Piroscafo da carico
di 1879,94 tsl, 1079,47 tsn e 3000 tpl, lungo 78,30 metri, largo 13,31 e
pescante 5,55, con velocità di dieci nodi. Di proprietà della Società Anonima "Ilva"
Alti Forni e Acciaierie d’Italia, con sede a Genova, ed iscritto con matricola
1584 al Compartimento Marittimo di Genova; nominativo di chiamata IBJJ.
Aveva due stive, della capacità complessiva di 4200 metri cubi.
Breve e parziale cronologia.
9 ottobre 1918
Completato dai cantieri Collingwood Shipbuilding Company Ltd. di Collingwood (Ontario, Canada) come War Witch (numero di costruzione 52) per lo Shipping Controller di Londra (autorità governativa britannica incaricata dell’organizzazione e gestione del naviglio mercantile requisito per le esigenze belliche).
Ordinato dall’Imperial Munitions Board ai cantieri Collingwood il 21 aprile 1917 insieme al gemello War Wizard, il War Witch fa parte di un lotto di navi da carico (43 con scafo in acciaio e 46 in legno) costruite in cantieri canadesi per rimpinguare la flotta mercantile britannica, falcidiata dalle perdite belliche (specie gli affondamenti ad opera degli U-Boote: nel novembre 1916 il Board of Trade aveva fatto presente che la Marina mercantile si trovava in “deficit” di ben 400 piroscafi di 4000 tsl ciascuno, e che nel giro di pochi mesi sarebbe andata incontro al collasso totale; nella primavera del 1917 il Regno Unito rischiò seriamente una crisi alimentare a causa della scarsità di naviglio per l’approvvigionamento di grano); la loro costruzione è stata ordinata dal governo britannico nel marzo 1917, per tramite dell’Imperial Munitions Board. In base al programma stilato da tale ente, una parte dei cantieri canadesi è stata destinata alla costruzione delle navi in acciaio, l’altra a quelle in legno, sotto la supervisione rispettivamente di William Gear e Robert Butchart; sono anche stati realizzati sette nuovi cantieri ed espansi alcuni di quelli esistenti. Inizialmente si era pianificato di costruire dei modelli standardizzati di navi mercantili, come fatto nel Regno Unito al fine di ottimizzare l’efficienza e rapidità delle nuove costruzioni; risultando però impossibile convertire in tempi brevi i cantieri canadesi (l’industria cantieristica canadese è ancora relativamente poco sviluppata) alle costruzioni standardizzate, si è ripiegato su progetti adattati alle capacità di ciascun cantiere. Le dimensioni delle navi costruite nei cantieri dell’Ontario, in particolare (come il War Witch), sono condizionate dalla profondità dei canali che collegano i Grandi Laghi al mare, ragion per cui i cantieri di tale regione sono stati destinati quasi esclusivamente alla costruzione di mercantili di stazza non superiore alle 3500 tsl, mentre le navi più grandi sono state costruite nei cantieri di Vancouver e Montreal.
In gestione alla Furness, Withy & Co. Ltd. di Halifax (od Hartlepool).
Stazza lorda e netta originarie sono rispettivamente 1961 (o 2030) tsl, 1145 tsn e 3035 tpl.
1919
In servizio sulla rotta Halifax-North Sydney, con viaggi settimanali, per conto del Ministry of Shipping britannico.
7 agosto 1919
Intorno all’1.30 della notte il War Witch (capitano William P. Bennett), in navigazione da Wabana a North Sydney, sperona ed affonda a circa trenta miglia dall’isola di Saint-Pierre (a sudest di Terranova; odierna Saint-Piere e Miquelon), in posizione 45°22’ N (o 46°22’ N) e 55°35’ O (nello stretto di Caboto; per altra fonte 40°22’ N e 43°35’ O, altra fonte indica la longitudine come 65°36’ O), a causa della fitta nebbia che ristagna nella zona da diversi giorni, la nave goletta francese Gallia, partita da Saint-Pierre alle cinque del pomeriggio precedente e diretta a Bordeaux con a bordo un carico di 7,575 quintali di merluzzo verde nelle stive e venticinque uomini (altra fonte afferma invece che il veliero fosse in navigazione da Cancale a Saint-Pierre). L’equipaggio della Gallia è composto da nove uomini, al comando del capitano Jean Marie Laurent Leloup, mentre i restanti sedici sono passeggeri, tutti marittimi di altre imbarcazioni di ritorno in Francia: dodici appartengono all’equipaggio del piropeschereccio Saint-André, incagliatosi il precedente 16 luglio al largo di Saint-Pierre, tre a quello del Sainte-Marie ed uno a quello del Carioca.
Nel disastro perdono la vita diciotto uomini: sei membri dell’equipaggio del Gallia, compreso il comandante Leloup, e dodici passeggeri (otto membri dell’equipaggio del Saint-André e tutti e quattro i marittimi delle altre unità). Il War Witch comunica l’accaduto ad Halifax via radio ed incrocia per oltre un’ora nel luogo della collisione, ma non vede più il Gallia dopo l’impatto: lo sfortunato veliero è affondato in pochissimo tempo, mentre il War Witch ha subito danni lievi, con la rottura di sei piastre dello scafo (nella parte prodiera), danni a cinque ordinate e l’allentamento di parecchi rivetti.
