce la fecero, nonostante l'enormità dei danni e delle perdite. Entro l'alba l'incendio a prua fu, se non del tutto estinto, quanto meno sotto controllo e circoscritto in pochi locali; il Da Recco aveva però assunto un notevole appruamento, sia per l'acqua pompata nello scafo per domare le fiamme che per quella entrata dalle falle aperte dai colpi andati a segno. Per ripristinare la spinta di galleggiamento si provvide a prosciugare il deposito munizioni centrale, ormai fuori pericolo.
I naufraghi che si trovavano in mare tutt'attorno vennero recuperati; tra di essi vi era anche il capo segnalatore di seconda classe Massimo Messina, che era stato sbalzato in mare all'1.30 dallo spostamento d'aria provocato dalla deflagrazione del deposito munizioni prodiero del Da Recco: rimasto fortunatamente illeso, mentre il cacciatorpediniere incendiato, spinto dall'abbrivio, aveva proseguito allontanandosi di circa duecento metri, aveva passato la notte in acqua tra grida di naufraghi, lamenti di feriti e cadaveri galleggianti, per poi essere finalmente recuperato alle sei del mattino.
Non fu altrettanto fortunato il marinaio cannoniere Giuseppe Pianezzola, appena diciassettenne: ferito e caduto in mare, non venne mai ritrovato.
All'alba (per altra fonte, verso le otto del mattino) il Da Recco fu in grado di rimettere in moto e riprendere la navigazione con i propri mezzi, sebbene a velocità ridotta. Lo accompagnavano alcuni aerei tedeschi, frattanto sopraggiunti.
Al momento di rimettere in moto Riva si recò da Cocchia e gli diede la notizia che la nave era salva, chiedendogli nuove istruzioni; Cocchia ordinò di dirigere verso Trapani a bassa velocità e gli ricordò le rotte di sicurezza da seguire per passare indenni tra i campi minati difensivi del settore di Trapani. Ricordò poi: “Non potevo vedere, ma seguivo e riconoscevo tutti i rumori di bordo con l'animo teso ed ero, così, al corrente di quel che avveniva per conoscenza diretta oltre che per le informazioni che di continuo, per quanto avessi ceduto il comando, mi venivano a dare Riva o Petroncelli. Quando mettemmo in moto dimenticai per un attimo le sofferenze e perfino lo strazio che aveva prodotto nel mio animo la perdita di tante vite umane ed elevai il pensiero al Signore per ringraziarlo di avermi concesso di salvare la nave che la Patria mi aveva affidata”.
Supermarina aveva messo le mani avanti: fin dalla sera del 1° dicembre, dopo aver ricevuto notizia dal Da Recco dell'avvistamento (poco dopo le 20) e pedinamento del convoglio da parte di ricognitori avversari, aveva disposto che la nave soccorso Capri (sottotenente di vascello Oscar Sacchi), uscita da Trapani alle 13.40, seguisse a distanza il convoglio, che la nave soccorso Laurana uscisse da Palermo (cosa che poté fare solo a mezzanotte, causa un allarme aereo che provocò l'annebbiamento del porto mentre si apprestava ad uscire), e che un rimorchiatore fosse tenuto pronto a Marettimo.
Ricevuto all'1.15 del 2 dicembre il messaggio del Da Recco "Piroscafi in fiamme", Supermarina aveva ordinato ai cacciatorpediniere Antonio Da Noli (capitano di fregata Pio Valdambrini) e Antonio Pigafetta (capitano di vascello Rodolfo Del Minio) di uscire da Trapani appena pronti (ciò poté avvenire alle sei di quel mattino), inviandoli sul luogo del disastro insieme a ricognitori che avrebbero avuto il duplice compito di cercare i naufraghi e di avvistare eventuali unità nemiche dirette ad intercettare le navi soccorritrici. Anche la motosilurante MS 32, che si trovava al largo della Galite, ed i MAS 563 e 576 parteciparono ai soccorsi.
Prima nave a giungere, o per meglio dire a tornare, sul luogo della battaglia fu il Camicia Nera, che dopo essersi ritirato verso nordovest al termine dello scontro alle 3.15 decise di tornare indietro per salvare i naufraghi e prestare aiuto alle navi danneggiate; verso le 7.40, guidato da un ricognitore, raggiunse il punto in cui era affondato l'Aspromonte, iniziando a recuperarne i naufraghi dalle zattere e dalle Lance, e mentre era in corso questa opera di soccorso sopraggiunse il Lampo (capitano di corvetta Antonio Cuzzaniti), che aveva intercettato una richiesta urgente di assistenza da parte del Da Recco alle 7.30 (in quel momento il Lampo stava scortando la danneggiata Giorgio che, a rimorchio della Climene, procedeva faticosamente verso Trapani) ed aveva deciso di andare in suo aiuto.
Al Lampo il Camicia Nera ordinò infatti di raggiungere il Da Recco e riferire sulla situazione; così il Lampo fece, e raggiunto il cacciatorpediniere devastato, iniziò a trasbordarne i feriti gravi.
Anche la torpediniera Partenope (capitano di corvetta Gustavo Lovatelli), in mare per un rastrello antisommergibili sulla rotta Trapani-Biserta insieme alla gemella Perseo (tenente di vascello Saverio Marotta), aveva intercettato un messaggio del Da Recco in cui si riferiva della grave situazione del cacciatorpediniere (già nella notte aveva osservato bagliori all'orizzonte ed intuito che era in corso un combattimento), ed il suo comandante aveva pertanto deciso alle 8.30 di raggiungere il luogo della battaglia per andare in suo soccorso.
Successivamente arrivarono nei pressi del Da Recco anche Pigafetta e Da Noli, e Lampo e Camicia Nera si posero agli ordini del comandante Del Minio del Pigafetta, il più alto in grado tra i presenti. Assunta quindi la direzione dei soccorsi, Del Minio ordinò al Lampo, non appena avesse finito di prendere a bordo i feriti gravi, di proteggre il malconcio Da Recco mentre il Pigafetta si preparava a rimorchiarlo di poppa (il Lampo iniziò allora ad evoluire intorno alle due navi emettendo nebbia artificiale ed azionando l'ecogoniometro per rilevare eventuali sommergibili); e dispose che tutti i feriti del Da Recco venissero portati sul Da Noli, in quanto questa unità aveva a bordo il medico della XV Squadriglia Cacciatorpediniere. Successivamente, essendo in arrivo la nave soccorso Capri, Del Minio ordinò che il Da Noli trasbordasse i feriti su di essa e poi si ricongiungesse con il gruppo Pigafetta-Da Recco per rinforzarne la scorta. Il Camicia Nera venne lasciato invece sul posto per continuare il recupero dei naufraghi.
Tra i feriti trasbordati sul Da Noli, una sessantina, vi era anche il comandante Cocchia: al momento del suo sbarco l'equipaggio del Da Recco si radunò attorno al barcarizzo e rispose in coro al grido di “Viva il re” che Cocchia fece dare a Riva, non essendo più in grado di darlo lui stesso. Poi dalla folla si levò un grido di “evviva al comandante”, e tutti risposero ad alta voce. Nondimeno, rifletté Cocchia, “la mia vicenda di uomo di mare, di combattente, di comandante era conclusa…”.
Alle 9.50 il rimorchio era pronto ed il Pigafetta diresse per Trapani trainando il Da Recco, scortato dal Lampo cui poi si unirono anche i MAS 563 e 576. Il Da Noli, trasbordati 40 ustionati sulla Capri (che più tardi li trasbordò a sua volta sulla nave ospedale Toscana, dirottata nella zona del combattimento per cercarvi naufraghi durante una navigazione di trasferimento da Napoli a Taranto), raggiunse il gruppo del Da Recco alle 11.24, assumendo la sua posizione di scorta, ma mezz'ora dopo se ne andò, per ordine superiore, per raggiungere la Puccini che ancora galleggiava, assistita dal Camicia Nera. Verso le 15 si aggregò al gruppo anche la Clio, che dopo la fine del combattimento era capitata nei pressi della Giorgio e ne aveva assunto la scorta per ordine del Lampo; direttasi a Trapani dopo che la petroliera era stata portata ad incagliare in costa, avvistò il Da Recco a rimorchio del Pigafetta, scortato dal Lampo, e si unì ad essi.
A rimorchio del Pigafetta, il Da Recco raggiunse finalmente Trapani verso le sei di sera (per altra fonte, le 22) di quel tragico 2 dicembre. A bordo, nelle viscere della nave, ardevano ancora alcuni focolai d'incendio.
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Il Da Recco, visibilmente appruato, tra Pigafetta (a destra) e Lampo il mattino del 2 dicembre (dalla pagina Facebook “Cacciatorpediniere classe Navigatori”) |
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(da “La guerra italiana sul mare” di Giorgio Giorgerini) |
Le perdite umane nella battaglia del banco di Skerki, da parte italo-tedesca, furono terribili: in tutto persero la vita 2200 uomini, ossia 1527 dei 1766 soldati imbarcati su Aventino e Puccini, 124 uomini del Folgore, 118 uomini del Da Recco, 41 uomini dell'Aspromonte (iscritto nei ruoli del naviglio ausiliario dello Stato), tre della Procione e circa 400 tra marittimi civili o militarizzati dei mercantili e personale tedesco del KT 1. Tra tutte le battaglie navali combattute nel Mediterraneo durante il conflitto, solo quella di Capo Matapan sarebbe risultata più sanguinosa.
Tra l'equipaggio del Da Recco, persero la vita nel combattimento o per le ferite cinque ufficiali, 15 sottufficiali e 98 tra sottocapi e marinai: probabilmente il Da Recco detiene il poco invidiabile primato di nave da guerra italiana che ebbe le maggiori perdite tra il proprio equipaggio – quasi la metà, ed oltre la metà se si considerano le perdite complessive, comprensive anche delle decine di feriti e ustionati – senza affondare. Un'altra sessantina di membri dell'equipaggio rimasero seriamente feriti o ustionati.
La maggior parte dei morti del Da Recco non poté nemmeno essere identificata, perché resa irriconoscibile dall'azione distruttrice del fuoco: furono dichiarati dispersi. I corpi rimasti senza nome vennero sepolti nel cimitero di Trapani, dov'erano state sbarcate le vittime dello scontro, e dove in epoca successiva vennero trasferiti nell'ossario comune; alcuni di quelli identificati poterono essere successivamente trasferiti nei loro paesi natali, come nel caso del marinaio cannoniere Antonio Giannattasio, i cui resti vennero traslati nel sacrario militare del cimitero di Bisceglie su richiesta della famiglia nel maggio 1968.