Il piroscafo riesce a recuperare sette superstiti, tre membri dell’equipaggio (Alexandre Daoulas, Michel Lecorre e Jacques Criquet) e quattro passeggeri (tutti del Saint-André: il comandante in seconda Henri Castets, il capo meccanico Xavier Lhostis, il secondo meccanico Charles Le Nay ed il marinaio Jules Cavelier), che sbarca a North Sydney, dove giunge nel primo pomeriggio dell’8 agosto (saranno rimpatriati il mese successivo, con il transatlantico La Lorraine). Subito dopo l’arrivo in porto, il War Witch riceve la visita da J. G. L. Cooke, rappresentante della compagnia assicuratrice, e del signor Isner, rappresentante locale della Furness Withy Company. A North Sydney il War Witch viene anche sottoposto alle prime sommarie riparazioni dei danni riportati nella collisione.
Sulla collisione verrà condotta a North Sydney un’inchiesta da parte del "commissario del dominion per i naufragi" (Dominion Wreck Commissioner) capitano L. A. Demers, che il pomeriggio del 12 agosto chiuderà l’indagine e, non essendo potuto giungere a conclusioni, disporrà il ritiro dei certificati di navigazione del comandante Bennett e del secondo ufficiale Christopher Carrol del War Witch, in attesa dell’individuazione di ulteriori elementi probatori. Il comandante Bennett è rappresentato da Hugh Ross, avvocato della Corona a North Sydney; l’equipaggio del Gallia dall’avvocato N. A. McMilan, anch’esso di North Sydney, e gli armatori della goletta affondata dall’avvocato McDonald di Halifax. Quest’ultimo, nel presentare il caso del Gallia alla commissione d’inchiesta, porrà l’accento sull’eccessiva velocità tenuta dal War Witch nonostante la fitta nebbia, e sulla negligenza del capitano Bennett che non avrebbe mantenuto un adeguato servizio di vedetta (destinandovi un solo uomo), oltre a non essere stato lui stesso di guardia in plancia, lasciandovi il secondo ufficiale come capo guardia, mentre le norme vigenti prevedono, per un caso simile, che il comandante rimanga obbligatoriamente in plancia se a capo della guardia è il secondo ufficiale. Il capitano Demers respingerà l’appunto di McDonald relativo all’inadeguato servizio di vedetta, rilevando come le leggi marittime non obblighino a mettere di vedetta più di un membro dell’equipaggio, neanche in condizioni di nebbia fitta.
L’avvocato Ross, da parte sua, farà notare che la responsabilità di osservare le leggi marittime in presenza di nebbia non era maggiore per il War Witch di quanto non lo fosse per il Gallia. Contraddittorie le affermazioni dei due equipaggi sulla sirena da nebbia della Gallia: l’equipaggio del War Witch affermerà di non averla sentita fino al momento della collisione, mentre i superstiti della Gallia affermeranno di aver sentito la sirena della loro nave suonare più di una volta prima del disastro.
L’inchiesta sulla collisione verrà conclusa in settembre; il capitano Demers riterrà il War Witch responsabile dell’accaduto e disporrà la sospensione per un anno dei certificati di navigazione del capitano Bennett e del secondo ufficiale Carroll.
1921
Acquistato dall’armatore Alessandro Zappalà fu Ignazio di Roma e ribattezzato Ignazio (per altra fonte la nave sarebbe stata acquistata da Zappalà già nel 1919 o 1920, ma ribattezzata solo nel 1921).
1927
Acquistato dalla Società di Navigazione Unione Italica, con sede a Roma, e ribattezzato Dina.
1929
Acquistato dalla Società Anonima "Elba" di Miniere & Alti Forni, con sede a Genova (dal 1933 Società Anonima Ilva Alti Forni e Acciaiere d'Italia, sempre con sede a Genova), e ribattezzato Palmaiola. Nominativo di chiamata PBUR, porto di registrazione Genova.
1934
Il nominativo di chiamata viene cambiato in IBJJ.
25 settembre 1942
Requisito a Trieste dalla Regia Marina, senza essere iscritto nel ruolo del naviglio ausiliario dello Stato.
20 novembre 1942
Compie un viaggio da Navarino a Messina, scortato dalla torpediniera Sirio.
L'affondamento
L'ultimo viaggio del Palmaiola ebbe inizio a Trieste, sul
finire del 1942. Destinazione ultima era Tripoli, dalla parte opposta del
Mediterraneo, ma prima di attraversare le mille insidie del Canale di Sicilia
la nave avrebbe compiuto diversi scali lungo tutta la costa orientale della
Penisola: dapprima a Venezia, per caricare materiale bellico; indi a Bari, per
caricare viveri, vestiario militare e benzina in fusti; infine Messina e
Trapani, porto quest’ultimo da cui il Palmaiola
salpò all’1.10 del 2 dicembre 1942.
L'equipaggio, al comando del padrone marittimo Giuseppe Mazzei, contava trenta marittimi civili, in gran parte originari dell’Isola d’Elba, e dodici militari.
La partenza del Palmaiola era stata programmata già da
settimane, in un momento particolarmente critico della guerra dei convogli: ad
inizio novembre l’VIII Armata britannica del generale Montgomery aveva inflitto
ad El Alamein, in Egitto, una decisiva sconfitta all’Armata Corazzata
Italo-Tedesca (ACIT) del feldmaresciallo Rommel, che si trovava adesso in
ritirata verso la Tripolitania, mentre l’operazione “Torch” aveva visto lo
sbarco di oltre centomila soldati angloamericani in Algeria e Marocco, dove le
truppe francesi di Vichy, dopo una breve resistenza, erano passate alla causa
Alleata. L’Italia e la Germania avevano reagito stabilendo una testa di ponte
in Tunisia, mentre la Cirenaica era stata precipitosamente sgombrata; ad inizio
dicembre 1942 erano dunque aperte due rotte di rifornimento via mare, l’una
verso Tripoli – unico porto libico ancora in mano all’Asse – e l’altra verso i
porti tunisini (Tunisi e Biserta, ed in misura minore Susa e Sfax).
Quest’ultima, che doveva trasformarsi in un inferno di lì a poche settimane,
era in quel momento ancora relativamente tranquilla; i britannici avevano
invece concentrato tutte le loro forze contro il traffico sulla rotta per
Tripoli, con l’obiettivo di recidere definitivamente quella sempre più esile
linea che permetteva alle truppe italo-tedesche in Libia di ricevere ancora
rifornimenti. I risultati non tardarono a mostrarsi: su cinque mercantili
partiti per Tripoli tra il 25 novembre ed il 5 dicembre, quattro finirono in
fondo al mare.
Il 25 novembre il feldmaresciallo Albert Kesselring, comandante in capo delle forze tedesche nello scacchiere mediterraneo, aveva inviato al maresciallo d’Italia Ugo Cavallero, capo di Stato Maggiore generale delle forze armate italiane, un documento relativo all’invio di rifornimenti a Tripoli, cui Cavallero rispose facendo presente la necessità di rifornire sia la Tunisia che la Tripolitania e di far assolutamente giungere rifornimenti a Tripoli anche per via diretta (era stato infatti proposto di inviare del materiale da Tunisi a Tripoli per mezzo di motozattere), ed annunciando che erano già in viaggio per Tripoli il Palmaiola ed il piroscafo Carlo Zeno, carichi di carburante, e che erano in corso i preparativi per la partenza dei piroscafi Galiola e Capo Orso (carichi di munizioni) e della motonave Foscolo (carica di veicoli). Cavallero fece anche rispondere a Kesselring che lui intendeva “collaborare fraternamente ma non ricevere ordini”. Nel corso della riunione sui trasporti tenuta quel pomeriggio al Comando Supremo, Cavallero sottolineò la necessità di tenere vivo il traffico verso Tripoli; la Marina aveva fatto presente che ogni tonnellata inviata a Tripoli diminuiva di tre tonnellate il rifornimento di Tunisi, a causa dell’esiguità delle scorte, ma Cavallero aveva risposto di non accettare “formule matematiche”, ribadendo di dover guardare al “caso pratico”.
Lasciata Trapani, il Palmaiola fece rotta per Tripoli, ed a
mezzogiorno dello stesso 2 dicembre si accodò ad un altro piroscafo, il Minerva (capitano di lungo corso Carlo
Monti Bragadin), di simili dimensioni ed età, partito anch’esso da Trapani per
Tripoli un giorno prima del Palmaiola
ma fermatosi a Pantelleria fino alle sette del mattino del 2 in seguito
all’avvistamento di una cortina di bengala la sera del 1° dicembre (per altra
versione, anche il Palmaiola avrebbe
sostato a Pantelleria per sottrarsi alla ricognizione aerea avversaria, fino al
mezzogiorno del 2 dicembre, e le due navi si sarebbero unite alla partenza
dall’isola). Entrambe le navi trasportavano benzina in fusti per le truppe
italo-tedesche operanti in Libia: tra tutte e due, circa 3500 tonnellate. Non
essendovi unità di scorta disponibili per proteggerle durante la traversata,
era stato giocoforza avviarle verso la Libia isolatamente, nella speranza che
quelle due piccole navi, procedendo ognuna per conto proprio, non avrebbero
dato troppo nell’occhio e non sarebbero quindi state attaccate, od alla peggio
non sarebbero state attaccate con particolare accanimento; ma la decisione dei
due comandanti di navigare di conserva per affrontare insieme le insidie del
Canale di Sicilia vanificò questo proposito. O almeno così scriveva, negli anni
Sessanta, la storia ufficiale della Marina: non sapendo ancora – la sua
esistenza sarebbe stata rivelata soltanto negli anni Settanta – che i
decrittatori dell’organizzazione britannica “ULTRA” sapevano già della partenza
dei due piroscafi da prima ancora che essi lasciassero il porto.