I caduti tra l'equipaggio del Da Recco:
Alfredo Armoni, marinaio, da Prolungo (deceduto)
Pietro Artoni, marinaio, da Borgoforte (disperso)
Giuseppe Balzano, sergente carpentiere, da La Maddalena (disperso)
Alberto Barbara, marinaio radiotelegrafista, da Trapani (disperso)
Giovanni Barlassina, marinaio elettricista, da Sesto San Giovanni (disperso)
Luigi Batisti, sottocapo silurista, a Reggello (deceduto)
Zergo Beghetto, marinaio cannoniere, da Villanova del Ghebbio (disperso)
Geremia Benedetti, marinaio cannoniere, da Gussago (disperso)
Sergio Bernasconi, marinaio fuochista, da Milano (disperso)
Guido Berton, sottocapo radiotelegrafista, da Caerano di San Marco (disperso)
Luigi Bodei, marinaio fuochista, da Villa Carcina (disperso)
Trento Calarco, sergente cannoniere, da Roma (disperso)
Aniello Calentano, marinaio, da Massa Lubrense (disperso)
Giovanni Cambio, marinaio, da Fontegreca (disperso)
Gennaro Carpagnano, marinaio S.D.T., da Barletta (disperso)
Ettore Carraro, marinaio cannoniere, da Mogliano Veneto (disperso)
Albano Casagni, marinaio fuochista, da Livorno (disperso)
Francesco Casamassima, marinaio elettricista, da Ribera (deceduto)
Ettore Casenghi, marinaio cannoniere, da Citerna (disperso)
Aldo Casson, marinaio, da Chioggia (disperso)
Felice Catania, marinaio cannoniere, da Trapani (deceduto)
Francesco Catapano, marinaio cannoniere, da San Giuseppe Vesuviano (disperso)
Giordano Cecconi (Covacich), marinaio cannoniere, da Parenzo (disperso)
Giovanni Celona, marinaio, da Messina (disperso)
Bruno Cilia, sergente motorista, da Venezia (disperso)
Domenico Cioe, marinaio cannoniere, da Vico nel Lazio (deceduto)
Giampaolo Coato, aspirante guardiamarina, da Milano (disperso)
Luigi Battista Cornaro, marinaio fuochista, da Nembro (disperso)
Carmelo Cosoli, marinaio fuochista, da Muggia (disperso)
Carmelo Crea, sergente S.D.T., da Motta San Giovanni (disperso)
Clemente Crisci, marinaio cannoniere, da San Felice a Cancello (disperso)
Nicola Criscitello, marinaio cannoniere, da Afragola (disperso)
Umberto Cursi, capo S.D.T. di terza classe, da Firenze (disperso)
Adriano Defabiani, marinaio elettricista, da Vercelli (deceduto)
Angelo Del Barbara, marinaio fuochista, da Adro (disperso)
Silvio Del Greco, sottocapo segnalatore, da Alatri (disperso)
Giovanni Della Cioppa, sergente cannoniere, da Bellona (disperso)
Giuseppe Di Fiore, marinaio elettricista, da Caronia (deceduto)
Raffaele Di Lella, marinaio segnalatore, da Campobasso (deceduto)
Armando Doni, marinaio silurista, da Sesto San Giovanni (deceduto)
Giovanni Fancellu, marinaio, da Genova (deceduto)
Renato Federigi, sottotenente commissario, da La Spezia (disperso)
Ferruccio Fenoglio, marinaio fuochista, da Torino (deceduto)
Angelo Ferrari, marinaio segnalatore, da Pegognaga (disperso)
Aureliano Ferrari, marinaio S.D.T., da Iseo (disperso)
Antonio Ficara, marinaio cannoniere, da Taurianova (disperso)
Luciano Franco Carlevero, marinaio motorista, da Torino (disperso)
Anacleto Galdenzi, marinaio fuochista, da Ostra Vetere (disperso)
Ulderico Gasperini, sergente cannoniere, da Canale Monteranno (deceduto)
Manlio Giacopinelli, marinaio fuochista, da La Spezia (disperso)
Pasquale Gialluisi, capo radiotelegrafista di terza classe, da Manduria (disperso)
Antonio Giannattasio, marinaio cannoniere, da Bisceglie (deceduto)
Antonio Giannuzzi, sottocapo elettricista, da Cursi (disperso)
Rosario Giunta, marinaio, da Reggio Calabria (disperso)
Goffredo Giusfredi, guardiamarina, da Bari (disperso)
Giuseppe Greco, marinaio S.D.T., da Biancavilla (disperso)
Domenico Guarnieri, marinaio fuochista, da Roccella Ionica (disperso)
Edoardo Istruiti, sottocapo radiotelegrafista, da Genova (disperso)
Armando Landrisci, sottocapo, da Vico Equense (disperso)
Antonio Laprovitera, secondo capo furiere, da Cariati (disperso)
Massimo Maddalena, marinaio cannoniere, da Supino (disperso)
Francesco Malatesta, secondo capo meccanico, da Massa Lubrense (deceduto)
Paolo Mallarini, marinaio nocchiere, da Mallare (deceduto)
Franco Ireneo Mattarucco, sottocapo motorista, da Treviso (disperso)
Ciro Mazzella, marinaio, da Ischia (disperso)
Saverio Memmolo, sottocapo cannoniere, da Mirabella Eclano (disperso)
Ennio Morichi, marinaio cannoniere, da Foligno (disperso)
Carmelo Napolitano, sottocapo cannoniere, da Riesi (disperso)
Francesco Nastasi, marinaio fuochista, da Milazzo (deceduto)
Antonio Nasti, marinaio cannoniere, da Pozzuoli (disperso)
Giorgio Natale, sergente elettricista, da Vitulazio (disperso)
Mario Novotny, marinaio S.D.T., da Postumia Grotte (deceduto)
Giulio Nuzzo, sottocapo S.D.T., da Neviano (disperso)
Francesco Parodi, marinaio fuochista, da Ceranesi (deceduto)
Ugo Paron, marinaio elettricista, da Rivignano (disperso)
Faustino Pederzini, marinaio fuochista, da Marcheno (deceduto)
Tullio Pesenti Barili, marinaio fuochista, da Milano (disperso)
Fernando Petrillo, marinaio S.D.T., da Pietraroja (deceduto)
Domenico Petrone, sottocapo nocchiere, da Sant'Antimo (disperso)
Giuseppe Pianezzola, marinaio cannoniere, da Bassano del Grappa (disperso)
Giovanni Piergallina, marinaio silurista, da Fermo (disperso)
Agostino Pietrini, marinaio elettricista, da Montegabbione (deceduto)
Alberto Pofi, marinaio S.D.T., da Anangi (disperso)
Giuseppe Poliseri, marinaio, da Favignana (disperso)
Giuseppe Politi, marinaio cannoniere, da Lecce (disperso)
Luigi Pontiggia, marinaio torpediniere, da Orsenigo (disperso)
Luciano Ponzone, marinaio elettricista, da Valenza (disperso)
Biagio Priori, marinaio furiere, da Cremona (deceduto)
Sebastiano Raimondo, sottocapo meccanico, da Acireale (disperso)
Martino Redaelli, marinaio fuochista, da Treviglio (disperso)
Renato Remic, marinaio cannoniere, da Trieste (disperso)
Vito Riccardi, capo segnalatore di terza classe, da Ruvo di Puglia (disperso)
Giusto Riosa, marinaio fuochista, da Trieste (disperso)
Bernardino Rocchi, marinaio nocchiere, da Marta (deceduto)
Vincenzo Romagnuolo, marinaio nocchiere, da Torre Del Greco (disperso)
Antonio Rosati, secondo capo cannoniere, da Viterbo (disperso)
Antonio Rossi, marinaio cannoniere, da Gonzaga (disperso)
Armando Ruffoli, sottocapo S.D.T., da Arezzo (disperso)
Mario Ruggero, marinaio motorista, da Meta (disperso)
Carmelo Santo, sottocapo cannoniere, da Gallipoli (disperso)
Mario Sassu, sottocapo furiere, da Sorso (disperso)
Raffaele Sauli, marinaio radiotelegrafista, da Pozzuoli (disperso)
Ramiro Scalmati, marinaio fuochista, da Ancona (disperso)
Angelo Scotellaro, sottocapo cannoniere, da Ortelle (disperso)
Dario Sforza, marinaio S.D.T., da Bari (deceduto)
Raffaele Stasio, marinaio fuochista, da Cava de' Tirreni (disperso)
Dino Tanghetti, marinaio cannoniere, da Portoferraio (deceduto)
Salvatore Tivegna, tenente di vascello, da La Spezia (deceduto)
Alfredo Tosi, marinaio fuochista, da Boretto (disperso)
Gennaro Troia, marinaio, da Porto Torres (disperso)
Antonio Vanni, marinaio, da Terracina (disperso)
Antonio Vedani, capo nocchiere di terza classe, da Varese (disperso)
Donato Verrico, marinaio radiotelegrafista, da Santi Cosma e Damiano (deceduto per le ferite il 6.12.1942)
Pierino Versi, sergente infermiere, nato in Svizzera (disperso)
Mario Vitti, sottocapo furiere, da Pola (deceduto per le ferite l'1.1.43)
Carmine Zaccaria, marinaio cannoniere, da Napoli (deceduto)
Alfredo Zambrini, tenente di vascello, da Firenze (deceduto per le ferite il 14.12.1942)
Roberto Zonta, marinaio, da Mason Vicentino (disperso)
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Il marinaio cannoniere Giuseppe Pianezzola, disperso nello scontro del 2 dicembre 1942 (da www.icsm.it) |
Lapide in memoria di Alberto Barbara nel cimitero di Trapani (g.c. Giuseppe Romano) |
La motivazione della Medaglia d'Oro al Valor Militare conferita alla memoria del tenente di vascello Alfredo Zambrini, nato a Firenze il 17 aprile 1918:
"Ufficiale
alle comunicazioni di Squadriglia Ct. che, in scontro notturno con
preponderanti forze avversarie si era lanciato all'attacco con
spirito aggressivo e tenacia combattiva degna delle migliori
tradizioni navali, coadiuvava come sempre il proprio Comandante
dimostrando notevoli doti di serenità, coraggio e sprezzo del
pericolo.
Colpita l'unità, benché gravemente ustionato, si
preoccupava sopratutto di ristabilire le comunicazioni con i mezzi di
soccorso, vincendo con fermezza e virilità le sofferenze dalle quali
era tormentato.
In ospedale, conscio della imminente fine
l'affrontava eroicamente manifestando la sicurezza nella vittoria
delle armi italiane ed inneggiando alla Patria alla quale donava con
entusiasmo la giovane vita.
(Mediterraneo Centrale, 2 dicembre
1942)"
La motivazione della Medaglia d'Oro al Valor Militare conferita al capitano di vascello Aldo Cocchia, nato a Napoli il 30 agosto 1900:
"Comandante
di Cacciatorpediniere e Capo Scorta di un convoglio che, nottetempo,
attraversava una zona di mare fortemente insidiata, accortosi
dell'avvicinarsi di unità navali nemiche soverchianti per numero,
tonnellaggio e mezzi tecnici, si lanciava immediatamente all'attacco,
disponendo altresì per la protezione delle navi del convoglio.
Apprezzata prontamente la situazione, iniziava un ‘audace manovra
di aggiramento dell'avversario svolgendo tre distinte azioni di fuoco
per tentare di agganciarlo, distrarre il suo tiro dalle unità del
convoglio e poterlo battere da posizione favorevole anche al lancio
dei siluri. Durante la terza azione di fuoco alcune salve avversarie
centravano la sua unità, arrestandola e provocando un violento
incendio dentro e fuori il deposito munizioni prodiero, la cui
vampata ustionava gravemente e carbonizzava quasi tutti i presenti
sul ponte di comando.
Pur menomato fisicamente per le ustioni
gravissime alla testa ed alle mani, manteneva il comando della sua
nave per oltre due ore, svolgendo efficace azione per tentarne il
salvataggio. Anche quando le sue condizioni fisiche, impedendogli
l'uso della vista, lo costringevano a passare il comando al suo
secondo, manteneva la direzione delle operazioni di salvataggio, con
alto senso di responsabilità e con stoica noncuranza delle atroci
sofferenze, riuscendo a mantenere a galla la sua nave, che altrimenti
sarebbe perduta con il suo equipaggio.
(Banco Skerki, Canale di
Sicilia, notte sul 2 dicembre 1942)"
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Aldo Cocchia nel dopoguerra in divisa da ammiraglio, il volto segnato dalle cicatrici delle ustioni (da www.marina.difesa.it) |
La motivazione della Medaglia d'Argento al Valor Militare conferita alla memoria del tenente di vascello Salvatore Tivegna, nato a La Spezia il 9 dicembre 1917:
"Ufficiale T. di cacciatorpediniere impegnato in scontro notturno con preponderanti forze navali nemiche, manteneva contegno calmo e sereno coadiuvando efficacemente il comandante nello approntamento dell'attacco silurante. Colpita gravemente l'unità dal tiro nemico, rimaneva al proprio posto di combattimento finché investito dalle fiamme cadeva da prode.
(Mediterraneo centrale, 2 dicembre 1942)"
La motivazione della Medaglia d'Argento al Valor Militare conferita alla memoria del secondo capo meccanico Francesco Malatesta, nato a Massalubrense il 17 giugno 1916:
"Nell'occasione di uno scontro notturno con forze navali nemiche, si prodigava come sempre con intelligente slancio ed iniziativa nel servizio dell'apparato motore spinto alla massima andatura. Avendo visto alte fiamme uscire dal fumaiolo e ritenendo trattarsi di incendio in caldaia, raggiungeva di corsa il locale per prestare la sua opera. Nell'attraversare una zona colpita dal tiro nemico ed invasa dal fuoco cadeva da prode.
Bell'esempio di entusiasmo e di valore.
(Mediterraneo centrale, 2 dicembre 1942)"
La motivazione della Medaglia d'Argento al Valor Militare conferita al capitano di corvetta Pietro Riva, nato a Reggio Emilia il 2 novembre 1906:
"Comandante in 2a di ct., impegnato in combattimento contro preponderanti forze navali nemiche, assolveva con capacità e ardimento la sua opera, contribuendo efficacemente a portare l'unità all'attacco. Quando la nave fu colpita dal tiro avversario che provocava violento incendio nel deposito munizioni prodiero e il ferimento della maggior parte degli ufficiali e dell'equipaggio, rimasto gravemente ustionato il comandante, assumeva il comando dell'unità e si prodigava con energia e fermezza per estinguere le fiamme, scongiurando il pericolo di esplosione del deposito colpito. Recuperati i superstiti in mare e soccorsi i feriti, dirigeva con una sola macchina efficiente verso la base metropolitana più vicina, che riusciva a raggiungere a rimorchio di altra unità, dando prova di elevate doti militari e di perizia professionale.
(Canale di Sicilia, 2 dicembre 1942)"
La motivazione della Medaglia d'Argento al Valor Militare conferita al capitano del Genio Navale Cesare Petroncelli, nato a Francavilla al Mare il 4 gennaio 1911:
"Capo servizio G.N. di CT. impegnato in aspro combattimento notturno contro preponderanti forze navali, svolgeva come sempre con serenità e capacità il proprio servizio all'apparato motore spinto alla massima andatura. Colpita gravemente l'unità dal tiro nemico e sviluppatosi violento incendio dentro ed intorno al deposito munizioni prodiero, trascinava con l'esempio il personale nelle lunghe operazioni di estinzione e di esaurimento, sprezzando ogni pericolo, preoccupato solo della salvezza della nave. Ammirevole esempio di elevate qualità militari e professionali.