Il 1° dicembre i britannici avevano infatti intercettato e decifrato delle comunicazioni italiane da cui avevano appreso che «Il Palmiola [sic] doveva salpare dalla Sicilia il 29 o il 30 novembre per Tripoli», informazione corretta l’indomani quando avevano precisato che «il Palmiola [sic] doveva partire da un porto siciliano per Tripoli il 1° dicembre».
Nella notte tra il 2
ed il 3 dicembre il Palmaiola avvistò
due imbarcazioni con a bordo 23 uomini: erano superstiti del Sacro Cuore, un piroscafo affondato in
quelle acque poche ore prima dal sommergibile britannico Umbra durante la navigazione da Tripoli a Trapani. I naufraghi
furono portati a bordo del Palmaiola
e rifocillati, ma chiesero ed ottennero di poter tornare sulle loro
imbarcazioni per raggiungere la costa tunisina, ormai vicina. Una saggia scelta,
come avrebbero mostrato gli eventi successivi.
Alle undici del mattino del 3 dicembre Palmaiola e Minerva avvistarono un ricognitore avversario, e due ore più tardi ne videro un altro. Intorno alle cinque del pomeriggio si imbatterono nelle vestigia di un'altra tragedia di quella che stava ormai diventando nota come “rotta della morte”: la torpediniera di sorta Ardente intenta in ricerche con una lancia sottobordo. L’Ardente stava infatti recuperando naufraghi del piroscafo Veloce e della torpediniera Lupo, affondati la notte precedente da un attacco combinato di aerosiluranti britannici e di navi di superficie della Forza K di Malta.
La prossima vittima
della “rotta della morte” sarebbe stato proprio il Palmaiola. Alle sette di sera di quello stesso 3 dicembre ebbero
inizio gli attacchi aerei, ed alle 21.50 il piroscafo, giunto quasi all’altezza
dell’isola di Gerba (Djerba), ad una sessantina di miglia dalla sua
destinazione, venne attaccato da aerosiluranti con il lancio di due siluri:
secondo il volume dell’USMM "La difesa del traffico con l'Africa
Settentrionale dal 1° ottobre 1942 alla caduta della Tunisia", il Palmaiola riuscì ad evitarne uno con la
manovra, mentre il secondo lo colpì a centro nave, spezzandolo in due e
facendolo affondare in fiamme nel volgere di pochi minuti nel punto 34°01' N e
11°52' E (50 miglia a sud-sud-est della boa numero 6 di Kerkennah, ad est di
Gerba e nel Golfo di Gabes). Secondo il libro “Storia della marineria elbana”
di Alfonso Preziosi, invece, il Palmaiola
fu attaccato da quattro aerosiluranti britannici della Fleet Air Arm, decollati
da Malta, e colpito non da uno ma da due siluri, sul lato di dritta,
inabissandosi a sudest di Kerkennah. Anche “Navi mercantili perdute” dell'USMM
afferma che la nave fu colpita da due siluri.
I naufraghi si arrampicarono su tre zattere rimaste a galla, ma le bombe sganciate dagli aerei incendiarono i fusti di benzina finiti in acqua, provocando numerose vittime tra i naufraghi; tra di essi un giovane nostromo riese, Cesarino Barioli. Il primo ufficiale del Palmaiola, il trentaseienne riese Giovanni Falanca, diede il suo salvagente al comandante Mazzei, che non lo aveva, e raggiunse a nuoto le zattere, aiutando a spegnere l’incendio e traendo in salvo diversi uomini; sarebbe stato per questo insignito della Medaglia di Bronzo al Valor Militare (“Primo ufficiale di piroscafo requisito, colpito con siluro ed incendiato da aerei nemici, si prodigava, incurante del pericolo, con instancabile attività nell’opera di salvataggio del personale imbarcato. Costretto ad abbandonare la nave in corso di affondamento, cedeva con slancio ed abnegazione il proprio salvagente al comandante che ne era privo e raggiunte a nuoto le zattere in preda alle fiamme, riusciva a spegnere l’incendio ed a porre in salvo su di esse numerosi naufraghi, dimostrando nella critica circostanza sereno coraggio, spirito di iniziativa ed elevato senso del dovere”). Il comandante Mazzei, gettato in mare dall’esplosione, venne respinto a galla da un gorgo.
Pochi minuti dopo l’affondamento del Palmaiola, fu la volta anche del Minerva: colpito da diversi spezzoni incendiari, che appiccarono il fuoco ai fusti di benzina sistemati in coperta, venne poi affondato da un siluro con la morte di 21 uomini, tra cui il suo comandante. Cinque naufraghi del Minerva furono recuperati da una zattera del Palmaiola, seguendo la sorte di questi naufraghi; altri ventuno raggiunsero la costa con una scialuppa.