(Mediterraneo Centrale, 2 dicembre 1942)"
La motivazione della Medaglia d'Argento al Valor Militare conferita al secondo capo furiere Domenico Lacitignola, nato a Brindisi il 20 gennaio 1914:
"Calmo e sereno al proprio posto durante aspro combattimento notturno contro forze navali preponderanti, rimasta la propria unità gravemente danneggiata dal tiro nemico, si lanciava per cinque volte, con grande sprezzo del pericolo, nella zona prodiera invasa da fiamme e da fumo e recuperava personale ferito e svenuto. Si gettava poi due volte in mare salvando due naufraghi; continuava quindi a prodigarsi nelle rischiose operazioni di salvataggio dell'unità. Luminoso esempio di virtù militari e di valore.
(Mediterraneo Centrale, 2 dicembre 1942)"
La motivazione della Medaglia d'Argento al Valor Militare conferita al secondo capo radiotelegrafista Tommaso Lo Faro, nato a Bagnara Calabra il 18 agosto 1915:
"Sottufficiale radiotelegrafista lungamente imbarcato su cacciatorpediniere adibito a servizi di scorta convogli, dimostrava – in numerosi scontri bellici – solide qualità militari ed elevato sentimento del dovere. Nel corso di violento combattimento notturno contro preponderanti forze navali avversarie, disimpegnava con calma e serenità il proprio servizio assicurando il collegamento Rt. con le altre unità della formazione e con i comandi a terra. Gravemente ustionato dalle fiamme sprigionatesi dal deposito munizioni prodiero deflagrato per effetto del tiro nemico, era – con il suo contegno calmo e virile – esempio e sprone per parigrado ed inferiori.
(Mediterraneo Centrale, 2 dicembre 1942)"
La motivazione della Medaglia d'Argento al Valor Militare conferita al sottocapo meccanico Luigi Di Pietro, nato a Pettorano sul Gizio il 20 gennaio 1914:
"Nell'occasione di aspro combattimento contro forze navali preponderanti manteneva contegno calmo e sereno al proprio posto di combattimento. Benché gravemente ustionato dalle fiamme provocate dal tiro nemico, si offriva volontariamente per cooperare nelle rischiose operazioni di salvataggio dell'unità. Luminoso esempio di belle virtù militari e forte animo.
(Mediterraneo Centrale, 2 dicembre 1942)"
La motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita alla memoria del sottocapo meccanico Sebastiano Raimondi, nato ad Acireale il 31 marzo 1921:
"Nell'occasione di scontro notturno con forze navali nemiche, si prodigava, con slancio, nel servizio dell'apparato motore spinto alla massima andatura. Avendo visto alte fiamme uscire dal fumaiolo e ritenendo trattarsi di incendio in caldaia, raggiungeva di cOrsa il locale per prestare la sua opera. Nell'attraversare una zona colpita dal tiro nemico, veniva investito dalle fiamme e scompariva in mare.
(Mediterraneo centrale, 2 dicembre 1942)"
La motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita al sottotenente di vascello Giorgio Ascheri:
"Ufficiale di rotta di ct. impegnato in aspro combattimento notturno contro preponderanti forze navali, manteneva contegno calmo e sereno coadiuvando efficacemente il comandante nella manovra di attacco. Gravemente ustionato e gettato in mare dalle esplosioni provocate dal tiro nemico, dava esempio di forza d'animo e di altruismo ai compagni naufraghi. (Mediterraneo Centrale, 2 dicembre 1942)"
La motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita al sottotenente di vascello Giuseppe Sciangula, nato a Porto Empedocle il 1° gennaio 1918:
"Direttore del tiro di cacciatorpediniere impegnato in aspro combattimento notturno contro preponderanti forze navali assolveva il proprio compito con grande serenità e capacità coadiuvando efficacemente il comandante nello sviluppo della manovra controffensiva. Gravemente ustionato dalle esplosioni provocate dal tiro nemico, ava esempio di fermezza e altruismo.
(Mediterraneo Centrale, 2 dicembre 1942)"
La motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita al sergente radiotelegrafista Mario Sforzi, nato a Firenze il 20 gennaio 1916:
"Nell'occasione di uno scontro notturno contro forze navali preponderanti, assolveva con calma e serenità il proprio servizio alle comunicazioni Rt. Seriamente ustionato dalle fiamme provocate dal tiro nemico manteneva contegno fermo e virile preoccupandosi solo di stabilire un collegamento con i mezzi di soccorso. Rifiutava poi di trasbordare con i feriti e rimaneva a bordo per assicurare il servizio Rt.
(Mediterraneo Centrale, 2 dicembre 1942)"
La Forza Q ritenne correttamente di aver affondato cinque navi, anche se sbagliò leggermente nella loro identificazione, ritenendo che si trattasse di tre mercantili e due navi scorta invece che, com'era in realtà, quattro mercantili ed una nave scorta. A permettere ai britannici di accertare con maggior precisione i risultati del loro attacco fu, come al solito, “ULTRA”, che il 2 dicembre aveva intercettato un nuovo messaggio – ormai superfluo – sulla scorta del quale aveva informato i Comandi britannici che «Puccini (2423 tsl), Aventino (3794 tsl), Gualdi (3289 tsl) e KT 1 dovevano partire da Palermo alle 6.30 del 1° dicembre, velocità 9 nodi, venendo raggiunti dall'Aspromonte (976 tsl) al largo di Trapani, procedendo poi verso porti tunisini, arrivando alle 6 del 2 (…) La destinazione di queste navi “dipende dalla situazione”, ma è probabile che Giorgio e Gualdi siano diretti a Tunisi, ed il resto a Biserta». Il 4 dicembre “ULTRA” riferì, sulla scorta di nuove intercettazioni, che «Il Gualdi è stato affondato ed il Puccini ed un altro piroscafo sono stati incendiati durante lo scontro della notte tra l'1 e il 2. L'unica nave di questo convoglio che risulta essere arrivata in Tunisia è la torpediniera Procione», il che non era del tutto vero: il Gualdi era affondato il 1° dicembre, sì, ma nel porto di Palermo, per un'esplosione accidentale che aveva coinvolto il suo carico di carburante. I decrittatori britannici, non al corrente della sua mancata partenza e dell'incidente, avevano evidentemente collegato un messaggio relativo alla sua perdita al combattimento che aveva coinvolto il convoglio di cui secondo le informazioni in loro possesso avrebbe dovuto far parte, ed erano giunti ad una conclusione errata. Il 5 dicembre “ULTRA” aggiunse altre notizie, pur perseverando nell'includere erroneamente il Gualdi tra le vittime dello scontro del banco di Skerki: «È adesso noto che del convoglio attaccato dalla Forza Q durante la notte tra l'1 e il 2 dicembre, Gualdi, Puccini, Aventino, KT 1 e Aspromonte sono stati tutti affondati».
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Devastazione in coperta a sinistra sul Da Recco, in un’immagine scattata il mattino del 2 dicembre (Francesco Mattesini/www.academia.edu) |
Dopo riparazioni provvisorie a Trapani che richiesero una ventina di giorni, al fine di rimetterlo in condizione di navigare, il Da Recco si trasferì a Palermo, dove ricevette ulteriori riparazioni; poi raggiunse con i suoi mezzi Taranto, dove fu sottoposto a lavori più estesi in Arsenale che si protrassero dal 9 gennaio al 26 giugno 1943. Rientrò in servizio, al comando del capitano di fregata Gaetano Tortora e poi del capitano di vascello Rodolfo Del Minio, soltanto ad inizio luglio 1943.
Nel corso di questi lavori venne anche modificato l'armamento del Da Recco: l'impianto lanciasiluri poppiero venne sbarcato e sostituito con due mitragliere contraeree pesanti Breda Mod. 1939 da 37/54 mm (altra fonte data a questi lavori anche la sostituzione delle poco efficaci mitragliere da 13,2 mm con 9 mitragliere singole da 20 mm), e vennero eliminati i paramine tipo C, inutilizzabili perché limitavano troppo la manovrabilità.
Per i molti uomini del Da Recco rimasti ustionati, l'arrivo a Trapani costituì soltanto l'inizio di una lunga odissea, di ospedale in ospedale. Aldo Cocchia, in "Convogli", descrive molto approfonditamente la sua. Dopo l'arrivo in porto, nel tardo pomeriggio del 2 dicembre, tutti i feriti furono portati all'ospedale trapanese di Torrebianca, un nosocomio “di prima linea”: per via della sua posizione vicino a Trapani, porto più vicino per chi proveniva dalle acque della Tunisia e doveva sbarcare feriti e naufraghi, qui finivano tutti i marinai e gli avieri superstiti dei continui scontri aeronavali che infuriavano nel Canale di Sicilia, quei pochi che il mare non inghiottiva. Molti morivano, i meno gravi venivano curati e dimessi, i più gravi – quelli che sopravvivevano – trasferiti in strutture meglio attrezzate. Arrivavano pazienti con ustioni, fratture, intossicazione da nafta, cancrene, ferite macerate da ore od anche giorni di permanenza in acqua: “in quell'ospedale secondario affacciato sul Canale di Sicilia arrivavano carni straziate quali nemmeno la più macabra fantasia riuscirebbe a immaginare”.
Costruito alla fine degli anni Trenta come sanatorio per malati di tubercolosi, Torrebianca era un edificio moderno, arioso, lucente; era situato alle falde del monte San Giuliano, a circa cento metri sul livello del mare ed a 5-6 km dall'abitato di Trapani, con la facciata principale rivolta verso sud. Il suo impiego come tubercolosario era durato poco, allo scoppio della guerra era stato requisito dalla Marina e trasformato in ospedale «secondario» (da un punto di vista prettamente amministrativo: nei fatti era tutt'altro che secondario) con capacità di 350 posti, diretto da un colonnello medico della riserva (nel dicembre 1942, il colonnello medico Fiorito) coadiuvato da alcuni medici richiamati, “fra i quali qualche buon professionista”, e degli infermieri che invece Cocchia descrive in termini ben poco lusinghieri: “…fino a pochi giorni innanzi erano stati ottimi contadini o sobri pescatori o perfino astuti negozianti di ferramenta… uno stuolo di pseudo infermieri ignoranti, villani e incapaci… zappatori camuffati da infermieri”. Completava il tutto uno sparuto manipolo di suore, mentre del tutto mancanti erano le infermiere volontarie della Croce Rossa.
Tra il tardo pomeriggio e la sera del 2 dicembre 1942 l'ospedale di Torrebianca fu investito da un vero tsunami sanitario: i sessanta ustionati del Da Recco – quasi tutti con ustioni a viso e mani – e centinaia di naufraghi del Folgore e dei mercantili affondati nella battaglia arrivarono nel giro di poche ore; tutti i letti disponibili furono occupati, molti dovettero essere sistemati alla meglio su giacigli improvvisati nelle corsie, il personale dell'ospedale dovette farsi in quattro per prestare le migliori cure possibili a tutti. “Non si udivano lamenti, né pianti o gemiti, tanto meno imprecazioni; gravava sull'edificio un silenzio denso di dolore”.
Cocchia e Zambrini raggiunsero l'ospedale insieme: era stato Zambrini, dopo essere rimasto accanto al suo comandante per tutta la notte, a chiedere di essere messo sulla stessa ambulanza quando sbarcarono sul molo, ed una volta giunto in ospedale chiese e ottenne di essere sistemato nella stessa camera. Anche Sciangula e tanti sottufficiali e marinai avrebbero voluto restare con Cocchia, “quasi per mantenere integra, anche in ospedale, l'entità Da Recco”, ma non poterono essere accontentati; furono sistemati in stanze e corsie adiacenti, rimasero in contatto per tramite dei medici e degli infermieri.
C'era tempo, adesso, per ripensare a quel che era successo: a come si era svolto il combattimento, a cos'altro si sarebbe potuto fare, ai compagni caduti: “Tivegna, Federigi, Giusfredi, miei ufficiali che mi erano stati accanto durante tutto il combattimento; Gialluisi, capo posto radiotelegrafista che era già stato con me in Africa e che fino in ultimo aveva assicurato il funzionamento dei suoi apparati; Versi, sergente infermiere, che aveva rifiutato lo sbarco pur di restare sul Da Recco; nostromo Vedani, capo elettricista, fedele compagno di oltre cinque anni della mia errabonda vita, che mi avevi seguito col tuo affetto e con le tue cure in Spagna, in Africa, sul Torelli in Atlntico, in Francia, in Egeo, in Grecia… che indovinavi il mio pensiero, che avevi rifiutata la licenza, che pur ti spettava, per non privarmi dei tuoi servigi durante la navigazione, tu che poco prima del combattimento mi eri venuto accanto perché io potevo aver bisogno di te e non mi avevi più abbandonato… e voi tutti compagni che il destino aveva falciato al vostro posto di combattimento, ora eravate tutti, vivi, nel mio ricordo, e la vostra presenza era dolore, dolore infinito”. Il pensiero di quel che era successo e di cosa si sarebbe potuto fare di diverso faceva più male del dolore fisico.
Zambrini, dal letto accanto, rievocava a sua volta gli eventi della notte, i compagni che non c'erano più; faceva domande, poi sprofondava nel delirio, credeva di essere in Mar Nero. Le ustioni al suo viso erano analoghe a quelle di Cocchia, ma le mani erano in condizioni molto peggiori delle sue: quando era giunto in ospedale erano già in cancrena, ma i medici non vollero amputarle, sperando di riuscire a salvarle almeno in parte. Invece l'infezione si estese, le sue condizioni si aggravarono; divenne irrequieto, in un'occasione si alzò dal letto ed in preda al delirio, raggiunse un'altra camera dove minacciò un paziente con la mano steccata prima di essere faticosamente ricondotto a letto. Alla fine venne portato in una camera separata e si procedette ad amputargli una mano, ma era troppo tardi; rinsavì, ci fu un illusorio miglioramento di qualche ora, poi la situazione precipitò. Una suora avrebbe raccontato in seguito a Cocchia dei suoi ultimi momenti: “Era tornato in sé, aveva pregato, aveva atteso serenamente la fine”. Morì il 14 dicembre, all'età di 24 anni.
Altro duro colpo fu la morte del sottocapo furiere Mario Vitti, spentosi il 1° gennaio 1943. Così lo avrebbe ricordato Cocchia: “Durante il combattimento mi era stato sempre accanto sul ponte di comando, sereno, imperturbabile; aveva riportato ustioni al viso ed alle mani, era stato ricoverato a Torrebianca contemporaneamente a me e a tanti altri e aveva superato la prima crisi e la nefrosi. Poi gli era mancata la vitalità: si era spento pian piano, incapace di mangiare, di bere, di reagire in qualsiasi modo alle distruzioni che il fuoco e il male avevano operate nel suo organismo”. Non aveva ancora compiuto vent'anni.
Nel dicembre 1942, a capo del reparto di chiurgia dell'ospedale di Torrebianca c'era il professor Spinelli, direttore dell'ospedale civile di Reggio Calabria, richiamato con il grado di maggiore medico; lo affiancavano come assistenti il tenente medico Spina, in tempo di pace assistente in una clinica chirurgica a Roma, ed il capitano medico De Gasperi, unico ufficiale in servizio permanente effettivo di tutto l'ospedale. Il maggiore Spinelli, buon chirurgo, passava quasi tutto il suo tempo in sala operatoria, lasciando la direzione dei reparti ai due sottoposti; non molto tempo dopo l'arrivo dei feriti del Da Recco, però, avrebbe lasciato per sempre l'ospedale a causa di problemi cardiaci, ed anche il capitano De Gasperi sarebbe andato in licenza per la grave malattia della moglie, lasciando il tenente di complemento Spina a gestire da solo tutto il reparto.
Proprio pochi giorni dopo il 2 dicembre, in considerazione del sovraccarico di pazienti causato dallo scontro del banco di Skerki, alcune donne del posto, dopo aver seguito i corsi da infermiera, si offrirono per prestare servizio nell'ospedale; tra di essi la duchessa Notarbartolo di Villarosa, moglie dell'ammiraglio Luigi Notarbartolo, comandante militare marittimo di Trapani. Si occupavano principalmente di eseguire le medicazioni e pulire le ferite, ma portavano anche un po' di conforto ai pazienti. La duchessa Notarbartolo aveva tre figli sotto le armi, tutti e tre ufficiali: due in Marina, il terzo nell'Esercito (in artiglieria); uno era stato ferito, due erano prigionieri.
Sempre nei giorni immediatamente successivi alla battaglia, due marinai del Da Recco vennero distaccati presso l'ospedale di Torrebianca per coadiuvare il personale ospedaliero nell'assistenza ai compagni feriti.
L'ospedale disponeva di attrezzature medico-chirurgiche moderne ed efficienti, ma la stessa cura non era stata riposta nelle dotazioni più basilari: cuscini e materassi, ripieni di paglia od erba, erano consunti, duri e spigolosi, problema non di poco conto per feriti gravi, con fratture od ustioni, allettati e costretti all'immobilità per lunghi periodi. In ogni stanza vi erano lavandini e rubinetti a profusione, ma mancava l'acqua corrente: era necessario andarla a prelevare in cortile con delle brocche.
Un altro problema sorse per la questione dello zucchero. Molti degli ustionati del Da Recco furono colti da nefrosi, che i medici curarono somministrando una dieta interamente a base di liquidi, e più precisamente di latte e spremute d'arancia, che dovevano essere ben zuccherate: ma mentre di latte ed arance non vi era carenza, lo zucchero sembrava essere indisponibile. Alle proteste rivolte da Cocchia la direzione dell'ospedale rispose che di zucchero non ve n'era; era allora intervenuto il secondo del Da Recco, capitano di corvetta Riva, che si era recato personalmente al commissariato per chiedere perché lo zucchero necessario per i pazienti non venisse fornito all'ospedale. Scoprì che di zucchero ce n'era in abbondanza, che al commissariato non sapevano niente della diatriba in corso e che avevano sempre fornito a Torrebianca tutto lo zucchero richiesto. Si attivò personalmente l'ammiraglio Notarbartolo, e da quel momento i degenti dell'ospedale ebbero sempre tutto lo zucchero che vollero.
Altro inconveniente non trascurabile era costituito dalla vicinanza dell'ospedale alla base aerea tedesca di Trapani Milo, distante meno di un chilometro dalle strutture di Torrebianca. L'aeroporto veniva bombardato dalla RAF tutte le notti, ed il conseguente trambusto impediva ai pazienti di riposare come avrebbero voluto e dovuto; se non altro, a differenza di quanti molti avevano paventato non capitò mai che qualche pilota poco scrupoloso lasciasse cadere una bomba sull'ospedale. In un'occasione alcune bombe caddero a 200-300 metri dall'edificio, mandando i vetri in frantumi e facendo mancare la corrente per oltre ventiquattr'ore; in un'altra un proiettile contraereo tedesco da 88 mm colpì una camera, ma non esplose ed i danni furono così molto limitati.
Per settimane Cocchia giacque tra la vita e la morte; immobile nel letto, “supino, con la testa interamente fasciata con bende imbevute di acido tannico, gli occhi chiusi, la bocca tumefatta, le mani bendate e steccate; l'arteria temporale che mi martellava come una campana dentro il cranio ed era l'unica cosa che mi dicesse che io vivevo ancora: avrei creduto altrimentii di essere già in qualche luogo di espiazione”. Gli occhi rimanevano sempre chiusi, le mani continuavano a sanguinare, le ustioni al volto producevano ininterrottamente abbondanti secrezioni, ed a tutto questo si univano febbre a 39, extrasistole, nefrosi; ogni giorno bisognava pulire le ferite e cambiare le bende. Nella stanza, gli avrebbero raccontato in seguito, aleggiava odore di morte, di carne in disfacimento.
Le sue condizioni iniziarono a migliorare dopo circa un mese, e verso la fine del gennaio 1943, riassorbito il gonfiore delle palpebre, Cocchia iniziò gradatamente a riacquistare la vista, anche se ci sarebbe voluto ancora molto tempo prima di tornare a vedere come prima. Sempre nella seconda metà di gennaio arrivò a Torrebianca il nuovo responsabile della chirurgia, professor Billi: questi sospese il trattamento delle ustioni a base di euclorina e pomata all'ossido di zinco fino ad allora seguito e curò invece le piaghe ancora aperte con sulfamidici. Questo cambiamento portò subito risultati positivi; la febbre che per settimane era stata sui 39 gradi scese notevolmente, e diminuirono fortemente le secrezioni dalle numerose ustioni non ancora rimarginatesi. A fine gennaio, dopo quasi due mesi a letto, Cocchia fu in grado di alzarsi per la prima volta, ma dopo una così prolungata immobilità forzata i muscoli si erano atrofizzati e dopo soli tre passi si accasciò sulla poltrona accanto al letto, “esausto come dopo la più improba delle fatiche”. Ciononostante, riacquistò gradualmente la mobilità perduta, e dopo alcuni giorni, con l'aiuto del marinaio del Da Recco Luigi Pinna – uno dei due distaccati presso l'ospedale di Torrebianca per aiutare il personale nell'assistenza ai feriti, divenuto praticamente infermiere personale di Cocchia – fu in grado di percorrere le decine di metri che separavano la sua camera dalla cappella dell'ospedale.
Tornato in grado di muoversi, la priorità per Cocchia divenne quella di lasciare Torrebianca, cui lo legavano ormai troppe tristi memorie; già da tempo il Ministero della Marina aveva predisposto per lui il trasferimento in un altro ospedale dove avrebbe potuto essere più vicino alla famiglia (inizialmente si era pensato all'ospedale di Marina di Massa) e dopo lungaggini burocratiche che fecero perdere diversi giorni, il 13 febbraio 1943 partì da Trapani su un aereo da trasporto tedesco, diretto a Napoli. Atterrato all'aeroporto di Capodichino, proseguì in automobile verso Roma, dove quella sera stessa venne ricoverato all'ospedale "Cesare Battisti", anch'esso, come Torrebianca, ottenuto dalla conversione di un sanatorio antitubercolare.
Nella stanza del nuovo ospedale Cocchia aveva ben due specchi, ma vi fece posizionare davanti delle piante per non rischiare di vedervisi: a Trapani gli era capitato di vedersi allo specchio, ed era rimasto inorridito dall'aspetto del suo volto sfigurato dalle ustioni; proibì ad amici e parenti di venire a fargli visita, sentendosi “così immondo e ripugnante che non potevo concepire che qualcuno mi vedesse in quello stato. Volevo vivere solo, disperatamente solo”. Un sentimento, come avrebbe scoperto nei mesi a venire, condiviso dalla quasi totalità di coloro che avevano subito gravi ustioni al viso. Non poté tuttavia impedire al padre, alla moglie ed ai figli di venirlo a trovare, e superato questo primo impatto si abituò a ricevere visite anche dagli altri parenti.
L'ospedale "Cesare Battisti", gestito dalla Croce Rossa e requisito dalla Marina all'inizio della guerra, aveva sede in una villa al centro di un vasto giardino, sul colle di Monteverde; era ottimamente attrezzato ed ospitava circa 150 pazienti, la maggioranza dei quali erano malati invece che feriti. I medici erano professionisti richiamati dall'Esercito, e collegamento con la Marina era il tenente colonnello medico Giuseppe Pezzi; c'erano anche, a differenza che a Torrebianca, le crocerossine, la cui instancabile dedizione a lenire le sofferenze dei ricoverati sarebbe stata ricordata da Cocchia con estrema gratitudine. Qui ai pazienti non mancava nulla; l'ospedale era dotato persino di un teatro, nel quale più volte alla settimana andavano in scena le compagnie teatrali di Roma o quelle più modeste dei dopolavori: un utile diversivo per chi era costretto ad una lunga degenza.
Cocchia passò tre mesi al "Cesare Battisti", durante le quali le sue condizioni migliorarono notevolmente grazie alle cure prestate personalmente dal chirurgo dell'ospedale, dottor Enrico Giupponi; guarirono finalmente le piaghe alle mani, che rimasero però inerti e prive di mobilità (solo dopo ripetuti interventi di chirurgia plastica Cocchia sarebbe riuscito a riacquistarne almeno in parte l'uso). Qualche giorno dopo il suo arrivo lo raggiunse al "Cesare Battisti" anche il sottotenente di vascello Ascheri, l'ufficiale di rotta del Da Recco, trasferito da Trapani a Napoli in nave ospedale e poi da lì a Roma in treno: le sue mani erano ancora in condizioni disastrose, paralizzate, coperte di piaghe ed ancora sanguinanti. Ci sarebbero voluti ancora diversi mesi e numerosi interventi di chirurgia plastica prima che Ascheri tornasse in grado di usare, almeno parzialmente, le mani.
Le ultime piaghe di Cocchia guarirono finalmente nell'aprile 1943; da quel momento le bende non erano più necessarie, ma ancora per molto tempo Cocchia si sarebbe fatto fasciare parzialmente la testa ogni volta che usciva o riceveva visite da parte di estranei, per timore di mostrare il suo volto deturpato dalle ustioni.
La Pasqua del 1943 Cocchia poté passarla a casa, con la famiglia; dopo di che sia lui che Ascheri vennero trasferiti da Roma al Centro Mutilati di Milano, dove il chirurgo Gustavo Sanvenero Rosselli, che dirigeva il reparto mutilati del viso, si dedicò personalmente a mitigare le distruzioni che il fuoco aveva operato sui loro volti e sulle loro mani.
Mai la guerra, avrebbe scritto Cocchia, gli aveva mostrato i suoi orrori “con così brutale evidenza” come al Centro Mutilati; nemmeno a Torrebianca, dove pure affluivano di continuo naufraghi, ustionati, morti e moribondi dalla “prima linea” del Canale di Sicilia. Al Centro affluivano mutilati da tutti i fronti della guerra: molti in particolare i reduci dalla tragica ritirata di Russia, che per effetto del congelamento avevano perso piedi o gambe. I 150 pazienti del reparto mutilati del viso, dove fu ricoverato Cocchia, erano invece in maggioranza aviatori e marinai: tra gli altri Cocchia conobbe un capitano paracadutista, rimasto ustionato al volto ed alle mani nel tentativo di salvare i suoi uomini rimasti intrappolati su un aereo incendiatosi durante un'esercitazione.