Secondo il libro di Alfonso Preziosi, i superstiti trascorsero un giorno alla deriva sulle zattere, finché non furono sorvolati da un aereo e raggiunti non molto tempo dopo dalla nave soccorso Meta, che li trasse in salvo. Secondo il citato volume dell'USMM, invece, raggiunsero la costa da soli, a bordo delle zattere, dopo di che furono portati a Tripoli da automezzi inviati dal Comando Marina di quella città (ma lo stesso volume, in altra sezione, menziona viceversa l'invio della Meta in soccorso dei naufraghi). Un documento redatto il 19 gennaio 1943 dalla Capitaneria di Porto di Tripoli sembra convalidare la versione di Preziosi, affermando che i naufraghi del Palmaiola vennero soccorsi dalle zattere dalla Meta all'una del pomeriggio del 4 dicembre, per poi essere sbarcati a Zuara Marina alle nove di quella sera.
Sul bilancio finale sembrano esservi alcune contraddizioni nelle fonti esistenti. Secondo il già citato volume USMM, su 42 uomini che
componevano l’equipaggio del Palmaiola in venticinque morirono, mentre i superstiti furono 17; l'atto di scomparizione in mare stilato dalla Capitaneria di Porto di Tripoli, invece, inverte queste cifre, indicando in 25 i naufraghi salvati dalla Meta ed in 17 gli scomparsi. Più precisamente, questi ultimi erano dieci membri dell'equipaggio civile, tre militari della Regia Marina (tra cui il regio commissario di bordo, capitano del Genio Navale Fortunato Libardo, da Venezia) e quattro militari tedeschi.
Aveva due stive, della capacità complessiva di 4200 metri cubi.
Completato dai cantieri Collingwood Shipbuilding Company Ltd. di Collingwood (Ontario, Canada) come War Witch (numero di costruzione 52) per lo Shipping Controller di Londra (autorità governativa britannica incaricata dell’organizzazione e gestione del naviglio mercantile requisito per le esigenze belliche).
Ordinato dall’Imperial Munitions Board ai cantieri Collingwood il 21 aprile 1917 insieme al gemello War Wizard, il War Witch fa parte di un lotto di navi da carico (43 con scafo in acciaio e 46 in legno) costruite in cantieri canadesi per rimpinguare la flotta mercantile britannica, falcidiata dalle perdite belliche (specie gli affondamenti ad opera degli U-Boote: nel novembre 1916 il Board of Trade aveva fatto presente che la Marina mercantile si trovava in “deficit” di ben 400 piroscafi di 4000 tsl ciascuno, e che nel giro di pochi mesi sarebbe andata incontro al collasso totale; nella primavera del 1917 il Regno Unito rischiò seriamente una crisi alimentare a causa della scarsità di naviglio per l’approvvigionamento di grano); la loro costruzione è stata ordinata dal governo britannico nel marzo 1917, per tramite dell’Imperial Munitions Board. In base al programma stilato da tale ente, una parte dei cantieri canadesi è stata destinata alla costruzione delle navi in acciaio, l’altra a quelle in legno, sotto la supervisione rispettivamente di William Gear e Robert Butchart; sono anche stati realizzati sette nuovi cantieri ed espansi alcuni di quelli esistenti. Inizialmente si era pianificato di costruire dei modelli standardizzati di navi mercantili, come fatto nel Regno Unito al fine di ottimizzare l’efficienza e rapidità delle nuove costruzioni; risultando però impossibile convertire in tempi brevi i cantieri canadesi (l’industria cantieristica canadese è ancora relativamente poco sviluppata) alle costruzioni standardizzate, si è ripiegato su progetti adattati alle capacità di ciascun cantiere. Le dimensioni delle navi costruite nei cantieri dell’Ontario, in particolare (come il War Witch), sono condizionate dalla profondità dei canali che collegano i Grandi Laghi al mare, ragion per cui i cantieri di tale regione sono stati destinati quasi esclusivamente alla costruzione di mercantili di stazza non superiore alle 3500 tsl, mentre le navi più grandi sono state costruite nei cantieri di Vancouver e Montreal.
In gestione alla Furness, Withy & Co. Ltd. di Halifax (od Hartlepool).
Stazza lorda e netta originarie sono rispettivamente 1961 (o 2030) tsl, 1145 tsn e 3035 tpl.
1919
In servizio sulla rotta Halifax-North Sydney, con viaggi settimanali, per conto del Ministry of Shipping britannico.