A fronte di tanta sofferenza, il Centro era una struttura che assolveva pienamente alle sue esigenze; anch'esso frutto di riconversione di un edificio adibito ad altro scopo e requisito allo scoppio della guerra (prima era un ricovero per anziani invalidi), era modernamente attrezzato e vi lavoravano medici esperti – tutti professionisti di fama, richiamati per la guerra – e le migliori crocerossine che Cocchia avesse mai conosciuto. “Corsie razionali, sale operatorie e di medicazione perfettamente arredate, impianti per raggi X, per elettroterapia, per massaggi, una buona officina ortopedica (…) una vasta sala di riunione con un ben fornito spaccio per i soldati e la mensa per gli ufficiali dotata perfino di biliardo e di poltrone di cuoio. Le cucine ampie e spaziose (…) tutto in ordine, tutto moderno, tutto buono. Nella chiesa (…) officiava un cappellano, anch'egli mutilato di guerra; al cinema c'erano quasi tutte le sere buoni spettacoli…”. Il Centro avrebbe potuto ospitare senza problemi un migliaio di pazienti, ma di norma il numero dei ricoverati si aggirava intorno ai 700.
Sotto gli interventi del dottor Sanvenero, a poco a poco Cocchia riuscì a riacquistare un volto umano, e poté smettere la pratica di fasciarsi la testa per non attirare su di sé gli sguardi indiscreti dei passanti. Ad Ascheri, per ricostruire le mani completamente spellate dalle ustioni, Sanvenero praticò una “tasca” nell'addome nella quale, una per volta, infilò le mani; nel giro di un mese circa il derma addominale si trasferì sul dorso delle mani, che furono poi separate dall'addome tagliando i bordi della “tasca”.
Proprio quando la situazione sembrava finalmente avviata ad un lento ma continuo miglioramento, si abbatterono su Milano i devastanti bombardamenti dell'agosto 1943. La prima di quelle quattro incursioni, quella della notte tra il 7 e l'8 agosto, lasciò il Centro Mutilati quasi del tutto indenne; meno bene andò con la seconda, quella della notte tra il 12 ed il 13 agosto, il più pesante bombardamento subito da Milano nel corso dell'intero conflitto. Quella notte, quasi cinquecento bombardieri britannici sganciarono sul capoluogo lombardo l'impressionante quantità di 1252 tonnellate di bombe, tra dirompenti ed incendiarie, seminando ovunque morte e devastazione: Cocchia, che con i pazienti ed il personale del Centro Mutilati si trovava nei rifugi antiaerei della struttura, avrebbe così ricordato quei momenti: “Nei rifugi era un continuo tremare di pareti e soffitti, si udiva il sibilo delle bombe che cadevano vicine e si aveva l'impressione che da un momento all'altro su di noi tutto dovesse crollare. Il fuoco della difesa contraerea lo si intese per i primi minuti dell'azione, poi tacque e cominciò invece allora il crepitio delle mitragliere degli aerei che si abbassavano impunemente (…) Dopo 55 minuti di bombardamento la città offriva uno spettacolo veramente impressionante; fiamme altissime si levavano da ogni parte, una nube di fumo nera, densa, spessa, circondava le cose, si alzava in cumuli verso il cielo. Da un vicino stabilimento in fiamme partivano di tanto in tanto esplosioni e allora lingue di fuoco più vivido uscivano dal caseggiato; ad ogni poco il rombo di un'esplosione di bomba a scoppio ritardato; da qualsiasi parte si guardasse, un mare di fiamme”.
A fronte di tanta distruzione, i danni subiti dal Centro Mutilati furono ancora relativamente limitati: spezzoni incendiari appiccarono incendi che distrussero alcune camere, ma furono domati prima di degenerare; bombe cadute vicine avevano mandato in frantumi i vetri, aperto crepe nei muri e fatto cadere qualche parete divisoria, ma tutto sommato gli edifici erano ancora agibili. Le successive incursioni del 13/14 e del 15/16 agosto, però, completarono l'opera: soprattutto la seconda, nella quale alcune bombe dirompenti colpirono in pieno la chiesa, distrussero un reparto ufficiali e danneggiarono gravemente altri edifici, mentre le fiamme appiccate dagli spezzoni incendiari, caduti un po' dappertutto, distrussero un'intera ala e provocarono gravi danni nelle altre.
Non ci furono vittime – i rifugi antiaerei ressero tutti tranne uno, che conteneva soltanto due uomini i quali riuscirono a mettersi in salvo – ma la vastità dei danni rese inevitabile lo sgombero del Centro Mutilati. I pazienti che non necessitavano di cure immediate furono mandati a casa in licenza, quelli gravi furono trasferiti all'ospedale militare di Baggio che era rimasto indenne, mentre il grosso degli altri fu trasferito a Lecco, dove era stata aperta da qualche tempo una sede distaccata del Centro Mutilati in una scuola professionale requisita.
Tra coloro che finirono a Lecco vi fu anche Aldo Cocchia, che traccia nelle sue memorie una descrizione particolarmente vivida della fuga in massa dei milanesi provocata dai bombardamenti: “In quel mattino del 16 agosto 1943 pareva di assistere a Milano ad uno dei grandi esodi biblici. Fiumane di gente lasciavano la città, sconvolta e pericolosa, si avviavano verso la periferia alla ricerca di una casa, di un buco, di un fienile, di un ricovero qualsiasi. Per le strade voragini scavate dalle bombe, alberi divelti, grovigli di fili di rame, condutture elettriche, tubolature di piombo e dappertutto macerie, enormi cumuli di macerie. La folla procedeva come poteva, con i mezzi che aveva trovato. Pochi camion e automobili, alcuni carri a trazione animale, molte carrettelle a mano. Ma la gran massa procedeva a piedi, stanca, esausta, attonita, con impressi sul viso i segni dello sconforto, quasi per gli uomini fosse troppo grave il peso della tragedia che si era abbattuta su di essi. Andavano come spinti dalla fatalità, trascinandosi dietro le poche robe salvate dallo sfacelo: qualche coperta, raramente un materasso, piccole valige infilate in un bastone retto ai capi da due persone. Andavano, la maggior parte non sapeva dove, si sarebbero fermati quando non avessero più potuto camminare o quando si fosse fermato il treno che avrebbero cercato di prendere. La ferrovia Nord era interrotta fra Milano e la Bovisa, e la gran massa era alla Bovisa che si dirigeva nella speranza di poter trovare un treno che li portasse altrove. Decisi di andare lì anch'io. Riuscii ad avere dall'ospedale una carretta da battaglione con un mulo, ci caricai sopra tutto quel che avevo, compresa una radio, e Pinna con le sue valige e sul tutto io che avevo in quei giorni il viso fasciato per una recente operazione. Per la strada ci chiesero subito di poter montare. Feci salire quanti fu possibile, donne con bambini, uomini malandati e tutti con i loro fagotti, con la loro miseria. Se non fossimo stati in piena tragedia, lo spettacolo della mia carretta sarebbe apparso certo uno dei più umoristici”.
Il trasferimento da Milano a Lecco segnò un vistoso passo indietro per Cocchia e gli altri pazienti del Centro Mutilati. L'edificio scolastico in cui il Centro era adesso alloggiato era del tutto inadeguato alla bisogna: i servizi igienici, pensati per studenti che dovevano rimanere nella scuola solo poche ore al giorno, erano del tutto insufficienti per le esigenze delle centinaia di pazienti ricoverati stabilmente in un ospedale; per trenta ufficiali c'era un solo rubinetto, nelle latrine, ed un'unica doccia. “I gabinetti non c'era bisogno di cercarli, si individuavano facilmente perché il… profumo indirizzava opportunamente fin da una cinquantina di metri di distanza”. Gli ufficiali erano sistemati in dodici per camera, senza distinzione di grado o di quadro clinico, mentre i soldati se la passavano decisamente peggio, ammassati nei corridoi. Una scuola che in tempo di pace ospitava non più di 200 studenti era diventata così un ospedale con 500 pazienti. Mancavano del tutto sale operatorie e di medicazione ed altre attrezzature essenziali; le medicazioni venivano effettuate su un tavolino sistemato in una delle aule, senza nemmeno un lavandino. Le crocerossine, ligie al dovere, avevano seguito i pazienti nella nuova sistemazione ed erano alloggiate dove avevano potuto trovare posto, il che le obbligava a percorrere decine di km a piedi o in bicicletta ogni giorno per recarsi al lavoro; ma nella disastrosa situazione della nuova sede, “neanche la loro abnegazione e la loro capacità organizzativa potevano fare niente”.
Fu avanzata l'idea di requisire un albergo a Lecco od in altra località del lago, il che sarebbe stata la soluzione più logica, ma venne obiettato che non si potevano mandar via i clienti dagli alberghi solo per sistemare un po' meglio i pazienti (!). (Cocchia osserva con giustificata acredine che dopo l'armistizio, non appena i comandi tedeschi decisero di requisire gli alberghi per sistemarvi i loro feriti, gli alberghi vennero sgomberati in due ore).
Il professor Sanvenero fece quel che poté, facendo portare a Lecco lettini e materiale medico, facendo stendere linee elettriche e riuscendo a realizzare una rudimentale sala operatoria, ma diversi ufficiali preferirono farsi ricoverare in altre cliniche o direttamente a casa propria piuttosto che affrontare il disordine e la sporcizia di Lecco. Tra questi anche Cocchia, che su proposta di Sanvenero venne ospitato nella casa di cura privata che questi aveva a Milano (la questione delle spese, lasciata per il momento in sospeso, venne regolata molto tempo dopo con il sottosegretario di Stato per la Marina), danneggiata anch'essa dai bombardamenti ma molto meno del Centro Mutilati, dove poté continuare le operazioni di chirurgia plastica.
Rimasto in Lombardia, dove vivevano la moglie ed i figli, anche dopo l'armistizio, che lo lasciò affranto e disilluso, Cocchia trascorse il Natale del 1943 in famiglia, per la prima volta da otto anni (dal 1935 in poi si era sempre trovato in mare od oltremare in quella giornata). Non tornò più in servizio attivo sulle navi della Regia Marina, passando il resto della guerra di ospedale in ospedale, sottoponendosi ad innumerevoli interventi chirurgici nel tentativo di mitigare i danni causati dal fuoco sul suo volto e sulle sue mani. Questi interventi migliorarono sensibilmente la sua situazione, ma rimase comunque sfigurato fino alla fine dei suoi giorni.
Giuseppe Sciangula, il direttore di tiro del Da Recco, rimase ricoverato a Torrebianca fino al 27 maggio 1943. Era gravemente ustionato sia al viso (la pelle delle palpebre si era “fusa” con quella soprastante gli occhi, impedendogli per mesi di chiuderli e costringendolo a dormire ad occhi aperti) sia alle mani, che erano parse così compromesse che i medici di Torrebianca avevano deciso di amputarle, ottenendo allo scopo l'autorizzazione scritta del padre; in seguito alla morte di Zambrini dopo l'amputazione di una mano, tuttavia, la decisione venne riconsiderata ed alla fine entrambe le mani vennero salvate. Dopo le dimissioni da Torrebianca, Sciangula raggiunse la famiglia sfollata a Siculiana, proseguendo le cure all'ospedale di Agrigento; le ustioni sul dorso delle mani non erano ancora rimarginate, ma riuscì a riacquisirne gradualmente l'uso, mentre un intervento di chirurgia plastica effettuato a Roma gli permise di tornare a chiudere gli occhi. Quando gli Alleati sbarcarono in Sicilia, rimproverò aspramente i parenti che avevano accolto le truppe statunitensi (all'epoca ancora nemiche) a suon di applausi (“state applaudendo il nemico che mi ha ridotto così”), dopo di che si mise in divisa ed andò a consegnarsi agli occupanti, i quali tuttavia decisero di rilasciarlo immediatamente, avendo apprezzato il suo gesto. Gli proposero anzi di assumere il comando del porto di Porto Empedocle, ma ottennero il suo rifiuto, essendo l'Italia ancora in guerra contro gli Alleati e configurandosi quindi una tale attività come collaborazione con il nemico. Accettò in seguito, dietro insistenza degli statunitensi e per il bene della popolazione civile, di occuparsi della distribuzione di cibo e bevande alla popolazione.
Il 6 dicembre 1942 il comandante in capo delle Forze Navali, ammiraglio Angelo Iachino, emise un ordine del giorno in cui elogiava la condotta della scorta del convoglio "H": “Nella notte del due dicembre un nostro convoglio scortato da poche siluranti, è stato attaccato da una forza navale preponderante composta da tre incrociatori e vari CC.TT. Per quanto il nemico non abbia confessato tutte le perdite sofferte in questa battaglia, certo è che esse sono state gravi e nettamente superiori alle nostre [da parte italiana Folgore e Camicia Nera avevano rivendicato siluri a segno su almeno due incrociatori, solo nel dopoguerra si venne a sapere che nessuno dei lanci aveva avuto successo]. Ma, indipendentemente dai risultati pur tanto brillanti di questo combattimento, quello che è più importante rilevare e più degno di ammirazione da parte nostra, è stato il comportamento di tutte le nostre unità durante la violenta e rapida azione notturna. I CC.TT. Da Recco, Camicia Nera e Folgore si sono lanciati all'attacco senza contare le forze nemiche e la loro superiorità, con slancio e tenacia combattiva degna delle migliori tradizioni navali”.
Al di là delle belle parole, ad ogni modo, le perdite erano state pesanti e rimanevano dei punti poco chiari, ragion per cui il Comando in Capo della flotta dispose un'inchiesta sugli eventi della notte del 2 dicembre 1942, incaricandone l'ammiraglio Angelo Parona, comandante della III Divisione Navale. Questi si recò a Trapani dove esaminò il Da Recco (sul quale trovò intatti carta nautica, brogliaccio di navigazione e registri radiotelegrafici, tutti necessari alla sua indagine) ed andò anche all'ospedale di Torrebianca per parlare direttamente con il comandante Cocchia, ma questi era ancora in gravi condizioni, e non appena iniziò ad esporre l'accaduto si eccitò a tal punto che i sanitari dovettero chiedere all'ammiraglio di non porre altre domande. Anche senza la testimonianza di Cocchia, Parona riuscì a ricostruire accuratamente gli eventi di quella tragica notte, e presentò ai suoi superiori una relazione che lo stesso Cocchia definì in seguito chiara ed esauriente; tuttavia le alte sfere non ne furono pienamente soddisfatte ed incaricarono il contrammiraglio Lorenzo Gasparri, comandante del Gruppo Cacciatorpediniere di Squadra, di “ampliarla”. Anche Gasparri andò da Cocchia per avere da lui le informazioni necessarie a colmare le lacune presenti nella relazione di Parona; nel frattempo le condizioni del comandante del Da Recco erano migliorate, e Cocchia fu in grado di esporre nel dettaglio tutti gli episodi della fatale notte.
Gasparri non riuscì ad ultimare il suo lavoro, perché il 28 marzo 1943 perse la vita nell'esplosione della motonave Caterina Costa, carica di carburante e munizioni, saltata in aria nel porto di Napoli; il 12 marzo, tuttavia, aveva già inviato una prima relazione a Supermarina, nella quale esprimeva il seguente giudizio sull'operato del Da Recco: "Era l'Unità Capo Scorta. Il suo comportamento è pure molto lodevole, ma non appare diritto, lineare, senza mende come quello del Folgore e del Camicia Nera. Si può in primo luogo rilevare che il suo Comandante non ha mostrato un eccessivo spirito di iniziativa. Al segnale delle 150801 con il quale il Supermarina ordinava al Gruppo “Maestrale” di rinforzare la scorta del convoglio “Sirio” “contro eventuale provenienza da Bona dove stamane erano presenti alcuni cc.tt.” non è stata data importanza. Il Comandante ha anzi pensato che Supermarina giudicasse minacciato in base alle notizie in suo possesso, solo il convoglio più arretrato e che non vi fosse quindi pericolo per lui. La stessa cosa ha pensato nel ricevere poco prima di mezzanotte il segnale di scoperta delle 2344 con il quale Supermarina comunicava l'avvistamento fatto alle 2240 da un aereo del C.A.T. di 5 unità imprecisate, procedenti ad alta velocità verso levante, e nel constatare che di questo segnale veniva chiesto il ricevuto al Maestrale e non al Da Recco". Ciò aveva spinto il comandante Cocchia, "dal carattere militarmente duro e ostinato nel seguire rigidamente le proprie consegne", a ritenere che Supermarina giudicasse il suo convoglio come meno minacciato ed a proseguire dunque per la sua rotta, pur chiedendo ordini che non erano però arrivati in tempo. Lo sparpagliamento del convoglio al momento dell'attacco della Forza Q, causato dalla collisione tra Aspromonte e Puccini, aveva fatto sì che sulle prime Cocchia non avesse potuto rendersi conto di dove fossero esattamente le navi britanniche; dopo aver ordinato alle unità della scorta di andare all'attacco e di coprire i mercantili con cortine nebbiogene, in una situazione confusa anche dai bengala e proiettili illuminanti, il Da Recco si era diretto “non nella direzione “presunta” del nemico, ma nella direzione “esatta” delle vampate dei cannoni nemici”, senza però riuscire ad avvistare la Forza Q nella sua corsa verso ovest. Aveva allora deciso di accostare verso est per prendere l'avversario alle spalle mentre era impegnato a fare fuoco sui mercantili, regolandosi dirigendo verso i bagliori di alcuni incendi in lontananza. Alle 00.33 aveva avvistato le sagome di tre navi che sembravano intente a sparare nella direzione opposta alla sua, e si era diretto verso di esse per attaccarle; prima di poter lanciare, tuttavia, era stato investito dal loro tiro venendo subito messo fuori combattimento. Secondo Gasparri Cocchia aveva "mostrato poco spirito d'iniziativa nella fase pretattica e forse poca prontezza nei primi momenti dello scontro", ma la sua successiva, sebbene sfortunata, manovra d'attacco contro la Forza Q era stata encomiabile, ed il comandante del Da Recco aveva pienamente meritato la Medaglia d'Oro al Valor Militare.
Il 17 marzo 1943 una lettera di Supermarina a Maristat offriva la seguente valutazione dell'operato della Forza Q nella battaglia notturna: "Da quanto si è potuto rilevare il nemico ha fatto un esteso ma in generale rapido e fugace impiego dei suoi proiettori. Se ne potrebbe dedurre che li ha impiegati solo come mezzo di riconoscimento delle unità che scopriva con i suoi mezzi ottici o elettro-magnetici. Non si è notato infatti che abbia fatto uso di se- gnali di riconoscimento o di mischia, mentre per il proprio tiro si è valso in genere dell'ausilio dei proiettori illuminanti e dei bengala aerei. Questo impiego dei proiettori come mezzo di rapido riconoscimento delle unità avvistate in mare, specie in situazioni confuse, sembra meritevole di esame. Il proiettore infatti presenta sui segnali di riconoscimento e di mischia da noi previsti i vantaggi di permettere un più rapido e sicuro riconoscimento e di ostacolare all'Unità avvistata l'impiego delle sue armi, conservando quindi a sé la priorità nell'offesa. Presenta in contrapposto lo svantaggio di essere visibile a grandissima distanza ma in caso di abbondanza di luci e di artifizi che rendono palese in ampia zona il luogo degli incontri stessi. Una volta di più si è rivelata la superiorità tecnica ed addestrativa nemica negli scontri notturni. Il tiro nemico è sempre apparso rapido, preciso, concentrato ed ha in brevissimo tempo determinato effetti iniziali alle nostre Unità. Efficace è sempre stato il suo tiro illuminante. A distanze ravvicinate, il nemico ha fatto uso delle proprie mitragliere con effetti materiali e morali che non debbono essere stati lievi. Contro l'Aventino e il Puccini sembra anche aver fatto efficace impiego dei siluri. Non altrettanto efficace appare l'impiego delle nostre armi".
L'efficiente ricognizione svolta dagli aerei di base a Malta aveva permesso alla Forza Q di rintracciare agevolmente il convoglio, anche con l'aiuto del radar, sebbene lo stesso Harcourt si fosse lamentato circa la scarsa efficienza di tale strumento: "È stato deludente che il radar tipo 271 non rilevasse il convoglio ad una distanza maggiore di 6 mi- glia, ma a causa dei piovaschi lo schermo forniva dati confusi". Una volta avvistato il convoglio la Forza Q aveva manovrato in modo da avvolgerne la testa da ovest verso est, aprendo il fuoco da ridotta distanza e con grande precisione, affondando od immobilizzando rapidamente tre mercantili su quattro ed affondando poi anche il quarto (l'Aspromonte) che inizialmente era riuscito ad allontanarsi.
Venne rilevato che le navi britanniche avevano impiegato efficacemente contro le quelle italiane le loro mitragliere quadrinate “pom-pom” da 40 mm, mentre le mitragliere da 20 mm di cui erano dotate le unità italiane erano risultate di ben poca utilità nella mischia. Altra peculiarità delle navi britanniche era quella di utilizzare proiettili aventi codette luminose di colore diverso (rosso, verde, giallo, azzurrognolo) per ogni nave, il che permetteva di capire se più navi stavano sparando contro uno stesso bersaglio; ed il mantenimento della linea di fila durante tutta l'azione aveva permesso ai britannici di non accendere i fanali di mischia, che avrebbero agevolato la loro individuazione da parte delle navi italiane. In generale l'andamento disastroso dello scontro della notte del 2 dicembre riconfermava le gravi lacune della Marina italiana nel combattimento notturno: ancora mancavano efficienti radar (il "Gufo", primo radar di fabbricazione italiana, era di prestazioni piuttosto modeste, e solo poche navi erano dotate di radar di questo tipo o di fabbricazione tedesca), strumenti ottici a grande luce notturna, e persino un numero adeguante di binocoli di buona qualità da distribuire alle vedette.
Luglio-Settembre 1943
Tornato finalmente in servizio in luglio, dopo sette mesi di lavori, il Da Recco viene impiegato in esercitazioni a Taranto e nella scorta di unità impegnate nella posa di campi minati in Mar Ionio.
Agosto 1943
Riceve un radar EC.3 ter "Gufo". (Per altra fonte, il radar sarebbe stato installato nel giugno 1943, al termine dei lavori di riparazione effettuati a Taranto in seguito allo scontro del 2 dicembre 1942). Successivamente tale radar sarebbe stato sbarcato perché il suo peso provocava problemi di stabilità.
15 agosto 1943
Il Da Recco diventa caposquadriglia della XV Squadriglia Cacciatorpediniere, avente base a Taranto e formata dal gemello Pigafetta, dal ben più moderno Granatiere e dai cacciatorpediniere ex francesi FR 23 e FR 31. Il Da Recco ed i due FR sono gli unici cacciatorpediniere operativi in Mar Ionio; Pigafetta e Granatiere si trovano ai lavori, il primo a Fiume ed il secondo a Taranto.
(Nella prima metà dell'anno, mentre si trovava ai lavori, il Da Recco era stato rimasto inquadrato nella XVI Squadriglia Cacciatorpediniere che nel gennaio 1943 comprendeva Da Recco, Vivaldi, Malocello e Premuda, ed in aprile Da Recco, Zeno e Da Noli, inquadrata nel Gruppo Cacciatorpediniere di Squadra).
21 agosto 1943
Il Da Recco, insieme all'FR 23 (sono gli unici due cacciatorpediniere in condizioni di efficienza presenti a Taranto, e comunque definiti “appena efficienti” dagli storici Erminio Bagnasco ed Augusto De Toro), agli incrociatori leggeri Luigi Cadorna, Scipione Africano e Pompeo Magno del Gruppo incrociatori leggeri ed alle corazzate Duilio e Doria della V Divisione Navale, partecipa ad un'esercitazione di navigazione in formazione in mare aperto.
Si tratta della prima uscita in mare di Duilio e Doria dalla fine dell'anno precedente, quando sono state poste in ridotta disponibilità a Taranto con equipaggi ridotti per via della critica situazione della nafta, della carenza di personale per armare le siluranti e della superiorità aerea Alleata che rende sempre più difficile l'impiego delle navi maggiori: la decisione di riattivare le due corazzate è stata presa in giugno, in seguito alla conquista britannica di Pantelleria e delle Pelagie, preludio all'invasione della Sicilia.
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Il Da Recco nel 1943, visibile il radar “Gufo” (dalla pagina Facebook “Cacciatorpediniere classe Navigatori”) |
26 agosto 1943
Il Da Recco scorta la Duilio in altre due uscite in mare per esercitazione, una durante la giornata ed una durante la notte tra il 26 ed il 27 agosto.
27 agosto 1943
Il Da Recco scorta la Doria durante due uscite in mare per esercitazione, nel pomeriggio e nella sera.
8 settembre 1943
Il Da Recco (capitano di vascello Rodolfo Del Minio) si trova a Taranto quando viene data la notizia della firma dell'armistizio tra l'Italia e gli Alleati.
A Taranto, oltre al Da Recco, si trovano i cacciatorpediniere Granatiere (ai lavori), FR 23 e FR 31, alcune torpediniere, la V Divisione dell'ammiraglio Alberto Da Zara, con le corazzate Duilio (nave ammiraglia) ed Andrea Doria, ed il Gruppo incrociatori leggeri del contrammiraglio Giovanni Galati, con l'attempato Luigi Cadorna ed i nuovissimi Pompeo Magno e Scipione Africano. Gli equipaggi delle navi, dopo l'annuncio dell'armistizio, rimangono «muti e disciplinati, fiduciosi nelle decisioni che avrebbero preso i loro comandanti».
9 settembre 1943
In mattinata l'ammiraglio Da Zara convoca i comandanti delle unità dipendenti per discutere il da farsi; l'opinione prevalente è quella di autoaffondare le navi, ma mentre la riunione è in corso, alle 9.20 (6.42 per altra fonte), arriva via radio da Supermarina l'ordine di partire per Malta. Dopo aver chiesto il parere del comandante in capo del Dipartimento Militare Marittimo dello Ionio e del comandante militare marittimo di Taranto, ammiragli Bruto Brivonesi e Giuseppe Fioravanzo, Da Zara decide di obbedire, confortato dalla precisazione, nel messaggio che ordina di andare a Malta, che le clausole armistiziali escludono comunque la cessione delle navi e l'abbassamento della bandiera. Rimane invece contrario alla partenza il contrammiraglio Galati, che viene sbarcato e messo agli arresti.
Il Da Recco, che non fa parte organicamente delle forze navali alle dipendenze di Da Zara, vi viene aggregato in vista della partenza per Malta; nelle intenzioni dell'ammiraglio questa dovrebbe avvenire alle 17, per lasciare ai comandanti subordinati il tempo necessario a spiegare agli equipaggi la nuova situazione, ma quando Marina Taranto lo informa che una squadra navale Alleata è in arrivo a Taranto con un convoglio di truppe da sbarco (la Forza Z, incaricata dell'operazione "Slapstick", l'occupazione di Taranto), Da Zara decide di affrettare la partenza.