7 agosto 1919
Intorno all’1.30 della notte il War Witch (capitano William P. Bennett), in navigazione da Wabana a North Sydney, sperona ed affonda a circa trenta miglia dall’isola di Saint-Pierre (a sudest di Terranova; odierna Saint-Piere e Miquelon), in posizione 45°22’ N (o 46°22’ N) e 55°35’ O (nello stretto di Caboto; per altra fonte 40°22’ N e 43°35’ O, altra fonte indica la longitudine come 65°36’ O), a causa della fitta nebbia che ristagna nella zona da diversi giorni, la nave goletta francese Gallia, partita da Saint-Pierre alle cinque del pomeriggio precedente e diretta a Bordeaux con a bordo un carico di 7,575 quintali di merluzzo verde nelle stive e venticinque uomini (altra fonte afferma invece che il veliero fosse in navigazione da Cancale a Saint-Pierre). L’equipaggio della Gallia è composto da nove uomini, al comando del capitano Jean Marie Laurent Leloup, mentre i restanti sedici sono passeggeri, tutti marittimi di altre imbarcazioni di ritorno in Francia: dodici appartengono all’equipaggio del piropeschereccio Saint-André, incagliatosi il precedente 16 luglio al largo di Saint-Pierre, tre a quello del Sainte-Marie ed uno a quello del Carioca.
Nel disastro perdono la vita diciotto uomini: sei membri dell’equipaggio del Gallia, compreso il comandante Leloup, e dodici passeggeri (otto membri dell’equipaggio del Saint-André e tutti e quattro i marittimi delle altre unità). Il War Witch comunica l’accaduto ad Halifax via radio ed incrocia per oltre un’ora nel luogo della collisione, ma non vede più il Gallia dopo l’impatto: lo sfortunato veliero è affondato in pochissimo tempo, mentre il War Witch ha subito danni lievi, con la rottura di sei piastre dello scafo (nella parte prodiera), danni a cinque ordinate e l’allentamento di parecchi rivetti.
Il piroscafo riesce a recuperare sette superstiti, tre membri dell’equipaggio (Alexandre Daoulas, Michel Lecorre e Jacques Criquet) e quattro passeggeri (tutti del Saint-André: il comandante in seconda Henri Castets, il capo meccanico Xavier Lhostis, il secondo meccanico Charles Le Nay ed il marinaio Jules Cavelier), che sbarca a North Sydney, dove giunge nel primo pomeriggio dell’8 agosto (saranno rimpatriati il mese successivo, con il transatlantico La Lorraine). Subito dopo l’arrivo in porto, il War Witch riceve la visita da J. G. L. Cooke, rappresentante della compagnia assicuratrice, e del signor Isner, rappresentante locale della Furness Withy Company. A North Sydney il War Witch viene anche sottoposto alle prime sommarie riparazioni dei danni riportati nella collisione.
Sulla collisione verrà condotta a North Sydney un’inchiesta da parte del "commissario del dominion per i naufragi" (Dominion Wreck Commissioner) capitano L. A. Demers, che il pomeriggio del 12 agosto chiuderà l’indagine e, non essendo potuto giungere a conclusioni, disporrà il ritiro dei certificati di navigazione del comandante Bennett e del secondo ufficiale Christopher Carrol del War Witch, in attesa dell’individuazione di ulteriori elementi probatori. Il comandante Bennett è rappresentato da Hugh Ross, avvocato della Corona a North Sydney; l’equipaggio del Gallia dall’avvocato N. A. McMilan, anch’esso di North Sydney, e gli armatori della goletta affondata dall’avvocato McDonald di Halifax. Quest’ultimo, nel presentare il caso del Gallia alla commissione d’inchiesta, porrà l’accento sull’eccessiva velocità tenuta dal War Witch nonostante la fitta nebbia, e sulla negligenza del capitano Bennett che non avrebbe mantenuto un adeguato servizio di vedetta (destinandovi un solo uomo), oltre a non essere stato lui stesso di guardia in plancia, lasciandovi il secondo ufficiale come capo guardia, mentre le norme vigenti prevedono, per un caso simile, che il comandante rimanga obbligatoriamente in plancia se a capo della guardia è il secondo ufficiale. Il capitano Demers respingerà l’appunto di McDonald relativo all’inadeguato servizio di vedetta, rilevando come le leggi marittime non obblighino a mettere di vedetta più di un membro dell’equipaggio, neanche in condizioni di nebbia fitta.
L’avvocato Ross, da parte sua, farà notare che la responsabilità di osservare le leggi marittime in presenza di nebbia non era maggiore per il War Witch di quanto non lo fosse per il Gallia. Contraddittorie le affermazioni dei due equipaggi sulla sirena da nebbia della Gallia: l’equipaggio del War Witch affermerà di non averla sentita fino al momento della collisione, mentre i superstiti della Gallia affermeranno di aver sentito la sirena della loro nave suonare più di una volta prima del disastro.
L’inchiesta sulla collisione verrà conclusa in settembre; il capitano Demers riterrà il War Witch responsabile dell’accaduto e disporrà la sospensione per un anno dei certificati di navigazione del capitano Bennett e del secondo ufficiale Carroll.
1921
Acquistato dall’armatore Alessandro Zappalà fu Ignazio di Roma e ribattezzato Ignazio (per altra fonte la nave sarebbe stata acquistata da Zappalà già nel 1919 o 1920, ma ribattezzata solo nel 1921).
1927
Acquistato dalla Società di Navigazione Unione Italica, con sede a Roma, e ribattezzato Dina.
1929
Acquistato dalla Società Anonima "Elba" di Miniere & Alti Forni, con sede a Genova (dal 1933 Società Anonima Ilva Alti Forni e Acciaiere d'Italia, sempre con sede a Genova), e ribattezzato Palmaiola. Nominativo di chiamata PBUR, porto di registrazione Genova.
1934
Il nominativo di chiamata viene cambiato in IBJJ.
25 settembre 1942
Requisito a Trieste dalla Regia Marina, senza essere iscritto nel ruolo del naviglio ausiliario dello Stato.
20 novembre 1942
Compie un viaggio da Navarino a Messina, scortato dalla torpediniera Sirio.
Il Palmaiola (sulla destra) ormeggiato a Cagliari insieme ad altre navi tra cui il piroscafo Comandante Bafile (sulla sinistra) ed una nave goletta (g.c. Pietro Berti, via www.naviearmatori.net) |
L'equipaggio, al comando del padrone marittimo Giuseppe Mazzei, contava trenta marittimi civili, in gran parte originari dell’Isola d’Elba, e dodici militari.
Il 25 novembre il feldmaresciallo Albert Kesselring, comandante in capo delle forze tedesche nello scacchiere mediterraneo, aveva inviato al maresciallo d’Italia Ugo Cavallero, capo di Stato Maggiore generale delle forze armate italiane, un documento relativo all’invio di rifornimenti a Tripoli, cui Cavallero rispose facendo presente la necessità di rifornire sia la Tunisia che la Tripolitania e di far assolutamente giungere rifornimenti a Tripoli anche per via diretta (era stato infatti proposto di inviare del materiale da Tunisi a Tripoli per mezzo di motozattere), ed annunciando che erano già in viaggio per Tripoli il Palmaiola ed il piroscafo Carlo Zeno, carichi di carburante, e che erano in corso i preparativi per la partenza dei piroscafi Galiola e Capo Orso (carichi di munizioni) e della motonave Foscolo (carica di veicoli). Cavallero fece anche rispondere a Kesselring che lui intendeva “collaborare fraternamente ma non ricevere ordini”. Nel corso della riunione sui trasporti tenuta quel pomeriggio al Comando Supremo, Cavallero sottolineò la necessità di tenere vivo il traffico verso Tripoli; la Marina aveva fatto presente che ogni tonnellata inviata a Tripoli diminuiva di tre tonnellate il rifornimento di Tunisi, a causa dell’esiguità delle scorte, ma Cavallero aveva risposto di non accettare “formule matematiche”, ribadendo di dover guardare al “caso pratico”.
Il 1° dicembre i britannici avevano infatti intercettato e decifrato delle comunicazioni italiane da cui avevano appreso che «Il Palmiola [sic] doveva salpare dalla Sicilia il 29 o il 30 novembre per Tripoli», informazione corretta l’indomani quando avevano precisato che «il Palmiola [sic] doveva partire da un porto siciliano per Tripoli il 1° dicembre».
Alle undici del mattino del 3 dicembre Palmaiola e Minerva avvistarono un ricognitore avversario, e due ore più tardi ne videro un altro. Intorno alle cinque del pomeriggio si imbatterono nelle vestigia di un'altra tragedia di quella che stava ormai diventando nota come “rotta della morte”: la torpediniera di sorta Ardente intenta in ricerche con una lancia sottobordo. L’Ardente stava infatti recuperando naufraghi del piroscafo Veloce e della torpediniera Lupo, affondati la notte precedente da un attacco combinato di aerosiluranti britannici e di navi di superficie della Forza K di Malta.
I naufraghi si arrampicarono su tre zattere rimaste a galla, ma le bombe sganciate dagli aerei incendiarono i fusti di benzina finiti in acqua, provocando numerose vittime tra i naufraghi; tra di essi un giovane nostromo riese, Cesarino Barioli. Il primo ufficiale del Palmaiola, il trentaseienne riese Giovanni Falanca, diede il suo salvagente al comandante Mazzei, che non lo aveva, e raggiunse a nuoto le zattere, aiutando a spegnere l’incendio e traendo in salvo diversi uomini; sarebbe stato per questo insignito della Medaglia di Bronzo al Valor Militare (“Primo ufficiale di piroscafo requisito, colpito con siluro ed incendiato da aerei nemici, si prodigava, incurante del pericolo, con instancabile attività nell’opera di salvataggio del personale imbarcato. Costretto ad abbandonare la nave in corso di affondamento, cedeva con slancio ed abnegazione il proprio salvagente al comandante che ne era privo e raggiunte a nuoto le zattere in preda alle fiamme, riusciva a spegnere l’incendio ed a porre in salvo su di esse numerosi naufraghi, dimostrando nella critica circostanza sereno coraggio, spirito di iniziativa ed elevato senso del dovere”). Il comandante Mazzei, gettato in mare dall’esplosione, venne respinto a galla da un gorgo.