Le prime navi italiane iniziano a lasciare le boe in Mar Grande alle 16.18, ed alle 17 sono tutte fuori dall'ancoraggio (compongono la formazione Da Recco, Duilio, Doria, Cadorna e Pompeo Magno, mentre lo Scipione Africano ha ricevuto ordine di andare a Pescara, dove assumerà la scorta della corvetta Baionetta, avente a bordo la famiglia reale fuggita da Roma, e le altre siluranti rimangono a Taranto per vari motivi: l'FR 23 per ragioni di opportunità politica, in quanto si ritiene a ragione che la Francia Libera ne pretenderebbe l'immediata restituzione); accostano quindi verso nordovest per imboccare le rotte di sicurezza costiere del lato di Metaponto e della Calabria ed uscire dal Golfo di Taranto.
La Forza Z, proveniente dal lato pugliese del Golfo, è visibile verso sud: ne fanno parte gli incrociatori leggeri britannici Aurora (commodoro William Gladstone Agnew), Penelope, Sirius e Dido, l'incrociatore leggero statunitense Boise ed il posamine veloce britannico Welshman, partiti da Biserta alle 15.45 dell'8 settembre con truppe (della 1a Divisione Aviotrasportata britannica), rifornimenti e veicoli da sbarcare a Taranto, e la Forza Z del viceammiraglio Arthur John Power, congiuntasi ad essi in mare aperto alle 6.30 del 9 dopo essere partita da Malta alle 22 dell'8 con le corazzate britanniche Howe (nave ammiraglia di Power) e King George V ed i cacciatorpediniere Jervis, Wishart, Panther, Paladin, Pathfinder e Penn. Alle 13.15 si sono uniti alla squadra anche i cacciatorpediniere di scorta Aldenham, Croome, Hurworth e Kanaris (quest'ultimo greco) partiti anch'essi da Malta con a bordo personale incaricato di occuparsi delle operazioni portuali una volta arrivati a Taranto.
In seguito all'avvistamento delle navi italiane, la King George V (capitano di vascello Thomas Edgard Halsey) con i cacciatorpediniere Panther, Pathfinder e Penn si separa dal resto del gruppo per scortare a Malta le navi di Da Zara.
Alle 18.56 quattro cacciabombardieri tedeschi attaccano in picchiata la Duilio al largo della costa orientale della Calabria, ma grazie alla sua pronta accostata a sinistra le bombe cadono in mare senza fare danni, dopo di che gli aerei si allontanano indenni verso la Calabria, vanamente inseguiti dal tiro contraereo di tutte le navi. Alcune bombe cadono in mare a 70-80 metri dal Da Recco.
Le navi di Da Zara seguono le rotte costiere fino a sera, poi dirigono su Malta. Le segue a distanza la King George V con Panther, Pathfinder e Penn, cui successivamente si uniscono i dragamine di squadra Hazard, Hebe e Sharpshooter ed il dragamine costiero BYMS 2012, anch'essi partiti da Malta.
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Il Da Recco in navigazione verso Malta (dalla pagina Facebook “Cacciatorpediniere classe Navigatori” |
10 settembre 1943
Alle 6.45 viene avvistato in ricognitore britannico, che inizia a seguire a distanza le navi italiane, ed alle 9.30 viene avvistato a nordest di Capo Passero il cacciatorpediniere britannico Hursley, incaricato di guidare gli ex nemici lungo la rotta di sicurezza per Malta, che dopo aver effettuato il segnale di riconoscimento si posiziona di prua alle navi di Da Zara. Verso le undici, a sud di Capo Passero, la King George V con i relativi cacciatorpediniere si unisce alla formazione, ed a mezzogiorno sopraggiungono otto aerei da caccia britannici, che sorvolano la formazione italiana per un po'.
Alle 16.25 otto motosiluranti britanniche prendono posizione sui fianchi della formazione, ed alle 16.55 il cacciatorpediniere britannico viene sostituito da un'unità di pilotaggio: Malta, ormai, è in vista. La scorta delle navi italiane viene rinforzata dalle corvette Bergamot, Pentstemon e Vetch e dal piropeschereccio armato antisommergibili Beryl.
La formazione si dirige verso un punto a sudest di Malta, dove imbocca il canale dragato che segue la costa sudorientale dell'isola e porta alla Valletta; giunte davanti a La Valletta, le navi italiane fermano le macchine. Il capitano di fregata Maurice James Ross della Royal Navy, accompagnato da tre ufficiali ed alcuni marinai armati, sale sulla Duilio, dopo di che le navi rimettono in moto, superano La Valletta con rotta verso nordovest ed entrano nella baia di Madliena, dove danno fondo alle 19.15 (17.50 per altra fonte), disponendosi in linea di fronte tra Madliena Tower (dove getta l'ancora il Da Recco, più sottocosta e più vicino all'omonima torre rispetto alle altre navi) e lo scoglio di Qawra, formando una linea orientata approssimativamente da nordovest a sudest parallelamente alla costa: da nord (Qawra) verso sud (Madliena Tower) ci sono Duilio, Doria, Cadorna, Pompeo Magno e Da Recco.
Il capitano di fregata Ross porta una lettera in italiano a firma del capo di Stato Maggiore dell'ammiraglio Arthur Power, comandante della base di Malta, capitano di vascello Edwards; in essa si annuncia che Ross è stato nominato ufficiale di guardia sulla Duilio e che le navi italiane dovranno subire l'asportazione degli otturatori dei cannoni (tranne quelli contraerei) e l'inutilizzazione degli apparati radio e degli aerei imbarcati, e prendere a bordo militari britannici incaricati della sorveglianza. Per i rifornimenti di viveri e nafta, Da Zara dovrà rivolgersi a Ross, che inoltrerà le sue richieste.
Drappelli di marinai britannici armati salgono a bordo delle navi italiane non appena queste hanno finito di ormeggiarsi, provvedendo a dare esecuzione agli ordini di Edwards: vengono rimosse le valvole degli apparati radio, gli acciarini dei siluri e gli otturatori di tutte le artiglierie non contraeree. Gli ufficiali italiani protestano dichiarando tale comportamento come in contrasto con le condizioni dell'armistizio, ma la risposta è “Noi stiamo solo obbedendo a degli ordini”; più di qualcuno vorrebbe reagire autoaffondando le navi, ma l'ammiraglio Da Zara riesce a calmare gli animi e decide di prendere tempo per meglio valutare l'evolversi degli eventi.
Il Da Recco e le altre navi del gruppo di Da Zara sono le prime navi italiane ad arrivare a Malta dopo l'armistizio; nei giorni successivi vi affluirà progressivamente la quasi totalità della flotta italiana, a partire dalla squadra da battaglia partita da La Spezia e Genova, che arriverà nell'isola il mattino dell'11 settembre, dopo aver subito due giorni prima la tragica perdita della corazzata Roma, nave ammiraglia, affondata da aerei tedeschi al largo delle Bocche di Bonifacio.
Nel pomeriggio dello stesso giorno l'ammiraglio Da Zara, in qualità di ufficiale italiano più alto in grado, viene convocato dal comandante della Mediterranean Fleet, ammiraglio Andrew Browne Cunningham, frattanto giunto a Malta. Questi esprime apprezzamento per la leale esecuzione delle clausole armistiziali e rincrescimento per la perdita della Roma; quindi chiede a Da Zara se conosca le clausole dell'armistizio e, ricevuta risposta negativa, gli offre il documento in italiano perché lo legga. Indi spiega che darà quanto prima ordine di ritirare i marinai britannici di guardia dalle navi italiane, mentre il disarmo delle navi, da effettuare sotto la responsabilità dei comandi di bordo, dovrà avvenire con lo sbarco di toppe, acciarini, inneschi e cariche di distruzione nelle località di dislocazione delle navi; saranno reimbarcate in caso di trasferimento. Un ufficiale britannico potrà di quando in quando recarsi a bordo per una visita di controllo. Infine, annuncia che l'indomani pomeriggio le corazzate della IX Divisione (Italia e Vittorio Veneto, arrivate con il gruppo di La Spezia), quattro incrociatori e sei cacciatorpediniere italiani dovranno trasferirsi ad Alessandria d'Egitto, al fine di decongestionare il porto di Malta (ormai sovraffollato da unità italiane di ogni tipo e dimensione qui affluite nei giorni successivi all'armistizio, in gran parte concentrate in ancoraggi esposti e privi di adeguate difese antiaeree ed antisommergibili, pur avendo i britannici rinforzato le prime con il trasferimento di alcuni cannoni mobili Bofors da 40 mm, ed inviato alcune unità leggere a compiere pattugliamenti antisom nelle acque a nordovest di Malta: permane il rischio di attacchi tedeschi); navigheranno insieme alla squadra dell'ammiraglio Arthur William La Touche Bisset, comandante la 3a Divisione del 1st Battle Squadron. Non vi saranno ufficiali britannici sulle navi italiane, salvo un ufficiale di collegamento che prenderà imbarco sull'incrociatore Eugenio di Savoia.
Successivamente la partenza viene rinviata al 14 settembre. Il Da Recco viene aggregato al gruppo che dovrà andare ad Alessandria.
Il Da Recco in navigazione a Malta il 10 settembre 1943: ben visibile il radar “Gufo” (Coll. Erminio Bagnasco)
12 settembre 1943
Tra il tardo pomeriggio e la sera il Da Recco si rifornisce di carburante alla Valletta in vista della partenza per l'Egitto, dopo di che si porta a Marsa Scirocco; fanno lo stesso, a turno, gli altri cacciatorpediniere destinati a partire per Alessandria: Artigliere, Grecale, Legionario (che non deve andare ad Alessandria bensì ad Algeri, dove dovrà imbarcare delle truppe statunitensi da portare in Corsica) e per ultimo il Velite, che conclude a notte inoltrata.
13 settembre 1943
Le navi in procinto di partire per l'Egitto sbarcano alcuni feriti e malati che vengono ricoverati sulla nave soccorso italiana Laurana, internata a Malta fin dal maggio precedente, quando è stata catturata da cacciatorpediniere britannici nelle acque della Tunisia.
14 settembre 1943
Alle 8.30 il Da Recco lascia Malta insieme ai cacciatorpediniere Artigliere, Grecale e Velite, alle corazzate Vittorio Veneto ed Italia (nave di bandiera dell'ammiraglio Enrico Accorretti, comandante della IX Divisione) ed agli incrociatori leggeri Luigi Cadorna, Raimondo Montecuccoli, Eugenio di Savoia (nave di bandiera dell'ammiraglio Romeo Oliva, comandante della VII Divisione cui è stato aggregato anche il Cadorna, e dell'intera formazione in quanto più anziano di Accorretti) ed Emanuele Filiberto Duca d'Aosta, per trasferirsi ad Alessandria d'Egitto.
Le navi italiane sono scortate dalla Forza Z britannica, composta dalle corazzate Howe (nave di bandiera dell'ammiraglio Bisset) e King George V, da sei cacciatorpediniere della 8th Destroyer Flotilla (i britannici Fury, Faulknor, Echo ed Intrepid ed il greco Vasilissa Olga) e da numerosi aerei.
(Il 14 settembre 1943 il secondo capo cannoniere del Da Recco Luigi Scialdone, di 25 anni, da Napoli, muore in territorio metropolitano, cioè in Italia, in circostanze che non è stato possibile accertare. Un altro membro dell'equipaggio, il ventenne sottocapo meccanico Giuseppe Leuci, da Lecce, risulterebbe essere morto in prigionia a Stettino il 30 agosto 1944, per bombardamento aereo. Probabilmente entrambi si trovavano in licenza all'epoca dell'armistizio e rimasero l'uno ucciso e l'altro catturato negli scontri che portarono all'occupazione tedesca dell'Italia).
16 settembre 1943
Il Da Recco e le altre navi giungono ad Alessandria alle otto del mattino e danno fondo nella rada esterna (Mex Anchorage), dove rimarranno per un mese; corazzate ed incrociatori si ancorano nella rada di Mex, i cacciatorpediniere ad El Kot. L'ammiraglio John Cunningham, comandante in capo della Levant Station e cugino del comandante della Mediterranean Fleet, si reca incontro alle navi italiane a bordo del dragamine d'altura Derby.
Subito dopo l'arrivo l'ammiraglio Oliva, comandante della formazione, viene convocato a bordo della Howe dall'ammiraglio John Cunningham, che alla presenza di altri ammiragli (tra cui il contrammiraglio Allan Poland, comandante della base di Alessandria) gli comunica le disposizioni per il disarmo delle navi italiane giunte ad Alessandria, decise dai governi Alleati. Sono disposizioni molto più severe di quelle in vigore per le navi rimaste a Malta: esse comprendono, tra l'altro, lo sbarco di tutte le munizioni ad eccezione di quelle delle mitragliere contraeree (durante la permanenza ad Alessandria, anzi, le navi italiane entreranno in porto, a turno e per il tempo strettamente necessario, soltanto per compiere questa operazione), la rimozione di otturatori e strumenti di punteria, l'imbarco su ogni nave di una nutrita guardia armata britannica (quelle destinate alle corazzate ed agli incrociatori sono costituite da personale prelevato dagli equipaggi della King George V e della Howe, quelle da imbarcare sui cacciatorpediniere da personale dell'arsenale di Alessandria), ed il divieto assoluto di comunicazione tra una nave e l'altra. Dopo aver protestato verbalmente, l'indomani l'ammiraglio Oliva invierà a (John) Cunningham anche una protesta scritta; inutilmente.