Pochi minuti dopo l’affondamento del Palmaiola, fu la volta anche del Minerva: colpito da diversi spezzoni incendiari, che appiccarono il fuoco ai fusti di benzina sistemati in coperta, venne poi affondato da un siluro con la morte di 21 uomini, tra cui il suo comandante. Cinque naufraghi del Minerva furono recuperati da una zattera del Palmaiola, seguendo la sorte di questi naufraghi; altri ventuno raggiunsero la costa con una scialuppa.
Secondo il libro di Alfonso Preziosi, i superstiti trascorsero un giorno alla deriva sulle zattere, finché non furono sorvolati da un aereo e raggiunti non molto tempo dopo dalla nave soccorso Meta, che li trasse in salvo. Secondo il citato volume dell'USMM, invece, raggiunsero la costa da soli, a bordo delle zattere, dopo di che furono portati a Tripoli da automezzi inviati dal Comando Marina di quella città (ma lo stesso volume, in altra sezione, menziona viceversa l'invio della Meta in soccorso dei naufraghi). Un documento redatto il 19 gennaio 1943 dalla Capitaneria di Porto di Tripoli sembra convalidare la versione di Preziosi, affermando che i naufraghi del Palmaiola vennero soccorsi dalle zattere dalla Meta all'una del pomeriggio del 4 dicembre, per poi essere sbarcati a Zuara Marina alle nove di quella sera.
Le vittime tra l'equipaggio civile:
Tommaso Ballarin, marinaio, da Venezia
Cesare Barioli, nostromo, da Rio Marina
Dante Biondi, sguattero, da Genova
Riccardo Boscolo, fuochista, da Chioggia
Carlo Dubini, ufficiale radiotelegrafista, da Trieste
Eugenio Rossi, cuoco, da Viareggio
Giovanni Sardara, marinaio, da Palermo
Pilade Tognolli, direttore di macchina, da CamogliFrancesco Tripodo, primo ufficiale di macchina, da Genova
Giovanni Veronese, fuochista, da Vicenza
E tra i militari della Regia Marina:
Domenico Ciccarelli, sottocapo fuochista, da Melito di Napoli
Liliano Danti, marinaio, da Livorno
Fortunato Libardo, capitano del Genio Navale, da Brindisi (regio commissario)
Tra i sopravvissuti vi erano il comandante
Mazzei, il primo ufficiale Falanca, il secondo ufficiale Mario Carletti, i
fuochisti Giuseppe Mandorla, Giuseppe Ghenda, Bruno Scalabrini ed Elbano
Mazzei, il marinaio Ninetto Travison, il giovanotto Aldo Bandinelli, il secondo
cuoco Lido Carletti, il cameriere Eugenio Carletti (tutti da Rio Marina) ed il
carbonaio De Angeli da Porto Azzurro. Sei mesi più tardi il comandante Mazzei
sarebbe sopravvissuto all’affondamento di un altro piroscafo dell’Ilva, il Bolzaneto.
Atto
di scomparizione in mare di parte dell’equipaggio del Palmaiola (g.c.
Michele Strazzeri)
Giace in posizione 34°00’ N e 11°04’ E, a nordest di Gerba, a 121 km dalla costa tunisina, ad una profondità compresa tra i 36 ed i 40 metri. Rifugio di cernie, pesci balestra, ricciole, pesci serra ed altri pesci di grossa taglia, il Palmaiola è oggi meta di immersioni organizzare dai diving centers di Gerba.
Il Palmaiola su Wrecksite
Navi costruite dai cantieri Collingwood Shipbuilding
WWI Standard Ships – War T
Historical Collections of the Great Lakes – War Witch
Merchant Ships Built in Canada in World War One
Historical Collections of the Great Lakes – Palmaiola
Diario storico del Comando Supremo, Vol. VIII, Tomo I
Libro registro del RINA del 1938
Filmato del relitto del Palmaiola
Altro filmato del relitto
Ulteriore filmato
Immagini del relitto
Il relitto del Palmaiola sul sito dell’Abyss Diving di Djerba
Un’altra immagine del relitto
Altre immagini del relitto
Les épaves des cotes tunisiennes
L’affondamento del Gallia sul forum Pages 14-18
Notizia sul “Vancouver Daily World” del 7 agosto 1919
Notizia sul “Daily News” del 7 agosto 1919
8 Agustos 1919 Tarihli Omaha Daily Bee Gazetesi Sayfa 2
Notizia sull’“Indianapolis News” del 7 agosto 1919
Per completezza d'informazione nel file excel sui marinai caduti nella II guerra mondiale che le ho inviato compaiono i nomi dei tre uomini della Regia Marina scomparsi nell'affondamento del Palmaiola tra cui il T.V. Libardo da lei citato nel suo commento. Può trovarli nel foglio 'per reparto' sotto Palmaiola, o anche in quello 'per data morte' al 3.12.1942
RispondiEliminaAntonio Salce
Grazie, li aggiungo.
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