Le navi italiane passano ad Alessandria esattamente un mese, pesante soprattutto sul piano morale: sia per la totale inattività e le citate restrizioni imposte dai britannici, che per il divieto assoluto di scendere a terra e per il clima caldo ed umido, unito al mare quasi sempre agitato che impedisce anche, salvo che in poche sporadiche occasioni, di permettere ai marinai di fare un bagno attorno alle navi. Anche i rifornimenti, specialmente quelli di acqua, sono difficoltosi. Particolarmente fastidiosa è la stretta sorveglianza cui sono sottoposte le navi all'ancora, con motovedette in pattugliamento «che col loro contegno rude e inflessibile di fronte ad ogni più piccola irregolarità (ritardo fortuito di qualche imbarcazione nel tornare a bordo, occasionale ritardo nell'alzare tutte le imbarcazioni al tramonto, qualche luce visibile dall'esterno durante la notte, ecc.) davano agli equipaggi la sensazione di essere ingiustamente trattati da prigionieri».
Per cercare di risollevare il morale degli equipaggi e tenere gli uomini occupati, oltre alle esercitazioni di bordo vengono organizzate regate, scuole professionali, lezioni di italiano e di inglese, gare interne di posto di lavaggio e di pulizia, gare di nuoto (quando le condizioni del mare lo consentono), proiezioni cinematografiche, concerti da parte di improvvisate orchestrine, spettacoli di varietà e financo rappresentazioni di commedie scritte da qualche ufficiale o sottufficiale. Per mantenere il contatto diretto tra i comandanti e la truppa, l'ammiraglio Oliva compie frequenti visite sui cacciatorpediniere e sugli incrociatori della VII Divisione, mentre Accorretti fa lo stesso sulle navi della IX Divisione, occasioni sfruttate anche per parlare con gli equipaggi; su disposizione di Oliva, i comandanti invitano gli ufficiali a stare frequentemente in mezzo ai loro uomini. Nel complesso, queste misure sembrano avere efficacia, riducendo al minimo le mancanze disciplinari gravi; su ottomila uomini che compongono gli equipaggi delle navi internate ad Alessandria, si verificano soltanto quattro infrazioni di entità tale da costituire reato (un caso di insubordinazione e tre di tentata diserzione, in cui altrettanti marinai si gettano in mare e raggiungono terra a nuoto, venendo però subito arrestati dalla polizia egiziana).
21 settembre 1943
Il Da Recco e la Vittorio Veneto si ormeggiano temporaneamente all'interno del porto di Alessandria per agevolare lo sbarco delle munizioni. Ricevono poi provviste per un mese.
5 ottobre 1943
L'ammiraglio Oliva riceve un telegramma dell'ammiraglio De Courten risalente al 1° ottobre, con qui questi comunica che a breve gli incrociatori ed i cacciatorpediniere potranno rientrare a Taranto, mentre le corazzate della IX Divisione dovranno restare ad Alessandria. Dopo aver informato i sottoposti di questa notizia, Oliva incontra l'ammiraglio Allan Poland, comandante della base di Alessandria, per concordare le modalità di rimpatrio di incrociatori e cacciatorpediniere; nei giorni successivi si procede al reimbarco delle munizioni ed alla rimessa a posto degli otturatori e degli strumenti di punteria.
16 ottobre 1943
Dopo un mese di internamento nella base egiziana, il Da Recco, gli altri cacciatorpediniere e gli incrociatori della VII Divisione lasciano finalmente Alessandria per fare ritorno in Italia.
La decisione di rimpatriare le navi italiane è stata presa in seguito alla dichiarazione di Guerra del governo Badoglio alla Germania, avvenuta il 13 ottobre, che ha reso l'Italia un Paese cobelligerante con gli Alleati; i comandi britannici ritengono perciò che sia “desiderabile che le navi italiane siano in una base dalla quale possono operare”. Inoltre la rada di Mex è troppo esposta, ed il porto di Alessandria troppo affollato, perché le navi italiane vi rimangano durante l'inverno.
Prima della partenza 880 uomini sono prelevati da ciascuna delle due corazzate e trasferiti sugli incrociatori e sui cacciatorpediniere per mezzo dei traghetti turchi Tuzla e Darica; l'operazione viene ultimata alle 15, dopo di che le navi iniziano a muovere. Italia e Vittorio Veneto, con a bordo personale sufficiente a navigare a 20 nodi, escono dal Grand Pass alle 18.15 e fanno rotta per Port Said, scortate dai cacciatorpediniere Wilton, Lamerton, Themistocles e Kanaris (i primi due britannici, gli ultimi due greci): non torneranno in Italia, ma saranno invece internate ai Laghi Amari, dove rimarranno fino alla fine della guerra.
Montecuccoli, Cadorna, Duca d'Aosta ed Eugenio di Savoia lasciano Alessandria (l'ultimo degli incrociatori esce in mare alle 16) scortati da Da Recco, Artigliere, Grecale e Velite, diretti a Taranto. Su ciascuna nave italiana si trova un ufficiale di collegamento britannico con relativa squadra per le comunicazioni, oltre al personale in eccesso sbarcato da Italia e Vittorio Veneto dirette verso l'internamento.
Novembre 1943
Il Da Recco ed il Grecale scortano da Taranto ad Alessandria (dove giungono il 22 novembre) la nave cisterna Dafila e la nave appoggio (ex incrociatore ausiliario) Lazzaro Mocenigo, quest'ultima diretta ad Haifa per fungere da nave appoggio per i sommergibili italiani colà dislocati. La Mocenigo ha a rimorchio un bersaglio galleggiante da usare per esercitazioni in Palestina, ma tra Malta e Bengasi il cavo di rimorchio si spezza ed il bersaglio rimane alla deriva, diventando un pericolo per la navigazione.
30 novembre 1943
Da Recco e Grecale salpano da Haifa alle 15 scortando la Mocenigo, avente a rimorchio il sommergibile Marcantonio Bragadin (tenente di vascello Augusto Marraccini), immobilizzato da un'avaria ai motori e diretto in Italia per esservi posto in disarmo.
2 dicembre 1943
Il piccolo convoglio arriva ad Alessandria alle 15.20.
6 dicembre 1943
Da Recco, Grecale, Mocenigo con a rimorchio il Bragadin più un altro sommergibile, il Filippo Corridoni, lasciano Alessandria alle 9 diretti a Taranto.
8 dicembre 1943
In seguito alla rottura del cavo di rimorchio, il convoglio viene dirottato a Tobruk, dove arriva alle 11.40 (o 15.30).
Dicembre 1943
Il capitano di vascello Del Minio lascia il comando del Da Recco.
Fine 1943-Inizio 1944
Il Da Recco svolge attività di scorta a convogli Alleati e trasporto di personale e materiali ai Laghi Amari, dove sono internate le corazzate Italia e Vittorio Veneto.
Il Da Recco, insieme ad altre unità, in due foto a colori scattate probabilmente durante la cobelligeranza (Coll. Anthony Simeone, via pagina Facebook “Cacciatorpediniere classe Navigatori”)
5 febbraio-26 ottobre 1944
Sottoposto ad un periodo di grandi lavori in Arsenale a Taranto.
31 luglio 1944
Il capo nocchiere di prima classe del Da Recco Raffaele De Costanzo, 43 anni, da Napoli, muore in territorio metropolitano.
4 agosto 1944
Il marinaio nocchiere del Da Recco Luigi Costa, 21 anni, da Palermo, muore in territorio metropolitano.
Novembre 1944-Maggio 1945
Nuovamente adibito al collegamento con le corazzate internate ai Laghi Amari (trasportando personale e materiali), facendo base a Taranto, fino alla fine della guerra.
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Il Nicoloso Da Recco alla Valletta il 2 novembre 1945, con la colorazione in uso durante la cobelligeranza e nell’immediato dopoguerra (dalla pagina Facebook “Cacciatorpediniere classe Navigatori”) |
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Il Da Recco nel 1946 (Coll. Luigi Accorsi, via www.associazione-venus.it) |
25 settembre 1945-7 febbraio 1946
Impiegato nel trasporto rapido di personale e materiali, dapprima tra Taranto e Napoli e successivamente tra Catania e Malta, per ovviare alla disastrosa situazione dei collegamenti via terra nell'immediato dopoguerra, causata dalle distruzioni belliche, ed al quasi totale annientamento della flotta mercantile.
Al termine di questo periodo, nel 1946, fa ritorno a Taranto, dove viene ormeggiato alla banchina torpediniere; ormai anziano e logorato dall'intensissimo servizio bellico, non rivedrà più il mare aperto.
Il Da Recco, a destra, ormeggiato a Taranto nel 1946-1947 insieme ai più moderni cacciatorpediniere Carabiniere, Mitragliere ed Artigliere (da sinistra a destra) (sopra: da pagina Facebook “Cacciatorpediniere classe Navigatori”; sotto: g.c. Stefano Cioglia, via www.naviearmatori.net)
Il Da Recco (primo a sinistra) ormeggiato alla banchina torpediniere di Taranto nell’inverno 1946-1947, insieme a (da sinistra a destra) la torpediniera Calliope, i cacciatorpediniere Artigliere, Oriani, Carabiniere e Legionario e la torpediniera di scorta Aliseo (da www.naviearmatori.net) |
1947
Nel trattato di pace tra l'Italia e gli Alleati stipulato a Parigi il 10 febbraio, il Da Recco viene incluso nell'"Elenco delle navi che l'Italia potrà conservare" (Allegato XII): è così uno dei soli cinque cacciatorpediniere (gli altri sono Grecale, Granatiere, Carabiniere ed Augusto Riboty, quest'ultimo assegnato all'Unione Sovietica ma rifiutato perché troppo vecchio ed usurato) lasciati all'Italia dal trattato di pace. Altri sei (Fuciliere, Mitragliere, Velite, Legionario, Camicia Nera, Alfredo Oriani) devono essere invece ceduti a Francia ed Unione Sovietica; queste undici unità sono tutto ciò che rimane dei 71 cacciatorpediniere che la Regia Marina ha avuto in servizio durante il conflitto.
In mediocri condizioni, il Da Recco verrà ben presto posto in disarmo.
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Particolare del Da Recco a Taranto nel 1947 (dalla pagina Facebook “Cacciatorpediniere classe Navigatori”) |
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Ormeggiato alla banchina torpediniere di Taranto, con dietro Artigliere, Mitragliere e Carabiniere, in una foto del 20 agosto 1947 (dalla pagina Facebook “Cacciatorpediniere classe Navigatori”) |
1° marzo 1948-30 novembre 1950
È sede del Comando Dragaggio.
1° gennaio 1951
Diventa nave ammiraglia della I Divisione Navale (Siluranti), sempre con sede a Taranto, fino ad agosto.
Il Da Recco ormeggiato alla banchina torpediniere di Taranto il 1o agosto 1951, tra la torpediniera Calliope e la cannoniera Illiria (g.c. Giorgio Parodi e Stefano Cioglia, via www.naviearmatori.net)
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Il Da Recco nel 1953 (dalla pagina Facebook “Cacciatorpediniere classe Navigatori”) |
15 luglio 1954
Posto in disarmo in attesa di radiazione.
30 luglio 1954
Radiato dai ruoli del naviglio militare con decreto del presidente della Repubblica. (Altra fonte data la radiazione stessa al 15 luglio, oppure al 30 giugno).
Scartato un piano per farne una nave museo, l'ultimo dei Navigatori viene successivamente avviato alla demolizione.
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In disarmo a Taranto nel dopoguerra (da “Convogli” di Aldo Cocchia) |
La ruota del timone del Da Recco è oggi conservata alla Mostra Storica dell'Arsenale di Taranto; la bandiera di combattimento è conservata al Sacrario delle Bandiere al Vittoriano, a Roma.
Il R. Cacciatorpediniere Nicoloso Da Recco
2 dicembre 1942: invito al ricordo
1o dicembre 1942, il regio cacciatorpediniere Da Recco
La battaglia del banco di Skerki sul World Naval Ships Forums
I cacciatorpediniere classe Navigatori su Regia Marina Italiana
Pagina Facebook dedicata ai cacciatorpediniere classe Navigatori
Album fotografico di immagini del Da Recco
Alfredo Zambrini sul sito della Marina Militare
Aldo Cocchia sul sito della Marina Militare
Un grande personaggio empedoclino: Giuseppe Sciangula
Il convoglio H sul sito dell'ANMI di Carrara
Decorazioni di Massimo Messina, imbarcato sul Da Recco
Il marinaio Giuseppe Pianezzola, morto sul Da Recco
Spoils of War: The Fate of Enemy Fleets after the Two World Wars
L'episodio del 21 giugno 1942 sul forum RAF Commands
The Last Torpedo Flyers: The True Story of Arthur Aldridge, Hero of the Skies
Notizia su “La Stampa” del 7 settembre 1931
Filmato dell'Istituto Luce che mostra il Da Recco alle prove di velocità